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Lidea del linguaggio Chiunque sia stato educato 6 abbia semplicemente vissu- to in un ambiente cristiano o ebraico ha qualche familiarita con la parola: rivelazione. Questa familiarita non significa tuttavia che egli sia in grado di definirne il senso. Vorrei co- minciare queste mie riflessioni proprio con un tentativo di definire questo termine. Sono infatti convinto che una sua corretta definizione non sia irrilevante per il tema del nostro incontro né estranea all'ambito della filosofia, ciot di quel discorso che, é stato detto, pud parlare di tutto, a condizione di parlare innanzitutto del fatto che ne parla. II rratto costan- te che caratcerizza ogni concezione della rivelazione é la sua eterogencita rispetto alla ragione. Cid non vuol dire sempli cemente — anche se i padri della Chiesa hanno spesso insistiro su questo punto — che il contenuto della rivelazione debba necessariamente apparire assurdo alla ragione. La differenza che & qui in questione ¢ qualcosa di ben pit: radicale, che concerne il piano stesso su cui la rivelazione si situa, ovvero la sua struttura propria. Una rivelazione il cui contenuro - per quanto assurdo, per esempio che degli asini rosa cantano nel cielo di Venere ~ fosse tuttavia qualcosa che la ragione e il linguaggio umano potrebbero dire ¢ conoscere con le loro proprie forze, cesse- rebbe, per cid stesso, di essere una rivelazione. Cid che essa 26 LA POTENZA DEL PENSIERO ci da conoscere deve essere qualcosa che non soltanto non si sarebbe potuto conoscere senza la rivelazione. ma, ancora, tale da condizionare la possibilita stessa di una conoscenza in generale. E questa radicale differenza del piano della rivelazione che i teologi cristiani esprimono dicendo che il contenuto unico della rivelazione & Cristo stesso, cioé il verbo di Dio, ¢ i teologi ebrei affermando che la rivelazione di Dio é il suo nome. Quando san Paolo vuole spiegare ai Colossesi il senso dell’economia della rivelazione divina, egli scrive: «Affinché sia compiuta la parola di Dio, il mistero nascosto dai secoli dalle generazioni ¢ che ora é rivelato» (Col, 1, 26-27). In que- sta frase, «il mistero» (to mystérion) & un'apposizione di «la parola di Dio» (ton logon tou theon). Il mistero che era nasco- sto ed é ora rivelato non concerne questo 0 quell’evento mon- dano 0 sopramondano, ma semplicemente la parola di Dio. Se la tradizione teologica ha, dunque, sempre inteso la rivelazione come qualcosa che la ragione umana non pud co- noscere da se stessa, cid non pud allora significare che ques contenuto della rivelazione non é una verita esprimibile sor- to forza di proposizioni linguistiche sull’esistente (si trattasse pure dell’ente supremo), ma, piuttosto, una verita che con- cerne il linguaggio stesso, il fatto stesso che il linguaggio (e, dunque, la conoscenza) sia. Senso della rivelazione ¢ che l'uo- mo pud rivelare l'esistente attraverso il linguaggio, ma non pué rivelare il linguaggio stesso. In altre parole: 'uomo vede il mondo attraverso il linguaggio, ma non vede il linguaggio. Questa invisibilita del rivelante in cid che esso rivela @ la pa- rola di Dio, é la rivelazione. Per questo i teologi dicono che la rivelazione di Dio &, nello stesso tempo, il suo velamento 0, ancora, che, nel verbo, Dio si rivela in quanto incomprensibile. Non si tratta sempli- cemente di una determinazione negativa o di un difetto della conoscenza, ma di una determinazione essenziale della rive- lazione divina, che un teologo ha espresso in questi termini: «visibilita suprema nell’oscurita pit profonda» e «rivelazione LIDEA DEL LINGUAGGIO. 27 di un inconoscibile». Ancora una volta, cid non pud significa- re che questo: quel che @ qui rivelato non @ un oggetto, su cui i sarebbe molto da conoscere ¢ che non é possibile conoscere per mancanza di adeguati strumenti di conoscenza: rivelato & quilo svelamento stesso. il fatto stesso che vi siano apertura diun mondo ¢ conoscenza. In questo orizzonte. la costruzione della teologia trini- taria appare come il tentativo pill rigoroso ¢ pit coerente di pensare il paradosso di quello statuto primordiale della parola che il prologo del Vangelo di Giovanni esprime dicendo: en arché én ho logos, win principio eta il Verbo». Tl movimento unitrinitario di Dio che ci & diventato familiate attraverso il simbolo niceno («Credo in unum deum...»), non dice nul- la quanto alla realta intramondana, non ha alcun contenuto ontico, ma rende conto della nuova esperienza della parola che il ctistianesimo ha portato al mondo: per usare i termi- ni di Witigenstein, esso non dice nulla su come il mondo & ma sivela che il mondo &, che il linguaggio &. La parola, che & assolutamente nel principio, che @, dunque. il presupposto assoluto, non presuppone nulla se non se stessa, non ha nulla avanti a sé che possa spiegarla o svelarla a sua volta (non c’é parola per la parola) ¢ la sua struttura trinitaria non é che il ‘movimento della propria autorivelazione. E questa rivelazione della parola, questo non presupporte nulla che é il presuppo- sto unico, é Dio: «E il verbo era Dio» (G2, 4,1). Il senso proprio della rivelazione 2 dunque quello di mostrare che ogni paola € ogni conoscenza umana hanno la loro radice e il loro fondamento in un'apertura che li tra- scende infinicamente; ma — nello stesso tempo ~ questa aper- tura non concerne che il linguaggio stesso, la sua possibilit’ e la sua esistenza. Come diceva il grande teologo ebreo ¢ capofila della scuola neokantiana Hermann Cohen, il senso della rivelazione @ che Dio non si rivela i qualcosa, ma a qualcosa, e che, dunque, la sua rivelazione non é altro che die Schapfung der Vernunfi, la creazione della ragione. Rivelazio- ne non significa questo 0 quell'enunciato sul mondo, non cid 28 LA POTENZA DEL PENSIERO che si pud dire attraverso il linguaggio, ma che la parola, che il linguaggio sono. Ma che cosa pud significare un’asserzione del tipo: il lin- guaggio &? E in questa prospettiva che dobbiamo guardare al luogo classico in cui si é posto il problema del rapporto fra rivela- zione ¢ ragione, cio all’argomento ontologico di Anselmo. Poiché, come fu subito obiettato ad Anselmo, non é vero che la semplice pronuncia del nome Dio, di quid maius cogita- ri nequit, implichi necessariamente l'esistenza di Dio. Ma un essere di cui la semplice nominazione linguistica impli- ca Vesistenza esiste, ed ¢ il linguaggio. Il fatto che io parli e che qualcuno ascolti non implica lesistenza di nulla ~ tranne che del linguaggio. I/ linguaggio 2 cid che deve necessariamenre presupporre se stesso. Cid che l'argomento ontologico prova é, dunque, che, se gli uomini parlano, se vi sono degli anima- {i razionali, allora vi @ una parola divina, nel senso che vi é sempre gia preesistenza della funzione significante ¢ apercura della rivelazione (solo in questo senso — solo, cio, se Dio & il nome della preesistenza del linguaggio, del suo dimorare nell'arché — V’argomento onrologico prova l’esistenza di Dio). Ma questa apertura, contrariamente a quanto Anselmo pen- sava, non appartiene alla sfera del discorso significante, non & una proposizione dotata di senso, ma un puro evento di Jinguaggio al di 1a 0 al di qua di ogni significato particolare. E bene rileggere in questo orizzonte l'obiezione che un gran- de logico misconosciuto, Gaunilone, oppone all’argomento di Anselmo. Ad Anselmo che affermava che il proferimento della parola Dio implica necessariamente per chi ’intende Vesistenza di Dio, Gaunilone oppone lesperienza di un idio- ta 0 di un barbaro che, di fronte a un discorso significante, incende certamente che vi 2 un evento di linguaggio, che c'& — dice Gaunilone - una vex, una parola umana, ma non pud in alcun modo afferrare il senso dell’enunciato. Un tale idiota 0 un tale barbaro - scrive Gaunilone — non pensa , UIDEA DEL LINGUAGGIO. 29 la voce stessa, cioé il suono delle sillabe e delle lectere, che @ una cosa in qualche modo vera, quanto il significato del- la voce udita; non. perd, come viene pensato da chi conosce che cosa si é soliei significare con quella voce (¢ che la pensa, quindi, secondo la cosa [secundum rem), anche se vera solo rel pensiero) ma, piuttosto, come viene pensato da chi non ne conosce il significato ¢ pensa soltanto secondo il movimento dell’anima che cerca di rappresentarsi 'efferto della voce udi- tac il suo significato. Esperienza non pitt di un mero suono e non ancora di un significato, questo «pensiero della voce sola» («cogitatio secundum vocem solam », come Ja chiama Gaunilone) apre al pensiero una dimensione logica aurorale che, indicando il puro aver-luogo del linguaggio senza alcun evento determi- nato di significato, mostra che vi é ancora una possibilita di pensiero al di la delle proposizioni significanti. La dimen- sione logica pid originale che é in questione nella rivelazione non &, dunque, quella delia parola significance, ma quella di una parola che, senza significare nulla, significa la significa- tione stessa. (In questo senso vanno intese le teorie di quei pensarori, come Roscellino, dei quali si diceva che aveva- no scoperto wil significato della voce» che affermavano che le essenze universali erano solo flatus vocis. Flatus vocis non é qui il semplice suono, ma, nel senso che si é visto, la voce come puta indicazione di un evento di linguaggio. E questa voce coincide con Ja dimensione di significato pit universale, con essere.) Questa donazione di una voce per il linguaggio Dio, é la parola divina. I nome di Dio, cioé il nome che nomina il linguaggio, @ pertanco (come la tradi- zione mistica non si é stancata di ripetere) una parola senza significato. Nei termini della logica contemporanea, potremmo di re, allora, che il senso della rivelazione é che, se vi un meta~ linguaggio, esso non ¢ un discorso significant, ma una pura voce insignificante. Che vi sia il linguaggio @ altrectanto certo 30 LA POTENZA DEL PENSIERO quanto incomprensibile, ¢ questa incomprensibilita ¢ questa certezza costituiscono fede e rivelazione. La principale difficolta insita in un'esposizione filosofica concerne questo stesso ordine di problemi, La filosofia non si occupa, infarti, solranto di cid che é rivelato artraverso il linguaggio, ma anche della rivelazione del linguaggio stes- so, Uniesposizione filosofica &, cio, quella che, di qualunque cosa parli, deve dar conto anche del fatto che ne parla, un discorso che, in ogni detto, dice innanzitutto il linguaggio stesso. (Di qui lessenziale prossimita — ma anche la distanza = fra filosofia e teologia, almeno alerettanto antica quanto la definizione aristotelica della filosofia prima come theologiké.) Cid si potrebbe anche esprimere dicendo che la filosofia non @ una visione del mondo, ma una visione del linguag- gio ¢, in effetti, il pensiero contemporaneo ha seguito con fin troppo zelo questa via. La difficolta sorge qui, pero, dal fatto che ~ com'é implicito nella definizione che Gaunilone da della voce ~ cid che & in questione in un'esposizione filo- sofica non pud essere semplicemente un discorso che abbia il linguaggio come tema, un meralinguaggio che parli del linguaggio. La voce non dice nulla, ma si mostra, proprio come la forma logica secondo Wittgenstein, € non pud per- tanto diventare tema di un discorso. La filosofia non pud che condurte il pensiera fino al limire della voce: non pud dire la voce (0, almeno, cosi sembra). Il pensiero contemporaneo ha preso risolutamente co- scienza del fatto che un metalinguaggio ultimo ¢ assoluto non esiste e che ogni costruzione di un metalinguaggio resta presa in un regresso all'infinito. 1] paradosso della pura intenzione filosofica @, tuttavia, proprio quello di un discorso che deve parlare del linguaggio ed esporne i limiti senza disporre di un metalinguaggio. In questo modo essa si urta proprio acid che costituiva il contenuto essenziale della rivelazione: logos en arché, la parola @ assolutamente nel principio, ¢ il presup- posto assoluto (0, come Mallarmé scrisse una volta, il verbo / LIDEA DEL LINGUAGGIO 3 @ un principio che si sviluppa attraverso la negazione di ogni principio). Ed @ con questa dimora della parola nel principio che una logica e una filosofia coscienti dei loro compiti devo- no sempre di nuovo misurarsi. Se c'é un punto sul quale le filosofie contemporanee sembrano trovarsi d’accordo & proprio il riconoscimento di questo presupposto. Cosi l’ermencutica assume questa irridu- cibile priorita della funzione significante affermando — secon- do il motto di Schleiermacher che apre Veritd e Metodo — che «nell’ermencutica c’@ un solo presupposto: il linguaggio», o interpretando, con Apel, il concetto di «gioco linguistico» in Wittgenstein nel senso di una condizione trascendentale ogni conoscenza. Questo apriori é, per l'ermeneutica, il pre- supposto assoluto, che pud essere ricostruito € reso coscien- te, ma non pud essere oltrepassato. Coerentemente a queste ptemesse, 'ermeneutica non pud che porsi come osizzonte di una tradizione e di una interpretazione infinite, il cui senso ultimo ¢ il cui fondamento devono necessariamente restare non detti, Essa pud interrogarsi su come avvenga la compren- sione, ma che ci sia comprensione é cid che, restando im- pensato, rende possibile ogni comprensione. «Ogni atto di parola», scrive Gadamer, «nell'atto del suo accadere, rende, insieme, presente il non detto a cui esso, come risposta € chiamo, si riferisce». (Si capisce, quindi, come V'ermeneutica, pur richiamandosi a Hegel e a Heidegger, lasci nell’ombra proprio quell'aspetto del loro pensiero che chiamava in causa il sapere assoluco¢ la fine della storia da una parte, € I Ereignis ela fine della storia dell’essere dall'altra.) In questo senso, l'ermeneutica si contrappone — ma non in modo cost radicale come potrebbe sembrare — a quei di- scorsi, come la scienza e l’ideologia, che, pur presupponendo pit o meno consapevolmente la preesistenza della funzione significante, rimuovono questo presupposto e ne lasciano agi- re senza riserve la produrtivita ¢ il potere nullificante. E, in verita, non si vede in che modo lermeneutica potrebbe con- 32 LA POTENZA DEL PENSIERO vincere questi discorsi, almeno nella misura in cui essi siano divenuti nichilisticamente coscienti della loro infondatezza, a rinunciare al proprio acteggiamento. Se il fondamento é, comunque, indicibile ¢ irriducibile, se esso anticipa gia sem- pre ['uomo parlante, gettandolo in una storia ¢ in un destino epocale, alloca un pensiero che ricordi e prenda cura di que- sto presupposto sembra eticamente equivalente a quello che, abbandonandosi al suo destino, ne esperisce fino in fondo (e non c’é, in verita, fondo) la violenza ¢ l'infondatezza. Non é percid un caso se, secondo un’autorevole corren- te del pensiero francese contemporaneo, il linguaggio 2, si, mantenuto nel principio, ma questa dimora nell’arché ha la struttura negativa della scrittura € del grammnia. Non cé una voce per il linguaggio, ma esso &, fin dall’inizio, traccia ¢ au- totrascendimento infinito. In altre parole: il linguaggio, che @ ne! principio, é la nullificazione e il differimento di se stesso, e il significante non & che la cifra irriducibile di quesva infon- datezza. E legittimo chiedersi se questo riconoscimento del pre- supposto del linguaggio che caratterizza il pensiero contem- poraneo possa veramente esaurire il compito della filosofia. Si direbbe che qui il pensiero consideri chiuso il suo compito proprio col riconoscimento di quanto costituiva il contenuto pitt proprio della fede ¢ della rivelazione: la situazione del logos nell’arché. Cid che la teologia proclamava incomprensibile per la ragione @ ora riconosciuto dalla ragione come suo presup- posto. Ogni comprensione é fondata nell’incomprensibile. Ma non testa in ombra, in questo modo, proprio quel- lo che dovrebbe essere il compito filosofico per eccellenza, ¢, ciog, leliminazione ¢ |'«assoluzione» del presupposto? Non era forse la filosofia il discorso che si voleva libero da ogni presupposto, anche dal pit: universale dei presupposti, che si esprime nella formula: vi ¢ il linguaggio? Non si tratta appun- to per essa di comprendere l'incomprensibile? Forse proprio nellabbandono di questo compito, che condanna Vancella aun matrimonio con la sua padrona teologica, consiste la LIDEA DEL LINGUAGGIO 33, difficolta presente della filosofia, cosi come la difficolta della fede coincide con la sua accertazione da parte della ragione. Labolizione dei confini fra fede e ragione segna anche la loro ctisi, cio? il loro reciproco giudizio. Il pensiero contemporaneo é giunto in prossimica di quel limite, oltre il quale un nuovo svelamento epocale-religioso della parola non sembra pits possibile. II carattere di arché del Jogos ¢ ormai compiutamente rivelato, e nessuna nuova figura del divino, nessun nuovo destino storico pud levarsi dal lin- guaggio. II linguaggio, nel punto in cui si situa assoluramente in arché, svela anche la sua assoluta anonimia. Non ¢’é nome per il nome, non Cé metalinguaggio, neppure nella forma di una voce insignificante. Se Dio era il nome del linguaggio, «Dio ¢ morto» pud significare soltanto: non ¢’é pidi un nome per il linguaggio. La rivelazione compiuta del linguaggio é una parola completamente abbandonata da Dio. E l'uomo é gettato nel linguaggio senza avere una voce o una parola di- vina che gli garantiscano una possibilita di scampo dal gioco infinito delle proposizioni significanti. Cosi, finalmente, ci ritroviamo soli con le nostre parole, per la prima volta soli con il linguaggio, abbandonati da ogni fondamento ulteriore. Questa @ la rivoluzione copernicana che il pensiero del no- stro tempo eredita dal nichilismo: noi siamo i primi uomini che siano diventati compleamente coscienti del linguaggio. Quanto le generazioni passate hanno pensato come Dio, es- sete, spirito, inconscio, noi per la prima volta limpidamente vediamo per quello che sono: nomi del linguaggio. Per questo ogni filosofia, ogni religione ¢ ogni sapere che non abbiano preso coscienza di questa svolta, apparcengono per noi irre- vocabilmente al passato. I velari che teologia, ontologia ¢ psi- cologia hanno teso sull'umano sono ora caduti e a uno a uno ‘noi Ii restituiamo al loro luogo proprio nel linguaggio. Senza veli guardiamo ora il linguaggio, che ha espirato da sé ogni divino, ogni indicibile: interamente rivelato, assolutamente nel principio. Come un poeta che vede finalmente i! volto 34 LA POTENZA DEL PENSIERO della sua musa, cosi la Gilosofia guarda ora faccia a facia il linguaggio (per questo ~ poiché la Musa nomina l'esperienza di linguaggio pitt originale — Plarone pud dire che la filosofia & «la musica suprema»). I nichilismo fa questa stessa esperienza di una parola ab- bandonata da Dio; ma la rivelazione estrema del linguaggio 2 da esso interpretata nel senso che non c’é nulla da rivelare, che la verita del linguaggio & quella di svelare il nulla di ogni cosa. Lassenza di un metalinguaggio si pone cosi come la forma negativa del presupposto e il nulla come l'ultimo velo, ultimo nome del linguaggio. Se riprendiamo, a questo punto, ‘immagine di Witt- genstein della mosca imprigionata nel bicchiere, potremmo dire che il pensiero contemporaneo ha finito col riconoscere Pinevitabilita, per la mosca, del bicchiere in cui prigionie- ra. La preesistenza e Yanonimia della funzione significance costituiscono il presupposto che anticipa gia sempre l'uomo parlante e rispetto al quale non sembrano darsi uscite di sor- ta. Gli uomini sono condannati a intendersi nel linguaggio. Ma, ancora una volta, cid che, in questo modo, viene lasciato da parte @ proprio il progetto originale che era stato affida- to a quell’immagine: la possibilita che la mosca uscisse dal bicchiere. Il compito della filosofia va, pertanto, ripreso esattamen- te nel punto in cui il pensiero contemporaneo sembra abban- donarlo. Se é vero, infatti, che la mosca deve innanzitutto cominciare col vedere il bicchiere dentro cui é chiusa, che co- sa pud significare una tale visione? Che cosa significa vedere ed esporre i limiti del linguaggio? (Il bicchiere non é, infacti, per la mosca, una cosa, ma cid attraverso cui vede le cose.) E possibile un discorso che, senza essere un metalinguaggio né sprofondare nell’indicibile, dica il linguaggio stesso ¢ ne Unlantica tradizione di pensiero enuncia questa pos: bilita come una teoria delle idee. Contrariamente all’inter- pretazione che vede in essa il fondamento indicibile di un LIDEA DEL LINGUAGGIO 35 metalinguaggio, alla base della teoria delle idee sta invece un’accettazione senza riserve dell’anonimia del linguaggio, cosi come dell’omonimia che ne governa il campo (in questo senso vanno intesi l'insiscenza di Platone sull’omonimia fra idee e cose e il riftuto socratico di ogni misologia). Proprio questa finitezza e questa equivocita del linguaggio umane di- ventano tuttavia il varco aperto al «viaggio dialettico» del pensiero. Se ogni parola umana presupponesse gia sempre unaltra parola, se il porere presupponente del linguaggio non avesse mai fine, allora davvero non ci porrebbe essere espe- rienza dei limiti del linguaggio. D’altra parte, un linguaggio perfetto, dal quale fosse scomparsa ogni omonimia ¢ in cui turti i segni fossero univoci, sarebbe un linguaggio assolura- mente privo di idee. Lidea @ interamente compresa nel gioco fra anonimia e omonimia del linguaggio. Né l'uno é ¢ ha nome, né ess0 non é enon ha nome. idea non é una parola (un metalinguaggio) ¢ nemmeno visione di un oggetto fuori del linguaggio (un tale oggetto, un tale indicibile non v'é), ma visione del linguag- gio stesso. Poiché il linguaggio. che media per l'uomo ogni cosa ¢ ogni conoscenza, & esso stesso immediato. Nulla di immediato pud essere raggiunto dall’uomo parlante ~ cran- ne il linguaggio stesso, tranne la mediazione stessa. Una tale mediazione immediata costituisce per 'uomo la sola possibili- i di raggiungere un principio liberato da ogni presupposto, anche dalla presupposizione di se stesso; di raggiungere, ciod, quell'arché anypothesas che Platone, nella Repubblica, presenta come il zelos, come il compimento e il fine di autos ho logos, del linguaggio stesso e, nello stesso tempo, come la « cosa stes- saw e l'affare dell uomo. Nessuna vera comunita umana pud, infatti, sorgere sulla base di un presupposto ~ sia esso la nazione o la lingua o an- che Vapriori Cid che unisce gli uomini fra loro non é né una natura né una voce divina né la comune prigionia nel linguaggio significan- te, ma la visione del linguaggio stesso ¢, quindi, l'esperienza della comunicazione di cui parla lermeneutica. 36 LA POTENZA DEL PENSIERO dei suoi limiti, della sua fine. Vera comunita @ solo una comu- nit non presupposta. La pura esposizione filosofica non pud essere percid esposizione delle proprie idee sul linguaggio 0 sul mondo, ma esposizione dell’ idea del linguaggio.

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