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ITALIANI

Maurizio Cattelan: «Da infermiere a creativo. E ora vendo


la mia fronte
per finanziare buone azioni»
L’artista: «Sogno uno spritz al Jamaica con Piero Manzoni. La provocazione? È un cavallo di
Troia per mettere sulla bocca di tutti argomenti che si vogliono tacere»

CHIARA MAFFIOLETTI Chiara MaffiolettiChiara Maffioletti

Il mondo non è stato creato una volta,


ma tutte le volte che è sopravvenuto
un artista originale. Marcel Proust ne
era convinto, ma ascoltando il
racconto della vita di uno degli artisti
più originali in assoluto, Maurizio
Cattelan, viene da chiedersi anche
quanto conti il destino — assieme al
talento e alla tenacia — perché chi è
in grado di creare nuovi mondi, riesca
anche poi a farli conoscere.

Intanto, come si stabilisce cosa è arte e cosa non lo è?

«È come innamorarsi. Nel momento in cui la vedi sai che la tua vita non sarà più la
stessa: è quell’idea capace di colonizzarti la mente e di cui è impossibile liberarsi.
L’esperienza di un’opera d’arte è qualcosa che ti segna per sempre, tanto quanto un
colpo di fulmine per una persona che non conosci. L’arte, come l’amore, è un
elemento che non si può replicare con l’intelligenza artificiale: più queste
sperimentazioni si affineranno, più capiremo quanto non sia possibile arrivare
all’esperienza estetica tramite la riproduzione artificiale».

Oggi, l’Accademia di Belle Arti di Carrara le conferirà il titolo di Professore


onorario. Di solito manda altri a ritirare i numerosi premi che riceve, questa
volta no. Perché?

«Sono affetto da una gravissima forma di premiofobia: non riesco a guardare in


faccia chi mi sta premiando, figuriamoci il pubblico. Ho sempre trovato più cortese,
invece di rifiutare, mandare qualcuno a ritirare i riconoscimenti per me e cercare di
imparare come si fa. Questa volta, per una buona causa, ho deciso di cimentarmi in
prima persona. Ma so già che farò una figura peggiore dei miei predecessori».

Si presenterà alla cerimonia con la fronte affittata. Con i soldi dello sponsor —
Huawei —, donerà venti borse di studio agli studenti della scuola...
«Come molte cose, è iniziato da un gioco stupido: mi succede ogni tanto di
acconsentire a andare a un evento con qualche stupidaggine scritta addosso. Ho
pensato che invece di farlo per scherzo poteva rivelarsi utile: vendendo la mia fronte
a un marchio avrei potuto fare una buona azione coi soldi ricevuti in cambio. Solo
dopo ho realizzato che, in fondo, è un cerchio che si chiude con il lavoro presentato
in Biennale nel ’93, quando vendetti lo spazio di un billboard a un marchio di
profumi. Oggi il billboard sono io. La dimostrazione vivente che l’arte può essere
stupida, ma anche utile».

Cosa significa provocare?

«Si dice che i libri che il mondo chiama immorali siano i libri che mostrano al mondo
la sua vergogna. La provocazione funziona esattamente allo stesso modo: non è
altro che un cavallo di Troia per mettere sulla bocca di tutti argomenti che si vogliono
tacere. La cosa interessante è che quello che troviamo provocatorio è totalmente
soggettivo, un po’ come quando racconti una barzelletta divertentissima ma nessuno
ride. Non puoi prevedere se gli altri la troveranno divertente, puoi solo decidere di
correre il rischio di esporti».

Da bambino avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato l’uomo che è


diventato?

«Da bambino desideravo con tutte le mie forze liberarmi dell’autorità dei miei
genitori. Sono scappato di casa e andato a lavorare per poter vivere da solo. A quel
punto il desiderio era diventato far fuori i miei datori di lavoro, e ho cominciato a fare
l’artista. Quando sono andato in pensione, è perché stava nascendo lo stesso
desiderio verso i galleristi: fare l’artista era diventato un mestiere come gli altri,
aveva perso il sapore anarchico e proibito che lo rendeva gustoso e desiderabile.
Quel desiderio è l’unico motore che abbia mai avuto».

Ci sono dei bivi che se non avesse preso avrebbero cambiato, forse, la sua
carriera?

«È stato ricorrente nella mia vita: il cambiamento equivale a una fuga in avanti, un
po’ come nel ciclismo. Prima di approdare a Milano ho fatto cinque anni di limbo.
Quello che mi ha portato a Milano è la determinazione, il volere una vita diversa da
quella che avevo vissuto fino a quel momento. Mi ero ripromesso che non avrei mai
più lavorato alle dipendenze di qualcuno, e Milano è stato dove per la prima volta ho
capito come potevo riuscirci. Era una città aperta al nuovo, e tutti erano pronti a
incoraggiare i giovani artisti. Non mi guardo indietro di solito, ma le poche volte che
l’ho fatto mi sono detto che se fossi rimasto dov’ero probabilmente a quest’ora sarei
in galera: avrei applicato la creatività alle rapine».

Oggi è l’artista italiano più quotato...

«Ma se non ci fossero i giornalisti a ripetermelo, sono sicuro che me lo sarei


dimenticato. È come se fossi famoso per essere andato a letto con una star di
Hollywood vent’anni fa: mi stupisco che faccia ancora notizia».

Le sue case sono vuote, legge moltissimo ma regala tutti i libri e anche su
Instagram pubblica un solo post al giorno che poi cancella. Non è curioso
specie per chi, fondamentalmente, produce oggetti?

«Gli oggetti sono ricordi che hanno preso una forma nella realtà. Sono lì a farti
presente in ogni momento che il tempo scorre inesorabile e che esiste un passato in
cui quegli oggetti hanno significato qualcosa. Vivere senza la pesantezza di questo
bagaglio di cose e di pensieri mi permette di guardare in avanti con leggerezza e
lucidità. E poi mi piace l’idea di essere sempre pronto a trasferirmi dall’altra parte del
mondo, senza guardarmi indietro».

Ma c’è qualche opera d’arte che vorrebbe in casa sua?

«Più che le opere avrei voluto conoscere gli artisti: passare un pomeriggio al
Jamaica (uno storico locale di Milano, ritrovo degli artisti, ndr.), chiacchierare con
Piero Manzoni davanti a uno spritz, vedere arrivare Mondino a cavallo di un
cammello... avrei voluto conoscere il lato non artistico di molti di loro, per guardare
alle opere sotto una luce meno storica e più vitale».

La luce che illumina tutte le sue opere è l’ironia. Cosa rappresenta per lei?

«Uno strumento per mettere in evidenza le contraddizioni del mondo in cui viviamo:
penso che l’ironia sia la quintessenza della reazione umana alla paura della morte,
quindi la sua natura è decisamente tragica».

A un certo punto della sua carriera, l’arte la stava «soffocando», tanto da non
riuscire più a dormire la notte.

«Aveva perso l’aspetto anarchico, quella natura imprevedibile di cui mi nutrivo


quando ho iniziato a fare l’artista. Mi sentivo costretto in una morsa di risposte da
dare e decisioni da prendere su questioni che non mi sembravano rilevanti. E
perdere tempo a fare qualcosa che non ci dà soddisfazione è un lusso che nessuno
dovrebbe concedersi».

Per citare un suo lavoro, lavorare è un brutto mestiere?

«Sì, finché fai un mestiere che non ti piace, o un lavoro che nessun altro vuole fare».

Prima di diventare un artista, è stato un infermiere...

«Per fare quel lavoro devi avere la vocazione, come per fare il prete: il tuo contributo
non è solo in quello che fai, ma in quello che dai come apporto umano. È una sfida
continua con te stesso, perché devi mettere da parte i tuoi problemi, e al tempo
stesso non farti influenzare la giornata da quelli degli altri. Dopo un po’ mi avevano
spostato in terapia intensiva. Lì ovviamente nessuno parla, non c’è uno scambio
emotivo, è pieno di strumenti che fanno migliaia di rumori elettronici, è come vivere
nel regno delle macchine. Poi, dal mondo dei vivi che stanno morendo, ero stato
trasferito al piano di sotto, ai morti. In entrambi i casi, ho imparato che se lavori con i
vivi non puoi indulgere a malumori: è probabilmente per questo che per me la vita è
molto più seria della morte».
Dice di essere interessato al dibattito che le sue opere suscitano nel pubblico.
Perché? È importante essere «capito»?

«Il contesto di un’opera fa parte del suo significato, così come lo è il punto di vista
dello spettatore. L’arte è un territorio che tutti sono in grado di esplorare, perché non
è coinvolto nessun alfabeto, ma allo stesso tempo nessuno avrà le stesse
sensazioni o esperienze del suo compagno di viaggio. È il regno dell’interpretazione
soggettiva. Quando penso a un’opera non penso alla reazione del pubblico. Come
un genitore con un figlio, evito di proiettare le mie aspettative sull’opera: ogni artista
deve accettare che una volta cresciuta e diventata indipendente non si può
controllare se l’opera frequenterà le giuste compagnie. Qualcuno una volta ha detto
che le nostre teste sono tonde in modo che i nostri pensieri possano volare in
qualsiasi direzione: non esiste un modo specifico di interpretare un’opera, la sua
forma è rotonda come le nostre teste. Le persone possono trovare un percorso
personale, ogni modo è percorribile».

Spesso, dell’arte contemporanea c’è chi dice: questo lo saprei fare anche io...

«Credo che il dovere dell’arte sia di fare domande, non fornire risposte. Se davanti a
un’opera vuoi una risposta chiara e univoca, sei nel posto sbagliato. Se sei capace
di creare domande attraverso un’opera, puoi considerarti un artista: è un compito
rischioso, puoi scoprire cose su di te e sugli altri che avresti preferito non sapere. Se
fosse facile le opere potrebbero essere progettate da macchine».

Come si descriverebbe?

«In un modo così terribile che non si può dire ad alta voce. Se fossi capace di manie
di grandezza mi definirei il più grande statista dopo Giulio Cesare. Ma purtroppo o
per fortuna l’autostima non è il mio forte».

Cosa le piace nelle persone?

«La franchezza».

Quali sono le sue paure più grandi?

«Tornare da dove sono venuto. Mai guardare indietro a meno che tu non voglia
andare in quella direzione. Io mi guardo bene dal farlo».

22 aprile 2018 (modifica il 22 aprile 2018 | 22:02)


© RIPRODUZIONE RISERVATA

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