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BIOGRAFIA

Nato a Shanghai da genitori britannici ivi residenti per motivi di lavoro, durante la seconda guerra
mondiale Ballard fu internato solo nel campo di prigionia giapponese di Lunghua[3]dal 1942 al 1945,
mentre i genitori furono internati in quello di Soochow, ricongiungendosi solo alla fine del conflitto.
Questa esperienza fu ripresa nel suo romanzo L'impero del sole (Empire of the Sun), da cui il
regista Steven Spielberg nel 1987 trasse un film omonimo (sceneggiatura del drammaturgo
inglese Tom Stoppard). Dopo la fine della guerra, nel 1946, Ballard si trasferì in Gran Bretagna,
iniziando gli studi di medicina al King's College di Cambridge (con l'intento di diventare psichiatra), ma
dopo due anni, folgorato dalla lettura dell'Ulisse di James Joyce, decise di abbandonare, capendo che
la professione medica non gli avrebbe lasciato abbastanza tempo per scrivere. Dopo una serie di lavori
occasionali - autore di testi pubblicitari, portiere a Covent Garden, ecc. - si spostò in Canada con
la Royal Air Force, e là scoprì la fantascienza.
Congedatosi dalla RAF e tornato in patria, Ballard trovò lavoro come giornalista scientifico e iniziò a
scrivere racconti: il primo ad essere pubblicato fu Prima Belladonna, del 1956, che uscì a dicembre
sulla rivista Science Fantasy, seguito a pochi giorni di distanza da Escapement su New Worlds. La sua
prosa e i suoi temi ebbero un influsso notevole sulla fantascienza degli anni sessanta e settanta e
anche sul movimento cyberpunk degli anni ottanta. Il suo articolo Come si arriva allo spazio
interiore (Which Way to Inner Space), apparso sulla rivista New Worlds nel 1962, segnò la nascita
della New Wave britannica. Ballard spostò l'attenzione dallo spazio extraterrestre allo spazio interiore
(inner space), luogo di incontro tra le pulsioni della psiche umana e le immagini e i simboli veicolati
dai mass media.
Il primo romanzo pubblicato da Ballard fu Il vento dal nulla (The Wind From Nowhere) del 1962, che
aprì una tetralogia di genere catastrofico (anche se in seguito Ballard lo rinnegò, fu questo libro a dargli
la possibilità di guadagnarsi da vivere come scrittore). Gli altri tre romanzi furono Il mondo
sommerso (The Drowned World), Terra bruciata (The Burning World) e Foresta di cristallo (The Crystal
World), basati sui quattro elementi aristotelici aria, acqua, terra e fuoco, più un quinto elemento, il
tempo, che domina Foresta di cristallo.
Nel 1970, dopo diverse peripezie legali (fece chiudere una piccola casa editrice di lestofanti che aveva
stampato alcune copie del libro) pubblicò La mostra delle atrocità (The Atrocity Exhibition), forse il suo
capolavoro. È un libro composto da quindici racconti, in cui il filo comune (oltre al protagonista) è
costituito dall'ossessione maniacale per la guerra del Vietnam, la psicopatologia, la pornografia, il
potere dei media, le vittime di incidenti stradali e le icone del sogno americano, queste ultime tutte
rigorosamente morte. Nel libro Ballard previde l'elezione a presidente degli USA di Ronald Reagan, 11
anni prima che accadesse realmente.
Tre anni dopo uscì Crash, romanzo in cui viene ripreso (in dosi molto più massicce rispetto al
precedente) il tema della perversione per le vittime di incidenti stradali e la fusione di carne e auto.
Nel 1996 David Cronenberg ne trasse un film omonimo.
La fama al di fuori del ristretto ambito della fantascienza gli giunse col romanzo autobiografico L'impero
del sole. Da allora (prima metà degli anni ottanta) Ballard si allontanò sempre più dalla fantascienza per
quel che riguarda la sua produzione romanzesca, pur continuando a scrivere racconti fantascientifici
o fantastici fino alla metà degli anni novanta.
L'ultimo romanzo di Ballard, Regno a venire (Kingdom Come), pubblicato in Gran Bretagna nel 2006,
comprende pezzi di ironica critica sociale strutturati per lo più come gialli, i cui temi sono il consumismo,
la società tardo capitalistica, i rigurgiti reazionari e irrazionali delle società occidentali, i mass media.
Nell'autobiografia I miracoli della vita (Miracles of Life), pubblicata nel marzo del 2008, l'autore rivelava
di essere affetto da cancro alla prostata, che lo uccise nell'aprile del 2009.

Temi e contenuti[modifica | modifica wikitesto]


Ballard sembra, fin dall'inizio della sua carriera, avere: « [...] Il rifiuto dello spazio esterno, della
mitologia creata dagli assunti dell'astronave e del viaggio spaziale».[4]
Si pone quindi in modo differente dai suoi colleghi precedenti e dell'epoca, anche se i suoi primi
racconti non si discostano di tanto dagli scritti usuali.
Nella sua storia di esordio la protagonista Jane Ciraclydes risulta in sintonia, per psicologia e modo di
agire, con il tono presente nella narrativa poliziesca, decadente e romantica. Questa venatura disperata
è causata però più dall'ambiente che circonda i personaggi che da essi stessi.
Si notano in Escapement e Build Up le prime discrepanze tra la realtà e l'uomo, che faranno parte
anche di suoi racconti successivi.
In Manhole 69 vengono mostrate molte sfaccettature possibili della psiche umana, tramite un
accostamento tra una questione medica e i suoi risvolti psicoanalitici.
The Waiting Grounds, scritto nel 1959, è il primo racconto di Ballard dove viene affrontato il tema
spaziale: infatti, in questo periodo, Ballard amplia i suoi orizzonti fantascientifici e, di conseguenza,
anche le tematiche che prende in esame.
Spesso i personaggi di Ballard sono insoddisfatti, privati di qualcosa che non sanno se definire
indispensabile o meno, se la sua assenza sia positiva o negativa, tendendo quasi all'alienazione del
personaggio.
Inevitabile è la disperazione, per lo sviluppo del suo discorso critico sulla situazione contemporanea
dell'uomo, sul: «labirinto di fantasie, di propaganda massificata a sfondo politico [...] Di iconografie di
beni di consumo che fluiscono intorno a noi».[5]
In seguito al 1961 continua l'analisi del rapporto tra realtà e uomo di Ballard, con i racconti del ciclo di
Vermilion Sands.
In questi racconti il nucleo attivo è sempre la donna, che viene presentata come un misto tra demone e
angelo, e tendente di più verso il demoniaco.
Questi finiscono inevitabilmente con il somigliarsi, poiché è il mondo esterno che riflette e condiziona le
eroine che si muovono al suo interno.
Grazie allo squilibrio mentale, la donna risulta come l'unica capace di sfuggire alla fenomenologia
esterna, e per questo finisce con l'apparire più alienata e sensibile dei personaggi maschili.
Le psicologie in questi racconti sfiorano i casi clinici, e Ballard sembra abbandonarsi a una vena di
psicopatologia e reminiscenze artistiche, tradendo un interesse per il simbolismo ed il surrealismo.
Ballard affronta spesso il tema del rifiuto del presente e dell'incapacità di andare oltre il proprio passato:
nel 1962 propone un articolo su New Worlds sullo spazio interno, e contemporaneamente in esso rifiuta
le tematiche solamente spaziali e avventurose a favore dell'analisi dell'essere umano e del mondo
esterno nella fantascienza, e soprattutto dell'uomo da un punto di vista interno.
Etichettare Ballard come scrittore di fantascienza nel senso classico è dunque riduttivo. Come lui
stesso afferma in più scritti, la fantascienza è per lui solamente un mezzo, il mezzo di conoscenza più
adatto e "contemporaneo" per descrivere la realtà e le società metropolitane e tecnicizzate in cui ci
troviamo a vivere. Pertanto i fini di Ballard non sono quelli di scrivere avvincenti e avventurose
narrazioni fantascientifiche, ma utilizzare un immaginario di quel tipo (in particolar modo quello da lui
battezzato dello "spazio interno", profondamente rivisitato in maniera personale e quindi lontano dagli
scenari tipici della fantascienza) per indagare a fondo la natura del nostro mondo.
In The Drowned World Ballard elabora gli impulsi di autodistruzione del protagonista, elemento
presente anche in altri racconti, fino alle sue estreme conseguenze.
Gli anti-eroi di Ballard appaiono come pecore nere del genere umano, ma che partecipano attivamente
alle pulsioni del loro mondo personale, che risulta essere il mondo reale deformato.
Inizia, con The Terminal Beach, la seconda fase creativa di Ballard, dove i suoi racconti presentano
uno stile sgretolato e ricomposto successivamente in ordine alternato, rifacendosi a
esperienze dadaiste e surreali. Viene accusato per questo, oltre che di essersi allontanato dal new
Wave, di aver completamente abbandonato la fantascienza, anzi, di scrivere anti-fantascienza.[6]
Ballard non ritiene fondamentali le connotazioni scientifiche o tecniche, e tenta di costruire un qualcosa
di nuovo partendo dall'essere umano, dalle sue reazioni e dall'ambiente che lo circonda. Richiesto dal
giornalista Enrico Franceschini, del perché vivesse in un anonimo sobborgo della periferia di Londra,
dichiarò: Perché cerco ispirazione nella vita di tutti i giorni, fatta di autostrade, supermercati, stazioni
ferroviarie...alcuni mi definiscono uno scrittore di fantascienza, ma io reputo i miei romanzi più realisti
dei cosiddetti classici di Kingsley Amis o di Evelyn Waugh, che raccontano un mondo elitario
assolutamente sconosciuto all'uomo medio .[7]
In Crash abbandona il surrealismo e presenta un caso patologico di feticismo, prendendo in esame il
mito dell'automobile e il sesso.
Ballard non ha mai tentato di fondare una sua scuola letteraria, sebbene spesso nei suoi racconti vi
siano aspetti per certi versi didattici.
L’ISOLA DI CEMENTO ANALI DEL TESTO: TEMI
Maestro di una fantascienza concentrata sul presente e sulla psicopatologia, Ballard ha dimostrato
nel corso della sua carriera un interesse costante per quello che egli stesso ha definito spazio
interno: una sorta di paesaggio interiore, unica landa di realtà ipotizzabile da uno scrittore in un
mondo che si spinge ben più in là della fiction. Questa inversione – la narrativa che cerca di
impossessarsi dell’ultimo nocciolo di realtà, mentre il mondo reale acquista la fisionomia di un
romanzo – rimette in discussione il ruolo stesso dell’autore che, al pari di uno scienziato alle prese
con una materia di studio del tutto sconosciuta, può solo formulare ipotesi e verificarle sul campo.
Se in "Crash" (1973) vengono esplorati i meandri di una sessualità pervertita dalla tecnologia,
"L’isola di cemento", uscito a un solo anno di distanza, offre una soluzione ambigua a questo
processo. Punto di non ritorno o riscossa della mente sull’aggressività di un mondo “brutale,
erotico e sovrailluminato”? Prigione definitiva o estrema via di uscita? L’isola in questione, entro cui
si svolge l’azione dell’intero romanzo, non è che uno spartitraffico triangolare circondato da svincoli
e sopraelevate dell’autostrada. Sullo sfondo delle strutture possenti dei viadotti, le superfici vitree
dei palazzi per uffici londinesi.
Robert Maitland, architetto quarantenne diviso tra un matrimonio in crisi e i viaggi di lavoro in
compagnia dell’amante, sta percorrendo a tutta velocità con la sua Jaguar un raccordo
autostradale. A seguito dell’esplosione di una gomma, perde il controllo e precipita giù lungo la
scarpata.
Più che dal cemento, l’isola in cui rimane intrappolato è dominata dall’erba altissima, subito pronta
a inghiottire i resti dell’auto.
Ma in Ballard non c’è traccia di utopie regressive o ambientaliste. Quella che prende forma
nell’esiguo triangolo di verde incolto, vicinissimo al traffico e al centro direzionale della città, eppure
isolato in una sorta di bolla spazio-temporale, non è la rivalsa della natura ma quella della psiche.
È un processo che si sviluppa nella più totale assenza di sentimenti. Quello di Maitland, a tratti
lucido e a tratti fiaccato dal delirio, è comunque e sempre puro calcolo. Il modo in cui si serve dei
due abitanti dell’isola, un ex acrobata cerebroleso e una prostituta nevrotica in fuga dai suoi
problemi, è figlio della fredda perversione delineata in "Crash". L’isola è lo spazio interno di
Maitland, il paesaggio spirituale e psichico cui ha avuto accesso solo uscendo di strada con la sua
auto. Denso di rimandi simbolici, l’incidente è il momento chiave che ne schiude la visione.
Nonostante l’auto distrutta e le ferite, l’isola ci appare fin da subito come il luogo più facile da
lasciare. In fondo è lo stesso Maitland a rendersene conto: basterebbe percorrere il tunnel e
servirsi del telefono di soccorso. Nel giro di qualche ora potrebbe fare ritorno nel suo asettico e
confortevole habitat borghese. Se non lo fa è solo perché questo triangolo d’erba in cui è
precipitato, da luogo ostile e inabitabile, si trasforma via via in un sicuro limbo, una pausa dal
mondo. “L’isola sono io” pensa aggirandosi fra i resti di rifugi antiaerei e di case elisabettiane,
patetiche vestigia chiuse fuori per sempre dal presente della metropoli.
I pezzi delle auto abbandonate nella sterpaglia diventano utensili per l’uomo del XX secolo,
improvvisamente messo di fronte a bisogni primari. Il vino acquistato in viaggio diventa moneta di
scambio per avere accesso alle fonti di sostentamento di Proctor, l’acrobata demente e sfigurato
che vive nascosto al resto degli umani. Il rapporto con Jane, l’altra abitante dell’isola, contempla
anche il sesso ma come estrema forma di sfruttamento reciproco. Per Maitland, la richiesta di
denaro da parte della ragazza è addirittura un gesto liberatorio: dopo tutti gli investimenti emotivi
cui l’hanno costretto le transazioni del passato, finalmente è al sicuro.
Attraverso una narrazione ipnotica, scandita dallo stormire dell’erba e dallo scintillio delle auto
sfreccianti sui viadotti, da albe e tramonti riflessi dai palazzi di vetro, Ballard ci accompagna con la
decisione dei suoi migliori romanzi a un epilogo tutt’altro che rassicurante.
"L'isola di cemento", James C. Ballard - Siamo lo spazio che
occupiamo...
Vi è mai capitato di pensare di essere non in quanto "esseri pensanti" ma in quanto "esseri
occupanti"? Ebbene per questo libro e forse anche per Ballard, noi siamo prima spazio e poi
pensiero perché è lo spazio che restituisce quello che noi saremo come esseri pensanti. Così dopo
aver utilizzato la contemporaneità per delineare i "rapporti fra differenti generazioni umane e il
loro rapporto con la contemporaneità" in "Un gioco da bambini" e aver definito invece i "rapporti
fra classi e la conseguente lotta al miglioramento della propria classificazione all'interno della
società moderna" ne "Il condominio" in questo mio zigzagare fra i lavori ballardiani sono
approdata in un vero viaggio all'interno dell'uomo grande quanto "L'isola di cemento".

La trama è abbastanza semplice: il protagonista, architetto di successo, mentre sta tornando a


casa sbanda, con la macchina lanciata ad alta velocità, all'uscita da una galleria in una autostrada
vicino alla periferia di Londra finendo all'interno di un'isola spartitraffico che divide le varie
strade e superstrade. L'auto caracolla fermandosi fra le sterpaglie vicino ai resti di altri veicoli.
L'isola da dei limiti ben definiti che sono rappresentati nelle parti pianeggianti da alte reti di
protezione e in quelle libere sono costituiti da scoscese pareti fangose da scalare per arrivare al
livello stradale.
Trama più che semplice, ma come nella migliore tradizione ballardiana è la "visione" che
caratterizza personaggi e azione in modo tale che essi divengano metafora di una
rappresentazione che ci restituisce l'immagine della nostra contemporaneità.

Pertanto l'isola diviene come l'isola di "Robinson Crusoe" di Defoe, ma mentre l'occhio di
quest'ultimo è mirato alla ricostruzione di una normalità per il suo personaggio in un mondo a
lui sconosciuto, qui l'isola non è in un oceano sperduto ma all'interno di un contesto che già
esiste e si è sviluppato, vive e continua a vivere indipendentemente da quel che può succedere
nell'isola spartitraffico. E se il nostro mondo si restringesse improvvisamente? Cosa
saremmo nuovamente noi? Che ne sarebbe delle nostre competenze acquisite e a cosa servirebbe
l'esperienza maturata negli anni di crescita? Ballard, come detto altre volte, non sempre
risponde alla domanda che pone. Però, in questo caso, da comunque una sua visione
dell'argomento ponendo la domanda con quel che succede all'inizio del libro e svolgendone in
parte la risposta nel suo proseguio: "Siamo spazio" perchè in un mondo che oramai si è
sedimentato sul fattore industriale noi abbiamo adeguato naturalmente la nostra vita in
funzione di quegli oggetti, spazi e macchinari che utilizziamo tutti i giorni. Solo ed
esclusivamente quando ci vengono tolti noi diventiamo altro, a volte molto a fatica e più spesso
sentendocene ingiustamente defraudati; non ci poniamo nemmeno il dubbio se quello che
abbiamo perso effettivamente è per noi vitale ma continuiamo ad agire, non per trovare una
soluzione alternativa e forse migliore, ma solo ed esclusivamente per restaurare lo "status quo"
precedente. Questo stato di fatto di cui non abbiamo percezione, fondamentalmente non si può
percepire la mancanza di ciò che non si è mai avuto, delinea non una società in evoluzione ma
solo una in involuzione che ha perso perciò la voglia di miglioramento sociale e individuale a
favore della realizzazione industriale. E' come se avessimo perso di vista noi stessi per cui se lo
spazio si restringe e vengono a mancare per spazio o gli oggetti d'uso comune noi non siamo più
nessuno. Così lo specchietto retrovisore di una macchina può anche diventare, come avviene nel
libro, un cimelio da custodire gelosamente quasi un'icona e la lotta per la definizione del proprio
ruolo all'interno di un gruppo sociale costituto da individui che hanno le medesime radici di
partenza -cioè hanno vissuto la stessa era - e che vive nella stessa contingenza, con l'unica
differenza data da tempo di questa permanenza, è possibile solo con il ritorno ad un pensiero di
tipo "atavico" ovvero dato dall'intelligenza affinata da necessità di sopravvivenza semplice e
pura.
Mi si potrebbe contestare il titolo di questa recensione dicendo che non non siamo lo spazio ma
gli oggetti che possediamo, ma in effetti leggendo il libro vi renderete conto che non è così. Lo
spazio fisico che ci appartiene, casa, ufficio etc ci classifica all'interno della società. Non è una
cosa inusuale vedere dei grandi open space nelle varie società che ospitano gli impiegati, mentre
altri che hanno qualifiche superiori sono ospitati in stanze singole più o meno tutelati nella
privacy. Questa è la definizione industriale che individua e classifica attraverso un open space,
un villino, un appartamento (anche nel contesto ove l'appartamento stesso è ubicato) l'individuo
che lo occupa. Questa categorizzazione è per noi talmente normale da non dare più nell'occhio
in quanto tale ma solo in virtù dei benefici che da essa possono scaturire e sono considerazioni
più che legittime ma parziali. Come avviene anche per "Il condomino" il valore dell'uomo in un
contesto neutrale non è dato ne dalla casta in cui si nasce e nemmeno dal valore che
la società industriale gli associa ma è restituito solo ed esclusivamente dalle caratteristiche
caratteriali di leadership e talentuose che questo ha e che sono valori intrinseci dell'individuo
stesso che lo differenziano dagli altri. Questo non significa affatto che la società industriale e
contemporanea riesca ad intravedere queste qualità e che queste siano premianti, ma più spesso
è premiante il riflettere le aspettative che corrispondono alla classificazione in cui siamo inseriti.
Per cui inseriti nel famoso limbo, azzerando tutti i contesti che possono cambiare la percezione
di noi come individuo dobbiamo adattare il nostro io interiore alla nuova situazione e da questa
ripartire. Lo spazio a disposizione ci aiuta a stabilire dei limiti e come fossimo entità primordiali
ci ritroveremmo a prendere in considerazione ciò che ci circonda e che abbiamo a disposizione
prima ancora di pensare a cosa fare per organizzarci nella nuova situazione in cui ci troviamo.

Ma come al suo solito Ballard nel concludere i suoi racconti lascia sempre un qualcosa in sospeso
e in questo caso la domanda rimane immutata nonostante la risposta ma sotto una forma nuova.
Una volta adattati alla nuova situazione, l'essere umano, si auto-limita e confidando
nell'abitudine, che è caratteristica rifiutata ma parte integrante della nostra vita, non è in grado
di evolvere o di portare la propria esperienza a contatto con la vita precedente. Limite umano o
voluta provocazione?
Come in tutti i libri di questo genere che viaggiano sulla sottile linea di confine che passa fra un
noir, un racconto improntato sulla psicologia umana e sulla sociologia la risposta non è mai
univoca, ma riflette quello che è il vissuto del lettore facendo si che ogni volta che ci ri-
avviciniamo a questi libri ci sembrino sempre differenti dall'impressione che ci hanno restituito
leggendoli in precedenza. E credo che proprio in questo stia la genialità di questo scrittore.
Non resta che dire al prossimo Ballard...

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