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Scienza Delle Finanze

(H.S. Rosen – T. Gayer)


ed. 2014
Oggetto e strumenti dell'attività finanziaria pubblica

Introduzione

Oggetto del corso


In questo corso ci occuperemo delle attività di prelievo e di spesa esercitate dal settore
pubblico, attività che vengono spesso designate con il termine di finanze pubbliche,
mentre la disciplina è detta scienza delle finanze. Le questioni considerate non sono in
realtà di natura finanziaria (relative, cioè, alla moneta), ma nascono piuttosto dall’utilizzo
delle risorse. Perciò alcuni preferiscono parlare di economia del settore pubblico e altri,
più semplicemente, di economia pubblica. L’oggetto di questo corso sono le funzioni
microeconomiche del settore pubblico, ossia le modalità con cui esso provvede alla
allocazione delle risorse e alla redistribuzione del reddito (Funzioni Macroeconomiche:
Politica Economica).
Non è sempre facile stabilire quali argomenti rientrino nell’ambito della scienza delle
finanze. Si pensi per esempio alle politiche di regolamentazione, con le quali i governi
incidono in maniera determinante sull’allocazione delle risorse. Gli obiettivi di tali politiche
vengono talvolta raggiunti attraverso provvedimenti di spesa e/o di tassazione, ma non
sempre. Per esempio, per porre un limite alle dimensioni delle aziende, lo Stato può
percorrere due strade alternative: l’imposizione di maggiori tributi alle aziende più grandi o
rendere illegali le aziende che superino determinate dimensioni. Tuttavia solo la
tassazione delle aziende trova ampio spazio nei testi di scienza delle finanze, mentre la
legislazione antitrust viene di norma trattata in maniera approfondita nei corsi di
organizzazione industriale. La scelta potrà certamente sembrare arbitraria, ma è ispirata
alla necessità di delineare i confini della disciplina: ci si occuperà principalmente di spesa
pubblica e sistema tributario.

Analisi positiva e analisi normativa


La scienza delle finanze non si occupa solo degli effetti delle politiche tributarie e di spesa
adottate dallo Stato, ma cerca anche di stabilire come queste politiche dovrebbero essere.
Per questo si è soliti distinguere tra analisi positiva e normativa.

L'analisi positiva
L’analisi positiva ha come obiettivo quello di individuare i nessi causali tra le variabili
economiche e, quindi, di rispondere a quesiti di questo tipo: qual è l’effetto di una riduzione
dell’imposta sul reddito da lavoro sull’offerta di lavoro? O meglio, se non esistono limiti dal
lato della domanda di lavoro e se si riduce la tassazione sul reddito, gli individui tendono a
lavorare di più o di meno? E si comportano tutti alla stessa maniera, indipendentemente
dal reddito, dal sesso ecc…?
L’analisi normativa
L’analisi normativa, invece, cerca di fornire indicazioni circa la relazione tra strumenti
specifici, per esempio la tassazione del reddito, e possibili obiettivi, per esempio una certa
distribuzione del reddito.

La scienza delle finanze e le altre discipline


Lo studio della scienza delle finanze può intrecciarsi con altre discipline. Tale intreccio non
riguarda solo le altre discipline economiche, ma anche quelle giuridiche, politologiche e
sociologiche. La comprensione della natura giuridica dei rapporti tra Pubbliche
Amministrazioni e cittadini, oggetto d’analisi del diritto amministrativo, del diritto tributario e
della contabilità pubblica, è spesso indispensabile per capire alcuni temi oggetto di studio
della scienza delle finanze. La scienza dell’amministrazione e la scienza politica,
fornendo elementi per una più completa comprensione dei meccanismi di funzionamento
delle amministrazioni pubbliche, sono sempre più rilevanti per formulare indicazioni,
spesso di carattere normativo, circa l’uso efficiente delle risorse pubbliche. Inoltre, lo
studio della scienza delle finanze e dell’economia pubblica non può prescindere da una
precisa rappresentazione dei rapporti tra individui e autorità statale, un tema che viene
affrontato dalla branca della filosofia indicata con l’espressione filosofia politica.

Le diverse concezioni dello Stato


Infatti, le differenti posizioni sull’intervento dello Stato nell’economica sono influenzate
dalle più generali teorie sul rapporto tra l’individuo e l’autorità statale. In filosofia politica si
distinguono a tale proposito due filoni principali: la concezione organicistica e la
concezione meccanicistica.

La concezione organicistica
Questa concezione considera la società alla stregua di un organismo naturale. Gli individui
costituiscono le parti di tale organismo e lo Stato è il cuore. L’individuo ha valore solo in
quanto parte della collettività e il bene dell’individuo viene definito solo a partire dal bene
della collettività: la collettività è dunque posta al di sopra dell’individuo.

La concezione meccanicistica
Secondo la concezione meccanicistica, lo Stato non è un organo della società, quanto
piuttosto un artificio creato dagli individui per meglio perseguire i propri fini particolari.
L’attenzione si sposta così dalla collettività all’individuo. (Posizioni articolate: pensiero
liberale – socialdemocrazia).
I principali documenti di finanza pubblica e il bilancio dello Stato

La dimensione quantitativa del settore pubblico in alcune


economie occidentali contemporanee

La definizione di operatore pubblico


Il settore pubblico è il complesso di enti, ciascuno dei quali ha dimensioni, funzioni,
modalità di selezione del personale (con voto o per concorso pubblico) differenti, e
molteplici possono essere i meccanismi di interazione tra enti e cittadini ed enti.
Secondo la Banca d’Italia, “il settore pubblico raggruppa tutte le unità istituzionali le cui
funzioni principali consistono nel produrre servizi non destinabili alla vendita, ed è
suddiviso in tre sottosettori:
– Amministrazioni Centrali: le amministrazioni centrali dello Stato e gli enti
economici, di assistenza e di ricerca, che estendono la loro competenza su tutto il
territorio del Paese (Stato, organi costituzionali, Anas, gestione delle foreste
demaniali, altri).
– Amministrazioni Locali: enti pubblici la cui competenza è limitata ad una sola parte
del territorio:
a) enti territoriali (Regioni, Provincie, Comuni);
b) aziende sanitarie locali e ospedaliere;
c) istituti di cura a carattere scientifico e cliniche universitarie;
d) enti assistenziali locali (università e istituti di istruzione universitaria, opere
universitarie, istituzioni di assistenza e beneficenza;
e) enti economici locali (camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura,
enti provinciali per il turismo, istituti autonomi case popolari, enti regionali di
sviluppo, comunità montane);
– Enti di Previdenza: unità istituzionali locali e centrali che erogano prestazioni sociali
finanziate attraverso contributi di carattere obbligatorio (INPS, INPDAP, INAIL e
altri)

Il conto economico consolidato delle pubbliche amministrazioni


L’Istat elabora il conto economico
consolidato delle amministrazioni
pubbliche a partire dai dati
registrati nei Bilanci predisposti
dei vari enti che vengono poi
aggregati.
Attenzione : se fra gli enti
considerati non vi è alcun rapporto,
allora si eseguirà la semplice
somma dei flussi che hanno la
stessa natura e lo stesso segno nei
singoli Bilanci; se invece sono
legati da rapporti finanziari che
comportano un trasferimento di
risorse da un ente all’altro la
procedura è più complicata: il
consolidamento richiede che siano
eliminate dal calcolo, per lo stesso
importo, le entrate dell’ente del
livello inferiore e le uscite dell’ente
di livello superiore quando queste
sono destinate al finanziamento del
primo.
Indebitamento netto (deficit), ossia la differenza tra entrate e uscite totali, risultante dal
Conto Economico Consolidato delle Amministrazioni pubbliche è il parametro di
riferimento del Patto di stabilità e Crescita Europeo (rapporto deficit PIL al di sotto del 3%).
All’interno del Conto Economico Consolidato delle PA riveste una rilevanza particolare il
Bilancio dello Stato (redatto secondo il Sec95).

Il Bilancio dello Stato: l’art. 81 della Costituzione


Il Bilancio dello Stato è il principale documento di finanza pubblica di un paese. In Italia,
nonostante la normativa che lo disciplina sia stata modificata più volte, essa non può che
svilupparsi entro i principi costituzionali.
1
In particolare l’articolo 81 della Costituzione recitava :
“Le Camere approvano ogni anno i Bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal
Governo;

l’esercizio provvisorio del Bilancio non può essere concesso se non per legge
e per periodi non superiori a quattro mesi;

con la legge di approvazione del Bilancio non si possono stabilire nuovi tributi
e nuove spese;

ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi
per farvi fronte.“

Art. 81, comma 1


Il 1°comma stabilisce che i documenti contabili relativi alle entrate e alle spese dello Stato
sono formati dal Governo e presentati al Parlamento per la discussione e l’approvazione.
In questa procedura si concretizza un principio fondamentale del moderno Stato di diritto a
democrazia rappresentativa, nel quale il potere dell’Esecutivo di riscuotere le imposte e
spendere il denaro pubblico per soddisfare i bisogni collettivi è fondato sulla legge, ovvero
sul consenso dei rappresentanti che siedono nell’organo Legislativo. Inoltre dallo stesso
comma risulta che il Bilancio è annuale, ovvero si riferisce a un anno finanziario, cioè
all’arco di tempo compreso tra il 1 gennaio e il 31 dicembre di ogni anno (concetto
temporale). L’esercizio finanziario è invece il complesso degli atti delle amministrazioni
Pubbliche adottati nel corso dell’anno finanziario per la gestione delle entrate e delle
spese (concetto giuridicocontabile).

1 Modificato con legge costituzionale del 20 aprile 2012 n.1, ora recita:
“Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e
delle fasi favorevoli del ciclo economico.
Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa
autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi
eccezionali.
Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte.
Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo.
L'esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori
complessivamente a quattro mesi.
Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e
le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con
legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con
legge costituzionale”
Il bilancio dello Stato è il documento contabile che registra tutte le entrate che lo Stato
prevede di incassare e le uscite che prevede di erogare nel corso dell’anno finanziario
successivo all’approvazione della Legge di Bilancio. Il Rendiconto, invece, è il documento
contabile che registra a consuntivo tutte le entrate incassate e le uscite pagate dallo Stato
nel corso dell’anno finanziario al quale il Bilancio si riferisce (contiene il Bilancio
consuntivo annuale e il conto generale del patrimonio dello Stato).

Art. 81, comma 2


Il 2°comma disciplina l’ipotesi che il disegno di legge del Bilancio non giunga al voto finale
entro il 31 dicembre e pertanto si apra un nuovo anno finanziario senza che la Pubblica
Amministrazione sia autorizzata a compiere gli atti di gestione, in particolare gli atti di
spesa iscritti nel Bilancio (non ancora approvato). Per evitare la paralisi dello Stato che ne
deriverebbe, i costituenti hanno previsto che il Parlamento possa espressamente
autorizzare con legge l’esercizio provvisorio del Bilancio non ancora approvato, ma con il
limite temporale massimo di quattro mesi.

Art. 81, comma 3


Il 3°comma stabilisce che, quando approva la legge di Bilancio per l’anno finanziario
successivo, il Parlamento non può con quella stessa legge introdurre nuovi tributi (nuovi
rispetto a quelli esistenti in base alla normativa vigente) e nuove spese (nuove rispetto a
quelle che lo Stato può fare sulla base della normativa vigente). Dunque con la legge di
Bilancio il Parlamento autorizza il Governo a esigere i tributi e a erogare le spese,
elencate nel Bilancio secondo i criteri stabiliti nelle leggi, nell’ammontare preventivato per
l’anno finanziario successivo all’approvazione, ma senza che con la stessa legge il
Parlamento possa modificare la normativa esistente. Questa disposizione costituzionale è
motivata dall’esigenza di rendere più chiaro e trasparente il momento in cui Governo e
Parlamento formano il documento guida dell’attività finanziaria dello Stato per un intero
ciclo di gestione, separandolo dal momento in cui essi intervengono su singoli aspetti di
questa attività modificando o introducendo nuovi tributi e/o nuove spese. Questa stessa
disposizione ha fatto sì che la legge di Bilancio fosse considerata come una legge
meramente formale, ovvero un atto del Parlamento che, pur avendo la forma della legge
(in quanto proposta, discussa e approvata come qualsiasi legge ordinaria), non ne
avrebbe la sostanza perché non contiene alcun nuovo comando (a esigere e a spendere)
rispetto a quelli desumibili dalla legislazione vigente.
In definitiva la legge di Bilancio non può intervenire su svariati aspetti della politica fiscale
e della spesa pubblica per correggere gli andamenti che le entrate e le spese avrebbero
“spontaneamente” sulla base delle leggi esistenti. Si tratta quindi di uno strumento rigido
che non consente al Governo di realizzare il suo indirizzo di politica economica. Per questi
motivi la legge n. 468/1978, ha introdotto la legge Finanziaria, il cui iter legislativo è
parallelo a quello della legge di Bilancio e che consente al Governo e al Parlamento di
modificare le leggi tributarie e di spesa vigenti allo scopo di realizzare la manovra
finanziaria funzionale agli obiettivi programmatici del Governo. Una volta discussa e
approvata la legge Finanziaria, con apposita Nota di variazione del Bilancio a
legislazione vigente il Parlamento modifica la legge di Bilancio (il progetto di Bilancio)
recependo le novità della legge Finanziaria.
Art. 81, comma 4
Il 4°comma, in coerenza con il 3°comma, stabilisce che, se durante l’anno finanziario il
Parlamento approva leggi che comportano nuove spese non previste in Bilancio, oppure
maggiori spese rispetto a quelle ivi stanziate per un determinato scopo, allora il
Parlamento deve indicare con quali mezzi intende finanziarle. Il senso della disposizione è
che il Parlamento e il Governo non possano alterare gli equilibri finanziari risultanti dal
Bilancio di previsione per l’anno in corso caricando l’esercizio di nuove e/o maggiori spese
rispetto alle previsioni. Se il Governo, e la maggioranza che lo sostiene, ritengono
essenziali tali maggiori spese, devono assumersi la responsabilità politica di indicare come
reperire i fondi per finanziarle: con nuovi o maggiori tributi o con riduzione di spese già
previste in Bilancio oppure, ove possibile, con indebitamento; con il nuovo art. 81 cost.
l'indebitamento è previsto solo in casi eccezionali e previa autorizzazione delle camere.

In sintesi
• Il Bilancio dello Stato è un documento politico, giuridico e contabile.
• Il Bilancio dello Stato è un Bilancio preventivo, annuale.
• Il Rendiconto è costituito da un Bilancio consuntivo annuale e da un conto del
patrimonio dello Stato.
• Essendo il Bilancio dello Stato una legge meramente formale, per poter attuare una
manovra finanziaria, il Governo e il Parlamento, prima di approvare la legge di Bilancio,
approvano una legge detta Finanziaria, che traduce in legge le scelte di politica
economica e finanziaria per il periodo successivo, anche modificando le leggi tributarie e
di spesa vigenti.
• In conseguenza di ciò il Progetto di Bilancio, presentato in un primo momento con
entrate e spese previste secondo la legislazione vigente, può essere variato recependo le
disposizioni della Finanziaria; in tal modo il disegno di legge di Bilancio sottoposto
all’approvazione del Parlamento entro il 31 dicembre di ogni anno assume un contenuto
programmatico.
La formazione del Bilancio

La formazione del Bilancio di previsione comincia con la richiesta, inviata entro fine marzo
dal Ministro dell’Economia ai Ministeri con poteri di spesa, di formulare il proprio stato di
previsione della spesa a legislazione vigente; nell’occasione il Ministro indica le linee
guida da seguire per formulare le previsioni a alla luce dell’andamento delle principali
variabili macroeconomiche (tasso di crescita, occupazione, inflazione, ecc.).
Le previsioni di spesa così formulate, inviate al Ministero dell’Economia entro 50 giorni
dalla richiesta, costituiscono la base per la scrittura del Bilancio annuale di previsione a
legislazione vigente e del Bilancio pluriennale a legislazione vigente. Quest’ultimo è
un bilancio previsionale nel quale si evidenziano, solo in termini di competenza, la spesa e
le entrate in coerenza con le regole e gli obiettivi del Documento di Programmazione
Economica e Finanziaria (DPEF), e si riferisce a periodi non inferiori ai tre anni. Viene
approvato con un articolo specifico del Bilancio annuale e viene aggiornato ogni anno. Il
Bilancio annuale a legislazione vigente e il pluriennale a legislazione vigente devono
essere entrambi presentati entro il 30 settembre.
Il DPEF deve essere presentato dal Governo al Parlamento al entro il 30 giugno e deve
contenere gli obiettivi di politica economica e finanziaria che si intende realizzare. Contiene
altresì un’analisi della condizione economica nazionale (a livello europeo e extraeuropeo)
e definisce la manovra finanziaria (sul medio periodo) che si rende necessaria ai fini del
raggiungimento di quegli obiettivi. Tiene conto delle previsioni di spesa secondo il conto
consolidato delle Amministrazioni Pubbliche quantificando gli obiettivi per il disavanzo
corrente, per l’indebitamento netto e quindi l’ammontare del fabbisogno complessivo per
ciascuno degli anni nel Bilancio pluriennale (è approvato dal Parlamento con una
risoluzione – non ha valore di legge).
La sessione autunnale del Bilancio: la scadenza cruciale è il 30 settembre. Il governo deve
presentare al Parlamento il Disegno di Legge Finanziaria, ove è contenuta la manovra, e
il disegno di legge di Bilancio annuale e pluriennale a legislazione vigente. Questi
documenti sono accompagnati dalla Relazione previsionale e programmatica, con la
quale il Governo aggiorna le previsioni macroeconomiche esposte col DPEF, illustra le
scelte contenute nella manovra e gli effetti attesi.
La discussione e la votazione devono concludersi entro il 31 dicembre con questa sequenza:
– approvazione della legge Finanziaria;
– approvazione della nota di variazione al Bilancio annuale di previsione a
legislazione vigente e al Bilancio pluriennale;
– approvazione della legge del Bilancio annuale di previsione e del Bilancio
pluriennale.

Finalità della Legge Finanziaria


La legge n. 468/1988 e la successiva l. n. 208/1999 precisano sia le finalità che il
contenuto della Legge finanziaria (per rendere più difficili gli ‘assalti alla diligenza’). Quanto
alle finalità è stato stabilito che essa, ogni anno, deve disporre il quadro di riferimento
finanziario per il periodo compreso nel Bilancio pluriennale in coerenza con gli obiettivi del
DPEF e regolare le grandezze previste dalle disposizioni di legge, per adeguare gli effetti
agli obiettivi.

Il contenuto della Legge Finanziaria


Pertanto, il contenuto della legge Finanziaria, suddiviso in una parte di testo in forma di
articoli di legge e in alcune Tabelle, deve indicare:
• il livello massimo del ricorso al mercato e del saldo netto da finanziare in termini di
competenza, ovvero i due saldiobiettivo del DPEF;
• le variazioni delle aliquote e delle detrazioni dei tributi;
• la misura delle quote di spese pluriennali autorizzate con apposite leggi e destinate
a gravare su ciascuno degli anni considerati;
• l’importo destinato al rinnovo dei contratti del pubblico impiego;
• l’ammontare dei fondi speciali, destinati alla copertura finanziaria delle proposte di
legge in discussione nel Parlamento che si prevede saranno approvate nel corso
dell’esercizio cui si riferisce il Bilancio
(TABELLA A e B, che hanno funzione programmatica);
• gli stanziamenti autorizzati da disposizioni di legge la cui quantificazione è rinviata alla
legge Finanziaria (Tabella C);
• il rifinanziamento di norme vigenti che dispongono interventi di sostegno
all’economia e classificati nelle spese in conto capitale (Tabella D);
• le variazioni da apportare al Bilancio a legislazione vigente a seguito della riduzione
di autorizzazioni legislative disposte in precedenza (ovvero definanziamenti;
Tabella E);
•gli importi da iscrivere in Bilancio in relazione alle autorizzazioni di spesa contenute
in leggi pluriennali (ovvero rimodulazione delle spese a carattere pluriennale;
Tabella F).
TABELLE CF servono a modificare stanziamenti già previsti.

Disegni di legge collegati


Disegni di legge collegati alla legge Finanziaria da presentare entro il 15 Novembre che
contengono norme di carattere “ordinamentale ovvero organizzatorio” o norme di “delega”
a modificare ordinamenti e organizzazione della Pubblica Amministrazione

Bilancio di previsione annuale


Quanto detto fin qui spiega come il Bilancio sia un documento politico e giuridico; nel
seguito ci occuperemo del suo aspetto contabile.

Bilancio di cassa e bilancio di competenza


Le entrate e le spese dell’Amministrazione Pubblica sono il risultato di procedimenti che si
svolgono in più fasi successive.
Tra le fasi per realizzare le entrate se ne ricordano solo due: quella dell’ accertamento,
nella quale l’Amministrazione acquisisce il diritto a riscuotere un credito da un determinato
soggetto, e quella della riscossione, nella quale il credito viene materialmente versato
nelle casse dello Stato.
Tra le fasi per realizzare una spesa si ricordano quella dell’impegno, nella quale
l’Amministrazione assume l’obbligo di pagare una determinata somma a un determinato
soggetto, e quella del pagamento, nella quale la somma impegnata viene effettivamente
erogata.
Tra l’accertamento e la riscossione di un’entrata trascorre un periodo di tempo che può
collocare i due eventi in due esercizi diversi; la stessa situazione può verificarsi per
l’impegno e il pagamento di una spesa. Ciò determina la distinzione tra Bilancio di
competenza e Bilancio di cassa: nel primo sono registrate le entrate e le spese nella
fase in cui si prevede che sorgerà per lo Stato, rispettivamente, il diritto a riscuotere e
l’obbligo a pagare; nel secondo sono registrate entrate e spese nella fase in cui se ne
prevede, rispettivamente, la riscossione e il pagamento.

Residui attivi e passivi


Dal momento che si può verificare che alcune entrate accertate in un esercizio non
vengano anche riscosse nell’esercizio, così come alcune spese impegnate in un esercizio
non vengano effettivamente pagate in quell’esercizio, si generano i cosiddetti residui e
precisamente le entrate accertate e non riscosse danno luogo a residui attivi, mentre le
spese impegnate e non pagate danno luogo a residui passivi.
Residui passivi: un esempio numerico

La classificazione economica delle entrate e delle uscite


Fino al Bilancio del 1997 le entrate e
le spese erano elencate in modo
analitico, per singole voci. La singola
voce di spesa di entrata e di spesa
costituiva un capitolo, ovvero l’unità
elementare del Bilancio, che aveva
una rilevanza non solo contabile ma
anche, ed essenzialmente, giuridica.
La riforma citata ha stabilito che i
capitoli siano raggruppati in unità
previsionali di base (UPB) per aree
omogenee di attività riferibili ad un
unico centro di responsabilità
amministrativa. La l. n. 94/1997 ha
introdotto nuovi criteri di
classificazione di tipo economico e
funzionale coerenti con il Sistema
Europeo dei Conti (Sec95)
agevolando così l’inserimento nei
conti pubblici nella contabilità
nazionale. Viene mantenuta la
preesistente ripartizione in Titoli, da
cui derivano i saldi di Bilancio. I primi
due titoli delle entrate contengono
le previsioni delle entrate correnti,
mentre il

terzo quella dell’entrata di parte capitale; il quarto evidenzia la previsione delle somme
derivanti dalla vendita dei titoli del debito pubblico.
Il primo titolo delle spese contiene le previsioni di spesa per il funzionamento della
Pubblica Amministrazione, per la produzione di servizi pubblici e per la ridistribuzione del
reddito; il secondo contiene le previsioni di spesa per investimenti diretti e indiretti; il terzo
le previsioni di spesa per il rimborso dei debiti.
Il quarto titolo delle entrate ed il terzo delle spese (accensione prestiti – rimborso prestiti)
costituiscono partite finanziarie che modificano la composizione ma non l’ammontare del
patrimonio pubblico.

La classificazione funzionale delle uscite


La classificazione funzionale ha lo scopo
di mettere in luce e valutare come lo
Stato, con la sua attività economica e
finanziaria, persegue i suoi obiettivi. Le
prime tre corrispondono alle funzioni
tradizionali dello Stato; seguono le
funzioni di intervento economico e per la
tutela dell’ambiente e del territorio; e
infine le funzioni tipiche del welfare state.

Bilancio per Missioni e Programmi


Recentemente la struttura dei Bilanci (si veda 20082009) è cambiata, passando
dall’essere basata sulla struttura organizzativa dell’Amministrazione (chi gestisce le
risorse) all’essere basata sulle funzioni da svolgere, denominate Missioni. Ogni Missione
si concretizza attraverso più Programmi. Ciascun Programma, infine, è articolato in UPB
(e quindi in capitoli).

Il contenuto del Bilancio


La legge di Bilancio è composta da:
• Lo stato di previsione dell’entrata;
• Gli stati di previsione della spesa;
• I quadri riassuntivi.
Per ciascuna imposta:
• Previsione di entrata derivante dall’attività ordinaria di gestione;
• Previsione di entrata derivante dall’attività di accertamento e controllo. (per

distinguere e quantificare i risultati attesi dal contrasto all’evasione fiscale)


I saldi di Bilancio

La legge di Bilancio deve contenere alcuni quadri riassuntivi nei quali vengono esposti i
risultati differenziali, o saldi di Bilancio (riforma di Bilancio attuata con legge n. 468/1978
e modificata dalla legge 362/1988):
1. Risparmio pubblico: differenza tra il totale delle entrate correnti (tributarie ed
extratributarie) e il totale delle spese correnti. Determina il contributo dello Stato alla
formazione del risparmio nazionale.
2. Indebitamento (o accreditamento) netto: è il risultato differenziale tra le entrate e
le spese finali decurtate delle operazioni finanziarie. Mette in evidenza il saldo
positivo o negativo con cui si chiudono le operazioni di Bilancio di natura
economica.
3. Saldo netto da finanziare o Fabbisogno: è il risultato differenziale delle
operazioni finali escluse le operazioni di accensione e rimborso dei prestiti.
4. Ricorso al mercato: risultato differenziale tra il totale delle entrate finali e delle
spese complessive. Esprime l’entità dell’indebitamento a medio e lungo termine.

Le variazioni in corso di esercizio e l’assestamento del Bilancio


Nel corso dell’esercizio possono rendersi necessarie variazioni delle previsioni contenute
nel Bilancio approvato. Se si verificano maggiori spese si può ricorrere a fondi di riserva
nello stato di previsione del Ministero dell’Economia (es. fondo di riserva per le spese
impreviste, fondo per le spese obbligatorie e d’ordine, fondi speciali per le spese derivanti
da provvedimenti di legge da approvare nel corso dell’esercizio finanziario).
Quando non viene trovata copertura nel fondo speciale si può provvedere
all’assestamento di Bilancio presentando a giugno il Bilancio assestato contenente le
previsioni finali relative all’anno finanziario in corso (si variano le autorizzazioni di cassa
tenendo conto dei residui effettivi).

La gestione del Bilancio


La gestione del Bilancio è competenza del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Il Dipartimento delle Finanze ha il compito di procurare le entrate necessarie a finanziare
la spesa pubblica e di gestire i beni del patrimonio dello Stato (varie agenzie operative:
agenzia delle entrate, delle dogane del territorio, del demanio).
La materiale riscossione delle entrate e il pagamento delle spese è compito della
Tesoreria dello Stato che, per questo, si avvale della Banca d’Italia.

I controlli sul Bilancio


La gestione del Bilancio è sottoposta a controlli: il controllo Parlamentare ha carattere
politico e si esercita con l’approvazione del Rendiconto generale dello Stato.
Un controllo di natura diversa è esercitato dalla Corte dei Conti: si tratta di un controllo
giurisdizionale degli atti di spesa e di entrata dell’Amministrazione. La Corte non può
sindacare il merito dei provvedimenti amministrativi, ma giudica la loro legittimità, cioè la
rispondenza degli atti alla legge di Bilancio. La Corte dei Conti esercita anche un controllo
successivo, a esercizio concluso e quindi sul Rendiconto generale dello Stato,
verificandone la rispondenza al bilancio preventivo (parificazione del Rendiconto). La
Relazione contenente le osservazioni della Corte sulla gestione del Bilancio è presentata
al Parlamento entro il 30 giugno insieme al Rendiconto.

Gli strumenti dell’analisi positiva


Per capire come viene condotta l’analisi positiva in finanza pubblica, ripercorreremo il
dibattito relativo agli effetti delle imposte sull’offerta di lavoro.

Ore di lavoro e aliquote


La tabella indica che
in Italia l’aliquota
legale marginale
dell’imposta sul
reddito delle persone
fisiche è aumentata,
anche se non in
maniera costante,
mentre le ore di
lavoro sono
diminuite.
Possiamo dedurre
correttamente dai
numeri che l’aumento delle imposte ha causato la diminuzione dell’offerta di lavoro?
Probabilmente nello stesso periodo in cui le aliquote d’imposta variavano, vi erano molti
altri fattori che influivano sull’offerta di lavoro. Per esempio, se si stabilisse che i redditi da
capitale (derivanti da dividendi, interessi e così via) sono aumentati in quegli anni, si
potrebbe affermare che le persone lavoravano meno perché erano più ricche.
Alternativamente, potrebbe essersi diffusa una minore attenzione per il lavoro tale da
ridurne l’offerta. Nessuno di questi eventi viene preso in considerazione dai numeri riportati
nella Tabella 3.1.

La teoria dell’offerta di lavoro


Nella teoria dell’offerta del lavoro, la decisione di lavorare si basa su un’allocazione
razionale del tempo.
Supponiamo che il Signor Rossi abbia a sua disposizione un certo numero di ore in una
giornata: quante ore dovrebbe dedicare al lavoro e quante al tempo libero? Il Signor Rossi
trae beneficio (“utilità”) dal tempo libero, ma per ottenere un reddito deve lavorare e quindi
rinunciare al tempo libero. Il problema del Signor Rossi è quello di trovare la combinazione
tra reddito e tempo libero che massimizzi la sua utilità.
Assumiamo che il Signor Rossi abbia trovato la combinazione tra reddito (da utilizzare per
consumo) e tempo libero che massimizza la sua utilità dato il salario orario di 10 euro. Se
il governo stabilisce un’aliquota dell’imposta sul reddito pari al 20%, il salario netto del
Signor Rossi si riduce a 8 euro. In che modo reagisce un individuo razionale: lavora di più,
di meno o come prima?
Si possono portare argomenti validissimi a favore di tutte e tre le alternative. Di fatto,
l’effetto sulle ore di lavoro di un’imposta sul reddito non può essere previsto a livello
teorico (bisogna considerare il caso specifico – analisi empirica).
L’imposta produce simultaneamente due effetti: la sostituzione del consumo con un’attività
adesso diventata meno costosa, il tempo libero, e una riduzione del reddito. Poiché l’effetto
sostituzione e l’effetto reddito agiscono in direzioni opposte sull’offerta di lavoro, la
prima riducendola e la seconda aumentandola, non si può stabilire a priori quale dei due
effetti sarà prevalente e, quindi, quale sia l’effetto finale dell’imposta sul reddito.
1. Con queste imposte così alte non vale veramente la pena che io lavori come ho
fatto finora (sceglierò più tempo libero – prevale l’effetto sostituzione: sostituzione
del consumo di un bene a favore di un altro bene dovuta all'aumento del prezzo
relativo del primo rispetto al secondo)
2. Con queste imposte così alte, sono costretto a lavorare più di prima se voglio
mantenere il mio livello di vita (lavorerò di più – prevale l’effetto reddito: effetto
prodotto sul consumo di un bene imputabile esclusivamente alla variazione del
reddito del consumatore)

I metodi dell'analisi empirica

Correlazione e causalità
Per poter dedurre che l’azione X da parte del decisore pubblico produce l’effetto Y sulla
società:
1. X deve precedere Y
2. Causa ed effetto devono essere in correlazione, cioè devono muoversi insieme (+, –)
3. Devono essere scartate altre spiegazioni
Come verificare che non esiste un’altra causa (Z) che possa spiegare la relazione?
Supponiamo di voler sapere se la frequentazione di un corso di formazione promosso dal
Governo da parte di un individuo faccia aumentare il suo stipendio. Supponiamo di
raccogliere dati relativi ai salari di un gruppo di individui, alcuni dei quali si sono iscritti al
corso di formazione mentre altri no. Chiameremo i primi gruppo sperimentale (o gruppo
di trattamento) e i secondi gruppo di controllo. Supponiamo di scoprire che il gruppo
sperimentale di lavoratori ha ricevuto salari più elevati rispetto al gruppo di controllo:
questo suggerisce che il criterio della causalità è stato soddisfatto, ma per poter dedurre
che il corso di formazione è stato la causa dei salari più elevati, dobbiamo verificare se
esistano altre spiegazioni per la relazione osservata fra i due eventi.
Una spiegazione possibile potrebbe essere che i lavoratori del gruppo sperimentale sono
più motivati rispetto a quelli del gruppo di controllo: maggiore motivazione → iscrizione al
corso di formazione ma anche maggior impegno sul lavoro per cui avrebbero salari più
elevati anche in assenza del corso di formazione. Il fattore Z (la maggiore motivazione)
comporta sia l’iscrizione al corso sia i salari più elevati. Non si può giungere alla
conclusione che sia stato il corso di formazione a causare salari più elevati.
In altri termini, il fatto che esista una correlazione non dimostra che vi sia causalità
(frequenza e voti alti?).

Gli studi sperimentali (o randomized studies)


Il problema dell’esempio precedente è che esiste un terzo fattore (la motivazione
personale) che altera la relazione tra frequenza del corso corso e salario. In questo caso
si ha una stima distorta: il campione (gruppo sperimentale) si è in qualche modo
autoselezionato per cui non è rappresentativo della popolazione (in cui non tutti sono
‘motivati’). Ciò ha invalidato l’esperimento.
1. I corsi di formazione sono efficaci nel determinare maggiori salari (sì/no ?).
2. In che misura sono efficaci (poco/abbastanza/molto?)
Un modo per isolare le due variabili di interesse è quello di condurre uno studio
randomizzato (randomized in inglese). I soggetti vengono casualmente assegnati ai due
gruppi: gli individui del gruppo di controllo hanno in media le stesse caratteristiche del
gruppo sperimentale (ed entrambi sono rappresentativi della popolazione di riferimento).
Dal momento che la selezione nel gruppo sperimentale è fuori dal controllo del singolo
individuo, diminuisce la probabilità che altri fattori possano indurre il ricercatore a
confondere la correlazione con la causalità.
Come condurre uno studio sperimentale: raccogliere dati sulle caratteristiche
(osservabili, es. livello di istruzione) dei lavoratori; assegnazione casuale (sorteggio);
confronto dei valori medi delle loro caratteristiche dopo l’assegnazione – non devono
essere troppo dissimili; dopo il corso confrontare i salari medi.
I problemi con gli studi sperimentali: è difficile condurre studi sperimentali controllati
(problemi di carattere etico, tecnico, difficile estendibilità)

L’analisi dei dati


Per alcune questioni importanti gli studi sperimentali randomizzati non si possono fare. Un
esempio è l'impatto degli sgravi fiscali sull’offerta di lavoro: uno studio sperimentale a
riguardo necessiterebbe che ad alcuni fossero concessi degli sgravi fiscali, mentre ad altri
no. Anche se ciò fosse possibile gli individui facenti parte del gruppo che usufruisce degli
sgravi fiscali saprebbero di prendere parte ad un esperimento e potrebbero cambiare il
loro comportamento di conseguenza. In questi casi si ricorre all’analisi dei dati, cioè si
osserva e misura il comportamento effettivo fuori da un contesto sperimentale.
Raccolta dati: sondaggi telefonici, censimenti, documenti amministrativi, ecc.
Tipi di variabili: nominali (nazionalità, sesso, stato civile); ordinali (titolo di studio);
cardinali discrete (numero dei figli, voti d’esame), cardinali continue (reddito, prezzi).
Tipi di dati: cross section (diverse entità nello stesso periodo), time series (stessa entità
in diversi periodi di tempo), panel (diverse entità in diversi periodi di tempo).
Principale istituto di raccolta dati in Italia è l'Istat, in Europa l'Eurostat.
L’econometria è l’utilizzo dell’analisi statistica di dati economici per la stima di relazioni
casuali.
Strumento principale: analisi di regressione (semplice, multipla, lineare, nonlineare
ecc.). Esempio nel testo: lineare semplice
Strumenti informatici software (Excel, Spss, Stata)
Variabile indipendente (L)
Variabile dipendente (w)
Diagramma di dispersione L – giorni lavorati w
– salario nominale netto
Retta di regressione: applicando il metodo dei minimi
quadrati si stima la sua pendenza ed intercetta.
Metodo dei minimi quadrati: calcola la retta che
minimizza il quadrato della distanza verticale dai punti
osservati.
Dal grafico: dispersione ridotta; errore standard
piccolo; coefficiente statisticamente significativo
errore standard: affidabilità del coefficiente di regressione

Gli studi quasi sperimentali


Gli economisti empirici utilizzano una terza categoria
di studi noti come studi quasisperimentali (oppure studi semisperimentali, o ancora
esperimenti naturali) per stimare relazioni di tipo causale. Questi studi identificano delle
situazioni in cui circostanze esterne di fatto assegnano casualmente gli individui ai gruppi
di trattamento e di controllo. La differenza fra un esperimento e un quasiesperimento sta
nel fatto che un esperimento esplicitamente attribuisce in modo casuale gli individui a un
gruppo sperimentale o di controllo, mentre un quasiesperimento utilizza i dati che si
possono osservare, ma si basa su circostanze che sfuggono al controllo da parte del
ricercatore ma che in modo naturale comportano un’assegnazione casuale.
Problemi simili agli studi sperimentali (es. non estendibilità).
Gli strumenti dell’analisi normativa

L’economia del benessere


L’economia del benessere è la branca della teoria economica che si occupa di stabilire la
desiderabilità sociale di allocazioni economiche alternative, rispetto a quelle che emergerebbero con
il libero mercato, e quindi dell’intervento dello Stato.

Economia di puro scambio


Modello semplice:
2 agenti (Adamo ed Eva)
2 beni (vestiti, cibo)
I due agenti hanno date dotazioni iniziali dei due beni.
I due agenti operano in maniera razionale, scambiando beni fra loro al fine di massimizzare
la loro utilità
Le preferenze degli agenti hanno specifiche strutture descritte da curve di indifferenza
Alla fine dello scambio la dotazione finale deve possedere specifiche proprietà definite dal
concetto di ottimo paretiano: la dotazione finale è ottima in senso Paretiano se non esiste
una dotazione alternativa che possa aumentare la soddisfazione di un agente senza
peggiorare quella di un altro.
Strumento di analisi: scatola di Edgeworth

La scatola di Edgeworth
Strumento di analisi utilizzato per illustrare la distribuzione dei beni in un contesto formato da due
beni e due individui.
Curve di indifferenza in una scatola di Edgeworth

Curva di indifferenz: l'insieme dei punti che individuano le quantità di due beni che soddisfano
egualmente il soggetto.

Saggio marginale di sostituzione (MRS)


Il valore assoluto della pendenza della curva d’indifferenza indica il rapporto al quale
l’individuo è disposto a scambiare un bene per una quantità aggiuntiva dell’altro ed è detto
saggio marginale di sostituzione (Marginal Rate of Substitution) tra i due beni.

Allocazione Pareto efficiente


In un’economia di puro scambio è l’allocazione di risorse tale per cui nessun individuo è in
grado di migliorare la propria condizione senza peggiorare quella dell’altro.

Miglioramento paretiano
È la riallocazione delle risorse che migliora la condizione di un individuo senza peggiorare
quella dell’altro.
Come migliorare il benessere di Adamo senza peggiorare quello di Eva

Eg = curva indifferenza Eva ; Ap = curva indifferenza Adamo : p = Efficienza


paretiana Da g ad h → miglioramento paretiano

Come migliorare il benessere di Eva senza peggiorare quello di Adamo


Come migliorare il benessere di entrambi

Diversa dotazione iniziale


Curva dei contratti: Luogo dei punti Pareto efficienti.

Efficienza parentiana in un’economia di puro scambio


In un’economia di puro scambio, l’efficienza paretiana richiede l’uguaglianza dei saggi
marginali di sostituzione per tutti i consumatori:
MRSca,Adamo = MRSca,Eva
Esempio

A E
U =xa xC , U =2xa xC
A E
d A,0=(7,12) , d E ,0=(9,5) =>U =84 , U =90
A E
NO d A,1=(10,10) , d E ,1=(6,7) => U =100 , U =84
A E
SI d A ,2=(8,11) , d E ,2=(8,6) => U =88 , U =96

La frontiera delle possibilità produttive


Aggiungendo il lato della produzione è necessario introdurre il concetto di frontiera delle
possibilità produttive: il luogo di punti che indicano il massimo della quantità che si può
produrre di un bene, data la quantità prodotta dell’altro bene e la disponibilità degli inputs.

Economia con produzione


Con la produzione introduciamo le imprese, il mercato dei beni e quello dei fattori.
Assumiamo:
1. Concorrenza perfetta in entrambi i mercati;
2. Mercati completi per tutti i beni (informazione completa e simmetrica, assenza di
esternalità, assenza di altre imperfezioni di mercato, ...)
La frontiera delle possibilità produttive

y−w=Δ qa
z− x=Δ qc
pendenza = − qa
qc

Il saggio marginale di
trasformazione (MRT)
Il saggio marginale di trasformazione è il saggio al quale il sistema economico può trasformare un
bene in un altro bene; come illustrato nella diapositiva precedente corrisponde alla pendenza della
frontiera delle possibilità produttive, ma può anche essere espresso come rapporto tra i costi
marginali.
Infatti: CMGa = CT a , CMGc= CT c => CMGc = CT c qa
qa qc CMGa qc CT a
ma a prezzo dei fattori invariati, lungo la FPP deve valere: CT c=− CT a
per cui: CMGc = CT c qa =− CT a qa =− qa =MRT ca
CMG qc CT a qc CT a qc
a

Efficienza paretiana in un’economia con produzione variabile


Quando la quantità di cibo e abbigliamento è variabile, la condizione dell’efficienza paretiana
diventa: MRTca=MRSca Adamo= MRScaEva

Esempio
MRScaAdamo = 1/3 (Adamo valuta una unità di vestiario come 3 unità di cibo)
MRTca = 2/3 Riducendo la produzione di cibo di 3 unità i possono ottenere 2 vestiti
Quindi: se si riducesse la produzione di 3 unità di cibo per ottenere 2 unità di vestiario si avrebbe
miglioramento paretiano (la condizione di Adamo migliorerebbe poiché otterrebbe un vestito in più
rispetto a quello necessario per mantenere il suo livello di soddisfazione originario).
Questi scambi sono possibili finché: MRTca≠MRScaAdamo
Il primo teorema dell’economia del benessere
Se ipotizziamo (1) concorrenza perfetta (nessun agente ha potere di mercato), e (2) completezza dei
mercati per tutti i beni, il primo teorema dell’economia del benessere stabilisce che in un economia
di mercato le risorse vengono allocate in maniera Pareto efficiente.

Dimostrazione (non rigorosa):


Adamo (Eva) massimizza la sua utilità dato il vincolo di bilancio:
adamo eva
Pc Pc
= =
MRS ca Pa ; MRS ca Pa
adamo eva
da cui: MRS ca = MRSca
le imprese massimizzano i loro profitti solo se: MC a=Pa e M c=Pc
dividendo Pa =MC a =MRT ca
Pc MCc
adamo eva
quindi: MRS ca = MRSca = MRT ca

Efficienza vs. desiderabilità sociale

Efficienza paretiana e desiderabilità di una distribuzione


Il punto fondamentale è che il criterio di efficienza paretiana in sé non è sufficiente a determinare
un ordinamento di allocazioni alternative delle risorse. Sono richiesti invece espliciti giudizi di
valore sull’equità della distribuzione delle utilità.
La frontiera delle utilità possibili
Luogo dei punti che indica la massima utilità di
un soggetto data l'utilità dell'altro.
Massimo livello di utilità di Adamo dato quello
di Eva (si ottiene dalla curva dei contratti, cioè
per ogni punto sulla linea dei contratti si deve
guardare alle curve di indifferenza
corrispondenti di A ed E).
q = raggiungibile non efficiente
curva UU = raggiungibile ed efficiente

La funzione del benessere sociale


Tutti i punti situati sulla frontiera delle utilità possibili o al di sotto sono raggiungibili per la
collettività; tutti quelli al di sopra non lo sono. Per definizione, tutti i punti sulla curva UU sono
Pareto efficienti, ma rappresentano distribuzioni delle risorse e quindi delle utilità di Adamo ed Eva
molto diverse. Qual è l’allocazione migliore? O meglio, quale tra i punti della UU rappresenta
l’allocazione migliore? Di solito si risponde a questo interrogativo postulando l’esistenza di una
funzione del benessere sociale.
La funzione del benessere sociale è una rappresentazione delle preferenze della società sulla
distribuzione delle utilità tra Adamo ed Eva. Dal punto di vista algebrico, il benessere sociale
(welfare, W) è una qualche funzione F() dell’utilità di ciascun individuo:
W = F(UAdamo, UEva) e può essere rappresentata attraverso delle curve di indifferenza sociale.

Curve di indifferenza sociale


Proprietà:
• sono decrescenti: se UA diminuisce UE deve
aumentare per mantenere costante il benessere
collettivo;
• sono ordinate dal basso verso l’alto: se aumenta UA
a parità di UE o UE a parità di UA o sia UA che UE
il benessere sociale aumenta.
Massimizzazione del benessere sociale

Il secondo teorema dell’economia del benessere


In base al primo teorema dell’economia del benessere, in un sistema economico concorrenziale si
ottiene un’allocazione delle risorse che appartiene alla frontiera delle utilità possibili. Tuttavia, non
c’è motivo di ritenere che tale allocazione sia anche quella che massimizza il benessere sociale.
Possiamo dunque concludere che, anche quando il sistema economico determina un’allocazione
delle risorse Pareto efficiente, può essere necessario l’intervento pubblico per ottenere una
distribuzione “equa” (o meglio, socialmente preferita) delle risorse.
In base al secondo fondamentale teorema dell’economia del benessere la collettività può
raggiungere qualsiasi allocazione efficiente nel senso di Pareto a condizione che (1) gli agenti siano
lasciati liberi di contrattare (proprio come se fossero in una scatola di Edgeworth) e (2) che
l’allocazione delle risorse sia quella preferibile, realizzata attraverso trasferimenti in somma fissa o
lump-sum. Detto altrimenti, se lo Stato ridistribuisce equamente il reddito (o meglio ridistribuisce il
reddito nella maniera che ritiene preferibile) e lascia operare il mercato concorrenziale (cioè
modifica l’allocazione iniziale), le allocazioni raggiunte autonomamente dalla collettività stanno
sulla curva delle utilità possibili e sono eque (nel senso di preferite dalla collettività in termini
distributivi). Un intervento fatto in modo diverso, per esempio modificando i prezzi relativi, può
avere effetti distorsivi.

I fallimenti del mercato


Ogni volta che i mercati sembrano non riuscire ad allocare le risorse in modo efficiente, gli
economisti fanno ricorso allo stesso insieme di possibili cause del presunto fallimento: il potere di
mercato e l’assenza di mercati. L’esempio più importante di potere di mercato è il monopolio
(prezzo > costo marginale). Esempio in cui un mercato può non esistere è per alcuni tipi di
assicurazioni (informazione asimmetrica tra assicurato e assicuratore, es. assicurazione sulla
povertà). Nel nostro corso noi dedicheremo particolare attenzione ad alcuni casi in cui il mercato è
assente (i beni pubblici e le esternalità).

Una valutazione dell’economia del benessere


Come valutare l’opportunità di un intervento pubblico?
1. Avrà conseguenze desiderabili dal punto di vista della distribuzione?
2. Aumenterà l’efficienza?
3. Può essere ottenuto ad un costo ragionevole?

Fallimenti del mercato e analisi della spesa pubblica

I beni pubblici

Definizione
Si definiscono beni (o servizi) pubblici puri, i beni il cui consumo è non rivale e non escludibile.
Detto altrimenti, un bene pubblico puro ha le seguenti caratteristiche:
• una volta che il bene è fornito, il costo marginale del consumo da parte di un individuo
aggiuntivo è nullo, ovvero il consumo è non rivale;
• escludere qualcuno dal consumo di un bene è o molto costoso o impossibile, ovvero il
consumo è non escludibile.
Esempio: difesa nazionale vs Pizza

Però
Anche se tutti consumano la stessa quantità di un bene pubblico, ciò non significa che tale consumo
debba essere valutato da tutti allo stesso modo (per esempio non tutti sono convinti che una
migliore difesa nazionale possa essere assicurata da un’alta spesa militare). Inoltre, la natura di bene
pubblico non è assoluta, ma dipende dalle condizioni del mercato e dai livelli tecnologici raggiunti
(in un futuro non troppo lontano il faro potrebbe diventare un servizio escludibile). Poiché i beni
possono avere diversi gradi di non rivalità e non escludibilità si parla anche di beni pubblici
impuri. Esempio: Televisione satellitare, digitale terrestre ecc. (escludibilità possibile)
Congestione (in biblioteca, ecc.) (condizione di non rivalità a un certo punto fallisce)
Infine, non è detto che la non escludibilità e l’assenza di rivalità nel consumo siano sempre
associate: possono esistere beni rivali ma non escludibili (le strade di un centro cittadino nelle ore
di punta) e beni escludibili ma non rivali (una grande spiaggia).

Fornitura pubblica di beni privati e viceversa


I beni privati non vengono necessariamente forniti solo dal settore privato e viceversa. Esistono
molti beni privati forniti pubblicamente, ovvero beni caratterizzati dalla rivalità ed escludibilità nel
consumo che sono forniti dal settore pubblico. Per esempio, l’assistenza sanitaria e l’edilizia
popolare sono beni privati che spesso vengono forniti dal settore pubblico. Analogamente, come
vedremo più avanti, esistono beni pubblici forniti dal settore privato.

Fornitura vs. produzione


Un bene fornito pubblicamente non sempre è anche prodotto dal settore pubblico. (es. appalto del
servizio di rimozione dei rifiuti)
Condizioni di efficienza in caso di beni privati

La curva di domanda di mercato di un bene


privato si ottiene sommando la quantità di
bene che ogni individuo consuma per ciascun
prezzo.
Somma orizzontale: delle domande
individuali si ottiene sommando le quantità
domandate dal singolo per ogni livello di
prezzo.
BENEFICIO MARGINALE Adamo =
BENEFICIO MARGINALE Eva = 4
COSTO MARGINALE = 4
nel punto (3,5) non c'è uguaglianza tra MB e
M

MRS ca , Adamo= MRSca , Eva =MRT ca=M ca=Pa (se Pc=1)


NB: nel caso di un bene privato tutti presentano il medesimo MRS, ma ciascuno può consumare
quantità diverse (somma orizzontale); nel caso di un bene pubblico tutti consumano la stessa
quantità, anche se ciascuno ha il suo MRS (somma verticale).
Caso dei beni pubblici
La curva di domanda di un bene pubblico si ottiene sommando (verticalmente) i prezzi
che ciascun individuo è disposto a pagare per una data quantità

COST0 MARGINALE = ?
NB le quantità devono essere consumate nella stessa misura cioè 20 nell’esempio .
Per ottenere la disponibilità a pagare sommiamo i prezzi.
La disponibilità a pagare di Adamo e Eva =
CMr MRSca, Adamo + MRSca, Eva = MRTca
Teorema di Samuelson
Mostra le condizioni di ottimo paretiano in presenza di beni
pubblici e privati.
NB. : La curva d'indifferenza di Eva (DD) è ottenuta dalla
differenza tra la curva delle frontiere delle utilità possibili
(CC) e la curva d'indifferenza di Adamo (IA1). per
costruzione ha la pendenza pari alla differenza delle
pendenze di queste curve cioè
= MRTra – MRSra,Adamo
Ci da per ogni possibile dotazione di Adamo (a parità della
sua utilità) la dotazione corrispondete di Eva
Nel punto di tangenza tra la DD e la IE1 otteniamo la
dotazione di Eva (e quindi la produzione di bene pubblico
che massimizza l’utilità di questo agente)
Nel punto di tangenza abbiamo che:
MRTra – MRSra,Adamo = MRSra, Eva
Da cui: MRTra = MRSra, Adamo + MRSra, Eva

Perché i beni pubblici puri sono un fallimento del mercato?


Di fronte a un bene pubblico non escludibile le persone possono essere incentivate a nascondere le
loro vere preferenze. Supponiamo, per il momento, che lo spettacolo dei razzi (l’esempio
considerato nel libro di testo) sia non escludibile. Adamo potrebbe sostenere, mentendo, che lui non
ama i fuochi d’artificio e se convince Eva a pagare il biglietto da sola, riesce a vedere ugualmente
lo spettacolo e a tenersi il denaro da spendere in cibo e abiti. Questo comportamento opportunista,
consistente nel godere benefici di un bene per cui altri hanno pagato il prezzo, è definito problema
dell’opportunismo o problema del free rider . Ovviamente, anche Eva potrebbe essere
opportunista, e infatti, in presenza di beni pubblici «tutti sperano di carpire qualche beneficio
personale in un modo che non sarebbe possibile nel sistema concorrenziale e autoregolato di
determinazione dei prezzi tipico del mercato dei beni privati» (Samuelson 1955, p. 389).
Anche se l’esclusione al consumo fosse possibile la quantità fornita di beni pubblici dal mercato
(dai privati) potrebbe non essere efficiente (P > MC = 0)
Tuttavia ciò sarebbe possibile se
• La curva di domanda del bene pubblico di ogni individuo è conosciuta
• Il bene non è trasferibile (Perfetta discriminazione di prezzo – non realistica – inoltre il
problema di determinare l’ottima produzione sarebbe risolto a priori )
Il dibattito sulla privatizzazione
In questi ultimi anni, soprattutto nei Paesi occidentali, si è dibattuto sull’opportunità di privatizzare
alcuni servizi forniti o prodotti tradizionalmente dallo Stato. Un aspetto di questa discussione sta
nella distinzione tra fornitura e produzione.

Fornitura pubblica contro fornitura privata


In alcuni casi le imprese pubbliche forniscono servizi che si possono ottenere anche privatamente.
La combinazione tra fornitura pubblica e privata di beni e servizi di pubblica utilità è
sostanzialmente cambiata nel tempo ed è diversa in ciascun paese, ma qual è la corretta
combinazione? La risposta a questa domanda va cercata pensando ai beni forniti pubblicamente e
privatamente come input nel processo di produzione di qualche output che le persone desiderano.
Insegnanti, aule, libri di testo e ripetizioni private sono input nella produzione di un output che
potremmo chiamare qualità dell’istruzione. Supponiamo che la collettività sia interessata solo al
livello di output, qualità dell’istruzione, e non agli input utilizzati per produrlo. Quale criterio
dovremmo usare per decidere la quantità di ciascun input? E gli input devono essere forniti dal
settore pubblico o da quello privato?

Salario relativo e costi delle materie prime


Se il lavoro e le materie prime sono pagati diversamente dal settore pubblico e dal settore privato,
allora, sulla base dell’efficienza, ceteris paribus, sarebbe opportuno scegliere il settore meno
costoso. Il costo dell’input sostenuto dal settore pubblico può essere diverso da quello privato se,
per esempio, i dipendenti del settore pubblico sono fortemente sindacalizzati rispetto a quelli del
settore privato.

Costi amministrativi
Nel caso di fornitura pubblica di un bene, i costi amministrativi possono essere suddivisi tra un
vasto gruppo di persone. Per esempio, invece di far perdere tempo a ogni individuo per contrattare e
organizzare la nettezza urbana, la trattativa può essere svolta da un ufficio che provvede per tutti.
Più vasta è la collettività, maggiore è il vantaggio derivante dalla suddivisione dei costi.

Diversità di gusti
Le donne che lavorano fuori di casa e hanno figli sviluppano opinioni diverse circa l’istruzione
rispetto alle casalinghe e alle donne che non hanno figli. Coloro che tengono i gioielli in casa
attribuiscono alla sicurezza un valore più alto rispetto a chi non ha gioielli o li conserva in banca.
Più i gusti sono differenziati, più è considerato efficiente il servizio fornito dal settore privato.
Chiaramente, il vantaggio della diversità deve essere confrontato con i possibili maggiori costi
amministrativi.

Problemi distributivi
Un’interpretazione possibile del concetto di equità, sostenuta dal premio Nobel James Tobin (1970),
richiede che alcuni beni economici siano disponibili per tutti. In base a questo principio si spiega la
richiesta diffusa di istruzione e assistenza sanitaria minime fornite pubblicamente a tutti.
Produzione pubblica vs. produzione privata
Anche qualora si trovi l’accordo sul fatto che certi beni devono essere forniti dal settore pubblico,
rimane da capire se debbano essere prodotti dal settore pubblico o da quello privato. C’è chi
sostiene che i dirigenti del settore pubblico, diversamente da quelli privati, non avendo come
obiettivo la massimizzazione del profitto né temendo il fallimento, non abbiano alcun incentivo a
tenere sotto controllo l’attività della loro impresa. Chi, al contrario, sostiene l’opportunità della
produzione pubblica e si oppone alle privatizzazioni ritiene che non vi siano prove sistematiche a
sostegno dell’idea che la produzione pubblica sia meno efficiente e più costosa. Un aspetto che
rende difficile il confronto è che la qualità dei servizi forniti nei due modi può essere diversa e
infatti una delle argomentazioni degli oppositori della produzione privata è proprio che gli
appaltatori privati forniscono prodotti inferiori.

Il caso dell’istruzione
Possiamo quindi chiederci: perché lo Stato interviene in maniera così massiccia nella fornitura
dell’istruzione invece di lasciarla al mercato? Se è vero che i mercati non forniscono i beni pubblici
in modo efficiente, l’istruzione è però un bene privato che migliora il benessere degli studenti
aumentando la loro capacità di guadagnarsi da vivere in futuro.

Argomentazioni di efficienza
L’istruzione è un fattore rilevante di creazione di capitale umano, che è un input fondamentale dei
sistemi economici contemporanei e il fatto che le imprese dispongano di mano d’opera istruita è
sicuramente un bene dalle caratteristiche pubbliche. O meglio, se la formazione dei lavoratori
dovesse essere lasciata alle sole imprese, si tratterebbe di un servizio con un certo grado di non
escludibilità (in un sistema politico che assicura la libertà individuale non si può impedire a un
lavoratore di cambiare posto di lavoro, dopo essere stato istruito e formato) per cui ne verrebbe
fornito un livello inferiore a quello efficiente.
Argomentazioni di equità
All’inizio di questo capitolo abbiamo accennato all’approccio secondo il quale l’equità è connessa
all’uguaglianza nella distribuzione di alcuni beni; in questo contesto, alcuni sostengono che,
essendo l’accesso all’istruzione uno dei fattori fondamentali di mobilità sociale, esso dovrebbe
essere reso disponibile a tutti i cittadini. Se l’istruzione può essere considerata un bene pubblico,
anche se non puro, è logico che lo Stato la sovvenzioni, ma se la scuola elementare e secondaria è
gratuita (ossia finanziata dai contribuenti) e obbligatoria si è andati oltre alla sovvenzione. Che cosa
rende così speciale l’istruzione da indurre lo Stato non solo a fornirla ma anche a produrla?

Il consumo di istruzione
Qualunque sia il motivo per fornire scuole
pubbliche gratuite, la cosa da notare, dal punto di
vista della teoria economica, è che questo sistema
non induce necessariamente gli individui a
consumare più scolarizzazione di quanto
farebbero in un mercato privato.

La relazione tra spesa per istruzione e qualità del servizio


In realtà la domanda più importante di questa discussione è se la qualità dell’istruzione migliora
all’aumentare della spesa. Se ciò che ci sta a cuore sono i risultati scolastici degli studenti e non la
spesa per l’istruzione in sé, è necessario conoscere la relazione tra gli input acquistati e la quantità
di istruzione prodotta.
I tentativi di misurare questa relazione quantificando il livello di utilizzo di vari input, con
indicatori quali l’anzianità di servizio degli insegnanti e il numero di insegnanti per
studente, si sono scontrati con enormi difficoltà. Le difficoltà maggiori stanno nel definire,
per non dire misurare, l’output “istruzione”.
Le esternalità
Quando l’attività di un soggetto economico influisce sul benessere di un altro direttamente,
ossia non mediante variazioni di prezzi, l’effetto viene definito esternalità.
Cause di esternalità:
• Problema di mancata (o impossibile) assegnazione dei diritti di proprietà (beni comuni)
• Problema dell’utilizzo inefficiente dei beni comuni
• Beni pubblici ed esternalità
L’effetto può essere tale da ridurre il benessere, esternalità negative, o aumentarlo, esternalità
positive. Le esternalità possono essere prodotte sia dai consumatori sia dai produttori e possono
influire sul benessere sia dei produttori sia dei consumatori.

Un’esternalità negativa

Benefici e costi del passaggio a un volume di output efficiente

cdg = danno soggetto B


gdh = beneficio soggetto A
NB: è difficile calcolare con
precisione la forma di
queste curve.
La correzione delle esternalità

Soluzioni private
• L’attribuzione dei diritti di proprietà e il teorema di Coase
• Le fusioni

Soluzioni pubbliche
• l'imposta piguviana
• Il sussidio piguviano

Soluzioni pubbliche in caso di attività inquinanti


• Le imposte sulle emissioni
• I sistemi di cap-and-trade
• Le norme di tipo command-and-control

Le soluzioni private: il teorema di Coase


In caso di esternalità, la contrattazione tra
privati porta ad un'allocazione efficiente, a
condizione che i diritti di proprietà siano
assegnati; l'efficienza sarà raggiunta
indipendentemente da chi detiene tali diritti.
ASSUNZIONI:
• Assenza di costi di contrattazione:
Costi di negoziazione in senso stretto
Costi di enforcement
• Funziona quando:
Pochi individui
Le fonti di esternalità sono ben definite
accordo possibile finché MD > (MB - MPC)

Le soluzioni private: fusioni


Un modo per affrontare le esternalità consiste nell'internalizzarle fondendo le imprese conivolte.
Le soluzioni pubbliche: analisi di un’imposta pigouviana

Imposta pigouviana:
Imposta che grava su chi provoca
un'esternalità negativa; il suo
ammontare è pari al danno marginale
che l'impresa provoca in
corrispondenza del volume efficiente
di output.
• L’ammontare è pari al danno
marginale in corrispondenza della
quantità ottima di output.
• L’area colorata corrisponde alle
entrate derivanti dall’imposta:
• Problema: è necessario conoscere chi
provoca l’esternalità e in che misura
cd = danno marginale in
corrispondenza del volume efficiente
di output

Le soluzioni pubbliche: analisi di un sussidio

Sussido piguviano:
È un incentivo a non produrre
esternalità negative
• Stessa soluzione efficiente ma in
corrispondenza di una distribuzione
differente
• Problema: è necessario conoscere
chi provoca l’esternalità e in che
misura
• Incentivo per altre imprese ad
entrare per godere dei sussidi
• Le imposte per finanziare i sussidi
sono distorsive
per ogni unità prodotta, il sussidio
sposta verso l'alto la curva MPC per
un'entità pari al sussidio (cd)
inducendo così a produrre il livello efficiente di output.
Il mercato dei diritti di inquinamento

Il soggetto riduce l'inquinamento se il beneficio marginale sociale è maggiore del costo


marginale per farlo.
e* = quantità efficiente di riduzione dell'inquinamento

Un’imposta sulle emissioni


Imposta commisurata alle unità inquinanti
emesse
• Si potrebbe intervenire con un richiesta
di riduzione fino a e*.
• L’imposta sulle emissioni ha dei
vantaggi quando ci sono più soggetti
inquinanti

chi produce riduce l'inquinamento finché


MC < imposta sulle emissioni; quindi
un'imposta f* comporta la quantità
efficiente di riduzione dell'inquinamento
pari a e*.
Riduzioni uniformi di inquinamento

• Emissione iniziale 180, riduzione fino a 80 (togliere 100).


• Allocazione ottimale: costo totale della riduzione delle emissioni è minimo quando i costi
marginali sono uguali per tutti i soggetti inquinanti
• Allocazione efficiente in termini di costo
• Iniqua?
Un’imposta sulle emissioni
Un imposta sulle emissioni induce ciascun soggetto inquinante a ridurre l'inquinamento fino al
punto in cui il costo marginale della riduzione è pari al livello dell'imposta.

Il sistema cap-and-trade
Politica di assegnazione di autorizzazioni a inquinare; il numero di autorizzazioni viene stabiliti in
base al livello desiderato di inquinamento e ai soggetti inquinanti viene consentito di scambiarle
dietro compenso.

•Alberto riceve tutte le 80 autorizzazioni


•Alberto venderà tutte le autorizzazioni a Matteo fino all’equalizzazione dei costi marginali •In
teoria il sistema delle imposte sulle emissioni e quello cap-and-trade sono simmetrici •In pratica
esistono delle differenze
Un confronto: sistema cap-and-trade e l’imposta sulle emissioni
(hp. benefici marginali sociali anelastici e incertezza sui costi)

Il sistema cup and trade è preferibile all'imposta sulle emissioni quando i benefici marginali
sociali sono anaelastici.

Un confronto: sistema cap-and-trade e l’imposta sulle emissioni


(hp. benefici marginali sociali elastici e incertezza sui costi)

L'imposta sulle emissioni è preferibile al sistema cup and trade quando i benefici sociali marginali
sono elastici e i costi incerti
Un’esternalità positiva
Un'esternalità negativa può
essere corretta da un'imposta
pigouviana, mentre
un'esternalità positiva da un
sussidio pigouviano: se
l'impresa che fa ricerca ottiene
un sussidio uguale al beneficio
marginale esterno al volume di
output ottimo (ab) sarà indotta a
produrre in modo efficiente.
La teoria delle scelte collettive
In questa lezione utilizzeremo gli strumenti dell’analisi economica per cercare di capire come si
svolge il processo decisionale politico, studiando la branca dell’economia chiamata teoria delle
scelte collettive. Prima esamineremo le democrazie dirette e il modo in cui in questi sistemi le
preferenze di ciascun cittadino vengono tradotte in azione collettiva. Analizzeremo poi le
complicazioni che sorgono quando le decisioni non vengono prese dagli individui stessi, ma dai loro
rappresentanti eletti.

Il modello di Lindhal
Il modello di Lindahl mostra le
combinazioni di imposta e livello di
fornitura di bene pubblico decise
all’unanimità.
La domanda fondamentale è: come
raggiungere l’equilibrio?
Immaginiamo che l’autorità decida di
imporre una certa imposta. In base
alle loro rispettive curve di domanda,
Adamo ed Eva votano per il numero
di razzi che desiderano. Se l’accordo
non è unanime, l’autorità stabilisce
un’altra imposta e il processo
continua sino a che Adamo ed Eva
scelgono la stessa quantità di razzi
(nella Figura, r*).
In questo modo la determinazione della quantità di bene pubblico avviene in modo abbastanza
simile a quello del mercato. Come per il mercato, anche in questo caso

si può dimostrare che l’allocazione è Pareto efficiente.


Il procedimento proposto da Lindahl ha però due problemi.
In primo luogo, assume che gli individui esprimano sinceramente le loro preferenze: se Adamo riesce a
indovinare il prezzo massimo che Eva è disposta a pagare per avere i razzi e non rimanere senza, può
costringerla a quella allocazione. Ciò vale anche per Eva. Se adottano un comportamento strategico è
probabile che Adamo ed Eva non raggiungano mai l’equilibrio di Lindahl.
In secondo luogo, è probabile che ci voglia molto tempo per trovare l’imposta che soddisfi
entrambi. Se si tiene conto che le decisioni importanti coinvolgono molti individui e che per
ottenere il consenso di ciascuno si devono sostenere costi elevati, il voto all’unanimità può risultare
un sistema molto lungo e costoso.
Il voto a maggioranza
Poiché l’unanimità è difficile da raggiungere, sono preferibili i sistemi che non la richiedono e per i
quali è sufficiente la votazione a maggioranza. In questo sistema, una proposta viene approvata se si
pronuncia a favore la metà più uno dei votanti.

Il paradosso del voto


Ma le votazioni a maggioranza, purtroppo, non danno sempre risultati così netti. Ci sono casi in cui
anche se le preferenze di ogni singolo votante sono coerenti, quelle della comunità non lo sono.
Questo fenomeno prende il nome di paradosso del voto.

Ciclicità del voto


Un altro problema che si verifica in queste circostanze è che la collettività può andare avanti
all’infinito senza che venga presa una decisione definitiva. Se i cittadini sono chiamati a decidere
tra A e B, vince A. Se C viene opposto ad A vince C, ma se B viene opposto a C, vince B e si può
continuare così all’infinito. In questo caso si parla di ciclicità del voto.

Confronto a coppie

Tra A e B e tra B e C vince sempre B

Tra A e B vince A – Tra B e C vince B – Tra C e A vince C


Paradosso del voto → problemi:
• manipolazione dell'ordine del giorno: processo mediante il quale si organizza l'ordine
del giorno per avere un certo risultato
• ciclicità delle decisioni
Preferenze unimodali vs. preferenze bimodali
Un individuo ha preferenze unimodali se, man
mano che si allontana dall'esito che preferisce, il
suo beneficio cala costantemente; ha preferenze
bimodali se, allontanandosi dalla soluzione che
preferisce, il suo beneficio prima cale e poi
aumenta di nuovo
Cosimo e Giorgio: preferenze unimodali
Eliana: preferenze bimodali

Il teorema dell’elettore mediano


L’elettore mediano è l’individuo le cui preferenze occupano la posizione intermedia nell’insieme
delle preferenze di tutto il gruppo, cioè metà degli elettori vorrà una quantità maggiore di quel bene
rispetto all’elettore mediano e l’altra metà ne vorrà una quantità minore (se ipotizziamo di mettere a
votazione solo la quantità di bene da produrre).
Il teorema dell’elettore mediano afferma che se tutte le preferenze sono unimodali, il risultato di
una votazione a maggioranza rifletterà la preferenza espressa dall’elettore mediano.
Passaggio da 0 5 approvato da tutti
Passaggio da 5 a 100 approvato da 4/5
Passaggio da 100 a 150 approvato da 3/5
Passaggio da 150 a 160 non approvato (solo 2/5 votano
sì)

Lo scambio dei voti


Un limite del sistema di votazione a maggioranza semplice è che non consente agli individui di
esprimere quanto stia loro a cuore un certo problema. Il fatto che un votante abbia solo una leggera
preferenza per una delle alternative, oppure ci tenga moltissimo, non influisce sul risultato finale.
Con lo scambio dei voti è possibile però che i votanti riescano a esprimere quanto tengono a una
certa proposta.
Grazie allo scambio dei voti, un gruppo di votanti può formare una coalizione per far approvare,
con un voto di maggioranza, progetti che procurano loro benefici e il cui costo ricade sulla
minoranza.
Il teorema dell’impossibilità di Arrow
Il premio Nobel Kenneth Arrow (1951) ha sostenuto che, in una società democratica, il metodo di
scelta collettiva debba soddisfare i seguenti criteri.
• Deve portare a una decisione, qualunque sia la configurazione delle preferenze dei votanti.
Non deve perciò fallire in caso di preferenze multimodali.
• Deve essere in grado di stabilire una graduatoria tra tutti gli esisti possibili.
• Deve riflettere le preferenze individuali, cioè se gli individui preferiscono A a B, l’ordine di
preferenza della società deve essere lo stesso.
• Deve essere coerente nel senso che, se la proposta A è giudicata preferibile alla proposta B e
la proposta B è giudicata preferibile a C, allora la proposta A deve essere preferita alla
proposta C;
• L’ordine di preferenza che la società assegna alle alternative A e B deve dipendere
esclusivamente dalle preferenze dei votanti riguardo A e B. Esemplificando, l’ordine di
preferenza in cui una società colloca le spese per la difesa e per la cooperazione
internazionale non deve dipendere da come gli individui ordinano queste alternative rispetto
a una terza, per esempio le spese per la ricerca sull’AIDS. Questo criterio viene definito
anche indipendenza delle alternative irrilevanti.
• Non è ammessa la dittatura, nel senso che le preferenze della società non devono riflettere
solo quelle di un singolo individuo.
Nel loro complesso questi criteri sembrano abbastanza ragionevoli, ma la sorprendente conclusione
a cui giunge Arrow è che, in generale, è impossibile trovare un metodo di decisione che li soddisfi
tutti (caso speciale di uno teoremi del logico-matematico Gödel).
Buchanan: aspetto positivo → la formazione di maggioranze è mutevole
La democrazia rappresentativa
Per quanto sinora abbiamo detto sui sistemi di votazione, il punto di partenza è una visione dello
Stato poco realista. Si tratterebbe di un enorme computer che raccoglie le preferenze dei cittadini e
le utilizza come informazioni per produrre decisioni sociali. Lo Stato non ha un interesse proprio, è
neutrale e benevolente. In realtà lo Stato è fatto di individui (politici, giudici, burocrati ecc...) e un
modello realistico di decisione collettiva deve studiare gli obiettivi e i comportamenti di chi ha il
compito di governare. Di seguito, prenderemo in considerazione alcuni modelli di forme di governo
in cui le motivazioni e i comportamenti di chi dirige sono mirati alla massimizzazione dell’interesse
personale.

I politici: il teorema dell’elettore mediano

Bruni: si mette su S e prende i voti a destra


di S e parte di quelli tra S ed M
Bianchi: si mette su M prende i voti a
sinistra di M e parte di quelli tra S ed M
Dows (1957): il politico che intende
massimizzare i voti adotta il programma
preferito dall'elettore mediano
conseguenze: i sistemi bipolari tendono ad
essere stabili verso il centro.

I burocrati: il teorema di Niskanen


Q: output della burocrazia
V: valore a Q dal legislatore
(pendenza di V: utilità marginale
sociale dell’output)
C: costo totale
Obiettivo dei burocrati: massimizzare la
reputazione, il potere o lo status
(funzione del bilancio)
Niskanen (1971) ha sostenuto che nel settore
privato un individuo che vuole rendere più
redditizia l'azienda è incentivato a farlo in
vista di un aumento del salario. L'interesse
dei burocrati, essendo minimo il
miglioramento salariale, è focalizzato su
reputazione, potere e clientalismo
La crescita della spesa pubblica

La crescita della spesa pubblica è stata spiegata in più modi, non necessariamente alternativi.
La prima è che la spesa pubblica è espressione delle preferenze dei cittadini. Supponiamo che la
domanda di beni e servizi pubblici (G) del votante mediano sia funzione del prezzo relativo dei beni
e dei servizi pubblici (P) e del reddito = (I):G=f(P, I). I modi in cui una simile funzione di domanda
porta a un incremento delle percentuali di reddito devolute al settore pubblico sono molti.
1. L’elasticità della domanda rispetto al reddito è maggiore di 1, ovvero che, all’aumentare del
reddito di una certa percentuale, la quantità di beni e servizi pubblici domandati aumenta di
una percentuale maggiore.
2. L'incremento della percentuale di risorse gestite dal settore pubblico può verificarsi se
l’elasticità della domanda rispetto al prezzo di G è minore di 1 e P aumenta nel tempo.
Nell’approccio marxista l’aumento della spesa pubblica è intrinseco al sistema politico: il settore
privato tende alla sovrapproduzione e lo Stato, controllato dai capitalisti, aumenta la spesa per
assorbire questa produzione. Questo avviene in genere aumentando sia le spese militari sia la spesa
per i servizi sociali. Quest’ultima componente servirebbe anche per controllare il malcontento della
classe operaia. Si sostiene, inoltre, che l’aumento della spesa non sia sostenibile finanziariamente e
che lo Stato capitalista sia destinato a crollare. Connessione tra sistema economico e sistema
politico
In antitesi alle teorie che spiegano l’incremento dell’intervento statale come fatto inevitabile, vi
sono quelle che considerano il fenomeno una conseguenza di eventi fortuiti. In periodi “normali” la
spesa pubblica cresce solo moderatamente, ma possono verificarsi eventi esterni, come per esempio
la guerra, che richiedono livelli di spesa pubblica maggiori e nuovi metodi di finanziamento. Al
termine della crisi, però, la spesa pubblica si mantiene al nuovo livello per inerzia. Peacock e
Wiseman hanno spiegato così l’evoluzione della spesa pubblica e hanno definito questo fenomeno
effetto dislocazione.
Infine, si sostiene che la spesa pubblica aumenti perché gli individui a basso reddito ricorrono al
sistema politico affinché il reddito venga ridistribuito a loro favore: i politici ottengono i voti di chi
ha un reddito pari o inferiore a quello mediano offrendo benefici che impongono un costo netto a
coloro i cui redditi sono superiori a quello mediano. Finché il reddito medio supera quello mediano,
i politici sono incentivati ad aumentare il grado di ridistribuzione del reddito operato dallo Stato.
Questa teoria ha un limite, in quanto non considera i metodi utilizzati dallo Stato per ridistribuire il
reddito. Se fosse corretta, la maggior parte dei trasferimenti di reddito dovrebbe essere diretta ai
meno abbienti e dovrebbe assumere una forma che massimizzi il loro benessere, cioè, dovrebbe
trattarsi di trasferimenti diretti in contanti. Invece, l’impatto dell’intervento pubblico sulla
distribuzione del reddito non è chiaro e può accadere che la spesa pubblica favorisca le classi di
reddito medio-alto. Esiste infatti un’altra teoria sul ruolo dello Stato nella ridistribuzione del
reddito: Stigler (1970) sostiene che «La spesa pubblica ha come principale beneficiario la classe
media ed è finanziata dalle imposte in massima parte a carico di poveri e ricchi» (nota come legge
di Director).
Questi punti di vista necessariamente non si escludono a vicenda, perché i programmi di
trasferimento a favore di classi di reddito diverse possono senz’altro coesistere, e il
nocciolo della questione è ciò che li accomuna: le coalizioni politiche, i gruppi di interesse
e i burocrati si votano i programmi a vicenda, aumentandone sempre più le dimensioni.
La ridistribuzione del reddito: aspetti teorici

È questione di cui si devono occupare gli economisti?


La prima questione da affrontare è se la distribuzione del reddito rientri nella sfera di competenza
degli economisti, dal momento che non esiste un’opinione generalmente condivisa sull’argomento.
La risposta al quesito su quale dovrebbe essere la “giusta” distribuzione del reddito richiede giudizi
di valore, sui quali non si può trovare un accordo in base a un metodo “scientifico”. Pertanto, alcuni
sostengono che, poiché il dibattito sulle questioni riguardanti la distribuzione del reddito non si può
condurre secondo i criteri di oggettività che caratterizzano l’economia come scienza, gli economisti
dovrebbero limitarsi ad analizzare i problemi sociali esclusivamente in termini di efficienza
(Kristol, 1980). Questo approccio ha due limiti: in primo luogo, la teoria dell’economia del
benessere dimostra che l’efficienza, da sola, non è sufficiente per valutare una data allocazione delle
risorse. Quando si confrontano allocazioni alternative delle risorse devono essere presi in
considerazione criteri diversi dall’efficienza. È possibile sostenere che la discriminante sia
l’efficienza, ma questo è già di per sé un giudizio di valore. In secondo luogo, i politici sono
interessati alle implicazioni in termini di distribuzione del reddito delle loro decisioni. Se gli
economisti eludono la questione, i politici finirebbero per sottovalutare gli aspetti relativi
all’efficienza, decidendo solo in base a criteri di “equità” distributiva.

L’evoluzione della disuguaglianza in Europa


La diffusione della povertà

Analisi della diseguaglianza e analisi della povertà


La prima è volta a misurare la concentrazione delle risorse in una popolazione di riferimento. La
seconda misura il numero delle persone che si trovano in una situazione di deprivazione.
Linea di povertà: linea di reddito considerata sufficiente a garantire i mezzi per soddisfare i
bisogni essenziali.
Divario di povertà: misura quanto reddito bisogna trasferire alla popolazione povera per elevare il
reddito fino alla linea di povertà.
La distribuzione del reddito in Italia

Interpretazione dei dati sulla distribuzione


• Il reddito censito consiste principalmente delle entrate in denaro (sottostimate le entrate in natura)
• Reddito al lordo delle imposte
• Base annua (ideale: reddito permanente)
• Unità di riferimento (famiglia o individuo)
Incidenza della povertà in Italia

La funzione del benessere sociale utilitaristica


Funzione secondo la quale il benessere sociale dipende dalle utilità dei singoli individui.
L’economia del benessere assume che il benessere della società dipenda dal benessere degli
individui che la compongono. Formalmente, se una società è composta da n individui e l’utilità
dell’i- esimo individuo è Ui con i = 1, ..., n, il benessere sociale, W, sarà una funzione (·) delle
utilità individuali:
W = F (U1, U2, ..., Un)
L’Equazione sopra riportata viene talvolta chiamata funzione del benessere sociale utilitaristica,
in quanto viene messa i1n relazione con le teorie dei filosofi utilitaristi del XIX secolo. Data questa
funzione del benessere sociale, una variazione di una qualunque Ui accresce W: qualunque
cambiamento migliori la condizione di un individuo, senza peggiorare quella di un altro, accresce il
benessere sociale.

La funzione del benessere sociale utilitaristica additiva


Funzione che definisce il benessere sociale come somma delle utilità individuali.
Qual è la posizione degli utilitaristi in relazione alla ridistribuzione del reddito da parte dello Stato?
Il reddito va ridistribuito a condizione che W aumenti. Per capire meglio, consideriamo un caso
particolare dell’equazione sopra illustrata, ossia una funzione del benessere sociale additiva:
W = U1 + U2, + ... + Un
Se l’obiettivo dello Stato è quello di massimizzare il
valore di W, può ottenere questo risultato aumentando
le risorse di uno qualsiasi degli individui coinvolti, non
necessariamente del più povero. Per questo si dice
anche che la funzione del benessere sociale utilitaristica
addittiva è neutrale da un punto di vista distributivo.
W = U1 + U2, + ... + Un
se esistono solo 2 agenti:
W = UPiero + UPaolo
Per cui dato W
UPiero = W – UPaolo
La pendenza della curva del benessere
sociale ha intercetta W e pendenza – 1
L’utilità di tutti gli individui ha lo stesso peso
Pendenza negativa e pari ad uno in valore assoluto
Se, in valore assoluto > 1 Utilità di Paolo vale di più
L’opposto se la pendenza in valore assoluto fosse < 1
Questa funzione del benessere sociale ci consente di ottenere risultati non neutrali da un punto di
vista distributivo solo se introduciamo alcune assunzioni ulteriori. In particolare se assumiamo che:
1. tutti gli individui abbiano funzioni di utilità identiche che dipendono soltanto dal loro
reddito;
2. queste funzioni di utilità presentino un’utilità marginale del reddito decrescente, ossia man
mano che il reddito di un individuo aumenta, il suo benessere cresce, ma in misura sempre
minore;
3. la quantità totale del reddito disponibile sia fissa allora la distribuzione che massimizza W è
quella che assegna a ciascun individuo una quota eguale di risorse.

OO' = reddito disponibile (insieme combinazioni redistribuzione del


reddito) l* = massimo valore del benessere sociale
Plausibilità delle ipotesi
• Persone diverse possono avere funzioni di utilità diverse (ammesso che possano essere
costruite). N.B. Prescrizione etica: lo stato deve comportarsi come se tutti avessero la
stessa funzione di utilità rispetto al reddito;
• Non è detto che l’utilità marginale rispetto al reddito sia decrescente (se fosse costante a
seguito di un trasferimento di reddito – a prescindere dalla dotazione iniziale – la perdita di
utilità di Piero sarebbe esattamente uguale all’aumento di quella di Paolo) La somma delle
utilità non dipenderebbe dalla distribuzione del reddito e l’intervento pubblico non si
giustificherebbe in termini di accrescimento del benessere della collettività;
• Variazioni della distribuzione del reddito potrebbero modificare il reddito complessivo
alterando gli incentivi.

Il criterio del maxmin


Un criterio alternativo di giustizia distributiva è il criterio del maxmin, rappresentato dalla
seguente funzione: W = minimo (U1, U2, ..., Un)
In questo caso, il benessere della società dipende unicamente dall’utilità dell’individuo che sta
peggio di tutti. Si parla di criterio del maxmin
(massiminimo) perché la collettività ha come
obiettivo la massimizzazione dell’utilità
dell’individuo con il minimo livello di utilità.
Questo criterio è stato introdotto dal filosofo
Rawls nel suo libro intitolato The Theory of
Justice.
Ha il fine di perseguire la perfetta uguaglianza
nella distribuzione del reddito, accenttando le
disparità che servono ad accrescere l'utilità delle
persone che stanno peggio.
La tesi si basa sul concetto situazione iniziale:
una condizione immaginaria nella quale tutti i
cittadini non sanno quale sarà il loro status
sociale, quindi le loro opinioni sulla
redistribuzione del reddito sono neutre
W aumento passando a A a C

Funzione del Benessere Cobb-Douglas (convessa; ved. Lezione 4)


a 1 −a
W =U Paolo U Pietro

più in generale:

dove: a1+a2 +a3 +...+an=1


utilità marginali decrescenti dipendenti dalle dotazioni relative
Altri criteri
• Distribuzione del reddito Pareto efficiente: nel caso di individui altruistici, per i quali
l'utilità non dipende solo dal reddito, l’utilità di un individuo dipende sia dal proprio reddito
che da quello di qualcun altro (es. più povero). Per cui una redistribuzione può risultare
efficiente (es. un euro di carità);
• Egualitarismo nella dotazione di alcuni beni (Tobin, 1970): idea per cui tutti devono avere
una certa disponibilità di alcuni beni.
• Diseguaglianza e mobilità sociale

Incidenza della spesa pubblica sulla distribuzione del reddito


1. Stima degli effetti sui prezzi relativi: un qualsiasi intervento pubblico innesta una serie
di variazioni di prezzo che influiscono sul reddito degli individui.
Di solito si assume che una data politica abbia l’effetto più rilevante sui destinatari (in genere è
così).
2. Beni pubblici
3. Trasferimenti in natura vs trasferimenti monetari

Beni pubblici e distribuzione del reddito


Una buona parte della spesa pubblica è destinata al finanziamento di beni pubblici, ossia a quei beni
che possono essere consumati contemporaneamente da più di una persona. Come noto, in questo
caso i consumatori non sono incentivati a rivelare quanto valutano i beni pubblici, ma se non
conosciamo il valore attribuito a questi beni, come possiamo stabilirne l’effetto sulla distribuzione
del reddito? In termini monetari, di quanto è aumentato il reddito di ciascuna famiglia? Tutte le
famiglie ne hanno tratto beneficio in ugual misura? Se non è così, i poveri ne hanno tratto minor
beneficio dei ricchi, o viceversa?
Dare una risposta definitiva a questi interrogativi è praticamente impossibile.

Trasferimenti in natura vs. trasferimenti monetari


Spesso si pensa che i trasferimenti in natura siano programmi rivolti agli individui dal reddito più
basso e si pensa esclusivamente all’edilizia popolare e alle pensioni sociali. Tuttavia, anche le
persone delle classi medio-alte traggono vantaggio dai trasferimenti in natura: l’istruzione e
l’assistenza sanitaria pubblica sono i due esempi più evidenti. A differenza dei beni pubblici puri,
istruzione e sanità sono beni consumati in diversa misura dai diversi individui e stimarne il valore
per i diretti destinatari è difficile; così come non è semplice stabilire se siano più opportuni
trasferimenti in denaro o in natura. Certo è che l’effetto dei trasferimenti in natura e in denaro è
diverso a seconda delle preferenze individuali.
Un trasferimento in natura
determina un livello di utilità
inferiore rispetto a un trasferimento
in contanti.
AB = retta di bilancio
E1 = paniere che massimizza l'utilità
un intervento in natura sposta
AB a destra, ottenendo AFD
F = nuovo paniere che massimi
l'utilità
un intervento in contanti sposta
AD in alto, ottenendo HD
E3 = paniere che massimizza
l'utilità (curva di indifferenza più
alta)

un trasferimento in natura può


anche determinare lo stesso
livello di utilità rispetto un
trasferimento in contanti.
AB = retta di bilancio
E4 = max utilità
trasferimento in natura crea la
nuova retta di bilancio AFD e
sposta in E5 la max utilità
E5 è anche sulla retta di
bilancio HD, derivata da un
trasferimento in contanti.
La spesa sanitaria e gli interventi in caso di disoccupazione

La spesa per la protezione sociale in Europa


Una delle voci più importanti della spesa pubblica in Europa è la spesa per la protezione sociale (in
rapporto al PIL nel 2006 era pari al 25,7 % per l’Europa a 27). Si tratta anche della voce di spesa
maggiormente discussa nel corso degli ultimi anni e provvedimenti per il suo contenimento sono
stati adottati da un po’ tutti gli Stati. In Italia il rapporto spesa sociale-PIL è in linea con la media
europea (25,7%) e la differenza principale con gli altri Paesi è il peso degli interventi a protezione
della vecchiaia, ossia la spesa previdenziale.

Le ragioni dell’intervento pubblico in sanità


Come già ricordato, i servizi sanitari non sono beni pubblici puri, in quanto escludibili e rivali. A
proposito dell’intervento pubblico nella sanità è utile distinguere tra motivazioni di efficienza e
motivazioni di equità. Nel primo caso si tratta di correggere un fallimento del mercato, nel secondo
caso di interventi sulla distribuzione delle risorse finalizzati ad assicurare alcuni diritti alla persona.

Servizi sanitari e mercati assicurativi


Per cogliere alcune delle peculiarità del mercato dell’assistenza sanitaria è essenziale capire il ruolo
che in questo settore possono svolgere le assicurazioni. L’assicurazione è la soluzione privata
all’assistenza sanitaria e funziona in questo modo:
• l’acquirente versa una somma di denaro, che prende il nome di premio assicurativo, alla
compagnia di assicurazione;
• la compagnia di assicurazione accetta di erogare una somma di denaro all’assicurato qualora
dovesse verificarsi un evento sfavorevole che interessa la sua salute, come nel caso di una
malattia.
Il valore atteso
Consideriamo il caso di Emilia, che ha un reddito annuo di 50.000 euro; supponiamo che vi sia una
possibilità su 10 che si ammali in un dato anno e che il costo della malattia (in termini di spese
mediche e tempo perso al lavoro) ammonti a 30.000 euro.
Per valutare le opzioni di Emilia, dobbiamo capire il concetto statistico di valore atteso, ossia la
somma che un individuo può aspettarsi di ricevere “in media” quando si trova di fronte a esiti
incerti. Dal punto di vista algebrico:
Valore atteso (VA) = (probabilità dell’esito 1 * indennizzo nell’esito 1) + (probabilità dell’esito 2
*indennizzo nell’esito 2)

Esempio
12 euro se pescate picche
- 4 euro se pescate un altro colore

VA = 1⁄4 * 12 + 3⁄4 * – 4 = 0

Le due opzioni di Emilia

VA (opzione 1) = 9/10 * 50000 €+ 1/10 * 20000 € = 47000


€ Premio equo: 9/10 * 0 + 1/10 * 30000 € = 3000 €
Premio equo: Valore atteso della perdita della compagnia (per cui se il premio è pari a questo valore
la compagnia «break even»
Esempio: da 10 persone la compagnia ottiene 30000 di premi di assicurazione e se le previsioni
sono rispettate paga 30000 alla persona che si è ammalata
N.B. Nell’opzione 2 Emilia riceve con certezza sempre 47000 euro
Nell’opzione 1 Emilia riceve 47000 euro in media
Concetto di utilità attesa
È l'utilità media rispetto a tutti i possibili
esiti incerti, calcolata ponderando
l'utilità di ciascun esito per la probabilità
che esso si verifichi.
Utilità attesa (UA) di Emilia =
9/10 U(€50000) + 1/10 U(€20000)
UC sul grafico

Perché si acquistano
assicurazioni?
A si ammala
B non si ammala
C non è assicurata
D è assicurata
Risk smoothing: è la pratica di versare
una somma di denaro per garantirsi un
risarcimento qualora dovesse verificarsi un evento sfavorevole.
Il reddito atteso di Emilia è lo stesso sia che acquisti un'assicurazione al premio equo (D) sia che
non acquisti l'assicurazione (C) Tuttavia dato che il suo reddito ha un'utilità marginale decrescente,
l'utilità associata alla somma certa è superiore.

Perché si acquistano assicurazioni con premi più alti di quelli equi?


Premio non ‘equo’ pari a
4000. Caso 1.
Più avversa al rischio
Disposta a pagare un premio
fino a 3500.
Quindi non sottoscrive
......dipende tutto dall’avversione al rischio
Premio non ‘equo’ pari a 4000.
Caso 2.
Più avversa al rischio
Disposta a pagare un premio fino a 10000.
Quindi sottoscrive
Quota di ricarico 4/3 =1,33

Ma torniamo alla nostra domanda iniziale: che cosa ha di speciale questo mercato? Dopotutto, dato
che esiste un incentivo a fornire assicurazioni sanitarie (in un mercato concorrenziale, le quote di
ricarico consentono agli assicuratori di ottenere un profitto normale), perché c’è bisogno di un
intervento da parte del settore pubblico?

Uno dei limiti del mercato assicurativo


Uno dei limiti del mercato assicurativo nasce da un fallimento di mercato a cui abbiamo già
accennato, ossia l’informazione asimmetrica, che si produce quando una delle parti coinvolte in
una transazione dispone di informazioni che l’altra non possiede.
VA (rischio basso) = 9/10 * 50000 € + 1/10 * 20000 € = 47000
€ Perdita di reddito attesa 3000
VA (rischio alto) = 4/5 * 50000 €+ 1/5
* 20000 € = 44000 €
Perdita di reddito attesa 6000
Informazione asimmetrica

La selezione avversa
La selezione avversa si verifica quando un assicuratore stabilisce un premio sulla base del rischio
medio di una popolazione, ma gli individui con rischio basso non acquistano la polizza assicurativa,
con la conseguenza che l’assicuratore perde denaro. Ma non è tutto: se persone in buona salute
decidono di non acquistare l’assicurazione, il premio medio praticato dall’assicurazione non è più
sufficiente per recuperare gli indennizzi attesi per le restanti persone; dovrà quindi per forza
innalzare il premio.
In breve, se una compagnia assicurativa è in possesso di una quantità minore di informazioni circa i
rischi di malattia dei suoi clienti rispetto ai clienti stessi, qualsiasi premio stabilito per coprire il
livello di rischio medio potrebbe indurre le persone con rischio più basso ad abbandonarla. Gli
individui che avrebbero potuto beneficiare dell’assicurazione a un premio equo scelgono di non
sottoscrivere l’assicurazione e l’intero mercato potrebbe smettere di funzionare. Questo fenomeno
viene talvolta descritto con l’espressione piuttosto colorita di spirale della morte. Tuttavia
l’avversione al rischio può indurre all’acquisto di polizze non eque.
Nel contesto delle assicurazioni sanitarie, le assicurazioni possono selezionare i loro clienti e far
pagare loro premi diversi sulla base dei profili di rischio, una pratica nota con il termine experience
2
rating [aumenta l’efficienza]. Il miglioramento dell’efficienza che si ottiene se si ricercano
informazioni migliori può avere serie implicazioni dal punto di vista equitativo. Infatti, coloro che
sono geneticamente predisposti per certe malattie dovrebbero pagare molto di più per ottenere
un’assicurazione, mentre probabilmente chi soffre di patologie croniche non verrebbe coperto da
nessuna assicurazione. In questo caso l’intervento dell’operatore pubblico è l’unica possibile
modalità di correzione di questo fallimento del mercato, perché può risolvere il problema o
fornendo una copertura assicurativa sanitaria per l’intera popolazione (o per una parte di essa) o
3
rendendo la sottoscrizione obbligatoria e stabilendo dei premi uniformi. Community rating : tutti
pagano la stessa quota (chi è più a rischio viene finanziato da chi lo è meno) [aumenta l’equità]
2 Pratica che consiste nel far pagare diversi premi assicurativi sulla base di indicatori del rischio
individuale dell'acquirente.
3 Pratica che consiste nel fare pagare lo stesso premio assicurativo a individui che rientrano in diverse categorie di
rischio, al fine di finanziare le persone con rischio elevato con i premi delle persone a basso rischio
Assicurazione obbligatoria e azzardo morale
L'azzardo morale è un fallimento dello Stato dovuto al fatto che la parte meno informata non è
in grado di controllare i comportamenti della parte più informata.
L’assicurazione può avere effetti distorsivi sul comportamento individuale. Se gli individui sanno di
poter contare su una copertura assicurativa, possono non prendere le precauzioni necessarie a
evitare i rischi o chiedere più servizi sanitari di quanti non ne chiederebbero se non fossero
assicurati. Anche in questo caso si tratta di una asimmetria informativa che si verifica dopo che il
contratto è stato stipulato e che esiste in quanto il controllo sul comportamento dell’assicurato ha
sempre un costo per l’assicurazione.

Azzardo morale e crescita della spesa sanitaria


Coassicurazione = 20%
Dm = domanda servizi sanitari
P0 = costo marginale
produzione servizi sanitari
P0aM00 = costo totale
coassicurazione al 20% =>
riduzione 80% prezzo sanitari
j = costo marginale
jhM10 = costo totale del paziente
P0bM10 = costo totale

Azzardo morale e il terzo pagante


Lo Stato può migliorare il trade off o eliminare del tutto l’azzardo morale?
I problemi di efficienza causati dall’azzardo morale nascono ogni qualvolta sono terzi a finanziare
in parte, o completamente, il costo dei servizi medici. Nell’esempio precedente, i terzi sono
rappresentati da una compagnia assicurativa privata che copre l’80% del costo marginale. Quando è
lo Stato a fornire l’assicurazione, il Bilancio pubblico è il così detto “terzo pagatore”, ma l’analisi
dell’azzardo morale è esattamente la stessa.
Un altro aspetto critico del mercato dell’assistenza sanitaria è che gli individui potrebbero non
essere ben informati sui servizi che acquistano: capire qual è la cura migliore per il cancro ai
polmoni è un’operazione molto più complessa, per esempio, rispetto a scegliere un lettore MP3. Al
paziente non resta dunque che affidarsi all’esperienza del proprio medico.
È difficile pensare a un altro mercato nel quale i consumatori devono fidarsi così tanto dei consigli
della persona che vende loro il servizio. La mancanza di informazioni da parte dei pazienti sta alla
base di molti interventi pubblici. Per esempio in l’Italia, come in numerosi altri paesi, chi vuole
esercitare la professione medica è tenuto a iscriversi a un albo, che è lo strumento con cui l’autorità
pubblica verifica, e fornisce al pubblico la relativa garanzia, che chi vuole esercitare abbia compiuto
il percorso di studi necessario a farlo.

Il consumo di servizi e le esternalità


Un libero mercato per l’assicurazione sanitaria può comportare delle inefficienze anche in assenza
di informazione asimmetrica. L’acquisto di servizi medici può creare delle esternalità, sia positive
sia negative. Vaccinandosi contro l’influenza, si crea un’esternalità positiva in quanto si riduce la
probabilità che anche altri vengano infettatati dalla malattia. D’altra parte, se si fa un uso eccessivo
di antibiotici, per cui si sviluppano nuovi ceppi di batteri immuni, anche altri ne subiranno le
conseguenze negative. Come già evidenziato, in presenza di esternalità l’intervento pubblico può
migliorare l’efficienza.

Il paternalismo
Gli individui potrebbero non comprendere l’utilità della copertura assicurativa, o non essere
abbastanza lungimiranti da premunirsi in tempo. Gli argomenti paternalisti suggeriscono che gli
individui dovrebbero essere costretti, per il loro bene, ad acquistare un’assicurazione sanitaria. Più
in generale, chi sostiene l’intervento pubblico nella produzione e/o fornitura di beni sanitari con
argomentazioni di tipo equitativo ritiene che il diritto alla cura rientri tra i diritti di cittadinanza e
che vada quindi garantito a tutti. Quando si dice garantito a tutti, si intende indipendentemente dal
livello di reddito, dalle condizioni di salute o dal luogo di residenza. Che il diritto alla cura debba
essere garantito indipendentemente dal livello di reddito è un’argomentazione che può essere
compresa tornando alle teorie dell’egualitarismo dei beni. In questo approccio, l’uguaglianza non è
garantita dalla distribuzione del reddito, bensì dall’assicurare a tutti alcuni beni primari, tra cui
rientrano senza dubbio l’alimentazione e le cure mediche. Il sistema sanitario pubblico garantisce
una maggiore capillarità

Il sistema sanitario in Italia


La spesa pubblica per i servizi sanitari in Italia era pari al 14,89% della spesa sociale nel 1992, è
scesa al 12,78% nel 1997 ed è tornata al 15,92% nel 2008. In rapporto al PIL, è passata dal 5,77%
del 1992 al 5,01% nel biennio 1997-1998, per superare il 6% nel 2006.

L’istituzione del servizio sanitario nazionale


Il servizio sanitario nazionale (SSN) è stato introdotto in Italia la l. n. 833/1978. In linea con le
argomentazioni di tipo equitativo a cui abbiano appena fatto cenno, e con l’articolo 32 della
Costituzione, che riconosce il diritto alla salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse
per la collettività, l’obiettivo era quello di adottare un servizio universale, ossia diretto a tutti
indipendentemente dal livello di reddito, dalla condizione occupazionale e professionale, superando
la base mutualistica del sistema precedente.
Nel disegno iniziale i responsabili del SSN erano tre livelli di governo:
• il Governo centrale doveva individuare gli obiettivi in un Piano sanitario nazionale,
stanziare il Fondo Sanitario Nazionale (FSN) sul Bilancio dello Stato e decidere come
ripartirlo tra le Regioni;
• le Regioni programmavano l’intervento sul territorio;
• le USL gestivano i servizi, compresa l’assistenza ospedaliera.
La riforma del SSN
Nel corso dell’ultimo decennio il sistema sanitario italiano è stato sottoposto a importanti riforme.
Perché? Quali sono gli aspetti maggiormente criticati del suo funzionamento?
Guardando alle risorse assorbite dal SSN, nel 1978 (al momento della sua istituzione) queste
rappresentavano il 5,2% del PIL e nel corso di un quindicennio sono aumentate meno di un punto
percentuale. Non potendo dire che la spesa sanitaria cresceva in maniera incontrollata, la riforma è
stata invocata sia perché le risorse non sempre sono state impiegate in modo efficiente sia perché
per poter aderire all’Unione Monetaria Europea era comunque necessario contenere la spesa
pubblica. La riforma, iniziata con i decreti legislativi n. 502/1992 e n. 517/1993 e completata con i
decreti legislativi n. 229 /1999 e n. 56/2000, è intervenuta principalmente sul sistema di
finanziamento del SSN e sul modello organizzativo.

Le modalità di finanziamento
Poiché circa l’80% dei bilanci delle Regioni italiane è rappresentato dalla spesa sanitaria, la sua
modifica altro non è che una riforma del finanziamento delle Regioni. Tale riforma è più
comunemente nota come federalismo fiscale. Le modifiche intervenute in questi anni sono state
fatte sia con legge ordinaria sia intervenendo sul testo costituzionale (in particolare sul Titolo V).
Il finanziamento del SSN adottato negli anni ’80 e primi anni ’90 in Italia è un tipico esempio di
sistema che non incentiva comportamenti responsabili da parte degli amministratori e che rende
difficile una corretta percezione dei costi dei servizi da parte dei cittadini. Le risorse erano gestite
localmente dalle USL, mentre la responsabilità di reperirle era degli amministratori centrali. Da un
lato, quindi, i funzionari delle USL non erano incentivati a un controllo rigoroso della spesa, perché
l’onere politico di reperire il finanziamento non era a carico loro. D’altra parte, gli stanziamenti del
Fondo Sanitario Nazionale decisi dagli amministratori centrali non sempre erano adeguati. Così si
formavano debiti presso i fornitori e le banche che lo Stato ripianava solo a posteriori. Gli
stanziamenti del FSN non sono mai stati adeguati perché la loro sottovalutazione permetteva ai
Governi di presentare in Parlamento, e presso l’opinione pubblica, un fabbisogno delle pubbliche
amministrazioni ridotto.
Nel biennio 1999-2000 è stato abolito il FSN ed è stato stabilito che le Regioni siano finanziate con:
4
• i tributi propri , ovvero l’IRAP (imposta regionale sulle attività produttive) e l’addizionale
all’IRPEF (imposta sul reddito delle persone fisiche);
5
• una compartecipazione al gettito dell’IVA , peraltro non vincolata alla spesa sanitaria
(fondo perequativo basato sulla spesa storica).

La separazione tra chi fornisce e chi acquista le prestazioni


Dal punto di vista della gestione, è stato introdotto il principio della separazione tra chi fornisce
la prestazione e chi le acquista. La separazione di queste due fasi dovrebbe allargare gli spazi della
concorrenza tra fornitori (incentivando i miglioramenti in termini di efficienza), aumentare e
diversificare l’offerta. Questo obiettivo è stato perseguito sostituendo le vecchie USL con le ASL,
che possono fornire direttamente il servizio oppure decidere di acquistare le prestazioni da privati.
Con il termine “privati” s’intendono le strutture autorizzate a operare sul territorio perché i servizi
da loro offerti sono stati considerati rispondenti a criteri minimi di qualità. Detto altrimenti, i privati
da cui le ASL possono acquistare le prestazioni sono strutture che, in base alla normativa regionale,

4 Tributi il cui gettito è destinato a un dato livello di governo il quale ha l'autonomia di stabilire le aliquote se
non anche la base imponibile
5 Forma di finanziamento di un livello inferiore tramite la destinazione di una quota del gettito di un tributo destinato
ad un livello superiore.
sono accreditate o in convenzione. Le prestazioni fornite dalle strutture ospedaliere e da quelle
6
private vengono pagate dalle ASL in base ai DRG. Con i DRG (Diagnostic Related Group) , il
pagamento avviene in base alla diagnosi che viene formulata all’inizio della cura; ogni diagnosi
colloca le cure in un certo gruppo al quale corrisponde l’importo che la struttura ha diritto a
percepire. Questo metodo cerca di contenere la spesa limitando la discrezionalità del medico ed è
efficace se i DRG sono calcolati in maniera sufficientemente articolata e se esiste una forma di
controllo per verificare che le diagnosi non siano formulate ad hoc.

Quali vantaggi e quali rischi pone il nuovo sistema ?


A proposito del finanziamento, il ricorso ai tributi regionali, l’abolizione del FSN e la sua
sostituzione con la compartecipazione all’IVA sono interventi che hanno richiesto lunghe
negoziazioni per essere applicati, hanno subìto rallentamenti nel percorso tracciato dal legislatore,
ma vanno sicuramente nella direzione di una maggiore responsabilizzazione degli amministratori
regionali. Il finanziamento con risorse proprie regionali della spesa sanitaria ha però un limite
importante: le risorse sul territorio italiano sono distribuite in maniera piuttosto difforme e il rischio
che si corre è che la capacità di fornire servizi sanitari diventi molto differenziata tra Regioni. Se si
considera l’ampio potere legislativo attribuito alle Regioni su questa materia dalla modifica
intervenuta nel 2001 al Titolo V della Costituzione (e, in particolare, dal nuovo art. 117), sono
evidenti le ragioni di chi sostiene che sia stata compromessa la natura universale del SSN.
Questa precisazione ci permette di capire meglio il senso dell’espressione Livelli Essenziali di
Assistenza e il perché delle lunghe discussioni che hanno accompagnato in questi anni la stima del
fabbisogno finanziario regionale. I livelli essenziali di assistenza sono definiti tali in quanto
necessari per rispondere ai bisogni fondamentali di tutela della salute della persona. Detto
altrimenti, un’interpretazione possibile della volontà del legislatore (espressa nel d.lgvo 229/1999) è
quella che si siano voluti responsabilizzare gli amministratori regionali nel finanziamento e
nell’erogazione dei trattamenti eccedenti i livelli essenziali, mantenendo però tali livelli come base
della stima del fabbisogno finanziario delle diverse Regioni e dell’operazione di perequazione. La
garanzia di tali livelli essenziali dovrebbe essere quindi lo strumento ideato per continuare ad
assicurare a tutti i cittadini italiani il diritto alla salute, come previsto dall’art. 32 della Costituzione,
indipendentemente dalla regione di residenza.

L’assicurazione contro la disoccupazione


L’obiettivo dell’assicurazione contro la disoccupazione è reintegrare il reddito perso dal lavoratore
che rimane disoccupato. Perché l’assicurazione contro la disoccupazione dovrebbe essere fornita
dallo Stato?
Abbiamo già spiegato che in presenza di selezione avversa e azzardo morale i mercati privati non
forniscono la quantità efficiente di assicurazione. La disoccupazione soddisfa entrambe queste
condizioni. La domanda di assicurazione contro la disoccupazione proviene soprattutto dai
lavoratori con un’elevata probabilità di restare disoccupati (selezione avversa). Per ottenere un
profitto, le compagnie di assicurazione private che forniscono questo tipo di copertura devono far
pagare un premio relativamente elevato, scoraggiando in tal modo molti potenziali acquirenti.
D’altra parte, i lavoratori coperti da assicurazione contro la disoccupazione potrebbero comportarsi
in modo tale da restare più facilmente disoccupati (azzardo morale). Poiché l’assicuratore non è in
grado di stabilire se il licenziamento sia stato causato dal comportamento del lavoratore, le
compagnie private potrebbero ritrovarsi a pagare ingenti somme di denaro a causa di richieste di
indennizzo da parte di persone che sarebbero in grado di lavorare.
6 Sistema di classificazione delle diagnosi che permette di inserire ciascun intervento di cura in un gruppo più ampio
al quale corrisponde corrisponde un dato ammontare di risorse di tempo impiegato presso la struttura che la
fornisce, per assegnare i finanziamenti.
Un programma assicurativo pubblico obbligatorio evita la selezione avversa ma non elimina
l’azzardo morale. Poiché la domanda se i sussidi di disoccupazione riducano l’impegno nella
ricerca di un lavoro e lo sforzo nel mantenerlo, facendo aumentare la dipendenza dallo Stato, ha
dominato per anni il dibattito sul welfare, analizzeremo ora in che modo un programma di
assistenza temporanea incide sulle scelte relative al lavoro dei soggetti interessati.

I trade off fondamentali


R = reddito
G = sussidio di base (R = 0)
t = tasso a cui G viene ridotto quanto R
aumenta
B = sussidio ricevuto (ovvero costo del
programma)
B = G – tR
Notiamo che:
B = 0 per R = G/t o per valori superiori

1. dalla prima espressione: dati B ed R, se G aumenta, t aumenta


2. dalla seconda espressione, con B = 0 e dato G, se t diminuisce allora R diminuisce
Esempio: G = 500, t = 0,25 (B = 0 per R = 2000)
Esempio: G = 100, t = 0,25 (B = 0 per R = 400)
La scelta tra lavoro e tempo libero (in assenza di sussidio

R = wT – wtl
R = reddito mensile
w = salario orario
T = dotazione di tempo

tl = tempo libero
Il vincolo di bilancio in presenza di un sussidio di disoccupazione

Vincolo di bilancio con


sussidio (tratto SQ)
R' = 0,75wT + 100 –
0,75wtl V = T – 400/w
S = 400
nel punto di coordinate (V,S)
Marghetrita percepisce lo reddito
indipendentemente dall'esistenza del
programma di sussidi o meno.

più in generale:
R′ = R + B = R + G − tR = (1 − t ) R + G
= (1 − t )( wT − wtl ) + G
= (1 − t ) wT + G − (1 − t ) wtl
Inoltre:
B = 0 ⇒ G − tR = 0
⇒ G − t ( wT − wtl ) = 0
⇒ tl = T − G /tw
⇒R=G/t
Sussidi e imposte: il funzionamento congiunto

In questo caso: R′ = G = 400


un valore di T = 100% => disincentivo a lavorare

Gli interventi in caso di disoccupazione in Italia


In Italia il dibattito per una riorganizzazione dei diversi interventi in caso di disoccupazione è
piuttosto vivace e strettamente connesso alle modifiche intervenute nel mercato del lavoro.
I due interventi più importanti sono gestiti dall’INPS e sono l’indennità ordinaria di
disoccupazione e la cassa integrazione guadagni. La prima spetta ai lavoratori che si
siano licenziati e che abbiano almeno due anni di assicurazione per la disoccupazione
involontaria, o almeno 52 contributi settimanali nel biennio precedente la data di
cessazione del rapporto di lavoro. Ha durata di 6 mesi ed è corrisposta nella misura del
40% della retribuzione percepita nei tre mesi precedenti la cessazione del lavoro, nei limiti
di un importo massimo mensile. La cassa integrazione guadagni è un intervento a
sostegno delle imprese in difficoltà che garantisce al lavoratore un reddito sostitutivo della
retribuzione. Spetta agli operai, impiegati e quadri delle aziende industriali in caso di
sospensione o riduzione dell’attività produttiva dovuta a eventi temporanei non imputabili
all’imprenditore o ai lavoratori. È pari all’80% della retribuzione e viene corrisposta per un
massimo di 13 settimane, prorogabili a 12 mesi e, in determinati casi, fino a 24.

Analisi delle imposte

Tassazione e distribuzione del

reddito Partiamo da un esempio


Supponiamo che il prezzo di una bottiglia di vino sia pari a 10 euro. Lo Stato introduce un’imposta
di 1 euro alla bottiglia, che viene pagata dal produttore ogni volta che viene venduta una bottiglia.
In prima approssimazione si potrebbe concludere che il produttore paga l’imposta.
Immaginiamo però che, a seguito dell’introduzione dell’imposta, si verifichi un aumento del prezzo
della bottiglia a 11 euro: il produttore riceve lo stesso importo per bottiglia che otteneva prima
dell’imposta e la sua condizione non è peggiorata. Al contrario, i consumatori pagano l’intera
imposta sotto forma di prezzi più elevati.
Supponiamo ora che dopo l’imposta il prezzo aumenti solo a 10,30 euro. In questo caso, il
produttore trattiene solo 9,30 euro per ogni bottiglia venduta: il suo benessere è peggiorato di un
importo pari a 70 centesimi alla bottiglia. Tuttavia, anche i consumatori si trovano in condizioni
peggiori perché devono pagare 30 centesimi in più alla bottiglia. In questo caso, sia i produttori sia i
consumatori sopportano l’onere di imposta.

Incidenza legale, incidenza economica e traslazione dell’imposta


L’incidenza legale indica il soggetto che è giuridicamente tenuto al pagamento dell’imposta: da
questo punto di vista i due casi appena presentati sono identici perché l’incidenza legale gravava
sempre sul produttore. Poiché i prezzi possono variare in seguito all’introduzione di un’imposta,
l’incidenza legale non fornisce alcuna indicazione su chi versa veramente l’imposta.
Al contrario, l’incidenza economica dell’imposta rappresenta la variazione nella distribuzione del
reddito determinata dalla sua introduzione, ovvero chi ne sopporta effettivamente l’onere. In questo
capitolo ci occuperemo dei fattori che determinano l’entità della differenza tra l’incidenza legale e
quella economica, ossia l’entità della traslazione dell’imposta.

Solo le persone fisiche possono pagare le imposte


Nonostante la maggior parte dei sistemi fiscali preveda la tassazione sia delle persone fisiche sia
delle persone giuridiche, per l’economista solo le persone fisiche (azionisti, lavoratori, proprietari di
immobili, consumatori) sopportano il carico fiscale. Ma se assumiamo che solo le persone fisiche
possano essere gravate dal carico fiscale, come dovrebbero essere classificate queste ultime ai fini
dell’analisi dell’incidenza?
Spesso si fa riferimento al ruolo delle persone fisiche come fornitori di fattori di produzione
(denominati input) del processo produttivo. In altri termini, l’analisi dell’incidenza è condotta
ponendo l’accento sui modi in cui il sistema fiscale modifica la distribuzione del reddito
ripartendolo tra capitalisti, lavoratori e proprietari di immobili, ovvero sulla cosiddetta
distribuzione funzionale del reddito.
Un’impostazione di questo genere può essere antiquata: nell’Inghilterra del XVIII secolo poteva
accadere che i proprietari terrieri non lavorassero mai e che i lavoratori non possedessero mai nulla.
Oggi, nella maggior parte dei Paesi occidentali, molte persone che si mantengono con il proprio
reddito da lavoro possiedono anche libretti di risparmio e/o azioni ordinarie. Analogamente, chi
possiede grandi quantità di capitale lavora a tempo pieno. Pertanto sembra più importante esaminare
come le imposte influiscano sulla distribuzione del reddito totale, cioè sulla distribuzione
quantitativa del reddito.

Le fonti e gli impieghi del reddito


Nell’esempio precedente dell’imposta sulla bottiglia di vino, si può presupporre che gli effetti
distributivi dell’imposta dipendano sostanzialmente dai modelli di spesa degli individui. Se il
prezzo del vino aumenta, tutti coloro che tendono a consumarne molto vedono peggiorare il loro
benessere. Ma se l’imposta riduce la domanda di vino, anche i fattori impiegati nella produzione
possono perdere del reddito.
Il problema dell'incidenza è stabilire come le imposte modificano i prezzi.

Analisi dell’incidenza con il bilancio in pareggio


È l'analisi che considera gli effetti dell'introduzione di un'imposta tenendo conto sia delle risorse
prelevate che delle spese effettuate.
Con l’analisi dell’incidenza con bilancio in pareggio si calcola l’effetto combinato
dell’imposizione fiscale e della spesa pubblica finanziata dalle stesse imposte. In generale, infatti,
l’effetto distributivo finale di un’imposta dipende anche da come la pubblica amministrazione
spende il denaro.

Analisi dell’incidenza differenziale


È l'analisi in termini di distribuzione delle risorse fatta confrontando imposte alternative.
Nella maggior parte dei casi il gettito fiscale non viene accantonato per spese particolari e quindi si
preferisce analizzare come varia l’incidenza quando si sostituisce un’imposta con un’altra, a parità
di entrate per le Amministrazioni Pubbliche. Questo tipo di analisi, denominata dell’incidenza
differenziale dell’imposta, confronta gli effetti sulla distribuzione del reddito di imposte
alternative.

Incidenza assoluta dell’imposta


È l'analisi degli effetti dell'introduzione di un'imposta condotta assumendo che le risorse
prelevate non vengano spese e che l'imposta non ne sostituisca altre.
Infine, con l’analisi dell’incidenza assoluta dell’imposta si esaminano gli effetti di un’imposta,
ipotizzando che non vi siano sostituzioni con altri tributi o variazioni della spesa pubblica. Questo
tipo di analisi è particolarmente interessante per i modelli macroeconomici in cui la variazione dei
livelli impositivi è finalizzata a raggiungere qualche obiettivo di stabilizzazione dell’economia (dei
prezzi e/o del prodotto).

Imposte proporzionali, regressive o progressive


Supponiamo che un ricercatore sia riuscito a calcolare quanto di una data imposta viene realmente
versata da ogni cittadino, ossia quella che in precedenza abbiamo definito l’incidenza economica.
Proprio in base all’incidenza economica l’imposta viene poi definita proporzionale, progressiva o
regressiva.

Due definizioni possibili


Se l’aliquota media (ossia il rapporto tra l’imposta e il reddito) è costante, indipendentemente dal
livello del reddito, l’imposta è proporzionale. Se l’aliquota media aumenta al crescere del reddito,
il sistema impositivo è progressivo; se scende, è regressivo. La confusione generata dalla
definizione di imposta progressiva deriva dal fatto che alcuni definiscono la progressività in termini
di aliquota marginale, ovvero in termini di variazione dell’imposta dovuta, rispetto a una
variazione marginale del reddito

Primo modo per calcolare la progressività di un sistema


La misurazione del grado di progressività di un sistema fiscale è un’operazione ancora più difficile.
Tra le tante, ecco due alternative: secondo la prima, il sistema tributario è tanto più progressivo
quanto maggiore è l’incremento delle aliquote medie al crescere del reddito.
Poniamo che T0 e T1 siano le imposte effettivamente pagate rispettivamente ai livelli di reddito I0 e
I1 (con I1 > di I0). La progressività è data da:
T1−T0 T! T0
v1= I1 I0 dove e sono le aliquote medie
I 1− Io I1 I0
È ritenuto più progressivo il sistema fiscale con il valore dell’indice più alto.

Secondo modo per calcolare la progressività di un sistema


Si può anche affermare che un sistema fiscale è più progressivo di un altro se l’elasticità del gettito
fiscale rispetto al reddito (cioè la variazione percentuale del gettito divisa per quella del reddito) è
più elevata. In questo caso l’espressione da valutare è definita come segue:
T 1−T 0
T0
v2 = I I

1 o

I0

I modelli di equilibrio parziale


Poiché per comprendere come le imposte modifichino la distribuzione del reddito, l’aspetto
essenziale da cogliere è come le imposte producono variazioni dei prezzi relativi, è necessario
capire meglio le modalità di determinazione dei prezzi. Per iniziare analizzeremo modelli di
equilibrio parziale della determinazione dei prezzi, ovvero modelli che considerano unicamente
il mercato in cui viene imposto il tributo e ignorano gli effetti su altri mercati (assunzione tanto più
sensata quanto più è ridotto il mercato in cui si introduce l’imposta rispetto all’economia nel suo
complesso). Il modello che utilizzeremo è quello della domanda e dell’offerta in concorrenza
perfetta.

Un’imposta specifica
Un’imposta specifica è denominata in
questo modo perché è un ammontare
fisso su ogni unità di bene venduto.
Supponiamo che venga introdotta
un’imposta sullo champagne di un euro
al litro. Ipotizziamo, inoltre, che il
prezzo e la quantità di champagne siano
determinati in condizioni di
concorrenza perfetta dall’incontro tra
domanda (Dc) e offerta (Oc), come
illustrato nella Figura. Prima
dell’introduzione del tributo, la quantità
domandata e il prezzo sono Q0 e P0
ripsettivmenr
Un’imposta specifica legalmente a carico dei consumatori
U = imposta
Dc = domanda consumatore
D'c = domanda apparente
Pg = prezzo lordo
Pn = prezzo netto

Un’imposta specifica legalmente a carico dei produttori


U = imposta
Oc = offerta venditore
O'c = offerta apparente

l'incidenza legale non dice nulla circa l'incidenza economica


cuneo fiscale: la differenza prodotta dall'imposta tra il prezzo pagato dai consumatori e quello
ricevuto dai produttori.
Incidenza di un’imposta specifica con offerta anaelastica

Imposta grava per l'intero sui produttori

Incidenza di un’imposta specifica con offerta perfettamente elastica

Imposta grava per l'intero sui consumatori


Incidenza di un’imposta ad valorem
Imposta con aliquota proporzionale al prezzo

Incidenza di un’imposta ad valorem


Se consideriamo non solo i beni scambiabili ma anche i fattori di produzione...

Incidenza di un’imposta sul salario con offerta rigida


L’incidenza economica è determinata solo dalla differenza che l’imposta crea tra la somma ricevuta
dai dipendenti e quella pagata dai datori di lavoro e che dipende dalle elasticità della domanda e
dell’offerta

Un’imposta sul capitale


La strategia per l’analisi di un’imposta sul capitale è la stessa di quella per l’analisi di un’imposta
sul lavoro: si tracciano le curve di domanda e di offerta, si trasla la curva interessata di una somma
che dipende dall’entità dell’imposta e si raffronta l’equilibrio dopo l’imposta con quello originale.
In un’economia chiusa è verosimile ipotizzare che la curva di domanda abbia pendenza negativa
(all’aumentare del prezzo le imprese domandano meno capitale) e che l’offerta di capitale abbia
pendenza positiva (quando aumenta il rendimento del risparmio, le persone forniscono più capitale,
cioè risparmiano di più). In questo caso i detentori del capitale sopportano parte dell’onere
dell’imposta e l’importo preciso dipende dall’elasticità della domanda e dell’offerta.
Diverso è se il capitale è perfettamente mobile perché le economie sono aperte. In questo caso
l’offerta di capitale per un dato paese è perfettamente elastica: i cittadini possono acquistare tutto il
capitale che vogliono al tasso di rendimento corrente a livello mondiale e nessun capitale è
disponibile a un tasso inferiore. Come si vede nella Figura che mostra un’offerta perfettamente
elastica, il prezzo prima dell’imposta pagato dagli utilizzatori del capitale sale di un importo
esattamente uguale all’imposta e i fornitori del capitale non sopportano alcun onere. È facile intuire
che il capitale viene trasferito all’estero solo se è gravato anche parzialmente dall’imposta; di
conseguenza il tasso di rendimento deve aumentare.
A causa della globalizzazione, pur in presenza di capitale non perfettamente mobile, le imposte
possono essere eluse in maniera consistente.
Incidenza di un’imposta in un monopolio
Prima dell'imposta

dopo l'imposta

l'imposta fa diminuire la domanda e il ricavo marginale


Un’imposta sui profitti dell’impresa
Le imprese possono essere tassate non solo sulle vendite, ma anche sul profitto, definito come la
differenza tra i ricavi totali e i costi dei fattori utilizzati nella produzione (denominati anche
sopraprofitti o extraprofitti), ossia il rendimento di quell’attività per il proprietario dell’impresa.
Se le imprese massimizzano i profitti, un’imposta di questo tipo non può essere trasferita ed è
sopportata solo dai proprietari dell’impresa.
Consideriamo un’impresa perfettamente concorrenziale in equilibrio di breve periodo. Il livello di
prodotto dell’impresa è determinato dall’intersezione della curva dei costi e dei ricavi marginali.
Un’imposta con una data aliquota sui profitti non modifica né i costi marginali né i ricavi marginali,
quindi nessuna impresa è incentivata a cambiare la sua decisione di produzione. Poiché il livello di
prodotto non varia, non cambia neppure il prezzo pagato dai consumatori, che perciò non vedono
ridurre il loro benessere. L’imposta è tutta assorbita dalle imprese.

Le imposte nel caso di fattori fissi (I terreni e i fabbricati)


In questo caso si parla di capitalizzazione dell’imposta , ossia di trasferimento dell’onere
dell’imposta sul prezzo di mercato del bene immobile (terreno o fabbricato).
Per capire supponiamo che il canone di affitto annuale della terra sia pari a R 0 euro nell’anno
corrente e sia noto che sarà R1 euro l’anno prossimo, R2 euro fra due anni e così via. Quanto sarebbe
disposto a pagare un individuo per la terra? Se il mercato è concorrenziale, il prezzo è esattamente
uguale al valore attuale del flusso degli affitti. Pertanto, se il tasso di interesse è r, il prezzo della
terra (PR) è: P R =R + R1 + R2 +...+ RT
2 T
0 1+r (1+r ) (1+r )
Immaginiamo che sia annunciata l’introduzione di un’imposta di u 0 euro sulla terra nell’anno
corrente, di u1 euro l’anno prossimo, di u2 euro fra due anni e così via. Essendo la terra un bene a
offerta rigida, il canone annuale ricevuto dal proprietario diminuisce dell’intero importo
dell’imposta. I potenziali acquirenti della terra prendono in considerazione il fatto che, se comprano
la terra, insieme a un flusso futuro di rendite/rendimenti acquistano anche un insieme futuro di oneri
dovuti alle imposte. Pertanto, il massimo che un acquirente è disposto a pagare per la terra dopo
R1−u1 R2 −u2 RT −uT
l’annuncio dell’imposta è: PR =( R0−u0)+ + +...+
2
T
1+r (1+r ) (1+r )
A causa dell’introduzione dell’imposta la perdita di valore della terra sarà pari al valore attuale di
tutti i futuri versamenti delle imposte: u + u1 + u2 +...+ uT
2 T
1+r (1+r )
0 (1+r )
Per via della capitalizzazione l’onere dell’imposta ricade sul proprietario al momento della sua
introduzione.

Valore attuale
Immaginiamo una somma pari ad un euro investita nell’acquisto di titoli annuali che paghino un
interesse pari ad r (es. 0.01 corrispondente all’1%). Dopo un anno la somma viene rimborsata con
l’aggiunta dell’interesse. Dopo un anno il suo valore è diventato 1 + r.
Se questo ammontare venisse reinvestito ad un pari rendimento di r dopo due anni la somma
2
iniziale renderebbe r (1 + r) corrispondendo dopo due anni a 1+ r + r(1+r) = (1+r)(1+r) = (1+r)
3 4
Ripetendo lo stesso ragionamento al terzo anno si otterrebbe (1+r) al quarto (1+r) dopo n anni si
n
avrebbe (1+r)
Si può rovesciare il ragionamento: quanto vale oggi una somma che otterrò fra un anno?
Se questa somma è 1+r tra un anno, oggi il suo valore sarà 1, o alternativamente (1+r)/(1+r).
Altro esempio, per ottenere 150 tra un anno quanto dovrò versare oggi per ottenere quella somma
con un tasso di interesse pari ad r?
Facile: 150/(1+r) . Difatti se investo questa somma tra un anno otterrò 150 (1+r )=150
1+r
Continuando, quanto dovrò investire oggi per ottenere 150 tra 2, 3, ..., n anni?
150 + 150 +...+ 150
2 3 n

(1+r ) (1+r ) (1+r )


Immaginiamo adesso di acquistare un terreno che frutterà un affitto annuale di 150 euro per n anni
(n grande a piacere). Quale sarà il suo valore oggi?
Affitto all’anno zero + Affitto all’anno uno attualizzato ad oggi + affitto all’anno due attualizzato ad
oggi più affitto all’anno tre attualizzato ad oggi + ... + affitto all’anno n attualizzato ad oggi, cioè:
150+ 150 + 150 +...+ 150
(1+r ) (1+r )
2 3
(1+r) n

se r = 0,001 e n = 9 il valore sarà 1434,9


se n = 0,01 e n→∞ il valore sarà 150(1+e )=15150
r
NB nell’esempio del testo l’affitto non è lo stesso ogni anno così come l’imposta.
150
150+ + 150 + 150 +...+ 150
2 3 n
1+r (1+r ) (1+r) (1+r )
150[1+ 1+ 1 + 1 +...+ 1 ]
(1+r )
2 3 n
1+r (1+r ) (1+r )
serie geometrica che converge verso (1+r )
r
2 3
Serie geometriche con infiniti termini e ragione 0 < x < 1 S=1+ x+ x +x ...
2 3 4
xS =x + x + x + x ...
2 3 2 3 4
− xS =1+ x +x +x +...−(x +x + x + x +...)
S
2 3 2 3 4
Sottrai : S −xS =1+ x+ x +x +...−x −x − x −x −...
S − xS=1 1
(1−x )S =1←→S =
1− x
x= 1
Nel nostro caso: 1 1 1+r 1 1+ r
= 1 = =
1−x 1− 1+r −1 r
1+r 1+r

I modelli di equilibrio generale


L’analisi di equilibrio generale prende in considerazione i modi in cui i mercati sono connessi tra
loro.
Ipotesi dei modelli di GE più semplici ; 2 beni di consumo A e M ; 2 fattori produttivi K e

L Esistono quindi 9 imposte ad valorem: tKA, tKM, tLA, tLM, tA, tM, tK, tL, t
Alcune combinazioni sono equivalenti (Charles e McLure Jr.):
L’opera pionieristica nell’applicazione dei modelli di equilibrio generale all’incidenza delle imposte
è di Harberger (1974).
Le principali ipotesi del modello di Harberger sono le seguenti.
• Tecnologia. In ogni settore le imprese utilizzano il capitale e il lavoro per produrre l’output
e le tecnologie impiegate sono a rendimenti di scala costanti. Tuttavia, le tecnologie di
produzione possono variare da settore a settore. In generale, i settori differiscono per la
facilità con cui si può sostituire il capitale con il lavoro (l’elasticità di sostituzione). Il settore
in cui il rapporto capitale/lavoro è relativamente elevato si dice ad alta intensità di capitale;
l’altro è definito ad alta intensità di lavoro [cioè i due settori A ed M hanno isoquanti di
forma diversa]
• Comportamento dei fornitori di fattori. I fornitori di capitale e lavoro massimizzano i
rendimenti totali, capitale e lavoro sono perfettamente mobili, ossia possono essere trasferiti
liberamente da un settore all’altro. Di conseguenza, il rendimento marginale netto del
capitale, come il rendimento marginale netto del lavoro, deve essere uguale in ciascun
settore. Se così non fosse, sarebbe possibile riallocare il capitale e il lavoro in modo da
aumentare i rendimenti totali netti. [Cioè gli isoquanti dei due settori sono tangenti tra loro]
• Struttura del mercato. Le imprese sono concorrenziali e massimizzano i profitti; tutti i
prezzi (compreso il salario) sono perfettamente flessibili. I fattori sono quindi pienamente
impiegati e il rendimento per ciascun fattore di produzione è il valore del suo prodotto
marginale. [Cioè gli isoquanti dei due settori sono tangenti alla retta di isocosto]
• Offerte totali dei fattori. Le quantità totali di capitale e lavoro dell’economia sono fisse
[siamo in una scatola di Edgeworth della produzione]
• Preferenze dei consumatori. Tutti i consumatori hanno le stesse preferenze. Un’imposta
non può quindi produrre alcun effetto distributivo influendo sugli impieghi del reddito degli
individui. Questa ipotesi consente di concentrarsi sull’effetto delle imposte sulle fonti di
reddito.
• Sistema di incidenza dell’imposta. Il quadro di riferimento per l’analisi è l’incidenza
differenziale delle imposte: in altri termini, consideriamo gli effetti della sostituzione di
un’imposta con l’altra.

Imposta su un bene (tA)


pA
↑⇒ d A ↓d M ↑⇒ qA ↓qM ↑
pM
Se A è il settore capital intensive:
pK
d K ↓d L↑⇒ ↓
pL
L’entità dell’effetto dipende dall’elasticità della domanda di A e dal grado di sostituibilità dei fattori
Incidenza maggiore su redditi da K e con preferenze differenziate su chi consuma di più A

Imposta sul reddito (t)


Dato che K e L sono dati, l’incidenza dipende dalla distribuzione iniziale dei redditi individuali

Imposta sul lavoro (tL)


Non esistono incentivi a riallocate il lavoro tra i settori, quindi tutto il carico dell’imposta ricade sul
lavoro
Una rappresentazione sintetica nel caso di un'imposta parziale
su un fattore

Precisazioni
• Le preferenze non sono identiche
Es. si tassa il lavoro ma se i lavoratori acquistano beni ad alta intensità di capitale l’imposta
viene subita dai percettori di profitto
• I fattori possono essere immobili o più in generale ‘vischiosi’ il fattore immobile tassato
subisce l’intero onere
• L’offerta di K e/o di L può variare
• Una imposta sul capitale può ridurre il saggio di accumulazione e ridurre nel lungo periodo
il rendimento del lavoro (e quindi il salario). Tassazione e distribuzione del reddito.
Tassazione ed efficienza

Ancora una volta cominciamo con un esempio...


Mario Rossi è un cittadino che consuma normalmente 10 gelati la settimana al costo di 1 euro
ciascuno. Il legislatore decide di tassare il consumo di gelati con un’imposta pari al 25% del prezzo.
Il signor Rossi dovrebbe ora pagare il suo gelato 1,25 euro, invece decide di non consumarne più e
di spendere i 10 euro la settimana in altri beni. Ovviamente, se Rossi non consuma più gelati le
entrate tributarie risulteranno pari a zero.
Possiamo concludere che l’introduzione del tributo non ha avuto alcun effetto sul signor Rossi?
Non esattamente. Il signor Rossi ora sta peggio perché a causa dell’imposta consuma un paniere di
beni per lui meno soddisfacente. Sappiamo che sta peggio perché prima dell’introduzione
dell’imposta Rossi poteva scegliere di non consumare gelati, ma aveva scelto di acquistarne dieci la
settimana dimostrando così che li preferiva ad altri beni.

L’eccesso di pressione tributaria


L’introduzione di un tributo altera le decisioni degli agenti economici e la perdita di benessere che
ne deriva è detta eccesso di pressione tributaria. Con questo termine si indica la riduzione di
benessere, che eccede quella legata al prelievo fiscale vero e proprio, e che a volte viene anche
definita come costo o perdita netta di benessere sociale.
reddito di Rebecca I. 2 beni: frumento e orzo. Concorrenza perfetta. Prezzi Po e Pf dati. Retta
di Bilancio: pendenza – Po/ Pf . Intercetta orizzontale I/ Po . Intercetta verticale I/
Pf P0 = prezzo orzo ; Pf = prezzo frumento ; I = reddito ; T0 = tassa orzo

In corrispondenza di Oa
Fb – Fa → onere tributario in termini di frumento
(Fb – Fa) x Pf onere tributario in termini monetari
I due coincidono se Pf = 1
Reddito senza imposta: I =P f F2 +Po O2 Reddito
al netto dell'imposta: I n=P f F1 +Po O2
gettito di imposta: I −I n=P f F 2+ Po O2−P f F1 +Po O2=P f F 2−P f F1= P f (F 2−F 1)
L’eccesso di pressione tributaria

Variazione equivalente: variazione del reddito che ha lo stesso effetto sull’utilità dell’imposta pari
ad ME3 // Gettito d’imposta GE2
NB: GE2 < GN = ME3 // ME3 – GE2 = E2N ( eccesso di pressione tributaria: la perdita di
benessere, data dalla variazione equivalente, supera il gettito fiscale)
Tutti i tributi comportano un eccesso di pressione?
L’imposta in somma fissa è una forma di tassazione che prevede il pagamento di un importo
stabilito indipendentemente dal comportamento del contribuente. Se lo Stato impone a Rebecca
un’imposta in somma fissa pari a 100 euro, a Rebecca non resta altro da fare che pagarla, a meno di
non lasciare il Paese. Il tributo sull’orzo che abbiamo considerato prima, invece, non era in somma
fissa, perché l’entrata tributaria dipendeva dalle scelte di consumo di Rebecca. Proviamo a
considerare un’imposta in somma fissa che lasci Rebecca nelle stesse condizioni in cui era dopo
l’introduzione del tributo sull’orzo. Innanzitutto, tracciamo il vincolo di bilancio con le seguenti
due caratteristiche:
• deve essere parallelo ad AD (la tassazione forfettaria sottrae denaro a Rebecca, ma non
cambia il prezzo relativo di orzo e frumento e due vincoli di bilancio che rappresentano lo
stesso rapporto di prezzo devono essere paralleli);
• deve essere tangente alla curva di indifferenza ii per rispettare il presupposto che Rebecca
mantenga la stessa utilità raggiunta dopo l’introduzione del tributo sull’orzo.
L’imposta in somma fissa non genera eccesso di pressione tributaria 1 (a
parità di riduzione di utilità genera più gettito)

Il vincolo di bilancio HI, tangente alla curva di indifferenza ii nel punto E3, soddisfa entrambi i
criteri. Con tale vincolo di bilancio, Rebecca consuma O 3 chilogrammi di orzo e F3 chilogrammi di
frumento. Il gettito derivante dalla tassazione in somma fissa è rappresentato dalla distanza verticale
tra E3 e il vincolo di bilancio lordo, ossia la distanza ME 3. ME3 è anche la variazione equivalente
che misura lo spostamento dalla curva di indifferenza i alla curva ii. Poiché le entrate derivanti dalle
imposte in somma fissa sono uguali alla variazione equivalente, abbiamo dimostrato che la
tassazione in somma fissa non causa un eccesso di pressione.

L’imposta in somma fissa non genera eccesso di pressione tributaria 2 (a


parità di gettito genera meno riduzione di utilità)

Un tributo che modifica i prezzi relativi è inefficiente, nel senso che riduce l’utilità dell’individuo
più di quanto sia necessario per ottenere una certa entrata
Se la tassazione in somma fissa è tanto efficiente, perché viene utilizzata
così di rado?
L’imposta in somma fissa è uno strumento poco attraente per varie ragioni, in particolare si tratta di
una tassazione iniqua perché tutti devono pagare le stessa somma indipendentemente dalla loro
condizione economica. Nel 1990 Margaret Thatcher, primo ministro britannico, sostituì l’imposta
patrimoniale che fino ad allora aveva finanziato i governi locali con un’imposta capitaria e in ogni
giurisdizione l’importo dipendeva dalle esigenze contributive locali. L’imposta era ad aliquota fissa,
nel senso che non variava al variare del reddito o del patrimonio del soggetto, ma solo in base al
luogo di residenza. L’iniquità di questa imposta fu uno dei motivi della caduta del governo Thatcher
e infatti il suo successore John Major l’abolì immediatamente.

Le imposte sul reddito comportano un eccesso di pressione tributaria?


Nell’ultima figura riportata è stato rappresentato l’effetto dell’introduzione di un’imposta in somma
fissa con spostamento del vincolo di bilancio parallelo verso l’origine, da AD a HI. Questo
spostamento si verificherebbe anche con un’imposta sul reddito. La riduzione del reddito avvicina
le intercette del vincolo di bilancio al punto d’origine, lasciando la pendenza invariata. Forse, allora,
l’imposta in somma fissa e quella sul reddito sono equivalenti? Se il reddito fosse fisso, l’imposta
sul reddito sarebbe a somma fissa, ma (come abbiamo già avuto modo di ricordare) il reddito può
essere influenzato dalle scelte individuali circa l’offerta di lavoro e un’imposta sul reddito
generalmente non è uguale a un’imposta in somma fissa.

Se la domanda di un bene non cambia quando sul bene grava un


tributo, significa che non esiste eccesso di pressione tributaria?
Abbiamo detto che l’eccesso di pressione deriva dal fatto che le decisioni di consumo vengono
alterate dall’introduzione del tributo. Possiamo quindi affermare che, se non vi è variazione nella
domanda del bene tassato, non vi è eccesso di pressione?

Economia del benessere ed eccesso di pressione


MRS = P
Senza imposta Rebecca massimizza la sua utilità quando: of o

Pf
Inoltre la condizione di minimizzazione dei costi (necessaria per max profitto) è soddisfatta quando:
MRT of = Po
Pf
Dopo l’introduzione dell’imposta Rebecca massimizza la sua utilità quando: MRS of = (1+to )Po
Pf
Mentre la condizione relativa alla produzione rimane immutata: MRT of = Po
Pf
Per cui la condizione di efficienza paretiana non è soddisfatta:
MRS of = (1+to )Po > MRT of = Po
Pf Pf
Intuitivamente: l’utilità marginale della sostituzione tra consumo di orzo e consumo di frumento è
maggiore della variazione dei costi di produzione necessari a questa sostituzione (si crea uno scarto
tra ciò che paga il consumatore e ciò che riceve il produttore).
Un’imposta a somma fissa non incide sul rapporto tra i prezzi.
Imposta sul reddito
3 beni: orzo, frumento e tempo
libero Senza imposta
MRS =MRT = s
lo lo Po
MRS =MRT = s
lf lf Pf
Po
MRS of =MRT of =
Pf
Introducendo l’imposta sul reddito
(1−t )s s
MRS lo= > MRT lo=
Po Po
( 1− t )s s
MRS lf = > MRT lf =
Pf Pf
MRS of =MRT of = Po
Pf
Solo la terza eguaglianza invariata; con un’imposta in somma fissa tutte invariate

Domanda invariata (caso particolare di domanda di un bene inferiore)


Anche se la quantità di orzo consumato non è
cambiata, c’è eccesso di pressione. Per capire
questo paradosso osserviamo che anche se il
consumo di orzo di Rebecca è sempre lo stesso,
si riduce il suo consumo di frumento (da F 1 a
F2). Nel momento in cui il tributo sull’orzo ne
muta il prezzo relativo, cambia il saggio
marginale di sostituzione e la composizione del
paniere è necessariamente alterata.
Variazione equivalente RE3
Eccesso di pressione E2S
Consumo di orzo immutato;
Consumo di frumento da F1 a F2 (è cambiato il
prezzo relativo e la composizione del paniere)
Da E1 a E2 reazione non compensata (cambia il
consumo sia per via della riduzione del reddito (effetto reddito) equivalente a quello di un imposta
fissa che per via dell’effetto dell’imposta sul prezzo relativo (effetto sostituzione, o reazione
compensata)
NB. Poiché l’orzo è un bene inferiore e il frumento è un bene normale, l’effetto reddito implica una
variazione positiva di consumo di orzo da O2 a O3 (e una riduzione del consumo di frumento da F1 a
F3). L’effetto sostituzione implica invece una riduzione del consumo di orzo da O 3 a O2 (ed un
aumento del consumo di frumento da F3 a F2). L’effetto complessivo è consumo invariato per l’orzo
perché l’effetto sostituzione compensa esattamente l’effetto reddito (e di una riduzione della
domanda di frumento perché l’effetto reddito è superiore all’effetto sostituzione)
Consideriamo l’effetto dell’imposta sulla domanda di orzo:
• curva di domanda non compensata (su cui varia la quantità domandata al variare del prezzo):
nessun effetto
• curva di domanda compensata (su cui varia la quantità domandata al variare del prezzo e il
reddito necessario a compensare l’effetto del prezzo sull’utilità): l’imposta induce un
aumento della domanda – segnalando così l’eccesso di pressione.

Eccesso di pressione e surplus del


consumatore
Do: curva di domanda compensata dell’orzo
Surplus del consumatore senza imposta: aih
Surplus del consumatore con imposta: area agf
Gettito d’imposta area gfdh
Eccesso di pressione area fid
Area di fid: 1 fd×id
2
fd =Δ P=(1+t0) P0−P0=t0 P0
dove: id=q1−q2=− q
q
η=− q P0 = =− q
P q2 t 0 P0 t0 q2
dall'ultima espressione − q=ηt q2
per cui id=ηt q2
sostituendo 1
fd×id=t0 P0 ηt0 q1=Po ηq1 t0 2
2
Con un semplice calcolo algebrico si ottiene:
Area fid = 1
η P0 q1 t02
2
Dove η è il valore assoluto dell’elasticità compensata della domanda al prezzo dell’orzo.
Dall’osservazione di questa relazione si possono trarre le seguenti osservazioni:
• l’eccesso di pressione è tanto più alta, quanto più alta è l’elasticità delle domanda;
• poiché Poq1 rappresenta la spesa totale iniziale per l’orzo, maggiore è la spesa iniziale per il
bene su cui grava il tributo, maggiore è l’eccesso di pressione tributaria;
• all’aumentare dell’aliquota fiscale, vi è un aumento al quadrato dell’eccesso di pressione
(tributaria).
Distorsioni preesistenti e teoria del second best
Fino a questo punto abbiamo ipotizzato che l’unica distorsione presente nell’economia fosse
l’imposta. In realtà nel momento in cui viene introdotto un nuovo tributo esistono già altre
distorsioni: i monopoli, le esternalità, altri tributi e questo complica l’analisi dell’eccesso di
pressione. Supponiamo che un consumatore sia disposto a sostituire il gin con il rum e che sul rum
gravi un’imposta che crea un eccesso di pressione pari al triangolo della Figura che abbiamo appena
illustrato. Immaginiamo ora che il legislatore decida di imporre un’imposta anche sul gin. Quale
eccesso di pressione tributaria si creerà sul gin?
Se il gin e il rum sono tra loro sostituibili, l’aumento dei prezzi del gin indotto dall’imposta aumenta
la domanda di rum. La quantità di rum domandata aumenta. Poiché il rum era già tassato, se ne
consumava “troppo poco” e l’aumento di consumo indotto dall’imposta aiuta a riportare il consumo
al suo livello efficiente, così che nel mercato del rum si ottiene maggiore efficienza, cosa che
compensa l’eccesso di pressione tributaria che grava sul mercato del gin. In teoria, l’imposta sul gin
potrebbe ridurre l’eccesso di pressione tributaria complessivo. Questo è un esempio della teoria del
second best: in presenza di una preesistente distorsione, politiche che da sole dovrebbero creare
distorsioni, possono ridurle o viceversa.

L’eccesso di pressione creato dai sussidi


In molti paesi i sussidi concessi per favorire il consumo dei beni di prima necessità sono importanti
componenti del sistema fiscale. In effetti un sussidio non è altro che un’imposta negativa e anche a
esso può essere associato un eccesso di pressione. Per illustrare il calcolo dell’eccesso di pressione
di un sussidio pensiamo a quello per l’abitazione principale. (il sussidio induce a consumare servizi
abitativi valutati meno del loro costo).L’eccesso di pressione creato dai sussidi

mno = surplus consumatore pre sussidio


muq = mno + nouq = surplus
consumatore post sussidio
nvuq = costo programma sussidi
ovu = eccesso di pressione, poiché
costo maggiore di beneficio
nvuq – nouq = ovu
costo – beneficio = eccesso di pressione
Eccesso di pressione e imposte sul reddito
ϵ = elasticità offerta lavoro
2
idh= 1 ϵ sL1 t = eccesso di pressione
2
fda = surplus pre imposta
gha = surplis post imposta
fihg = gettito tributario

Eccesso di pressione e tassazione differenziale degli input


Quando si studia l’effetto della tassazione reddito da lavoro, si assume che gravi la medesima
imposta, indipendentemente dal luogo in cui il lavoro viene svolto, anche se a volte l’imposta che
grava su un fattore della produzione dipende da dove tale fattore viene impiegato.
Per esempio, il lavoro casalingo è tassato in modo diverso rispetto ad altri settori di mercato: chi
svolge lavoro casalingo produce servizi per un valore che non viene tassato. Il fatto che esista
un’imposta sul lavoro svolto in un certo settore, ma non su quello svolto in un altro, altera le
decisioni sulla scelta tra i due settori e crea eccesso di pressione. In che misura lo vediamo dai 2
grafici che seguono.
Eccesso di pressione e tassazione differenziale degli input (Harberger)

Pre imposta

Post imposta
Tassazione: il trade off tra equità ed efficienza
Supponiamo che dobbiate suggerire al Ministro delle Finanze del vostro Paese una riforma del
sistema fiscale e, in particolare, che vi venga chiesto quale aliquota adottare per la tassazione di un
insieme di beni di consumo. La teoria della tassazione ottimale dei beni fornisce un quadro di
riferimento per rispondere a questa domanda.
Assumiamo che l’obiettivo del Ministro sia finanziare la spesa pubblica con un minimo di eccesso
di pressione e che non voglia utilizzare imposte lump sum. Prendiamo in esame il caso di Alberto,
un cittadino che consuma solo due beni, X e Y, oltre al tempo libero, l.
Il prezzo di X è Px, quello di Y è Py, mentre il salario orario (che è il prezzo del tempo libero) è pari
a s, la sua assegnazione di tempo è fissata in T e le ore di lavoro sono pari a (T −l) . Il reddito

da lavoro di Alberto è quindi pari a s( T −l ) e non ha altre fonti di entrata.


Supponendo che Alberto spenda tutto il reddito nei beni X e Y (cioè che non risparmi), il vincolo di
bilancio è: s(T −l )=P x X +P y Y Il lato sinistro indica le entrate totali, mentre quello di destra
indica il modo in cui vengono impiegate.
L’Equazione può essere riscritta nella seguente forma: sT = Px X +P y Y +sl Il lato sinistro della
formula valore della dotazione di Tempo (il reddito che si potrebbe percepire lavorando tutte le ore
di veglia).
Supponiamo ora che sia possibile applicare a X, Y e l la stessa aliquota ad valorem, t. L’imposta fa
salire il prezzo di X a (1+t) Px, quello di Y a (1 + t) Py e quello di l a (1 + t) s. Pertanto, il vincolo di
bilancio post-imposta è il seguente: sT =(1+t) P x X +(1+t) P y Y +(1+t )sl
Dividendo tutto per (1 + t) per si ottiene: sT
(1+t) =P x X + P y Y +sl
Dal confronto tra le Equazioni iniziale e finale emerge che un’imposta su tutti i beni compreso il
tempo libero alla stessa aliquota, t, è equivalente alla riduzione del valore dell’assegnazione di
tempo da a sT
(1+t)
Tuttavia, poiché s e T sono fissi, anche sT è fisso. Ne consegue che un’imposta proporzionale
sull’assegnazione di tempo equivale a un’imposta a somma fissa, che abbiamo visto non causa
eccesso di pressione. Possiamo, quindi, concludere che un’imposta della stessa aliquota su tutti i
beni, compreso il tempo libero, equivale a un’imposta a somma fissa che non provoca eccesso di
pressione?
No, perché non si può applicare un’imposta al tempo libero...gli unici strumenti fiscali disponibili
sono le imposte sui beni X e Y. Di conseguenza, un certo eccesso di pressione è inevitabile.

La regola di Ramsey [cfr altri appunti]


Come rendere minimo l’eccesso di pressione?
Potrebbe sembrare che la soluzione al problema sia la cosiddetta tassazione neutrale: applicare la
stessa aliquota su X ed Y (equivalente a tassare il reddito). Tuttavia non è questa la soluzione.
7
La regola di Ramsey : l’eccesso di pressione marginale dell’ultimo euro di gettito derivante da
ciascun bene deve essere identico. Se questa regola non fosse rispettata si potrebbe ridurre l’eccesso
di pressione totale aumentando l’aliquota sul bene con il minor eccesso e/o riducendo quella sul
bene con quello maggiore. Come si dovrebbero fissare le aliquote d’imposta X e Y per accrescere il
gettito con il minor eccesso di pressione possibile?
7 Per minimizzare l'eccesso di pressione tributaria, le aliquote devono essere fissate in modo che la riduzione
percentuale della quantità domandata di ciascun bene sia identica
Per minimizzare l’eccesso di pressione totale, l’eccesso di pressione marginale dell’ultimo euro di
gettito derivante da ciascun bene deve essere identico. Alternativamente, si potrebbe ridurre
l’eccesso di pressione totale, aumentando l’aliquota del bene con l’eccesso di pressione marginale
minore e viceversa.
2 beni X e Y
imposta specifica ux
Riduzione benessere del
consumatore hbcj
Gettito area hbaj
G = ux X1
Eccesso di pressione (area abc):
1
EP= 2 u x X

Aumentiamo l’imposta specifica


di un euro
Fase 1: calcolo eccesso
pressione marginale
Nuovo eccesso di pressione (tanto meno approssimato quanto ∆X piccolo)
1
EP ' = 2 (ux+1)Δ X
Eccesso di pressione marginale (area feab)
1 1 1
EP ' − EP= 2 (ux+1)Δ X − 2 ux X= 2 X

NB: niente al denominatore perché la variazione è scelta pari ad 1


Fase 2: calcolo gettito collegato
G=ux X 1 ⇒ G '=(ux+1) X 1=Gm=(u x+1) X 1−ux X 1= X 1

Fase 3: diviso fase 1 per fase 2


Poiché le condizioni per minimizzare l’eccesso di pressione richiedono che l’eccesso di
pressione marginale dell’ultimo euro di gettito sia lo stesso per X e Y abbiamo:
1 X 1 Y

2 2
X1 = Y1
si giunge alla seguente relazione:

X= Y
X1 Y1
che ci dice che, per minimizzare l’eccesso di pressione, le aliquote dovrebbero essere fissate in
modo che la riduzione percentuale della quantità domandata di ciascun bene sia la stessa.
Questo risultato, detto regola di Ramsey, è valido anche per i casi in cui X, Y e l siano beni sostituti
o complementari.
La regola delle elasticità inverse
Esprimendo la relazione precedente utilizzando le formule dell’elasticità, la regola di Ramsey può
essere formulata come regola delle elasticità inverse: se i beni non sono sostituti o complementari
nel consumo, le aliquote d’imposta dovrebbero essere inversamente proporzionali alle elasticità. In
termini di elasticità, secondo la regola di Ramsey, nel caso di imposte ad valorem, deve valere la
condizione (si veda la dimostrazione più avanti): tx ηx=t y ηy per cui tx =ηy
ty ηx

Alla base della regola dell’elasticità inversa c’è una semplice intuizione: un insieme di imposte
efficiente dovrebbe distorcere il meno possibile le decisioni. Il potenziale di distorsione aumenta
proporzionalmente all’elasticità della domanda di un bene, quindi una tassazione efficiente esige
che siano introdotte aliquote relativamente elevate su beni relativamente anelastici.
Partendo dalla definizione di elasticità: η = X P ⇒ X =η P
x
x X P X P
dato che per le imposte ad valorem P=(1+tx )P− P=tx P
sostituendo: X =η tX P =ηt
x
X P x x

analogamente per Y avremo Y =ηy t y


Y
la regola di Ramsey diventa: ηx tx=ηy t y
NB. Si veda il file Ramsey per una dimostrazione più rigorosa della regola per imposte ad valorem

La regola di Corlett-Hague
Corlett e Hague (1953) hanno dimostrato un’interessante implicazione della regola di Ramsey:
quando sono presenti due beni, la tassazione efficiente esige che l’imposta su un bene
complementare al tempo libero abbia un’aliquota relativamente elevata. Ricordate che, se fosse
possibile tassare il tempo libero, si potrebbe ottenere una soluzione di “first best”, aumentando il
gettito senza eccesso di pressione. Benché le autorità non possano tassare il tempo libero, possono
tassare i beni che tendono a essere consumati insieme al tempo libero, riducendo indirettamente la
domanda di tempo libero.

Considerazioni di equità
Ma quali sono le implicazioni in termini di equità della teoria della tassazione efficiente? In effetti,
secondo la regola delle elasticità inverse i beni con domanda anelastica dovrebbero essere tassati ad
aliquote relativamente elevate. Ma è giusto? Vogliamo davvero un sistema tributario che raccolga il
grosso del gettito dalle imposte sull’insulina, un bene la cui domanda è sicuramente rigida?
Certamente no: l’efficienza è solo uno dei criteri di valutazione di un sistema tributario e l’equità è
altrettanto importante. La regola di Ramsey si può modificare per tenere conto delle conseguenze
della tassazione in termini distributivi.
Se i poveri spendono una porzione maggiore del loro reddito per il bene X rispetto ai ricchi, e
viceversa per il bene Y, e se la funzione di benessere sociale attribuisce maggior peso alle utilità dei
poveri rispetto a quelle dei ricchi, anche se X ha una domanda più rigida (o anelastica) di Y, la
tassazione ottimale potrebbe richiedere l’imposizione di un’aliquota fiscale più elevata su Y che su
X (Stern 1987). Un’aliquota d’imposta elevata su Y crea un eccesso di pressione consistente, ma
ridistribuisce reddito a favore dei meno abbienti. La società può essere disposta a pagare un prezzo
in termini di eccesso di pressione in cambio di una distribuzione più equa del reddito.
Le tariffe ottimali
Dalle lezioni precedenti sappiamo che a volte lo Stato produce e/o fornisce beni o servizi e deve
stabilire il prezzo da far pagare agli utilizzatori: deve decidere l’importo delle tariffe. Come al
solito, vorremmo stabilire la “migliore” tariffa.
Cominciamo con il ricordare in quali circostanze lo Stato dovrebbe produrre un bene invece di
acquistarlo dal settore privato. In particolare consideriamo il caso della produzione di un bene
soggetta a costi medi costantemente decrescenti: maggiore è il livello di output, minore è il costo
unitario. Questo mercato non è concorrenziale: una singola impresa può sfruttare le economie di
scala e fornire l’intero output del settore, dando luogo al fenomeno definito monopolio naturale.
Esempi di monopoli naturali sono le autostrade, i ponti e la produzione di energia elettrica.
In alcuni casi questi beni vengono prodotti dal settore privato e regolamentati dallo Stato, mentre in
altri sono prodotti dal settore pubblico. Noi studieremo la soluzione della produzione pubblica, ma
molte delle conclusioni si possono estendere alla regolamentazione dei monopoli privati.

Il monopolio naturale
Situazione in cui alcuni fattori inerenti al processo produttivo fanno sì che un'unica impresa possa
fornire l'intero output dell'industria.

AC =costi medi ; MC = costi marginali ; MR = ricavi marginali ; D = domanda ; PA = prezzo


medio Profitto = RT – CT
Profitto = 0 ⇒ RT – CT = 0 ⇒ RT = CT ⇒ RT/Q = CT/Q ⇒ ⇒
Ricavo medio = Costo medio ⇒ P = Costo medio
Più in generale Profitto maggiore, minore oppure uguale a zero, quando P è maggiore, minore
oppure uguale ad AC .
Efficienza => P = costo marginale
Il livello di produzione scelto dal Monopolista, Z m , non è efficiente perché il prezzo è superiore al
costo marginale. Nella figura precedente, l’output al quale P = MC è indicato con Z* e il prezzo
connesso è P*. C’è però un problema: al livello di output Z* il prezzo è inferiore al costo medio. Il
prezzo P* è così basso da non coprire i costi; la produzione è in perdita. La perdita totale è data dal
rettangolo in grigio più scuro nella figura.
Come può intervenire lo Stato?

Determinazione dei prezzi in base al costo medio


Per definizione, quando il prezzo è uguale (P = AC) al costo medio non ci sono né profitti né
perdite, per cui l’impresa è in pareggio. Nella figura questa situazione si verifica in corrispondenza
dell’intersezione delle curve di domanda e dei costi medi, per cui l’output è ZA e il prezzo PA. Si
osservi, però, che ZA è inferiore a Z*. Anche se la determinazione dei prezzi in base al costo medio
determina una produzione maggiore del livello che massimizza i profitti di monopolio, non
raggiunge ancora la quantità efficiente.

Determinazione del prezzo in base ai costi medi con imposte a somma fissa
Supponiamo di far pagare P = MC e di coprire il disavanzo introducendo imposte a somma fissa. Il
finanziamento del disavanzo con imposte a somma fissa sul resto della società garantisce che non
siano introdotte nuove inefficienze. Tuttavia, questa soluzione ha due problemi:
1. le imposte a somma fissa in genere sono difficilmente applicabili e quindi il disavanzo deve
essere finanziato, necessariamente, con imposte che hanno effetti distorsivi, o sul consumo o
sulle scelte di lavoro; (imposta a somma fissa è uguale per tutti, indipendentemente dal
reddito)
2. l’equità richiede che i consumatori di un bene fornito pubblicamente lo paghino: si tratta
dell’applicazione del cosiddetto principio del beneficio. Se questo principio viene applicato
alla lettera non è giusto ripianare il disavanzo mediante una tassazione generale.

La soluzione di Ramsey
Supponiamo che lo Stato possieda molte imprese e che queste non possano essere in perdita come
gruppo, ma che una di esse possa trovarsi in tali condizioni. Ipotizziamo, inoltre, che lo Stato voglia
che il finanziamento della produzione pubblica sia coperto dal prezzo pagato dagli utenti dei servizi
prodotti dalle imprese. Di quanto dovrebbe superare il costo marginale la tariffa per l’utente di
ciascun servizio? La differenza tra il costo marginale e la tariffa è l’imposta che lo Stato impone sul
8
bene. Come per il problema della tassazione ottimale , lo Stato deve ricavare un gettito, in questo
caso quanto basta perché il gruppo di imprese sia in pareggio. La regola di Ramsey fornisce la
risposta: le tariffe vanno fissate in modo tale che la domanda di ogni bene si riduca della stessa
proporzione.

Tassazione ottimale e imposta sul reddito


Vediamo adesso come elaborare sistemi in cui il pagamento delle imposte sia commisurato al
reddito dei cittadini. In particolare, quanto progressiva dovrebbe essere un’imposta? In scienze delle
finanze non esiste praticamente questione che sia più controversa di questa.
L’economista ottocentesco John McCulloch, che era contrario alla tassazione progressiva, sosteneva che
una volta abbandonata la tassazione proporzionale «è come navigare per mare senza timone o bussola e
non esiste ingiustizia o follia che non si possa commettere». Vediamo come la teoria della tassazione
ottimale analizza il trade off tra equità ed efficienza insito in questa questione.
8 Tassazione ottimale è quella che minimizza l'eccesso di pressione tributaria

Il modello di Edgeworth
Alla fine dell’Ottocento Edgeworth (1897-1959) propose un modello fondato sulle seguenti
assunzioni:
• dato il gettito necessario, l’obiettivo consiste nel mantenere la somma delle utilità
individuali la più alta possibile. Se Ui è l’utilità dell’i-esimo individuo e W il benessere
sociale, il sistema fiscale dovrebbe massimizzare
W = U1 + U2 + ... + Un
dove n è il numero di persone presenti nella società;
• gli individui hanno funzioni di utilità identiche, che dipendono unicamente dal loro reddito,
e presentano un’utilità marginale decrescente del reddito;
• la quantità totale di reddito disponibile è fissa.
Nel Capitolo 8 abbiamo visto che per massimizzare il benessere sociale con queste assunzioni è
necessario che l’utilità marginale del reddito di ciascun individuo sia la stessa. Ma se le funzioni di
utilità sono identiche, le utilità marginali sono uguali solo se lo sono anche i redditi. Ne deriva che
le imposte dovrebbero essere fissate in modo che la distribuzione del reddito dopo le imposte sia
ugualitaria. Il modello di Edgeworth implica un sistema fiscale strettamente progressivo: i
redditi più elevati vengono ridotti fino a raggiungere la completa uguaglianza. Ne deriva che le
aliquote marginali dei redditi più alti potrebbero raggiungere il 100%. Questo modello è stato
seriamente messo in discussione a partire dagli anni ‘70.

Studi più recenti


L’ipotesi che l’importo totale di reddito disponibile per la collettività nel suo complesso possa
essere considerato fisso è quella più dibattuta dell’analisi di Edgeworth. Si suppone, infatti, che le
aliquote non abbiano effetto sulla quantità di output prodotto. Se l’utilità degli individui dipende
non solo dal reddito, ma anche dal tempo libero, le imposte sul reddito hanno un effetto distorsivo
sulle decisioni di lavoro.
Modello di Stern
Una società con una funzione di
benessere sociale utilitaristica ha di
fronte un dilemma: da un lato l’onere
fiscale deve essere ripartito per
rendere equa la distribuzione del
reddito post-imposta; dall’altro, però,
così si riduce la quantità totale di
reddito reale disponibile.
Come varia il risultato di Edgeworth
quando si prendono in considerazione
gli incentivi al lavoro?
Stern (1987) ha elaborato un modello
del tutto simile a quello di Edgeworth,
tranne per il fatto che gli individui
possono scegliere tra reddito e tempo
libero
Per semplificare l’analisi, Stern ipotizza che le entrate fiscali ottenute da una persona siano pari
a: Entrate = −α + t × reddito
L’imposta lineare sul reddito
È un'imposta con aliquota d'imposta marginale costante indipendentemente dal reddito
La linea retta rappresentata nel grafico precedente è definita curva dell’imposta lineare sul
reddito, o anche imposta fissa sul reddito. Sebbene l’aliquota marginale di un’imposta lineare sia
costante, l’imposta è progressiva nel senso che, più elevato è il reddito dell’individuo, maggiore è la
proporzione di reddito versato. Il grado di progressività dipende dal valore di α e t e valori più
elevati di t sono connessi a sistemi fiscali più progressivi. A valori elevati di t corrisponde anche
maggiore eccesso di pressione. L’imposta ottima è la combinazione “migliore” di α e t, tale da
massimizzare il benessere sociale W nel rispetto del vincolo per cui il gettito deve essere pari ai
sussidi erogati.
Stern (1987) ha dimostrato che, se si ipotizza una modesta sostituibilità tra il tempo libero e il
reddito e se il gettito che si vuole raccogliere è pari al 20% del reddito complessivo della
collettività, un valore di t del 19% circa massimizza il benessere sociale, W; questo valore è
notevolmente inferiore al 100% implicito nell’analisi di Edgeworth.
Possiamo concludere che effetti di incentivo del tutto modesti sembrano avere implicazioni
importanti per le aliquote marginali ottimali. Per inciso, il tasso calcolato da Stern è anche
nettamente inferiore alle aliquote marginali riscontrate in molti Paesi occidentali. In termini più
generali, Stern ha dimostrato che più elastica è l’offerta di lavoro, inferiore è il valore ottimale di t,
a parità di altre condizioni. Intuitivamente, il costo della ridistribuzione è dato dall’eccesso di
pressione che le imposte creano. Più elastica è l’offerta di lavoro, maggiore è l’eccesso di pressione
che deriva dalla tassazione. Un’offerta di lavoro più elastica significa dunque un costo di
ridistribuzione più elevato.

L’incoerenza temporale delle politiche pubbliche


La teoria della tassazione ottimale è un approccio di tipo normativo che non pretende di prevedere
la struttura dei sistemi fiscali effettivamente adottati o di spiegare come questi sistemi nascano.
Inoltre, questo approccio si occupa solo marginalmente dell’assetto politico e istituzionale che
adotta una certa politica fiscale. Buchanan (1993) sostiene che i sistemi fiscali effettivi si spiegano
meglio se si tiene conto delle realtà politiche che li adottano, piuttosto che delle prescrizioni della
teoria della tassazione ottimale.
Supponiamo che le autorità politiche annuncino che applicheranno un’imposta del 10% sul valore
del capitale esistente a oggi, ma promettano di non tassare alcun capitale in futuro. La manovra non
dovrebbe avere effetti sugli incentivi attuali al risparmio futuro. Si tratta infatti di un’imposta a
somma fissa, dunque del tutto efficiente. Le stesse autorità però non hanno incentivi a mantenere la
parola data e possono adottare la stessa politica l’anno successivo. Quel che è peggio è che chi
detiene il capitale è consapevole delle intenzioni reali di chi governa e, quindi, modifica il
comportamento di risparmio per rispondere all’aspettativa secondo cui più risparmia adesso, più
sarà tassato l’anno prossimo. Modificando il comportamento dei contribuenti l’imposta determina
inefficienza.

Equità ed efficienza: interpretazioni possibili


La tassazione ottimale dipende dal trade off tra efficienza ed equità. Ma nell’ambito della teoria
della tassazione ottimale un’imposta è equa se garantisce una distribuzione socialmente desiderabile
dell’onere tributario, mentre un’imposta è efficiente se presenta un eccesso di pressione tributaria
minimo. Nel dibattito pubblico, invece, spesso un’imposta è equa se impone lo stesso onere a chi ha
la stessa capacità contributiva e un sistema fiscale è efficiente se riesce a contenere le spese
amministrative e burocratiche per implementarlo.

Equità orizzontale
Uno dei criteri di valutazione di un sistema fiscale è quello dell’ equità orizzontale , secondo il
quale le persone che si trovano nella stessa posizione dovrebbero ricevere lo stesso trattamento.
Perché l’idea di equità orizzontale possa trovare applicazione concreta si deve stabilire che cosa
s’intende per stessa posizione, ma il dibattito su quale indice della capacità contributiva sia più
opportuno utilizzare è molto ampio. Il reddito, la spesa e la ricchezza sono quelli più largamente
utilizzati.

Equità orizzontale in termini di utilità


Purtroppo tutte queste misure, se rappresentano gli esiti delle decisioni dei cittadini, non si prestano
a valutare l’uguaglianza di posizione. Esempio: stessa capacità di guadagno ma diverse decisioni
rispetto a quanto lavorare portano a redditi diversi nonostante l’uguaglianza della posizione. Quale
alternativa alla misurazione dell’uguaglianza di posizione in termini di reddito o di salario,
Feldstein (1976) propone di ricorrere al concetto di utilità. Da ciò deriva la definizione di equità
orizzontale in termini di utilità:
• se due individui hanno lo stesso livello di utilità in assenza di tassazione, dovrebbero averlo
anche in presenza di tassazione;
• le imposte non dovrebbero modificare l’ordine di utilità (se A è in condizioni migliori di B
prima dell’imposizione fiscale, dovrebbe esserlo anche dopo).
Supponiamo che tutti gli individui abbiano le stesse preferenze, ossia funzioni di utilità identiche.
In questo caso, le persone che consumano gli stessi beni (compreso il tempo libero) dovrebbero
pagare imposte di uguale entità. Ipotizziamo ora che due individui abbiano gusti diversi, per
esempio i buongustai e i patiti della tintarella. Entrambi consumano generi alimentari (acquistati
utilizzando il reddito) e tempo libero, ma i primi attribuiscono un valore relativamente elevato al
cibo, mentre i secondi al tempo libero. Immaginiamo inoltre che, prima di qualsiasi tassazione, i
buongustai e i patiti della tintarella, abbiano livelli di utilità uguali. Se si applica la stessa imposta
proporzionale a tutti, i primi si troveranno in condizioni peggiori rispetto ai secondi, perché hanno
bisogno di quantità di reddito relativamente elevate per soddisfare le proprie abitudini alimentari.
Pertanto, anche se questa imposta sul reddito è perfettamente equa tenuto conto della definizione
tradizionale di equità orizzontale, è iniqua secondo la definizione in termini di utilità. Le difficoltà
di misurazione dell’utilità rendono la definizione di equità orizzontale in termini di utilità poco utile
ai fini pratici, anche se si tratta di un’idea che ha alcune implicazioni che possono apparire
provocatorie per la politica fiscale.
Supponiamo ancora una volta che tutti gli individui abbiano le stesse preferenze. Si può dimostrare
che nessun sistema fiscale esistente viola la definizione di equità orizzontale in termini di utilità a
condizione che gli individui siano liberi di scegliere le proprie attività e spese. Ipotizziamo che per
un certo tipo di occupazione una buona parte del compenso assuma la forma di strutture ricreative
non tassabili. In un altro impiego la retribuzione è esclusivamente monetaria e soggetta in toto a
un’imposta sul reddito. Secondo la definizione tradizionale, questa situazione rappresenta una
violazione dell’equità orizzontale, perché la persona con l’occupazione che prevede molte comodità
o possibilità di accesso a strutture ricreative sopporta un onere fiscale troppo basso.
Se però esistono entrambe le possibilità e gli individui sono liberi di scegliere, i compensi netti
dopo l’imposta (comprensivi di comodità o accesso a strutture ricreative) devono essere uguali per
entrambe le occupazioni. Perché? Immaginiamo che il compenso netto dopo l’imposta sia maggiore
nell’occupazione che prevede comodità e accesso a strutture ricreative. Gli individui possono
passare a questo tipo di impiego per sfruttare le possibilità aggiuntive che offre, ma la maggiore
offerta di lavoro con questo tipo di contratto determina una riduzione dei salari. Fino a quando i
compensi netti sono uguali il processo continua.
In sintesi, anche se le persone che hanno occupazioni diverse pagano imposte disuguali, non esiste
iniquità orizzontale a causa degli adeguamenti nel salario prima dell’imposta. Arriviamo così alla
conclusione sorprendente: dati gusti comuni, una struttura fiscale esistente non può comportare
iniquità orizzontale, che nasce piuttosto da modifiche alle leggi fiscali vigenti. Ciò deriva dal fatto
che, sulla base della normativa esistente, gli individui assumono impegni che sono difficili o
impossibili da rimettere in discussione.

L’evasione fiscale
Innanzitutto dobbiamo distinguere tra l’elusione fiscale e l’evasione fiscale. La prima, una volta
definita da John Maynard Keynes l’unica attività intellettuale che paghi, consiste nel modificare il
proprio comportamento in modo da ridurre il proprio onere tributario. L’elusione fiscale non è
illegale. Al contrario, l’evasione fiscale consiste nel mancato pagamento di imposte legalmente
dovute.

L’analisi positiva dell’evasione fiscale


I modi più comuni per evadere il fisco sono:
• Registrare le transazioni su due registri diversi: uno per quelle realmente effettuate e l’altro
da mostrare alle autorità fiscali;
• Lavorare in nero e farsi pagare in contanti;
• Il baratto;
• Pagare in contanti
Poniamo che Giorgio abbia come unica preoccupazione quella di massimizzare il reddito atteso:
date le sue entrate cerca di scegliere come fissare R, l’importo che nasconde alle autorità fiscali. Se
Giorgio ha un’aliquota marginale pari a t, il beneficio marginale per ogni euro sottratto è t. Le
autorità fiscali non conoscono il vero reddito di Giorgio, ma effettuano controlli casuali sulle
dichiarazioni dei redditi dei contribuenti. Esiste, quindi, una certa probabilità, ρ, che Giorgio
subisca un accertamento fiscale. Se si accerta che Giorgio ha commesso un illecito, deve pagare una
multa che aumenta proporzionalmente con R. Il problema sta nell’impossibilità di una verifica
continua. Se Giorgio conosce il valore di ρ e lo schema delle multe, prende la sua decisione
confrontando i costi e i benefici marginali del nascondere parte del suo reddito al fisco.
Nella figura che segue, l’importo “ottimale” di evasione si ha nel punto in cui le due curve dei costi
marginali e dei benefici marginali si intersecano, ossia R*. Questo punto è ottimale nel senso che in
media rappresenta la scelta che massimizza il reddito di Giorgio. Naturalmente è possibile che sia
ottimale non evadere affatto. Per l’individuo della figura successiva il costo marginale dell’evasione
supera il beneficio marginale per tutti i valori positivi di R, pertanto l’ottimo è pari a zero.
Il modello implica che l’evasione aumenta proporzionalmente alle aliquote fiscali, perché un valore
più elevato di t incrementa il beneficio marginale insito nell’evasione. Detto altrimenti, per un t più
alto si sposta la relativa curva MB e l’intersezione con quella dei costi marginali si verifica per un
valore di R più elevato. La previsione che aliquote fiscali alte determinino maggiore evasione è
coerente con alcune analisi empiriche.
Il modello appena illustrato non tiene conto che:
1. esistono costi psicologici dell’evasione;
2. gli individui sono avversi al rischio, anche se non tutti nella stessa misura, ed è quindi
possibile che le loro decisioni di impegnarsi in un imbroglio siano modificate;
3. scelte di lavoro: nel modello si assume che l’unica decisione sia quanto reddito dichiarare. Il
tipo di occupazione e l’entità del reddito prima delle imposte sono dati. In realtà, il sistema
fiscale può influire sulle ore di lavoro e sulla scelta dell’occupazione. Per esempio, aliquote
marginali elevate possono indurre gli individui a scegliere occupazioni che permettono di
evadere somme consistenti, la cosiddetta economia sommersa;
4. la probabilità di accertamento non è indipendente dalla somma evasa e dall’entità del
reddito dichiarato. Questo fattore complica il modello, ma non lo modifica nei suoi aspetti
essenziali.

L’analisi normativa dell’evasione fiscale


Implicazioni in termini di politica economica:
Nel modello illustrato abbiamo verificato che costo marginale atteso dell’evasione è il prodotto
dell’aliquota della sanzione per la probabilità di essere individuati. Quest’ultimo fattore dipende
dall’entità delle risorse destinate all’amministrazione delle imposte: se il fisco ha un bilancio
elevato può individuare molti evasori. Tuttavia, anche se le autorità fiscali hanno un budget ridotto,
tanto che la probabilità di essere scoperti è bassa, il costo marginale dell’evasione può comunque
risultare arbitrariamente elevato se la sanzione è sufficientemente alta. Il fatto che molti Paesi
abbiano fenomeni di evasione molto consistenti e non abbiano mai adottato una politica di
«deterrenza estrema» indica che i sistemi di accertamento esistenti non si preoccupano solo del
risultato finale (liberarsi degli evasori), ma anche dei modi per ottenerlo. Anzi spesso questi Stati
hanno dichiarato periodi di condono fiscale durante i quali gli individui possono pagare le imposte
evase senza subire procedimenti penali per gli illeciti commessi. Quando si ricorre ripetutamente a
questo procedimento, i cittadini possono ritenere che la stessa misura verrà adottata anche in futuro
e si riducono i costi attesi di futura evasione fiscale. Pertanto, un programma di condono che induce
aspettative di condono anche in futuro può, in realtà, aumentare l’evasione fiscale.
Imposte personali e comportamenti individuali
In Italia, nell’ultimo decennio, le aliquote e gli scaglioni dell’imposta sul reddito delle persone
fisiche sono stati più volte modificati con l’intento di ridurre il numero di scaglioni e abbassare
l’aliquota marginale sui redditi più alti. Questa tendenza è comune alle riforme adottate anche in
altri Paesi occidentali e la questione è oggetto di un acceso dibattito il cui nodo fondamentale è se e
come i comportamenti individuali vengano modificati dalle imposte. Nel corso di questa lezione
vedremo gli effetti delle imposte personali sul reddito sulle decisioni riguardanti:
• l’offerta di lavoro;
• il risparmio;
• l’acquisto dell’abitazione;
• le modalità di investimento del capitale.

L’offerta di lavoro
Assumiamo che Ercole possa decidere
quanto tempo dedicare ogni settimana al
lavoro e quanto al tempo libero. Nella
figura le combinazioni di tempo libero e
di reddito disponibili per un individuo,
dato il salario, sono rappresentate
graficamente dalla retta TD, che è il
vincolo di bilancio. Il punto scelto sul
vincolo di bilancio dipende dalle
preferenze individuali che rappresentiamo
con curve di indifferenza convesse,
indicate con i, ii e iii. Ercole massimizza
la sua utilità quando si trova nel punto E1
in cui dedica OF ore al tempo libero e FT
ore al lavoro, ottenendo un reddito OG.
Quali sono quindi gli effetti della
tassazione?

Prima dell’imposta
R = sT − sl
Intercetta verticale sT
Pendenza in valore assoluto s

Dopo l’imposta
R = (1 − t ) sT − (1 − t ) sl
Intercetta verticale (1 − t ) sT
Pendenza in valore assoluto (1 – t)s
L’imposta ha avuto l’effetto di ridurre la
sua offerta di lavoro da FT a IT ore.
Dobbiamo concludere che un individuo “razionale” riduce sempre l’offerta di lavoro se viene
introdotta un’imposta proporzionale?

Consideriamo Poseidone, che ha


esattamente gli stessi vincoli di bilancio di
Ercole, e che prima dell’imposta lavorava
il suo stesso numero di ore. Come mostra
la figura, quando viene stabilita l’imposta,
Poseidone aumenta le ore di lavoro da FT a
JT. Non c’è nulla di irrazionale in questo
comportamento, poiché le preferenze sono
strettamente individuali, ciascuno può
reagire all’introduzione di un tributo
decidendo di lavorare di meno, di più o lo
stesso numero di ore.

Questa apparente ambiguità deriva dal conflitto tra due effetti provocati dall’imposta: l’effetto
sostituzione e l’effetto reddito. Quando l’imposta riduce il salario netto, il costo opportunità del
tempo libero diminuisce e quindi si tende a sostituire il lavoro con il tempo libero (cosiddetto
effetto sostituzione) riducendo l’offerta di lavoro. Contemporaneamente, l’imposta riduce il reddito
individuale e, se il tempo libero è un bene normale, questa perdita di reddito porta a una riduzione
del consumo di tempo libero, ceteris paribus. Ma una riduzione delle ore dedicate al tempo libero
equivale ad un aumento di quelle dedicate al lavoro (effetto reddito). I due effetti agiscono in
direzione opposta e la teoria, da sola, non è in grado di prevedere quale dei due prevarrà. E l’analisi
non cambia molto se si considera un’imposta progressiva.
Alcuni avvertimenti
• Considerazioni sul settore della domanda
• Reazioni individuali e reazioni di gruppo
• Altre dimensioni dell’offerta di lavoro
Costi e benefici di un corso di formazione
B – C, se > 0 il corso viene frequentato
Con tassazione (1 - t1)B – (1 - t2)C ? 0. dipendendo da t1 e da t2
• Forme alternative di remunerazione del lavoro
• La spesa pubblica

Offerta di lavoro e gettito tributario


OL: Quantità ottimale di Offerta di lavoro individuale tracciata per ogni livello di salario netto nel
caso in cui prevalga l’effetto sostituzione
Il grafico è al centro di un acceso
dibattito politico nato da
un’affermazione molto nota di Arthur
B. Laffer, secondo il quale negli anni
’70 le aliquote d’imposta degli Stati
Uniti erano così alte che se fossero
state ridotte, l’effetto positivo
sull’offerta di lavoro avrebbe
permesso di recuperare il gettito
“perso” riducendo le aliquote. L’idea
secondo la quale la riduzione
dell’aliquota fiscale non
necessariamente riduce le entrate
tributarie dello Stato è fondamentale
per la cosiddetta Supply side
economics (Economia dell’offerta),
approccio teorico sposato
dall’amministrazione Reagan.

La curva di Laffer
Grafio che rappresenta la relazione tra
aliquota d'imposta ed entrate tributaria
A proposito del dibattito che tutt’oggi
suscita la curva di Laffer, può essere utile
ricordare che:
• la relazione tra ore di lavoro offerte e
salario netto ha la forma della curva prevista
da Laffer solo se prevale l’effetto
sostituzione;
• per ogni variazione dell’aliquota, l’aumento o la diminuzione del gettito dipendono dalla
misura in cui la variazione di ore lavorate compensa la variazione dell’aliquota stessa, ossia
dall’elasticità dell’offerta di lavoro al salario netto. Quindi la forma della curva di Laffer dipende
dall’elasticità del lavoro rispetto al salario netto;
• anche se la curva di Laffer, almeno in linea di principio, è giustificabile, stabilire se
l’economia stia operando realmente a destra del punto tA è una questione empirica di difficile
soluzione;
• è opinione generalmente accettata che le elasticità complessive siano alquanto modeste ed è
quindi plausibile che l’economia non stia operando a destra del punto tA. In altre parole, è
difficile che una riduzione generale delle aliquote d’imposta non si traduca in riduzione di
gettito. Perché ci sia un incremento di gettito è necessario che la riduzione delle aliquote
d’imposta faccia aumentare l’offerta di lavoro in maniera così consistente che la più ampia base
imponibile così creata generi un maggior gettito, nonostante le ridotte aliquote;
• le persone possono sostituire il salario con forme di reddito non soggetto a imposte, perciò,
anche se l’offerta di lavoro resta fissa, il gettito può ugualmente diminuire. In particolare, le
persone che appartengono alle fasce di reddito più alte, possono sostituire il reddito da lavoro
con reddito da capitale, decidendo di investire su attività i cui rendimenti siano tassati meno del
lavoro. Quest’ultima considerazione propone un argomento indubbiamente corretto e importante
ai fini delle politiche tributarie: l’aliquota d’imposta che massimizza gli introiti non è la
medesima per tutte le fasce di reddito o per tutti i tipi di reddito.

Le decisioni di risparmio
Un altro tipo di comportamento che può essere influenzato dal sistema tributario è la
propensione al risparmio. Lo studio delle decisioni relative al risparmio si basa sul modello del
ciclo vitale, secondo il quale gli individui pianificano anno dopo anno le loro decisioni sul
consumo e sul risparmio considerando tutta la loro vita (Modigliani 1986). Ciò che si risparmia
ogni anno non dipende soltanto dal reddito di quell’anno, ma anche dal reddito che si prevede di
avere nel futuro e da quello ottenuto nel passato.
Giulio prevede di vivere 2 periodi t = 0 e t = 1.
Reddito nel periodo 0: I0 (reddito da lavoro) ; Reddito nel periodo 1: I1 (pensione; nessuna
eredità o
debito agli eredi) ; Consumo corrente: c0 ; Consumo futuro: c1
Paniere delle dotazioni: A ≡ (I0, I1) (I0 viene consumato interamente durante il periodo 0 e I1
interamente durante il periodo 1)
Se Giulio risparmia R al tempo 0, al tempo 1 aumenterà il suo consumo di R(1+i) dove i è il
tasso di interesse e R = I0 – c0, da cui c0 = I0 – R e c1 = I1 + (1+i) R
Se Giulio anticipa il suo consumo futuro di B al tempo 0, il consumo al tempo 0 sarà pari a c 0 =
I0 + B, mentre il consumo al tempo 1 dovrà essere ridotto per restituire il prestito egli interessi c 1
= I1 – (1+i) B
In generale:
c1 = (I0 – c0) (1+i) + I1 => c1 = I0 (1+i) + I1 – (1+i)
c0 se I0 – co > 0 Giulio risparmia al tempo 0
se Io – c0 < 0 Giulio si indebita al tempo 0
I0 (1+i) + I1 intercetta; 1 +i pendenza in valore assoluto
la retta di bilancio esprime la relazione valore attuale del consumo = valore attuale del flusso di

c 1 I 1
reddito: c0 +1 + i =I 0 + 1 + i
Le decisioni di risparmio: vincolo di bilancio intertemporale

Le decisioni di risparmio: la scelta tra consumo presente e


futuro che massimizza l’utilità

Le decisioni di risparmio e le imposte


Se Giulio decide di risparmiare (ma il nostro ragionamento rimane valido anche se egli chiedesse a
prestito del denaro), il problema è come varia l’ammontare di risparmio se viene introdotta
un’imposta sul reddito da capitale. In questo caso è importante sapere se gli interessi sui prestiti
sono deducibili o meno e poiché la tassazione sugli interessi è diversa da paese a paese,
analizzeremo gli effetti dell’imposizione sui risparmi in entrambi i casi.
Le decisioni di risparmio in presenza di imposta con
interessi passivi deducibili
t imposta sugli interessi attivi se Giulio dà a prestito; t deducibile sugli interessi passivi se Giulio
si indebita
se I0 – c0 > 0 Giulio riceve un interesse al netto dell’imposta t pari a (1–
t)i Se I0 – c0 < 0 paga un interesse pari a (1– t)i ne segue

c1 = (I0 – c0) [1 + (1– t) i] + I1 ⇒ c1 = I0 [1 + (1– t) i] + I1 – [1 + (1– t) i] c0


I0 [1 + (1– t) i] + I1 intercetta;
1 + (1– t) i pendenza in valore assoluto
Non è detto che i risparmi
dopo l’imposta si debbano
ridurre. Dipende da quale
effetto sia dominante.
Effetto sostituzione: l’imposta
riduce il prezzo di c0 rispetto a
c1: aumenta il consumo
presente/si riduce il risparmio
Effetto reddito : l’imposta
riduce il reddito complessivo
per cui c0 (se è un bene
normale diminuisce) aumenta
il risparmio
Le decisioni di risparmio in presenza di imposta con
interessi passivi non deducibili
t imposta sugli interessi attivi se Giulio dà a
prestito; non c’è deducibilità sugli interessi
passivi se Giulio si indebita
se I0 – c0 > 0 Giulio riceve un interesse al netto
dell’imposta t pari a (1– t)i
Se I0 – c0 < 0 paga un interesse pari a i

Le scelte relative all’acquisto della casa


Una forma molto importante di capitale sono le abitazioni occupate dai proprietari. Un codice
tributario può incidere poco sul livello complessivo di risparmio e tuttavia influenzare molto le
modalità di impiego del risparmio. Si tratta di un argomento di particolare rilievo, dato che alcuni
ritengono che la crisi finanziaria cominciata nel 2008 sia stata in parte causata dall’eccessivo
investimento nel settore immobiliare indotto dalle imposte.
R : Canone d’affitto al netto delle spese di
manutenzione I : interessi sul mutuo
∆V : aumento annuale del valore della casa
Reddito netto del proprietario dell’abitazione effettivo o figurativo:
Rnetto = R − I + ∆V
Definizione di reddito à la Haig-Simons: deve essere soggetto all’imposta in ogni caso (sia il
reddito effettivo che quello figurativo). Quando non è così viene sovvenzionata l’occupazione delle
abitazioni da parte dei proprietari, aumentandone la domanda.
Tassazione e composizione del portafoglio

È idea diffusa che mantenere un livello di imposte basse (soprattutto sui guadagni in conto capitale)
favorisca gli investimenti in attività rischiose. Infatti, perché correre il rischio di un investimento
incerto se gli eventuali guadagni saranno decurtati dal fisco?
In realtà il problema è decisamente più complicato. Gli studi più recenti sulla relazione tra imposte
e composizione del portafoglio si basano sull’analisi di Tobin: le decisioni su come investire sono
prese in base a due variabili, il rendimento atteso dell’attività e la rischiosità di tale rendimento. A
parità di altre condizioni, gli investitori preferiscono investire in attività ad alto rendimento, ma
poiché sono avversi al rischio, preferiscono le attività più sicure.
Supponiamo ora di avere due attività: la prima è assolutamente sicura ma con tasso di rendimento
pari a zero; la seconda è un’obbligazione che in media ha un tasso di rendimento positivo, ma è
rischiosa, ovvero c’è la probabilità che il prezzo scenda e che l’investitore subisca una perdita.
L’investitore può regolare il rendimento e il rischio sull’intero portafoglio, detenendo combinazioni
diverse delle due attività, e i due casi estremi sono quelli di detenere solo l’attività sicura (niente
rendimenti, ma nessun rischio) o di detenere solo l’attività rischiosa (alti rendimenti, ma alto
rischio). L’investitore normale detiene una combinazione di entrambe le attività stabilita in base alle
proprie preferenze.
Supponiamo che venga adottata un’imposta sul rendimento di entrambe le attività e che sia prevista
una totale compensazione della perdita, ossia che le perdite possano essere dedotte dal reddito
imponibile. Poiché l’attività sicura ha un rendimento pari a zero, l’imposta non ha alcuna
conseguenza e il rendimento rimarrà sempre zero. Invece se l’attività rischiosa ha un tasso di
rendimento positivo, l’imposta lo diminuirà rendendo l’attività rischiosa meno attraente rispetto a
quella sicura. L’imposta però riduce anche la rischiosità perché riduce le perdite qualora queste si
verifichino. Ne consegue che questo tipo di tassazione ha come effetto che più attività rischiose
siano detenute dagli investitori.
Es. tassa sul rendimento del 30%. Perdo 100. Quindi dedurrò 100 dal mio reddito imponibile. Il
mio debito d’imposta si riduce di 30. La mia perdita effettiva sarà 100 – 30 = 70
Decentramento fiscale e finanziamento in disavanzo

La teoria del federalismo fiscale


I rapporti tra i diversi livelli di governo sono un aspetto fondamentale dell’organizzazione del
settore pubblico, e riguardano sia le competenze e le spese gestite da ciascun livello sia le modalità
di finanziamento. In questo capitolo presenteremo la teoria tradizionale del federalismo fiscale e
accenneremo ad alcuni dei contributi più recenti, spesso definiti la teoria del federalismo fiscale di
seconda generazione. Le questioni più rilevanti analizzate dalla branca della finanza pubblica
denominata teoria del federalismo fiscale sono le seguenti.
1. Come allocare le responsabilità ai diversi livelli di governo?
2. La decentralizzazione delle decisioni governative è auspicabile?
3. Le imposte riscosse a livello locale rappresentano una buona soluzione per il pagamento dei
servizi offerti dalle Amministrazioni locali? In quali circostanze i fondi dovrebbero arrivare dal
Governo centrale?

Il rapporto di accentramento
In generale si può dire che un sistema è più accentrato rispetto a un altro quando una quota
maggiore dei suoi poteri decisionali è nelle mani dei livelli di governo sovraordinati. Il criterio più
diffuso per misurare il livello di accentramento di un Paese è il rapporto di accentramento, ossia
la proporzione delle spese dirette complessive effettuate dal Governo centrale. I rapporti di
accentramento variano notevolmente a seconda degli Stati e non necessariamente sono maggiori per
quelli che hanno una forma di Stato federale.

Spesa pubblica dei livelli inferiori di governo (1995 – 2005, in % sul totale)

Grigio: livello locale / Nero: livello statale o regionale


Teoria tradizionale vs. seconda generazione
La teoria tradizionale del federalismo fiscale è un approccio normativo connotato dall’idea che
esista un Governo benevolente. La seconda generazione della teoria del federalismo fiscale
assume, invece, che politici e burocrati abbiano obiettivi propri, che ne influenzano
significativamente l’azione di governo.
Secondo l’approccio tradizionale, il vantaggio principale di un assetto decentrato sta nel guadagno
in termini di efficienza consentito dal decentramento della funzione allocativa. Al Governo centrale
si riconosce una maggiore efficacia nello svolgimento delle funzioni di ridistribuzione e di
stabilizzazione macroeconomica (Musgrave ,1959). Il nucleo centrale della teoria tradizionale del
federalismo fiscale è il teorema del decentramento di Oates (1972), che fornisce una
giustificazione teorica all’esistenza di diversi livelli di governo. Il problema delle competenze e
dell’estensione territoriale degli Enti è invece affrontato facendo ricorso ad alcune prescrizioni
elaborate da Buchanan, nell’ambito della teoria dei club (1965).
Il collegamento tra il voto, come strumento per l’espressione delle preferenze, e la fornitura di beni
e servizi pubblici locali è quello stabilito dall’idea del voto con i piedi, formulata da Tiebout (1956)
a integrazione delle riflessioni di Samuelson (1954-1955) nell’ambito della teoria dei beni pubblici.

Il teorema del decentramento di Oates


Il teorema di Oates stabilisce che, con preferenze differenziate, è sempre preferibile una soluzione
decentrata. Infatti, poiché la fornitura pubblica di un bene o servizio comporta una perdita secca,
dovuta alla distanza tra le preferenze individuali e il livello offerto, la soluzione decentrata,
variando l’offerta pubblica, permette di ridurre questa perdita di benessere.
2 Agenti: Adamo ed Eva
Preferenze differenziate
Bene pubblico: servizio antincendio
Costo marginale di produzione costante
(assenza di economie di scala)
2 possibilità (fornitura centralizzata oppure
decentralizzata)
Il guadagno di efficienza è tanto maggiore
quanto più sono omogenee le preferenze
all’interno di una collettività e non vi sarebbe
vantaggio alcuno se le preferenze dell’intera
comunità nazionale non fossero diversificate
territorialmente.
I limiti più rilevanti di questo teorema sono
evidenti dalle ipotesi necessarie affinché sia valido: Oates assume che il costo marginale di offerta
del bene locale sia costante (MC è una retta orizzontale), ossia che nella fornitura non vi siano
economie di scala; se così non è, la soluzione decentrata potrebbe non essere necessariamente quella
più efficiente; la perfetta corrispondenza tra giurisdizione economica e giurisdizione politica è
difficilmente riscontrabile nella realtà. Proprio a partire da questo limite della teoria tradizionale, è
stata avanzata la teoria del federalismo funzionale (Casella e Frey 1992; Eichenberger e Frey
2002), secondo la quale ciascun Ente deve essere responsabile di un’unica funzione e deve esserlo
solo rispetto ai cittadini che beneficiano del servizio.
La teoria dei club
Nella teoria tradizionale l’analisi sulle dimensioni delle collettività locali e sul livello di servizio
che queste dovrebbero fornire è stata condotta utilizzando il concetto di club, che per altro si addice
meglio all’idea del federalismo funzionale che non a quello di una collettività che fornisce una
pluralità di servizi. Si consideri un gruppo di persone che desideri formare un club (acquistare un
terreno per fare un parco): tutti i membri del club hanno preferenze identiche.
L’individuo rappresentativo sceglierà:
• Le dimensioni del terreno da acquistare Q;
• Il numero dei membri da accettare nel club, N; con l’obiettivo di massimizzare il beneficio
netto dei suoi membri.
Prima ricaviamo il numero ottimale dei membri Nopt dato Q.
1. Maggiore è il numero dei componenti minore sarà la spesa per individuo - Costo marginale
procapite decrescente: Curva A
2. Maggiore è il numero dei componenti maggiore sarà la congestione (affollamento): Curva B
L’intersezione tra A e B ci sarà per
il dato Q un punto che dovrà giacere
sulla retta Nopt
Cambiando Q si ottiene una nuova
curva A (più alta) ed una nuova
curva B ottenendo un nuovo punto
sulla retta Nopt
Ripetendo il processo si ottengono
quindi tutti gli altri punti di Nopt
Quindi ricaviamo la dimensione
ottimale del parco Qopt dato N.
1. Maggiore è la dimensione del
parco, maggiore sarà
l’utilità. Tuttavia l’utilità
cresce a tassi decrescenti. La
curva dell’utilità marginale è
data da D (utilità
marginale/domanda per
membro);
2.Maggiore è la dimensione del parco più saranno gli acri richiesti. Il costo per membro dipende dal
numero dei membri (N, dato) e dal prezzo per acro (costo marginale/offerta per membro).

L’intersezione tra D e M ci sarà per il dato N un punto che dovrà giacere sulla retta Qopt
Cambiando N si ottiene una nuova curva M (più bassa) – il costo di ogni acro si distribuisce tra più
membri – mentre D rimarrà invariata (qui assumiamo che l’utilità marginale individuale derivate
dal consumo di un’unità aggiuntiva del bene sia indipendente dal numero dei soci del club)
Ripetendo il processo si ottengono quindi tutti gli altri punti di Qopt
L’intersezione di Nopt e Qopt determina le caratteristiche del club ottimale (numero ottimo dei
membri e dimensione ottima del parco – o più la fornitura ottimale di beni e/o servizi)
Tuttavia esistono delle differenze tra un club ed una comunità locale:
• Quota di associazione / imposta per un insieme di beni pubblici
• free rider - club No / comunità?
• E così via

Il modello di Tiebout
All’inizio del corso abbiamo visto che in determinate circostanze i mercati “falliscono”, non
riuscendo a offrire i cosiddetti beni pubblici in modo efficiente perché il mercato non incentiva gli
individui a rivelare le loro vere preferenze, incoraggiando tutti a comportarsi da free rider. In un
importante articolo, Tiebout (1956) sostenne che la possibilità di spostamento degli individui tra
diverse collettività locali può essere una soluzione simile a quella di mercato anche per i beni
pubblici locali. Sotto determinate condizioni, individui perfettamente razionali dovrebbero stabilirsi
nella collettività locale che offre la combinazione di servizi e imposte pubbliche che essi gradiscono
di più.

Il modello di Tiebout: le assunzioni


• Esiste una categoria di beni pubblici, detti appunto beni pubblici locali, i cui benefici sono
strettamente limitati a una data collettività.
• Gli individui sono completamente liberi di spostarsi a costo zero.
• Le persone dispongono di informazioni perfette relativamente ai servizi e alle imposte
pubbliche di ciascuna collettività locale.
• Esiste una certa differenziazione tra le collettività locali e ciascun individuo può trovarne
una con servizi pubblici che soddisfano le sue esigenze.
• Il costo per unità dei servizi pubblici è costante.
• La tecnologia dell’offerta del servizio pubblico è tale per cui, se raddoppia il numero di
residenti, raddoppia anche la quantità di servizi pubblici offerta.
Se vi fossero economie di scala le comunità locali non potrebbero avvantaggiarsene. Inoltre, deve
esistere la possibilità di regolamentare la dimensione minima delle case. Altrimenti ci sarebbe la
tendenza dei meno abbienti di recarsi in località di benestanti dove ci sono molti servizi e aliquote
sulla casa basse, innescando spostamenti continui. Il modello di Tiebout non è una descrizione
fedele di come funziona il mondo (le persone non sono perfettamente mobili, non vi sono
abbastanza collettività locali perché ciascuno trovi quella per lui migliore ecc...). Inoltre,
contrariamente alle implicazioni del modello, si possono osservare molte collettività locali
all’interno delle quali vi sono differenze di reddito rilevanti e quindi, presumibilmente, differenze
nei livelli desiderati di offerta di pubblico servizio. Detto questo, il modello di Tiebout è uno
schema di riferimento utile per studiare la gestione dei servizi e il loro finanziamento nelle grandi
aree metropolitane, nelle quali esiste un’ampia gamma di scelte relativamente alla localizzazione
della residenza, e considerevoli differenze di reddito e nei livelli dei servizi.
Quali funzioni a quale livello di governo?
Qual è la distribuzione ottimale delle funzioni tra i diversi livelli di governo?
Concordando con l’iniziale contributo di Musgrave (1959), la maggior parte degli economisti
condivide l’idea che le decisioni di spesa e d’imposizione fiscale volte a incidere sui livelli di
disoccupazione e inflazione andrebbero prese dal Governo centrale (funzione macroeconomica di
stabilizzazione del reddito e dei prezzi). Nessuna Amministrazione regionale o locale è
abbastanza grande da influenzare il livello complessivo di attività economica e le esternalità
connesse agli interventi di questo tipo li renderebbero inefficaci. Non avrebbe senso che ogni
località emettesse una propria moneta e perseguisse una politica monetaria indipendente.
Le argomentazioni sull’attribuzione della funzione ridistributiva ai Governi locali o a quello
centrale sono più articolate. In prima approssimazione si può pensare di assegnarla al Governo
centrale sulla base della seguente argomentazione: si supponga che la composizione delle imposte e
delle spese in una particolare collettività locale sia favorevole ai suoi membri a basso reddito; se
non vi sono barriere al movimento tra le collettività locali, dobbiamo aspettarci una in-migrazione
dei meno abbienti dal resto del Paese. L’aumento della popolazione meno abbiente determina un
analogo incremento nel costo della politica fiscale ridistribuiva; allo stesso tempo, i più abbienti
possono decidere di andarsene. Di conseguenza aumentano le esigenze di risorse per la collettività
locale mentre diminuisce il livello di base imponibile e il programma ridistribuivo potrebbe essere
abbandonato. Si può inoltre sostenere che il dittatore benevolente, assunto dalla teoria tradizionale
del federalismo fiscale, sia depositario di una funzione del benessere sociale, o meglio di un criterio
di equità sulla distribuzione delle risorse, condiviso dall’intera collettività nazionale, e si teme che
un’autonomia locale, rispetto a questa categoria di politiche, possa essere di ostacolo o in
contraddizione con gli obiettivi definiti dal Governo centrale e come tali largamente condivisi.
Una diversa considerazione è quella avanzata da Pauly (1973), per cui è difficile assumere
realisticamente che le preferenze dei cittadini, diversificate territorialmente rispetto alla fornitura di
beni e servizi pubblici, non lo siano anche per quanto riguarda le politiche tributarie e di
ridistribuzione del reddito. In effetti può accadere che una certa collettività nazionale esprima, in un
certo momento storico, un giudizio circa un criterio di equità per la ridistribuzione delle risorse, e
che questo giudizio sia correttamente interpretato dalla classe politica nazionale. Altrimenti, la
valutazione deve essere più articolata, e può includere una diversificazione territoriale delle
preferenze e/o l’analisi dei meccanismi decisionali con cui classi politiche locali e nazionali
contribuiscono alla definizione delle politiche distributive. Inoltre, considerazioni di tipo equitativo,
apparentemente escluse dall’analisi nell’approccio del federalismo fiscale, spesso sono
indispensabili se si considera l’impatto ridistributivo di alcuni beni e servizi pubblici locali (come
per esempio i servizi sanitari e l’istruzione).
Per quanto attiene la funzione allocativa, è opinione largamente condivisa che si debba far
riferimento alla distinzione tra beni pubblici puri e beni pubblici locali che abbiamo illustrato sopra.
Nei primi rientrano la difesa nazionale, la sicurezza, la politica estera, la giustizia, le grandi
infrastrutture di comunicazione, per i quali la responsabilità centrale trova diversi ordini di
giustificazioni, tra cui le esternalità, le economie di scala, le ragioni di interesse collettivo, le
caratteristiche intrinseche dei beni stessi ecc... Gli altri beni pubblici, tra cui alcuni interventi del
welfare state, sembrano essere meglio gestiti dalle collettività locali, per definizione più vicine al
cittadino-elettore.
La teoria del federalismo fiscale di seconda generazione
L’elemento che accomuna la seconda generazione della teoria del federalismo fiscale è un’analisi
più accurata dei meccanismi che regolano le decisioni pubbliche che non sono più “scatole nere”
che assorbono risorse per fornire bene pubblici, ma sono uno degli aspetti che deve essere
analizzato per comprendere il funzionamento del settore pubblico. Sotto l’influenza della scuola di
public choice, lo studio del decentramento fiscale parte dal presupposto che, mentre se i dirigenti di
imprese private che non riescono a minimizzare i costi alla fine vengono estromessi dall’azienda,
nel settore pubblico essi possono continuare a spendere in maniera inefficiente. Tuttavia, se i
cittadini possono scegliere tra giurisdizioni locali diverse, una gestione significativamente non
condivisibile può spingerli a scegliere di vivere altrove; o meglio, questa minaccia può creare
incentivi affinché i dirigenti pubblici producano in modo più efficiente e siano più sensibili verso i
propri cittadini-elettori. In particolare, Brennan e Buchanan (1980) ritengono che il principale
pregio di un sistema decentrato sia nella frammentazione del potere, inteso come sfruttamento
fiscale di politici e burocrati nei confronti dei cittadini. La presenza di più livelli di governo e di più
governi dello stesso livello, associata alla libertà degli individui di spostarsi da una circoscrizione
all’altra, comporta una forma di competizione tra governi che permette di limitare il potere del
Leviatano
La competizione è il secondo elemento centrale dell’approccio che stiamo qui analizzando: in due
celebri lavori, Salmon (1987) e Breton (1996) mostrano come il decentramento assicuri una
competizione orizzontale (tra governi dello stesso livello) e verticale (tra governi gerarchicamente
ordinati) anche qualora gli agenti economici non siano perfettamente mobili, ossia quando i costi di
spostamento non siano nulli. Tra l’altro, il meccanismo competitivo ipotizzato da questi autori non
richiede la mobilità perfetta di tutti gli agenti economici coinvolti dall’attività di governo di una
data amministrazione, ma semplicemente una corretta informazione circa i risultati raggiunti da
amministrazioni comparabili.

Il finanziamento delle collettività locali

In linea generale il finanziamento delle collettività locali può avvenire tramite:


1. le sovrimposte e le addizionali, denominando così le aliquote che i livelli inferiori di
governo stabiliscono sulla base imponibile o sull’imposta di un altro livello di governo,
normalmente quello centrale;
2. le compartecipazioni, ossia le quote di gettito di imposte di altri livelli di governo
assegnate a livelli di governo inferiori;
3. i tributi propri;
4. i trasferimenti tra livelli di governo.
Nei primi due casi, l’autonomia dell’Ente locale è piuttosto ristretta e limitata alla definizione
dell’aliquota: tale autonomia spesso non esiste proprio per le compartecipazioni e per le addizionali
è limitata a una “forchetta” definita dalla legge nazionale. Per i tributi propri, invece, non solo il
gettito è interamente, o in gran parte, destinato all’Ente periferico, ma questo ha una certa
autonomia nel fissare le aliquote. È più difficile che l’Ente locale possa autonomamente disciplinare
la base imponibile di un tributo. Quando il finanziamento di un Ente periferico è assicurato da
trasferimenti di risorse dai livelli superiori, la sua autonomia è pressoché nulla.

L’imposta locale sulla proprietà immobiliare


L’imposta sulla proprietà immobiliare (terreni e dei fabbricati) è il sistema di finanziamento delle
collettività periferiche adottato da quasi tutti i Paesi che hanno una finanza pubblica decentrata.
L’ammontare dell’imposta è determinato dal prodotto dell’aliquota per il valore figurativo
dell’immobile o del terreno, assegnato dall’amministrazione. L’amministrazione cerca di stabilire
una corrispondenza tra il valore figurativo e quello di mercato, ma questa operazione richiede
frequenti revisioni. Perché gli Enti locali si finanziano con questo tipo di imposta?
• Le imposte sulla proprietà immobiliare possono garantire che la base imponibile non venga
spostata in altre giurisdizioni.
• L’analisi dell’incidenza di questa imposta è argomento piuttosto controverso: nell’approccio
tradizionale l’imposta sulla proprietà è un’imposta specifica sui consumi che grava su
terreni e fabbricati. Ne consegue che l’incidenza dell’imposta è determinata dall’andamento
delle curve di domanda e di offerta, rispettivamente dei terreni e dei fabbricati.
Per quanto riguarda i terreni, se
assumiamo che la quantità offerta sia
fissa, ne deriva che la curva di offerta è
perfettamente verticale. Un fattore che
presenta una curva di offerta di questo
tipo sopporta tutto il carico di
un’eventuale imposta. Poiché sono in
quantità fissa, i terreni non possono
“sfuggire” all’imposta, come illustra la
figura.
Per l’incidenza dell’imposta sulla
proprietà dei fabbricati, occorre
considerare il mercato nazionale dei
capitali. Il capitale può essere utilizzato
per scopi diversi: costruzione di
immobili, impianti di produzione,
progetti del settore pubblico ecc... e, in
ogni momento, il capitale ha un certo
prezzo che ne condiziona l’impiego.
Secondo l’approccio tradizionale, nel lungo periodo l’industria delle costruzioni può ottenere tutto
il capitale domandato al prezzo di mercato e quindi la curva di offerta dei fabbricati di lungo
periodo è perfettamente orizzontale.
Secondo l’approccio tradizionale,
l’imposta sulla proprietà dei terreni
ricade sui proprietari degli stessi (o
quanto meno sui proprietari nel
momento dell’introduzione
dell’imposta), mentre l’imposta sui
fabbricati viene trasferita sugli
acquirenti.
Quali sono quindi le implicazioni
distributive per quest’ultima?
La progressività dell’imposta sulla
proprietà dei fabbricati dipende dal fatto
che il reddito da fabbricati aumenta o
diminuisce al crescere del reddito. Se
diminuisce l’imposta è regressiva, e
viceversa. Esistono molti studi
econometrici che hanno cercato di
verificare questa relazione, ma le conclusioni non sono univoche e dipendono, tra le altre variabili,
dal tipo di concetto di reddito che si adotta (annuale o permanente?).

Trasferimenti tra diversi livelli di governo


Le modalità con cui le risorse sono trasferite dal Governo centrale possono influenzare le scelte
della collettività locale. In particolare, i trasferimenti possono essere vincolati o non vincolati; per
i primi il soggetto erogatore specifica le finalità per le quali l’Ente che riceve può utilizzare i fondi.
I secondi possono essere impiegati dagli Enti in piena autonomia. I trasferimenti vincolati possono
essere compartecipati: per ogni euro trasferito dal Governo centrale per sostenere una particolare
attività, l’Ente locale deve spendere in quella stessa attività una certa somma di denaro. I
trasferimenti compartecipati possono essere a stanziamento definito (fondo che l'ente erogatore
trasferisce in quantità predeterminata)

Un trasferimento compartecipato
Un trasferimento compartecipato a stanziamento determinato

Un trasferimento non compartecipato vincolato/non vincolato


Le modalità di riparto dei trasferimenti perequativi
Un obiettivo del Governo centrale è solitamente quello di perequare le risorse a disposizione delle
Amministrazioni periferiche se le imposte amministrate a livello locale non sono sufficienti a
soddisfare le necessità finanziarie di alcuni. In effetti, la distinzione tra le due possibili finalità dei
trasferimenti erariali (a fini di efficienza e di perequazione) difficilmente si manifesta con forme
distinte di erogazione monetaria: i trasferimenti dal livello superiore di governo possono essere
vincolati o no al finanziamento di una data funzione, per migliorare l’allocazione efficiente delle
risorse, ma la ripartizione del fondo iscritto nel Bilancio dello Stato può essere guidata da principi
perequativi. Semplificando molto rispetto alle soluzioni adottate nella realtà, i possibili criteri di
riparto dei trasferimenti erariali sono i seguenti:
• la spesa storica;
• pro capite;
• per perequare la capacità fiscale;
• per perequare i fabbisogni di spesa.

Il criterio della spesa storica


Ripartire i trasferimenti erariali secondo il criterio della spesa storica significa assegnare a ciascun
Ente una somma proporzionale al livello di spesa sostenuto nell’anno precedente o in media in un
intervallo ritenuto indicativo. In sostanza, l’erogazione va a coprire la differenza tra la spesa
sostenuta effettivamente e le entrate proprie dell’Ente. Si tratta di una modalità di ripartizione
neutrale rispetto alla finalità perequativa. Anche il riparto in base alla spesa pro capite è neutrale dal
punto di vista della perequazione delle risorse, perché, assegnando a ogni cittadino residente nelle
varie giurisdizioni una stessa somma, il Governo centrale non tiene conto né delle risorse proprie
degli Enti periferici né delle diverse necessità di spesa, o meglio, tiene conto solo delle differenze
imputabili alla popolosità della collettività locale. Il trasferimento può essere illustrato dalla
F
seguente formula: T i=( N ) N i dove:

Ti è l’assegnazione all’ente i-esimo;


F è l’ammontare di risorse che lo Stato trasferisce agli enti periferici;
N è la popolazione nazionale;
Ni è la popolazione della collettività i-esima.

Il criterio della capacità fiscale


Il criterio della capacità fiscale, invece, è una modalità di ripartizione che tiene conto delle
disponibilità delle singole collettività e, dunque, delle sue capacità di finanziamento autonome.
L’assegnazione in questo caso è così determinata: Ti = tY – tYi = t (Y – Yi)
con:
Ti è il trasferimento alla collettività i-esima; t è l’aliquota media di riferimento;
Yi è la base imponibile della giurisdizione locale; Yè la base imponibile nazionale.
Lo sforzo fiscale...
Il tipo di assegnazione precedentemente illustrato è interamente determinato dalle differenze di basi
imponibili e non dalle aliquote applicate dagli Enti locali. Se il Governo centrale volesse premiare
lo sforzo fiscale dovrebbe erogare un’assegnazione proporzionale all’aliquota applicata dall’Ente
locale e alla differenza tra basi imponibili. La formula precedente dovrebbe essere modificata come
segue: Ti = ti (Y – Yi) dove ti è l’aliquota adottata dall’ente periferico.

...e i fabbisogni
Talvolta il Governo centrale può voler tener conto dei differenti bisogni a cui ciascuna collettività
deve rispondere: gli Enti locali possono differire anche per la popolazione di riferimento (per
esempio perché particolarmente anziana) o per i costi di determinati input (per esempio a causa
della conformazione geografica del territorio). Se l’obiettivo di chi eroga il trasferimento è colmare
le differenze di finanziamento riconducibili a questi elementi, l’erogazione dovrebbe essere
determinata: TGi = ti (Y – aYi)
dove a rappresenta una funzione dei costi e dei fabbisogni della popolazione della collettività

Esempi
Spesa pro capite: F = 200, Ni = 2, N = 100 ⇒ Ti = 4
Capacità fiscale: Y = 40, Yi = 10, t = 1/4 ⇒ Ti = 10– 2,5 = 7,5
Sforzo fiscale: Y = 40, Yi = 10, t = 1/4, ti = 1/2 ⇒ Ti = 20– 5 = 15
Fabbisogni: Y = 40, Yi = 10, t = 1/4, ti = 1/2, a = 1/2 ⇒ Ti = 20 – 2,5 = 17,5

L’effetto carta moschicida


L’analisi dell’effetto dei trasferimenti effettuata utilizzando le curve di indifferenza – che abbiamo
condotto finora – non considera un aspetto fondamentale: a chi si riferiscono le curve
d’indifferenza? Sono le preferenze dell’elettore mediano e burocrati e politici hanno un ruolo
passivo nella realizzazione dei desideri degli elettori?
Se sì, una conseguenza diretta della regola dell’elettore mediano è che un aumento di un euro nel
reddito della collettività locale ha esattamente lo stesso impatto sulla spesa pubblica
dell’ottenimento di un trasferimento non vincolato dello stesso importo. Un numero considerevole
di studi econometrici sui fattori determinanti della spesa pubblica locale (si veda per tutti Oates
1999) hanno mostrato che un euro ricevuto dalla collettività locale sotto forma di trasferimento
provoca un aumento della spesa pubblica superiore all’incremento derivante da un analogo
incremento nel reddito della collettività locale. Questo fenomeno è stato soprannominato effetto
della carta moschicida e le spiegazioni più accreditate indagano sul processo decisionale pubblico.
Filimon, Romer e Rosenthal (1982) sostengono che i burocrati cercano di massimizzare le
dimensioni dei loro budget e per questo non sono incentivati a informare i cittadini sul reale livello
di trasferimenti a disposizione della collettività locale; nascondendo questa informazione, possono
ingannare i cittadini facendoli esprimere a favore di un maggiore livello di spesa di quanto sarebbe
avvenuto altrimenti. Secondo questa visione, l’effetto della carta moschicida si verifica perché i
cittadini sono inconsapevoli del vincolo di bilancio effettivo.
Il sistema delle autonomie locali in Italia

Il federalismo fiscale in Italia


Il tema che presentiamo in queste lezioni è il così detto federalismo fiscale ed è da tempo dibattuto
in Italia e probabilmente lo sarà ancora nei prossimi anni. L’idea di modificare il sistema di
finanziamento di Regioni, Province e Comuni, nell’intento di responsabilizzare gli amministratori
locali sia nel reperire le risorse sia nell’impiegarle, ha trovato un consenso ampio nell’opinione
pubblica e nella classe politica. Non sempre però questo consenso è stato supportato dalla piena
consapevolezza delle implicazioni del decentramento e dei condizionamenti alla riforma derivanti
dalle peculiarità della nostra economia. A partire dai primi anni ’90, una serie importante di
modifiche al funzionamento dei livelli inferiori di governo sono state introdotte con legge ordinaria:
nel 1993 è stata introdotta l’Imposta Comunale sugli Immobili (l’ICI) e nel 1997, con le leggi 59
e 127 (le così dette Leggi Bassanini), è stato realizzato il decentramento amministrativo. Nel 2001
è stata modificato il Titolo V della Costituzione (Legge cost. 3/01). A maggio 2009, il Parlamento
ha approvato una legge delega (L. 42/2009) per l’attuazione del nuovo articolo 119 della
Costituzione dedicato proprio al finanziamento di Regioni, Province e Comuni. Alla legge delega
42/2009 seguirà nei prossimi anni l’adozione da parte del Governo di appositi decreti delegati.

La riforma del Titolo V della Costituzione


La riforma del Titolo V della Costituzione ha cambiato la ripartizione della potestà legislativa e
amministrativa, lo schema di finanziamento e i rapporti finanziari tra Enti, modificando gli articoli
117, 118 e 119. I primi due articoli disciplinano la ripartizione delle funzioni legislative e
amministrative tra Stato, Regioni ed Enti locali, mentre il 119 è interamente dedicato alle modalità
con cui questi Enti vengono finanziati.

Il nuovo articolo 117


Il testo vigente dell’articolo 117 prevede una ripartizione delle materie tra Stato e Regioni
individuandone un gruppo di esclusiva competenza statale, uno di competenza concorrente tra
Regioni e Stato e uno, residuale, di esclusiva competenza regionale. Mentre nel testo costituzionale
del 1948 erano indicate esplicitamente le materie di competenza regionale, la nuova formulazione
inverte il criterio ed enumera le materie di esclusiva potestà legislativa dello Stato, sancendo il
principio della potestà legislativa residuale regionale, secondo il quale la competenza è regionale
per tutte le materie non espressamente riservate allo Stato.

Il nuovo articolo 118


L’articolo 118 enuncia il principio di sussidiarietà, che implica da un lato il riconoscimento del
livello sopranazionale Comunitario come facente parte del nostro sistema istituzionale, dall’altro
che, in quanto livelli di governo più bassi, le Regioni sono le principali responsabili della funzione
legislativa e i Comuni di quella amministrativa.

Il nuovo articolo 119


L’articolo 119 disciplina l’assetto finanziario.
Alle Regioni è riconosciuto il potere di stabilire e applicare tributi ed entrate proprie, nel rispetto
del dettato costituzionale e secondo principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema
tributario. In sostanza allo Stato resta la competenza di fissare i principi fondamentali di indirizzo,
mentre alle Regioni è attribuita l’iniziativa legislativa in materia di coordinamento nei rapporti tra
finanza regionale e locale.
È inoltre stabilito che tra le fonti di finanziamento di Regioni ed Enti Locali rientrano le
compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al territorio di Regioni ed Enti locali. Ciò sta
a significare che le compartecipazioni al gettito di tributi erariali non alimentano fondi ripartiti in
base a criteri perequativi, o comunque stabiliti dal legislatore nazionale, ma sono da considerarsi un
vero e proprio gettito riscosso sul territorio. La Costituzione prevede l’istituzione di un fondo
perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Il
riferimento alla capacità fiscale per abitante indica la volontà del legislatore di finalizzare l’azione
perequativa al livellamento della capacità fiscale e non dei bisogni.
Si prevede poi che lo Stato destini risorse aggiuntive per scopi di tipo solidaristico economico-
sociale riguardante l’esercizio dei diritti della persona, lasciando intendere che per le funzioni che
garantiscono i diritti di cittadinanza lo Stato è competente e deve garantirne i livelli essenziali.
Infine, l’articolo 119 stabilisce che i tributi propri, le compartecipazioni e i trasferimenti devono
finanziare integralmente le funzioni pubbliche attribuite alle Regioni. Questa disposizione va intesa
nel senso che le funzioni che verranno trasferite alle Regioni dovranno trovare completa copertura
finanziaria con una delle tre forme indicate.

La legge 42/2009 di delega al governo per l’attuazione del FF


La legge delega introduce una modalità di finanziamento dei livelli inferiori di governo originale
rispetto alle esperienze europee più consolidate e frutto del compromesso tra le posizioni del centro-
destra e del centro-sinistra. Il principio introdotto è quello di differenziare le modalità di
finanziamento non solo rispetto al livello di governo, ossia distinguendo Regioni, Province e
Comuni, ma anche in relazione alle diverse funzioni di spesa sostenute da ciascuno di questi. Anche
i criteri di perequazione sono distinti a seconda del livello di governo e delle funzioni da questo
svolte.
Le spese delle Regioni sono distinte in:
1. spese riconducibili al vincolo dell’articolo 117 (comma 2, lettera m), ossia quelle spese per
cui “lo Stato ha competenza esclusiva nella determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale”;
2. quelle non riconducibili a questo vincolo;
3. quelle finanziate con i contributi speciali e con i finanziamenti dell’Unione Europea;
4. quelle per il trasporto pubblico locale;
5. quelle per la perequazione nei confronti degli Enti locali compresi nel territorio di ciascuna
Regione.
Le Regioni sono finanziate con:
• le compartecipazioni ai tributi erariali attribuite in base al criterio della localizzazione del
gettito;
• i tributi propri derivati, istituiti e regolati da leggi statali, ma per i quali le Regioni possono
intervenire disponendo modifiche di aliquote, esenzioni e detrazioni;
• le addizionali su basi imponibili di tributi erariali;
• i tributi propri istituiti dalle Regioni con proprie leggi, “in relazione a presupposti non già
assoggetti a imposizione erariale”.
Le Regioni potranno avere dei trasferimenti vincolati solo per la perequazione nei confronti degli
Enti locali e nel caso di contributi speciali, mentre per le prime due tipologie di funzioni le forme di
finanziamento dovranno essere non vincolate.
Le spese per le funzioni che richiedono un livello minimo di prestazione su tutto il territorio
nazionale dovranno essere finanziate con le compartecipazioni ai tributi erariali, con le imposte
proprie derivate (come l’IRAP attualmente in vigore e su cui torneremo) e le addizionali (come
l’attuale addizionale IRPEF). Le altre spese potranno essere finanziate con i tributi propri derivati, i
tributi propri istituiti dalle Regioni con proprie leggi e le addizionali alle imposte erariali.
Il modello che distingue le modalità di finanziamento a seconda della spesa da finanziare vale
anche per la perequazione: per le funzioni di spesa che devono garantire livelli essenziali di
assistenza, la legge delega stabilisce che la perequazione debba essere verticale (ossia un
trasferimento dallo Stato alle Regioni) e non orizzontale (per esempio tra le Regioni) e che debba
colmare il gap tra il gettito tributario standardizzato e i costi standard di esercizio delle funzioni.
Il compromesso sottostante alla legge delega riguarda la distinzione tra le funzioni per cui lo Stato
ha mantenuto la responsabilità di assicurare livelli minimi di assistenza (la sanità, l’assistenza e
l’istruzione) e tutte le altre funzioni di spesa. Per le prime, lo Stato trasferirà risorse alle Regioni
con capacità fiscale più bassa fino a colmare la differenza tra capacità fiscale e i cosiddetti costi
standard. Per le altre funzioni, invece, la perequazione avverrà sempre in base alla capacità fiscale,
ma a prescindere dai costi standard.
Anche per i Comuni la legge delega distingue le tipologie di spesa e attribuisce a ciascuna tipologia
una diversa modalità di finanziamento. In questo caso le funzioni che i Comuni dovranno essere
messi in grado di finanziare, a prescindere dalle loro capacità fiscali, sono quelle ex articolo 117
(comma 2, lettera p) definite come le funzioni fondamentali, che devono essere individuate con
legge statale.

L’attuale finanziamento delle Regioni


In attesa dei decreti delegati della legge delega, il finanziamento delle Regioni è disciplinato dal
D.lgvo 56 del 2000, che attribuisce alle Regioni il gettito dei seguenti tributi:
• l’imposta regionale sulle attività produttive, IRAP;
• la compartecipazione all’IVA;
• l’addizionale regionale all’IRPEF pari allo 0,9% e incrementabile di altri 0,5 punti
percentuali;
• la tassa regionale per il diritto allo studio universitario;
• la compartecipazione all’accisa sulla benzina;
• la tassa automobilistica regionale;
• la tassa speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi.

L’IRAP
È stata introdotta in Italia nel 1998 con l’obiettivo esplicito di fornire al livello di governo regionale
un suo tributo proprio e oggi rappresenta la fonte principale di finanziamento delle Regioni (il suo
gettito nel 2007 è stato pari a poco meno di 37 miliardi di euro e rappresentava il 35,5%, per le
Regioni a Statuto Ordinario e il 21%, per quelle a Statuto Speciale del totale delle entrate regionali
imputabili a tributi propri e compartecipazioni). Il presupposto dell’imposta è l’esercizio abituale di
un’attività diretta alla produzione o allo scambio di beni o servizi. I soggetti passivi sono gli
imprenditori individuali, le società, gli enti commerciali e non commerciali, gli esercenti arti e
professioni, le Amministrazioni Pubbliche, enti e società non residenti per il valore aggiunto
prodotto sul territorio nazionale. La base imponibile è data dalla differenza tra ricavi e acquisti
intermedi al netto degli ammortamenti, ossia il valore aggiunto netto prodotto nel territorio
regionale. L’imposta è dovuta alla Regione nel cui territorio viene realizzata la produzione del
valore aggiunto; se il soggetto IRAP opera in più Regioni il valore aggiunto è ripartito tra queste in
proporzione all’ammontare delle retribuzioni del personale che opera nelle diverse Regioni.
L’aliquota è pari al 3,9% e le Regioni possono variarla fino a un massimo di 0,92 punti percentuale,
differenziandola tra settori e soggetti passivi.

Il finanziamento della spesa sanitaria: dal fondo sanitario nazionale


ai costi standard
Prima dell’istituzione dell’IRAP la spesa sanitaria era finanziata con il gettito dei contributi sanitari
e con il Fondo Sanitario Nazionale. Al momento dell’introduzione dell’IRAP fu stabilito che il 90%
del suo gettito doveva essere destinato al finanziamento della spesa sanitaria, che per il resto
sarebbe stata finanziata con il gettito dell’addizionale IRPEF e con degli stanziamenti del FSN. Tali
stanziamenti sarebbero risultati residuali rispetto a quanto riscosso con questi tributi e tali che
ciascuna Regione assicurasse a ciascun cittadino un ammontare di spesa pro capite programmata da
Governo e Parlamento con il cosiddetto Piano Sanitario Nazionale.
Il Decreto n. 56/2000 prevede l’abolizione completa del FSN, l’istituzione di una
compartecipazione regionale all’IVA e l’eliminazione del vincolo di destinazione dell’IRAP. Si è
inteso assegnare alle Regioni la completa responsabilità del sistema sanitario e attribuire loro tributi
propri che fornissero le risorse necessarie al finanziamento. Più precisamente, nel metodo di
computo delle quote regionali del gettito derivante dalla compartecipazione all’IVA, sono previsti
dei criteri per perequare le risorse di Regioni che hanno redditi e basi imponibili differenti, ma non
è più prevista una spesa sanitaria pro capite che lo Stato assicurava in maniera uniforme su tutto il
territorio nazionale. Il Decreto 56/2000 prevede un periodo transitorio di 13 anni durante i quali
questi nuovi criteri avrebbero dovuto sostituire quello della spesa storica, che aveva condizionato la
ripartizione del FSN. Le enormi difficoltà incontrate nel superare questo criterio hanno suggerito, in
sede di elaborazione della legge delega sul federalismo fiscale, di introdurre il concetto di costo
standard e di articolare il finanziamento in modo da assicurare, attraverso tributi propri,
compartecipazioni e perequazione, che tutte le Regioni siano in grado di coprirli.

Il finanziamento dei Comuni


I Comuni si finanziano con:
• la tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche (la Tosap);
• l’imposta comunale sugli immobili non adibiti ad abitazione principale (ICI);
• la tassa sui rifiuti solidi urbani (Tarsu);
• l’imposta comunale sulla pubblicità e diritto sulle pubbliche affissioni;
• l’addizionale comunale all’IRPEF nella misura transitoria del 4,5%.

Il finanziamento delle Province


Alle Province è destinato:
• il gettito dell’imposta provinciale sulle assicurazioni contro la responsabilità civile da
circolazione dei veicoli a motore;
• l’imposta provinciale sulle trascrizioni.
L’ICI [ora IMU]
È stata introdotta nel 1993 con un provvedimento che ha equiparato gli enti locali italiani a quelli di
tutti i Paesi che hanno una finanza pubblica articolata su più livelli di governo. Il presupposto
dell’imposta è il possesso di fabbricati, aree fabbricabili e terreni agricoli sul territorio comunale, e i
soggetti passivi sono i proprietari o i titolari di altro diritto reale. La base imponibile è il valore
degli immobili come determinato dal prodotto tra le rendite catastali e specifici moltiplicatori,
diversi a seconda della categoria di accatastamento. Dell’aliquota è responsabile il Comune, che
deve fissarla entro la forchetta del 4-7‰ e che può differenziarla a seconda che il fabbricato sia
locato o meno. Nella legge istitutiva era previsto che per l’abitazione principale il Comune potesse
non solo differenziare l’aliquota ma anche stabilire una detrazione d’imposta incrementabile se il
proprietario era portatore di handicap, anziano con particolari condizioni di reddito o persona
disoccupata. Con la Finanziaria per il 2008 (articolo 1, comma 5), il Parlamento aveva stabilito che
il proprietario di prima casa potesse detrarre un ulteriore importo pari all’1,33‰ della base
imponibile. Tale ulteriore detrazione non poteva superare i 200 euro ed escludeva gli immobili di
lusso. Infine, con il decreto legge n. 93 del 27 maggio 2008, convertito nella legge 126/2008, l’ICI
dovuta dai proprietari sulla prima casa è stata definitivamente abolita.

Il Patto di Stabilità Interno


È un insieme di norme adottate dal Parlamento con l’obiettivo di coinvolgere Comuni, Province e
Regioni nel raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica che l’Italia ha assunto aderendo al
Patto di Stabilità e Crescita. Il vincolo europeo è sull’indebitamento netto delle Pubbliche
Amministrazioni, che è il risultato delle decisioni di spesa e di entrata non solo delle
Amministrazioni centrali, ma anche di quelle locali e regionali. La finalità generale alla base del
PSI è sempre stata quella di incentivare gli Enti periferici a comportamenti di spesa e di entrata
coerenti con i vincoli assunti dal Governo italiano in sede europea. È cambiata di anno in anno la
definizione dell’obiettivo programmatico: è stato a volte un saldo e altre volte un tetto alla crescita
della spesa; sono mutati gli aggregati di bilancio (cassa e competenza) su cui è definito l’obiettivo e
le voci da considerare nella definizione del saldo o della spesa; sono variati gli Enti e i comparti
coinvolti e, infine, anche il meccanismo premiante e sanzionatorio. Tali modifiche sono andate nella
direzione di eliminare progressivamente dal saldo delle voci, sia in entrata sia in uscita. Questa
tendenza è stata invertita dalla Legge Finanziaria per il 2007, che ha ripristinato un vincolo su un
saldo definito in maniera molto simile a quello che l’UE controlla per il conto consolidato
dell’Amministrazione Pubblica. A proposito dei soggetti tenuti ad applicare la normativa,
inizialmente erano coinvolti tutti gli Enti: Regioni, Province, Comuni e Comunità Montane, mentre
successivamente gruppi di Enti sono stati inclusi ed esclusi di anno in anno. In particolare, a partire
dal 2001, sono stati esclusi i Comuni con popolazione inferiore a 5000 abitanti, con la
giustificazione di alleggerire gli Enti più piccoli da adempimenti molto onerosi per una ridotta
struttura amministrativa, essendo – per altro – la loro incidenza sull’indebitamento delle Pubbliche
Amministrazioni marginale.
Il finanziamento in disavanzo e i vincoli

europei Obiettivi di apprendimento


Parte generale: distinguere il concetto di disavanzo da quello di debito, capire come misurare
correttamente l’entità del debito, comprendere se il finanziamento in disavanzo implichi un
trasferimento di oneri da una generazione all’altra e in quali circostanze può essere uno strumento
adeguato per finanziare la spesa pubblica.
Italia ed Europa: le ragioni della formazione del nostro debito, i vincoli del Trattato di Maastricht e
del Patto di Stabilità e Crescita; le ragioni economiche di tali vincoli.

Disavanzo e debito
Il disavanzo (o deficit o indebitamento netto) è l’eccesso di spese rispetto alle entrate che si
registra in un determinato periodo di tempo, normalmente l’anno. Il debito rappresenta la somma
dei disavanzi accumulati negli anni passati. Il debito è una variabile di stock (misurata in un dato
momento) mentre il disavanzo è una variabile di flusso (misurata in un dato arco di tempo). In Italia
nel 1990 il debito era pari al 103,7% del PIL, nel 2005 era pari al 105,8% del PIL e per il 2010 è
previsto pari al 118,6% del PIL. In media i Paesi OECD nel 2010 avranno un debito pari al 100%
del PIL. Il disavanzo italiano nel 2005 era 55 806 milioni di euro, pari al 4,33% del PIL, mentre per
il 2010 è previsto pari al 5%.

Le questioni di misurazione
Esistono vari motivi per cui le cifre ufficiali del disavanzo e del debito possono non essere
significative dal punto di vista economico, quelle che seguono sono alcune.
1. Debito delle Amministrazioni locali: i disavanzi che danno luogo alla formazione del
debito possono essere creati da livelli di governo diversi, non solo dallo Stato.
2. Effetti dell’inflazione: l’entità del debito muta a seconda dell’andamento dei prezzi.
3. Capitale e contabilità pubblica: come considerare un debito formato per finanziare
investimenti rispetto a quello formato per spese in conto corrente?
4. Immobilizzazioni materiali: come contabilizzarle?
5. Obblighi impliciti: come considerare che lo Stato ha degli obblighi impliciti nei confronti
dei residenti (per esempio, legati alla spesa pensionistica) che vanno oltre quelli dei titoli di
stato?

L’onere del debito


Una delle questioni più dibattute è se gli effetti distributivi e di crescita di un’economia cambiano, e
come, se una data spesa pubblica è finanziata con imposte o con l’emissione di titoli, cioè
indebitandosi. Ipotizziamo che per onere si intenda una riduzione dei livelli di consumo di un certo
gruppo di individui. Per comprendere questa questione è necessario analizzare i costi del
finanziamento del debito e chi li sostiene. Due definizioni di generazione:
1) un gruppo di individui nati nello stesso periodo (le generazioni si susseguono);
2) un gruppo di persone nate in uno stesso arco di tempo (le generazioni si sovrappongono)
L’onere del debito: l’approccio alla Lerner
Secondo Lerner (1948) è necessario distinguere tra debito interno e debito esterno:
• nel caso del primo, non si ha alcun onere per la generazione futura, perché quando il debito
viene estinto si ha un trasferimento di reddito da un gruppo di cittadini (chi non detiene
obbligazioni) a un altro (chi detiene obbligazioni) e la generazione futura nel suo insieme
non si trova in condizioni peggiori, nel senso che il livello dei consumi non è stato alterato;
• se un Paese contrae prestiti con l’estero per finanziare la spesa corrente, la generazione
futura sopporta certamente un onere, perché dovrà restituire ai prestatori stranieri non solo
l’importo preso a prestito, ma anche gli interessi accumulati, e potrà farlo solo riducendo i
propri consumi.

Il modello a generazioni sovrapposte (overlapping generations)

Dalla tabella precedente si possono trarre le seguenti considerazioni:


1. le politiche di spesa e di indebitamento hanno fatto sì che la generazione che era anziana nel
2010 abbia un livello di consumo lungo l’arco della vita superiore di 4000 euro a quello che
avrebbe avuto in altre condizioni;
2. i giovani e le persone di mezz’età non si trovano, nel corso della vita, in condizioni né
migliori né peggiori in termini di livelli di consumo;
3. nell’arco della vita la generazione dei giovani nel 2030 ha un consumo inferiore di 4000
euro rispetto a quello che avrebbe avuto se lo Stato non si fosse indebitato per finanziare la
spesa pubblica.

Il modello neoclassico
Finora abbiamo ipotizzato che l’introduzione di imposte per la restituzione del debito non alteri le
decisioni di lavoro né quelle di risparmio, mentre le imposte determinano una distorsione nelle
decisioni e comportano comunque dei costi per l’economia. Abbiamo anche ignorato l’effetto che il
finanziamento del debito può avere sulla formazione del capitale. Il modello neoclassico del
debito sottolinea il fatto che, quando lo Stato avvia un progetto, a prescindere dal fatto che sia
finanziato da imposte o da prestiti, vengono sottratte risorse al settore privato. Quando lo Stato
contrae un prestito entra in competizione per i fondi con individui e imprese che vogliono il
denaro per finanziare i propri progetti di investimento. Se le risorse prese a prestito sono
utilizzate per finanziare la spesa corrente, si lascia alla generazione futura uno stock di capitale
meno consistente, mentre se lo Stato realizza investimenti produttivi lo stock di capitale totale
aumenta. Nell’analisi neoclassica, l’idea che il prestito allo Stato riduca l’investimento privato, il
cosiddetto effetto spiazzamento, vale anche se le risorse pubbliche sono impegnate per
investimenti: l’effetto di spiazzamento è dovuto a variazioni dei tassi di interesse. Quando lo
Stato aumenta la domanda di credito il tasso di interesse aumenta; se cresce il tasso di interesse,
gli investimenti privati diventano più cari e vengono effettuati in misura più limitata

Il teorema di Barro-Ricardo
Barro (1974) ha sostenuto che, quando lo Stato contrae un prestito, gli appartenenti alla
“vecchia” generazione si rendono conto che i loro eredi si troveranno in condizioni peggiori e
possono decidere di aumentare i lasciti di un importo sufficiente a coprire le imposte aggiuntive
che saranno dovute in futuro. In questo modo i livelli di consumo di entrambe le generazioni non
subirebbero cambiamenti, e il finanziamento con imposte o con debito avrebbe un effetto
essenzialmente equivalente. Questa visione, secondo cui i comportamenti degli individui
rendono irrilevante l’alternativa tra finanziamento con debito o con imposte, viene spesso
denominata teorema di Ricardo perché fu anticipata nell’opera di David Ricardo (1772, 1823),
economista britannico. È bene ricordare che Ricardo, nella sua analisi sul debito, presentava
questa come una delle situazioni possibili ed esprimeva lui stesso alcuni dubbi sul fatto che si
potesse verificare effettivamente.

Alcune considerazioni di efficienza

Tra il finanziamento mediante imposizione fiscale e l’indebitamento, quale


crea un eccesso di onere superiore?
Posto che qualsiasi aumento della spesa pubblica alla fine deve essere finanziato da un aumento
delle imposte, le due alternative differiscono solo per la collocazione temporale delle imposte: se
il finanziamento avviene tramite imposte viene effettuato un pagamento consistente nel
momento in cui si effettua la spesa, mentre con l’indebitamento vengono effettuati molti piccoli
pagamenti nel corso del tempo per finanziare l’interesse dovuto sul debito. Alla fine però i valori
attuali delle due forme di prelievo devono essere gli stessi in entrambi i casi.

Se i valori attuali del prelievo fiscale sono identici a prescindere dal metodo
adottato, esistono motivi per prediligere il finanziamento con
imposte o in disavanzo in base a considerazioni di efficienza?
Supponiamo per semplicità che tutte le
entrate per il finanziamento del debito
siano realizzate mediante imposte sul
reddito da lavoro; ricordando che
l’eccesso di pressione è funzione
1 2
dell’aliquota al quadrato: EP= 2 ε sL1 t
Si può concludere che due imposte con
aliquota ridotta non sono equivalenti a
un’imposta consistente e si
preferiscono le prime alla seconda. [ma
con l’indebitamento può perdere efficienza l’allocazione del capitale]

Alcune considerazioni di efficienza


Il debito italiano: l’origine

I dati delle figure precedenti


possono essere letti più
facilmente se si distinguono in
3 periodi:
1. tre dall’inizio degli anni
’80 fino al 1992;
2. dal 1992 al 2005;
3. dal 2005 a oggi.
Il debito italiano: dagli anni ‘80 al 1992
Gli anni ‘70 e ’80 sono stati caratterizzati da un saldo primario costantemente negativo.
Negli anni ’70, a seguito dell’estensione degli interventi del welfare state a favore della grande
maggioranza della popolazione e delle pressioni sul Bilancio pubblico derivanti dalle crisi
petrolifere, l’incremento nelle uscite è stato solo parzialmente accompagnato da un aumento della
pressione fiscale. A partire dai primi anni ’80, la pressione fiscale ha cominciato ad aumentare
stabilmente, poiché le riforme tributarie adottate nella prima metà degli anni ’70 sono entrate
definitivamente a regime. Il saldo primario è rimasto negativo perché anche le uscite hanno
continuato a crescere, sebbene all’epoca non si siano verificati rilevanti mutamenti istituzionali
rispetto a quanto avvenuto negli anni ’70. In effetti, gli anni ’80 sono stati inoltre caratterizzati da
una continua crescita della spesa per interessi, dovuta all’aumentare dei tassi di interesse, che
all’epoca dovevano coprire sia il rischio di cambio, ossia il rischio di una svalutazione della lira, sia
le aspettative di inflazione, che allora era piuttosto alta.

Dal 1992 al 2005


La firma del Trattato di Maastricht e l’obiettivo dell’ammissione all’Unione Monetaria hanno
caratterizzato il decennio ’90: il saldo primario è stato per la prima volta positivo nel 1992 e nel
1997 ha raggiunto il suo massimo, pari al 6,62% del PIL. Il dato del saldo primario si spiega con un
notevole incremento della pressione fiscale, e ha permesso di raggiungere nel 1997 un
indebitamento netto inferiore al 3%. Lo stock del debito è passato dall’essere inferiore al 60%, alla
fine degli anni ’70, a superare il 100%, agli inizi degli anni ’90, per toccare il suo massimo, oltre il
120% del PIL, nel triennio 1994-1996. L’inversione di tendenza verificatasi nel 1992 ha permesso al
rapporto debito/PIL di ridursi costantemente nel decennio 1996-2005. A questo risultato hanno
contribuito l’incremento della pressione fiscale, il controllo del saldo primario, ma soprattutto il
risparmio sulla spesa per interessi sui titoli di Stato, che è stato uno degli effetti positivi
dell’ingresso nell’Unione Monetaria. Adottando la moneta unica, gli interessi sui titoli del debito
pubblico non devono più coprire il rischio di cambio della lira, bensì quello dell’euro, che è molto
più contenuto.

Il 2005
Il 2005 segna una nuova svolta: il saldo primario è azzerato, l’indebitamento netto sfiora il limite del
3% e dall’anno successivo il rapporto debito/PIL ricomincia a crescere. Nell’ultimo biennio la crisi
economica internazionale ha definitivamente allontanato la finanza pubblica italiana dai parametri
europei. Questo è avvenuto anche negli altri Paesi dell’Unione Monetaria, per l’effetto combinato
della contrazione del PIL e dell’adozione di politiche anticicliche per attenuare gli effetti della crisi.
In Italia non sono state adottate politiche per alleggerire gli effetti della crisi e la contrazione del PIL
è l’unica spiegazione dell’allontanamento dell’indebitamento netto
dall’obiettivo europeo e del ritorno del rapporto debito/PIL a valori comparabili a quelli registrati
nella prima metà degli anni ’90.

Il Trattato di Maastricht e il Patto di Stabilità e Crescita


L’Unione Europea ha un suo proprio Bilancio che però ha dimensioni ridotte (pari all’1,08% del
PNL del totale degli Stati membri) ed è finalizzato a un numero circoscritto di politiche
(essenzialmente quella agricola e quella di gestione dei fondi strutturali). L’adozione dal 1°gennaio
1999 della moneta unica per 11 degli Stati membri dell’Unione Europea ha comportato la loro
rinuncia a una politica monetaria propria, la cui gestione è stata conferita alla Banca centrale
europea (BCE), che agisce di concerto con le Banche centrali degli Stati aderenti all’Unione
Economica e Monetaria, dando luogo al così detto SEBC (Sistema Europeo delle Banche
Centrali).

Il Patto di Stabilità e Crescita


Dato l’avvio della moneta unica, le ancora ridotte dimensioni del Bilancio europeo e lo stallo del
processo costituente, il Trattato di Maastricht e il Patto di Stabilità e Crescita rappresentano il
principale strumento con cui gli Stati membri dell’Unione Monetaria hanno disciplinato le
condizioni per accedere all’Unione stessa prima e poi vincolato le proprie politiche fiscali nel
tentativo di renderle coerenti. Al di là del richiamo ai noti parametri del Trattato di Maastricht (es.
deficit/PIL < 3%; debito/PIL < 60%) anche nel PSC, tra il primo e il secondo ci sono alcune
differenze. In particolare, il secondo è articolato in una parte preventiva e una repressiva. La prima
prevede uno scambio di informazioni con la Commissione finalizzata a evitare che i Paesi membri
incorrano in disavanzi eccessivi; la seconda indica le sanzioni da adottare in questa eventualità. I
Paesi membri presentano alla Commissione un Programma di stabilità (Programma di
convergenza per i paesi candidati ad entrare) entro il primo marzo di ogni anno. In questi documenti
i Paesi indicano lo stato della finanza pubblica nell’anno appena concluso e le previsioni per il
triennio successivo specificando come intendono raggiungere (o mantenere) il saldo di bilancio di
medio termine in pareggio. I Paesi con un debito eccessivo, come l’Italia, si impegnano ad
aggiustare il disavanzo aggiustato per il ciclo dello 0,5% del PIL.

Le ragioni economiche dei vincoli


Nonostante quanto previsto dal Patto di Stabilità e Crescita, sull’opportunità di vincolare le politiche
fiscali dei Paesi aderenti a una unione monetaria non c’è consenso unanime. Secondo la teoria delle
aree valutarie ottimali (AVO), la perdita del potere sulla politica monetaria, e in particolare sullo
strumento del tasso di cambio, richiede la flessibilità dei salari e della forza lavoro per affrontare gli
shock simmetrici (che colpiscono cioè tutti i Paesi nello stesso modo) e la necessità di centralizzare
una parte significativa dei Bilanci nazionali per far sì che i Paesi colpiti da shock asimmetrici
(ossia che riguardano un solo Paese) possano beneficiare di trasferimenti automatici. Sulla base di
queste indicazioni, riferendosi alla prospettiva di un’unione monetaria europea, il Rapporto
MacDougall del 1977 suggeriva una progressiva centralizzazione del potere di Bilancio. Qualora
questa strada non fosse percorribile, la teoria tradizionale delle AVO raccomanda che le politiche
fiscali nazionali siano lasciate libere di rispondere con una certa flessibilità agli shock negativi.
Tuttavia, questa libertà può essere utilizzata da parte degli Stati membri creando spillover negativi
sugli altri Paesi. Un Paese con alto debito può anche divenire inadempiente e l’integrazione dei
mercati finanziari di un’unione è tale per cui il non salvataggio metterebbe in difficoltà soprattutto le
istituzioni finanziarie degli altri Paesi. Ci sarebbero pressioni sulla Banca centrale perché allenti la
propria politica monetaria o perché intervenga in salvataggio del Paese inadempiente, comprandone
i titoli. In tutte e due i casi ci sarebbe un aumento dell’offerta di moneta e un effetto sull’inflazione a
carico di tutti i cittadini dell’Unione. Un salvataggio di un
Paese inadempiente da parte della Banca centrale alimenterebbe la convenienza a comportamenti
opportunistici. In realtà, l’esistenza di un Paese con un debito molto elevato ha l’effetto citato sui
tassi di interesse dell’unione monetaria solo se i mercati finanziari non sono perfetti; se lo sono,
infatti, dovrebbero distinguere il rischio di inadempienza di ciascun Paese in maniera tale da
diversificare i tassi di interesse richiesti per i titoli di ciascuno di loro. A proposito
dell’inadempienza di un Paese, invece, una clausola di non salvataggio è stata espressamente
prevista nel Trattato di Maastricht.

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