Vous êtes sur la page 1sur 14

I LIVELLI DI COSCIENZA E LO YOGA DEL SOGNO

S.S. il XIV° Dalai Lama

Un dibattito fra il Dalai Lama e alcuni autorevoli rappresentanti della


scienza occidentale

Riprendemmo i nostri posti alle due in punto, e il Dalai Lama attaccò


subito con brio: «Molti di voi hanno già ricevuto insegnamenti sullo yoga
del sogno, ma è probabile che qualcuno di voi non ne abbia mai sentito
parlare».

Il concetto del sé

«Vorrei cominciare con una disamina del concetto del sé. Come molti di
voi sanno, il fondamento dell'intera dottrina buddhista prende il nome di
"Quattro Nobili Verità". Che senso ha riconoscere queste Quattro Nobili
Verità? Che senso ha discuterne? In realtà tutto ciò riguarda le nostre
aspirazioni fondamentali, che ruotano attorno alla felicità e alla soffe-
renza, ed è collegato a specifiche relazioni causali. Come sorge la
sofferenza? Come si produce la felicità? Il tema centrale delle Quattro
Nobili Verità è la questione della causalità della felicità e della sofferenza.
«È una spiegazione che si concentra specificamente sulla causalità
naturale, invece di fare appello a una sorta di creatore esterno, o di
materia essenziale, che controlla gli eventi della vita. Le Quattro Nobili
Verità vengono spesso espresse nella forma di quattro affermazioni:
riconoscere la nobile verità della sofferenza; abbandonare la nobile verità
dell'origine della sofferenza; realizzare la nobile verità della cessazione
della sofferenza e coltivare la nobile verità del sentiero. Chiunque cerchi la
felicità e desideri evitare la sofferenza deve portare a termine tutto ciò.
«In questo contesto, il concetto del sé assume un ruolo cruciale. Siamo
noi che sperimentiamo la sofferenza, e siamo ancora noi che dobbiamo
applicare i metodi per eliminare la sofferenza. Anche la causa di tutto ciò
è in noi. Quando il buddhismo fece la sua prima comparsa nell'antica
India, una delle distinzioni fondamentali tra la visione buddhista e le
visioni non buddhiste riguardava proprio il sé. Specificamente, il
buddhismo rifiuta l'esistenza di un sé permanente e immutabile. Perché?
Perché l'idea stessa di un sé assoluto, nel momento in cui viene applicata
al sé in quanto agente attivo e passivo, come agente e come testimone,
risulta assai problematica. C'è stata una notevole elaborazione e un
grande dibattito sulla natura del sé.
«Secondo i trattati non buddhisti, il sé esiste in modo assolutamente
separato e autonomo dagli aggregati, i costituenti psicofisici, del corpo e
della mente. In generale, tutte e quattro le scuole filosofiche buddhiste si
ritrovano d'accordo nel negare l'esistenza di un sé dotato di una natura
separata rispetto agli aggregati. Tuttavia, rispetto alla modalità di
esistenza del sé in rapporto agli stessi aggregati abbiamo visioni di-
vergenti. Per esempio, una di queste scuole buddhiste sostiene che il sé è
l'insieme dei cinque costituenti psicofisici (scr. skandha). Un'altra scuola
identifica il sé con la mente. E troviamo diverse visioni persino nell'ambito
di quest'ultimo approccio. Come ho detto ieri, c'è una scuola che asserisce
che la coscienza mentale sia il sé. Se poi passiamo alla scuola Yogàcàra, il
sé viene identificato nella coscienza basilare (scr. àlayavijnàna).
«Passiamo ora alla scuola Pràsangika Màdhyamaka. Secondo questa
scuola il sé sperimenta tutti e cinque gli aggregati. Giacché gli aggregati
vengono sperimentati dal sé, diventa complicato sostenere che lo stesso
sé possa essere ritrovato tra gli aggregati. Se finiamo per scoprire che
l'oggetto sperimentato e chi lo sperimenta sono esattamente la stessa
cosa, siamo nei guai. È proprio per questo motivo che il sé non viene
identificato come qualcosa che dimora negli aggregati. Ma d'altronde,
quando proviamo a ipotizzare un sé che esiste in modo indipendente dagli
aggregati, non riusciamo a trovarlo da nessuna parte. E quindi dobbiamo
parimenti rifiutarlo. La conclusione della scuola Màdhyamaka è che il sé
viene designato sulla base dei cinque aggregati. Di conseguenza viene
descritto come un puro e semplice nome, una mera imputazione.
«Nàgàrjuna, il fondatore della scuola Pràsangika Màdhyamaka, dice
nella Preziosa Ghirlanda (scr. Ratnàvali) che la persona non è nessuno dei
sei elementi che costituiscono la persona: non è l'elemento terra, né
l'elemento acqua, e via dicendo. Non è neppure l'insieme degli elementi.
D'altra parte non c'è nessuna persona che possa manifestarsi indi-
pendentemente da questi elementi. Proprio come la persona non è né uno
qualsiasi dei singoli elementi, né l'insieme di questi elementi,
analogamente ognuno degli elementi che costituiscono la persona può
essere soggetto alla stessa analisi. Anche i costituenti esistono in
definitiva solo come mere imputazioni, o designazioni. Giacché la persona
non esiste nella forma di un'entità auto-esistente che possiede una pro-
pria natura e identità, l'unica alternativa possibile è accettare che la
persona esista solo nominalmente, ovvero grazie alla sola designazione».

Il sé e l'azione

«Per quale motivo il buddhismo si dedica così intensamente all'analisi


della vera natura del sé? Innanzitutto l'analisi riguarda sia il sé che agisce
sia il sé che sperimenta. Ecco perché è molto importante. Ora prendiamo
in considerazione il flusso delle nostre esperienze: sensazioni di tristezza,
gioia eccetera sorgono in seguito a determinate esperienze. E a quel
punto la nostra coscienza sperimenta particolari desideri. In base a quei
desideri può sorgere l'intenzione di agire, e assieme alla motivazione ad
agire si forma il senso del sé, "io". Assieme al senso dell'io sorge un
ancora più intenso attaccamento allo stesso io, e ciò può generare un
certo ordine di afflizioni mentali, come la rabbia e l'attaccamento. Se il
senso dell'io è molto forte, anche l'attaccamento o la rabbia che ne
derivano saranno molto forti.
«A questo punto potremmo chiederci: gli stati mentali derivanti
dall'attaccamento all'io saranno sempre le cosiddette "afflizioni mentali"?
Sarà sempre qualcosa sul genere della rabbia e dell'attaccamento, o potrà
anche avere una connotazione positiva? È una domanda che merita un
esame attento. E nell'ambito di questo esame, la questione del sé assume
un ruolo fondamentale. Diventa imperativo investigare attentamente la
natura di quello stesso sé che viene coinvolto nei diversi processi mentali.
Ma ricordiamoci che, secondo la prospettiva buddhista, i processi mentali
sono spiegati in termini di causalità, senza ipotizzare l'esistenza di un sé
esterno alla catena causale, che agisce o sperimenta in modo indipenden-
te. È un punto fondamentale, perché la nostra preoccupazione principale è
la ricerca della felicità e la liberazione dalla sofferenza, ed è proprio il sé
che vive questa preoccupazione. Analogamente, se ci riferiamo alla nostra
esperienza, gran parte delle nostre azioni scaturisce dalle nostre
motivazioni, e tutte le nostre motivazioni in definitiva si basano sul senso
del sé.
«Un'azione vera e propria dipende strettamente dalla sua motivazione.
Talvolta ci sono azioni che vengono effettuate spontaneamente, senza
essere originate da una motivazione; tuttavia gran parte di queste azioni
è neutra da un punto di vista etico, e non può causare né piacere né
dolore. Non c'è un criterio assoluto per distinguere le azioni positive da
quelle negative. Ma la natura umana cerca la felicità, e quindi
consideriamo la felicità un fattore positivo. Di conseguenza, tutte quelle
azioni e motivazioni che creano felicità sono considerate positive, mentre
quelle che in definitiva creano dolore vengono considerate negative.
«Ora potremmo chiederci: il senso del sé è qualcosa di negativo? La
prima risposta è che non fa differenza se vogliamo o meno avere il senso
del sé: è una qualità innata. Il senso del sé può condurre alla sofferenza,
oppure alla felicità. Ma ci sono anche modi diversi d'intendere il sé. Per
esempio, c'è un senso del sé che ci spinge ad afferrarci al sé come se
fosse qualcosa di vero, qualcosa che esiste intrinsecamente. In base a un
altro senso del sé potremmo invece non ritenere che il sé esista di per se
stesso.
«Sono convinto che un "io" sentito in modo molto intenso finisca per
crearci qualche problema. Tuttavia, questa stessa sensazione talvolta è
molto utile, anzi, è assolutamente necessaria. Per esempio, sentire il
proprio "io", e ciò che definiamo "mio", con intensità, crea problemi
qualora tracciamo una demarcazione tra l'attaccamento per gli amici e
l'odio per i nemici. D'altro canto, la stessa forte sensazione dell'io può
anche originare la forza di volontà per raggiungere i propri scopi, o per
cambiare nonostante gli ostacoli. Ed è molto importante! Sviluppare le
proprie qualità mentali non è un compito facile, e per qualsiasi compito
difficile dobbiamo applicarci con forza e determinazione. Solo una forte
volontà può sostenere uno sforzo instancabile. Quindi, per potere svi-
luppare fiducia in se stessi e una volontà ferrea abbiamo proprio bisogno
di un forte senso dell'io.
«Qual è, nell'ambito della stessa intensa percezione di se stessi,
l'elemento che ci crea problemi? Che cosa, con esattezza, può essere
definito dannoso? Dobbiamo indagare con grande cura. Con l'analisi
giungiamo a una triplice catego-rizzazione dei diversi modi di percepire il
sé: (1) percepire il sé come realmente esistente; (2) percepire il sé come
privo di vera esistenza; (3) percepire il sé senza fare alcuna distinzione in
merito alla sua esistenza. È molto importante riconoscere l'esatto
significato della formulazione "percepire il sé come realmente esistente".
Qui per "veramente esistente" intendiamo esistente per sua stessa
natura».

La motivazione all'azione è un fattore mentale

«La motivazione ricopre un ruolo critico rispetto all'aspirazione


fondamentale a sperimentare la felicità e a evitare la sofferenza. Che cosa
la determina? Il corpo può essere un fattore secondario, però l'influenza
principale, ciò che determina la forma della motivazione, è di carattere
mentale.
«Per dirla altrimenti, la motivazione è la chiave, ciò che determina la
natura della nostra esperienza, e sono essenzialmente il nostro
atteggiamento, il nostro modo di vedere le cose a forgiarla. Sono di
natura mentale anche le forze negative, o afflizioni mentali, che stiamo
cercando di purificare. Analogamente, lo strumento che utilizziamo per
eliminare, o almeno ridurre, tali afflizioni, è anch'esso mentale. Per ri-
muovere determinati fattori mentali se ne usano altri. Ecco perché la
disamina della natura della mente e dei fattori mentali è così importante.
«Quando parliamo dell'eliminazione definitiva e completa di ogni difetto
mentale, ci riferiamo alla realizzazione suprema: la liberazione o
illuminazione. Potrebbe essere un risultato molto lontano dalla nostra
portata. Tuttavia, per tornare alla nostra esperienza, possiamo usare la
nostra stessa mente per ridurre i fattori mentali negativi. È qualcosa che
possiamo constatare di persona. Per fare un esempio, tutti noi nasciamo
nell'ignoranza, che è un processo mentale. Per attenuare l'ignoranza,
cominciamo a studiare e ad acquisire nuove esperienze, e così,
gradualmente, l'ignoranza si attenua.
«Per potere trasformare la mente dobbiamo necessariamente avere una
comprensione limpida della natura della mente stessa. Per esempio, la
scuola buddhista Vaibhàsika sostiene che la percezione è nuda, vale a
dire che non c'è nulla che media tra la percezione e l'oggetto percepito.
La percezione non è mediata. La scuola Sautràntika e le due scuole bud-
dhiste del Mahàyàna affermano che c'è una sorta d'immagine (scr. dkàra;
tib. rnam pa) che media tra la percezione e il suo oggetto. È qualcosa di
simile all'idea dei dati sensoriali che mediano tra la percezione e l'oggetto
percepito».
A quel punto Charles Taylor intervenne per chiarire una questione etica
sollevata dal Dalai Lama con l'affermazione che un forte senso dell'io è
all'origine di afflizioni mentali. «È possibile trovare una situazione in cui il
senso dell'io sia realmente positivo? Che cosa distingue un senso dell'io
positivo da un senso dell'io negativo?»
Il Dalai Lama rispose: «Per chiunque abbia intenzione di sconfiggere la
sofferenza essere in grado di compiere questa distinzione è assai
importante, perché si tratta di un fattore cruciale, determinante in ogni
nostra esperienza. Vorrei ribadire quanto già detto in precedenza: non
esiste un criterio assoluto per distinguere un senso del sé positivo da un
senso del sé negativo. Piuttosto, è nell'esperienza di tutti i giorni che
possiamo notare che quando si manifesta un certo senso del sé, assieme
ad altri fattori mentali e a certe motivazioni, ciò finisce per farci soffrire.
Vista la natura del risultato, possiamo concludere, retrospettivamente,
che quel senso del sé non era positivo. Non si tratta quindi di una qualità
assoluta, insita nel senso del sé, ma di un fattore dipendente, qualcosa
che può essere giudicato in relazione ai risultati prodotti.
«Vorrei che dimenticassimo per qualche istante la questione della
distinzione tra il senso del sé positivo e quello negativo, e ci occupassimo
invece di un altro fattore, strettamente inerente al precedente, ovvero se
il senso del sé sia o non sia in accordo con la realtà. In linea di massima,
la mente per essere positiva deve essere in armonia con la realtà. Inoltre,
se intendiamo portare la mente positiva all'illuminazione, o almeno farla
progredire il più possibile, che sia in accordo con la realtà è un fattore
irrinunciabile. Quindi, per prima cosa, passiamo ad analizzare le tre
percezioni del sé menzionate in precedenza, per determinare quali di esse
siano in accordo con la realtà.
«Proviamo a esaminare la prima, il senso del sé che percepisce il sé
come intrinsecamente esistente. Come possiamo determinare se questa
concezione rispecchi la realtà delle cose? Possiamo scoprirlo chiedendoci
se un sé così concepito esista davvero. È molto semplice: se c'è un "io"
che può essere il referente di quell'io percepito come realmente esistente,
allora si tratta di una percezione dell'io in accordo con la realtà. Ma se per
quella percezione dell'io non si trova alcun referente, l'io così concepito in
realtà non esiste affatto, e quella percezione non può essere considerata
valida. È così che il buddhismo affronta la questione della vacuità».
Charles voleva una definizione precisa: «Quindi nel buddhismo l'io non
esiste di per se stesso?»
Il Dalai Lama specificò: «Ciò non vale per tutti i buddhisti, ovvero per
tutte le scuole buddhiste. Il termine "assenza del sé", o "assenza
d'identità", viene universalmente accettato in tutte le tradizioni, tuttavia il
significato varia da scuola a scuola».
«Credevo che i due predicati "realmente esistente" e "esistente
attraverso l'imputazione" fossero incompatibili. Non è così?» proseguì
Charles. «In precedenza è stato detto che la dottrina di un sé che esiste
solo sulla base dell'imputazione è comune a tutte le scuole del
buddhismo».
Il Dalai Lama spiegò: «Ci sono quattro scuole principali nella filosofia
buddhista, e tra queste noi reputiamo che la Pràsahgika Màdhyamaka sia
la più profonda. C'è una scuola di pensiero che sostiene che il sé,
fondamentalmente, può essere identificato con la coscienza, mentre
secondo la Pràsahgika il sé è qualcosa che viene imputato sulla base
dell'insieme degli aggregati, ovvero la mente e il corpo. La scuola
Svàtantrika Màdhyamaka e tutte le scuole buddhiste inferiori propongono
che i fenomeni esistano come mere imputazioni, e non di per se stessi. E
una forma di nichilismo».
«E "nichilismo" è un termine peggiorativo?»
«Sì. Inoltre, secondo il punto di vista della Pràsahgika, tutte queste
altre scuole si attengono erroneamente a diverse forme di essenzialismo,
o sostanzialismo».
«Allora lei sostiene che il sé non esiste realmente?».
«Se in effetti il sé non esiste veramente, concepirlo come qualcosa di
non esistente corrisponde alla realtà».
Charles chiese: «Quindi anche la terza possibilità, non distinguere una
concezione dall'altra, deve essere un errore, non è vero?»
«Quando qualcuno pensa casualmente, senza avere alcun senso dell'io,
"Forse andrò laggiù", oppure: "Adesso mi prendo un tè", o ancora: "Mi
sento proprio così", in tutti questi casi nel complesso non si può
distinguere tra un sé intrinsecamente esistente o non intrinsecamente
esistente. Tuttavia, non appena il sé viene percepito in modo più intenso,
per esempio nel caso sorga un pensiero del tipo: "Oh, finirò per
rimetterci!", oppure: "Devo fare qualcosa", ecco che spesso il senso del sé
si consolida, e si genera un forte attaccamento alla propria identità, che
viene percepita come realmente esistente».
Il Dalai Lama continuò: «Poniamo il caso di una persona che ha
indagato sulla modalità d'esistenza del sé e, grazie a questa
investigazione, è giunta a una qualche comprensione della mancanza di
esistenza intrinseca del sé. Quando quella stessa persona si trova in una
condizione in cui il sé viene percepito in modo più intenso, non tende
contemporaneamente a percepirlo come realmente esistente. Al
contrario, lo apprende senza distinguere la sua modalità d'esistenza. Un
soggetto del genere potrebbe benissimo riconoscere che, nonostante il sé
appaia come realmente esistente, le cose non stanno affatto così. In
quella situazione il sé viene percepito come un'illusione. Appare in un
certo modo, ma è possibile riconoscere che non esiste nello stesso modo
in cui viene percepito. E quindi è paragonabile a un'illusione».
Quello scambio di battute, con la sua intensità, dimostrò in modo vivido
come nella tradizione buddhista le teorie della mente e la condotta etica
non rappresentino due soggetti distinti. A quel punto il Dalai Lama si
accingeva ad affrontare il tema della coscienza.

Livelli di coscienza

«Tornando al corpo e alla mente, i cinque aggregati psicofisici


includono l'aggregato della coscienza. Quando la descriviamo in questi
termini, sembra proprio che la coscienza, ovvero la mente, esista in modo
autonomo, indipendente. Si tratta di una falsa idea, perché la coscienza
presenta diversi livelli di profondità. Per esempio, il livello di energia e di
mente più grossolano dipende dagli aggregati fisici grossolani. Finché il
cervello funziona, c'è una coscienza grossolana, ma non appena subentra
la morte cerebrale, non c'è più coscienza, perlomeno a livello grossolano.
In assenza di un cervello che funziona adeguatamente, la coscienza
grossolana non può manifestarsi. Fin qui, la visione buddhista si accorda
con quella delle neuroscienze.
«Ma c'è un punto in cui le due tradizioni divergono: il buddhismo
asserisce infatti che a livello del cuore c'è un centro di energia vitale, in
cui risiede l'energia-mente estremamente sottile. In alcuni commentari
tibetani viene detto che il centro di energia vitale del cuore in realtà è
situato nell'organo fisico del cuore. Credo proprio che non sia vero, ma
non saprei dire dove sia situato realmente!» Ridacchiò di gusto.
«Tuttavia, quando i meditatori si concentrano con intensità a livello del
cuore, vivono esperienze molto forti, e quindi dev'esserci una
connessione. In ogni caso nessuno può dire con esattezza dove sia
situato il centro del cuore. Inoltre, gli scritti buddhisti che trattano di
meditazione, filosofia e simili lo descrivono in diversi modi. La stessa
letteratura medica tibetana introduce una particolare teoria sui canali
sottili, i centri psichici e altri argomenti collegati. E persino tra le diverse
tradizioni tantriche troviamo alcune varianti e discrepanze».

Le diverse connessioni causali

«Che la coscienza dipenda dal funzionamento del cervello è


assolutamente chiaro, e quindi tra le funzioni del cervello e la
manifestazione della coscienza grossolana c'è una relazione causale. Ma
c'è una domanda che continua a stuzzicarmi: di che genere di
connessione causale si tratta? Nel buddhismo descriviamo due diverse
forme di causa. La prima è detta "causa sostanziale", ed è caratterizzata
dal fatto che la materia della causa si trasforma nella materia dell'effetto.
La seconda è detta "condizione cooperante"; in essa c'è qualcosa che si
verifica in seguito a un evento precedente, senza che sia l'evento
precedente a tramutarsi nell'evento successivo.
«Affinché tra due fenomeni, che pouemmo chiamare A e B, venga
identificata una relazione causale, sono necessarie tre condizioni.
Innanzitutto è proprio perché esiste A che si verifica B. Non è possibile che
qualcosa di non-esistente possa generare qualcos'altro. Quindi, se B è
causato da A, è sottinteso che A deve esistere. Il secondo criterio
contraddice l'idea di una causa permanente e immutabile. Dice: se A è la
causa di B, A stesso dev'essere soggetto a cambiamento, dev'essere
impermanente. È così che A origina B, che a sua volta è impermanente. In
breve, in base al secondo criterio la causa deve avere una natura
impermanente, non può essere qualcosa d'immutabile e di permanente.
Oltre a ciò, la causa deve a sua volta essere l'effetto di qualcos'altro. Non
può esserci una causa prima, priva di una causa precedente. In base al
terzo criterio una relazione causale tra A e B dev'essere caratterizzata da
una certa compatibilità tra la causa e l'effetto.
«Ora, applichiamo tutto ciò all'origine causale della coscienza e alla sua
relazione con le funzioni cerebrali. Che tipo di causalità abbiamo? In base
alla nostra esperienza, possiamo percepire due specie di fenomeni, che
sembrano qualitativamente distinti: i fenomeni fisici e quelli mentali. I
fenomeni fisici sembrano occupare un certo spazio, e possono essere
misurati, oltre a possedere certe altre qualità. I fenomeni mentali, al
contrario, non si manifestano con evidenza nello spazio, e non sono
neppure suscettibili di una misurazione quantitativa, giacché la loro
natura è quella della pura e semplice esperienza. Apparentemente ci
troviamo di fronte a due categorie di fenomeni ben diverse. Quindi, se un
fenomeno fisico dovesse rappresentare la causa sostanziale di un
fenomeno mentale, si potrebbe obiettare che tra i due c'è una certa
mancanza di armonia. Come potrebbe uno trasformarsi nell'altro, se la
loro natura mostra una differenza qualitativa? Dobbiamo trovare una
risposta, ma ne riparleremo in seguito».

La coscienza basilare

«Torniamo ancora una volta alla questione della "coscienza basilare" o


"fondamentale". Fondamento (tib. kun gzhi) è un termine che ricorre
spesso nella letteratura del buddhismo tantrico. Talvolta si riferisce alla
vacuità, che è un oggetto mentale; in altri casi si riferisce invece alla
consapevolezza soggettiva, vale a dire alla "chiara luce". In quest'ultimo
caso, la chiara luce viene definita "fondamento", oppure, letteralmente,
"fondamento di ogni cosa", perché sta alla base sia del ciclo dell'esistenza
sia della liberazione, è all'origine del samsàra e del nirvana. Tuttavia, a
differenza della dottrina Yogàcàra sulla coscienza basilare, il Vajrayàna
sostiene che non si tratta necessariamente di qualcosa di eticamente neu-
tro; vale a dire che la chiara luce non deve essere qualcosa dotato di un
carattere positivo o negativo. Perché? Perché è grazie alla pratica
spirituale che la stessa chiara luce viene trasformata nella mente
dell'illuminazione.
«Nella letteratura Dzogchen, la scuola della "Grande Perfezione",
troviamo ancora un uso differente del termine "fondamento di ogni cosa",
che può avere due diversi significati. Può riferirsi alla radice delle
propensioni latenti, oppure alla realtà primordiale. Tuttavia, non sono del
tutto certo dell'uso di questo termine nella seconda accezione. Nel primo
caso si riferisce a uno stato mentale particolare. Secondo la tradizione
buddhista tibetana Nyingma, la mente può essere di due diverse specie:
la coscienza basilare, che è la radice di tutte le propensioni latenti, e la
pura consapevolezza (tib. rigpa). Da un punto di vista empirico, la
coscienza basilare precede l'esperienza della pura consapevolezza. Ciò
che accomuna questi due stati di consapevolezza è l'apparire dei
fenomeni, ma, a differenza degli stati mentali ordinari, non c'è una
partecipazione o un coinvolgimento in quelle apparenze. In ogni caso la
coscienza basilare differisce dalla pura consapevolezza per il fatto che
questa include un certo livello di contaminazione.
«La pura consapevolezza e la coscienza basilare hanno una
caratteristica in comune: non vengono coinvolte dalle apparenze
fenomeniche. Ma riconoscere la differenza tra le due è di estrema
importanza. Altrimenti si potrebbe fraintendere la natura della pratica
Dzogchen, pensando che tutto ciò che si deve fare è sedere passivamente
senza reagire a qualsiasi cosa si manifesti alla coscienza. È errato pensare
che lo Dzogchen, ovvero l'esperienza della pura consapevolezza, consista
semplicemente nell'indugiare sul presente, senza lasciarsi coinvolgere
dagli oggetti. Per chiarire questo fraintendimento ci serviamo di una
distinzione: nella consapevolezza passiva della coscienza basilare c'è
ancora un fattore di oscuramento, una contaminazione mentale.
Viceversa, quando si manifesta la pura consapevolezza, l'esperienza è
estremamente vivida, luminosa e liberante. Quindi la qualità della
consapevolezza nei due diversi stati è radicalmente distinta, anche se,
non avendo mai sperimentato la pura consapevolezza, potremmo facil-
mente confonderli.
«Il meditante che si addestra in questa pratica sperimenta questi stati
in successione. Mentre siede passivamente, senza partecipare all'oggetto,
per prima cosa sperimenta la manifestazione della coscienza basilare. In
seguito sorge la pura consapevolezza, che qualitativamente è assai
diversa. Una volta raggiunta una discreta abilità nell'esperienza della pura
consapevolezza, non è più necessario che sperimenti per prima cosa la
coscienza basilare, con la sua componente illusoria, prima di potere
passare alla pura consapevolezza. Più probabilmente, potrà immergersi
direttamente in uno stato di pura consapevolezza assolutamente priva di
contaminazioni. Si tratta di un punto molto importante.
«Ci sono tre diversi generi di pura consapevolezza. La "pura
consapevolezza basilare" (tib. gzhi'i rigpa) svolge il ruolo di fondamento
del. samsàra e del nirvana, ed è identica alla chiara luce sottile. E la pura
consapevolezza che viene sperimentata al momento della morte, ma non
in condizioni normali, nella veglia. E da questa consapevolezza che sorge
la coscienza basilare. In seguito, grazie alla pratica meditativa, dopo
avere sperimentato la coscienza basilare, si può passare all'esperienza del
secondo tipo di pura consapevolezza, denominata "consapevolezza
fulgida" (tib. risai gyi rig pa). Il terzo tipo di pura consapevolezza prende
il nome di "pura consapevolezza naturale" (tib. rang bzhin gyi rig pa). Da
dove sorge la pura consapevolezza? In seguito alla pratica meditativa è
possibile ottenere un'esperienza diretta della chiara luce sottile, e quella
stessa chiara luce sottile, così sperimentata, viene indicata anche come
chiara luce naturale, distinta dalla chiara luce basilare. La chiara luce
basilare può essere sperimentata solo al momento della morte».

La successione dei livelli

«Infine, esaminiamo una questione ancora irrisolta, ovvero l'origine della


coscienza stessa. Qual è la causa sostanziale del primo momento di
consapevolezza successivo al concepimento di un feto umano? Nel
buddhismo, il Sùtrayàna e il Vajrayàna presentano due concezioni
diverse. Il Sùtrayàna normalmente sostiene che debba esserci un
continuum della coscienza, ovvero una coscienza precedente che genera
una coscienza successiva. Affinché la causa possa trasformarsi in effetto i
due fattori devono essere armonici, e quindi è necessario che sia il
momento precedente del continuum della coscienza a generare il primo
momento di coscienza successivo al concepimento. Nel contesto dei sutra
si tratta di un tema filosofico comune. Oltre al momento di coscienza
precedente, che funge da causa sostanziale per il momento successivo,
anche le propensioni latenti possono dare vita alla coscienza. Quindi per
l'origine della coscienza vengono ipotizzate due diverse cause sostanziali.
«Nell'ambito del Vajrayàna troviamo un'interpretazione più precisa
basata sul concetto di "mente estremamente sottile", o "coscienza
primordiale", o ancora "chiara luce primordiale". Si ritiene che si tratti
della causa sostanziale di ogni forma di coscienza. Il continuum
dell'energia estremamente sottile è il fondamento di tutto il samsàra e di
tutto il nirvana, la stessa caratteristica che la scuola Yogàcàra attribuisce
invece alla coscienza basilare. Si tratta di un punto in comune tra le due
scuole, tuttavia occorre specificare che molte delle qualità che la scuola
Yogàcàra attribuisce alla coscienza basilare non sono parimenti
riconosciute alla mente estremamente sottile nel Vajrayàna. Il continuum
della mente estremamente sottile non corrisponde alla coscienza basilare,
come invece sostiene la scuola Yogàcàra, neppure in senso
convenzionale. Tuttavia, giacché il continuum della mente estremamente
sottile, così come concepito nel Vajrayàna, funge da base per tutto il
samsàra e il nirvana, possiamo definirlo "fondamento di ogni cosa".
«Perché la scuola Yogàcàra ipotizza l'esistenza della coscienza
fondamentale? Il fondamento logico è la ricerca di qualcosa che
rappresenti il sé. Dovevano assolutamente giungere a quella conclusione
per esigenze di argomentazione logica. Il Vajrayàna ha un'idea
assolutamente diversa della mente estremamente sottile. Il Vajrayàna
non crede nell'esistenza della mente estremamente sottile solo perché è
alla ricerca di qualcosa che possa rappresentare un sé autentico,
esistente in modo autonomo».
Cercando di collegare quella spiegazione al concetto di continuum della
coscienza, chiesi se il continuum stesso potesse essere identificato con la
coscienza basilare. Sua Santità confermò che nell'ambito dello Dzogchen
la chiara luce sottile, che è onnipresente e viene chiamata anche "pura
consapevolezza naturale", o Dharmakàya, corrisponde in effetti al
continuum della coscienza.

I fattori mentali e il sonno

Il Dalai Lama continuò: «Il buddhismo analizza la natura della mente in


modo assai preciso ed elaborato. Per esempio, troviamo distinzioni tra la
mente che apprende il proprio oggetto e la mente che non apprende il
proprio oggetto. Vengono inoltre distinti i casi di cognizione valida e
cognizione non valida; ovvero, la cognizione che percepisce corretta-
mente il proprio oggetto e la cognizione che non fa altrettanto. Ci sono
poi ulteriori differenziazioni tra la mente e le funzioni mentali, e tra la
consapevolezza concettuale e la consapevolezza non-concettuale.
«La mente è classificata in ogni modo possibile. Occorre tenere presente
che il motivo per cui si è giunti a questa serie di teorie elaborate non è
semplicemente la necessità di comprendere con precisione la natura della
mente. Si tratta piuttosto di una conseguenza della meta assoluta del
buddhismo: eliminare i fattori mentali negativi e coltivare invece i fattori
che generano felicità. Tutte le teorie buddhiste sulla mente si propongono
di favorire questo risultato. Nel testo Compendio sulla conoscenza (scr.
Abhidharmasamuccaya), Arya Asariga traccia una distinzione tra la mente
e i fattori mentali, giungendo così alla classificazione di cinquantuno
fattori mentali. Tra questi cinquantuno fattori mentali troviamo quattro
fattori variabili, e uno di questi è il sonno 1. Una delle caratteristiche
comuni dei quattro fattori mentali variabili è che possono essere positivi o
negativi, sulla base di altri fattori, come per esempio la motivazione.
«Se, oltre alla pratica durante lo stato di veglia, siamo in grado di usare
la coscienza anche durante il sonno, così da produrre stati mentali
positivi, potremo ottenere il massimo dalla nostra pratica spirituale.
Altrimenti sprecheremo qualche ora ogni notte, o forse creeremo
addirittura impronte mentali negative. Quindi trasformare il sonno in
qualcosa di virtuoso è davvero utile. Secondo il metodo dei sutra, prima
di addormentarsi è opportuno generare uno stato mentale positivo, come
la compassione, oppure la comprensione del-l'impermanenza o della
vacuità.
«Se prima di addormentarci riusciamo a generare stati mentali positivi,
permettendo loro di continuare nel sonno senza lasciarci distrarre, il
sonno stesso diventerà positivo. I sutra spiegano diversi metodi per
trasformare il sonno in pratica della virtù, senza tuttavia includere
tecniche atte specificamente a trasformare i sogni sino a renderli positivi.
«Ci sono anche riferimenti all'uso di certi segni che, quando si
manifestano durante i sogni, permettono di accertare il livello di
realizzazione dei praticanti. Ciò può essere posto in relazione alla
domanda posta da Pete ieri, in merito al riconoscimento dei sogni
profetici. Se un sogno del genere si manifesta una sola volta, non viene
considerato significativo, tutta-via se si ripresenta più volte, acquisisce un
certo valore. È necessario vedere se ci sono altri fattori da prendere in
considerazione».
1
Tra i rimanenti quarantasette fattori mentali troviamo i cinque fattori
mentali onnipresenti, i cinque fattori mentali che riconoscono gli oggetti,
gli undici fattori mentali positivi, le sei afflizioni mentali primarie e la venti
afflizioni mentali secondarie.

Chiara luce e sé sottile

«Passiamo ora al Vajrayàna e alle quattro classi del tantra. Nelle tre
classi inferiori del tantra, sebbene si discuta molto di sogni positivi e
negativi, e di segni positivi e negativi, non si menziona affatto la vera e
propria utilizzazione dei sogni nella pratica spirituale. Tuttavia, le stesse
tre classi inferiori dei tantra includono metodi per rendere lo stato di
sogno più limpido, grazie alla meditazione sulla propria divinità tantrica
(scr. istadevatà, tib. yidam).
«Il Supremo Yoga tantrico, ovvero la quarta e la più profonda tra le
quattro diverse classi d'insegnamento del Vajrayàna, menziona la natura
fondamentale della realtà. Oltre a esaminare la natura del sentiero
spirituale e il culmine dello stesso sentiero, ovvero la buddhità, questo
sistema tantrico studia sia il corpo sia la mente in termini di tre stati o
livelli successivi sempre più sottili, a partire dal grossolano, per passare al
sottile e infine all'estremamente sottile. In questo contesto, è possibile
parlare anche di aspetti grossolani e sottili dell'io, o sé. Possiamo dunque
affermare che esistano simultaneamente due diversi sé, uno grossolano e
uno sottile?
«La risposta è no. Finché il corpo e la mente grossolana funzionano,
sulla base dello stesso insieme corpo-mente grossolano, nonché sulla
base della sua condotta, viene designato un sé grossolano. In questo
frangente non è quindi possibile identificare un sé sottile. Ma al momento
della cessazione del corpo e della mente grossolana, ovvero al momento
della chiara luce della morte, la mente grossolana svanisce comple-
tamente, e l'unica cosa che resta di quel continuum è l'energia-mente
estremamente sottile. Al momento della chiara luce della morte non c'è
nient'altro che l'energia-mente estremamente sottile, ed è sulla base di
ciò che possiamo designare la persona, o "io", estremamente sottile. In
quella situazione non c'è alcun "io" grossolano, e quindi le due forme del
sé, quella grossolana e quella sottile, non si manifestano contem-
poraneamente. Ecco come possiamo evitare l'errore di due persone che
esistono nello stesso istante.
«Francisco, per tornare alla sua precedente domanda, la designazione del
sé sottile si verifica nel contesto di uno stato di sogno molto speciale. Non
si tratta di mera immaginazione: il sé sottile lascia effettivamente il corpo
grossolano. Il sé sottile non si manifesta in tutti i sogni, ma solo in quel
sogno particolare in cui si possiede un corpo di sogno speciale che può
separarsi dal corpo grossolano. Si tratta di un'occasione in cui il corpo
sottile e il sé sottile possono manifestarsi. Un'altra occasione è il bardo, o
stato intermedio tra due diverse esistenze. Per potere disperdere le
afflizioni mentali e coltivare le qualità positive, è molto meglio fare uso sia
della mente grossolana sia della mente sottile; quest'ultima può essere
coltivata durante le pratiche dello yoga del sogno. Se riusciamo a
utilizzare tutti i livelli dell'energia-mente sottile ed estremamente sottile,
si tratta di qualcosa di realmente utile».

Il ciclo delle incarnazioni

«Nàgàrjuna indica un altro effetto positivo della pratica dello yoga del
sonno e dello yoga del sogno: possiamo usare con destrezza le facoltà che
possediamo in quanto esseri umani, nati su questo pianeta e in possesso
di un sistema nervoso e di un corpo fisico particolare, composto di sei co-
stituenti. È sulla base di questa costituzione che sperimentiamo tre stati:
morte, stato intermedio e rinascita. E questi tre stati, che caratterizzano
la nostra esistenza di esseri umani, mostrano alcune somiglianze con i
corpi di un Buddha.
«Uno dei corpi del Buddha viene chiamato Dharmakàya, e può essere
descritto come lo stato della perfetta cessazione della proliferazione dei
fenomeni. Tra la morte e il Dharmakàya ci sono alcune analogie, in
relazione al modo in cui i livelli grossolani di energia-mente si dissolvono
nella chiara luce fondamentale. Inoltre, al momento della morte, ogni
sorta di proliferazione dei fenomeni si dissolve nella natura stessa della
sfera della realtà ultima (scr. dharmadhàtu, tib. chos kyi dbyings).
Ovviamente non mi riferisco a una persona, ma a uno stato.
«La seconda fase che sperimentiamo è lo stato intermedio, ovvero
l'intervallo tra due diverse vite. È il punto di congiunzione tra la morte e
l'ottenimento di un nuovo corpo fisico, al momento del concepimento. Nel
momento della morte, dalla chiara luce della morte scaturisce una forma,
composta di energia-mente sottile, svincolata dai livelli grossolani di
mente e corpo. Ciò è analogo al Sambhogakàya, che è il corpo del
Buddha nella sua forma primordiale, e che scaturisce dal Dharmakàya.
Sia il Sambhogakàya sia il corpo di sogno straordinario sono considerati
forme sottili, proprio come la forma che viene assunta nello stato
intermedio.
«Il concepimento ha luogo con l'avvio della formazione del corpo e delle
energie grossolane. Analogamente, dalla forma pura del Sambhogakàya
un Buddha può manifestarsi in forme grossolane multiple, chiamate
Nirmànakàya, che sorgono in dipendenza delle necessità dei diversi esseri
senzienti. È qualcosa di simile al concepimento. Ma dobbiamo stare attenti
a distinguere il concepimento dal parto. Mi sto riferendo proprio al
concepimento, e non al momento della nascita dal ventre materno.
«Vi ho così descritto le analogie tra i tre stati e i tre corpi di un Buddha.
Noi esseri umani possediamo alcune facoltà che ci permettono di giungere
a queste tre realizzazioni durante la nostra stessa esistenza, e Nàgàrjuna
ci suggerisce di usare queste facoltà praticando le tecniche di meditazione
tantrica. Oltre alle pratiche Mahàyàna, relative alla meditazione sulla
vacuità e sulla compassione, possiamo utilizzare la chiara luce della morte
per realizzare la vacuità; così facendo possiamo trasformare la morte nel
sentiero spirituale che conduce alla piena illuminazione. Proprio come la
chiara luce della morte può essere utilizzata quale sentiero per la realiz-
zazione del Dharmakàya, lo stato intermedio può essere usato per
realizzare il Sambhogakàya, e il concepimento può essere usato per
ottenere il Nirmànakàya».

Lo yoga del sogno

«Per poterci addestrare nel sentiero che ci permetterà infine di


trasformare la morte, lo stadio intermedio e la rinascita, dobbiamo
praticare in tre precise occasioni: durante lo stato di veglia, durante il
sonno e durante il processo della morte. Ciò implica l'integrazione del sé
nel sentiero spirituale. A questo punto abbiamo tre gruppi di tre:

Morte, stato intermedio e rinascita Dharmakàya,


Sambhogakàya e Nirmànakàya Sonno, sogno e veglia

Per potere realizzare la meta assoluta del Dharmakàya, del


Sambhogakàya e del Nirmànakàya, dobbiamo familiarizzarci con le tre
fasi della morte, dello stadio intermedio e della rinascita. E per poterci
familiarizzare con questi ultimi, dobbiamo praticare durante il sonno
senza sogno, il sogno e la veglia.
Al fine di avere un'esperienza adeguata durante il sonno e la veglia,
penso sia cruciale familiarizzarsi, attraverso l'immaginazione, con
l'ottuplice processo della morte, a iniziare dallo stato cosciente di veglia
per culminare nella chiara luce della morte. Si tratta di un processo di
dissoluzione, di un progressivo assorbimento delle energie. A ogni fase
dell'effettivo processo della morte ci sono segni interni, e per imparare a
riconoscerli, li visualizziamo durante la meditazione formale. Poi, sempre
nella nostra immaginazione, dimorando nel livello di coscienza della
chiara luce, visualizziamo il nostro corpo sottile che lascia il corpo
grossolano, e immaginiamo che vada in luoghi diversi; infine fa ritorno e
viene riassorbito nella nostra forma ordinaria. Dopo avere praticato tutta
questa visualizzazione, giorno dopo giorno, quando ci addormentiamo si
produce naturalmente e rapidamente un processo analogo, in otto fasi. Si
tratta del miglior modo per giungere a riconoscere il sonno senza sogni
come tale. Tuttavia, senza un profondo addestramento meditativo, sarà
assai difficile sperimentare la sequenza delle dissoluzioni mentre ci si
addormenta e durante il sonno.
«Nella pratica del Supremo Yoga tantrico, ogni sàdhana, o pratica di
visualizzazione, comprende due livelli: lo stadio della "generazione" e lo
stadio del "completamento". Nello stadio della generazione, propedeutico
al successivo, tutto l'ottuplice processo di dissoluzione viene sperimentato
solo grazie al potere dell'immaginazione: non facciamo altro che
visualizzarlo. Tuttavia, nel secondo stadio, quello del completamento,
portiamo le energie vitali nel canale centrale, grazie al pràna yoga, che
include la "meditazione del vaso", e in tal modo provochiamo quel genere
di dissoluzione e la viviamo realmente. Non è più semplice
immaginazione. Provochiamo la dissoluzione, finché a un certo livello di
realizzazione spirituale si manifesta la chiara luce vera e propria.
«Se siamo arrivati a un grado di esperienza e di pratica simile,
riconoscere la chiara luce del sonno quando si manifesta naturalmente
diventa assai facile. E se siamo giunti al punto in cui possiamo riconoscere
il sonno senza sogni in quanto tale, poi non c'è più alcun problema nel
riconoscere il sogno in quanto tale.
«Questa spiegazione riguarda il modo di riconoscere il sonno e il sogno
in quanto tali grazie al potere dell'energia vitale. È uno dei metodi per
giungere a questo risultato. Ora, tornando alla pratica quotidiana, se non
abbiamo ancora raggiunto quel livello di introspezione o di esperienza
attraverso la familiarizzazione con l'energia vitale, possiamo riuscirci
durante il giorno attraverso il potere dell'intenzione, invece che con il
potere dell'energia vitale. Per intenzione intendo che dovremmo applicarci
con grande diligenza, con estrema determinazione. In questa pratica
riconoscere il sonno in quanto sonno è più difficile che riconoscere il
sogno in quanto sogno.
«Nell'addestramento al riconoscimento del sogno in quanto tale entrano in
gioco diversi fattori. Uno di questi è la dieta, che dovrebbe essere
compatibile con il proprio metabolismo. Per esempio, nella medicina
tibetana, parliamo di tre elementi vitali: vento, bile e flemma. In certe
persone uno o due di questi elementi predominano. La dieta dovrebbe
aiutarci a mantenere un equilibrio tra i diversi umori del corpo. Inoltre, se
il sonno è troppo profondo, i sogni non saranno molto limpidi. Per potere
avere sogni più limpidi e un sonno più leggero, dovremmo mangiare
meno. Oltre a ciò, nell'addormentarci, dovremmo rivolgere la nostra
attenzione alla fronte. Se invece il nostro sonno è troppo leggero, nella
nostra pratica ci troveremo ad affrontare un diverso ostacolo. Per rendere
il sonno più profondo dovremmo mangiare cibi grassi, più pesanti, e nel
momento in cui ci addormentiamo, dovremmo rivolgere l'attenzione al
centro di energia vitale a livello dell'ombelico, o dei genitali. Se i sogni
non sono limpidi, nel momento in cui ci addormentiamo dovremmo rivol-
gere l'attenzione al centro vitale della gola. In questa pratica, quando
iniziamo a sognare sarà importante che qualcuno ci bisbigli: "Ora stai
sognando. Cerca di riconoscere la natura del sogno".
«Se giungiamo a riconoscere la chiara luce del sogno per ciò che è,
grazie a questa consapevolezza potremo mantenere quello stato più a
lungo. Nel contesto della pratica tantrica, lo scopo principale dello yoga
del sogno è riconoscere il sogno in quanto tale. In seguito, nella fase
successiva della pratica, concentriamo l'attenzione al centro del cuore del
nostro corpo di sogno e proviamo a riassorbire l'energia vitale in quel
punto. Ciò conduce all'esperienza della chiara luce del sonno, che si
manifesta non appena cessa il sogno.
«L'esperienza della chiara luce durante il sonno non è molto sottile.
Progredendo nella pratica dello yoga del sogno, la prima esperienza della
chiara luce viene raggiunta concentrandosi al centro del cuore del corpo
di sogno. Nonostante la chiara luce del sonno all'inizio non sia molto
sottile, grazie alla pratica potrà diventare sempre più profonda, e finirà
per durare di più. Oltre a ciò, un beneficio secondario di questo corpo di
sogno è che si diventa una spia perfetta».
Il Dalai Lama rise con il suo solito stile. Poi si rese conto che
quell'insegnamento si era prolungato a lungo. Era tardi, e quindi si alzò, si
inchinò a tutti i presenti e ci lasciò. Raccogliemmo i nostri appunti e i
cuscini, dimorando nell'aura di una conoscenza che era tanto profonda
quanto difficile da raggiungere.

Vous aimerez peut-être aussi