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Andrea Staid

meticciato e antropologia delle nuove schiavitù


agenziax
2011, Agenzia X

Copertina e progetto grafico


Antonio Boni

Immagine di copertina
Bruna Orlandi

Foto interni
Chiara Beretta (pp. 50, 84, 150)
Bruna Orlandi (pp. 8, 18, 23, 26, 106)

Contatti
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tel. + fax 02/89401966
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Digital Team, Fano (PU)

ISBN 978-88-95029-56-6

XBook è un marchio congiunto di Agenzia X e Associazione culturale


Mimesis, distribuito da Mimesis Edizioni tramite PDE

Hanno lavorato a questo libro...


Marco Philopat – direzione editoriale
Andrea Scarabelli - editor
Paoletta “Nevrosi” Mezza – redazione e impaginazione
Alberto Dubito – ufficio stampa
Andrea Staid

le nostre
braccia
meticciato, antropologia delle nuove schiavitù
le nostre
braccia
Prefazione. L’inesorabile meticcio 9
Bruno Barba

Introduzione 19
Andrea Staid

Un mondo meticcio 27
Mondo postmoderno 31
Multiculturalità, interculturalità, modello meticcio 44

Lavoro precario e immigrazione 51


Precarietà come modello di vita 54
Migranti precari 59
Quando lo stato spinge alla criminalità 63
Dove e come lavorano i migranti 67
Dinamiche di potere fra migranti 76

Rinegoziazioni culturali 85
Rinegoziazioni migranti 89

Un caso specifico.
Le badanti, precarie per eccellenza 95

Le voci dei migranti 107

Quale futuro? 151

Postfazione. Meticci anche in cucina 155


Andrea Perin

Ringraziamenti 165

Bibliografia ragionata 167


A tutti i migranti che non arrivano...

Le menzogne scritte con l’inchiostro non potranno mai can-


cellare i fatti scritti con il sangue.
Lu Xun (1926)
Prefazione.
L’inesorabile meticcio
Bruno Barba

Il Brasile? Un vostro sogno. Solo che noi ci viviamo dentro.


Carlos Drummond de Andrade

– Jem, chiesi, cos’è un bambino misto?


– Mezzo bianco e mezzo negro. Ne hai visti tanti anche tu,
Scout. Sai quel ragazzino coi capelli rossi e ricci che porta i
pacchi del droghiere? Lui è mezzo bianco. Sono sempre tristi.
– Come mai?
– Perché non sono né carne né pesce. La gente di colore non
li vuole perché sono mezzi bianchi; i bianchi non li vogliono
perché sono quasi negri, e così loro stanno in mezzo e non
sanno con chi andare.
Lee Harper, Il buio oltre la siepe

Sia subito chiaro un fatto: multiculturalismo e meticciato non


sono sinonimi. In molti lo credono, e i più con le migliori
intenzioni, influenzati da quel miraggio nordamericano chia-
mato melting pot: significava e significa riunire in un pentolone
capiente diverse provenienze e molti gusti, per tenerli tutti in-
sieme. Uno accanto all’altro. Un minestrone, talvolta saporito:
di qui la pasta, di qua i fagioli che raccolgo con il cucchiaio. Il
meticciato – continuo con le metafore culinarie, tra le più espres-
sive, come sempre – è una moqueca, un vatapà, una feijoada.1

1
Sono piatti della saporitissima comida baiana, la cucina afrobrasiliana
di Salvador de Bahia.

9
Ovvero, un piatto ricco, saporitissimo, ben amalgamato. Magari
si intuiranno, o coglieranno, sapori, essenze, provenienze, ma
quel piatto vive di luce propria, ha la propria personalità, la
propria individualità composita e complessa. Un impasto, una
pietanza il cui sapore ci fa sentire un certo retrogusto familiare
ma anche, mutando scenario, un arcobaleno di situazioni, o
ancora un suono apparentemente indistinto ma che richiama
alla mente qualcosa di conosciuto. Un qualcosa di eclettico e
provvisto di una vitalità eccezionale, rivolta sempre al futuro.
In altre parole, il multiculturalismo nasce da un ideale profon-
do e nobile – la valorizzazione della diversità – ma giunge infine
a separare. Desta e accende la nobile intenzione di incuriosire
sull’alterità, ma crea, seppure involontariamente, barriere in-
sormontabili. I blacks, i latinos, gli ebrei, i neri... Anche quando
questi blacks, latinos, ebrei... ci sembrano vicini e fratelli, anche
quando li rispettiamo e li amiamo, anche quando mangiamo e
preghiamo come loro.
Allora qual è la differenza? Semplicemente l’amore, l’eroti-
smo, il sesso. Sì, perché il meticciato nasce dal sangue e dallo
sperma. È un’altra metafora, più diretta e materiale, ma è anche
la realtà: all’inizio – perché negarlo? – il meticciato dell’America
latina, dei Caraibi, del Brasile, è nato per colpa di uno stupro,
prima fisico e poi culturale.

Sesso e razzismo

Se è vero che il razzismo nasce dalla gestione della sessualità, in


Brasile è stato il desiderio sessuale interrazziale a costituire la
nazione. Forse qui dovrei ripetere due frasi che mi sono care,
quelle dello storico francese Fernand Braudel, “Il Brasile mi
ha reso intelligente” e quella del romanziere Jorge Amado “Il
razzismo? Noi lo combattiamo a letto”.
Cos’è quindi che ha reso il Brasile la terra promessa del

10
meticciato, cos’è che ha fatto di questo paese la sensuale terra
dell’incontro? Già, ecco un’altra frase a effetto, del poeta Vi-
nicius de Moraes: “A vida è a arte do encontro...”.
Parallela alle radici della cultura brasiliana, l’origine del
meticciato brasiliano è miticamente assegnata a una coppia
miscelatrice composta sempre da un bianco che approfitta
della libidinosa donna negra, indigena o meticcia, subordinata
a lui. La donna bianca occupa un ruolo pressoché asessuato
di sposa fedele, e gli uomini negri risultano semplicemente
assenti, relegati nel mondo del lavoro, lontani dai piaceri del
sesso e dell’affetto.2
In altre parole, sarà allora vero che il Brasile nasce da un atto
sensuale di seduzione delle negre, indigene e mulatte. Proviamo
a pensare a quegli sguardi di Dona Flor, o di Gabriela, simboli
“amadiani” di una sessualità esplicita e felice.
Come già Gilberto Freyre aveva osservato in Casa-grande e
Senzala,3 le relazioni sessuali tra gli uomini portoghesi e le loro
donne subordinate avrebbe attenuato gli antagonismi tra signori
e schiavi, letterati e analfabeti. È nella piantagione, in quel regime
di promiscuità, che nasce il meticciato. Un meticciato connotato
e sbilanciato: donna nera e uomo bianco, ricordiamo. Perché
le relazioni tra l’uomo negro e la donna bianca sono rappre-
sentate, viceversa, in termini di tragedia:4 il contatto, in questo
caso, è inquinante, perché rappresenta una minaccia al sistema
di dominazione patriarcale orchestrato dall’uomo bianco e poi
perché erotizza la santa figura della donna bianca. A dominare,
a essere protagonisti, sono invece, e devono esserlo, il libidinoso
bianco e la lussuriosa donna negra.
E avviene sempre così, in Brasile, come altrove: l’individuo

2
L. Moutinho, Razão, cor, desejo, Unesp, São Paulo 2004, p. 13.
3
G. Freyre, Casa-grande e Senzala, Olimpio, Rio de Janeiro 1961.
4
Basti ricordare Orfeu negro, film del 1959, diretto da Marcel Camus e
tratto da uno spettacolo teatrale di Vinicius de Moraes, trasposizione del mito
di Orfeo e Euridice in tempi moderni.

11
desidera ciò che è socialmente desiderabile. E la mistura non
potrà essere sempre uguale, perché gli elementi che costitu-
isco questo impasto non potranno mai essere equivalenti o
equidistanti. Il meticcio, al di là di ogni utopia, è destinato a
conservare qualcosa delle provenienze, biologiche o culturali,
che lo hanno formato, sia in termini negativi sia positivi. La
fusione non sarà mai totale, o perfettamente riuscita, ma che
importa: è come dire che quel samba sarà meraviglioso, quel
rituale afro elettrizzante, quella jogada celestial,5 quell’installa-
zione plastica incredibilmente evocativa e quel piatto prelibato.
Ma se tutte queste manifestazioni non sono... perfette, che ce
ne importa?
Quanti problemi, nel tempo, ha provocato gente come
Joseph Arthur Gobineau, poeta, scrittore, scultore, padre del
razzismo scientifico. Le sue note teorie (capacità intellettuale del
negro inferiore o nulla, apatia dei “gialli”, intelligenza energica
e amore per la libertà del bianco), oggi, attraverso l’evidenza
della prova, risultano indifendibili. Quale degenerazione, quale
purezza di sangue (tralasciando il fatto non trascurabile, anzi il
paradosso, che la razza civilizzatrice non avrebbe certo potuto
espandersi senza misturarsi, a meno che – esperimento che ab-
biamo visto storicizzarsi – non si tenti di eliminare fisicamente
le razze inferiori).

Transbrasil

È del meticcio che stiamo parlando, uomo e universo culturale,


di un’identità difficile da stabilire, di un mondo sincretico,
impuro, bastardo che ha inizio con un atto di violenza origina-
ria che dà vita ai primi meticci, all’inizio della colonizzazione.

5
“Giocata paradisiaca”, riferita a un gesto tecnico (soprattutto) e atletico
di un calciatore.

12
Successivamente ci sarà il dramma dello sfruttamento, dell’esclu-
sione, della demonizzazione dello schiavo nero.
Anche se non si giungesse mai a un risultato totalmente
armonioso e pacifico, anche se tra i vari strati connettivi la pace
sociale tarderà a imporsi, bisognerà considerare quanti passi
ha compiuto il Brasile da quando è stata abolita la schiavitù,
soltanto nel 1888.
In primis, il Brasile non è un paese acculturato. Melville
Herskovits6 sosteneva che l’acculturazione si ha quando gruppi
di individui di culture differenti entrano in contatto diretto e
continuo, provocando cambiamenti dei canoni culturali di uno
o di entrambi i gruppi. In questo caso o si “accetta” un’altra
cultura, con conseguente perdita dell’eredità culturale originaria,
oppure ci si “adatta” all’altra cultura, subendola passivamente
e conservando qua e là e incoerentemente, alcuni tratti. Terza
alternativa, la reazione all’altra cultura, quando questa appare
insopportabile e oppressiva. Niente di tutto ciò è avvenuto in
Brasile: il termine che meglio descrive il processo ancora in atto è
stato coniato dal cubano Fernando Ortiz nel libro Contrapunteo
cubano del tabaco y el azucar7 ed è quello di “transculturazione”,
a indicare passaggio, movimento, creazione originale.
Ruth Benedict, in Modelli di cultura8 evidenziava, dal suo pun-
to di vista, come fosse necessario scegliere: senza scelta nessuna
cultura può diventare comprensibile. C’è rassicurante chiarezza,
ma anche manicheismo, ossessione, razionalismo estremo in
questa affermazione. C’è l’esasperazione di quell’affermazione
“l’emozione è negra come la ragione è ellenica” che da Léopold
Senghor in poi ha plasmato la filosofia della “negritudine”. La
Dona Flor di Jorge Amado, invece, rivendica la possibilità di

6
M.J. Herskovits, Man and His Work, Knopf, New York 1948.
7
F. Ortiz, Contrapunteo cubano del tabaco y el azucar, Jesus Montero, La
Habana 1940.
8
R. Benedict, Modelli di cultura, Laterza, Bari-Roma 2010.

13
non scelta. Non si tratta di ignavia, ma di predisposizione, culto
addirittura, volontà di abbraccio e di non esclusione.
L’élite culturale brasiliana è sempre stata consapevole di
questa vitalità e l’ha cavalcata con entusiasmo: Vinicius de
Moraes, il grande poeta e compositore della bossa nova, amava
dichiararsi “il bianco più nero di Bahia”, mentre lo stesso Amado
ha inventato personaggi come Dona Flor, Pedro Archanjo di La
bottega dei miracoli, e Gabriela, che sono diventati l’emblema di
questa maniera straordinaria, pacifica, armonica e struggente di
essere meticci, sincretici, completi. Dona Flor, per esempio, non
sceglie, ma concilia due mondi, due amori, due etiche. Pedro
Archanjo riveste una carica prestigiosa in un candomblé, ed è
insieme materialista (Amado fu un attivista comunista) e legato
al misticismo religioso.
Sartre aveva sottolineato come:

...la Negritudine... non è più uno stato neppure un atteggia-


mento esistenziale, è un Divenire; il contributo nero all’evolu-
zione dell’Umanità non è un sapore, un gusto, un ritmo, una
autenticità, un insieme di istinti primitivi: è... una costruzione
paziente, un futuro.9

Frase da assumere totalmente, da adattare plasticamente all’este-


tica del meticciato. Più che risultati infatti, i sincretismi religiosi
e i meticciati sono dinamiche, in continua, perenne trasforma-
zione. Ogni incontro di culture è, in fondo, come un’unione
sessuale tra gli individui: la nuova creatura ha sempre qual-
cosa di ciascuno dei genitori, ma è anche sempre diversa da
ognuno di loro. Realtà contraddittorie, incoerenti, ambigue,
sdrucciolevoli, siano chiamate convergenze o parallelismi,
miscele o adattamenti, forzature oppure, ancora, atti strategici
di resistenza culturale.
9
J.-P. Sartre, Orfeo nero. Una lettura poetica della negritudine, Marinotti,
Milano 2009, p. 70.

14
Sono gli orixás del candomblé, divinità africane che amano
danzare e sono riconoscibili a seconda dei movimenti, dei
colori delle vesti che indossano, delle armi che impugnano o
degli emblemi del potere che mostrano orgogliosi, a focalizzare,
condensare e quindi mostrare al mondo il senso e il sentimento
del meticciato. Loro, le divinità che si fanno mulatte: Iansã la
guerriera (associata alla cattolica santa Barbara); il combattente
Ogum (san Girolamo o san Giuseppe); Iemanjá, la divinità madre
del mare (Nostra signora dei naviganti), che ondeggia sinuosa,
ricordando il movimento dei flutti; Exu (che i cattolici errone-
amente associarono al diavolo), eccessivo persino nel ballare;
Oxumarê (san Bartolomeo) il serpente che striscia per terra;
Oxum (un’altra faccia della Madonna), che, bella e vanitosa, si
specchia fiera della sua bellezza.

Il nostro futuro bastardo

Mistura, meticciato come necessità ineluttabile prima di tutto.


In Brasile come altrove.
Le differenze di cui il meticcio è portatore si sono quasi
sempre misurate in termini di bellezza fisica, prima ancora che
di presunte capacità intellettuali e morali.
In ogni caso – e dimenticando, ma solo per un attimo,
la posizione relativistica, e ammettendo un canone estetico
universale – non basterebbe osservare certi strepitosi casi (c’è
chi li chiamerebbe esperimenti genetici) di mulatti brasiliani
o caraibici, di cinoamericani, di afroscandinavi, di olandesi
molucchesi per affermare che “meticcio è bello”? E, volendo
sconfinare nella sfera economica, come dimenticare che la
forza emergente del BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) sembra
confutare ancora, e da un’altra prospettiva, le tesi razziste e
antimeticciato?
Se quindi il Brasile è una nazione fatta nel letto, promossa

15
da una donna veicolo di sensualità, di vita, mediante un atto
sessuale iperbolico e fatale (il meticciato è un atto sessuale ri-
pete ancora la Moutinho10), come non guardare a questa terra
felice (non solo per quest’argomento) come un modello? Una
nazione femminilizzata; ancora, se ce ne fosse bisogno, un ruolo
decisivo da assegnare alle donne. Le nostre nuove donne di una
nascente e rinvigorita Italia.
Vero, noi non abbiamo il Tropico modellatore e plastico,
esuberante ed eccessivo; non siamo i sincretici portoghesi co-
lonizzatori, oriundi da sempre di un territorio ponte, sospeso
tra Europa e l’abisso della conoscenza, il mar Atlantico, eppure
siamo pur sempre, come tutti, come ha ricordato Amselle,11
meticci fin da subito, da sempre.
Non abbiamo tuttavia da ereditare la melanconia e la tristezza
del post coitum;12 non avremo – è una fortuna – la piantagione,
tuttavia, grande agente disciplinatore, regolatore delle rela-
zioni sociali;13 e neppure potremmo sperimentare (o forse sì)
l’ambiente, i modi sinuosi dei negri, narcotizzanti di energie
che sarebbero state altamente produttive. Fatti questi ultimi,
che fecero coniare allo storico Sergio Buarque de Hollanda
l’illuminata e al contempo odiosa espressione di “razzismo
cordiale”�,14 che ben si attanaglia alla realtà brasiliana degli anni
trenta del Novecento.
Tutto ciò ha determinato storicamente la nascita della nazione
brasiliana, della cultura e dell’idea meticcia. Però dinamiche,
atteggiamenti, propensioni, volontà; e ancora postura, curiosità,
opportunità possono (devono?) essere le stesse.

10
L. Moutinho, Razão, cor, desejo, cit., p. 85.
11
J.-L. Amselle, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e
altrove, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
12
P. Prado, Retrato do Brasil. Ensaio sobre a tristeza brasileira, Duprat-
Mayença, São Paulo 1928.
13
Come ebbe a dire G. Freyre, Casa-grande e Senzala, cit.
14
S. Buarque de Hollanda, Raízes do Brasil, José Olimpio, Rio de Janeiro
1936.

16
Sì, perché il meticciato è un’opportunità. La paura che molti
provano è forse che si possa arrivare non soltanto alla cancel-
lazione delle tradizioni (ma quali?), o al trionfo dell’alterità,
ma soprattutto a un’opacità cupa, indeterminata, soffocante,
asettica, tutt’altro che esaltante.
Al contrario, il meticciato non fonde semplicemente (e opa-
cizza), ma al contrario genera. Dà vita a un terzo elemento, a una
forza nuova, irriconoscibile (pensiamo ai prodotti culturali cui
dà vita e che appunto noi chiamiamo meticci), senza peraltro
scordare, omettere, minimizzare le provenienze. Forse che in
Brasile non è riconosciuta l’eredità africana di questi prodotti?
Forse che gli italiani, i tedeschi, gli ebrei, i turchi, come gene-
ricamente vengono definiti gli arabi, non hanno il loro posto
(riti, religioni, spazi) in quel mondo che è vicino, pur con tutte
le sue contraddizioni, all’ideale meticcio?
Il meticcio e la sua cultura sembrano oggi presentarsi al
mondo intero come prospettive e opportunità per il futuro. Il
meticcio è creativo e, non più confinato nel ghetto, è autore e al
contempo risultato del dialogo tra le culture. Mette in discussione
confini netti, identità forti, assolutismi assurdi.
La paura è debolezza, nient’altro. Un’identità in costruzione
– consapevole di esserlo –, accogliente, attenta, curiosa, aperta,
non avrebbe nulla da temere.

Bruno Barba è docente di Antropologia presso l’Università di Genova.


Tra le sue pubblicazioni più recenti: Brasil meticcio (2004), Bahia, la
Roma Negra di Jorge Amado (2004), B. I. Exu e Pombagira (2006),
Un antropologo nel pallone (2007), Tutto è relativo (2008), San Paolo.
Lévi-Strauss, “saudade” tropicale (2010).

17
Introduzione
Andrea Staid

Ci sono mille possibili io in me, ma non posso rassegnarmi a


esserne solamente uno.
André Gide

Chi sono “loro” chi siamo “noi”? L’identità è un problema


fondamentale nella vita dell’uomo, tutti ci chiediamo chi sia-
mo, chi sono gli altri e perché. Nella società contemporanea
assistiamo a un eccesso di identità, a una manipolazione e
strumentalizzazione del fattore cultura, a un’adozione di una
prospettiva culturalistica, finalizzata a legittimare la realtà
sociale nascente.
Sono sempre più numerosi i richiami alle origini e alla pu-
rezza, che sono in realtà proiezioni di un passato mitico usato
e manipolato in funzione di bisogni presenti. Tanto che tramite
la violenza si inventa l’identità. Violenza intesa non solo come
atto di forza fisica, ma anche come imposizione o classificazio-
ne attraverso l’azione politica basata su un rapporto di forza
asimmetrico.
Le élite dominanti creano, modellano e utilizzano categorie
come tradizione, etnicità, cultura, per perseguire determinati
obiettivi politici. Esistono forme di identità indotte dall’alto e
altre che nascono dal basso, ma molto più spesso sono prodotte
dalle classi dominanti. Il recupero e l’invenzione di nuove tradi-
zioni serve a giustificare la leadership di questa classe che deve
creare un suo campo di dominio, sia esso un’etnia, un popolo,
o una nazione. Le identità collettive non si creano con un atto

19
amministrativo, quindi occorre creare un retroterra culturale
che renda partecipi le comunità coinvolte.
Nel mondo della globalizzazione sembra che la paura di essere
uguali agli altri ci porti a creare tante identità chiuse, culture
serrate da recinti invalicabili. Questo tipo di società diventa
un unico grande ghetto sociale nel quale le diverse comunità
etniche che lo vivono, indipendentemente dalla loro ricchezza,
sono ostili e quindi generano conflitti interni.
Tutto questo sembrerebbe in contraddizione con un’analisi
adeguata del mondo contemporaneo, dove i mondi locali si
articolano in riferimento a strutture aperte sulla realtà globale,
producono forme di immaginazione che si fondano sulla rela-
zione fra ambienti diversi e non solo in riferimento al contesto
legato a un’unica dimensione territoriale. È anche nei mondi
“nuovi” creati dall’immaginazione che gli individui riformulano
le proprie identità e le proprie culture. L’immaginazione consiste
nel rappresentare realtà che sono esperite non solo personal-
mente, ma anche da altri. Nel quotidiano questo consiste nel
pensarsi in congiunzione ad altri soggetti aventi lo stesso tipo
di immaginario. È in questo scenario che nascono le comunità
immaginate, gruppi che non sono più legati a un territorio o
a una nazione ma sono creazioni di culture in transito che si
ibridano con l’incontro e lo scontro con il “diverso”.
D’altro canto la nascita in questi ultimi anni di svariati
gruppi identitari, fondamentalisti, chiusi e fortemente legati
al vincolo territoriale, sembrerebbe una risposta al fenomeno
del mescolamento culturale. Questi gruppi, infatti, vivono uno
spaesamento, assistono a una perdita dell’identificabilità e quindi
acutizzano la voglia di identificare.
Diventa un’ossessione: trovare l’origine pura del gruppo
di appartenenza, una lotta di identità, territorio, radici contro
l’ibridazione culturale, il meticciamento.

20
Convivenza nelle metropoli

Nella società attuale l’uso e l’abuso di determinate parole porta


a diversi problemi di comprensione reali. Multietnico, multicul-
turale o interculturale, sono parole con significati complessi che
troppo spesso vengono usate come sinonimi, mentre veicolano
significati tra loro molto differenti. Il multiculturalismo descrive
fenomeni legati alla semplice convivenza di culture diverse, in cui
gruppi sociali di etnia e cultura dissimili occupano uno spazio
opposto e difficilmente si incontrano e dialogano. In questo caso
le culture e le identità culturali vengono considerate come date,
fissate, rigide e non suscettibili di mutamento. Il ritorno in auge
dell’etnicità quale fonte di identificazione collettiva e spinta alle
rivendicazioni, in seno alla modernità e alla globalizzazione, ha
aumentato il multiculturalismo radicale.
L’ideologia e le pratiche multiculturali, (pensando alla società
come un mosaico formato da monoculture omogenee e dai con-
fini ben definiti), hanno, di fatto, aumentato la frammentazione
(e il rischio di forme di apartheid, come possiamo notare nei
fatti degli ultimi anni di via Padova a Milano, di Rosarno o di
Castel Volturno) fra le componenti della società, dimostrandosi
validi strumenti per la costruzione dell’identità nazionale.
Il multiculturalismo, rispondendo a precisi intendimenti
politici, promuove un’ideologia fondata sull’unità territoriale,
sull’autenticità storica e culturale, sulla purezza etnica o raz-
ziale. Seguendo un movimento che può apparire paradossale
il multiculturalismo si rivela, dunque, come il lato oscuro della
monocultura. L’omogeneizzazione nazionale è ottenuta attraver-
so il riconoscimento e l’annullamento integrativo o escludente
della differenza, il limite principale del multiculturalismo (dal
punto di vista epistemologico, morale e politico), è la mancanza
di relazionalità fra le culture che vuole istituzionalizzare: è cieco
(in senso affettivo, cognitivo e morale) di fronte alla cultura
come fatto relazionale.

21
In contrapposizione al multiculturalismo grande importanza
in questo saggio viene data al pensiero “meticcio”, una realtà
fortemente ostacolata, ma che non conosce limiti e freni: si
manifesta senza regole prestabilite, fra incontri e condivisioni
casuali tra persone.
Nella ricerca ho utilizzato un approccio antropologico che
cerca di studiare le molteplici culture, consapevole di avere
un carattere incompiuto e attento ai flussi e alle tensioni più
impercettibili. L’antropologia non mira a proteggere o isolare i
fenomeni che si propone di studiare, è: “un sapere che fa della
molteplicità irriducibile delle soluzioni umane il suo interesse
principale e il suo punto di forza”.1 Un’antropologia dialogica
che cerca di annullare il presupposto indirettamente gerarchico
secondo cui “noi” studiamo “loro” perché noi diversamente da
loro, siamo emancipati dalle “stranezze” della cultura.

Vedere noi stessi come ci vedono gli altri può essere rivelatore.
Vedere che gli altri condividono con noi la medesima natura è
il minimo della decenza. Ma è dalla conquista assai più difficile
di vedere noi stessi tra gli altri, come un esempio locale delle
forme che la vita umana ha assunto localmente, un caso tra i
casi, un mondo tra i mondi, che deriva quella apertura mentale
senza la quale l’oggettività è autoincensamento e la tolleranza
mistificazione.2

Nel mondo globalizzato è sempre più chiaro che è impossibile


pensarsi rinchiusi in una sola cultura. Per questo mi è sembrato
importante definire il significato che diamo al concetto di cultura.

1
F. Remotti, Contro natura, una lettera al Papa, Laterza, Bari 2008. “L’an-
tropologo non è per nulla concentrato sulla propria identità, ma è rivolto verso
l’esterno, attirato dall’aria aperta, dalle larghe vedute. Egli non cerca affatto
di raggiungere una conoscenza dell’io; al contrario, si dirige metodicamente
verso una comprensione del non-io.”
2
C. Geertz, Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1987.

22
Comunicando tra loro, gli esseri umani “inventano” una cultura,
nel senso che questa si configura come il risultato dell’accordo
sempre rinegoziabile di individui che scambiano determinati
significati. Quindi “la” cultura viene da me letta come prodotto
dell’interazione comunicativa tra esseri umani, un qualcosa che
è continuamente sottoposto a processi di contaminazione da
parte di altre culture.
Viviamo in un continuo transito temporale nel quale con-
vivono molteplici culture che si mescolano e che rendono
sempre più incerte le identità culturali, nazionali, storiche.
Ciò che viene definito perdita di riferimenti identitari deve
essere salutato più che altro come riscoperta dell’inquietudine
e della ricchezza del diverso; la disgregazione contemporanea

23
delle identità e delle rappresentazioni ci dovrebbe aiutare ad
ammettere che esiste il non rappresentato, il non identitario,
il non analizzabile.
Nel “meticcio”, nel pensiero transculturale, ogni differenza
non allude a privilegi né ad alcuna discriminazione. La tran-
scultura esige che gli uomini, migranti o meno, godano delle
medesime “universali” possibilità e scelgano privi di vincoli
comunitari, dove, come e quando vivere. Ogni persona ha il
diritto di essere valorizzata nella sua unicità e irrepetibilità, nella
sua continua trasformazione, nella sua continua negazione di
purezza originaria.
Parlo di un mondo che sappia accogliere, ascoltare e ca-
pire le differenze e che tali differenze siano la ricchezza della
società. Non si deve assolutizzare l’identità culturale, ma fare
in modo che le diverse espressioni identitarie siano filtrate
alla luce della libertà e dell’autonomia propria e di ogni altro
essere umano.
Quindi un mondo aperto, senza muri e pregiudizi, pronto
al mescolamento culturale per un divenire trasnazionale,
“un’ecumene globale” con al suo interno una miriade di
culture differenti pronte al cambiamento, all’ascolto e all’in-
contro. La creazione di una relazione sociale tesa a soddisfare
un’esigenza, un interesse, dove sia importante accettare di
trasformarsi nell’interazione egualitaria con gli altri e prevedere
la possibilità di diventare una persona anche molto differente
da quella originaria.
Un saggio che vuole smantellare le falsità del bombardamento
mediatico antimigranti. Un lavoro costruito grazie alle conver-
sazioni tenute con i migranti in varie città del nord Italia, inda-
gando le possibili modalità di convivenza nelle metropoli. Una
ricerca antropologica che parla di migranti, lavoratori, precari,
sfruttati che vivono con noi e che troppo spesso non vogliamo
ascoltare. Interviste che raccontano in prima persona donne e
uomini, protagonisti diretti che documentano la complessità

24
del quotidiano, tracciando uno spaccato del reale vissuto sulla
propria pelle. Un’indagine per conoscere meglio come vivono,
lavorano e quali forme di socialità sperimentano i migranti che
cercano di sopravvivere nelle “nostre” città e per far emergere
l’attualità e l’importanza di un antirazzismo che sia meticcio.

25
Il mondo meticcio

Il tuo cristo è ebreo. La tua macchina è giapponese. La tua pizza


è italiana. La tua democrazia greca. Il tuo caffè brasiliano. La
tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino.
Solo il tuo vicino è uno straniero.
Da un manifesto tedesco degli anni novanta1

Questo slogan con cui ho deciso di iniziare fotografa appieno


l’allora e l’attuale scenario mondiale. Il cosiddetto fenomeno
della globalizzazione ha portato con sé diversi mutamenti, non
solo sul piano economico, politico, ma anche e soprattutto per
ciò che concerne l’aspetto sociale e culturale. Mutamenti che
per la loro portata rendono difficile continuare ad appellarsi
al ritorno di situazioni che si potrebbero definire pure, una
purezza mai esistita. Grazie alla mobilità internazionale e quindi
alle maggiori possibilità di raggiungere in poco tempo parti
diverse del globo e grazie alla naturale propensione dell’uomo
a viaggiare con il proprio inseparabile bagaglio culturale, oggi
le nostre società sono sempre più, nolenti o volenti, comunità
meticce.
Questa ricerca nasce dalla volontà di analizzare il meticciato
come paradigma per affrontare lo studio delle comunità umane,

1
Citato in M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004.

27
un paradigma che invece di porre l’accento sulle differenze tra le
culture vuole mettere in evidenza le contiguità. Anziché pensare
a una genesi di società e culture separate, cerchiamo di immagi-
nare un meticciato originale, formato da “catene di società”, in
contatto tra di loro e protagoniste di scambi culturali continui.

Abbiamo sempre studiato le diverse civiltà del passato come


entità a sé stanti, con origini diverse e sviluppi originali.
In pratica, invece di porre l’accento sulle differenze tra le
culture, evidenziamone le somiglianze e scopriremo che in
realtà ogni cultura, del passato e del presente, ha costruito la
sua specificità proprio connettendosi ad altre culture. Siamo
abituati a pensare la cultura greca come la madre della civiltà
occidentale, ma proviamo, rileggendo la storia in termini
di connessioni, a scollegarla dalla sua filiazione occidenta-
le. Riconnettendo la cultura greca e il suo “miracolo” con
l’Egitto e quindi con l’Africa nera, diventa possibile effettuare
una salutare opera di decostruzione, poiché rende possibile
rimescolare le carte e fare un nuovo giro. Deconnettere le
civiltà dalle loro origini supposte è, forse, il modo migliore
di sfuggire al razzismo.2

Non esiste una cultura originariamente pura, che a un certo


punto incontra altre culture e da origine a un fenomeno impuro.
Qualsiasi cultura e società è sin dalla nascita ibridata, e quindi la
creolizzazione a sua volta è il prodotto di entità già mescolate,
che rendono impossibile l’idea di purezza.
Sto parlando di un sincretismo originario che sta alla base
di ogni cultura e società.
L’impatto di una cultura nuova su una autoctona non consi-
ste in una azione di rigetto, ma in un confronto che fa sì che la

Intervista di Marco Aime a Jean-Loup Amselle, “La Stampa”, 14 luglio


2

2001.

28
civilizzazione “invasa” selezioni elementi della nuova cultura,
rielaborandoli e facendoli propri.
È importante ricordare che le differenze fra culture e co-
munità sono aumentate in modo vertiginoso con l’esperienza
del colonialismo, che ha creato per primo differenziazioni e
separazioni tra società che non avevano mai interiorizzato nella
loro cultura tali differenze rispetto ad altri gruppi.
Sappiamo bene che l’incontro con l’altro è l’incontro con
la differenza, con la diversità; ciascuno vede il mondo in modo
diverso, da una sua particolare angolatura, cioè dal soggettivo
punto di vista che ogni persona sviluppa a partire dalla propria
esperienza. Il problema della comprensione dell’altro è un pro-
blema che riguarda l’interpretazione dell’alterità:3 l’identità ha
bisogno, si nutre e si fonda rispetto all’alterità nella sua auto
ed etero definizione.4

La sufficienza identitaria e rappresentazionale è refrattaria


all’alterità. Contrariamente a ciò che può sorgere dal meticcio,
che è sempre imprevedibile, nella logica identitaria e rappre-
sentazionale sappiamo sempre ciò che sta per accadere: si
farà di tutto per riassorbire e annullare l’alterità, neutralizzare
l’insolito, negare lo stupore che suppongono l’incontro e la
trasformazione nata da questo incontro.5

Gli uomini si attraggono e si legano gli uni agli altri, ma con


legami complessi “perché l’assimilazione mette in contatto
uomini con esperienze diverse: nessun uomo che ha la stessa
esperienza di un altro: sarebbe lo stesso uomo”.6

3
L. Piasere, L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia,
Laterza, Bari 2006.
4
F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Bari 1996.
5
F. Laplantine, Identità e mètissage. Umani al di là delle appartenenze,
elèuthera, Milano 2004, p. 116.
6
L. Piasere, L’etnografo imperfetto, cit.

29
L’identità può essere considerata da due punti di vista: se
da un lato dà una visione particolare del mondo, aiutandoci a
interpretarlo più facilmente e semplicemente, con l’illusione
di controllare e comprendere la sua complessità e le sue con-
traddizioni, d’altro canto impedisce di comprendere le ragioni
degli altri, fino a diventare una pesante maschera rispetto al
vero incontro con l’alterità, che conduce spesso all’intolleranza
e al razzismo.
Mirando a considerare l’identità culturale fissata e data per
sempre, si cade nell’errore di non realizzare che in realtà proprio
l’identità è il risultato di un continuo processo di costruzione
sociale, politica e culturale, un’entità in perenne evoluzione e
trasformazione. Le identità etniche sono in perpetua costruzione,
prodotti storici, mentre l’antropologia classica le ha considerate
e spesso le considera tuttora oggetti finiti, chiusi, monolitici.

L’identità allora, non inerisce all’essenza di un oggetto; dipende


invece dalle nostre decisioni. L’identità è un fatto di decisio-
ni, occorrerà abbandonare la visione essenzialista e fissista
dell’identità, per adottarne una di tipo convenzionalistico [...]
detto in altri termini, l’identità viene sempre in qualche modo,
“costruita” o “inventata”.7

Una constatazione, che potrebbe essere utile per ridimensionare


le spinte identitarie attraverso cui alcune culture rivendicano
differenze assolute e insanabili con il resto del mondo. È ne-
cessario aumentare la consapevolezza che queste identità non
sono perfettamente chiuse e autonome ma costruzioni e finzioni
sempre in movimento e suscettibili di cambiamento.

Le identità sono inscritte in un processo storico continuo e sono


in continuo mutamento. Spesso però alla base di tali mutazioni

7
F. Remotti, Contro l’identità, cit.

30
ci sono rapporti di forza, ma gli attori sono sempre pronti a
riappropriarsi dell’identità che vogliono darsi.8

L’identità per l’essere umano è ineliminabile, è la condizione


per la comunicazione, per l’evoluzione, per il cambiamento.
L’identità però va gestita, va diffusa, moltiplicata. Bisogna as-
sumere un’identità, in qualsiasi modo cerchiamo di comunicare
siamo già coinvolti nella costruzione di identità, individuali e
collettive, l’importante è non farle cristallizzare, tenerle con
confini aperti pronti con l’incontro di culture “altre”.
Il fatto che le culture siano in movimento rappresenta da
sempre una costante del modo umano di abitare il mondo:
nessuna civiltà è pensabile senza mettere in conto un processo
articolato di contatto e compenetrazione tra popoli diversi,
avvenuto nel corso di millenni di migrazioni.
Una cultura non è un blocco omogeneo e inalterabile nel
tempo, bensì un organismo vivente che storicamente interagisce
con il suo ambiente, venendo a contatto con altre culture.9 In
questo senso, non si può fare cultura senza tentare di costruire
un nesso tra la propria esperienza e quella degli altri. Ciò non
significa che questo collegamento sia indolore o che sia sempre
possibile: talvolta, può accadere che due culture si mescolino
solo entrando in conflitto, oppure può accadere che non si
mescolino affatto, forse perché il conflitto è tale da separarle
irrimediabilmente.

Il mondo postmoderno

La fine della pretesa di dare un senso unitario alla realtà com-


porta quindi il manifestarsi, nel periodo postmoderno, della

J.-L. Amselle, Logiche meticce, cit.


8

G. Polizzi, M. Serres. Per una filosofia dei corpi miscelati, Liguori, Napoli
9

1990.

31
diversità dei sensi, una diversità che è irriducibile, non può
venir in alcun modo negata da un qualsiasi principio unifica-
tore. Ogni ambito della realtà è dotato di un certo senso, ogni
tentativo di edificare un senso unitario è solo apparenza. La
realtà è differenza, molteplicità irriducibile, mutamento non
ingabbiabile entro un unico schema.
P.C.

Le trasformazioni culturali e sociali del mondo postmoderno si


intrecciano con i due fattori principali del fenomeno meticcio:
i movimenti migratori e le innovazioni tecnologiche, che come
conseguenza immediata portano una crescita della mobilità
fisica e sociale.
Grazie a un aumento del flusso migratorio si sta crean-
do sempre più un contatto intensificato tra culture che sta
indebolendo il fondamento fantasioso un tempo rassicuran-
te delle immagini “noi-loro”, trasformando la concezione
dell’identità e determinando nuovi tipi di rapporto con se
stessi e con gli altri.
Oggi la realtà è fatta di lavoratori turchi emigrati in Germa-
nia, che guardano film turchi nei loro appartamenti tedeschi, di
filippini appassionati di canzoni americane d’epoca che ripro-
pongono in versioni più autentiche degli originali, nonostante
la loro vita non sia affatto sincronizzata con quella degli Stati
Uniti. Questi esempi ci aiutano a capire che la globalizzazione ha
prodotto una frattura tra il luogo di produzione di una cultura
e quello o quelli della sua fruizione.10 L’immaginazione, grazie
alla sempre maggiore rapidità e onnipresenza dei mass media,
è divenuta un fatto collettivo e si è trasformata in un campo
organizzato di pratiche sociali. Ne consegue una frammenta-
zione di universi culturali che mette in crisi ogni paradigma
tradizionale delle scienze sociali. I panorami sociali, etnici,
10
A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001 e A. Appadurai
Sicuri da morire, Meltemi, Roma 2005.

32
culturali, politici ed economici si fanno sempre più confusi
e sovrapposti, le linee di confine spezzettate e irregolari. Ma
soprattutto questi panorami, attraversati da continui flussi
culturali globali, si riflettono l’uno nell’altro dando vita a un
caleidoscopio mutevole e sempre nuovo.11
Nelle nostre vite la propaganda del messaggio mediatico è
devastante, il termine propaganda, gerundivo del verbo propa-
gare, diffondere, far conoscere, letteralmente si traduce “le cose
che devono essere diffuse, che devono essere fatte conoscere”.
Televisione e stampa detengono l’enorme potere di orientare
gli spettatori o i lettori nella complessità del mondo.
I media, soprattutto quelli elettronici, sono in grado, almeno
in parte, di determinare l’immagine che un certo gruppo umano
si crea della propria cultura e della cultura dell’altro. Eppure
non sempre questa potenzialità permette che culture diverse si
incontrino in modo pacifico: l’invasione di informazioni rende
incerti i confini tra “noi” e “loro”, e troppo spesso a questa
incertezza si tenta di rimediare con la violenza.
I mezzi d’informazione di massa, televisioni, radio, web e
giornali sono:

capaci non solo di comunicare istantaneamente la paura a un


numero enorme di persone, ma anche di alimentarla e in alcuni
casi di crearla [...] dicerie, leggende metropolitane, pregiudizi
e paure circolanti nelle società locali possono diventare, per
effetto dell’informazione di massa, prima risorse simboliche e
poi verità sociali oggettive.12

I media parlano di migranti come un nemico pubblico ideale


per ogni tipo di rivendicazione di “identità”, nazionale, locale
o settoriale. Per il patriottismo urbano o di quartiere sono
11
M. Aime, Eccessi di culture, cit.
12
A. Dal Lago, Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale,
Feltrinelli, Milano 1999, p. 65.

33
criminali che minacciano la sicurezza della vita quotidiana. Per
il patriottismo regionale o cantonale, alieni che intorbidano la
purezza etnica. Per quello nazionale, stranieri che minano la
compattezza della società. Per il patriottismo di classe, “pa-
rassiti” o “abusivi” che sottraggono alla classe operaia le sue
conquiste, un lumpenproletariat che compete con i nazionali
nel mercato del lavoro o sottrae loro gli ultimi benefici elargiti
dallo stato sociale. È quasi superfluo aggiungere che si tratta
di nemici simbolici e strutturali, necessari per la formazione di
identità, di quel “noi” che oggi si esige da destra e da sinistra.13
Questa “megamacchina” del messaggio, dell’informazione
crea nuove forme di sovranità, dominio, controllo e molteplicità.
La produzione di nuove soggettività, la tendenza alla diversi-
ficazione che si crea durante il fenomeno meticcio sono una
risorsa contro queste forme di dominio mediatico. L’altro lato
della medaglia è che questo processo di spaesamento prodotto
dalla mutazione tecnologica, economica e mediatica, porta al
panico e di conseguenza al bisogno di identificazione in piccole
comunità chiuse e regressive.
Se per Geertz e Thompson “l’uomo è sospeso in una rete
di significati” e “i mezzi di comunicazione sono i filatoi del
mondo moderno”, le migrazioni e le tecnologie sempre più
transnazionali hanno reso l’alterità più vicina, creando for-
me nuove di rappresentazione e di interazione sociale che
non presuppongono più la condivisione dello stesso contesto
spazio-temporale.
I migranti del nuovo millennio si possono definire attraverso
l’immagine del “tessitore”, cioè colui che per l’appunto vive di
legami con coloro che incontra sul suo cammino, praticando
ponti e vie tra spazi radicalmente diversi,14 rinegoziano la loro
cultura di origine, in altre parole diventano dei meticci. La

13
Ivi, p. 11.
14
G. Polizzi, M. Serres. Per una filosofia dei corpi miscelati, cit.

34
parola meticcio prende forma nell’ambito della biologia per
disegnare gli incroci genetici e la produzione di fenotipi, ossia
di fenomeni fisici e cromatici che serviranno come supporto
all’esclusione.
La prima questione posta dal meticciato è quella dello spo-
stamento e dell’estensione di questa nozione al di fuori della
disciplina nella quale si è costituita. Il meticciamento non è mai
soltanto biologico, è il rifiuto dei valori egemonici dominanti
di identità e stabilità. È importante chiarire da un punto di
vista terminologico il significato che vogliamo dare alla parola
meticciato.

Il meticciato, se malinteso, implicherebbe l’esistenza di due


individui originariamente “puri” o, più in generale, di uno
stato iniziale (razziale, sociale, culturale, linguistico), di un
insieme omogeneo, che a un certo punto avrebbe incontrato
un altro insieme, dando così luogo a un fenomeno “impuro” o
“eterogeneo”. Il meticciato invece si contrappone alla polarità
omogeneo/eterogeneo. Si presenta come una terza via tra la
fusione totalizzante dell’omogeneo e la frammentazione diffe-
renzialista dell’eterogeneo. Il meticciato è una composizione le
cui componenti mantengono la propria integrità. Basti questo
a esprimere tutta la sua pertinenza politica nei dibattiti sociali
odierni (razzismo, integrazione, nazionalità ecc.).15

Il meticciato non è una fusione, coesione o un osmosi è un con-


fronto fra tanti è il dialogo. Da sempre la storia umana è fatta
di mescolanze, di culture che migrano, cambiano e rimangono
sempre in viaggio.

La storia del Mediterraneo, questo crogiolo culturale che sa-


rebbe stato la culla dell’Europa, è la storia di parecchi millenni

15
F. Laplantine, A. Nouss, Il pensiero meticcio, elèuthera, Milano 2006.

35
di migrazioni, sotto forma di invasioni, conquiste, scontri,
persecuzioni, massacri, saccheggi e deportazioni, ma anche di
scambi, confronti, trasformazioni reciproche di popoli, persino
durante i conflitti.16

La differenza, rispetto al passato, è che oggi il fenomeno delle


migrazioni ha assunto proporzioni planetarie. L’accelerazione
e l’espansione dei flussi migratori ha come effetto la globaliz-
zazione degli incontri-scontri tra le culture. Questo primo fatto
richiede uno sforzo di analisi, dal momento che rappresenta la
congiuntura epocale che determina la specificità dei processi
di meticciato con cui oggi abbiamo a che fare.
I movimenti migratori, creando continue interconnessioni e
sincretismi fra culture, rendono sempre più difficile delimitare i
confini di una comunità, fino al punto di chiedersi cosa si debba
intendere oggi per comunità.
I mondi locali si articolano in riferimento a strutture aperte
sulla realtà globale, producono forme di immaginazione che
si fondano sulla relazione fra contesti diversi e non solo in
riferimento al contesto legato a un’unica dimensione territo-
riale. È anche nei mondi “nuovi” creati dall’immaginazione
che gli individui riformulano le proprie identità e le proprie
culture. L’immaginazione consiste nel rappresentare realtà che
sono esperite non solo personalmente, ma anche da altri, nel
quotidiano questo consiste nel pensarsi in congiunzione ad
altri soggetti aventi lo stesso tipo di immaginario. Da questo
contesto nascono entità nuove, delle comunità immaginate. Il
fatto che dobbiamo prendere in considerazione la dimensione
dell’immaginario significa che non possiamo più limitarci ad
analisi che hanno come riferimento dei territori ben definiti.
La creazione di identità culturale non è più costruita solamente
da persone che abitano lo stesso territorio; gli uomini circolano

16
Ibidem.

36
sempre più nel mondo globalizzato con i propri significati, i
significati con il tempo trovano modo di circolare anche senza
chi li aveva fatti migrare e i territori cessano di essere i conte-
nitori privilegiati delle culture. Si crea un’immagine di cultura
che non da per scontato il vincolo con territori e popolazioni
particolari, bensì prevede come punto di partenza un mondo più
aperto, interconnesso. La deterritorializzazione costituisce una
delle forze più potenti del mondo contemporaneo, in quanto
coincide con lo spostamento e la dispersione di masse di indi-
vidui che elaborano concezioni particolari della loro esistenza
e sentimenti di appartenenza e di esclusione nei confronti sia
della nuova dimora sia della patria originaria, per questo l’im-
maginario di individui e gruppi non fa più riferimento a un
luogo, a un territorio come punto di ancoraggio della propria
esperienza e identità.
Globalizzazione, migrazioni e media hanno alimentato la
cosiddetta deterritorializzazione culturale e fomentato il mondo
meticcio nel quale viviamo. Le logiche identitarie si sviluppano
per stadi in continua costruzione e in relazione con l’esterno,
le categorie etniche sono già originariamente ibride, hanno il
carattere labile e flessibile che permette di selezionare, deco-
struire e ricostruire il rapporto con l’alterità.
Il meticcio “tesse” nella propria carne e nel proprio sangue
l’incontro di due culture. Questo vuol dire anche un modo nuovo
di intendere l’interculturalità: non più come uno spazio vuoto
e asettico, costruito artificialmente per tentare una mediazione
tra due universi culturali supposti incomunicabili, ma come
l’evento di un incontro trasformante di due identità aperte, in
costante ricerca l’una dell’altra.
Gli uomini e le donne che si spostano sono i protagonisti
del meticciato: sono coloro che ne pagano il prezzo. Il migrante
è sempre un soggetto “spaesato”, perché deve affrontare una
realtà diversa e non sempre ospitale. Al contempo, chi migra
turba l’idea di cultura chiusa e omogenea che è il sintomo di

37
quel bisogno di essere identici che spesso ci spinge a voler
“addomesticare” a tutti i costi l’altro.
Tutte le società producono stranieri: ma ognuna ne produce
un tipo particolare, secondo modalità uniche e irripetibili, si
definisce straniero chi non si adatta alle mappe cognitive, morali
o estetiche del mondo e con la sua semplice presenza rende
opaco ciò che dovrebbe essere trasparente.17 Queste parole
mettono in evidenza il processo di produzione dello straniero
come individuo che oltrepassa quei confini che abbiamo creato
e che talvolta mal sopportiamo. Nella società in cui viviamo ci
sono molti gruppi umani che hanno una pulsione contraria a
quella del meticcio, si riconoscono come identici, identificabili,
si sentono appartenenti a una comunità che può essere religiosa,
etnica o linguistica che si fonda su una fatidica origine pura.
D’altro canto la nascita in questi ultimi anni di svariati
gruppi identitari, fondamentalisti, chiusi e fortemente legati al
vincolo territoriale, sembrerebbe una risposta al fenomeno del
meticciato, in quanto questi gruppi vivono uno spaesamento,
assistono a una perdita dell’identificabilità e quindi acutizzano
la voglia di identificare.
Diventa una vera e propria ossessione: trovare l’origine pura
del gruppo di appartenenza, una lotta di identità, territorio,
origine contro l’ibridazione culturale.

Quanto più viene affermata la consistenza dell’identità, tanto


più il pensiero è inconsistente. È una nozione di grande povertà
epistemologica, ma in compenso di grande efficacia ideologica
[...] il pensiero identitario è un pensiero dogmatico, un pen-
siero dell’affermazione che non permette la critica né dei suoi
propri enunciati, né degli enunciati altrui. Utilizzato dagli uni
come mezzo di rivendicazione e dagli altri come strumento di

17
Z. Bauman, La società dell’incertezza, p. 55, in M. Aime, Eccessi di
culture, cit., p. 73.

38
indagine, esso consiste nella riproduzione di ciò che distingue
e particolarizza.18

Che il pensiero meticcio sia un tema fondamentale nella con-


temporaneità è confermato dall’enfasi con cui viene contrastato
da politici e religiosi. La chiesa cattolica ricerca l’assoluto e un
modello di vita universale, il meticcio si accontenta del relativo
e naviga nelle differenze. Su questo tema è significativo il testo
che segue tratto da un’intervista al vescovo Rino Fisichella:

Il senatore Pera, ha parlato come un cristiano, la nostra identità


è più debole, il presidente del Senato Pera fa bene a difenderla.
Come altre volte il presidente Pera ha individuato alcuni nodi
che appartengono al nostro frangente storico e lo ha fatto con
una lucidità e una responsabilità che obbligano a riflettere.
Le sue proposte sono di carattere culturale e toccano l’iden-
tità dell’Italia e dell’Europa, le radici della nostra civiltà. È
per questo motivo che mi sento di intervenire e intervengo a
difesa, perché le obiezioni che gli si fanno mi paiono sfocate
o strumentali.19

È il commento di partenza del vescovo Rino Fisichella, rettore


dell’Università lateranense e cappellano di Montecitorio, alla
disputa sul discorso tenuto nel 2005 a Rimini durante il meeting
di Comunione e liberazione dall’ex presidente del Senato.
Tanti accusano Pera di muoversi in direzione opposta rispetto
al dialogo con l’islam riaffermato dal Papa a Colonia.

Non è affatto vero che egli rifiuti il dialogo, come non lo rifiuto
io! Non l’ho mai sentito affermare una cosa simile, in tante
occasioni in cui l’ho ascoltato. Parla di difesa della propria

18
F. Laplantine, Identità e mètissage, cit., p. 17.
19
L. Accattoli, Meticciato, ha parlato come un cristiano, “Corriere della
Sera”, 25 agosto 2005.

39
identità nel rispetto dell’identità altrui e questo è precisamente
il dialogo!
Ha parlato contro il meticciato dei popoli e delle civiltà: lei, da
cristiano, che ne pensa?
Il meticciato non appartiene al cristianesimo perché vuol dire
ibridismo, mentre il cristianesimo fornisce a chi l’accoglie
un’identità ben precisa.
Ma non è stato il cardinale Scola a parlare di meticciato di civiltà?
Ne ha parlato, ma poi ha corretto i suoi interpreti. Se il cristia-
nesimo fosse stato favorevole alle ibridazioni culturali allora
i primi discepoli non si sarebbero chiamati “cristiani”, come
invece fecero fin dall’inizio, secondo il racconto degli Atti
degli apostoli. Si sono chiamati cristiani perché si sono fatti
conoscere per ciò che erano.
Chi parla di meticciato pensa a ciò che avvenne con le invasioni
barbariche, quando i cristiani non rifiutarono la contaminazione
e scelsero di passare ai barbari...
Ma la nostra situazione è incomparabile. Allora non c’erano,
l’una di fronte all’altra, due religioni universali come sono il
cristianesimo e l’islam.
Allora il cristianesimo aveva di fronte a sé delle stirpi pagane
alle quali poté adattarsi riuscendo a trasformarne la cultura,
ma con l’islam ciò non è possibile.
Il meticciato è stato creativo in tante altre occasioni e come si
può escludere che possa esserlo oggi?
Viviamo un momento debole per la nostra identità culturale e
dunque dovremmo dare priorità al suo rafforzamento, piutto-
sto che lasciarci prendere dall’ansia di sperimentazioni aperte
a sbocchi ulteriori. Nel presidente Pera apprezzo l’impegno a
condurre una lucida difesa della nostra identità, avvertendone
la necessità dopo la rottura costituita dall’attacco dell’11 set-
tembre.20

20
Ibidem.

40
È interessante leggere le parole del vescovo Fisichella in accordo
con un politico per dimostrare quanto sia attuale e importante
capire e vivere il fenomeno meticcio che si oppone alle forti
chiusure identitarie che ci circondano. È evidente che il vescovo
Fisichella commette un errore ad affermare che il cristianesimo
è un prodotto culturale puro e soprattutto che fornisce ai suoi
fedeli un’identità precisa.
Viviamo in una realtà in continua trasformazione, a tal pun-
to che identità e rappresentazione appaiono come nozioni
epistemologicamente povere, falsamente realiste, e per di più,
politicamente reazionarie.
Il crogiolo mediterraneo, in cui si sono formate le tre grandi
religioni monoteiste, è stato il luogo dell’incontro continuo fra
oriente e occidente, dell’incontro stretto fra culture più disparate.
Il meticciato implica la mobilità, l’antimeticciato deriva dalla
sedentarietà e dalla stabilizzazione, è principalmente urbano e le
grandi città mediterranee hanno esercitato a modo loro un ruolo
di mediazione fra orizzonti culturali estremamente diversificati.
La nozione di purezza nazionale, anzi di eurocentrismo, che
si affanna in tutti i modi a proteggersi dalle minacce “alloge-
ne”, non ha alcun senso. Questa fantomatica purezza risulta
essere in contraddizione con la storia meticcia d’Europa. La
nostra epoca di incertezza identitaria, di perdita dell’identità
potrebbe essere il momento migliore per spazzare via questi
due dinosauri concettuali, retaggio della metafisica platoni-
ca e medievale e così riscoprire la ricchezza della diversità,
dell’incontro con l’altro.
Il meticcio è un modo per contrastare i pericoli degli estremi-
smi che derivano dal rifiuto o dall’inclusione forzata: le ideologie
totalitarie, i settarismi identitari e le crociate securitarie, che mai
come oggi riprendono vigore in tutta Europa e soprattutto in
Italia. Si dovrebbe parlare di una epistemologia dell’incontro
e non come dichiara il vescovo Fisichella “rafforzare le distinte
identità, creare muri sempre più alti”:

41
Viviamo un momento debole per la nostra identità culturale e
dunque dovremmo dare priorità al suo rafforzamento, piuttosto
che lasciarci prendere dall’ansia di sperimentazioni aperte a
sbocchi ulteriori.

È importante considerarsi umani al di là delle appartenenze,


non dobbiamo pensare all’identità, ma all’alterità, l’importante
è l’essere altro, è il divenire altro. Il pensiero meticcio è cer-
tamente un pensiero della mediazione che si gioca negli spazi
intermedi, negli intervalli e a partire dagli incroci e dagli scam-
bi, è un pensiero della tensione, cioè un pensiero decisamente
temporale, che si evolve attraverso le lingue, i generi, le culture,
i continenti, le epoche, le storie e le storie di vita.
Non è un pensiero della sorgente, ma un pensiero della
molteplicità nato dall’incontro,21 diretto verso un orizzonte
imprevedibile che permette di restituire tutta la sua dignità al
divenire.
Come scrive Gilles Deleuze, “il meticcio non è il punto ma
la frase”, esso è il divenire più che l’avvenire e richiede di essere
pensato in se stesso, nella propria incompiutezza.
Il meticcio è imperfetto, incompiuto, insoddisfatto, rimanda
sempre all’avventura di una migrazione, alle trasformazioni di
un’attività di tessitura e di intreccio che non può arrestarsi.
Non può mai essere usato come risposta, poiché essa stessa è la
domanda che turba l’individuo, la lingua, la società, nella loro
tendenza alla stabilizzazione.22
La chiesa cattolica e più in generale i grandi monoteismi
hanno una forte caratterizzazione di chiusura identitaria, il
monoteismo, è chiuso, compatto, duro, incorruttibile, program-
maticamente avverso all’alterità e quindi all’alterazione di sé.

Un’identità “armata”, irrigidita, assolutizzata qui esemplificata

21
F. Laplantine, A. Nouss, Il pensiero meticcio, cit.
22
Ibidem.

42
dal monoteismo, evoca discriminazioni, lacerazioni e violenze
particolarmente acute [...] un’identità impavida e avanzante,
armata di spade e fucili, ma anche di simboli di identità (co-
me la croce) e di testi scritti, in cui la verità risulta fissata per
sempre e per tutti.23

Il monoteismo è uno strumento efficiente per costruire, mante-


nere, affermare l’identità, distingue e separa nettamente “noi” da
gli “altri” e anziché collocare “noi” in mezzo agli “altri”posiziona
il noi a parte, come un’unità assoluta.
I monoteismi hanno una forsennata sete di identità, un
implacabile desiderio di unità, un incrollabile convincimento
di universalismo hanno segnato questa storia e tuttora segnano
un presente in cui i monoteismi più importanti si combattono
e offrono buoni motivi per conflitti futuri.24
Non è difficile capire perché la chiesa abbia così paura di
un pensiero meticcio, del divenire, dell’instabile, del perché la
chiesa abbia una gran voglia di stabilità:

...il desiderio di stabilità, di una grande e definitiva stabilità.


Essa è la paura dell’instabilità, degli scricchioli dei propri troni,
dei piedistalli delle proprie idee, delle proprie convinzioni e del
proprio potere. È il ricorso forsennato, direi quasi disperato,
ai grandi fattori di stabilizzazione.25

Non è una novità questo odio per il meticciato da parte della


chiesa cattolica, perché come ben ricordiamo solamente con
la disgregazione del meticciato andaluso, con la politica voluta
dalla Riconquista cattolica si cominciarono a opporre le due
sponde del mediterraneo, l’occidente e gli altri.

23
F. Remotti, Contro l’identità, cit.
24
Ibidem.
25
F. Remotti, Contro natura, una lettera al Papa, cit.

43
Multiculturalità, interculturalità, modello meticcio

Siamo tutti meticci. Siamo tutti diversi. Ologrammi di popoli


migranti che da millenni entrano in contatto si mescolano e
generano cambiamenti.
Noi, l’Altro siamo frammenti unici e irripetibili di un’unica
realtà. Frutto di connessioni invisibili, di contaminazioni pro-
vocate dall’incontro e dal confronto tra popoli, tra persone.
Alla base di tutto c’è proprio il meticciato, l’indefinitezza
dell’origine. E dentro questa mutua interrelazione di tutte le
cose e di tutti gli eventi, noi siamo storie in cammino, legati
da un comune destino.
Cettina Capizzi

La società attuale è spesso definita multietnica, multiculturale


o interculturale.
Possiamo individuare diversi tipi di società multietnica, in
base agli atteggiamenti e alle azioni degli attori individuali e
collettivi che operano all’interno di un determinato contesto.
Non possiamo sostenere l’esistenza di una sola modalità di mul-
ticulturalismo, inteso come strategia politica di gestione delle
relazioni interetniche, in quanto si declina secondo molteplici
espressioni.
Spesso si sente parlare indifferentemente di interculturalismo
e multiculturalismo, ma a questi termini corrispondono due
filosofie di pensiero differenti.
L’interculturalismo auspica che in una società multietnica
prevalgano atteggiamenti e comportamenti di conoscenza e
scambio reciproco, al suo interno le diverse culture hanno pari
dignità e sono uguali tra di loro. Le culture vengono riconosciute
e valorizzate nel reciproco confronto continuo.
Non dovrebbero esistere culture superiori o inferiori ma cul-
ture differenti tra loro, l’interculturalismo esprime un culto della
differenza, concepisce le culture come un valore da proteggere,

44
vengono valorizzati i contenuti identitari non aggressivi, come la
lingua, le tradizioni e il folklore. Cerca di creare una differenza
che si produca nell’uguaglianza senza la necessità di negazione
dell’altro, a qualsiasi cultura garantisce diritto di esistere, ma
persiste l’idea della comunità come culla di benessere e di sal-
vaguardia identitaria.
Per migrare però occorre essere disponibili a rompere i propri
legami con la comunità di origine e pronti a una rinegoziazione
con le comunità di arrivo.
Il termine multiculturalismo descrive fenomeni legati alla
semplice convivenza di culture diverse in cui gruppi sociali di
etnia e cultura differenti occupano uno spazio diverso e diffi-
cilmente si incontrano e dialogano. In questo caso le culture
e le identità culturali vengono considerate come date fissate,
rigide e non suscettibili di mutamento, e il ritorno in auge
dell’etnicità quale fonte di identificazione collettiva e spinta alle
rivendicazioni, in seno alla modernità e alla globalizzazione, ha
aumentato il multiculturalismo radicale.

Le ingenue posizioni dei sostenitori della società multietnica,


cioè una pratica debole che vuole controllare varie comunità
all’interno della società senza che queste in definitiva vengano
a fondersi, legittimano il razzismo differenzialista, che camuffa
la propria pericolosità dietro al rispetto delle differenze, e
vuole la codificazione di culture che invece hanno da sempre
avuto degli scambi, delle contaminazioni, dei mescolamenti.26

Alcune forme di multiculturalismo si richiamano a concezioni


naturalistiche e essenzialistiche della cultura e dell’identità; così
un individuo sarebbe sempre immerso in una sola cultura e
possederebbe una sola identità culturale che si situa all’interno

26
M. Tibaldi, Metix Babel Felix. Meticciamento, passing, divenire e conflitto,
Kappa Vu, Udine 2007.

45
di un universo sociale diviso in culture coerenti e distinte di cui
sono portatori specifici gruppi sociali con una forte omogeneità
interna (come minoranze e gruppi etnici) che convivono con
“l’alterità”, con difficoltà tanto maggiore quanto è più sensibile
la differenza, la distanza culturale che li divide. Nella società
multiculturale:

Non solo non viene mai riconosciuto che la cultura del migrante
tende a diventare un ibrido ma, soprattutto si nasconde che non
può esserci parità fra la presunta cultura del migrante e quella
del paese di immigrazione, in quanto si tratta ovviamente, di
un rapporto totalmente asimmetrico.27

Questo tipo di società diventa un unico grande ghetto sociale


nel quale le diverse comunità etniche che lo vivono, indipen-
dentemente dalla loro ricchezza sono ostili e quindi si generano
conflitti interni. “La parola d’ordine della multiculturalità è:
separare per dominare.”28
Possiamo mostrare come l’ideologia e le pratiche multi-
culturali, pensando alla società come un mosaico formato da
monoculture omogenee e dai confini ben definiti, abbiano, di
fatto, aumentato la frammentazione (e il rischio di apartheid)
della distanza fra le componenti della società, dimostrandosi
validi strumenti per la costruzione dell’identità nazionale.
Selezionando ciò che divide le culture invece del loro intrin-
seco rapporto, espellono, nel contempo, la dimensione del
cambiamento e della stratificazione interna, ritenuta, al più,
l’effetto di enti patogeni esterni, come le migrazioni, ma non
la globalizzazione, considerata invece come un fenomeno evo-
lutivo e organico interno, felice e riappacificato e, soprattutto,
inesorabile e già accaduto.
27
S. Palidda, Mobilità umane. Introduzione alla sociologia delle migrazioni,
Raffaello Cortina, Milano 2008, p. 28.
28
Ibidem.

46
Il multiculturalismo, rispondendo a precisi intendimenti
politici, promuove un’ideologia fondata sull’unità territoriale,
sull’autenticità storica e culturale, sulla purezza etnica o raz-
ziale. Seguendo un movimento che può apparire paradossale
il multiculturalismo si rivela, dunque, come il lato oscuro della
monocultura: l’omogeneizzazione nazionale è ottenuta attraverso
il riconoscimento e l’annullamento integrativo o escludente
della differenza.
Ora analizziamo il “modello” meticcio, un modello for-
temente ostacolato dalle frontiere degli stati, da muri reali o
immaginari, da eserciti e polizie internazionali, ma che non
conosce limiti e freni e si manifesta senza regole prestabilite,
fra incontri e condivisioni casuali tra persone.
Il modello meticcio, è consapevole che ogni cultura è tesa
alla trasformazione continua, “il meticciato è un processo di
bricolage senza fine.”29
Nella contemporaneità è impossibile pensarsi bloccati in
una sola cultura. La cultura è una costruzione storica necessaria
a tutti gli esseri umani, completando culturalmente se stesso,
l’essere umano non diventa un “qualsiasi” uomo, bensì un
“particolare” tipo di uomo culturalmente definito,30 l’uomo è un
animale incompleto, che esce dalla sua incompletezza biologica
con il processo di creazione di cultura.

L’uomo è un animale biologicamente carente. Affidato alle sue


sole capacità biologiche, ben difficilmente saprebbe sopravvi-
vere. La sua stessa sopravvivenza fisica a quanto pare richiede,
fin da subito l’intervento della cultura.31

Viviamo in un continuo transito temporale nel quale convivono


molteplici culture che si mescolano e che rendono sempre più
29
F. Laplantine, A. Nouss, Il pensiero meticcio, cit., p. 61.
30
C. Geertz, Interpretazione di culture, cit.
31
F. Remotti, Contro l’identità, cit., p. 12.

47
incerte le identità culturali, nazionali, storiche. Ciò che viene
definito perdita di riferimenti identitari o anche problema iden-
titario deve essere salutato in quanto riscoperta dell’inquietudine
e della ricchezza del diverso, la disgregazione contemporanea
delle identità e delle rappresentazioni ci dovrebbe aiutare ad
ammettere che esiste il non rappresentato, il non identitario, il
non analizzabile.32
Nel “modello” meticcio o transculturale:

Ogni differenza non allude a privilegi né ad alcuna discrimina-


zione. La transcultura esige che gli uomini, migranti o meno,
godano delle medesime universali possibilità e scelgano privi
di vincoli comunitari, dove, come e quando vivere.33

Ciascuna persona ha il diritto di essere valorizzata nella sua


unicità e irrepetibilità, nella sua continua trasformazione, nella
sua continua negazione di purezza originaria.

Alla nozione di purezza originale noi opporremmo la nozione


freudiana di “perverso, polimorfo”, applicata alla cultura.
Questo significa che l’identità culturale , nel modo in cui spesso
è stata appresa non esiste affatto.34

Il meticciato non è un principio, non ha nulla di primordiale, ne


smentisce la nozione stessa, la destabilizza, con il meticcio nulla
è mai definitivo, stabilizzato o fissato, non possiamo immaginare
che prenda il potere, che diventi dominante.

Il meticciato, che non è sostanza, né essenza, né contenuto,


né tanto meno contenitore, non è dunque – per essere esatti
– qualche cosa. Esiste solamente nell’esteriorità e nell’alterità,

32
F. Laplantine, Identità e mètissage, cit.
33
M. Tibaldi, Metix Babel Felix, cit., p. 91.
34
F. Laplantine, Identità e mètissage, cit., p. 62.

48
cioè non esiste mai allo stato puro, intatto ed equivalente a ciò
che era un tempo, è il pensiero della trasformazione.35

È il pensiero di un mondo dove si riconosce eguale dignità alle


diverse culture ma soprattutto che auspica a un mescolamento,
teso al cambiamento, a un’ibridazione continua che sappia
adattarsi ai tempi in cui vive dove le culture vanno messe nelle
condizioni di cambiare più rapidamente e felicemente possibile...
Pensare di rielaborare il modello dei rapporti sociali significa
risistemare le coordinate del mondo vissuto. Le forme della
società sono la sostanza della cultura.

35
F. Laplantine, A. Nouss, Il pensiero meticcio, cit.

49
Lavoro precario
e immigrazione

Pensare l’immigrazione significa pensare lo stato, [...] essa


costituisce l’occasione privilegiata per rendere palese ciò che
è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine
sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò
che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di “inno-
cenza” o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire
ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale ed è
perciò votato a rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o
non pensato sociale.
Abdelmalek Sayad1

È necessario capire perché un gran numero di migranti mettono


a rischio la loro stessa esistenza pur di non rinunciare a una
prospettiva di vita dignitosa. Persone che attraversano deserti e
mari, costretti a vivere in tendopoli e baraccopoli precarie, che
si affidano, non potendo fare altro, a trafficanti di umani “senza
nome”, che mettono in gioco la loro stessa vita per aprirsi un
varco, una probabilità di futuro, un lavoro nel nord del mondo.2
Le motivazioni sono molte, legate a diverse sfere della vita
di ogni persona che “decide” di migrare; sicuramente uno
dei fattori più importanti è la presenza di guerre o di regimi

1
A. Sayad, La doppia pena del migrante. Riflessioni sul pensiero di stato,
in “aut aut”, n. 275, 1996, p. 10
2
Diecimila all’incirca, gli uomini e le donne annegate nel Mediterraneo o
nell’oceano Atlantico dal 1988, tremila dei quali risultano dispersi. Trecento
schiacciati dalle merci, congelati o soffocati su qualche camion nelle nostre
autostrade.

51
totalitari\polizieschi nei loro paesi di origine, inoltre non è
sottovalutabile il motivo legato alla globalizzazione economi-
ca che vede sempre di più fette enormi di popolazioni che si
ritrovano senza risorse e senza lavoro.

Le migrazioni di oggi, infatti, si situano in una cornice globale


segnata innanzitutto dalle violenze e dalla guerra aperta come
pratiche correnti del potere nei confronti di individui che non
le subiscono passivamente.3

Migrare non significa che masse di indigenti svuotino una re-


gione per saturarne un’altra, ma piuttosto che una pluralità di
individui, provvisti di progettualità e di aspettative diverse, sono
disponibili a cercarsi delle chances di vita dove queste sono pos-
sibili o promesse.4 L’immigrato non è solo una persona costretta
a lasciare il proprio paese per ragione di povertà, di guerra o per
la ricerca di un lavoro. È soprattutto una persona che porta se
stessa, le proprie energie intellettive, fisiche affettive e il proprio
bagaglio culturale al confronto con la società nella quale arriva.5
Le migrazioni possono essere così comprese come trasferi-
menti non necessariamente definitivi, progetti di vita parziali che
approfittano di aperture improvvise e si scontrano con barriere
impreviste, circolazioni di vite tra regioni e rive diverse, ritorni
sperati e permanenze subite, esperienze in cui gli individui
portano con sé o ricreano identità complesse e plurali.
Una volta che viene presa la decisione di emigrare iniziano i
problemi, ostacoli di ogni tipo, politici e militari, come frontiere
armate, eserciti, muri, barriere artificiali e naturali, fino alle
politiche estremamente repressive antimigrante vigenti pratica-
mente in tutto il nord del mondo. Queste politiche repressive

3
S. Palidda, Mobilità umane, cit., p. 158.
4
A. Dal Lago, Non persone, cit., p. 198.
5
R. Curcio, I dannati del lavoro, Sensibili alle foglie, Milano 2007.

52
contro il migrante non sono fini a se stesse, ma finalizzate alla
creazione di una persona anzi di una non persona6 estremamente
ricattabile e quindi questi ostacoli politici e militari costringono
il migrante ad accettare le condizioni salariali e di vita che l’in-
dustria globale impone nei mercati del lavoro. I migranti sono
vivi, conducono un esistenza più o meno analoga a quella degli
italiani che li circondano, ma sono passibili di uscire, contro la
loro volontà, dalla condizione di persone.
Continueranno a vivere anche dopo, ma non esisteranno
più, non solo per la società in cui vivevano come irregolari,
clandestini, ma anche per loro stessi, poiché la loro esistenza di
fatto finirà e ne inizierà un’altra che comunque non dipenderà
dalla loro scelta. Il migrante pur potendo vivere come noi dal
punto di vista materiale e sociale, non ha un futuro stabile nella
nostra società.
Quindi questa condizione di marginalità e clandestinità fa
di loro dei lavoratori totalmente privi di diritti, soggetti ai ri-
catti salariati e alle condizioni di lavoro che i vari imprenditori
vogliono loro imporre.

Il precario regolare trova spesso impieghi in nero o tempora-


nei e non riesce ad avere o a mantenere un alloggio regolare
come prescritto dalla legge. Ne consegue che l’approdo alla
condizione di clandestinità condanna l’immigrato a vivere alla
mercè di imprenditori del sommerso, in condizioni d’indigenza
e sempre a rischio di espulsione. È evidente che la norma per
cui l’immigrato deve avere un lavoro e un alloggio regolari in
una società in cui parte degli stessi nazionali ha difficoltà a
soddisfare tali requisiti produce clandestini.7

In breve, gli ostacoli ufficiali all’immigrazione fanno sì che i mi-


granti non possano uscire da una condizione di subordinazione
6
A. Dal Lago, Non persone, cit., p. 207.
7
S. Palidda, Mobilità umane, cit., p. 158.

53
che dura quanto la loro vita. Un immigrato è così privo di voce
e di diritti nella società che lo accoglie, così come lo era in patria
quando era disponibile a emigrare.
La constatazione tragica è che “un essere umano, è persona,
solo se la legge glielo consente, indipendentemente dal suo
essere persona di fatto.”8
Tra il 2005 e il 2009 in tutta la fortezza Europa le normative
elaborate nel campo dell’immigrazione sono peggiorate, han-
no come obiettivo comune il mantenimento di una domanda
clandestina del lavoro meno qualificato. Queste restrizioni sugli
ingressi fanno sì che l’offerta di lavoro si rivolga di fatto ai migranti
privi di qualsiasi mezzo, agli irregolari, disponibili per qualsiasi
mansione pur di restare nei territori “sognati” dei paesi ricchi.
In questo capitolo cercherò di ricostruire il rapporto dei
migranti con il lavoro precario nelle sue diverse sfaccettature.
Stranieri nascosti nella privatezza della vita domestica, per esem-
pio badanti e colf, oppure visibili nell’incertezza dei mercati di
strada, tra manovali e braccianti.

Precarietà come modello di vita

Precariato e società, società e precariato.


Il futuro lavorativo solo raccontato, decantato immaginato.
Profondo sud venendo dallo scuro venendo dal nero.
Lavoro interinale, a progetto, intermittente. Recessione im-
minente.
Ci si inventa le tante possibili realtà. Precariato e società è
fantasia la stabilità.
Oggi il mondo va così inquadrato.
A tempo determinato.
M. Secondo

8
Ibidem.

54
Il processo di cui voglio parlare è passato attraverso una gene-
rale precarizzazione dei lavoratori che non interessa soltanto
coloro che hanno contratti di lavoro precari, ma trasforma
tutto il mondo del lavoro, anche quello dei cosiddetti lavoratori
“stabili”, sempre più preoccupati dal rischio di licenziamenti,
esternalizzazioni e delocalizzazioni. Tale processo ne indebolisce
la capacità di resistenza, ne forza l’adattabilità ai bisogni delle
imprese, desiderose di una forza lavoro sempre più fluida nel
numero e nelle mansioni.
I soggetti con contratti a tempo determinato si trovano ormai
a vivere sempre più sulla precarietà come primo passo per un
contratto stabile, ma in realtà si troveranno costretti a una vita
lavorativa totalmente instabile.

Le discriminazioni istituzionali scaturiscono dalla relazione


sempre più pericolosa che viene istituita tra diritto e mercato
del lavoro, tra sospensione del diritto per alcuni e flessibilità,
tra stratificazione del diritto e formazione di una sottoclasse
di non persone destinate alle forme più estreme di precarietà
esistenziale, mercificazione selvaggia e alienazione. Un’esistenza
condannata all’ergastolo della precarietà.9

La precarietà del reddito quindi non è l’unico effetto subi-


to. Nelle ricerche sui lavoratori precari emerge una sempre
maggiore difficoltà a progettare il proprio futuro, a lasciare
la famiglia di nascita, a contrarre mutui, comprare o affittare
un’abitazione, o seguire corsi di formazione. Viene fortemente
percepita l’incertezza lavorativa, il disagio di una vita modellata
dalle esigenze delle imprese e l’insufficienza delle tutele sociali
a cui si ha diritto.
Il paradigma massimo di questa precarizzazione si ha con
i lavoratori migranti costretti da normative come la legge del

9
R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 21.

55
15 luglio 2009, n. 94, la Bossi-Fini e la precedente Turco-
Napolitano, a vivere una condizione di totale e costante ricat-
tabilità, o perché clandestini, o perché il proprio permesso di
soggiorno è legato al contratto di lavoro o perché da irregolari
si deve sottostare a condizioni neoschiaviste per poi essere
reclusi nelle “galere etniche”, chiamate centri di accoglienza,
ed espulsi, in assenza di qualsiasi diritto umano. Una precarietà
diffusa e totale per il migrante, non solo per il lavoro ma anche
legata al permesso di soggiorno, quindi uno stato di precarietà
esistenziale.10
I Cie, cioè i vecchi Cpt:11

10
S. Palidda, Mobilità umana, cit, p. 110.
11
I Centri di permanenza temporanea (Cpt), ora denominati Centri di
identificazione ed espulsione (Cie), sono strutture istituite in ottemperanza
a quanto disposto all’articolo 12 della legge Turco-Napolitano (L. 40/1998),
per ospitare gli stranieri “sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di
respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera” nel caso in cui
il provvedimento non sia immediatamente eseguibile. I Cpt sono da intendersi
come i terminali delle politiche migratorie italiane ed europee. Poiché essi
hanno la funzione di consentire accertamenti sull’identità di persone trattenute
in vista di una possibile espulsione, ovvero privare libertà alle persone in attesa
di un’espulsione certa, il loro senso politico si traccia in relazione all’apparato
legislativo sull’immigrazione nella sua interezza. Nell’ordinamento italiano i Cpt
costituiscono una grande novità: prima non era mai stata prevista la detenzione
di individui a seguito della violazione di un semplice illecito amministrativo
(quale il mancato possesso di un documento). L’assistenza medica nei centri
è del tutto inadeguata: inesistenza di assistenza psicologica e psichiatrica,
assenza di reparti per categorie vulnerabili, carenza nella gestione di cartelle
cliniche e nelle misure per prevenire il diffondersi di epidemie. In particolare,
molto frequente è l’eccessiva prescrizione di sedativi e tranquillanti. E sono
molti, tra i detenuti, i casi di autolesionismo. Ma nonostante la deprivazione
psicologica non è fornito alcun tipo di assistenza. Sono state riscontrate gravi
violazioni quanto al diritto di asilo. Medici senza frontiere aveva verificato
per esempio che – quando ancora non era stato emanato il regolamento che
istituisce il trattenimento nei Cpt dei richiedenti asilo – i detenuti che avevano
fatto richiesta di asilo, invece di essere rilasciati in attesa dell’audizione da
parte della commissione come era previsto dalla legge, continuavano a essere

56
sono luoghi istituiti dallo stato al fine di produrre, senza di-
chiararlo, una fascia di lavoratori perennemente senza diritti
e, proprio per ciò, di massima convenienza per il mercato del
lavoro e, in particolare, le sue fasce precarie flessibili.12

Un esempio tipico potrebbe essere: un migrante entra in Italia,


catturato, condotto in un Cie, schedato e rilasciato con un fo-
glio di via che gli intima di lasciare il territorio nazionale entro
quindici giorni, il migrante viene presto a trovarsi nell’infelice

imprigionati nei centri. Sono stati testimoniati casi in cui stranieri con un
regolare permesso di soggiorno sono stati egualmente detenuti nei centri, e
la loro detenzione è stata convalidata dal giudice durante l’udienza (a riprova
di quanto siano garantiti i diritti legali dei detenuti). In altri casi c’è stato il
trattenimento illegale di minori non accompagnati e di donne incinte. È stato
verificato come siano ben pochi i centri ad aver steso un regolamento interno,
come richiesto dal ministero, e come richiesto dalla “carta dei diritti e dei dove-
ri” consegnata ai detenuti all’ingresso dei centri – non essendo spesso tradotta
nelle lingue dei detenuti, e mancando un adeguato servizio di informazione
legale – sia insufficiente allo scopo previsto. Così, come emerge da tantissime
testimonianze, il migrante si trova chiuso in una prigione senza sapere nulla
né del perché si trova lì dentro, né di cosa gli accadrà in seguito. E spesso,
come si è detto, non ha alcuna informazione sulle sue possibilità di presentare
richiesta d’asilo. Gli enti gestori, poi, talvolta sono accusati di dissuadere i
detenuti dal nominare certi avvocati molto attivi per sostenere i diritti dei
migranti in favore di altri “fidati” i quali poi non mostrano alcun impegno.
La stessa Croce rossa italiana è duramente contestata per la collaborazione
nella gestione dei Cie e per alcuni accadimenti in cui il suo operato ha lasciato
molte ombre. Decisamente rilevante, a questo rispetto, è la difficoltà di essere
ammessi dentro le strutture per parlamentari, rappresentanti di Ong (non
è mai stata ammessa la stessa Amnesty International), avvocati (con relative
difficoltà per ricevere la nomina degli assistiti potenziali, e di incontrare gli
assistiti effettivi), giornalisti (di fatto mai ammessi). Citando il rapporto di
Amnesty International: “C’è stato un certo numero di denunce di abusi di
matrice razzista, aggressioni fisiche e uso della violenza da parte degli agenti
di pubblica sicurezza e da parte del personale di sorveglianza, in particolare
durante proteste e in seguito a tentativi di evasione”.
12
R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 50.

57
condizione di non essere soltanto senza documenti e senza diritti
ma di non poterli più avere neppure in un tempo a venire. Il
suo futuro è così in larga misura disegnato: egli dovrà andare
a ingrossare le fila dei lavoratori in “cantina”, senza diritti e
quindi sfruttabili, ricattabili senza alcun limite.

Ciò che i governi non dicono è il succo della storia: poter


disporre di una grande quantità di carne lavoro “irregolare”,
così irregolare da dover essere nascosta e utilizzata solo a un
livello ancora più basso del lavoro regolarmente flessibile, poter
disporre di una sottoclasse dannata da far lavorare in cantina,
al di fuori degli sguardi indiscreti. Una preoccupazione este-
tica oltre che etica, economica o politica. Non nuova però: gli
sfruttatori del lavoro umano non hanno mai amato ostentare
le procedure mediante cui si sono appropriati del plusvalore,
vale a dire di quella quantità di valore prodotta dal lavoro non
completamente retribuito.13

È una condizione che colpisce ancor più pesantemente le donne,


verso le quali persiste una divisione sessista del lavoro che le
colloca in posizione subordinata. Alle donne, molto più che agli
uomini, viene prospettata come unica possibilità l’occupazione
precaria.

Migranti precari

Sono immigrati, stranieri in situazione irregolare o semplicemen-


te migranti, queste persone hanno in comune il fatto di essere
in Italia e di dover, per sopravvivere, ricorrere a espedienti
precari. Alcuni hanno liberamente scelto il suolo italiano, altri
sono venuti sotto la minaccia di persecuzioni, o perché la vita nei

13
Ibidem.

58
loro paesi di origine era senza futuro, oppure per raggiungere
coloro che avevano fatto prima di loro questa scelta.
Da vent’anni a questa parte le autorità e la legislazione
hanno moltiplicato le difficoltà per la loro entrata e per il loro
soggiorno. Senza grandi successi, visto che sappiamo benis-
simo che la forza che li attrae è superiore ai mezzi impiegati
per allontanarli. Così, le leggi xenofobe risultano più efficaci
nell’indebolire tutti gli stranieri che nel frenare l’immigrazione.
E soprattutto nell’arricchire gli imprenditori del lavoro nero:
per questi ultimi, leggi del genere costituiscono un vero colpo
di fortuna. I lavoratori migranti senza permesso di soggiorno e
nell’impossibilità di richiederlo, sono i prediletti dalle aziende e
dalle cooperative che puntano a un maggior profitto seguendo
l’indirizzo dei minimi costi del lavoro. Fornendo lavoro senza
la copertura dei diritti, lavoro docile, precario e flessibile per
eccellenza.
Tutti gli irregolari hanno due caratteristiche comuni: la
prima è che non possono o non desiderano andarsene; la se-
conda è che sono messi in una situazione di fragilità economica
determinata dal fatto che la legge rifiuta loro ogni inserimento
contrattuale nel mondo del lavoro. Le condizioni sono quindi
a senso unico perché gli irregolari devono accettare qualsiasi
cosa pur di ottenere qualche risorsa.
Il lavoro nero non è la prerogativa dei migranti senza per-
messo di soggiorno, ma nonostante questo dato di fatto, rimane
una tenace equazione, accuratamente veicolata dal potere e
dai media, stranieri clandestini = lavoro clandestino. Una cosa
è certa: per lavorare, i migranti senza permesso di soggiorno
non hanno altra soluzione che il lavoro non dichiarato.14 Per
esempio, i rifugiati politici non hanno più automaticamente il

14
Medici senza frontiere denuncia: condizioni di vita inaccettabili per un
paese civile, mancanza di qualsiasi forma di assistenza o di tutela, esposizione
a maltrattamenti e soprusi, condizioni di salute a dir poco precarie, www.
medicisenzafrontiere.it.

59
permesso di lavoro durante il periodo di esame del loro dossier.
Questo limite ipocrita è rivelatore visto che chi chiede l’asilo
politico non ha nessuna intenzione di lasciare il paese prima di
aver ricevuto il risultato della sua domanda, e quindi è quasi
dichiarato ufficialmente l’invito a cercarsi un lavoro illegale.
Nella pratica non solo i senza documenti, bensì tutti gli immi-
grati, costituiscono una preda favorevole per gli imprenditori
di certi settori di attività che sono molto coscienti del fatto che
gli stipendi e le condizioni di lavoro proposte sembreranno
sempre migliori di quelle offerte nel loro paese di origine. Questi
settori sono conosciuti da tutti: per primo quello dell’edilizia,
poi l’industria alberghiera e della ristorazione, la confezione,
l’agricoltura, le imprese di pulizia, le colf, le imprese specializ-
zate nel volantinaggio.
Dall’inizio dell’entrata in vigore delle leggi repressive,15 un
numero crescente di immigrati si ritrova in situazione di pre-
carietà. Risultato: sono consapevolmente orientati sul mercato
del lavoro clandestino e su quello delle attività criminali. È
così che il rapporto di forza fra offerta e domanda di lavoro
si modifica, con la benedizione delle leggi, in funzione del
profitto degli imprenditori del lavoro illegale. L’ideologia di
questi ultimi è paradossale: da un lato, non sono di solito
xenofobi (il che non significa che alcuni non siano razzisti) e
lasciano ai politici il compito di vociferare contro l’invasione
straniera:

La paura non è più affare di consulenti aziendali o di attivisti


di partito delusi, ma una risorsa primaria del teatro politico
mediale, un frame in cui le emergenze, gli imprevisti o le

15
Importante ricordare che la convenzione Onu 45\158 sulla protezione
dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, recita:
“I lavoratori migranti devono poter godere dei diritti umani al di là del loro
status legale, e di parità di diritti sindacali, remunerazione e accesso ai servizi
sociali con i lavoratori dello stato ospitante”.

60
difficoltà della vita collettiva potranno essere ritradotti e gestiti
nella soddisfazione generale.16

Dall’altro lato, le misure contro gli stranieri sono favorevoli per-


ché, se non lo fossero, il lavoratore immigrato diventerebbe forse
più esigente, almeno è quello che pensano questi imprenditori.
I datori di lavoro in quanto capitalisti, prendono la manodopera
dove sarà possibile ottenere, avendo la certezza del profitto, il
migliore rapporto produttività-costo. Le leggi repressive contro
il lavoro clandestino hanno effetti dissuasivi però permettono
anche all’imprenditore che impiega i clandestini di fare pressione
su di loro. Infatti, il padrone usa il fatto che sta assumendo dei
rischi per imporre qualsiasi condizione di lavoro ai lavoratori
in nero, non potendo questi ricorrere a un’assistenza legale, e
soprattutto non avendo alcuna sicurezza del lavoro.

I migranti non sono liberi di trattare con il datore di lavoro,


possono solo adattarsi singolarmente all’offerta che viene loro
proposta, senza potersi difendere in alcun modo neppure dalla
violazione unilaterale del patto; devono infatti adattarsi al
“prezzo” stabilito di volta in volta, da chi li ingaggia.17

Oltretutto non è cosa rara che il reclutatore non li paghi


per il lavoro svolto, come spesso avviene. Aziz18 mi racconta
che ai mercati generali di Milano più volte è successo che al
momento della paga arrivasse la polizia a fare dei controlli e
chiaramente tutti i lavoratori migranti senza permesso erano
costretti a scappare per non finire in un Cie e si scordavano
la loro meritata paga. Questi lavoratori non hanno alcuna
possibilità di denunciare il datore di lavoro perché sul ter-
reno della legge essi, in quanto cittadini portatori di diritto
16
A. Dal Lago, Non persone, cit., p. 81.
17
R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 47.
18
Parte di un intervista che ho fatto a Milano ad Aziz, un uomo nordafricano.

61
non esistono. Possiamo inoltre verificare che, nei settori in
cui si usa molto la manodopera clandestina, l’assunzione non
si fa più a livello di grande impresa bensì al livello di quella
più piccola. Per esempio, nel settore dell’edilizia, le grosse
società mantengono il minimo di dipendenti e appaltano i
lavori a una moltitudine di piccole imprese, le quali ricorrono
al lavoro nero nelle sue forme più diverse (dipendente non
dichiarato, prestito di manodopera fra le diverse società, falsi
contratti di lavoro interinale, falsi lavoratori autonomi ecc.).
Ritroviamo lo stesso meccanismo nel settore della confezio-
ne, in cui i fabbricanti (cioè le società che mettono la loro
firma e commercializzano i vestiti) affidano la produzione a
contoterzisti. In questi due casi, questa esteriorizzazione si
traduce in un’evoluzione dell’economia verso la precarietà,
di cui l’ultimo livello è l’impiego di lavoratori senza diritti.
La terziarizzazione e appalto dei servizi, essendo finalizzati
ad abbassare i costi facendo strage di diritti e impiegando
lavoro a bassi costi, diventano perciò i due dispositivi legali e
portanti dello sfruttamento del lavoro dei migranti. E le grandi
imprese vi ricorrono ampiamente e per così dire “senza alcuna
vergogna”. Menaye lavoratrice precaria della Nigeria ci dice:

Accetto tutto pur di mantenere il lavoro. Con le leggi sul lavoro


degli stranieri che ci sono in Italia, avrei forse qualche altra
possibilità? Che succede se perdo il lavoro? E state sicuri che
se non faccio tutto quello che mi viene chiesto di fare, e anche
un po’ di più, il lavoro lo perdo certamente.19

I migranti senza permesso di soggiorno sono quindi la prima


linea di un movimento generale verso la flessibilizzazione e
la precarizzazione del lavoro. Non sono, come d’altronde gli
immigrati in generale, responsabili della disoccupazione come

19
Intervista dell’autore.

62
afferma la classe politica: sono gli attori forzati di una sapiente
utilizzazione della disoccupazione per far crescere un’infinità
di situazioni precarie. Il padronato ne trae un grandissimo
profitto, grazie particolarmente alla loro precarietà giuridica:
privi di diritti, sono frequentemente legati a reti comunitarie, in
cui lo sfruttamento si nasconde sotto il profilo della solidarietà.
Di fronte al nemico comune che è rappresentato dallo stato,
l’imprenditore può fare credere al suo dipendente che lo sta
proteggendo e che gli sta facendo un favore. Questo discorso
paternalista è doppiamente alimentato dall’esclusione giuridica
dei lavoratori e dalla crisi economica.

Quando lo stato spinge alla criminalità

La condizione di straniero implica un inquietante quesito: essere


veramente “dentro” un certo paese o viverci – spesso soprav-
viverci – in posizione perennemente liminare, di esclusione
latente, di non accettazione e spesso di illegalità.
Il clandestino è una figura particolarmente critica: è il perenne
escluso, è colui che in ogni momento si scontra con il proprio
“non dover esserci”, con la sua necessaria “invisibilità”. Egli ha
due destini possibili: cercare di venire alla luce, con circospezione
e timore, per mettersi in regola, oppure sottrarsi vertiginosamen-
te alle regole spostandosi continuamente, correndo invisibile
nella speranza di non essere fermato e portato in un Cie.
Storie di famiglie e comunità che si sono frammentate, diluite
negli spazi globalizzanti della migrazione, sempre al di qua o
al di là di un confine, riarticolando continuamente la propria
identità e la propria memoria e, soprattutto, lottando ogni
momento con la povertà.
Spesso, alla costante preoccupazione per il quotidiano so-
stentamento per se stesso e per la famiglia lasciata nel paese di
provenienza si unisce l’azione persecutoria che vede in ogni

63
straniero un probabile (o sicuro) delinquente. Sovente, infatti,
si mette in relazione diretta la criminalità e l’immigrazione,
sebbene da tempo sia dimostrato che non esiste nessun col-
legamento vero tra la “produzione criminale” e la presenza
sempre più consistente di immigrati stranieri. Al migrante si
addossano spesso e con grande facilità le responsabilità e le
colpe delle situazioni critiche di casa propria: un comodo capro
espiatorio che distoglie – anche per tempi lunghi – dalle proprie
responsabilità e dalle proprie lacune.
Il migrante viene così considerato colui che minaccia la si-
curezza e la stabilità del proprio ambiente e della propria vita:
all’“invasione del proprio territorio” da parte dei “barbari” si
risponde con una altrettanto forte “difesa del territorio”. Gli
stranieri diventano invasori che sottraggono ai legittimi citta-
dini nativi gli spazi vitali, minacciandone la stabilità sociale e
personale.
Tanti migranti si sono ritrovati progressivamente in una
situazione d’isolamento e di indigenza finanziaria, spesso dopo
la perdita del lavoro a causa del mancato rinnovo del permesso
di soggiorno provvisorio. Queste traiettorie prendono la forma
di una spirale discendente in cui tutte le difficoltà si sommano.
Gli esempi che possiamo fare sono molti: i controlli di polizia
impediscono il loro spostamento per cercare un lavoro; con-
temporaneamente nell’impossibilità di pagare le bollette, il
telefono viene tagliato e il rischio di sfratto diventa reale; la
scuola rifiuta di iscrivere i bambini al dopo scuola (per averne
il diritto bisogna dimostrare di avere un contratto di lavoro),
il che aumenta il rischio per il lavoratore in nero di perdere il
posto perché non può più rispettare gli orari; senza copertura
sociale e quindi medica, il più piccolo problema di salute diventa
una catastrofe.
Più i debiti si accumulano, più la chiusura nella dipendenza
si consolida. Ciò comporta grossi rischi e per fare fronte alle
scadenze a volte l’ultima possibilità è la delinquenza. Il mercato

64
dei documenti falsi è florido. I loro acquirenti, per assumerne
il costo, sono tentati di fare “colpi” e di rendersi quindi ancora
di più dipendenti dalle reti di attività illegali. Diventa facile
allora per i politici denunciare questa illegalità e chiedere una
più forte repressione. Ciò marginalizzerà sempre più i migranti
senza permesso di soggiorno.
Parlando nel concreto del contesto italiano, la percentuale
dei migranti all’interno della popolazione detenuta è del 33%,
a fronte di una loro percentuale all’interno della popolazione
nazionale del 4,5%.20
L’impressionante sovrarappresentazione del gruppo di rife-
rimento all’interno della popolazione carceraria viene spesso
interpretata nelle retoriche pubbliche, sia a opera del circuito
politico sia di quello mediatico, come una particolare tendenza
a delinquere della categoria dei migranti, una credenza di senso
comune che è importante smentire. Innanzitutto, le statistiche
carcerarie non sono attendibili di una propensione criminale
da parte della categoria di riferimento. Non si può prescinde-
re, infatti, da importanti fattori che favoriscono una maggiore
frequenza a essere incarcerati tra i migranti rispetto ai cittadini
italiani: la maggior parte dei migranti sono infatti in carcere come
misura preventiva; la mancanza di domicilio o di un’abitazione
fissa spesso impedisce di fare ricorso agli arresti domiciliari,
frequenti invece nei confronti dei cittadini italiani; una volta
di fronte alla corte, è attestato in base alle percentuali che un
migrante abbia una probabilità cinque volte superiore rispetto a
quella di un italiano di essere condannato per lo stesso crimine;
infine, non si può nemmeno ignorare l’inclinazione degli agenti
di polizia a dirigere in via preferenziale la propria attenzione
verso i migranti durante i controlli di routine.21

20
Dati popolazione carceraria in A. Sbraccia, More or less eligibility?
Prospettive teoriche sui processi di criminalizzazione dei migranti irregolari in
Italia, in Studi sulla questione criminale, II, n. 1, 2007.
21
A. Sbraccia, More or less eligibility?, cit.

65
Analizzando il lavoro del sociologo Sbraccia possiamo notare
come si possa individuare un’ulteriore prospettiva d’osservazio-
ne: egli suppone che i reati commessi da migranti, ben lungi dal
corrispondere a una loro inclinazione a delinquere, siano una
conseguenza delle condizioni economiche e sociali che essi sono
costretti a sopportare. Tali condizioni sono l’inevitabile effetto
della precarietà e incertezza dello status giuridico del migrante,
status incerto in quanto fondato sul legame tra permesso di
soggiorno e contratto di lavoro (quasi esclusivamente tempo-
raneo). Chiarendo che l’irregolarità non è un tratto ontologico
del migrante, ma è determinata da un dato sistema giuridico,
è importante rilevare che una volta che lo status d’irregolarità
sia stato raggiunto, esso pregiudica la possibilità di cercare
un impiego regolare, e anzi favorisce l’entrata degli stranieri
irregolari all’interno del mercato “informale” del lavoro, così
florido in Italia. Essendo la definizione di irregolarità predisposta
dalle istituzioni giuridiche stesse, essa è coerente con le pratiche
di sfruttamento della forza lavoro migrante all’interno delle
economie informali. Inoltre, poiché le sanzioni penali pregiu-
dicano una futura regolarizzazione, riproducono le condizioni
della permanenza del migrante irregolare nel mercato nero.22
Il fatto che l’esercito della forza lavoro di riserva sia così folto
è un vantaggio per vari settori dell’economia, anzi, per alcuni
settori, quali quello agricolo in Italia, è necessario per vincere la
competizione, perché permette di scaricare i costi di produzione
sui lavoratori. Sono tre gli elementi da tenere in considerazione
per quanto riguarda la funzione di deterrenza del carcere: la
politica criminale, gli equilibri mutevoli del mercato del lavoro
e i sistemi di valutazione dei soggetti.
Dato il legame inscindibile tra permesso di soggiorno e con-
tratto di lavoro, il migrante irregolare si trova di fronte a due
alternative: tolta l’eventualità di vivere d’elemosina può rivolgersi

22
A. Dal Lago, Non persone, cit.

66
o alle vie informali del mercato nero oppure sopravvivere at-
traverso attività illegali. È falso quello che affermano i media,
la famosa favola che non ci sia lavoro per i migranti, in realtà
interi settori dell’economia italiana – l’assistenza da parte delle
badanti o l’agricoltura soprattutto in meridione – sopravvivono
grazie alla forza lavoro migrante, che rientra però nei circuiti
informali del mercato. Le condizioni di lavoro e di sopravvivenza
di chi si trova nei circuiti dell’economia informale sono spesso
tali da non permettere un’esistenza dignitosa, da non garantire
la possibilità di inviare valuta estera alla famiglia in patria, da
non ammettere l’accumulazione di un seppur minimo capitale.
Che prospettive potrebbe avere, si chiede Sbraccia nella sua
ricerca, un raccoglitore di pomodori in Sicilia che lavora sotto il
sole tutto il giorno per 30 euro senza speranza di un miglioramen-
to nella propria condizione all’interno della gerarchia sociale?
Eppure, il meccanismo non può essere in grado di operare
correttamente se c’è troppa distanza tra le aspettative di chi
decide di emigrare e le reali condizioni che incontra nel paese
di immigrazione.
Questo significa che, se applicassimo la teoria dell’homo
economicus al migrante posto davanti all’orizzonte ristretto della
scelta tra le possibilità che gli vengono offerte, dato un calcolo
basato su costi e benefici, il migrante irregolare dovrebbe essere
razionalmente portato a delinquere; ciò che lo frena sono riferi-
menti morali, normativi, religiosi. La conclusione sconcertante
porta a riflettere sul fatto che, posto di fronte alle due alternative,
la scelta di delinquere ricadrebbe nella sfera razionale, la scelta
di non farlo, invece, ricade in quella irrazionale.

Dove e come lavorano i migranti

Il ricorso a forza lavoro immigrata da parte delle aziende avviene


soprattutto nelle regioni del centro-nord, questa forza lavoro

67
serve per soddisfare una domanda aggiuntiva soprattutto nel
settore dei servizi (assistenza agli anziani, assistenza infermie-
ristica in genere ecc.); il calo delle nascite e quindi la carenza
di forza lavoro in un futuro più o meno prossimo, sono gli
elementi che mettono in evidenza come l’immigrazione sia oggi
un fenomeno difficilmente arginabile, nonostante le chiusure
che recentemente l’Italia oppone agli ingressi di immigrati.
Numerose indagini rivelano che il servizio pubblico è di
scarso aiuto per il collocamento dei migranti e dei rifugiati e
nella quasi totalità dei casi i mezzi per trovare lavoro sono le
risorse proprie, le proprie reti di riferimento. Sempre più si
fanno strada le agenzie di lavoro interinale che rispondono a
una caratteristica del mercato del lavoro italiano, caratterizzato
da una flessibilità già piuttosto spinta dimostrata dal fatto che
circa il 48% dei rapporti di lavoro dipendente ha una durata
inferiore a un mese.23
I settori in cui la presenza di lavoratori stranieri in Italia
è maggiore sono noti, anche se il modello varia da regione a
regione e appare ormai chiaro che il nord è il polo d’attrazione
maggiore per la manodopera immigrata.
I lavoratori immigrati sono assunti prevalentemente nei
servizi (circa metà di tutte le assunzioni), nell’industria (quasi
un terzo del totale) e nell’agricoltura (poco più di un decimo).
I lavoratori migranti trovano un maggiore sbocco nelle piccole
e medie imprese e in diversi ambiti, ormai considerati non più
appetibili, si registra una fuoriuscita di lavoratori italiani mentre
i nuovi posti riguardano solo i migranti: è il caso dell’industria
tessile, chimica, conciaria, elettrica, del legno, della gomma,
dei trasporti, dell’elettricità/gas/acqua. Trova così conferma la
tesi secondo cui l’impiego di lavoratori extracomunitari sembra
non avere conseguenze negative né sul livello occupazionale
degli italiani né sulle loro retribuzioni.

23
La situazione del paese nel 2009, dati Istat, www.istat.it.

68
Un’interessante ricerca di Lunaria24 su lavoro e immigrazione
a Roma rileva l’esistenza di aree occupazionali in cui l’offerta di
lavoro immigrato trova una collocazione privilegiata, in partico-
lare il lavoro domestico e di assistenza per le donne e l’edilizia
per gli uomini. Quest’ultimo settore è anche il meno tutelato,
caratterizzato da un alto livello di irregolarità, dalla frequente
assenza di sicurezza sul lavoro e da un numero alquanto ridotto
di domande di regolarizzazioni dovuto al rapporto di lavoro
instabile.

Lavoravo con una piccola azienda edile da tre anni. Una


volta qua e un’altra là. Ma un giorno sono andato a lavorare
e mi hanno detto che non c’era più lavoro per me. Tutto
era finito. Mi avessero pagato l’ultima settimana, almeno.
Invece no, nemmeno quello. Chi avrebbe dovuto pagarmi
era sparito. Pochi giorni dopo mi hanno fermato e mi hanno
portato alla stazione di polizia di Torino e poi al centro di
corso Brunelleschi. Il permesso di soggiorno non lo avevo e
così mi hanno dato un foglio di via. Quando mi hanno messo
fuori ho cambiato aria.25

Frequente è inoltre la trattenuta irregolare di denaro operata


attraverso assunzioni regolari. Conferma dell’immobilità del
mercato del lavoro migrante si ha in una ricerca condotta
dal Cnel sull’inserimento sociale e lavorativo degli immigrati
nel nord-est italiano, che riscontra una spartizione dei settori
produttivi in relazione all’area di provenienza degli immigrati:
edilizia, settore agricolo e dei servizi alla persona per l’immi-
grazione dell’est Europa; agro-alimentare e servizi alla persona
per le persone in provenienza dall’area del Maghreb (Tunisia,
Marocco, Algeria); meccanico, chimico e della lavorazione

24
In www.lunaria.org.
25
In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 49.

69
del legno per gli africani; lavorazione delle pelli, ristorazione-
alberghiero e del mobile per gli asiatici.26
Si registra grande mobilità all’interno dei singoli settori,
determinata dalla bassa qualità del lavoro (perché irregolare,
particolarmente duro o svolto in precarie condizioni di sicu-
rezza), da un ambiente particolarmente difficile o da un datore
che costringe i lavoratori migranti a mansioni non previste.
Per quanto riguarda il nord-est, il ricorso al lavoro immi-
grato appare a tutti come l’unica soluzione per recuperare un
bacino di manodopera per attività alle quali la popolazione
locale, sia per oggettivi limiti quantitativi che per motivi
sociali e culturali, non intende rispondere in maniera ade-
guata. Però diversi sono gli atteggiamenti degli imprenditori
intervistati dal Cnel, dei quali il 12% manifesta orientamenti
esplicitamente negativi e ben il 50% considera la presenza
straniera in azienda come una “dura necessità”, accettata con
rassegnazione. Soltanto il 33% degli imprenditori riconosce
il lavoro immigrato come una risorsa su cui investire in ter-
mini professionali e relazionali.27 Oltre che una risorsa per lo
sviluppo come dicono purtroppo le fredde ricerche del Cnel,
i lavoratori migranti sono una risorsa per gli imprenditori di
manodopera a basso costo, persone da sfruttare per il loro
massimo profitto.

Lavoravo dalle sei del mattino alle sette di sera, mentre i lavo-
ratori italiani che montavano alle sei di mattina smontavano
alle tre di pomeriggio e poi se ne andavano a casa. Mi dovevo
svegliare, per arrivare puntuale sul posto di lavoro alle cinque
e mezza. Abitavo lontano. Lavoravo sempre, dal lunedì alla
domenica. Compreso il sabato dall’una di pomeriggio alla
mezzanotte. A volte mi capitava, tornato a casa, di sedermi

26
In www.portalecnel.it/portale/HomePageSezioniWeb.nsf/vwhp/HP.
27
In www.cnel.it.

70
sul wc per fare i bisogni trattenuti durante le ore di lavoro
e di addormentarmi. L’amico con cui vivevo, che oggi sta a
Londra, doveva scuotermi, svegliarmi per farmi andare a letto.
C’era anche una stanchezza psicologica: il rapporto con gli altri
lavoratori era sempre più difficile.28

Altre interviste confermano questa difficoltà con i lavoratori


italiani.

Al mattino si faceva sia il lavaggio che la pompa di benzina.


Io ero l’unico “cittadino straniero”. Dico cittadino perché mi
ritengo anzitutto un essere umano, una persona, un cittadino
di questo mondo, anche se non ho la cittadinanza italiana,
sono privo di permesso di soggiorno e sono un immigrato
africano. Al distributore svolgevo le stesse mansioni degli altri
benzinai, controllo dell’olio, lavaggio dei vetri ecc. Ma loro
guadagnavano circa 250\300 euro alla settimana mentre io ne
prendevo soltanto 120. I miei colleghi di lavoro erano tutti a
conoscenza di questo divario, non li turbava affatto perché,
sin dal mio primo giorno di lavoro, essi avevano dimostrato
nei miei confronti una sorta di sottovalutazione.
Secondo loro poiché arrivavo da un paese arretrato dovevo
essere arretrato anche io. In quanto nero, africano, non potevo
avere una capacità intellettuale di ragionare e riflettere simile
a loro. Ero inferiore, punto e basta. In quell’ambiente il mio
destino lavorativo era dunque pesantemente segnato. Secondo
i miei colleghi italiani non avrei mai potuto raggiungere il loro
livello. A me avrebbe dovuto essere riservato soltanto il lavaggio
dei vetri delle auto, a loro invece, l’erogazione della benzina e il
contatto con i clienti. Dopo i primi tempi però contrariamente
ai loro pregiudizi, io ho dimostrato di saper svolgere bene tutte
le mansioni e di essere, sul piano lavorativo completamente alla

28 In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 83.

71
pari con loro. Dal quel momento per me si è messa male: ero
diventato un concorrente, un pericolo, un’oscura minaccia.
Per il mio datore di lavoro, una nota catena internazionale di
distribuzione della benzina, io andavo benissimo, soprattutto
perché non avevo un permesso di soggiorno. A parità di man-
sione, infatti, mi pagava la metà. E non c’era da parte sua alcuna
volontà di regolarizzare la mia situazione lavorativa. Per lui
questa discriminazione era perfettamente normale, ovvia, giusta.
Altri problemi non se li poneva: ci guadagnava bene e tanto
gli bastava. Ma il malanimo che serpeggiava tra i miei colleghi
italiani non gli era sfuggito e così, una mattina, approfittando
del fatto che, avendo forato una gomma del mio motorino, ero
arrivato in ritardo di mezz’ora, ha preso la palla al balzo e mi
ha buttato fuori. Non ho fatto neppure a tempo a scendere dal
motorino che già mi avevano gridato tutti insieme: “tornate
a casa tua”. Proprio così, senza neppure una parola in più,
datore di lavoro e lavoratori mi avevano licenziato. Insieme.29

Fra lavoratori italiani si registra una certa diffidenza verso i


colleghi stranieri: difficilmente l’ambiente di lavoro diventa
contesto di socializzazione tra italiani e stranieri o luogo in
cui sia possibile creare reti di solidarietà. Non mancano poi i
conflitti, che assai difficilmente vengono risolti.
È difficile che un datore di lavoro prenda provvedimenti nei
confronti del collega italiano che si sia comportato in maniera
scorretta nei confronti del lavoratore migrante, il quale, se de-
nuncia il fatto, diventa ulteriormente oggetto di discriminazioni,
anche fino alla perdita del lavoro stesso.
Forte è anche l’aspetto indicato come job and sex segregation,30

In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 84.


29

La componente femminile migrante presenta anche la specificità legata


30

ai processi di segregazione occupazionale sulla base del genere (job and sex
segregation): le donne sono infatti inserite soprattutto nell’ambito del lavoro
domestico e di assistenza. Per quanto riguarda la nazionalità d’origine fortissima

72
definito dal rapporto della Rete d’urgenza 2000 di Torino
come la combinazione della variabile di tipo etnico-religiosa
con quella di genere, che determina percorsi e stereotipi tali
per cui se il migrante è uomo allora è anche di fede islamica,
è un lavoratore dipendente, proviene dal nord Africa e ha un
lavoro precario. Al contrario, se è donna, allora è cattolica, fa
la domestica, ha un lavoro stabile ma in nero. Chiaramente non
è sempre così, le storie dei migranti sono tante e con diverse
tipologie di esperienze. Riporto di seguito il racconto di una
giovane brasiliana arrivata in Italia nel 2000.

Sono venuta in Italia dal Brasile, nell’aprile del 2000. Tramite


conoscenti avevo ottenuto un posto di lavoro come baby sitter.
Lo stesso giorno in cui sono arrivata in Italia ho preso servizio
presso la famiglia che mi aveva richiesta. Le mie mansioni tutta-
via sono andate crescendo con il passare del tempo. Non avevo
conoscenza della lingua e neppure delle leggi italiane in materia
di lavoro domestico. Ero anche senza permesso di soggiorno. E
così hanno cominciato a chiedermi di pulire i pavimenti, lavare
i panni e i piatti, stirare la biancheria e fare la spesa. Il mio
orario di lavoro avrebbe dovuto essere dalle sette e mezza del
mattino alle nove e mezza di sera. Ma vivendo in quella casa
l’orario fin dal primo momento diventò quello che più faceva
comodo a quella famiglia. Se i bambini si svegliavano di notte
ero io che dovevo accudirli e questo senza che comportasse per
me una variazione qualsiasi del mio trattamento economico.

la presenza femminile delle comunità provenienti dai paesi dell’Europa centro


orientale. Le donne russe sono l’84% del totale, quelle polacche l’80,9%, le
ucraine il 79,4%; seguono le donne filippine con il 71,1%, le nigeriane che
sono il 61,5%. Le donne straniere sono impiegate in questo settore fin dai
primi arrivi nel nostro paese, negli anni settanta. Un altro fattore determinato
dalla presenza femminile in Campania è il conseguente aumento del numero
dei minori che frequenta la scuola e che sono al 31 dicembre 2006 circa 15.000
così suddivisi: il 43,7% a Napoli, il 24,7% a Caserta, il 19,5% a Salerno, l’8,7
ad Avellino e infine il 3,4% a Benevento (Ansa).

73
Lo straordinario non era previsto, nel senso che dovevo farlo
senza chiedere niente in cambio. Dovevo farlo per il semplice
fatto di essere lì.
All’inizio non avendo amici, non conoscendo la lingua né la
città, accettai tutto senza lamentarmi troppo. Anche il sabato.
Anche la domenica. Col passare del tempo le cose sono anche
peggiorate. Sono giovane, brasiliana, e ho capito presto che le
mie conterranee venivano considerate “donne un po’ facili”,
tipe da strada. Questa era la lente deformante attraverso cui mi
guardava anche la padrona di casa, nei miei riguardi sempre più
gelosa benché io facessi soltanto i fatti miei senza dare alcun
appiglio a questo pregiudizio. Insomma sono stata più di tre
anni presso questa famiglia e poi mi sono licenziata. Durante il
secondo anno avevo deciso di andare a dormire fuori casa anche
per guadagnarmi qualche momento di tranquillità, qualche ora
tutta per me, e avevamo formalizzato questa scelta stipulando
un contratto privato. Alle sette di sera me ne andavo, tranne
il mercoledì che dovevo restare fino a mezzanotte. Be’ questa
mezzanotte era piuttosto elastica e molto spesso diventava l’una
o le due. Anche se il giovedì dovevo riprendere alla solita ora.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata una vacanza
di quindici giorni all’isola d’Elba. Mi avevano chiesto se ero
disposta ad accompagnarli o se preferivo prendere per quei
giorni le ferie. Per contratto mi spettavano 90 euro per ogni
fine settimana che lavoravo e così dopo essermi fatta due conti
e avendo bisogno di guadagnare, ho accettato di andare. Al
ritorno però, quando ho ritirato la paga, mi sono accorta che i
conti non tornavano. Per i due fine settimana mi avevano dato
soltanto 90 euro, più 11 di mancia. Due sabati, due domeniche,
pasqua e pasquetta erano stati accorpati alla paga di un unico
fine settimana. Quando gli chiesi spiegazioni ottenni questa
bella risposta: “Eh no, mia cara! Novanta euro valgono per
una volta al mese. Il resto sono vacanza”. Secondo loro non
ero stata a lavorare, ma mi avevano portata con loro a fare le

74
vacanze! A giugno me ne andai, ma per riscuotere la paga di
quel mese dovetti penare e camminare. Corrergli dietro fino
al lago Maggiore, dove avevano una seconda casa, telefonare
e ritelefonare. E comunque non mi hanno dato un centesimo
di liquidazione e non mi hanno pagato l’ultimo stipendio.31

Questa storia ci fa capire molto bene il problema della rivendi-


cazione dei propri diritti per un migrante anche se assunto in
regola. Per un migrante senza permesso di soggiorno è ancora
più dura, non esisti e dunque per il datore di lavoro, come per
la legge, diventi trasparente.

Faccio dei lavori dove posso. E più di una volta mi hanno


licenziata, così, su due piedi, senza neppure un comprensibile
motivo. Non mi volevano più e, come mi avevano presa mi
cacciavano. Ho capito presto che nella mia condizione dovevo
rassegnarmi al fatto che le leggi erano fatte solo e soltanto da
chi mi dava il lavoro.32

La situazione è ancora più critica per quanto riguarda gli in-


fortuni sul lavoro.

Sono caduta mentre lavoravo e mi sono lussata un pollice. Al


pronto soccorso, poiché si era spostato l’osso mi hanno fasciato
la mano e per un mese non ho potuta usarla. Ma in quel mese
ho continuato a lavorare come se niente mi fosse successo. Per
il mio datore di lavoro, che avessi la mano fasciata o non l’avessi
era del tutto indifferente. A lui interessava solo che io lavorassi,
di buona lena. Il medico aveva scritto su un foglio che certe
attività, ai fini della guarigione, non avrei potuto svolgerle. Ma
questo per il mio datore di lavoro non ha significato nulla. Mi

31
In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 70.
32
Intervista dell’autore.

75
ha detto: “Guarda che qui da noi la malattia non esiste. Se vuoi
restare, lavori. Se non puoi lavorare, vattene via”.33

Storie di donne e uomini che migrano dal loro paese nella spe-
ranza di migliorare la loro vita e di trovare nel paese di arrivo un
lavoro dignitoso. Invece nella maggior parte dei casi si scontrano
con la dura realtà dello sfruttamento e della discriminazione.

Dinamiche di potere fra migranti

Vorrei ora indagare nelle dinamiche di potere, più propriamente


di dominio che si sviluppano tra migranti. La differenziazione
tra potere e dominio è fondamentale, in quanto in questo caso il
potere viene da me letto come sfruttamento dell’uomo sull’uomo,
non di reti di potere “positivo” tra migranti. Il potere come ci
ricorda Michel Foucault non occupa un luogo unico privile-
giato, né dipende da un unico soggetto identificabile una volta
per tutte. Il potere coincide con la molteplicità dei rapporti di
forza, che variamente si intrecciano e si contrappongono. È una
relazione fra individui e la società è attraversata da rapporti di
potere: ogni rapporto sociale è un rapporto di potere. In questo
paragrafo voglio analizzare i rapporti di potere coercitivo che
si sviluppano tra migranti.
Uno sfruttamento attuato da migranti che sono riusciti a
migliorare la loro posizione socio economica nel paese di arrivo
e applicano coercizione, sfruttamento e dominio su altri migranti
per scopi economici lavorativi.
La tecnica di speculare sul lavoro di chi non gode di alcuna
protezione ha molte varianti, anche interne. Una di queste è la
vendita dei posti di lavoro o dei documenti contraffatti necessari
per poter in qualche modo lavorare.

33
In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 71.

76
Una lavoratrice come me straniera, quando ero in difficoltà
mi ha detto: “Guarda Rhian, io sto lasciando il mio posto di
lavoro, se mi dai due o trecento euro ti posso proporre come
persona affidabile per prendere il mio posto”.34

Il reclutamento e il controllo dei lavoratori stranieri, attraverso


un dispositivo fiduciario, passa molto spesso attraverso un filtro
etnizzante. Questo filtro sfrutta il collegamento di reti etniche
stabilito dai lavoratori stranieri. Scopo di questo filtro è quello
di favorire il reclutamento di lavoratori stranieri disponibili a
una flessibilità estrema, al lavoro in nero e al di là delle leggi.
Esso introduce un doppio livello di sfruttamento dei lavoratori
stranieri: il primo esercitato dal fiduciario che li chiama al lavoro;
il secondo operato dall’azienda che si servirà del loro lavoro.
Moltissime badanti che vengono dai paesi dell’est sono reclu-
tate direttamente da “uffici di collocamento” istituiti informal-
mente da loro connazionali. In cambio del lavoro ottenuto esse
dovranno poi ripagare il favore. In tal modo resteranno a lungo
debitrici e perciò “dipendenti” dal gruppo che ha procurato
loro lavoro, subendo così un vero e proprio ricatto.35
Inva viene dall’Albania e oggi fa la badante per una famiglia
mediamente agiata benché non propriamente ricca. La nonna
in questa famiglia non è autosufficiente, è affetta dal morbo di
alzheimer e deve essere seguita ventiquattro ore su ventiquattro.
Il lavoro è continuo, stressante. “Per avere questo lavoro ho
dovuto pagare 500 euro in contanti alla lavoratrice, come me
straniera, che me lo ha ceduto”. Ma non è questo il peggio. Inva
infatti degli 800 euro che guadagna ogni mese, 200 li deve dare
a un suo connazionale che le ha trovato il lavoro. Un giorno
che non ce l’ha fatta, è stata maltrattata, picchiata e minacciata.
“Guarda che se non paghi ti faccio tornare al tuo paesello” le

34
In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 75.
35
Ibidem.

77
ha detto il profittatore, ricordandole che non aveva il permesso
di soggiorno.

È appunto il controllo etnico religioso a consentire la sotto-


missione a pessime condizioni di vita e di lavoro: il caporale
diventa etnico. A lui viene subappaltato il “lavoro sporco”,
che svolgerà con la connivenza di qualche imam, marabut,
missionario cattolico o di confessione diversa venuti dai paesi
di origine.36

Praticamente i primi gruppi di lavoratori migranti che si so-


no insediati nelle aziende, se lavorando sodo, sono riusciti a
guadagnarsi la fiducia dei loro datori di lavoro, funzionano da
agenzie di collocamento per quelli successivi.

Nel 2000 il ristorante nel quale lavoravo è stato preso da un


licenziatario e molti lavoratori, quando ciò è successo hanno
deciso di stare con la casa madre. I rimasti, tra cui c’ero anche io,
non erano in numero sufficiente per fare andare avanti le cose.
Il licenziatario aveva anche un altro ristorante in cui lavorava un
ragazzo egiziano, Mahmoud. È a questo ragazzo, che svolgeva
senza mai lamentarsi un gran carico di lavoro, che il licenziatario
si è quindi rivolto per reclutare la mano d’opera mancante.
“Hai dei parenti, gente come te da far venire a lavorare nel mio
nuovo ristorante?” Mahmoud li aveva e ne portò ben cinque,
tutti inquadrati rigorosamente in nero. E anch’essi si diedero
da fare come lui a tutto campo. Lavare i bagni, fare le pulizie,
lavorare in cucina, servire a tavola, qualsiasi tipo di mansione.
Il licenziatario pagava soltanto Mahmoud. Questi a sua volta
distribuiva le paghe agli altri che aveva fatto arrivare. Ma per
il semplice fatto di averli fatti venire a lavorare, si teneva una
certa percentuale. Insomma partecipava con profitto al loro

36
S. Palidda, Mobilità umane, cit., p. 28.

78
sfruttamento. Quando c’è stata la sanatoria i cinque sono an-
dati dal licenziatario per chiedergli di essere regolarizzati. Era
un’occasione per poter emergere, per fare un passo avanti. La
risposta è stata secca, concisa e brutale: “No”. Ma i cinque non
si sono persi d’animo e sono tornarti alla carica: “Se non ci vuoi
mettere in regola stabilmente, fallo almeno per un mese. Poi
ce ne andremo ma intanto avremo in mano almeno un pezzo
di carta”. Questa volta il licenziatario accettò la proposta e li
assunse in regola, al massimo delle ore e a livello salariale più
basso in assoluto, ma a una condizione: avrebbero pagato loro
tutte le spese per essere messi in regola, le spese della sanatoria,
compreso l’eventuale surplus per il loro salario. E, in più, finite
le otto ore di lavoro in uno dei ristoranti, sarebbero andati per
altre otto ore nell’altro, ovviamente in nero.37

Possiamo notare come tra certe aziende e i “capi” di certe co-


munità di stranieri si instaurano talvolta rapporti particolari;
rapporti di complicità che funzionano più o meno così: l’azienda
chiede al capo della comunità un certo numero di lavoratori di un
certo tipo, a certe condizioni salariali e di diritti. Naturalmente
lavoratori obbedienti, disciplinati, che lavorano con la testa
bassa e non piantano grane. Lavoratori che rispondono a lui
di modo che lui e lui solo risponda all’azienda. Sarà lui a essere
pagato per tutti e lui ancora a dare a ciascuno, la sua paga. In
questo patto, evidentemente al di fuori del diritto e dei diritti,
le persone spariscono e resta soltanto il rapporto scabroso tra
interessi di gruppi di potere diversi.38
Succede cioè che chi procura lavoratori sulla base della
fiducia che si è guadagnato, impone agli stessi un codice di
comportamento. Se vogliono restare dovranno attenersi a precise
norme di disciplina: passività rispetto alle richieste delle aziende,

37
S. Palidda, Mobilità umane, cit., p. 30.
38
R. Curcio, I dannati del lavoro, cit.

79
nessuna lamentela sui carichi di lavoro, nessuna apertura ai
diritti dei lavoratori. In questo sfruttamento tra migranti, tutti
i lavoratori stranieri che si aggiungono dovranno sottostare
al capofila che diventa così, in qualche modo, il loro capo e
guardiano.
Una situazione a dir poco tragica è quella delle prostitute
straniere. Alla violenza intrinseca nel rapporto con i clienti si
aggiunge quella subita normalmente da “fidanzati” e sfruttatori,
solitamente uomini dello stesso paese di origine della donna
obbligata a prostituirsi. La stampa riporta quotidianamente
punizioni inflitte, per ragioni futili, a giovani donne, spesso
prive di permesso di soggiorno e quindi doppiamente ricattabili.

Rita venne violentata quand’era ragazzina, in Albania. Si


sentiva umiliata per la violenza che aveva subito, provava
rabbia e vergogna. Scappare dalla sua terra le sembrò la via
migliore per “dare un taglio”, cambiare le cose. Chiese aiuto
a un’amica di cui si fidava, che si rivolse al padre, il quale non
era la buona persona che sembrava. Accolse Rita, ma con
cattive intenzioni. Un giorno infatti, la narcotizzò, la trascinò
in una macchina e, per le vie che lui conosceva, la trasportò in
Italia. Dove senza perdere tempo, un gruppo di “esperti” la
“educò” alla prostituzione. Rita venne stuprata da molti, uno
dopo l’altro, per tanti giorni. Tentò di scappare più volte, più
volte venne ripresa e riempita di botte. Una volta riuscì anche
ad allontanarsi dal luogo in cui veniva tenuta segregata, ma
venne ritrovata e ripresa. E per settimane subì altre violenze.
Alla fine si adattò: non vedeva una via di fuga, aveva paura.
Paura non solo per sé, ma anche per i suoi familiari, perché i
suoi carcerieri le ripetevano come un ritornello: “Se non vai
sulla strada uccidiamo le tue due sorelle che stanno ancora
in Albania”.
Tra le altre paure, Rita aveva anche quella di essere fermata
dalla polizia. Poiché era senza permesso di soggiorno, se le

80
avessero chiesto i documenti, avrebbe corso il rischio di essere
espulsa in Albania.
Come era successo ad Anbeta, una ragazza che aveva conosciuto
subito dopo il suo arrivo in Italia. La quale, fermata dalla po-
lizia e successivamente espulsa, appena scesa dalla nave si era
trovata di fronte gli amici di coloro che in Italia sfruttavano la
sua prostituzione. Anche Anbeta era emigrata per la vergogna
di essere stata violentata. Si era fidata di un’amica che le aveva
presentato un tale dicendole: “Ti può aiutare a entrare in Italia
e trovare un lavoro”. Quest’uomo le aveva chiesto del denaro,
ma visto che lei non ne aveva a sufficienza aveva accomodato
le cose dicendole: “Non ti preoccupare anticiperò io quanto
manca e tu mi restituirai i soldi a poco a poco”. Così senza
rendersene conto, era passata dalla violenza sessuale in Alba-
nia, allo stupro di gruppo in Italia e poi alla prostituzione per
restituire il denaro.
Anbeta veniva considerata ormai una prostituta “educata”
e le era chiaro, dopo le esperienze vissute, che le prostitute
“educate”, non vengono lasciate andare facilmente. Fruttano
un capitale e si capisce perciò che intorno a loro non manchi-
no i “protettori”. Piccole “famiglie”, solitamente, ma molto
determinate.39

Questa situazione di sfruttamento della prostituzione non avvie-


ne soltanto per le donne dell’est ma anche per le donne africane
e non sono solo gli uomini a macchiarsi di questo crimine contro
l’umanità, contro le donne.

Ifeoma per vivere si prostituisce ed è sotto il controllo di Chi-


mamanda, un’anziana donna nigeriana, che di mestiere fa la
protettrice. Questa donna controlla anche molte altre giovani
prostitute, alcune poco più che sedicenni, portate in Italia da

39
In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., pp. 95-96.

81
loro compaesani che avevano finto di essersi innamorati di
loro. Le controlla, è capace di far loro paura.
Con la minaccia, per esempio, di ricorrere a riti Voudou40
contro la loro famiglia.41

Quindi anche tra migranti si sviluppano legami di sfruttamento


interno, ma è importante non dimenticare la complicità, la re-
sponsabilità di molti cittadini italiani che stanno sopra a questi
reclutatori di lavoratori senza diritti o semplicemente la compli-
cità, la colpa, il delitto dei clienti nel caso della prostituzione:

I cittadini di *** che utilizzano questi immigrati, che li sfruttano,


sono la stessa tipologia di quelli che vanno con i travestiti, gli
stessi che li contestano, quelli che affittano i dormitori ai negri,

40
Il vudù (dal termine africano vodu, che letteralmente significa spirito,
divinità, o ancor più letteralmente segno del profondo), è una religione
afroamericana dai caratteri sincretici e fortemente esoterici. La si ritiene ge-
neralmente come una delle religioni più antiche al mondo, sempre se si vuole
considerare la forma moderna – nata tra il Seicento e il Settecento pressoché
contemporaneamente in America latina e in Africa occidentale, come una
continuazione diretta della forma originale. La religione vuduista attuale
combina infatti elementi ancestrali estrapolati dall’animismo tradizionale
africano che veniva praticato nel Benin prima del colonialismo, con concetti
tratti dal cattolicesimo. Oggi il vudù è praticato da circa sessanta milioni di
persone in tutto il mondo, e ha recentemente acquisito il privilegio di essere
riconosciuto come religione ufficiale in Benin dove è ben organizzato in una
chiesa alla quale aderisce l’80% della popolazione e ad Haiti dove è praticato
da gran parte della popolazione, contemporaneamente alla religione cattolica.
Il vudù ha attraversato tre secoli di persecuzioni e mistificazioni, in particolare
da parte della chiesa cattolica; è stato fortemente screditato e sono state diffuse
– probabilmente anche consciamente – molte illazioni e disinformazioni che
ne hanno portato una visione generale decisamente distorta. Al contrario di
come comunemente si ritiene, il vudù è una religione a tutti gli effetti, non un
fenomeno legato alla magia nera, ed è dotato di un profondo corpus di dottrine
morali e sociali, oltre che di una complessa teologia. Per approfondimenti si
veda: L. Faldini Pizzorno, Il vudù, Xenia, Milano 1999; R. Nassetti, Magia
Vaudou, Edizioni Mediterranee, Roma 1988; M. Deren, I cavalieri divini del
vudu, il Saggiatore, Milano 1959.
41
In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., pp. 96-97.

82
sono gli stessi che vengono poi a fare l’esposto dove dicono
che ci sono i negri accampati; sono gli stessi che prima affit-
tano una stanza marcia a uno, poi quando ne trovano dentro
dieci, vengono a denunciarli, dicendo che era un’occupazione
abusiva, quando poi il marocchino ti dice che paga e paga pure
tanto. E non ha motivo di dire il falso, tanto viene denunciato
lo stesso, quindi chi glielo farebbe fare di dire che dà 400.000
lire di affitto per una cantina. Sono gli stessi che beccavo al
volante con i travestiti, imprenditori brianzoli cinquantenni,
con moglie e figli e bella macchina; erano poi la stessa cate-
goria che diceva che bisognava cacciare via i negri, travestiti,
froci e tutto quanto. Con i travestiti non ho mai incontrato un
operaio cassintegrato, un anarchico, no, mai capitato. Mi è
sempre capitato il signore cinquantenne, ben vestito, con bella
macchina, che sicuramente votava lega, ma comunque quello
era il gruppo di appartenenza.42

42
Funzionario di polizia di una città dell’Italia del nord. Quasi tutti gli
operatori di polizia, le guardie o funzionari carcerari e i magistrati di cui ho
trascritto interviste, per non parlare di avvocati, educatori carcerari, operatori
sociali o volontari concordano con queste osservazioni, indipendentemente
dalla loro posizione di fondo nei confronti degli stranieri, in A. Dal Lago,
Non persone, cit., p. 91.

83
Rinegoziazioni
culturali

Che compito gigantesco l’inventario del reale!


Frantz Fanon

Il mondo è un coacervo di culture, è un mondo vissuto, tessuto


da uomini e donne dalle etnie più variegate, nulla ha contorni
nitidi, definiti e fissati una volta per tutte, ciò non può che
influire sulle relazioni umane, divenute ormai precarie.
Turisti, immigrati, profughi, esiliati politici e non, lavoratori
stagionali e altri gruppi e categorie di persone in movimento
che affrontano la realtà con la fantasia del doversi muovere, di
interpretare una parte, un ruolo sul palcoscenico del mondo,
della vita.1 Così il concetto di cultura come lo abbiamo sempre
inteso viene meno perché queste chiavi interpretative di lettura
ermeneutica dei territori, dei paesaggi etnici umani risultano
un imbroglio, un impiccio, un intrigo in cui siamo impigliati,
imbrigliati, circoscritti in un ruolo.
Il vecchio concetto di cultura stabile e chiusa è stato funzio-
nale per molti decenni a un certo tipo di discorso relativo alla

1
U. Fabietti, L’identità etnica, Carocci, Roma 1998.

85
nozione di alterità culturale, ma che attualmente, in realtà, non è
più praticabile negli stessi termini, assunti e alle istanze di matrici
interpretative. Oggi si parla di culture in maniera molto diversa
rispetto a qualche decennio fa. La cultura tradizionalmente intesa
dall’antropologia è la definizione di un “insieme completo che
comprende tutto ciò che è acquisito dall’uomo in quanto membro
della società”.2 Questo tipo di nozione implicava il grosso rischio
di produrre l’idea di cultura come “scatolone”, come entità
chiusa, definita dai suoi rituali, usi e costumi, norme e leggi. In
realtà questo concetto è stato profondamente trasformato nel
tempo e attualmente, per esempio, si considerano le culture
come strutture di significato, archetipi ermeneutici, interpretativi
che viaggiano su reti di comunicazione non localizzate in singoli
territori, ma in movimento, in interazione tra diversità plurime,
in complessità poliedriche, pluriversi di senso interpretativo.
Quindi sussiste differenza tra una concezione della cultura
identificabile territorialmente e invece quella che ne fa reti e
strutture di significato in viaggio, in movimento, in trasforma-
zione, in transizione e interazione.

Attualmente risulta decaduta, desueta, obsoleta l’equazione


tecnica e analitica in chiave antropologica definibile nell’equa-
zione cultura-territorio-identità. In sostanza si è giunti alla fine
di un’idea, appunto, di cultura come identità organizzata in
modo coerente e sottoposta a regole di trasformazione.3

In questo capitolo cercherò di analizzare proprio la possibilità


della trasformazione, la “produzione” di nuove culture. Bagagli
culturali diversi, che si incontrano nella quotidianità dei migranti,
nei luoghi di lavoro, nei parchi delle grandi metropoli, nei call

2
Definizione di Taylor della cultura, 1871.
3
Parte di una relazione del prof. Ugo Fabietti, docente di Antropologia
culturale – Università degli studi Milano Bicocca – presso la Casa della cul-
tura, febbraio 2001.

86
center o nei mercati, ovvero indagherò quel processo che porta
alla creazione di culture sempre più ibride.
Le configurazioni delle culture e delle relazioni culturali nel
mondo contemporaneo congiuntamente ai cambiamenti nello
statuto scientifico del sapere hanno aperto nuovi spazi e nuove
strategie di ricerca che impongono di modificare una serie di
topoi fondativi del discorso antropologico: cultura, comunità,
identità, etnia, razza, tribù, nazione. Le dicotomie del discorso
modernista (modernità, tradizione, centro-periferia, globalità-
localismo ecc.) sono state frantumate in una molteplicità di
articolazioni complesse, appunto in ibridazioni, “traffici di cul-
ture”. Da differenti punti di vista gli scienziati sociali articolano
immagini di ecumeni globali, di panorami etnici, mettendo in
discussione il rapporto esoticizzante fra distanza e differenza e
sottolineando una non più immediata coincidenza di luogo, cul-
tura e identità. Anziché attributi naturali di conchiuse comunità
organicamente unificate, indipendenti e discrete, le identità e
le culture emergono come prodotti artificiali, dinamici e aperti,
di rappresentazioni contingenti, precarie e parziali, attivamente
articolate da differenti individui e gruppi a vario livello ed è
proprio su questo voglio spingere la mia attenzione.
Nella società attuale risulta quasi impossibile non pensare
alle convivenze e al contatto, al confronto di diverse culture. La
contemporaneità come ibridazione tra culture appare come un
evento e risuona come un paradigma effettivamente trasparente,
ma essendo un fenomeno complesso esige profonde precisazio-
ni. Il termine contemporaneità non consiste nell’indicare solo
l’oggi, l’orizzonte del mondo attuale. Sappiamo quanto veloci
siano i tempi e i mondi attuali,4 quanto il presente sia sempre in
tempo reale come la televisione, uno spazio in cui confluiscono
immagini in una sorprendente rapidità spesso disorientante.

4
Per approfondire la tematica, M. Augé, Che fine ha fatto il futuro, dai
nonluoghi al nontempo, elèuthera, Milano 2009.

87
Internet diventa uno spazio virtuale in cui il mondo intero vi
confluisce in una dimensione istantanea.
La contemporaneità è anche una simultaneità di eventi, di
vissuti, di immagini che in qualche modo restituiscono l’idea di
un mondo in cui tutto ha un’incidenza potenziale sul resto: è la
dimensione della simultaneità. È proprio questa contempora-
neità del mondo attuale a far concepire la nostra civiltà come
sottoposta a un processo di ibridazione culturale. L’ibridazione,
sostanzialmente è un’emozione pervenuta dalle scienze naturali,
ma che possiede una connotazione fortemente ambigua se uti-
lizzata nell’ambito delle scienze umane, perché pare che se si
intenda ibridazione a proposito di culture, diamo per scontato
che esistano culture pure, non ibride.
In realtà tutte le culture risultano ibride, non pure. Il termine
ibridazione serve a denotare nel quadro delle scienze umane,
specialmente dell’antropologia, soprattutto una qualità intrinseca
alle culture altre, una dinamica di incontro che le caratterizza e
si configura come scambio, trasmissione che non avviene mai in
un ambito caratterizzato da rapporti neutri, ma da interazioni di
forza. Quindi ibridazione intesa come riformulazione continua
delle identità culturali che sono tipiche del mondo contempora-
neo, sia attuale sia di un mondo virtuale, dove eventi e immagini
abbiano la possibilità e capacità di risultare simultaneamente
in ambiti globali. Quindi l’espressione “ibridazione di culture”
si riferisce alla natura intenta e rapida del portato culturale e
questa idea non rinvia a quella per cui fino a un certo momen-
to le culture sono sempre risultate pure e hanno cominciato a
ibridarsi nel mondo contemporaneo, facendo pensare che le
culture possono essere pure, autentiche, autoctone, sui generis.5
Parlare di culture ibride quindi non dovrebbe coincidere con
un’idea di contaminazione che produce un soggetto ibrido e che

C. Nestor G., Culture ibride. Strategie per entrare e uscire dalla modernità,
5

Guerrini e Associati, Milano 2000.

88
è stato nella sua essenza. Ma piuttosto il concetto, la nozione
di ibridità o ibridazione dovrebbero far intendere come tutte
le emergenze, le presenze culturali, siano frutto, risultato di un
processo di tipo negoziale tra le culture, le istanze etniche che
interagiscono, entrando in dialogo, prodotto di una dinamica
processuale di negoziazione di significati culturali. Ibridazio-
ne è anche una nozione per cogliere tutte quelle strategie di
riformulazione identitaria che si presentano attualmente nel
mondo contemporaneo. Nelle vite dei migranti queste strategie
non costituiscono una novità, ma sono semplicemente solo più
frequenti nel mondo postmoderno. Si tratta di forme di appro-
priazione di codici appresi, di appartenenze a culture diverse
per potersi disporre in maniera attiva di fronte all’alterità.
È importante ribadire che tutte le culture sono ibride, tutte
le culture sono meticce.

Rinegoziazioni migranti

Con la differenza e nella diversità l’esistenza si esalta.


Victor Segalen

Chiunque si sposti da un paese a un altro in qualche modo si


sente spaesato. Se chi si sposta è un lavoratore migrante che deve
fare i conti con difficoltà di ogni genere, burocratiche, econo-
miche, linguistiche, culturali, lo spaesamento sarà moltiplicato.
Culture che si mescolano attraverso il contatto con il diverso
che può essere un migrante di un’altra area geografica o un
cittadino della nazione di arrivo e attraverso l’incontro speri-
mentano nuove tipologie culturali, perché come ho scritto le
culture sono sempre in transito.6
I lavori svolti dai migranti come abbiamo visto nei capitoli

6
S. Allovio, Culture in transito. Trasformazioni, performance e migrazioni
nell’Africa sub-shariana, Franco Angeli, Milano 2002.

89
precedenti sono di tutte le tipologie, non sempre e non solo
sono lavori umili, riporto qui di seguito un’intervista di una
lavoratrice di uno sportello di assistenza per migranti che arriva
dall’Oceania e che rivendica il suo essere meticcia come una
grande qualità:

Vengo da un continente lontano, l’Oceania, e per lavoro incon-


tro ogni giorno, a uno sportello per gli immigrati, tantissime
persone che arrivano anch’esse da paesi lontani. Questi incontri
con gente spaesata sono sempre carichi di molta sofferenza e
alla fine della giornata sento l’urgenza di uscire fuori da questa
immersione, ritornare a me stessa. L’incontro, per esempio, con
un uomo della Mauritania, o una donna che è appena arrivata
dal Congo è sempre struggente, almeno per me. Mi identifico,
solidarizzo, mi indigno. Sì, anche io ho sofferto molto, quando
sono arrivata e anche dopo. Ma loro hanno sofferto il triplo
e forse anche di più. Quando rientro a casa mi sento spesso
confusa. Per potermi ritrovare, al sabato o alla domenica,
faccio un giro in montagna. Vado a cercare fuori dalla città la
mia parte più intima, quella in cui ho riposto, per preservarla,
la mia umanità, la mia sensibilità.
Allo sportello migranti si presentano persone con storie terribili,
durissime. Persone come me straniere, che spesso ripercorrono
le tappe di un difficile cammino che anche io a suo tempo ho
con fatica affrontato. Alla sera, quando torno a casa, questi
problemi vengono con me e me li porto a casa. Non posso
e non voglio lasciarli in ufficio quando finisce il mio turno.
Staccare, uscire dal ruolo, non mi è possibile. Vorrei poter dire:
oh, finalmente chiudo lo sportello e vado a casa; mi rifugio nel
luogo della mia intimità, della mia sicurezza e per qualche ora
ritrovo me stessa. Vorrei poterlo dire e soprattutto fare. Ma
il mio cuore non si stacca dalla sofferenza che incontra negli
altri e che riconosce come sua. E mi dice: “prendi sotto brac-
cio questa persona e vai con lui a mangiare un buon piatto di

90
thiebou dien7 o di thiebou yapp,8 ascoltalo davvero, fatti carico
del suo problema come fosse della tua famiglia, cerca insieme
a lui una buona soluzione”.
Dissociare il ruolo e i sentimenti per altri forse è un’abitudine
consolidata ma per me non è proprio possibile. Se dovessi
limitarmi al ruolo, senza offesa, mi comporterei da occidentale.
Me ne fregherei. Ma io sono meticcia, non sono bianca, soffro
a innalzare muri e non vorrei mai arrivare un giorno a scoprire
che anche io sono diventata capace; che mi sono a tal punto
insensibilizzata da diventare una perfetta lavoratrice inumana.9

Un migrante si trova per definizione in una situazione di diffi-


cile equilibrio, nel senso che non è ancora uscito dal suo spazio
sociale e culturale ma non è ancora entrato se non marginal-
mente, in quello nuovo in cui secondo “noi” vorrebbe inserirsi.
Questo si riflette nell’estrema varietà di forme e reti sociali e
culturali a cui i migranti danno vita o si adattano nei paesi di
destinazione. Adattamenti individuali e utilitaristici coesistono
con reti informali, più o meno derivate da solidarietà familiari
o di altro tipo dei paesi di origine.
Assistiamo ad adattamenti diversi sul piano delle scelte o
delle necessità professionali, sociali e economiche che non
escludono allo stesso tempo legami di tipo culturale-religioso
con i paesi di origine.
Non esiste nessuna identità collettiva, culturale, etnica o
religiosa del migrante in quanto tale, ma esistono tante identità
plurali quante sono le appartenenze di soggetti che si trasformano
nel corso della loro esperienza,10 e in questo vissuto si concre-
tizza il divenire meticcio, delle culture che cambiano attraverso

7
Thiebou dien, una brisure di riso orientale cotto in assorbimento con
pesce stufato alle spezie, piatto nazionale del Senegal.
8
Thiebou yapp, carne di agnello, con verdure, piatto nazionale del Senegal.
9
In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 109.
10
A. Dal Lago, Non persone, cit.

91
le storie di vita dei singoli individui, non ci sono delle regole
prestabilite, a ognuno il suo modo di reinventare, mescolare la
propria cultura di origine con la cultura, più precisamente con
le culture che si incontrano nel paese di arrivo.
Anche gli italiani quando migravano in cerca di una nuova
vita, di un posto di lavoro ibridavano la loro cultura.

La portata del processo di adattamento alla società di immi-


grazione che, ben oltre le apparenze, conduce a una sorta di
ricodificazione delle regole e dei comportamenti. Per esempio,
l’attaccamento al santo patrono da parte del reticolo di emigrati-
immigrati originari dello stesso paesino o città acquista un altro
significato rispetto a quello che riveste nel luogo di origine:
è connesso alla condizione di emigrati-immigrati. Le risorse
simboliche, morali, affettive presenti all’origine sono proiettate
nel divenire immigrati o anche cittadini del paese di arrivo.11

I cambiamenti, le rinegoziazioni sono le più svariate nella


vita di un uomo o di una donna che hanno scelto di emigrare
in un nuovo paese, uno dei primi ambiti di cambiamento,
di meticciamento è quello culinario. Come tutte le identità
anche quella legata alla cucina è una costruzione culturale,
e comunque questo non impedisce che nella vita quotidiana
tale identità venga percepita come reale, non di rado inten-
zionalmente costruita.12
Un migrante in cucina si trova di fatto davanti al problema
della mancanza di determinati ingredienti e quindi reinventa i
piatti modificando le sue tradizionali abitudini culinarie. Alcuni
meticciano per convinzione, si inventano ricette, qualcuno in-
vece lo fa quasi senza accorgersene, la pratica di adattarsi agli
ingredienti disponibili e di sperimentarne qualcuno nuovo è

11
S. Palidda, Mobilità umane, cit., p. 42.
12
M. Aime, Eccessi di culture, cit.

92
una consuetudine che si ritrova in tutte le cucine casalinghe
del mondo.13
Questo cambiamento, culturale del migrante, causa diversi
sentimenti nell’individuo che ne è protagonista, sia positivi sia
negativi ma soprattutto di spaesamento, come racconta un ragazzo
senegalese a Milano dopo un viaggio di ritorno nel suo paese.

Un giorno ero appunto in canottiera e pantaloni corti quando è


arrivato mio fratello maggiore, oggi capo famiglia. C’era anche
suo figlio che gli ha fatto una domanda: “Papà perché lo zio
mette i pantaloni corti?”. Il padre gli ha risposto: “Perché lo
chiedi a me chiedilo a lui, non ti pare”. “No” ha risposto il figlio,
“a lui non lo chiedo perché lo zio è un bianco, è un tubab. Lui
può fare quello che vuole ma tu no.” Poi si è avvicinato a me
e ha commentato: “Lo zio puzza di questi vestiti dei bianchi
(è l’odore del detersivo) puzza di fugujai (del mercato in cui
si vendono i vestiti della Caritas)”. Questa storia mi ha fato
percepire il punto di crisi della mia identità. Dico “crisi” perché
ho avvertito per la prima volta che i miei non mi vedevano più
“africano”, anche se io continuavo a percepirmi come tale e
come tale ero percepito in Italia e in Europa. Il punto è che se
cerco di portare nel mio paese di origine ciò che c’è di buono
nella cultura europea mi trovo spaesato. E viceversa. Ciascuno
dei due mondi mi cambia un po’ e nessuno dei due mi cor-
risponde completamente, vivo nella contraddizione e non so
proprio come gestirla. “Cosa mi resta da fare?”14

Dalla cucina, al modo di vestire, dalla velocità quotidiana ai


simboli religiosi, la vita dei migranti mette in gioco le identità,
ibrida le culture.

13
A. Perin, Ricette scorrette, racconti e piatti di cucina meticcia, elèuthera,
Milano 2009.
14
In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., pp. 124-125.

93
Un caso specifico
Le badanti, precarie per eccellenza

Mio amato marito, emigrate diveniamo immortali. Mai nate,


non siamo state cresciute, non invecchiamo, non ci stanchiamo,
non moriamo. Un’unica funzione: lavorare. Immortali poiché
continuamente interscambiabili. Esisterà la fine del lavoro, ma
non c’è limite alle forme del servire.
Guido Tassinari1

Non hanno un contratto regolare, nessuna assistenza sanitaria e


in molti casi nemmeno un permesso di soggiorno: secondo uno
studio dell’Istituto di studi di genere del Mediterraneo (Migs) la
maggior parte delle badanti in Italia, Spagna, Grecia, Germania
e Cipro sono lavoratrici invisibili per lo stato, costrette a volte a
lavorare e vivere in condizioni ai limiti della decenza. Precarie
per eccellenza perché sin dal momento della loro “assunzione”
sono consapevoli che il loro lavoro ha un tempo determinato
perché legato dalla durata della vita dei loro assistiti.

All’inizio sono stata sfortunata perché appena trovavo un


anziano da accudire poco dopo decedeva e rimanevo senza
lavoro. Poi ho trovato un posto come colf in una famiglia dove
ho avuto un contratto con cui ho potuto regolarizzare la mia
posizione. Molti datori di lavoro italiani, però, speculano sulla

1
In G. Tassinari, rete indi.genti, Quelle voci dal vuoto, Iacobelli, Roma
2009, p. 150.

95
nostra pelle. Conosco molte georgiane che hanno pagato di
tasca propria il contributo di 500 euro a carico del datore di
lavoro fissato dalla sanatoria.2

In Italia, stando ai dati dell’Inps, nel 2010 le collaboratrici


domestiche regolari erano 845.000, e solo una piccola parte
di esse erano immigrate. Questo perché le lavoratrici straniere
sfuggono alle statistiche dell’Inps, in quanto la maggior parte
lavora senza contratto, in nero: secondo l’Istituto italiano di
ricerche sociali sono circa 600.000 le badanti immigrate, di
cui solo il 40% ha un contratto regolare mentre il 38% non
ha nemmeno il permesso di soggiorno. A questi dati, spiega lo
studio del Migs, vanno aggiunte le cifre del lavoro in nero. È
chiaro che in Italia si presta più attenzione alle necessità delle
famiglie che ai bisogni di collaboratrici domestiche e badanti,
che restano lavoratori invisibili per lo stato, nonostante la ri-
chiesta delle loro prestazioni sia in salita per l’invecchiamento
della popolazione e per il sistema insoddisfacente.
Gli analisti del Migs riportano inoltre diversi casi di badanti
che dormono nella cucina del loro assistito, sono in servizio
ventiquattro ore al giorno e non ricevono una paga regolare.
Giorno e notte accanto al letto dove giace un anziano.
Le badanti le incontriamo nei parchi delle nostre città che
spingono una sedia a rotelle o nei supermercati mentre comprano
i pannoloni per i loro assistiti. Sono donne e in rari casi uomini,
soprattutto dell’est Europa, che lasciano la famiglia e dei figli
per venire in Italia a svolgere un lavoro sempre più richiesto.
Arrivano in Italia in modo regolare con un visto turistico, ma
quando scade diventano irregolari e quindi costrette a sottostare
ai loro nuovi padroni italiani che decideranno prezzo e modalità
del loro lavoro, diventano vittime delle famiglie italiane per le
quali lavorano.
2
In C. Morini, La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico, Derive
e approdi, Roma 2001, p. 75.

96
Per circa tre anni ho lavorato a nero, per circa 800 euro al
mese, senza contratto né contributi e con orario continuato.
La cosa peggiore, però, è quando sei costretta a rinunciare
alla tua dignità. Mi è accaduto quando accudivo una anziana
all’ospedale. Per non spendere il mio misero stipendio mi sono
ridotta a mangiare per un mese gli avanzi dei pasti ospedalieri
della nonna. Prima che l’infermiera tornasse per portare via il
vassoio andavo in bagno e ripulivo i piatti.3

Le difficoltà non sono finite qui anzi potremmo dire che sono
appena iniziate perché a questi nuovi padroni che dettano leggi
lavorative “criminali” si aggiungono “caporali e caporalesse”
che per trovare loro un lavoro si fanno pagare.

Anche io ho dovuto pagare per avere un lavoro, – dopo quattro


anni di soprusi ce l’ha fatta a svincolarsi dalla connazionale
aguzzina – tutto il mio primo stipendio l’ho dovuto dare a “Dio”,
è così che tra di noi chiamiamo la caporalessa che gestisce tutto
il giro delle badanti. Lei è il punto di riferimento di tutte le
georgiane che quando arrivano non conoscono la lingua e non
sanno dove andare. “Dio” ti porta in uno dei suoi appartamenti
con altre georgiane in attesa di un lavoro [...]. Ciascuna di noi
paga una retta giornaliera di 7-8 euro, mentre per mangiare si
fa la colletta. Chiuse in casa si aspetta da uno a tre mesi, col
visto d’ingresso ormai scaduto. Per il mio visto turistico ho
pagato 4.000 dollari. Funziona così perché per essere certi di
ottenerlo bisogna affidarsi a fantomatiche agenzie georgiane
che pensano a procurarti i documenti per il consolato.4

Le badanti, le colf, che dal lontano oriente, dall’est Europa,


dalle isole di Capo Verde o da una Somalia ancora lacerata
dai conflitti, lasciano il loro paese per inseguire un sogno e in
3
Ibidem.
4
Ibidem.

97
realtà arrivano in Italia o in altri paesi dell’occidente per fare le
serve. Sono donne che a differenza delle nostre connazionali che
emigravano fino a pochi decenni fa, spesso hanno una diversa
professionalità da proporre, ma è una professionalità che non
viene loro riconosciuta, che non serve in questa nostra società.
La “nostra” società gli chiede tutto in cambio di un misero
lavoro, devono spogliarsi di capacità e di ambizioni, accettare
le nostre regole, rinunciare alla loro vita privata, al loro tempo
libero, alle loro amicizie e alle loro abitudini. La loro presenza è
una presenza invisibile, che risolve molti problemi delle famiglie
italiane che per svariati motivi non hanno più né il tempo né la
voglia di curarsi delle proprie case, delle loro madri, padri e figli.
Queste donne che migrano con grande coraggio molto spesso
sono disposte a mescolarsi, ibridarsi con “noi”, purtroppo siamo
“noi” che mettiamo grandi limiti che costruiamo grandi muri, a
questo divenire meticcio e ribadiamo, imponiamo solo le nostre
regole, le nostre abitudini, la “nostra cultura” e siamo sempre
“noi” che decidiamo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Sono donne sole in questo percorso in questa loro lacerante
esperienza, è un modo di vita che il più delle volte non hanno
scelto, ma che non possono rifiutare a meno di non tornare nella
guerra o nella miseria del loro paese a meno di non rinunciare
al loro sogno, a una vita degna. E così restano a lungo in quelle
case che le ospitano in modo totalizzante. Per loro queste case
sono senza dubbio un riferimento importante quando ancora
non possiedono strumenti per orientarsi nel nuovo contesto,
ma ben presto questa loro “protezione” si traduce in isolamento
forzato e si rivela un modo in cui la società si alleggerisce della
responsabilità di fornire spazi, ambiti di formazione.
La percezione di queste donne che lavorano quasi ventiquat-
tro ore al giorno con le nostre madri o i nostri padri, segregate
in vecchie e silenziose case, si distorce e con il passare degli
anni si sentono come delle macchine da buttare, non come delle
persone che hanno lavorato sodo, che giustamente si sentono

98
stanche, invecchiate anche loro, è come se gli venisse negato
anche il diritto alla vecchiaia.

Ai paesi che hanno vengono date donne. Le macchine vecchie


si sostituiscono. Le persone che invecchiano vengono custo-
dite. Le custodi che invecchiano non servono più. È così? E
rappresentare dall’esterno noi nuove lavoratrici sarebbe come
custodire macchine obsolescenti? Come guardare altrimenti
questi rapporti nei quali siamo immerse, se è la nostra nuda
vita che viene messa al lavoro?5

Potrebbe sembrare un’esagerazione e invece è la dura realtà


che vivono queste donne giunte nel nostro paese per lavorare,
in un articolo del 10 agosto 2009 pubblicato sulla “Gazzetta
del mezzogiorno”, Mauro Ciardo ci racconta la storia di una
badante rumena di 54 anni, l’anziana presso cui lavorava muore
e viene letteralmente scaricata ai giardinetti:

La badante diventa inutile e la famiglia decide di abbandonarla


nei giardinetti pubblici. Un’incredibile vicenda ha visto come
protagonista l’altra notte una donna rumena di 54 anni, origi-
naria di Timisoara, letteralmente scaricata dalla famiglia di una
anziana che accudiva. Arrivata in Italia da pochi mesi infatti
la donna aveva prestato servizio in una abitazione della zona
come assistente di una vecchietta, che è deceduta alcuni giorni
fa. Finito il compito i familiari dell’anziana hanno pensato bene
di caricare la badante in macchina insieme a tutti i bagagli e
abbandonarla al suo destino su una panchina al parco cittadino.

Questo articolo ci fa capire bene come molte volte vengono


considerate le badanti dai loro datori di lavoro, delle macchine
da usare e buttare quando non servono più, capiamo il tipo di

5
In G. Tassinari, rete indi.genti, Quelle voci dal vuoto, cit., p. 152.

99
relazione che prevalentemente si instaura tra cittadini locali e
stranieri.

Si parla molto di differenze culturali o cose simili, io credo che


la vera differenza sia dovuta semplicemente al fatto che loro
sono le nostre serve. Anche se non si usa più questo termine,
il succo non cambia.6

Abbiamo sempre più bisogno di queste donne, di queste serve


come scrive Olga Piscitelli in questo articolo sul “Corriere della
Sera” del 30 luglio 2007:

Da soli, sono già una città: un milanese su cento ha più di 80


anni, uno su cinque ha superato la soglia dei 65. E sono sempre
più soli: i “single” che hanno già spento 75 candeline, secondo
le statistiche sono 73 mila. Di questi, una gran parte non ha
più nemmeno un parente, spesso, nemmeno amici. Quando
la solitudine rischia di tramutarsi in abbandono cominciano
i problemi. La Asl Città di Milano ha recentemente calcolato
che, su una popolazione di 301 mila ultra-sessantacinquenni,
gli anziani “fragili” e dunque a rischio sono 75 mila. Per questo
Milano è anche la capitale delle badanti. Un esercito in gonnella,
in arrivo dai paesi dell’est Europa, per lo più e poi da quelli del
sud America. Un plotone che resta in ombra per più della metà
delle forze, oscurato dal lavoro nero. Sono 126 mila le badanti
in Lombardia, il 18,2% delle 693 mila assistenti familiari del
paese. Almeno secondo le stime dell’Irs, l’Istituto per la ricerca
sociale che, in collaborazione con Caritas Ambrosiana, Cgil,
comuni di Brescia e di Sesto San Giovanni, ha fotografato uno
spaccato di vita quotidiana. Un’istantanea in bianco e nero,
che mette in luce le debolezze del sistema. Ogni cento anziani

6
In T. Torre, Non sono venuta per scoprire le scarpe. Voci di donne immi-
grate in Liguria, Sensibili alle foglie, Milano 2001, p. 27.

100
residenti, sette ricorrono all’aiuto esterno per le cure. E si af-
fidano alle donne venute dall’est soprattutto d’estate, quando
restano soli. Il loro stipendio, in media va da 800 a 1.200 euro
al mese. Troppo, per gli anziani. Anche quando ci sono gli aiuti
di comune e regione. Così il 20% delle badanti milanesi con
permesso di soggiorno è senza contratto di lavoro. I due terzi
di chi invece ha un contratto, lavora almeno il doppio delle
ore dichiarate. Un “nero parziale”, secondo la definizione degli
esperti, che sommato al “nero totale” porta le irregolari al 77%
del totale. Cifre importanti se si considera che soltanto nella
provincia di Milano le badanti sono 75 mila, il 60% dell’intera
regione, con un’incidenza sulla popolazione over 65 di circa
10 assistenti ogni 100 anziani. E tra le badanti con regolariz-
zazione al minimo, il 76% dichiara che dipenderebbe “dal
costo troppo elevato a carico del datore di lavoro”. Il punto
è presto fatto, secondo i ricercatori dell’Irs: “Il lavoro di cura
in Lombardia è prestato quasi esclusivamente da donne, in
larga parte provenienti dall’Europa dell’est (56,2% nel nostro
campione lombardo) e dal sud America (30%, sono quelle che
hanno un progetto migratorio più lungo) e in misura minoritaria
dall’Africa e dall’Asia. In lieve crescita la presenza di italiane
(2,5%)”. “Prendersi cura di un anziano che invecchia è un
onere che le famiglie italiane sono sempre meno disposte a
gestire in proprio” spiegano i ricercatori Irs.
L’esternalizzazione dell’onere della cura è uno dei cambiamenti
dal basso più rilevanti che ha conosciuto il welfare italiano
negli ultimi anni. 1.200 euro lo stipendio massimo di una colf.
Il salario minimo è sugli 800 euro. Sono 75 mila le badanti che
lavorano a Milano, più della metà del totale lombardo: 125 mila
unità. Lavorano molto, ma non sempre risulta. Sette badanti su
dieci assistono l’anziano 24 ore su 24. Quelle che lavorano per
il maggior numero di ore al giorno “sono le europee dell’est,
che più frequentemente convivono con il datore di lavoro”.
Lo dice la ricerca dell’Istituto di ricerca sociale. La tendenza

101
“Diminuisce la disponibilità totale”. Un dato dalla doppia let-
tura: segno di una sempre maggiore autonomia abitativa delle
assistenti familiari, ma anche causa della “ripresa di domande
di ricovero in strutture residenziali per anziani” L’aspirazione
“Metà delle assistenti vorrebbe fare altro”, ma questo lavoro
“è più facile da trovare (21%)”, spesso, anzi, “è l’ unico effet-
tivamente accessibile (24,8%)”, a donne con titoli di studio
quasi mai riconosciuti. La segregazione diventa anche una sorta
di “segregazione occupazionale”. Il 47% delle badanti che ha
cercato un altro lavoro, non lo ha trovato. Le poche fortunate
che ce l’hanno fatta “non hanno potuto accettare, perché
avrebbero guadagnato meno, o perso l’alloggio”. Non hanno
permessi orari o riposi pagati e una su tre non ha nemmeno i
giorni di malattia retribuiti.

Il nostro è diventato un paese per vecchi ma non sappiamo


come occuparci di loro. Fra vent’anni un italiano su tre avrà
più di sessantacinque anni ma le famiglie di questi anziani
avranno sempre meno tempo e voglia di prendersi cura dei
genitori non autosufficienti, di una nonna cardiopatica, di una
zia affetta da demenza senile. Là dove il welfare centrale non
prevede la gestione del pianeta anziani, là dove l’iniziativa di
molti enti locali è minacciata dal crescente esaurimento dei
fondi, ecco la donna ucraina o romena che lavora per meno
di 1.000 euro al mese, pagata peraltro dal privato, risolve gli
aspetti pratici e spesso anche affettivi che figli e nipoti non
sono in grado e non vogliono affrontare.
In Italia oggi lavorano come assistenti familiari circa 750
mila persone (quasi tutte donne) iscritte all’Inps. Ma ce ne
sarebbero quasi 900 mila irregolari. In fin dei conti la badante
rappresenta una grande fonte di risparmio per lo stato; pensiamo
a quanto costerebbe il ricovero in una struttura convenzionata
per lungodegenti. Forse la sanità pubblica spenderebbe in
un giorno quello che il privato paga in un mese. Carlo Pieri,

102
presidente dell’Associazione per la difesa e l’orientamento dei
consumatori (Adoc), ha calcolato che l’apporto delle badanti,
regolari e non, costituisce per lo stato un risparmio di 45 miliardi
di euro all’anno.7
Concludendo, chi sono e da dove vengono queste 2 milioni
di donne del Terzo millennio? La frantumazione del blocco
comunista ha favorito l’esodo di donne russe, ucraine, mol-
dave, bulgare e rumene verso l’Italia. Secondo una ricerca
commissionata all’Iref dalle Acli il 60,3% delle badanti viene
dall’Europa dell’est, il 16% dall’Asia, il 14,5% dal centro e sud
America, il 9,4% dall’Africa. Molte di queste donne hanno anche
un curriculum scolastico di tutto rispetto che va dal diploma
superiore a una o perfino due lauree. Il 38% è tra i trenta e i
quarant’anni e il 27,7% è tra i quaranta e i cinquanta. Quasi
sempre arrivano in Italia con il visto turistico, su indicazione
di un’amica, e iniziano a lavorare presso una famiglia. Quando
vengono ritenute brave ed eccezionali lavoratrici le famiglie
iniziano a ritenerle indispensabili e dopo averle tenute un po’
in clandestinità, fanno domanda per regolarizzarle. Se tutto va
bene, con il permesso di soggiorno arriva l’aumento di stipendio
(sui 700-800 euro al mese) e l’iscrizione all’Inps, quasi sempre
con un numero di ore dichiarate inferiori alla realtà.
Ma il vero salto che la maggior parte delle badanti sanno
garantire è quello del legame con l’assistito. Molto spesso la
badante rappresenta per l’anziano l’unica vera fonte di com-
pagnia e di affetto.
Miscila Ruth Macuri Caro ha 35 anni è una donna che viene
da Lima, Perù, è arrivata in Italia nel 1996. Nelle sue parole ho
letto molta saggezza:

Quando sono arrivata c’era la solitudine e c’era la sofferenza


che nasceva dalla solitudine. Lavorare in famiglia per me era

7
In www.adoc.org.

103
come se lì dentro quelle stanze si potessero ricostruire i tessuti
affettivi che avevo perso, una specie di surrogato della mia vera
famiglia, quella che avevo lasciato in Perù. Mi figuravo di essere
ancora in casa mia, facevo finta di vedere loro come fossero i
miei, mio padre, mio fratello i miei nipoti. Dentro le case mi
sentivo più protetta, più sicura. Quando invece stavo da sola,
a pulire la scala del condominio, mi accompagnava sempre il
pensiero fisso della mia terra lontana e mi veniva da piangere
[...]. Certo deve essere una famiglia che, come ho detto, ti sappia
valorizzare, perché invece ci sono persone che ti disprezzano,
ti stanno dietro, ti controllano, non ti lasciano lavorare [...].
Gli anziani hanno bisogno di un lavoro psicologico sottile e
difficile, loro sono degli alberi duri, alberi grandi, cresciuti con
i rami e le foglie e tutto. Con gli anziani è più difficile che con
i bambini l’aspetto psicologico è fondamentale.8

Nelle parole di Miscila c’è una grande serietà verso il lavoro che
deve svolgere, una comprensione alta dell’importante ruolo di
una badante, cerca di farci capire che ovviamente vuole essere
rispettata come una persona e che non vuole essere considerata
solamente come uno strumento che produce servizi, modo in
cui purtroppo molto spesso vengono trattate dai loro datori di
lavoro, dai politici e da sociologi di turno. È importante invece
saper riconoscere e comprendere la condizione esistenziale e
psicologica della badante, il suo processo di “trasferimento” e
di vero e proprio “trasloco” di emozioni, sentimenti, affetti dal
proprio paese e dalla propria famiglia di origine, nei confronti
della quale è costretta a consumare un’assenza affettiva non
risarcibile in cambio di un reddito che può migliorare il tenore
di vita dei propri cari, verso un mondo e un modello culturale i
cui codici sono tutti da comprendere, ma che implica e richiede
un urgente investimento relazionale.

8
In C. Morini, La serva serve, cit., pp. 82-83.

104
I sogni di emancipazione di queste donne si infrangono
molto spesso contro la brutalità delle famiglie che le assumono,
contro la brutalità del liberismo e delle sue politiche xenofobe,
devono passare attraverso la cruna delle molteplici violenze
particolarmente riservate alle donne migranti.9

9
Ibidem.

105
Le voci dei migranti

L’intervista riveste un ruolo importante nella ricerca sociale


e antropologica, sottolinea il grande valore dell’oralità, della
visualità, della partecipazione e dell’osservazione, rende fon-
damentale il contatto diretto per la costruzione di uno studio
antropologico.
Si possono usare diverse tipologie di interviste, per esempio
interviste non strutturate, semistrutturate e strutturate.
Io ho scelto, per la costruzione della mia ricerca, l’intervista
non strutturata. Con questo tipo di intervista, che racconta storie
di vita, ho tentato di realizzare una comprensione profonda,
complessa del punto di vista e della situazione degli intervistati.
Desideravo scoprire le esperienze, le sofferenze delle donne
e degli uomini che ho intervistato, ho cercato di esaminare a
fondo le loro storie di vita da migranti, permettendogli di co-
municare liberamente. Proprio per questo motivo questo tipo
di intervista è denominata non strutturata.

107
Ho lasciato l’intervistato libero di parlare delle esperienze
importanti, con una mia influenza poco direzionale, cercando
di stabilire dei rapporti umani, fondamentali perché dovevano
fidarsi di me per rivelarmi informazioni intime della loro vita.
Per questo è importante lasciare ora la parola ai migranti,
lavoratori precari, sfruttati che vivono con noi e che troppo
spesso non vogliamo ascoltare. Le interviste costituiscono parte
integrante del testo, sono i racconti delle donne e degli uomini
che hanno vissuto i fatti che raccontano, sono le storie orali,
documenti di grande importanza per capire la complessità della
vita quotidiana.
In una società che ci sottopone a un continuo sovraccarico
informativo gli eventi ci vengono raccontati da altri quasi in
tempo reale, facendo perdere agli individui la capacità di sentirsi
testimoni o narratori delle situazioni di cui si è stati protagonisti.
Rendersi protagonisti, e non meri spettatori, della memoria,
significa invece saper ascoltare, significa ricostruire esattamente
gli eventi e il loro significato, ma anche riuscirli a rappresentare
attraverso i protagonisti diretti. Senza aver parlato, discusso
con i migranti questo testo non sarebbe esistito, per questo ora
lascio la parola ai veri protagonisti della ricerca.

Marcelo

Sono partito nel 1989 dall’Argentina, avevo 19 anni e mai mi


sarei immaginato di dover andare via dal mio paese. Pensavo di
morire dove sono nato. Poi ho iniziato quella che io ora chiamo
l’ora dell’esilio. L’attività politica in Argentina era controllata
dalla “polizia democratica” e io dovevo andare via.
In Brasile, dopo tre mesi, non avevo trovato il mio contatto
ed ero senza documenti, quindi ho deciso di andare in Uruguay
e lì ho preso coscienza che la mia situazione legale in Argentina
era ormai compromessa, perciò ho fatto richiesta alle Nazioni

108
unite per ottenere lo stato di rifugiato politico. Dopo altri tre
mesi di attesa mi è stato concesso.
In Uruguay ho trascorso quattro anni da rifugiato, ma nel
1994 mi è stato tolto perché l’Argentina era diventata demo-
craticamente credibile, non era più una dittatura da dieci anni.
Sulla carta non ero più un rifugiato politico.
Voglio ricordare che in questa transizione democratica ci
sono ben ventimila giovani ammazzati dalla polizia, erano gio-
vani ribelli dai 13 a 19 anni, a cui lo stato voleva far imparare
bene quello che voleva dire democrazia. Gli stessi quadri della
dittatura erano quelli che poi sono passati per la democrazia,
hanno continuato a sparare per inerzia.
Una volta che mi hanno tolto lo stato di rifugiato le autorità
argentine sarebbero potute venire a prendermi in Uruguay
quando volevano. Dovevo fuggire un’altra volta. Sono stato
aiutato ad andare nuovamente verso il Brasile. Ho passato
cinque anni in Uruguay uno solo in clandestinità e poi cinque
in Brasile quattro da clandestino uno con il permesso.
In Brasile sono arrivato via terra a San Paolo, l’unico modo
per non venire controllato al confine. Per fortuna avevo un
contatto, la stessa persona che non avevo incontrato cinque
anni prima. Questa volta mi va bene e ci vediamo subito. Lui
mi aiuta a trovare lavoro e alloggio. Sono riuscito a integrarmi
abbastanza velocemente. La cosa che mi ha aiutato di più è stata
quella di studiare la storia del paese dove sono arrivato, la stessa
cosa che ho fatto appena sono arrivato in Italia. Studiare la storia
contemporanea del paese dove sei capitato è fondamentale.
Ho lavorato in una scuola agro ecologica vicino a San Paolo,
un progetto in cui sono stato impegnato per tre anni. Dopo
tanto tempo fuori dall’Argentina avevo capito che avrei avuto
troppi problemi a ritornare nel mio paese. Ho quindi cercato
una patria sostitutiva e mi è venuto in mente di chiedere la
cittadinanza italiana.
Lo avevano fatto anche i miei genitori, perché i miei nonni

109
erano italiani. La richiesta l’ho compilata dal Brasile, mentre
aspettavo la risposta sono andato via terra in Venezuela in auto-
stop verso Caracas con altri due amici, quattro mesi di viaggio.
In Venezuela ho lavorato nella manutenzione di una scuola in
un paese dell’interno, volevo stare con la gente comune, ero
curioso di conoscere il processo Chavez.
In seguito ho deciso di non aspettare i tempi della burocrazia
italiana e di provare ad arrivare in Europa lo stesso. Prima tappa:
Spagna. Conoscevo la lingua era più semplice.
Mi sono trasferito in Andalusia, è stato un bel momento,
sono arrivato con un visto turistico e poi sono ritornato a essere
un clandestino. La questione della cittadinanza italiana era un
mio diritto e non poteva essermi negato. A parte i procedimenti
lunghi della burocrazia esisteva un modo, diciamo fai da te, e
quindi decido di andare nel comune di residenza dei miei nonni
e in ventiquattro ore mi hanno concesso la cittadinanza. Per
arrivare in Italia ho dovuto fare la strada senza documenti, ma
sono stato fortunato perché con il cognome italiano e il fatto
che stavo andando a fare la cittadinanza non ho avuto grossi
problemi. Poi il razzismo è irrazionale, se sei sud americano o
meglio ancora argentino, per la polizia sei un gradino più in
su rispetto a un africano, è incredibile ma mi sono sentito un
migrante privilegiato. Il comune dove ho fatto la cittadinanza è
in Calabria. Avuto le carte in regola non sono rimasto in quella
regione, sono tornato in Spagna ma finalmente con i documenti
in regola.
Lavoravo nell’estrazione del marmo ma era troppo faticoso,
guadagnavo poco e volevo provare a vivere a Milano, che per
me era il nord Europa ricco.
Arrivo Milano nel 2002 e in una settimana ho trovato lavoro
nelle cooperative, mi hanno chiamato in tanti. Le cooperative
non pagavano molto ma c’era tanto lavoro. Io non parlavo la
lingua e all’inizio anche sul lavoro è stato difficile, per esempio
non capivo la differenza fra su e giù, il problema linguistico non

110
è stato da poco, lavoravo in una ditta di traslochi e facevo fatica
a capire tutti i discorsi.
Cambio cooperativa e mi capita una cosa particolare che mi
ha segnato. La ditta è a Lainate, una piccola azienda di logisti-
ca, di magazzinieri dove lavoravano sei persone fisse, cinque
italiane e un marocchino. Ero l’unico lavoratore esternalizzato,
cioè lavoravo per la cooperativa. Il primo giorno mi blindano
subito gli operai negli spogliatoi e mi dicono: ci devi dire quanto
guadagni! Erano 800 euro al mese. Questi mi hanno portato dal
direttore della azienda e gli hanno detto che non gli permetteva-
no di pagarmi meno di loro. Gli dicono: “Stesso lavoro, stesso
stipendio, non permettiamo che qualcuno guadagni meno per
lo stesso impiego”.
Sapevano che rischiavano, se entravo io pagato meno poi ne
sarebbero arrivati due di Marcelo e così in due giorni mi hanno
aumentato del 33% lo stipendio e mi hanno pure concesso il
buono mensa che non sapevo neanche cosa fosse. Si è creato
subito da parte mia il massimo rispetto per i miei colleghi. In
più chiedevano al padrone di non cambiare ogni tre mesi il
personale precario ma di tenere una persona se lavora bene e
mandarla via solo se lavora male. Un passaggio per me impor-
tante, questo serve anche per capire il tema dell’immigrazione,
siamo noi operai che ci freghiamo da soli quando lasciamo che
un migrante clandestino lavori per 3 euro l’ora, non possono
esporsi da soli, per questo noi dobbiamo appoggiarli. Stesso
lavoro, stesso stipendio, un livello per cominciare fondamentale.
Lì ho lavorato nove mesi, poi siccome mi ero trasferito a
Varese, ho trovato un posto presso un magazzino e ci sono
rimasto un anno inseguendo il posto fisso che non è mai arrivato
Più tardi ho trovato lavoro alla Carlo Colombo ad Agrate
Brianza dove ho affittato una casa. A quel punto è arrivata anche
mia madre dall’Argentina. È stato un momento di stabilità, in
questa azienda facevamo trafileria in rame.
Anche qui ho trovato un gruppo di persone simpatiche,

111
c’era un’abitudine fantastica in fabbrica: si andava tutti insieme
a comprare da mangiare alle sette di mattina per poi fare dei
panini accompagnati da una bottiglia di vino. Questa piccola
abitudine creava unità, io questo lo chiamavo il filo che unisce
l’Italia, il filo del salame... Lì non c’erano capi, argentini, siciliani
o lombardi eravamo tutti uguali, questa unità è stata importante
anche per il dopo fabbrica, la relazione umana diventava più
importante di quella politica.
Ma a un certo punto la situazione è diventata critica quando
è subentrato un nuovo direttore che faceva gli stessi discorsi che
sentivo in Argentina: “Dobbiamo tagliare i rami secchi, stiamo
andando incontro a una crisi”. Qualcosa non andava... Stava
iniziando il gioco della speculazione.
Nel 2008 il treno arriva al capolinea: si deve chiudere la
fabbrica e ci ritroviamo tutti in strada. Con i miei colleghi
abbiamo iniziato i primi passi di una lotta per non perdere il
lavoro. Grazie all’esperienza degli altri operai eravamo sicuri di
non potere contare sulle decisioni dei sindacati o dei padroni,
e così siamo passati all’azione per rivendicare i nostri diritti
Ci siamo piazzati davanti ai cancelli bloccando per quattordici
giorni le merci in entrata e in uscita. L’azienda è stata costretta
a sottoscrivere un accordo che, tra le altre cose, prevedeva la
ricollocazione di trentotto lavoratori nell’arco di due anni,
durante i quali i dipendenti sarebbero stati coperti dalla cassa
integrazione straordinaria. Nel gennaio 2009 siamo entrati in
cassa, ma a oggi la ricollocazione è rimasta lettera morta. Vista
l’immobilità del sindacato e la sua incapacità di dare risposte
chiare si è formato un Comitato lavoratori Colombo, che ha
dato vita a una manifestazione davanti agli uffici dell’azienda a
Milano. In seguito la proprietà ha accettato di anticipare anche
il secondo anno di cassa integrazione.
Nel gennaio abbiamo cominciato a svolgere una serie di
iniziative: assemblee settimanali autoconvocate, presidi davanti
alla sede di Confindustria, occupazione per sei ore degli uffici

112
dell’azienda da parte di trentacinque lavoratori. È stata una sorta
di scuola che ci è servita non solo a consolidare il gruppo dei
lavoratori, ma anche a capire i limiti di queste forme di lotta.
Si è infatti arrivati a una situazione di stallo in cui i tavoli di
trattativa non portavano a nulla di concreto e i lavoratori sono
poi giunti alla conclusione che occupare il vecchio stabilimento
di Agrate era l’unico modo per fare un salto di qualità.
Mentre in otto salivamo sul tetto, tutti gli altri hanno dato
vita a un presidio permanente davanti alla fabbrica. L’occupa-
zione ha fatto venire meno tutte le divergenze tra i lavoratori
e ha rafforzato lo spirito più combattivo. Anche i più scettici
si sono riavvicinati trovandosi in prima linea, cosa che non era
stata possibile con le altre forme di lotta più limitate. Inoltre il
sostegno popolare degli altri lavoratori e degli abitanti di Agrate,
è stato davvero eccezionale. E infine ci tengo a sottolineare che
l’azione si è svolta mentre ancora era in corso la riunione con
i rappresentanti dell’azienda e in questo modo il tavolo delle
trattative è stato completamente ribaltato. Non c’è più stato solo
il monologo della proprietà, ma le istituzioni sono state costrette
dalla pressione politica e sociale a schierarsi pubblicamente dalla
parte degli operai, il che ha sicuramente alzato il nostro morale.
Abbiamo chiamato quello che è successo “effetto Vodafone”,
perché “tutto ruota intorno a noi”. In quel momento politici e
giornalisti che prima non ci avevano considerato sono venuti
davanti alla fabbrica. Prima eravamo noi ad andare a cercarli per
avere un po’ della loro attenzione, ma una volta che abbiamo
alzato la testa sono state le istituzioni a correrci dietro.
Questa lotta si è conclusa bene, perché ci hanno riconosciuto
due anni di stipendio, la cassa e poi la mobilità. Abbiamo otte-
nuto quasi quattro anni di tranquillità economica per trovarci
un altro lavoro.
Finita questa lotta, dopo una vacanza, ho cominciato a
frequentare più attivamente il movimento dei migranti contro
la sanatoria truffa.

113
Ci ho messo tutte le mie energie anche se io ormai ero in
regola con i documenti. La logica che ho spinto nelle assem-
blee era questa: se ho un diritto me lo devo prendere con un
atto politico, dobbiamo sbloccare la situazione della sanatoria
truffa. I migranti avevano sganciato i soldi e non gli davano il
permesso, era un’ingiustizia da denunciare subito. Il prefetto
ci ha subito detto che non poteva fare nulla e noi abbiamo
deciso di metterlo nelle condizioni di poterlo fare. Ci voleva
determinazione per farlo. Dovevamo mettere le forze in campo,
era chiaro che l’epoca delle grandi manifestazioni era passata,
anche quella del presidio era passata, perché non importava più
a nessuno, era arrivata l’ora di un’azione nuova.
Tramite l’esperienza della fabbrica l’idea è stata: cerchiamo
una gru e la occupiamo. Non erano tutti d’accordo, principal-
mente i partiti e le associazioni.
In quei giorni a Brescia c’era un presidio permanete che dura-
va da venti giorni davanti alla prefettura. Io e un amico egiziano
decidiamo di parlare con loro proponendogli di occupare una
gru per sbloccare l’indifferenza che c’era sul problema della
sanatoria truffa, un azione pacifica ma determinata. I ragazzi di
Brescia decidono in un ora di occupare la gru. Neanche sape-
vamo i nomi di tutti e abbiamo fatto un accordo: “Se voi salite
qui Brescia, noi saliamo a Milano”. Eravamo determinati, loro
hanno cercato la gru e sono saliti, ma non avevano il necessario
e l’hanno pagato con freddo e fame. Dopo di loro siamo saliti
anche noi a Milano, ma abbiamo capito che la gru era troppo
esposta al clima e perciò ci siamo trasferiti su una torre che
era più difendibile e meno esposta alle intemperie. Abbiamo
preparato il comunicato, le coperte, i viveri e siamo saliti an-
che noi. Eravamo in cinque a organizzare l’occupazione della
torre, cani sciolti di varie parti del mondo, volevamo rompere
la dinamica dell’attesa.
Il 5 di novembre con alcuni cittadini immigrati che vivono
a Milano, dopo un presidio convocato in piazzale Maciachini,

114
siamo saliti sulla torre della ex Carlo Erba in via Imbonati,
alta circa quaranta metri. Nell’anno precedente si erano svolti
presidi e manifestazioni per rivendicare dignità e diritti per gli
immigrati. È la nostra condizione di vita quotidiana, che peggiora
sempre di più a causa della crisi economica, che ci ha spinto a
tentare un’azione del genere. Tanto, dicevamo tra noi, non c’era
molto da perdere, peggio di così. Gli italiani ci dicevano che la
nostra idea era rischiosa, che la fase politica era avversa, che
faceva freddo... Insomma, che si trattava di una forzatura che
non avrebbe portato a nulla. Forzatura: mai parola è stata più
azzeccata! Infatti ci dà l’idea di un’azione per aprire qualcosa di
ben chiuso, con la forza appunto, quando i mezzi normali non
bastano. Esattamente come la situazione giuridico-sociale degli
immigrati in questo paese di emigranti: una situazione bloccata,
con una legge studiata apposta per creare la cosiddetta clandesti-
nità, per avere a disposizione una massa di semischiavi ricattabili
cui far svolgere i lavori più umili alle peggiori condizioni. Sia i
governi di centro-destra sia quelli di centro-sinistra hanno finora
governato il fenomeno migratorio con il bastone e a unico be-
neficio degli imprenditori, piccoli e grandi che fossero, e senza
nessuno scrupolo per la nostre vite. Oggi a maggior ragione, con
il partito razzista Lega al governo, la situazione è insostenibile e
assolutamente scevra di una via di uscita. Cosa dovremmo dun-
que fare noi immigrati? Starcene in silenzio a masticare amaro e
spezzarci la schiena in attesa che qualche genio della politica si
degni di rappresentare anche noi? Questo ci siamo chiesti per
mesi, ma poi i nostri fratelli a Rosarno hanno alzato la testa, ri-
cordandoci che si può anche non avere nulla, ma almeno bisogna
conservare la dignità di uomini. La nostra è stata una forzatura,
e ne siamo stati consapevoli fin dall’inizio, ma non potevamo
agire diversamente. Eravamo e siamo convinti che questa realtà
che ci riguarda non la cambieremo grazie a preghiere, attese di
governi amici o speranze che la fasi politica cambi. Noi viviamo
qui e ora, ed è qui e ora che dobbiamo agire, perché ci spinge a

115
farlo l’insopportabilità della nostra condizione di vita. Quando
i giornalisti ci chiedevano come facevamo a resistere al freddo
e alle intemperie, il mio amico egiziano sulla torre rispondeva
che quello era un hotel di lusso, lo chiamavamo l’Hilton, in con-
fronto al viaggio in gommone durato cinque giorni in mezzo a
gente che moriva di stenti o affogata. Se non si capisce che l’aver
determinato queste condizioni di vita spinge e spingerà sempre
più immigrati a lottare, non ci si può dire davvero amici degli
immigrati. La strada istituzionale del cambiamento si dimostra
sempre un terreno perdente perché è solo peggiorativa e molto
limitata per noi immigrati, visto che siamo sottoposti a una le-
gislazione speciale senza alcuna possibilità di sbocco. Abbiamo
la consapevolezza che solo la via della lotta è capace, tra tutte
le altre, di accelerare e far maturare condizioni che le altre vie,
da sole, non riescono.
Dovevamo dare un segnale, forzare l’immobilismo della
realtà e quello di tanti amici che sembrano spaventati più da chi
prende l’iniziativa che dal nemico. Il segnale lo abbiamo dato
ed è arrivato forte e chiaro. I media hanno dato ampio risalto
alla protesta e soprattutto alle nostre motivazioni. Finalmente
abbiamo potuto far ascoltare le nostre ragioni anche a chi guarda
solo la tv. Persino in parlamento si sono scomodati a parlarne.
La visibilità delle nostre ragioni era il nostro obiettivo principale
ed è stato raggiunto, ma non era l’unico. C’era anche quello
di dimostrare concretamente la nostra solidarietà a Brescia, e
anche questo è stato raggiunto. E poi l’obiettivo più difficile:
sbloccare la situazione dei tanti permessi di soggiorno negati
o nel limbo burocratico della sanatoria truffa. Su quest’ultimo
punto era impossibile ottenere risultati immediati. L’esperienza
della torre ha visto fin dal primo giorno una grossa differenza
tra la determinazione a resistere di noi sopra, e le incertezze
e la mancanza di determinazione di diversi compagni sotto,
compensate per fortuna nostra dall’arrivo di decine di nuovi
immigrati che ci hanno sostenuto in modo totale, sobbarcandosi

116
l’onère e l’onore del mantenimento del presidio. Del resto, la
lotta è positiva anche per questo: fa crescere nuovi attivisti, e
fa chiarezza tra chi, oltre a parlare, è disposto anche a rischia-
re. La presenza quotidiana di decine di immigrati, ma anche
di italiani (studenti, lavoratori, gente del quartiere che ci ha
materialmente sostenuto con cibo e coperte) ha dimostrato che
avevamo fatto la mossa giusta. Da lassù noi vedevamo tutto e
ci rendevamo conto delle dinamiche positive e negative che
nascevano.
Una volta che inizi una lotta non ci vogliono tante parole,
ci guardavamo negli occhi e sapevamo cosa fare, avevamo tutti
dei compiti: dai contatti con chi stava al presidio al parlare con
i giornalisti. Tranne me e un altro erano tutti giovani.
Eravamo un gruppo che funzionava, si riusciva anche a
dormire nonostante il freddo. Avevamo messo tre tende in po-
co spazio e chiaramente bisognava portare pazienza, ma tutti
avevamo passato nella nostra vita esperienze simili. Quattro
nevicate, tanta pioggia, un novembre freddo, molto freddo.
Era curioso vedere quanta determinazione ci fosse tra di noi
sopra e quanta poca ce ne fosse sotto, dove in molti volevano
tornarsene a casa.
La lotta è servita e ha dimostrato che quando i migranti
dicono basta, si prendono il proprio destino in mano. Sono
stati i migranti a determinare il ritmo della lotta, questa è la
cosa più importante.
La torre è stata uno spartiacque per la lotta dei diritti dei
migranti, una lotta per la dignità! Una volta che la lotta è per la
dignità capisci che non è solo il permesso di soggiorno quello
che stai chiedendo e il legno diventa ferro.
L’importante è stato capire che dobbiamo unirci per costrui­
re un altro paese, un paese moderno, dove le relazioni umane
diventino una ricchezza, dove la speculazione non sia la regola,
dove la legge sia al servizio delle persone e non uno strumento
di riduzione e negazione di diritti. Abbiamo tanto lavoro da

117
fare, la strada è tutta in salita, ma la lotta più bella è quella che
serve per cambiare questo paese e per farne un posto migliore

Moktar

Ho 27 anni arrivo dalla Mauritania, da una città vicino al deserto,


molto povera con pochissime possibilità di trovare lavoro. In
Europa ci sono arrivato nel 2006. Sono approdato in Spagna
passando per Ceuta. In quel periodo insieme ad altri amici
marocchini avevamo iniziato delle lotte contro le barriere che
separavano il Marocco dalle vostre città. Non so se lo sai, ma
Ceuta, che è nel nord del Marocco, in realtà è Europa, Spagna.
Insieme ad altri abbiamo cercato di scavalcare quei recinti
per riuscire ad arrivare in Europa. I primi tentativi sono andati
bene e io sono riuscito a passare, il problema è stato che nelle
settimane a seguire la Guardia civil ha aperto il fuoco contro i
ragazzi e ci sono stati feriti e morti, ma nessuno se lo ricorda.
Nel marzo del 2006 arrivo ad Algeciras in Spagna senza
permesso. Speravo tramite dei parenti che avevo nel sud della
Spagna di trovare lavoro in fretta e dimenticare le tragedie che
avevo vissuto. Ma non è andata così. I miei parenti non riescono
a trovarmi lavoro e soprattutto non posso regolarizzare i miei
documenti. Comincio a fare piccoli lavori nelle serre ma la paga
è molto bassa e le ore di lavoro sono dodici tutti i giorni. Parlan-
do con i miei parenti decido di partire verso l’Italia, a Genova
dove il fratello di mio padre avrebbe dovuto trovarmi lavoro.
Verso la fine di agosto del 2006 parto con un treno, com-
pro il biglietto per me costosissimo visto i pochi soldi che ero
riuscito a mettere da parte. Il viaggio inizia bene incontro degli
ottimi compagni di viaggio spagnoli. I problemi cominciano
quando arrivo alla frontiera con la Francia. Dei poliziotti mi
chiedono i documenti e si accorgono che il mio passaporto è
senza permesso di soggiorno e mi fanno scendere dal treno. Non

118
ricordo precisamente il nome della stazione dove sono sceso mi
sembra Cerbère. Io per fortuna parlo francese e almeno capivo
la lingua, il problema era quello che mi dicevano. Non ho mai
capito legalmente cos’è successo, io so soltanto che sono stato
trattenuto delle ore in stazione fino a che mi hanno portato
in un posto molto simile a una prigione. Dopo alcune ore mi
dicono che mi avrebbero rimandato a casa. Io gli ho chiesto
se potevano farmi tornare in Spagna e il poliziotto si è messo a
ridere e mi ha fatto portare in una stanza con altre otto perso-
ne. In questa stanza eravamo tutti africani c’erano due ragazzi
senegalesi, quattro marocchini e due egiziani.
Ero disperato e i ragazzi cercavano di tirarmi su di morale.
Il giorno dopo comincio a capire grazie ad Hamed che sono in
una prigione per immigrati e che dovevo fare qualcosa se non
volevo tornare a casa da mia madre e le mie sorelle come uno
sconfitto che non era stato in grado di trovarsi un lavoro.
Dopo quasi una settimana all’interno di questa prigione ini-
ziano delle proteste, i primi giorni soltanto con le guardie che ci
controllavano, a cui chiedevamo di poter telefonare alle nostre
famiglie o a dei parenti che vivevano in Francia. Io non riuscivo
a capire cosa fare non avendoli e soprattutto non sapevo come
fare con mio zio a Genova che mi aspettava ormai da tempo.
Dopo qualche giorno le proteste diventano più forti ed è
proprio Hamed uno dei più incazzati. Io decido di seguirlo nella
protesta anche perché mi aveva detto che erano i giorni giusti
per riuscire a scappare. Il capo guardia era uno distratto che si
addormentava spesso durante le ore notturne. Era un martedì
notte, mi ricordo bene, io e Hamed con altri due decidiamo
che è il momento giusto per scappare ma per farlo dovevamo
accettare di non correre il rischio di essere presi e portati in
un’altra prigione che Hamed diceva essere ancora peggio.
Quella notte anche se ho avuto paura è stata una bella espe-
rienza perché alla fine ce l’abbiamo fatta. La cosa più difficile
non è stato uscire dalla prigione ma una volta fuori muoversi

119
a piedi con il buio senza sapere dove andare. Decidiamo di
dividerci per non farci notare e ognuno va per la sua strada
io riesco ad arrivare in poche ore di cammino al primo paese,
Millas. In questo posto che non avevo mai sentito nominare,
ho avuto fortuna di trovare dei ragazzi che mi hanno offerto
una sigaretta chiedendomi come ero arrivato lì. Dopo che gli ho
raccontato la mia storia, uno di loro mi dice che può aiutarmi.
Mi parla di suo zio che ha della terra e che se volevo poteva
farmi lavorare da lui. Io accetto anche se in realtà pensavo a
come proseguire il mio viaggio e alla telefonata a mio zio. Però
i soldi mi servivano per forza e soprattutto non sapevo come
muovermi, dove andare. Provavo un senso di totale spaesa-
mento e ripensavo alle mie giornate prima della partenza per
il Marocco e se devo dirti la verità le rimpiangevo ma come ti
dicevo prima non potevo tornare a casa.
Il giorno dopo conosco lo zio di Jean e comincio subito a
lavorare, mi dice che per un mese posso stare lì e dormire in
una specie di casa costruita sul suo terreno, la paga per me
era buona e in un mese avrei fatto i soldi che mi servivano per
riaffrontare il viaggio e soprattutto mi sarei fatto un’idea su
come arrivare a Genova.
Il lavoro era semplice, ma la fatica comunque era tanta, lavora-
re la terra non è una cosa che mi piace troppo... Quando andavo
a lavorare provavo sempre un senso di paura, non sapevo se mi
stavano cercando perché ero scappato dalla prigione e quindi
non mi muovevo mai. Per un mese la mia giornata era occupa-
ta soltanto dal lavoro: mi alzavo, facevo colazione e andavo a
raccogliere nel campo, una pausa per il pranzo e poi ritornavo
a lavorare. Alla sera ero distrutto e non me la sentivo di andare
in giro quindi se non passava Jean per fare due chiacchiere, mi
mettevo a dormire. Molte volte mi distendevo con gli occhi chiusi
e un milione di pensieri su cosa sarebbe potuto ancora accadere
alla mia vita. Quando stavo in Mauritania lavoravo poco e la
mia vita si ripeteva simile tutti i giorni, non mi sentivo pronto

120
per un viaggio in un mondo sconosciuto, infatti rispetto ai miei
amici, sono quello che ha iniziato il viaggio per l’occidente da
più grande, avevo già 24 anni e nel mio paese non sono pochi
come qua. Da noi a 24 anni sei un uomo e devi lavorare per
la tua famiglia. Per questo mi sono sentito costretto a partire.
Insomma ero agitato e soprattutto volevo arrivare in Italia
dai miei parenti, ma non sapevo come fare. Ero spaventato dalla
possibilità di finire rinchiuso un’altra volta.
In quel mese Jean mi ha aiutato a capire il modo migliore per
arrivare a Genova e alla fine un suo amico che lavorava con il
furgone mi ha offerto un passaggio fino al confine con l’Italia.
Luc, l’amico di Jean, non se la sente di attraversare con me il
confine e lo capisco. Quindi decido di passarlo da solo a piedi.
Va tutto bene ed entro finalmente in Italia. Credevo di metterci
qualche giorno invece ci ho messo mesi. A Sanremo prendo un
treno per Genova e per fortuna va tutto per il verso giusto. Alla
stazione di Porta Principe mi viene a prendere mio zio che non
vedevo da quando avevo 12 anni. L’emozione è stata forte ma
mio zio mi dice subito che è meglio andare via dalla stazione
che in Italia la polizia fa ancora più controlli che in Francia.
Questa frase me la ricordo ancora perché dalla felicità di pochi
secondi prima ho pensato con terrore che potevano rimettermi
in una prigione per immigrati.
Anche a Genova non è stato semplice, grazie a mio zio avevo
cibo e un letto nella sua casa. Ho cominciato a lavorare con lui
nei mercati. Ma il problema dei documenti rimaneva.
Visto che mio zio non poteva regolarizzarmi dovevo cercarmi
un lavoro a contratto, ma il problema è che non avendo i do-
cumenti nessuno me lo voleva dare. Quindi tutti quelli da cui
andavo mi dicevano che dovevo lavorare in nero perché non
avevo il permesso di soggiorno.
La situazione oggi per me è ancora difficile, sì, sono riuscito
dopo quattro anni a trovarmi una stanza con altri amici, ho im-
parato l’italiano ma non ho il permesso di soggiorno. Quando

121
esco di casa ci penso sempre, ho paura anche di prendere un
treno, perché so che se vengo fermato vado a finire in prigione.
Quest’anno ho cominciato a informarmi con altri ragazzi africani
e sud americani sulle possibilità che abbiamo di rivendicare i
nostri diritti. Ho partecipato a manifestazioni per il permesso
di soggiorno per i lavoratori immigrati ma se ti devo dire la
verità sono pessimista, non riesco a credere in una vittoria, la
mia speranza e di riuscire a sposarmi e di trovare un lavoro
con il contratto.

Bic

Vengo dal Senegal, ho 34 anni e sono in Italia da dieci anni. Ades-


so vivo a Genova ma ho vissuto in tante altre città: Cagliari, Roma
e Torino. I primi anni sono stati belli, c’era lavoro e a Cagliari
mi trovavo bene. Mi piaceva il clima, il mare. Lì mi sono fatto
tanti amici. Tutti mi prendevano in giro per il mio accento sardo,
vendevo sulla spiaggia del Poetto e urlare “ajo” era divertente e
poi la lingua sarda mi piaceva proprio. In quegli anni avevo un
permesso per lavorare durante la stagione estiva e a novembre
me ne tornavo in Senegal dalla mia famiglia, dove adesso ho
una moglie e tre figli. Dopo sei anni tra Cagliari e il Senegal
ero diventato un africano sardo che si sentiva a casa sia qui sia
là. I problemi sono iniziati quando mi hanno tolto il permesso
di vendere in spiaggia e i vigili hanno cominciato a rendermi la
vita impossibile, in una sola stagione avevo preso più multe di
quello che avevo guadagnato. Quell’anno ero tornato in Senegal
disperato, non sapevo cosa fare. L’anno dopo decido di andare
a Roma con un mio amico di Dakar che aveva un ristorante di
cucina africana e che gestiva da anni con la sua famiglia. Mi aveva
proposto di fare il cameriere perché sua moglie era incinta e non
poteva lavorare, mi avrebbe pagato abbastanza, ma sicuramente
non come quello che riuscivo a guadagnare in Sardegna.

122
La vita a Roma, a differenza di Cagliari, non mi è piaciuta
per niente, ho avuto un sacco di problemi e soprattutto non
avevo le carte in regola, il mio amico non aveva i soldi per
regolarizzarmi. Il grave problema di cui mi sono reso conto
troppo tardi è che senza documenti in regola era difficile anche
tornare in Senegal. Dopo otto mesi al ristorante avevo deciso
che non faceva per me, a quel punto o tornavo in Senegal dalla
mia famiglia o mi cercavo un lavoro migliore. Parlando con dei
clienti del ristorante mi spiegarono che al nord c’era molto più
lavoro e che dovevo andare a lavorare in qualche fabbrica come
metalmeccanico, o in Veneto o in Piemonte. Io non avevo mai
lavorato in fabbrica ma volevo andarmene da Roma e quindi
ho cominciato tramite internet a cercare lavori nelle fabbriche
del nord. Il primo colloquio l’ho fatto con una piccola fabbrica
di contenitori di plastica vicino ad Alessandria, ma sono stato
rifiutato subito perché non ero in regola. Il secondo incontro
invece è stato quello giusto, una fabbrica di Torino che produce
componenti elettriche. Il responsabile con cui ho parlato mi
assicurato che mi avrebbe fatto un contratto e che da lì a poco
avrei ricevuto tutte le carte per il mio passaporto. Per me era
molto importante perché volevo tornare in Senegal dalla mia
famiglia che ormai non vedevo da un anno. Così accetto im-
mediatamente quel lavoro. All’inizio sono stato ospite da amici
del Senegal e al primo stipendio sono riuscito a trovarmi una
stanza in affitto. La paga era buona, più di 1.000 euro al mese,
solo che le carte non arrivavano mai. Io chiedevo e mi dicevano
che la procedura era lunga, mi hanno anche fatto firmare dei
fogli ma alla fine non è andata a finire bene. Dopo solo sei mesi
che ero lì, la fabbrica entra in crisi e gli operai cominciano a
protestare perché il rischio di essere licenziati era veramente
alto. Io sono stato il primo a venire licenziato e solo pochi operai
sono andati a protestare per come ero stato trattato, io e altri
tre ci siamo anche incatenati ai cancelli della fabbrica ma alla
fine abbiamo ceduto perché, soprattutto io, rischiavo di finire

123
arrestato. Dopo questa breve esperienza torinese ho deciso di
andare via da Torino e grazie ad altri amici senegalesi ho trovato
un altro lavoro ai mercati qua a Genova. Gli affari non vanno
tanto bene ma almeno, grazie a un’amica italiana con cui mi
sono sposato, posso tornare in Senegal ogni anno e non corro
il rischio di essere portato in carcere dalla polizia.
Da quando ho il permesso m’impegno con una associazione
di amici italiani e africani per fare da interprete con i ragazzi
senegalesi che sono appena arrivati, oltre a questo organizziamo
uno sportello legale e di ascolto per aiutare gli uomini e le donne
che sono senza permesso di soggiorno.
Con le nuove leggi è diventato praticamente impossibile
ottenere il permesso. Penso che la legge Bossi-Fini è stata scrit-
ta apposta per non regolarizzare nessuno, in modo da poterli
sfruttare meglio. Nell’ultimo periodo ho cominciato a pensare
di portare qua la mia famiglia ma anche questo con le nuove
leggi è difficile per non dire impossibile e se gli affari continuano
così penso che tornerò in Senegal, almeno i soldi saranno pochi
ma potrò stare con i miei figli.

Paco

Ho 24 anni arrivo dal Perù, sono a Milano da quattro anni e


l’unica cosa che va bene è che ho imparato l’italiano. Da quando
sono arrivato ho fatto tutti i tipi di lavori ma nessuno è durato
più di due-tre mesi.
Sono arrivato come molti del mio paese con il visto turistico
che poi è scaduto e quindi mi sono ritrovato senza permesso
di soggiorno. I primi mesi che stavo a Milano ero felice, avevo
mille speranze ero sicuro di trovare lavoro, una bella casa la
macchina e tutte le cose che ti metti in testa quando sogni di
cambiare la tua vita e invece niente.
Sono arrivato e ho cominciato a lavare i piatti in un ristorante

124
dove prima lavorava un mio cugino. Mi pagavano 20 euro la
serata, non avevo un orario dipendeva da quanti piatti dovevo
lavare ma la paga era sempre quella. Pensavo fossero tanti 20
euro e invece non mi bastavano per niente. Per fortuna mi
ospitavano i miei cugini a Corsico vicino a Milano, eravamo
in sette, ma le mie cugine c’erano poco in casa perché stavano
sempre a lavoro con le nonne.
In quel ristorante è durata poco perché non riuscivo ad avere
dei buoni rapporti con gli altri lavoratori italiani con cui ho
litigato dopo poche settimane. Mi dicevano di pulire la cucina
anche se io non dovevo farlo e una sera dopo una discussione il
capo mi ha detto di non farmi più vedere. Dopo il ristorante ho
fatto tanti altri lavoretti fino a oggi che lavoro con R. un peru-
viano come me che fa il corriere. Lo aiuto a caricare e scaricare
i pacchi, mi paga anche lui poco, 30 euro, a volte qualcosa in
più ma lavoro tanto e non so come finirà. Prima di conoscere
R. le ho provate tutte e alla fine l’unico lavoro che mi è piaciuto
è stato montare i palchi dei concerti perché ho conosciuto tanti
ragazzi e poi mi sentivo un sacco di musica, ma è durata poco
perché quelli della finanza hanno fatto un controllo e io son
dovuto scappare, perché non avevo i documenti. Poi il padrone
si è spaventato e non mi ha più chiamato.
A Milano ho conosciuto tanti ragazzi e adesso ho degli
amici italiani, mi piace parlare con loro e capire le somiglian-
ze e le differenze che ci sono, alla fine io sono ormai mezzo
italiano perché ascolto la musica dei ragazzi di Milano, mi
piace mangiare la pizza e la sera uscire con loro per andare a
ballare. Quest’anno ho partecipato insieme ad altri immigrati
e italiani a delle manifestazioni, una cosa che in Perù non
avevo mai fatto.
È stato bello sentirsi uniti e lottare per la stessa causa con
ragazzi di tutto il mondo, perché alla fine se sei arabo, nigeriano
o italiano, è la stessa cosa, sarebbe giusto avere tutti gli stessi
diritti e in Italia non è così. Anche tra i corrieri dove lavoro ci

125
sono state manifestazioni ma io non ci sono andato perché era
troppo pericoloso, rischiavo di venire preso dalla polizia.
In questo periodo sto cercando un lavoro per guadagnare
meglio, trovarmi una casa e mettermi in regola, ma è un casino,
nessuno mi vuole assumere e il permesso me lo sogno. Ho un
amico italiano che sta cercando di convincere i suoi genitori a
farmi assumere come cameriere, ma non per farlo veramente,
solo per ottenere le carte, però costa tanto.
La mattina quando esco di casa e mi viene a prendere R. con
il furgone comincio a pensare a cosa farò da grande se starò in
Italia, se mi fermerò a Milano e molte volte finisce la giornata
che neanche mi accorgo che ho scaricato pacchi tutto il giorno.
In questo periodo sto uscendo con una ragazza italiana, è più
piccola di me e mi sta insegnando un sacco di cose sull’Italia,
mi parla della storia, delle città del sud e delle isole, spero di
farmi presto un viaggio con lei e vedere tutti questi bei posti di
cui mi parla, ma tutti e due abbiamo paura della polizia che se
ci ferma mi porta via.
Milano alla fine mi piace, il vero problema è che vorrei avere
i documenti per poter girare la città di notte e di giorno senza
la paura di essere fermato. Una cosa è sicura, finché non metto
da parte dei soldi in Perù non ci torno.

L.

Arrivo dalla Romania, in famiglia siamo in quattro: io, mio


padre, mia madre e mia sorella che ha 20 anni. La situazione
economica non era delle migliori perché mio padre era amma-
lato e non poteva lavorare. Così, finiti gli studi, ho iniziato a
frequentare una scuola per pasticceri per poter lavorare e dare
una mano ai miei genitori, ma sono stato chiamato a prestare
il servizio militare. Il problema era che, a fronte di un anno di
leva, non mi veniva riconosciuto nessun compenso economico.

126
Così, dopo una settimana sotto le armi, mi sono reso conto che
la situazione sarebbe stata insostenibile, per me, ma soprattut-
to per la mia famiglia. Per questo ho chiesto immediatamente
di essere esonerato. Credevo che in un anno avrei potuto fare
molte cose, pensavo che non avrei perso tempo e mi sarei dato
da fare. Ma il lavoro non c’era. Il mio paese è economicamente
e politicamente a terra. Le poche fabbriche non si sono rivelate
competitive sul mercato mondiale e l’occupazione scarseggia.
E questo quadro tragico mi è diventato ancor più chiaro quan-
do ho avuto modo di vederlo dall’esterno, dall’Italia appunto.
Ho una zia in Calabria che convive con un italiano. È stata lei
a consigliarmi di venire qui. Mi diceva che si poteva trovare
un impiego facilmente, e mi ha messo di fronte al miraggio di
guadagni immediati. Appena ha saputo che avevo intenzione di
trasferirmi, mi ha spedito 1.400 euro per pagarmi le spese del
viaggio e raggiungerla. E così il viaggio ha avuto inizio.
All’inizio è stato facile. La mia famiglia mi ha accompagnato
alla stazione degli autobus e dopo parecchie ore sono arrivato a
Roma. Il caldo era soffocante, insolito per uno che viene dalla
Romania. Ma tutto sembrava andare per il meglio: avevo cono-
sciuto una signora rumena che si stava recando in villeggiatura
da un’amica a Latina e che sapeva parlare l’italiano. È stata
molto gentile, mi ha aiutato a fare il biglietto per la Calabria,
mi ha spiegato come e dove prendere il pullman successivo e mi
ha lasciato il suo indirizzo, nel caso avessi bisogno di qualcosa.
Mi sono sentito al sicuro: all’epoca avevo 22 anni e parlavo solo
l’inglese che, devo dire, in Italia non è molto conosciuto. Così,
grazie a lei sono arrivato a destinazione senza troppi problemi.
All’arrivo in Calabria mia zia mi ha detto di stare tranquillo,
dovevo semplicemente sistemarmi a casa sua e riposarmi per
qualche giorno, poi avrei subito incominciato a lavorare. Fin qui
è andato tutto bene. Una mattina, dopo molte raccomandazioni,
mia zia mi ha mandato in un paese vicino, in cui avrei incontrato
il mio nuovo datore di lavoro. Si trattava di un impiego presso

127
un distributore di benzina, dove dovevo occuparmi del lavaggio
auto. Mi sono detto: “Bene, ho già fatto un’esperienza simile
in Romania, per cui non sarà difficile imparare”. La paga era
di 20 euro al giorno, un po’ poco per vivere, ma abitavo nel
retro della struttura, dove c’era un letto, per cui non avrei avuto
spese particolari. Se non che, dopo tre mesi non avevo visto
ancora l’ombra di un euro. Solo in seguito ho scoperto cosa
stava succedendo. La mia paga veniva girata direttamente alla
persona che aveva prestato a mia zia parte dei soldi per il mio
viaggio, per cui, prima di guadagnare qualcosa, avrei dovuto
saldare un debito di 800 euro. Dopo tanto lavoro ho capito
perché il proprietario del distributore mi tirava spesso insulti
ingiustificati. Quando riesco finalmente ad avere in tasca 200
euro, incontro una signora anziana che mi consiglia di partire
per Reggio Emilia. Pensavo di trovarmi una sistemazione, un
lavoro e una casa. E così, anche se per poco, è stato. Bagagli alla
mano, ho rintracciato il figlio della signora, che mi ha assunto
come muratore in un cantiere. In poco tempo avevo una casa,
in cui avrei abitato per un mese, fino allo scadere del contratto
d’affitto e avevo anche un lavoro. È stato uno dei periodi più
belli qui in Italia. Alla fine del primo mese avevo guadagnato
2.000 euro. Poi il contratto d’affitto scade e, disperato, chiedo
al titolare di poter vivere in cantiere. Una scelta dura. Purtrop-
po non avevo alternative. Faceva piuttosto freddo, dato che
si era in novembre, e di notte avevo paura per via delle voci
e dei rumori che mi circondavano. Ma ogni mattina, prima di
iniziare la giornata, il mio datore di lavoro mi portava un caffè
bollente e tutto prendeva un’altra forma, anche perché mi
sentivo trattato bene e rispettato. Lavoravo anche il sabato e
a volte la domenica, ma ero contento e i due mesi sono volati.
Alla fine avevo in tasca 4.050 euro (i 50 euro erano un regalo
del titolare per il buon lavoro svolto) e mi sembrava un sogno.
Ho mandato ben 3.000 euro a casa, ed ero contentissimo perché
potevo contribuire all’acquisto dei medicinali per mio padre e

128
al pagamento della retta universitaria di mia sorella. Io non ho
avuto la possibilità di studiare nella vita e mi piace pensare che
mia sorella possa farlo. Poi mi sono comprato un cellulare per
chiamarli e un vestito nuovo perché se una persona è vestita
nel modo giusto viene trattata con rispetto. A quel punto avevo
400 euro. Poi il lavoro in cantiere è finito, le villette erano state
ultimate e l’impresa non aveva altri incarichi, così non mi restava
che tornare in Calabria.
All’epoca non rivolgevo più nemmeno la parola a mia zia,
che mi aveva in tutto e per tutto imbrogliato, ma mio padre
insisteva dicendomi: “Mi vergogno io per lei, lascia correre”.
Tornato dal benzinaio riprendo il lavoro di lavaggio auto, stavolta
a 15 euro al giorno, lavorando dalle otto del mattino alle otto di
sera, da dicembre del 2002 a luglio del 2003. Con i pochi soldi
rimasti mi sono attrezzato per l’estate con un paio di scarpe,
uno di pantaloni e qualche maglietta, ma non sono riuscito più
a mandare i soldi a casa.
Una brutta situazione. Mi sentivo un fantasma, non conoscevo
nessuno e mi sembrava di non fare nulla di utile; così, dopo
aver trovato una casa a 100 euro al mese (era di un calabrese
che lavorava al nord e rientrava al sud solo per le ferie estive),
decido di cambiare lavoro. E finalmente trovo un’occupazione:
raccogliere frutta e verdura in campagna, tra cui mandarini, uva,
pomodori e olive, a seconda della stagione. La paga era deci-
samente meglio di quella al distributore: 22 euro per un lavoro
dalle cinque del mattino alle quattro del pomeriggio. Ma nel
frattempo puntavo a qualcosa di meglio e continuavo a cercare.
Alla fine ho trovato un lavoro come pizzaiolo. Sottopagato,
non c’è dubbio: 10 euro per una giornata di lavoro di più di
undici ore. Tutti mi chiedevano “Perché lo fai? Non puoi cercare
qualcosa di meglio?”, ma io volevo imparare il mestiere e nel
giro di quattro mesi sono riuscito a far ruotare le pizze come
un professionista. “Number one” mi dicevo. Ma a novembre
non avevo ancora i soldi da mandare a casa. Già era difficile

129
mantenersi, figuriamoci risparmiare. Inoltre il titolare non mi
pagava puntualmente per impedire che me ne andassi: pensava
che non avrei rinunciato ai quei 60 euro che non mi dava mai.
Un giorno mi sono arrabbiato e ho mollato tutto. Avevo in
tasca 100 euro, ma non mi sono fermato e ho seguito il consiglio
di chi mi diceva che al nord i pizzaioli erano molto richiesti. Ho
fatto le valigie e sono andato in stazione a prendere un treno per
Piacenza. Quando mi hanno detto il prezzo del biglietto, mi è
caduto il mondo addosso: si trattava di più di 60 euro ma poi,
non so per quale misteriosa coincidenza, una signora in bigliet-
teria mi dice: “Se prendi il treno delle sei per Bologna, lo paghi
12 euro”. A Piacenza avrei pensato in un secondo momento. A
questo punto nessuno mi poteva fermare, nemmeno le minacce
e le percosse del titolare della pizzeria, venuto a farmi desistere
dal partire. Così, mi sono infilato nello scompartimento e sono
salito al nord.
L’atmosfera era promettente: avevo conosciuto due nuovi
amici italiani – con uno sono ancora in contatto – e avevo avuto
l’indirizzo di una persona che mi avrebbe potuto aiutare a Pavia.
Quindi, da Bologna ho preso il biglietto per Piacenza: 15 euro.
Mi sono detto: “Ok, adesso sei rovinato, se qui non combini
nulla di buono non puoi più nemmeno tornare in Calabria”.
Ma non avevo intenzione di desistere.
Il treno per Pavia sarebbe partito dopo due ore e mezza, ma
io iniziavo a sentirmi male. Ero solo, praticamente non avevo più
soldi e nemmeno un posto per dormire. Non sapevo più dove
sbattere la testa. È a questo punto che mi è venuta in mente la
chiesa. Avevo bisogno di parlare con qualcuno che mi ascoltasse
e mi potesse dare una mano, così ho fermato una signora anziana
in bicicletta, che mi ha indicato la casa di don Diego. Ora stava
a me scegliere, visto che il tempo stringeva: andare a Pavia o
parlare con il prete. In un batter d’occhio ero a bussare alla sua
porta e sentivo la mia voce dire: “Non mi servono i soldi, ma
sono a terra. Vorrei solo una mano per alzarmi”. La risposta è

130
stata: “Forse qualcosa c’è” e lì, per la prima volta, ho sentito
nominare Lodi e la Casa dell’accoglienza. Il letto era libero per
una sola sera ma, dopo qualche giorno alla Caritas, ho avuto
finalmente un posto sicuro.
A Lodi per qualche giorno ho lavorato in un’osteria come
lavapiatti, ma pretendevano che dormissi in una casa disabitata,
senza acqua né riscaldamento, con un altro ragazzo rumeno.
Una notte, quando ho visto passare un topo grosso come un
gatto, ho deciso di lasciar perdere. Per il resto lavoro a chiamata
come lavapiatti per un servizio di catering.
Ogni volta che guadagno qualcosa mando i soldi a casa per
mio padre e ricarico il cellulare, così posso sentire la mia famiglia,
anche perché di amici qui non ne ho molti: dopo tutto quello
che ho passato, faccio fatica a fidarmi della gente.
Sono sicuro che qualcosa deve cambiare. Voglio solo una
vita normale: una ragazza, degli amici. Mi capita di chiedermi,
quando vedo le ragazze in centro, perché sono ancora single:
non sono brutto e mi vesto normalmente. Ma forse ho capito:
non puoi trovare qualcuno se sei solo. Come puoi avvicinare
gli altri? Ho 24 anni e vorrei andare in discoteca a divertirmi
e conoscere qualcuno, ma non ho una macchina, non ho la
patente e soprattutto non ho un lavoro.

Alì

Ho 32 anni arrivo dall’Egitto, sono entrato in Italia nell’estate


del 2003 dopo una terribile sosta di un mese in Libia. L’arrivo
è stato traumatico perché nulla era come me lo aspettavo. Ho
fatto molta fatica a trovare lavoro e mi sembrava come se la gente
avesse paura di me. Ho lavorato nei campi al sud Italia tra la
Calabria e la Campania, ma il lavoro era troppo duro, in quel
periodo pensavo di morire sulla terra. Per questo ho deciso di
trovare coraggio e partire per il nord, perché girava la voce che

131
lì sarebbe stato tutto diverso. Sono arrivato a Milano verso la
fine di ottobre... Non ero abituato al freddo che per me era già
forte. Il primo periodo è stato durissimo, avevo solo un amico
e non sapevo come fare per cercare lavoro. Lui mi ha aiutato
molto ma comunque non riuscivo a farmi assumere da nessu-
no. Il lavoro più lungo sarà durato tre mesi. Ormai sono sette
anni che vivo in Italia, lavoro sempre tantissimo, ho imparato
la lingua ma sono ancora senza documenti e vivo tutti i giorni
con la paura di essere fermato e portato in carcere. In questo
periodo sto lavorando nei mercati, esco di casa alle 4 meno 10
di mattina e vado a piedi fino al magazzino, poi da lì andiamo
con il camion all’ortomercato, carichiamo e andiamo a vendere.
Tutti i giorni, da sette mesi. Mercati comunali all’ingrosso, cas-
sette di frutta e verdura da caricare, trasportare, consegnare: il
lavoro c’è, ma nessuno dei titolari vuole mettermi in regola, mi
dicono che costa troppo. Nel 2009 ho sperato con la sanatoria
colf e badanti, una regolarizzazione per chi era già in Italia,
senza tetti numerici, né gara di velocità. Ci contavo, anzi ero
sicuro, ma poi il mio titolare ha dovuto fare la domanda per
la badante della madre e alla fine per me niente documenti.
Non ho patente né macchina, ma grazie ai mezzi pubblici e alla
bicicletta (per le consegne) giro a Milano dall’alba al pome-
riggio... La mia fortuna sono stati gli amici che mi sono fatto,
grazie a loro mi sono sistemato piano piano e ora spero ancora
nel permesso di soggiorno perché un amico ha fatto domanda
per me a dicembre con le quote. Ma anche se non arriva, resto
qui, tanto al mio paese ho ancora meno speranze e devo aiutare
la mia famiglia, i miei fratelli più piccoli. Voglio farli studiare
per riuscire a fargli fare qualcosa di meglio di ciò a cui sono
stato costretto io. Milano mi piace è una città grande, piena di
bei palazzi, spero di ottenere il permesso per potermi godere di
più la vita con i miei amici, adesso ne ho anche tanti italiani e
marocchini, mi trovo bene con loro e soprattutto ci scambiamo
tante informazioni sul come tirare avanti con pochi soldi e poco

132
tempo. Se riesco ad avere il permesso posso anche tornare in
Egitto a trovare la mia famiglia e magari, mettendo da parte
qualche soldo, potrei cominciare a costruire una casa per la mia
famiglia. Ci sono molti amici che mi dicono che sarebbe meglio
andare in Francia, ma ormai io mi sono abituato a Milano,
non guadagno tanto ma il lavoro nei mercati lo trovo sempre,
ho imparato la lingua e mi piace la vostra cucina, soprattutto
quella del sud, quella milanese non l’ho ancora capita molto
bene. Mi piace ascoltare la radio italiana più che la televisione
perché posso immaginare di più, posso dire che se parlo italiano
è soprattutto grazie alla radio che a casa mia non è mai spenta.

M.

Abito a Firenze da sette anni, sono arrivata qui dal Perù nel
2004 con mio figlio, che oggi ha 11 anni. Mio marito è stato il
primo a partire, è venuto in Italia per trovare lavoro e per un
periodo è stato qua da solo. Poi abbiamo fatto il ricongiungi-
mento familiare. Lui ha preso il permesso di soggiorno grazie
alla sanatoria.
Mi ricordo il giorno in cui ci siamo separati per la sua parten-
za, ero davvero triste. Il Perù è un paese povero, diverso da qua,
ci sono tanti problemi. Noi avevamo delle difficoltà, alla fine mio
marito ha preso la decisione di venire in Italia per migliorare la
situazione. Appena è stato possibile siamo venuti tutti e così ci
siamo riuniti. È stato molto difficile rimanere lontani per tutto
quel tempo, non solo per me, ma anche per mio figlio, che nei
suoi primi anni non ha quasi mai visto il padre. Io e mio marito
ci sentivamo per telefono, a volte era difficile perché mancava
la linea. Ci scrivevamo anche ogni tanto. Quando lui è arrivato
a Firenze dopo qualche giorno mi ha mandato una cartolina
con il Duomo, che conservo ancora oggi. Volevamo riunirci il
prima possibile ma abbiamo dovuto aspettare per sistemare

133
tutte le cose, essere immigrato è molto complicato. Io ammiro
molto mio marito.
Vivere qua ha voluto dire fare enormi cambiamenti: Firenze
è una città molto grande rispetto a dove noi stavamo in Perù,
tutto è diverso. All’inizio mi muovevo con una certa difficoltà
a orientarmi, avevo quasi un po’ di timore.
Imparare l’italiano non è stato troppo difficile, soprattutto
perché mio marito ormai lo conosceva già quando io sono arri-
vata. Comunque anche ora non lo parlo benissimo, ma capisco
e mi faccio capire.
All’inizio sentivo un grande spaesamento. Per fortuna a
Firenze ci sono tanti peruviani, tra noi ci troviamo spesso e
questo aiuta a sentirsi in mezzo ad altre persone. Adesso ho
rapporti anche con degli italiani, soprattutto per via della scuola
dove va mio figlio, che gioca anche a calcio. Lui si trova molto
bene con i suoi compagni e a scuola prende buoni voti: sono
molto contenta.
Altri contatti con italiani sono quelli con i miei datori di
lavoro: io faccio le pulizie domestiche, frequento le case di
tre famiglie italiane. In futuro però vorrei cambiare lavoro.
Mio marito è autotrasportatore, per questo spesso sta lontano
da casa per più giorni: insomma, il problema della distanza è
rimasto anche ora.
La decisione di lasciare il Perù non è stata per nulla sempli-
ce, perché là abbiamo ancora molti legami. Tuttavia viviamo a
Firenze da molti anni e credo che resteremo qua. Del resto oggi
è una cosa normale che ci siano persone che vanno a vivere in
paesi diversi dal loro.

B.Y.

Sono del Kenya. Sono venuto via perché il mio paese è mol-
to povero. Appena arrivato, sette anni fa, ho trovato lavoro

134
all’Albergo del popolo. Ho fatto l’elettricista, il muratore e tutto
quello che serviva per aggiustare l’albergo. Non ero in regola
nonostante le continue promesse. E intanto lavoravo sempre.
Poi, due anni fa, ho trovato le mie valigie fuori. Senza motivo.
Al padrone ho detto: “Ma come, ho lavorato per te tutti questi
anni, anche la notte, e ora mi mandi via?”. Non ha sentito
ragioni. Mi sono trovato senza posto da dormire, senza soldi e
senza lavoro. Trovarne un altro era difficile. Qualche giornata,
poca roba... Ho provato a fare l’ambulante, ma non va bene.
Anche qui in Italia vivo da povero, forse però peggio che nel
mio paese, perché laggiù almeno avevo tutta la mia famiglia e
quindi ci aiutavamo a vicenda. Adesso la mia situazione è tragica,
perché dopo sette anni che lavoro sodo e non faccio niente di
male sono ancora senza permesso di soggiorno e nessun capo
italiano mi vuole far lavorare mettendomi in regola. Oltre al
lavoro, è un grande problema trovare una casa, perché anche
per la casa devi avere i documenti. Quindi sono costretto a
prendere in affitto da italiani che se ne approfittano e mi fanno
pagare tantissimi soldi per una stanza in una casa con molti altri
migranti. In questo periodo ho deciso che se entro un anno non
riesco a regolarizzare la mia situazione, farò di tutto per gua-
dagnare dei soldi e per tornare nel mio paese, vivrò da povero
ma almeno sarò con la mia famiglia nella terra dove sono nato.

O.M.

Arrivo dall’Ucraina, sono laureata in biochimica e in Italia sono


una badante, da ormai cinque anni. Nel mio paese lavoravo in
una fabbrica privata, facevo analisi alimentari, avevo un contratto
a tempo indeterminato, lavoravo dal lunedì al venerdì, otto ore
al giorno, mi piaceva il mio lavoro ed ero molto soddisfatta, l’ho
fatto per diciassette anni, ma lo stipendio era bassissimo: circa
60 euro al mese, per questo sono partita. Qui ho sempre fatto

135
la badante, da anni mi occupo di una signora con l’alzheimer,
vivo con lei: oltre a lavarla ed essere sempre a sua disposizione,
faccio le pulizie, la spesa, da mangiare. Da quando ci sono io la
signora è migliorata tantissimo, pesava trentotto chili e ora ne
pesa cinquantuno, più parla più sta bene, si tiene in allenamento,
si scorda molte meno cose, mi trovo bene con lei, è una persona
stupenda... Ho un giorno libero alla settimana e guadagno 900
euro al mese. Non ho comunque idea di rimanere in Italia, vo-
glio tonare in Ucraina da mio marito da mio figlio, rimarrò qua
ancora qualche anno... Se mi piacerebbe fare la biochimica in
Italia? Magari! Ma la mia laurea non è riconosciuta qui, penso
che continuerò a fare la badante e spero di regolarizzarmi con
la sanatoria in corso.

F.C.

Vengo dall’Ucraina e sono laureata in pedagogia. Ho fatto la


maestra elementare per ventitré anni con un contratto a tempo
indeterminato, mi piaceva il mio lavoro, mi piacciono molto i
bambini, ma guadagnavo soltanto il corrispettivo di 50 euro al
mese, per questo ho deciso di partire. Quando eravamo sotto
l’Unione sovietica i soldi erano sufficienti, ma poi non basta-
vano più e inoltre gli stipendi non arrivavano regolarmente.
Sono in Italia da cinque anni. Da quando sono qui lavoro come
badante, come baby sitter e come assistente domestica. Prima
stavo in una famiglia dalle otto di mattina alle otto di sera e mi
pagavano solo 500 euro, attualmente mi prendo cura di una
signora anziana malata di alzheimer.
Il primo periodo non è stato facile perché sono arrivata e
non sapevo nemmeno dove dormire perché i figli della signora
che curavo non volevano che mi fermassi in casa. Allora ho
cominciato a cercarmi un posto letto e non è stato semplice,
all’inizio speravo di prendermi una casa per me e invece ho

136
scoperto subito che non mi sarebbe bastato tutto lo stipendio.
Anche una stanza costava troppo, meno di 350 euro non riu-
scivo a trovare e io dovevo mangiare e mandare i soldi a casa.
Con altre badanti del mio paese ci siamo organizzate e visto
che tutte condividevamo lo stesso problema abbiamo cercato
un posto abbandonato dove andare a riposare le poche ore che
non lavoravamo. Finalmente, vicino alla stazione della metro
Romolo a Milano, una collega ha trovato una fabbrica dismessa
dove dormire. Ovviamente era uno schifo, sporca, fredda, con
topi e scarafaggi, per fortuna io ci sono rimasta pochi mesi, poi
ho trovato un lavoro migliore e potevo dormire nella casa della
signora che accudivo, ma la cosa triste e che se ci passi oggi,
quella fabbrica è ancora piena di donne, donne che non hanno
i soldi per una casa ma che lavorano sodo.
Ora vivo con la signora che aiuto, lavoro dalle nove di mattina
alle nove di sera e anche la notte sono a disposizione: dormo
vicino alla signora e se ha bisogno di qualcosa ci penso io. Mi
danno 1.000 euro al mese, mi trovo bene, e poi non ho tante
alternative, in Ucraina ci sono otto persone che, ogni mese,
aspettano i miei soldi...

M.A.

Sono venuto qui in Italia per salvarmi la vita. Sono un egiziano.


Nel mio paese ho frequentato l’università, Economia e com-
mercio. Quando sono arrivato, non conoscevo nessuno, né la
lingua. Ho fatto il lavapiatti, l’aiuto cameriere e il cameriere. I
proprietari dei ristoranti italiani s’approfittano di noi migranti.
Alla fine arrivavo a prendere 800 euro, ma c’era un collega
italiano che ne prendeva 1.200. Non lavoravo tutto l’anno, ma
facevo le stagioni. Spesso capitava che dovevo lavorare qualche
ora in più. Io non avevo pensione, tredicesima, malattia e festi-
vità come i colleghi italiani. Secondo me i proprietari prendono

137
uno straniero perché lo fanno lavorare di più e lo pagano molto
meno. Anche se troviamo un posto fisso, ci pagano di meno
uguale. Dato che noi siamo venuti qui per salvarci la vita, accet-
tiamo tutto. Pure se sono tante ore, 13, 14, 15, 16 e pochi soldi.
La nuova legge sui lavoratori immigrati è una favola! Tu devi
andare alla Camera del lavoro e ti danno tre mesi per cercare
un lavoro. Se dopo tre mesi non l’hai trovato, e nemmeno la
Camera del lavoro l’ha trovato, ti danno un altro anno. Se in
questo anno ancora niente, allora, forse, non so, ti mandano via.
Amici italiani? Questo è un problema. Sarebbe bello mischiare
il carattere nostro e il vostro. Purtroppo, pure se dicono che
l’Italia è un paese democratico, io esco con tutta gente del mio
paese. C’è un muro tra voi e noi!

A.N.

Vengo dalla Tunisia. Nel mio paese facevo la guida turistica.


Lavoravo bene. Ma in Tunisia c’è una situazione molto re-
pressiva: alle 10 di sera tutti devono essere a casa, non si può
andare in giro. Il 90% dei tunisini vengono qui perché non
possono vivere in quella situazione. Poi c’è anche chi scappa
dalla guerra, è il caso di un mio amico palestinese. Ad Anco-
na, nove anni fa, ho trovato un lavoro come marinaio. Lavoro
regolare. Mi sono imbarcato e sono stato sei mesi a New York.
In seguito, un giorno, stavo su una barca, non ero in regola,
sono caduto, e mi sono fatto male. Ho avuto un’operazione
al cervello e le gambe ancora non mi funzionano bene. Ho
pagato le cure da solo. Con i soldi che avevo. Adesso ho una
causa con il padrone della barca. Il comune di Roma mi ha dato
una camera e da mangiare. I miei amici lavorano nei ristoranti
oppure fanno gli ambulanti. Due di loro erano lavapiatti in un
ristorante, poi, finito lì, andavano a scaricare sacchi di farina.
Lavoravano quasi venti ore al giorno. E mangiavano solo una

138
volta. Abitano all’Albergo del popolo. All’ostello si sta male,
perché alla mattina alle 9 devi uscire anche se sei malato (se no
dovresti avvertire il giorno prima). Durante il giorno non si può
ritornare, puoi farlo solo alla sera. Si dovrebbe pagare 5 euro
a notte, ma il capitano fa pagare anche 6. Questo per il letto
nella camerata. Lì ci sono tanti letti. Se vuoi la camera singola,
devi pagare 13 euro. Poi tutto è sporco. Non lavano mai. C’è
solo un bagno per piano. Certe volte uno fa prima a farla fuori
che aspettare. E poi il capitano fa discriminazioni: non dà da
dormire e da mangiare a tutti. Pure se uno paga. Per esempio
a miei amici iraniani e palestinesi, che fuggono dalla guerra e
che non hanno niente, non hanno soldi, non hanno casa, lui
non ha dato da mangiare. Io pagavo per loro, ma il capitano
non ha voluto farli mangiare lo stesso.

Paolo

Sono arrivato a Milano quasi cinque mesi fa, alla fine di gennaio
2010. Vengo da un piccolo paese della Romania. Ho sempre
vissuto là con la mia famiglia, mi sono sposato, ho avuto due
figli. Adesso ho 25 anni.
Sono venuto qua con mia moglie, mentre i miei due figli di
7 e 6 anni sono rimasti a casa insieme a mia madre. Lei ha 43
anni, è malata di cuore, dovrebbe operarsi ma ci vogliono dei
soldi, ci vogliono 3.000 euro. Anche mio fratello più piccolo
per ora è rimasto a casa. In Romania non si trova lavoro, non
si riusciva a fare niente. Molti altri dal mio paese sono venuti
in Italia, in tanti partono per provare a cercare lavoro, una
situazione migliore. Io vorrei lavorare, come imbianchino,
come giardiniere, come stalliere. Anche qua è difficile, ma un
po’ meglio. Però se trovassi lavoro potrei mandare dei soldi
in Romania; anche ora li mando, ma pochi. Adesso chiedo
l’elemosina. Oggi ero al centro commerciale, ma dopo un po’

139
la guardia mi ha mandato via. Allora sono sceso nel parcheg-
gio, sono stato lì tutta la mattina e ho guadagnato 3 euro: un
panino. Da quando sono arrivato ancora non mi è riuscito di
trovare nessun lavoro. È difficile anche cercare. A Milano non
conoscevo nessuno. Siamo arrivati qua una mattina e subito
ho costruito una baracca, perché non avevo un posto dove
stare insieme a mia moglie. Abbiamo passato tutti questi mesi
nella baracca, ma non c’erano alternative. Abbiamo paura che
ci mandino via, non possiamo stare là. Ogni tanto passa la
polizia a fare controlli, forse è la gente che la chiama. Ci sono
anche altri come noi. Tutti che abitano nelle baracche. I vestiti
che ho addosso me li hanno dati i volontari di un’associazione.
Con i soldi dell’elemosina posso solo comprarmi qualcosa da
mangiare e le sigarette. Anche mia moglie chiede l’elemosina.
Davanti alle chiese, nei centri commerciali, per strada. Molte
persone non ti guardano nemmeno. Nei posti dove vado più
spesso con qualcuno ho fatto amicizia. Se uno mi riconosce
magari si ferma a parlare. Un signore mi ha portato dei vestiti
suoi. Me li ha regalati.
Le giornate sono sempre così. Giorno dopo giorno. La
maggior parte del tempo in giro per guadagnare un po’ di soldi.
In centro non andiamo mai, restiamo in zona, vicino a dove
viviamo. Per ora è così.
Forse vorrei tornare in Romania, ma con un po’ di soldi.
Vorrei riunire tutta la famiglia, stare insieme. Ora posso solo
parlare al telefono con mia madre, i miei bambini, mio fratello.
Vado alla stazione e chiamo da una cabina. Spero che le cose
migliorino.

Abasi

Prima della guerra io non stavo male in Somalia. Certo la


situazione non era facile, c’erano tanti problemi, la povertà...

140
Non si aveva certezza del futuro, lo stato non era diverso da
qui, non c’erano aiuti. Sono venuto via quando è scoppiata la
guerra. Sono un profugo di guerra. Adesso sono vent’anni che
vivo in Italia. Sono scappato via dal mio paese, dalla mia città,
con molta tristezza. Inoltre ho perso un fratello, che è morto.
È stato ucciso... Ancora oggi è dura pensare a lui. È morto
un mese prima della mia partenza per l’Italia. Parte della mia
famiglia è ancora in Somalia, un altro fratello è qua in Italia,
mentre un cugino si è trasferito in Francia. Prima della guerra
abitavamo tutti nella stessa città, adesso siamo divisi in diversi
paesi, ci teniamo in contatto ma non è la stessa cosa.
Quando sono partito avevo 22 anni, ero un ragazzo. Mi
ricordo soprattutto la paura. L’Italia mi sembrava un mondo
misterioso, con grandi differenze. Non avevo punti di riferi-
mento, non conoscevo nessuno. Dovevo iniziare tutto da capo
e non sapevo cosa pensare della mia vita in quel momento, cosa
sarebbe successo, come e dove costruirmi un futuro. C’erano
altri somali con me, ci incoraggiavamo a vicenda, per tirarci
su il morale. La prima città che ho visto è stata Bologna, dove
sono stato qualche mese, poi sono andato a Firenze, perché
c’era un mio amico arrivato in Italia un po’ prima di me e
quindi mi ha aiutato per quel che ha potuto. Così, quando sono
arrivato a Firenze, c’era almeno una persona che conoscevo
davvero. Il primo periodo è stato davvero brutto, mi sentivo
estraneo, straniero. Non so se era la mia poca confidenza con
quasi tutto quello che mi circondava, ma spesso mi capitava
di sentirmi addosso gli occhi della gente, come se le persone
guardassero me in maniera diversa. Non mi è mai successo
niente di spiacevole, ma l’aria non mi faceva stare tranquillo.
Penso che sia normale, considerata tutta la mia situazione di
quel momento.
A Firenze ci vivevano altri somali, ci incontravamo spesso e
passavamo il tempo insieme. Grazie a un mio connazionale ho
trovato il lavoro che ancora oggi faccio: sono dipendente di una

141
ditta di pulizie. Trovare questa possibilità per me è stato molto
importante, mi ha permesso di inserirmi. Ogni giorno ci vado
volentieri, anche se agli italiani può sembrare strano. Spesso
sento dire in televisione che gli italiani non vogliono fare questi
lavori. In realtà alcuni miei colleghi sono italiani.
Mia moglie è italiana. L’ho conosciuta un’estate alla festa
dell’Unità. Abbiamo due figli. Penso di essere stato molto for-
tunato a conoscerla. Lei lavora in un supermercato. Viviamo
in una casa in affitto. Il fatto di essere somalo, di essere nero e
immigrato con lei non è mai stato un problema. Anche i suoi
genitori non hanno mai avuto niente in contrario. Tutto questo
mi ha molto aiutato e così in tante cose io mi sento italiano.
Certamente so che la mia terra è la Somalia, ma la mia vita
ora è qui, il mio futuro è qui. I miei figli vanno a scuola, e a
volte i loro insegnanti mi hanno chiesto di andare in classe
per raccontare la mia esperienza, la guerra, e la fuga dal mio
paese. Ho sempre accettato questi inviti, anche se per me è
molto difficile ricordare, perché in fondo non sai mai quale
può essere la reazione di chi ti ascolta. Però è importante far
conoscere queste storie ai ragazzi, perché oggi in Italia ci sono
tanti stranieri immigrati per motivi diversi ed è molto impor-
tante capire come si possa convivere tutti insieme. Per questo
la conoscenza è la prima cosa.

Ajene

Il mio viaggio per arrivare in Italia è iniziato nel deserto tra


l’Africa subsahariana e i paesi del Maghreb. Io abitavo in Ghana.
Ho iniziato la mia traversata a bordo di un camion guidato da
un ragazzo di Tripoli.
Durante il viaggio siamo stati fermati tante volte dalla po-
lizia e ci hanno rubato tutto quello che avevamo. Ho visto
con i miei occhi persone costrette dai militari a bere acqua

142
sporca per provocare problemi intestinali, per costringere a
espellere le palline con le banconote arrotolate nel cellopha-
ne che avevano ingoiato per non farsi derubare. Due ragazzi
sono stati ammazzati come cani perché non volevano dargli
tutto.1 Queste cose sono dure da sopportare e il viaggio è stato
lungo e difficile. Non abbiamo mangiato mai nulla e avevamo
soltanto una bottiglia d’acqua, siamo entrati in Libia nei pressi
della frontiera di Toummo se non ricordo male anche perché
sono passati quasi dieci anni da quei giorni. Sono stato molto
fortunato perché ero riuscito a nascondere bene i miei soldi.
Arrivato in Libia dalla frontiera sono riuscito a raggiungere in
poco tempo Tripoli e da li ho cominciato a capire cosa dovevo
fare per imbarcarmi e per arrivare in Italia. Non vedevo l’ora
di iniziare la mia nuova vita.
Sapevo che non sarebbe stato facile e che mi sarebbe costato
tanto, sia per i soldi sia per la mia testa, ma non pensavo così
tanto. A Tripoli sono riuscito a mettermi in contatto con alcuni
ragazzi che volevano andare in Italia a lavorare e che sapevano
a chi chiedere, ma il prezzo per il “passaggio” era veramente
troppo alto. Speravo di trovare qualcosa di meglio ma alla fine
ho capito che dovevo aspettare... Trovarmi un lavoro in Libia,
mettere da parte i soldi e partire.
A Tripoli ho lavorato tre mesi per accumulare soldi, man-
giavo il meno possibile, non uscivo mai e non conoscevo quasi
nessuno, facevo una vita orribile. Ma alla fine avevo i soldi che
mi chiedevano e sono partito. Era una notte d’estate del 2002.
Il viaggio in mare è stato se possibile ancora più duro di quello
nel deserto, prima di tutto perché io non avevo mai viaggiato in
mare e poi perché la barca era piccola e noi eravamo tanti, quasi
tutti uomini africani, poche donne e solo due o tre bambini, se

1
Per chi rimane senza soldi il viaggio si tramuta in tragedia. Secondo diverse
testimonianze le oasi del deserto nigerino e libico sarebbero disseminate di
schiavi. Giovani partiti dall’Africa occidentale alla volta dell’Europa e rimasti
bloccati senza soldi per proseguire né per ritornare

143
non ricordo male. Parlando poi in Italia con tanti amici africani
penso che sono stato fortunato perché nella nostra barca non
è morto nessuno, anche se in molti sono stati male.
A Lampedusa la polizia ci consegna un numero, acqua e
cibo e ci porta in una specie di carcere. Lì capisco che devo
lottare ancora per riuscire a vivere libero e trovarmi un lavoro.
All’epoca non parlavo italiano e anche questo era un problema
perché non capivo quello che mi dicevano. Da Lampedusa
però riesco ad andarmene abbastanza in fretta, anche perché
quasi tutte le sere arrivavano altre barche e non ci stavamo
più. Ci hanno spostato in Puglia ma non ne sono sicuro, in
un centro che sembrava meno carcere di quello a Lampedusa.
C’era poca polizia e soltanto una rete all’entrata. Dopo tre
giorni in questo centro, conosco Labaan e con lui decidiamo
di andarcene senza aspettare il permesso perché avevamo
capito che ci volevano rimandare a casa nostra e dopo tutti
i sacrifici fatti per arrivare e cambiare vita, era una cosa che
non poteva proprio succedere.
Andiamo via di notte, non è stato difficile perché come ti
dicevo c’era solo una rete e la polizia sembrava non guardasse
troppo quello che facevamo, infatti andò tutto bene. Una volta
scavalcata la rete nessuno ci fermò.
Da lì abbiamo passato la notte a pochi chilometri dal cen-
tro, ci siamo messi a dormire in un campo ben nascosti. Con
la luce siamo andati alla ricerca di una stazione per riuscire ad
andare via dal sud Italia verso il nord che ci aspettavamo ricco
e pieno di lavoro.
Troviamo la stazione dopo poche ore di cammino e decidiamo
che è meglio separarci per non dare nell’occhio anche perché
il primo problema da affrontare era come pagare il treno, visto
che non avevamo soldi italiani.
Mi presento alla biglietteria ma non concludo nulla, capisco
che però è impossibile prendere un solo treno per arrivare a
Milano, ne devo prenderne almeno due. Avevo 20 dollari ma

144
non li hanno voluti. Salgo sul treno per Roma senza biglietto.
Anche Labaan sale sullo stesso treno ma non ci mettiamo
nello stesso vagone. Da lì non ci siamo più rivisti e spero che
anche per lui il viaggio sia continuato senza troppi problemi.
A Roma riesco a cambiare i miei dollari e a fare il biglietto per
un treno fino a Modena, la città dove ho fatto il mio primo
lavoro italiano.
A Modena scendo in stazione molto presto di mattina,
sono totalmente spaesato e anche se dentro di me sono felice,
capisco che la mia situazione è complicata, non ho nessuna
carta che dice che posso stare in Italia. Per fortuna incontro
dopo poche ore dei ragazzi ghanesi che mi aiutano subito,
mi invitano a mangiare nella loro casa e mi spiegano che è
meglio se non me ne vado in giro troppo senza il permesso di
soggiorno. Questi ragazzi sono stati la mia salvezza perché per
un mese mi hanno fatto dormire sul loro divano, facendomi
conoscere gli italiani giusti che mi hanno aiutato a trovare
lavoro. Sono stato nelle campagne per sei mesi, venivo pagato
poco ma almeno riuscivo a mangiare e a permettermi una
stanza in affitto. Il problema del permesso però rimaneva
perché non lavoravo in regola.
Dopo questo lavoro ne ho trovato uno meno faticoso e pagato
meglio, lavoravo da un benzinaio dove sono rimasto quasi un
anno, il padrone era tranquillo ma anche lui mi diceva che non
aveva i soldi per regolarizzarmi. I miei amici italiani mi dicevano
che entro poco ci sarebbe stata una sanatoria per tutti i migranti
e di non preoccuparmi e io ci speravo anche perché sinceramente
mi stavo trovando bene. Nella mia testa c’era ancora la voglia di
andare a Milano, la città dove avrei potuto fare un vero lavoro e
guadagnare bene per mettermi da parte dei soldi. Dopo cinque
anni a Modena senza permesso di soggiorno e altri due lavori,
uno in un forno e uno in una cooperativa edile, ne trovo un altro
vicino a Milano in una fabbrica metalmeccanica come operaio.
Questo impiego l’ho trovato grazie a un amico, Mario, era anni

145
che cercava una possibilità per la mia regolarizzazione. In questa
fabbrica ho lavorato duramente per due anni, mi hanno fatto
subito il contratto, con varie difficoltà ma alla fine ce la abbia-
mo fatta e ho ottenuto un permesso di soggiorno legato al mio
contratto. Guadagnavo più di 1.000 euro al mese, finalmente
potevo avere una casa e una vita tutta mia. In quei due anni
2007\8 ho conosciuto vari amici e amiche, uscivo la sera e mi
occupavo insieme ad africani e italiani di una scuola di italiano
per migranti. È stata un’esperienza molto bella e soprattutto
ho conosciuto Monica, mia moglie, una ragazza toscana di
Firenze ma che stava a Milano. Adesso siamo sposati e io sono
diventato italiano. Sinceramente non mi sento proprio italiano,
ma afritaliano, nel senso che non vivo più da ghanese ma non
sono neanche un italiano al 100%. Certo tante cose della vostra
cultura ormai fanno parte di me, le ultime esperienze si sono
incontrate e mescolate con la mia parte africana. Anche se non
è stato facile, adesso amo l’Italia, mi piace la musica, la cucina,
il cinema, ma amo anche l’Africa, il mio paese dove finalmente
posso tornare senza paura per stare con la mia famiglia. Quando
vado in Ghana per i figli di mia sorella sono un italiano con la
faccia nera e che parla la loro lingua ma per gli italiani sono un
africano che lavora in Italia, insomma un casino ma finalmente
sono felice. Anche se non finirò mai di pensare a tutti i fratelli
che non ce la fanno, che muoiono nel viaggio o che vengono
riportati a casa dalla polizia. Io alla fine sono stato fortunato
e adesso devo lottare per i diritti di tutti quelli che non sono
arrivati o che vogliono arrivare.

Marc

Mi chiamo Marc sono arrivato in Italia solo da tre anni ma sono


bastati per capire che anche qui la vita non è facile.
Nel mio paese, l’Ecuador, non c’è lavoro, però c’è tutta la mia

146
famiglia. Sono arrivato in Italia con la speranza di sistemarmi,
lavorare duramente per due anni, mettere da parte i soldi per
costruirmi la casa e aprire un attività nel mio paese. Invece non
sono riuscito a mettermi da parte quasi nulla.
Ho avuto mille problemi e ancora oggi non ho il permesso
di soggiorno. Sono arrivato con il visto turistico e tramite un
amico della mia città speravo di trovare un posto regolare e
invece niente. Ho cominciato con lui a fare il muratore in una
piccola ditta che lavorava per grandi ditte e dopo solo sei mesi
mi hanno cacciato, e la cosa ancora più grave è che hanno
licenziato anche il mio amico che era regolare.
Dopo questa botta non sono riuscito a trovarmi niente di
serio, tanti piccoli lavoretti con cui riesco a tirare su i soldi giusto
per mangiare e mandare 100, massimo 200 euro alla mia famiglia.
Come se non bastasse l’anno scorso mi ha fermato la polizia
a una festa di gente del mio paese del Perù e della Bolivia. Era
una bella festa in un parco, non stavamo facendo niente di
male, una grigliata, qualche birra e bella musica. La polizia mi
ha portato in un centro di detenzione dove mi hanno tenuto
quasi un mese, non avevo fatto nulla ero con altri amici solo
che io non avevo i documenti, e non avevo un lavoro. Non
ero l’unico senza documenti ma ci hanno portato via solo in
quattro.
Dopo un mese non ho capito bene cosa è successo ma mi
hanno fatto uscire dicendomi che dovevo tornare nel mio paese,
ma con quali soldi mi compro il biglietto?
Adesso le cose vanno un pochino meglio, ho un lavoro e
guadagno 700 euro al mese. Passo otto o nove ore al giorno
a scaricare e caricare pacchi sul furgone ma purtroppo senza
contratto.
Altro grande problema è la casa. Nel mio paese casa mia non
era perfetta ma avevo lo spazio per vivere e stare con la mia
famiglia, qui devo condividere con due amici una stanza che
sarà di dodici metri quadrati, poi in casa ci sono altri quattro,

147
due in una stanza e due nel salotto. Per questa casa non ti
dico cosa abbiamo dovuto fare, perché a noi non ce la voleva
affittare nessuno. Per fortuna Luis ha un bravo amico di una
associazione antirazzista che telefonava per noi e poi veniva agli
appuntamenti perché se non ci fosse stato questo contatto mi
toccava pagare 300 euro per un letto.
Pensavo che in Europa era così facile lavorare, l’unica cosa
che mi è andata bene è la lingua, non ho avuto grosse difficoltà
e poi molti italiani capiscono lo spagnolo.
Adesso sto anche frequentando una scuola gratuita per
migranti per imparare la grammatica, almeno se imparo bene
la lingua posso avere qualche possibilità in più di trovare un
buon lavoro.
Una cosa che mi piace un sacco qui in Italia è il cibo, è tutto
molto costoso ma è tutto molto buono, pensa che in tre anni
non ho ancora trovato niente che non mi piace. Il vero problema
per me adesso è capire come fare a trovare i soldi per tornare a
casa, dopo tutti questi sacrifici non posso tornare in Ecuador
a mani vuote, senza la possibilità di dare un futuro alla mia
famiglia, ai miei figli.
Se riuscissi a regolarizzarmi, ma la vedo veramente dura,
potrei provare a far venire qua mia moglie e mio figlio... Anche
perché è uno strazio non vederli mai!
Certe volte invece penso che l’unico modo per tirare su
qualche soldo vero sia quello di mettermi in affari... Non so
se mi capisci nel senso fare qualcosa che in breve tempo mi
faccia trovare i soldi per andarmene, tanto cosa devo fare se mi
fermano ancora? Dico la polizia o i carabinieri... Penso che mi
manderanno sicuramente in carcere, quindi tanto vale andarci
con dei soldi messi da parte e così, una volta che esco, me ne
posso tornare in Perù con qualcosa. Ma è una scelta difficile
e non sono sicuro di volerla fare, se lo sapesse mia moglie che
ci sto solo pensando... Ma è anche difficile guadagnare 3 euro
all’ora, è ingiusto. Nel mio paese potrei lamentarmi e chiedere

148
di più, ma qua come faccio o dico sì o non mi fanno lavorare e
io non posso non lavorare.
Arrivo alla sera e penso alla mia vita che è una continua
lotta per cercare di tirare su dei soldi, sono giovane ma molto
pessimista sul futuro speravo che almeno qui in Italia fosse più
semplice, che fosse più facile essere liberi e invece comincio a
pensare che qui è peggio che da noi.

149
Quale futuro?

Viviamo in un mondo fatto di informazioni e immagini che ci


sommergono continuamente, viviamo in metropoli affollate,
con strade che sembrano fiumi in piena di umani delle etnie
più differenti, che con il passare del tempo si mescolano, si
incontrano si scontrano e danno forma al processo meticcio;
siamo “umani al di là delle appartenenze”.
L’insieme dell’umanità si sta interconnettendo attraverso
una rete di rapporti che si estende progressivamente all’intero
delle nostre città, nelle nostre vite. Nella società postmoderna
assistiamo sempre di più a una rapida e profonda evoluzione dei
modi di vita quotidiani, determinata da un insieme di eventi, dal
mescolarsi di culture, esperienze diverse, fino alle sempre più
veloci innovazioni tecnologiche che cambiano il nostro modo
di vivere e vedere la realtà.
Assistiamo a trasformazioni culturali dovute all’interazione
tra fattori evolutivi, sociali, culturali, economici e tecnologici
che raggiungono un’ampiezza senza precedenti. I mutamenti in

151
atto stanno modificando, in modo irreversibile, il nostro modo
di vivere quotidiano, il nostro modo di pensare e di percepire
il mondo e la convivenza umana.
La trilogia identità-cultura-territorio è ormai un’accezione
desueta, ma è innegabile che l’uomo necessiti di un’identità, e
nel terzo millennio in un mondo sempre più in movimento in
cui ogni barriera vacilla, le identità non sono più territoriali,
ma sono in viaggio. I migranti sono i protagonisti di questi
cambiamenti e portatori di alterità all’interno dell’occidente.
Le esperienze che vivono i migranti sembrano cogliere lo sfon-
do di questi fenomeni di deterritorializzazione e la concezione
di cultura come struttura di significato in viaggio sembra essere
più corretta rispetto a quella tradizionale legata a un territorio.
Ora, il fatto che si possa parlare di ibridazione di culture
rappresentate come strutture di senso e significato in viaggio,
come non si possano più solo identificarle con il territorio e con
l’identità, non significa che il desiderio di possedere un luogo
a cui ancorare la propria individualità e personalità identitaria
e il desiderio di essere riconosciuti, siano fenomeni obsoleti.
Al contrario, le localizzazioni culturali costituiscono potenti
fattori di rafforzamento dell’anelito d’identità e della persuasione
che quest’ultima debba possedere un locus dove rappresentarsi e
poter essere riconosciuta. L’identità può avere valenza positiva,
ovvero riconoscersi in altri, e una negativa nella quale scoprirsi
e definirsi in base a ciò che ci differenzia dagli altri. Le identità
di cui ci avvaliamo paiono figure convenzionali, dove ruolo e
abitudini sono debitamente appresi.
Sono maschere, travestimenti spesso ridicoli, che ci im-
pediscono di accettare pienamente la complessità che c’è in
ognuno di noi.
È auspicabile che il processo meticcio che viviamo nel mon-
do contemporaneo decostruisca le politiche legate ai discorsi
identitari, conservatori e di appartenenza a una fantomatica
etnia pura. Un’etnia inesistente, falsa, utile soltanto a produrre

152
differenze e razzismo. D’altro canto mi rendo conto, dopo
svariate interviste e letture, che per molti migranti è una vera
sofferenza “diventare meticci”; non sempre infatti vivono sere-
namente questo percorso di ibridazione culturale.
Dobbiamo comprendere che viviamo un mondo estrema-
mente complesso dove è necessaria l’apertura allo scambio,
all’interazione, alla tensione dialogante fra diversi.1
È fondamentale costruire un mondo che sappia accogliere,
ascoltare e capire le differenze e che tali differenze diventino la
ricchezza della nostra società. Non dobbiamo assolutizzare mai
l’identità culturale, ma fare in modo che le diverse espressioni
identitarie siano filtrate alla luce della libertà e dell’autonomia
propria e di ogni altro essere umano al fine di saper costruire
un’identità dai confini aperti che non sia rigida, cristallizzata,
chiusa.
Quindi prefigurare un mondo aperto, senza muri e pregiu-
dizi, dove donne e uomini siano pronti all’ibridazione culturale
e consapevoli che l’unica patria possibile è il mondo intero.
Un mondo con al suo interno una miriade di culture differenti
pronte al cambiamento, all’ascolto e l’incontro. La creazione di
una relazione sociale tesa a soddisfare un’esigenza, un interesse,
dove sia importante accettare di trasformarsi nell’interazione
egualitaria con gli altri e prevedere la possibilità di diventare
una persona anche molto differente da quella originaria. Una
comunità che non entri in contrasto con la libertà del singolo.

Deve essere altrettanto facile da smantellare di quanto sia stato


costruirla. Deve essere e restare un tipo di comunità flessibile,
sempre e soltanto a tempo e durare solo fino a che conviene.
La sua creazione e smantellamento devono dipendere dalla
decisione di chi ne fa parte di restarle o meno fedeli, e in
nessun caso tale fedeltà, una volta dichiarata, deve diventare

1
F. Laplantine, A. Nouss, Il pensiero meticcio, cit.

153
irrevocabile: il legame creato dalle scelte non deve mai osta-
colare, né tanto meno precludere, ulteriori e diverse scelte. Il
legame ricercato non deve essere mai vincolante. Per citare la
famosa metafora di Weber, ciò che si ricerca è una mantellina,
non una gabbia di ferro.2

Sto parlando di un mondo di eguali per diritti ma differenti per


culture, una società di donne e uomini liberi di creare la loro
specificità culturale, non parlo di un programma politico ma di
un atto di autodeterminazione sociale. La cultura non è mai una
conclusione ma una dinamica costante alla ricerca di domande
inedite, di possibilità nuove, che non domina, ma si mette in
relazione, che non saccheggia, ma scambia, che rispetta.3 Un
pensiero meticcio come rifiuto del falso universalismo e della
purezza, un processo dinamico di scambi reciproci, di accet-
tazioni e di rifiuti, di rinunce e di appropriazioni. Dobbiamo
essere consapevoli dei tanti possibili errori ma anche essere forti
della necessità di accettare la complessità del reale, perché la
complessità è il fondamento della nostra identità
Senza paura verso il divenire meticcio.

2
Z. Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Bari 2001
3
J. Bernabé, P. Chamoiseau, R. Confiant, Elogio della creolità, Ibis, Pavia
1999.

154
Postfazione
Meticci anche in cucina
Andrea Perin

Si può definire meticcia una cucina? Se la si affronta nel


suo percorso storico nessuna tradizione è pura, ognuna si è
modificata nel corso tempo da scambi e ingressi. La stessa
cucina italiana, una delle più ricche e articolate al mondo,
non è un modello codificato e unitario bensì una rete di saperi
e pratiche, strutturatisi in secoli di storia grazie anche alla
posizione centrale che la penisola occupa nel Mediterraneo
e che ha portato a secoli di occupazioni subite (e imposte),
commerci con tutto il mondo, immigrazioni ed emigrazioni.1
Da ultimo, i poderosi trasferimenti che portarono milioni di
persone dal sud al nord, che hanno rimescolato ancora gusti
e ingredienti.
Si tratta di una storia spesso dimenticata, oppure omessa per
superficialità o interesse: la tipicità non di rado viene spacciata
per tradizione, e la stessa tradizione viene presentata come un
fattore statico che attraversa i secoli immutabile. Si vagheggia
di un passato fatto di natura e sincerità, mentre per la maggior
parte della popolazione la quotidianità era fatta di fame e miseria.
La cucina italiana è diventata in molti casi un astratto elemento
identitario da difendere, una barricata rispetto all’invasione di
“stranieri”.
In questo contesto il termine meticcio può essere utile per
definire un tipo di cucina: non la moda fusion dei ristoranti
glamour e neppure le fantasie dei blogger gastrofanatici, ma la

1
A. Capatti, M. Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, La-
terza, Roma-Bari 1999; M. Montanari, L’identità italiana in cucina, Laterza,
Roma-Bari 2010.

155
contaminazione casalinga di ricette, ingredienti e conoscenze
delle diverse culture che si confrontano nella società, una pratica
che supera nella consuetudine le barriere culturali che limitano
l’incontro e lo scambio. È un termine che trova giustificazione
nell’impatto accellerato che la contemporaneità comporta nei
cambiamenti rispetto al passato quando le modifiche delle
abitudini richiedevano decenni o anche secoli.2 E soprattutto
nella conseguente possibilità di scegliere.
“È l’era del politeismo alimentare che spinge le persone a
mangiare di tutto, senza tabù, generando combinazioni soggettive
di alimenti e anche di luoghi ove acquistarli, neutralizzando ogni
ortodossia alimentare”. Nel primo rapporto Coldiretti/Censis
del 2010 sulle abitudini alimentari degli italiani si evidenzia che
“il rapporto con il cibo è una dimensione sempre più soggetti-
va, espressione dell’io che decide e che, a partire dalle proprie
preferenze, abitudini, prassi e aspettative, nonché dalle risorse
di cui dispone, definisce il contenuto del carrello e della tavola”.
Solo per il 30,4% la propria alimentazione deriva ormai dalla
tradizione familiare.3
Se l’immigrazione, con l’arrivo di nuovi gusti e nuovi pro-
dotti, è anche un’occasione per allargare le possibilità a tavola
degli italiani, la situazione per i migranti è sicuramente più
complessa. Si sono scritti fiumi di inchiostro per raccontare
come il cibo sia un fattore identitario, sull’importanza che
assume per uno straniero costretto a cambiare tutti gli aspetti
della sua vita. Per molti, specialmente qualche anno fa quando
le comunità erano meno organizzate, è stata in effetti un’au-
tentica sofferenza doversi cibare solo di pietanze italiane e
spesso era difficoltoso trovare alimenti compatibili con la
propria religione.

2
M. Montanari, Il cibo come cultura, Laterza, Roma-Bari 2004; A. Appa-
durai, Modernità in polvere, cit.
3
www.coldiretti.it/docindex/cncd/informazioni/747_09.htm.

156
L’inizio è stato un po’ faticoso soprattutto perché non si trovava
il nostro riso o altri ingredienti (Hasina, Bangladesh).4

Per tutte le comunità la cucina è un orgoglio culturale e una


esternazione di appartenenza. Basta scorrere le pubblicazioni
di cucina o partecipare alle feste dove sono i migranti stessi
a raccontare o eseguire i propri piatti per verificare come le
ricette siano riproposte uguali a quelle eseguite a casa, come se
centinaia o migliaia di chilometri di distanza fossero annullati.

Quando ero un po’ più grande mia madre mi ha detto: “Quando


finirai la scuola tu dovrai andare in un altro paese a cercare
lavoro, qui non ci sono soldi, devi andare in altro paese. Non
ci sarò più io a cucinare per te, e chi aiuterà te? Devi imparare
adesso, guarda bene come faccio, sei grande abbastanza per
imparare a cucinare” (Somot e Raju, Bangladesh).5

In realtà per il migrante l’alimentazione più che veicolare


un’astratta appartenenza a una patria o definire una specificità
culturale, rappresenta un legame emotivo e sensoriale soprattutto
con la famiglia lontana, con i sapori condivisi sin dall’infanzia:
i modelli gastronomici sono la cucina della mamma e della
nonna, che sommati e condivisi con gli altri costruiscono un
gruppo, una comunità.6

Sono molto contento di cucinare questo piatto perché mi ri-


corda la mia famiglia, specialmente mia nonna, che cucinava i

4
R. Rashidy (a cura di), Mi racconto... Ti racconto. Storie e ricette del nostro
mondo, Editrice Coop Consumatori, Bologna 2007, p. 44.
5
Testimonianza raccolta durante la rassegna “Parole di frontiera”, nella
serata dedicata al “Piacere”, cena aperta di condivisione di piatti, svoltasi nel
circolo arci La Scighera di Milano, 13 maggio 2010. A cura di Naga e arci
Scighera, in collaborazione con Associazione Asinitas di Milano.
6
K.E. Müller, Piccola etnologia del mangiare e del bere, il Mulino, Bologna
2005, pp. 109-116.

157
Domoda per noi, sempre. Ho mangiato cose diverse in Italia,
ma non ho ancora trovato il cibo che mi ricorda la mia fami-
glia. Quando mi hanno informato della cena, sono stato molto
contento di cucinare i Domoda per ricordare la mia famiglia.
Questo incontro è molto importante perché mi sento come
con la mia famiglia (Muhammed, Gambia).7

Quando cucino questo piatto mi sento come dentro a casa mia


in Egitto, con la mia famiglia. Ogni volta che cucino questo
piatto mi sento come dentro le braccia di mia madre. Perché
è troppo buona, come un dolce (Bahaa, Egitto).8

Il cibo definisce chi appartiene e per esclusione identifica lo


straniero, ma non è solo questo: è anche il primo grado di scam-
bio e di riconoscimento dell’altro. Mangiare il cibo del diverso,
dello straniero, vuol dire accorciare le distanze e appropriarsi
di un pezzetto dell’identità altrui, farla propria. Se è vero che
il “sapore è sapere”, è sempre possibile imparare nuovi gusti.
La realtà per i migranti è meno lineare della semplice conser-
vazione della propria tradizione perché il consumo alimentare
risulta assai pragmatico e comprende spesso la cucina italiana,
sia sui luoghi di lavoro o a scuola sia a casa.

Fino a pochi anni fa pensavo che il cibo senegalese fosse il più


buono al mondo. Ora penso che sia stata una gran fortuna
conoscere anche quello italiano (Aliou, Senegal).9

Io e mio marito preferiamo le cose fast tipo pasta, cose insomma


che si preparano rapidamente durante la settimana, quando
siamo di corsa. Quando c’è tempo cucino marocchino, o se

7
Testimonianza raccolta durante la rassegna “Parole di frontiera”.
8
Ibidem.
9
Le ricette di Sunugal. Scambio di sapori e saperi tra Italia e Senegal, Milano
2011, pp. 27-28.

158
c’è gente a cena o pranzo o durante le feste religiose. Le cose
italiane sono più veloci da preparare (Sara, Marocco).10

I risultati di un’indagine svolta nel biellese nel 2006 sui consumi


alimentari di un piccolo campione di migranti hanno mostrato
per esempio una notevole familiarità e assimilazione con il
modello italiano, insieme a un allontanamento dalle usanze più
tradizionali: la maggior parte quotidianamente mangia e beve
all’italiana (81,3%) o consuma cibi e bevande internazionali
(20,5%). I cibi del paese d’origine vengono consumati saltua-
riamente (32,5%) o addirittura mai (17,5%).11
Questa disinvoltura a tavola nasce in buona parte dalla co-
modità, visto che la cucina italiana è ritenuta più facile e veloce,
spesso è desiderio di omologazione al modello della cultura
ospite: sono sempre di più i corsi di cucina italiana per migranti,
anche per obbligo professionale (colf, collaboratrici ecc.).
I migranti poi sono inseriti sempre più stabilmente nei processi
produttivi della catena alimentare italiana. Nel 2010 sono già
oltre 38 mila le imprese del settore gestite da migranti secondo
una ricerca del Fipe, pari al 12,1% del totale, e se oltre 2.500
sono i ristoranti etnici è ormai evidente a tutti come molti ruoli
siano coperti da “stranieri” anche nei bar, nelle panetterie, nelle
pizzerie, nelle cucine di ristoranti e trattorie. Senza contare le
persone impiegate nella produzione, come nei prosciuttifici emi-
liani o nei caseifici del grana padano e della fontina valdostana.12

10
L. Fontana Sabatini, I consumi e i cultural bridging. Le seconde genera-
zioni di donne egiziane e marocchine a Milano, tesi di laurea specialistica in
Marketing management, Università Commerciale Luigi Bocconi, facoltà di
Economia di Milano, anno accademico 2007-2008, p. 63.
11
E. Sulis (a cura di), Abitudini, opinioni e consumi migranti. Un ap-
profondimento nel contesto biellese, in C. Fiorio, E.M. Napolitano e L.M.
Visconti (a cura di), Stili migranti, i quaderni di welcome marketing etnica,
2007, pp. 169-199.
12
www.confcommercio.it/home/Inchieste/Il--melting-pot--della-ristora-
zione-italiana.htm_cvt.htm.

159
Tanto che, in un provocatorio articolo il “New York Times”
di qualche anno fa si chiedeva: Is the Cuisine Still Italian Even if
the Chef Isn’t? Sebbene la a cucina italiana sia una delle più im-
permeabili alle modifiche, scriveva il corrispondente, sarà sempre
uguale o comincerà a subire modifiche dai suoi cuochi “stranieri”?13
Senza scomodare gli chef professionali sono le cucine ca-
salinghe i laboratori del cambiamento, dove nella quotidianità
dell’alimentazione si fondono i sapori, le esperienze si incrociano,
i gusti si adattano. Se nelle feste si mangia come lo preparavano
la mamma o la nonna, e agli amici si offre la cucina tradizione
per soddisfare le aspettative, per sé e per i propri familiari e gli
amici più stretti ci si comporta come in ogni cucina del mondo:
ci si adatta alla disponibilità della dispensa e del frigorifero.
Sono modifiche quasi clandestine, al di fuori delle regole,
che si possono al momento cogliere solo per singoli fotogrammi
senza una visione generale: alle feste o nei libri non compaiono
o si negano, qualche volte si leggono in trasparenza, quasi mai
sono oggetto di specifiche attenzioni o sono protagoniste di
avvenimenti. D’altro canto, quando mai un ricettario è specchio
fedele della realtà?
Una prima causa di meticciamento, forzata, è dovuta alla
sostituzione degli ingredienti originali con le con materie prime
del luogo.

Questa ricetta che vi presento oggi è il bulz come l’abbiamo


mangiato a Pasqua in Romania a Moeciu preparato però quando
siamo tornati a casa con la farina di mais italiano, la salsiccia
bolognese e il formaggio che abbiamo comprato in Romania.14

13
Lo spunto per l’articolo furono il premio del Gambero Rosso per la
miglior carbonara a Nabil Hadj Hassen, chef d’origine tunisina, e il secondo
posto del premio conferito dalla prestigiosa rivista gastronomica a un risto-
rante il cui capo cuoco è indiano. I. Fisher, Is the Cuisine Still Italian Even if
the Chef Isn’t?, “New York Times”, 7 aprile 2008.
14
http://lacucinadicrista.blogspot.com/2011/06/bulz-ca-la-moeciu-like-
i-eat-at-moeciu.html.

160
La differenza è data proprio dal sapore che il mercato e la pro-
duzione italiana conferiscono a verdure, frutta e carne, spesso
anche all’acqua.

In realtà però, quando si tratta di ingredienti freschi, utilizzati


sia nella cucina russa sia in quella italiana [...], devo ammettere
che il gusto è notevolmente diverso da quello dei prodotti della
mia terra (Alla, Russia).15

È probabilmente facile adattare le ricette italiane ai propri


gusti, tenendo presente che i piatti più conosciuti e apprezzati
sono soprattutto i primi o la pizza, ottime basi cui aggiungere
e modificare sapori.

Io per esempio, preparo una carbonara speciale con modifiche


al dosaggio e con l’aggiunta di panna acida” (Daniel, Romania)16

mentre la giapponese Ayame condisce gli spaghetti con tonno,


daikon e alghe nori17 e Alexandra, di madre cretese, mette la
cannella nel ragù delle lasagne.18

Le spezie sono tipiche di giù e ce le portiamo qui, poi le usiamo


sulla pasta e viene un mix ottimo (Shaima, Marocco).19

In ritardo di anni rispetto all’Europa, sta iniziando una

15
B. Cucci (a cura di), Ricette delle nuove famiglie d’Italia, Pendragon,
Bologna 2010, p. 94.
16
R. Rashidy (a cura di), Mi racconto... Ti racconto, cit., p. 216.
17
Intervista in JallaJalla, Radio Popolare di Milano del l’11 marzo 2011,
in studio Andrea Perin e Nello Avellani. Vedi anche http://ricettescorrette.
noblogs.org/post/2011/07/08/jallajalla-storia-della-pasta.
18
Intervista in JallaJalla, Radio Popolare di Milano del 30 aprile 2010, in
studio Andrea Perin e Paolo Maggioni. Vedi anche http://ricettescorrette.
noblogs.org/post/2010/05/03/jallajalla-alexandra-e-le-lasagne-alla-cannella.
19
L. Fontana Sabatini, I consumi e i cultural bridging, cit., p. 62.

161
produzione industriale di cibo italiano “halal”, una sorta di
meticciato industriale, che rende lecite ai musulmani le ricette
che conterrebbero ingredienti non ammissibili.20
Un processo meno scontato è l’intervento e la modifica
sui propri piatti identitari, per esempio con l’introduzione di
ingredienti italiani prima sconosciuti.

Quando cucino piatti peruviani aggiungo spesso formaggi italia-


ni, anche perché mi piace fare degli esperimenti (Maritta, Perù).

Il riso che comunemente si mangia in Romania, lo modifico con


l’aggiunta di funghi, zucchine e quant’altro (Daniel, Romania).21

Oppure con una semplificazione dei piatti tradizionali, come


fa Modou tramutando in risotto il senegalese ceebu jën22 (senza
dimenticare che in patria spesso gli uomini non cucinano).
Ma chi opera questi cambiamenti, e perché? La sensazione
è che in generale non esistano regole ma solo situazioni, dispo-
nibilità e curiosità, e che diventa una scelta programmatica e
consapevole solo in alcuni casi, come per esempio quello delle
coppie miste: qui l’incontro dei sapori assume spesso il valore
anche orgoglioso di uno scambio riconosciuto, di una metafora
della propria condizione, a volte rappresenta un equilibrio per
conciliare le diverse tradizioni e abitudini.

Non posso passare la vita a escludere mio marito dalla cucina


italiana che amo tanto, ma troppe ricette prevedono vino, per
sfumare, soffriggere, aromatizzare, pancetta dolce o affumica-
ta per aggiungere sapore – scrive Cristina – ho provato e ho

20
Per esempio: www.trealfierihalal.com.
21
R. Rashidy (a cura di), Mi racconto... Ti racconto, cit., pp. 200 e 216.
22
Intervista in JallaJalla, Radio Popolare di Milano del 6 febbraio 2010 –
in studio Andrea Perin e Paolo Maggioni. Vedi anche http://ricettescorrette.
noblogs.org/post/2010/03/04/jallajalla-modou-e-il-riso-alla-modouu.

162
scoperto ottimi compromessi, le ricette si “sporcano” un po’
e noi ci mescoliamo.23

Per quelle che vengono chiamate burocraticamente “seconde


generazioni”, e che rispecchiano condizioni assai variegate tra
loro, le abitudini di consumo alimentare esprimono in maniera
evidente la doppia appartenenza culturale, spesso non vi sono
rigide preferenze per i cibi italiani o quelli della propria tradizio-
ne, che vengono consumati indifferentemente. Vista la giovane
età raramente cucinano e si confrontano con la creazione di
sapori, ma spesso il soddisfacimento congiunto delle diverse
appartenenze culturali a tavola è una via potenzialmente aperta
a nuove forme di meticciamento, anche a quelle che incrociano
tradizioni diverse da quella italiana.
Per concludere, se la cucina meticcia è un’esperienza casalinga
e dispersa, resterà qualcosa di condiviso?

L’unica grande regola del meticciato è l’assenza di regole. [...]


Ciò che nascerà dall’incontro rimane sconosciuto.24

Sono troppe le variabili per fare previsioni, e in fondo non


importa. La cucina è un’attività libera, fuori dai controlli e in
sostanza refrattaria alle imposizioni, anche da quelle fintamente
benevole dei ricettari tradizionali e non.
Ed è bello vedere come le barriere culinarie, erette a difesa
delle identità, si possano superare in un boccone.

23
http://cribaba.blogspot.com/2011/04/brasato-al-barolo-per-palati-
islamici.html.
24
F. Laplantine, A. Nouss, Il pensiero meticcio, cit., p. 10.

163
Ringraziamenti

Prima di tutto voglio ringraziare tutti i migranti che mi hanno aiutato


a capire la difficoltà del “viaggio”, ringrazio Gaia per l’aiuto continuo
nelle riflessioni, A.sperimenti per i fondamentali stimoli teorici e
pratici, Bruno Barba per avermi ascoltato e aiutato nella mia ricerca
negli ultimi anni, Andrea Perin per le lunghe discussioni, Abi, Elena
e Devis per la ricerca del dubbio, Rossella Di Leo e Amedeo Bertolo
per lo stimolo continuo, Paolo Finzi con “A rivista” e Luciano Lanza
con “Libertaria” per gli spazi di riflessione che mi concedono, Amalia
Rossi e Stefano Boni per i consigli antropologici, Giordano, Graziella,
Marcello, Fabrizio, Mattia, Stefano, Anna, Luca, Miki, Sara, Pubia,
Moreno, Massimo, Japi, Romano e tutte le amiche e gli amici di Bo-
logna, Torino Genova, Roma, Milano...

165
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