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LA DIAGNOSI PSICOANALITICA

Perchè la diagnosi?

Vi sono molte obiezioni circa il termine “diagnosi”, e una di queste afferma che la terminologia diagnostica
risulta inevitabilmente peggiorativa.
I terapeuti esperti fanno sempre questo tipo di commenti, ma comunque durante il loro periodo di
formazioni è stato loro utile avere a disposizione un linguaggio in grado di racchiudere all'interno di quadri
più generali le differenze individuali, nonché di fornire informazioni utili per il trattamento.
Di sicuro la terminologia diagnostica può essere utilizzata in modo reificante e offensivo, ma l'obiettivo di
ogni psicoterapeuta è quello di cogliere l'unicità degli individui andando oltre ogni etichetta e stereotipo.
È facilmente dimostrabile l'abuso del linguaggio psicodiagnostico, ciò tuttavia non ne legittima l'abbandono:
la diagnosi, quando sia fatta con sensibilità e con un adeguato addestramento, offre almeno cinque
vantaggi:
– è utile nella pianificazione del trattamento
– fornisce un'informazione implicita sulla prognosi
– contribuisce a proteggere gli utenti dei servizi di salute mentale
– aiuta il terapeuta a comunicare empatia
– contribuisce a ridurre la probabilità che il trattamento venga abbandonato da quelle persone che si
spaventano facilmente.
Inoltre, il processo diagnostico presenta una serie di vantaggi che facilitano anche indirettamente la terapia.
Con processo diagnostico si intende che nelle sedute iniziali con un nuovo cliente, a meno che non si tratti
di situazioni di crisi, si devono raccogliere un'ampia gamma di informazioni di tipo oggettivo e soggettivo.

Diagnosi psicoanalitica e Diagnosi psichiatrica descrittiva. La diagnosi descrittiva in psichiatria è divenuta


nel tempo la norma, a tal punto che il DSM è regolarmente considerato come la “bibbia” della salute
mentali, come se avesse di per sé uno statuto epistemologicamente assoluto.
Innanzitutto il DSM manca di un'implicita definizione di salute mentale e di benessere emotivo. Di contro,
l'esperienza clinica psicoanalitica suggerisce che il terapeuta non dovrebbe soltanto aiutare i pazienti a
modificare comportamenti o stati mentali problematici, ma anche ad accettare i loro limiti, a migliorare
complessivamente le loro capacità di resilienza e il loro senso di agency, a incrementare la loro possibilità di
tollerare un ampio spettro di pensieri e stati affettivi, a rendere più stabile e continuo il loro senso di Sè, a
sviluppare la loro autostima, la loro capacità di intimità, la loro sensibilità morale e la consapevolezza
rispetto alle soggettività degli altri individui distinti dal sé.
Quando tali parametri della salute mentale sono gravemente deficitari, gli individui non sono neanche
capaci di immaginare tali possibilità. Pertanto questi pazienti raramente si lamenteranno dell'assenza di
queste capacità e vorranno semplicemente star meglio; si presenteranno lamentandosi di un preciso
disturbo, ma in realtà i problemi andranno per oltre questo sintomo.

Secondo, nonostante sia stato fatto un sincero sforzo per incrementare la validità e l'attendibilità delle
edizioni del DSM, queste sono rimaste comunque insoddisfacenti: il tentativo di ridefinire la psicopatologia
ha portato a realizzare descrizioni di sindromi cliniche che risultano categoriali in modo artificioso e che non
colgono le esperienze complesse dei pazienti = il fatto di non inserire e non dare importanza all'esperienza
soggettiva dei sintomi da parte del paziente ha generato una visione di sofferenza mentale distante
dall'esperienza, visione basata sul fatto che se si riconoscono delle caratteristiche nel disturbo di un
individuo che possono essere ricondotte ad una precisa psicopatologia, allora quel paziente deve per forza
essere etichettato secondo quella patologia.
Questo si può notare in disturbi come l'ansia e la depressione dove ci si limita ad osservare i fenomeni
esterni, oggettivi, come l'aumento del battito cardiaco o le modifiche dell'alimentazione e del sonno
escludendo però aspetti critici e soggettivi utili per la comprensione clinica e il trattamento.

Terzo. Nonostante il DSM sia spesso definito un modello medico della psicopatologia, nessun medico
riterrebbe tale manuale scientifico e medico in quanto tale. La reificazione delle categorie dei disturbi ha
avuto conseguenze negative e indesiderate, come il fatto che si sono racchiuse le patologie con un minimo
comune denominatore sotto la stessa etichetta diagnostica. Ovviamente, l'approccio categoriale ha anche
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prodotto dei benefici alle case farmaceutiche, che hanno interesse nell'incremento sempre maggiore della
lista dei disturbi classificati, per ognuno dei quali possono vendere uno specifico farmaco.

Quarto, osservando cosa è stato inserito nei DSM successivi a quelli del 1980, si sono osservato delle
decisioni arbitrarie, incoerenti e influenzate dai legami con le case farmaceutiche dei gruppi di studio che
hanno contribuito al DSM. → il risultato di questo processo è stata l'errata concettualizzazione di molti
problemi di personalità, che sono stati invece concepiti come episodi discreti di un disturbo dell'umore
(tutti i disturbi dell'umore sono stati inseriti sotto la sezione “Disturbi dell'Umore” facendo scomparire la
classica diagnosi di personalità depressiva).
Anche quando i criteri che riguardano l'inclusione o l'esclusione di un quadro diagnostico sono chiari e
facilmente difendibili, su un piano clinico il risultato più sembrare comunque arbitrario. Dal DSM III in poi un
criterio per l'inclusione di un disturbo è stato quello che imponeva la presenza di dati di ricerca relativi al
disturbo stesso → un esempio riguarda il fatto che nonostante ci fossero già dal 1980 abbastanza ricerche
sulle personalità dissociative, nel DSM non vi erano molte ricerche sulla dissociazione nel bambini, anche se
per moltissimi clinici era diffuso il consenso che un individuo adulto non sviluppa un disturbo dissociativo se
non ne è stato affetto anche da bambino.

Un ultimo commento, riguarda l'effetto sociale che ha la diagnosi categoriale: essa può contribuire allo
sviluppo di forme di autoestraneamento, a una reificazione degli stati del Sè. Un esempio riguarda la pillola
rosa Serafem di Eli Lilly la quale ha creato una nuova “malattia”, ovvero il disturbo disforico premestruale. In
seguito a questo, un conto è dire “mi dispiace sono nervosa a causa del ciclo”, un altro è dire “ho il disturbo
disforico premestruale”; nel secondo caso vi è un distacco da se stessi, dalle proprie caratteristiche, dal
proprio sé, e questo può causare minore risposte affettive, implicare la necessitare di curare questo
disturbo eccetera.

Pianificazione del trattamento. La pianificazione del trattamento è la motivazione fondamentale della


diagnosi.
Essa implica un parallelismo tra il trattamento psicoterapeutico e quello medico, e questo parallelismo nella
psicoterapia a volte funziona mentre altre volte no: è facile rendersi conto di un ottimo risultato e di una
buona diagnosi quando si tratta di condizioni per le quali esiste un approccio terapeutico specifico come la
diagnosi di dipendenza da sostanze e il disturbo bipolare.

Nonostante negli ultimi quindici anni siano state sviluppate tecniche specifiche per il trattamento dei
disturbi del carattere, la prescrizione più frequente per i disturbi di personalità resta ancora oggi la
psicoterapia psicoanalitica a lungo termine. Ma i trattamenti psicoanalitici non possono essere applicati in
modo rigido senza tener conto della personalità del paziente.
Inoltre gli sforzi di empatia del clinico non garantiscono affatto che il paziente si senta compreso: occorre
inferire qualcosa sulla psicologia di quello specifico paziente per capire cosa può aiutarlo a sentirsi
riconosciuto e accettato.

Implicazioni prognostiche. La percezione delle differenze di profondità e ampiezza nei problemi di


personalità è vantaggiosa tanto per il clinico quanto per il paziente.
Le categorie indicate nel DSM a volte contengono implicazioni sulla gravità e sulla prognosi di una
particolare condizione, ma a volte consentono solo una classificazione consensualmente accettata, priva di
ogni informazione implicita su cosa ci si possa aspettare dal processo terapeutico.
→ la diagnosi è inutile nel momento in cui si basa solamente sul problema manifesto (una fobia in una
persona depressa è molto diversa dalla fobia di una persona caratterologicamente fobica) → la
psicodiagnosi è stata criticata per molto tempo in quanto si è spesso basata sul porre un'etichetta sul
problema manifesto del paziente.
Uno dei punti di forza della tradizione psicoanalitica è la sua attenzione alla differenza tra i sintomi dovuti a
condizioni di stress temporaneo e i problemi strutturali della personalità anche se ovviamente questo non
era sempre vero per Freud.
È quindi importante in qualsiasi percorso psicodiagnostico riuscire a comprendere la singolarità e l'unicità di
ogni paziente, in quanto di fronte a simili patologie si nascondono trascorsi differenti e storie altrettanto
diverse.
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Protezione dell'utente. Sulla base di una valutazione accurata è possibile informare il paziente su cosa deve
aspettarsi, evitando di promettere troppo o dare indicazioni sbagliate.
Poche persone restano turbate se si sentono dire, ad esempio, che data la loro storia e le circostanze attuali,
si può prevedere che la psicoterapia richieda molto tempo per ottenere un cambiamento sicuro. Anzi, molti
individui sono incoraggiati dal fatto che il terapeuta riconosca la profondità dei loro problemi e voglia
impegnarsi in un lungo percorso per cercare di risolverli.
È fondamentale riuscire a capire la durata ideale di un trattamento, in quanto questo non può essere ne
troppo breve ne troppo lungo: non può essere troppo breve di fronte ad una persona con serie difficoltà,
ma non può neanche essere troppo lungo e dispersivo senza portare a nessun beneficio.

La comunicazione dell'empatia. Il termine empatia viene spesso confuso con il termine “comprensione”
che indica però una distanza difensiva dalla persona sofferente.
Spesso alcuni terapeuti si rimproverano per non avere abbastanza empatia o per aver provato delle
sensazioni di odio e paura verso un loro paziente, ma in realtà queste emozioni non sono per forza negative,
al contrario, indicano un grado molto elevato di empatia in quanto stanno realmente sentendo con il
paziente, provano la sua stessa ostilità, terrore e sofferenza.
Nel momento in cui il terapeuta percepisce dentro di sé questi sentimenti è utile che li comprenda e che li
usi a suo favore per entrare maggiormente in empatia con il paziente.
[leggere da pagina 34 a pagina 40]

La diagnosi psicoanalitica del carattere

Lo studio del carattere e della personalità è stato affrontato in due modi diversi a seconda del precedente
modello teorico dello sviluppo individuale.
Ai tempi dell'originaria teoria pulsionale di Freud venne fatto il tentativo di comprendere la personalità sulla
base della fissazione.
In seguito con lo sviluppo della psicologia dell'Io, si concepì il carattere come espressione di particolari stili
difensivi → questo secondo modo di comprendere il carattere non era il conflitto con il primo, offriva una
serie diversa di idee e metafore per riferirsi a un certo tipo di personalità e aggiungeva ai concetti della
teoria pulsionali alcuni assunti.
[leggere pagina 41 e 42]

La teoria freudiana classica delle pulsioni. La teoria dello sviluppo della personalità originariamente
proposta da Freud era un modello di derivazione biologica che sottolineava la centralità dei processi
istintuali: essa concepiva negli esseri umani un'ordinata progressioni di interessi corporei a partire dalla
dimensione orale, attraverso quella anale e fallica, fino alla dimensione genitale.
Nella prima infanzia e fanciullezza le disposizioni naturali della persona riguardano questini elementari di
sopravvivenza, percepite in un primo momento in modo profondamente sensuale attraverso l'allattamento
e le altre manipolazioni materne del corpo dell'infante.
In quest'ottica, i bambini nelle prime fasi dell'esistenza e, quindi anche gli aspetti infantili del Sè che ancora
permangono negli adulti, ricercano senza nessuna inibizione la gratificazione istintuale, con alcune
differenze individuali nell'intensità delle pulsioni → sono considerate cure materne appropriate quelle
capaci di oscillare con sensibilità da un livello di gratificazione sufficiente a creare sicurezza emotiva e
piacere, da un lato, a un grado di frustrazione appropriato al livello evolutivo dall'altro, tale che il bambino
impari come rimpiazzare il principio di piacere con il principio di realtà.
Freud ha parlato poco del contributo dei genitori nei suoi pazienti, ma ha notato che spesso all'origine di
qualche psicopatologia vi era un fallimento genitoriale sia nell'eccessiva gratificazione delle pulsioni sia
nell'eccessiva privazione.

La teoria pulsionale inoltre postula che il bambino eccessivamente frustrato o gratificato in uno stadio
psicosessuale precoce rimane fissato ai problemi relativi a quello stadio.
= il carattere viene dunque concepito come espressione degli effetti a lungo termine di tale fissazione: se un
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adulto ha una personalità depressiva, probabilmente è stato trascurato o eccessivamente gratificato nel
primo anno e mezzo di vita (fase orale), se è ossessivo ha avuto problemi all'incirca tra un anno e mezzo e
tre anni (fase anale), se è un isterico probabilmente ha avuto esperienze di rifiuto o una sovrastimolazione
seduttiva, o entrambe, tra i tre e i sei anni di età (fase fallica).
Tale teoria non venne in mente a Freud in modo così lineare, ma era invece frutto di dati, raccolti da Freud e
dai suoi colleghi: nell'Analisi del carattere di Wilhelm Reich l'applicaizone della teoria pulsionale alla
diagnosi di personalità raggiunge il suo apice. Infine però il tentativo di comprendere il carattere basandosi
esclusivamente sulla fissazione istintuale si rivelò deludente, a tal punto che al giorno d'oggi quasi nessun
analista si basa ancora sul modello della fissazione a uno stadio pulsionale, nonostante nella psicoanalisi
contemporanea permane quella sensibilità agli aspetti evolutivi che ha preso le mosse dall'originale teoria
freudiana = alcuni clinici psicodinamici tendono infatti a pensare in termini di stadi di maturazione e a
intendere la psicopatologia in termini di arresto evolutivo o di conflitto in una particolare fase, e quindi a
rappresentare i problemi dei loro pazienti nei termini di qualche compito evolutivo non portato a termine.

Negli anni '50 e '60 dello scorso secolo è stata accolta con molta attenzione la riformulazione di Erik Erikson
degli stadi psicosessuali in base ai compiti interpersonali e intrapsichici propri di ciascuna fase.
Sebbene il suo lavoro sia considerato un prototipo della tradizione della psicologia dell'Io, la sua teoria degli
stadi riecheggia molti assunti del modello pulsionale di Freud.
Egli ridefinisce gli stadi di Freud: la fase orale viene intesa da Erikson nella sua condizione di totale
dipendenza, in cui lo stabilirsi di una fiducia di base rappresenta l'esito specifico della gratificazione o
deprivazione della pulsione orale.
La fase analisi implica l'acquisizione dell'autonomia: l'aspetto tipico di questa fase è il controllo delle
funzioni escretorie (come proposto da Freud) ma comprende anche una vasta gamma di problemi relativi
all'apprendimento dell'autocontrollo e al suo venire a patti con le aspettative della famiglia e della società.
La fase edipica (o anale) viene vista come un periodo critico in cui sviluppare un senso di efficacia e un
sentimento di piacere nell'identificazione con i propri oggetti d'amore.

Intorno al 1950 Harry Stack Sullivan propose un'altra teoria degli stadi che dava maggiore risalto alle
acquisizioni sul piano della comunicazione, come il linguaggio e il gioco, piuttosto che sulla soddisfazione
pulsionale.
Egli inoltre credeva, come Erickson, che la personalità continuasse a svilupparsi e a cambiare bene al di là
dei primi sei anni (indicati da Freud).

L'opera di Margaret Mahler sulle fasi e sottofasi del processo di separazione-individuazione, che ha inizio
all'incirca all'età di tre anni, ha rappresentato un ulteriore passo nella concettualizzazione dei processi che
hanno rilevanza per la struttura definitiva della personalità.
Gli analisti britannici hanno sviluppato ulteriori osservazioni clinicamente utili sugli aspetti evolutivi. Ad
esempio Melanie Klein ha illustrato il passaggio nell'infanzia dalla posizione schizoparanoide a quella
depressiva: nella prima il bambino non ha ancora realizzato la separazione tra se stesso e la sua figura di
accudimento, mentre nella posizione depressiva egli coglie che questa figura è esterna e ha una mente
separata da lui.

→ questi contributi vennero accolti con favore dai terapeuti che, attraverso i progressi teorici post-freudiani,
avevano a disposizione nuovi modi di comprendere come si era bloccati i loro pazienti e divenivano
maggiormente in grado di cogliere alcuni slittamenti negli stati del Sè dei loro pazienti.
Più recentemente Peter Fonagy e il suo gruppo di lavoro hanno proposto un modello relativo allo sviluppo
di un adeguato senso di sé e della realtà basato sulla capacità di mentalizzare le motivazioni degli altri.
Egli ha osservato che intorno ai due anni i bambini passano da una “modalità dell'equivalenza psichica”, in
cui il mondo interno e il mondo esterno corrispondono, ad una “modalità del far finta” in cui il mondo
interno è scorporato dal mondo esterno ma non è ancora governato dalle sue regole; successivamente, tra i
4 e i 5 anni, il bambino acquisisce la capacità di mentalizzazione e la funzione riflessiva, cosicchè le due
modalità vengono integrate e la fantasia viene chiaramente distinta dalla realtà.

Molti commentatori contemporanei hanno affermato che la tendenza a formulare i problemi in termini
evolutivi ha un carattere riduttivo ed è scarsamente sostenuta da prove cliniche ed empiriche.
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L.Mayes, per esempio, ha affermato che le mappe che “le mappe che ci orientano nel territorio dello
sviluppo sono abbastanza utili, ma non dovrebbero essere interpretate alla lettera”.
Gli psicologi dello sviluppo contemporanei sono scettici rispetto alle prospettive stadiali, dato che lo
sviluppo stesso è un processo dinamico e caratterizzato da continui cambiamenti.

La psicologia dell'Io. Freud usava il termine Es per indicare quella parte della psiche che contiene pulsioni e
impulsi primitivi, forze prerazionali, combinazioni di desideri-paure e fantasie. L'Es cerca solo la
gratificazione immediata ed è totalmente egoista, operando secondo il principio del piacere.
Dal punto di vista cognitivo è preverbale e si esprime con immagini e simboli. È anche prelogico e non
possiede i concetti di tempo, mortalità, limite e neanche concepisce l'impossibilità che gli opposti
coesistano.
Freud definiva pensiero del processo primario questa modalità cognitiva primitiva, che sopravvive nel
linguaggio dei sogni, delle battute umoristiche e delle allucinazioni.
I neuroscienziati oggi localizzano l'Es nell'amigdala.
L'Es è completamente inconscio, ma ne possiamo cogliere l'esistenza e la forza dei derivati che compaiono
in forma di pensieri, azioni ed emozioni. (secondo Freud gli esseri umani civilizzati sono creature motivate
razionalmente e che sono andate ben oltre la sensorialità degli animali inferiori; la nostra animalità veniva
posta e sostenuta da Freud, soprattutto considerando il sesso come forza motivante, e questo gli recò molte
critiche).

Freud definì l'Io come una serie di funzioni che consentono all'individuo di adattarsi alle esigenze della vita,
trovando modalità accettabili all'interno della famiglia per gestire gli impulsi dell'Es.
L'Io si sviluppa di continuo per tutta la vita, ma più rapidamente nell'infanzia.
Agisce secondo il principio di realtà ed è la sede del pensiero del processo secondario.
L'Io svolge quindi una sorta di mediazione tra le spinte dell'Es e le limitazioni imposte dalla realtà e
dall'etica.
Possiede aspetti consci e inconsci: quelli coscienti somigliano a ciò che la maggior parte di noi intende
quando usa il termine “se” o “io”, gli aspetti inconsci includono i processi difensivi come la rimozione, lo
spostamento, la razionalizzazione e la sublimazione.
Con tale teoria i terapeuti avevano a disposizione un nuovo linguaggio per comprendere alcune patologie,
osservando come meccanismi difensivi erano utili e adattivi nel periodo dell'infanzia, ma diventavano
disadattive nel mondo adulto.
→ Un aspetto importante di questo modello per la diagnosi e per la terapia è la descrizione di una gamma
di funzioni dell'io, da quelle profondamente inconsce a quelle coscienti: durante il trattamento
psicoanalitico l'Io osservato riflettere molti aspetti inconsci del paziente.
→ la presenza o l'assenza di un Io osservante acquistò un grande valore diagnostico, in quanto si scoprì che
un sintomo o un problema egodistonico, ossia inviso all'Io osservante, era trattabile più rapidamente di un
problema simile cui il paziente non avesse mai dato nessuna importanza = la terapia era molto efficace se il
paziente era in grado di comprendere se stesso e i propri aspetti o limiti inconsci, se non ci riusciva era
compito del terapeuta aiutarlo ad acquisire questa capacità.

Con il termine “forza dell'Io” si indica la capacità della persona di riconoscere la realtà anche quando è
estremamente spiacevole, senza ricorrere alle difese più primitive come il diniego → vi è una distinzione tra
difese primitive e difese mature, in cui le prime riguardano l'evitamento psicologico o la distorsione radicale
dei fatti disturbanti nella vita, mentre le seconde implicano maggiore capacità di adattamento alla realtà.

Un altro importante principio clinico derivante dalla psicologia dell'io è la convinzione che la salute
psicologica implichi non solo difese mature, ma anche la capacità di utilizzare una varietà di processi
difensivi. → flessibilità emotiva.

Freud coniò il termine Super-Io per quella parte del Sè che sovraintende alle cose, specialmente da una
prospettiva morale. Il Super-Io è la parte che si congratula con noi quando facciamo del nostro meglio e ci
critica quando deviamo dai nostri standard.
Freud pensava che esso si formasse principalmente durante il periodo edipico, tramite l'identificazione con i
valori dei genitori, ma molti analisti contemporanei ritengono che abbia origini molto più precoci nelle
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nozioni primitive di bene e male. → anche il Super-Io possiede parti consce e inconsce, e come l'Io è
fondamentale per la diagnosi terapeutica.
Anche lo sviluppo del Super-Io portò numerosi vantaggi clinici, in quanto i terapeuti iniziarono a considerare
l'idea che si potesse lavorare non solo sugli aspetti consci e inconsci dell'Io, ma anche sul Super-Io. Questo
avvenne in particolar modo nel ventesimo secolo quando gli adulti della classe media, media-borghese
venivano educati secondo un Super-Io molto rigido e severo → modificare un Super-Io molto severo
incoraggiava nei pazienti un comportamento più etico, dato che le persone con un Super-Io così severo
spesso si comportano in modo da sfidarlo.

Il progresso della psicologia dell'Io ha una rilevanza centrale per la diagnosi del carattere: cercare di capire
le persone in termini della fase evolutiva che esemplifica le loro problematiche attuali, e cercare di
classificarle secondo le loro modalità di gestire l'ansia e gli altri effetti disturbanti.
Le idee originarie di Freud si basavano sul fatto che l'ansia fosse dovuta dalle difese, in particolar modo dalla
rimozione. Quando introdusse la teoria strutturale però rovesciò la propria formulazione, stabilendo che la
rimozione era una risposta all'ansia e rappresentava soltanto uno dei tanti modi in cui gli esseri umani
tentano di evitare un sentimento negativo.

La tradizione delle relazioni oggettuali. Nello stesso periodo in cui gli psicologi dell'Io elaboravano
un'interpretazione teorica dei loro pazienti, alcuni teorici europei (soprattutto inglesi) indagavano diversi
tipi di processi inconsci e le loro manifestazioni.
Questi rappresentanti della “scuola inglese” di psicoanalisi scoprirono di aver bisogno di un altro linguaggio
per poter descrivere i processi che osservavano; avevano il problema di trovare come esprimere con parole
adeguate processi preverbali e prerazionali.
Essi, sebbene rispettavano le dinamiche inconsce, contestavano Freud su alcuni punti cruciali.
Fairbairn, ad esempio, rifiutava l'esplicito biologismo di Freud e suggeriva che le persone non cercano la
soddisfazione pulsionale tanto quanto cercano la relazione. = il bambino non è ancora focalizzato
sull'ottenere il latte dalla madre, quanto piuttosto sull'esperienza di essere accudito, con il senso di calore e
di attaccamento che di tale esperienza fa parte.

Psicoanalisti influenzati da Sandor Ferenczi approfondirono lo studio delle esperienze primarie di amore,
solitudine, creatività e integrità del Se, che non rientrano propriamente nei confini della teoria strutturale di
Freud.
Questo orientamento pone l'accento non tanto sulla pulsione trattata in modo non corretto nell'infanzia
dell'individuo, sulla fase di sviluppo che non sia stata interamente superata, o sulle difese predominanti,
quanto, piuttosto, su quelli che sono stati gli oggetti d'amore più importanti nel mondo del bambino, sul
modo in cui sono stati percepiti, o in cui tali oggetti e alcuni loro aspetti sono stati interiorizzati, e infine su
come le loro immagini e rappresentazioni interne agiscono nella vita inconscia dell'adulto.
Nella tradizione delle relazioni oggettuali i problemi edipici hanno minore rilevanza dei temi riguardanti la
sicurezza e lo sviluppo di un senso del Se agente.

L'espressione “relazioni oggettuali” trae origine dalla prima descrizione che Freud fede degli istinti,
indicando una loro fonte (qualche tensione corporea), una meta (qualche tipo di soddisfazione biologica), e
un oggetto (di solito una persona, dato che le pulsioni che Freud riteneva centrali per la psicologia umana
erano quelle sessuali e aggressive).
L'opera di Freud non era incompatibile con lo sviluppo e l'elaborazione della teoria delle relazioni
oggettuali: il suo apprezzamento dell'importanza degli oggetti infantili, nella loro realtà e nella percezione
del bambino, traspare nel concetto di romanza familiare, nel riconoscimento di quanto possa essere diversa
la fase edipica per il bambino a seconda delle personalità dei genitori. Secondo alcuni analisti, Freud
avrebbe accolto con favore questo nuovo orientamento della psicoanalisi.

Ma a metà del ventesimo secolo la teoria delle relazioni oggettuali venne affiancata dai nuovi sviluppi
proposti da terapeuti statunitensi che si autodefinirono “psicoanalisti interpersonali”.
Essi cercavano di lavorare con i pazienti più gravemente disturbati, come i colleghi europei, ma si
differenziavano per l'importanza che attribuivano alla natura interiorizzata delle relazioni oggettuali precoci:
i terapeuti americani tendevano a dare meno importanza alla persistenza di immagini inconsce degli oggetti
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primari e dei loro aspetti.
Entrambi i gruppi comunque avevano ridimensionato il ruolo dell'analista come dispensatore di insight e si
erano concentrati maggiormente sull'importanza di stabilire una condizione di sicurezza emotiva.
Freud si era avvicinato a una teoria interpersonale del trattamento quando aveva smesso di considerare il
transfert dei suoi pazienti come una distorsione da eliminare e aveva cominciato a ritenere che offrisse
invece il contesto emotivo necessario per la guarigione.

I concetti relativi alle relazioni oggettuali hanno permesso ai terapeuti di spingere la loro empatia nell'area
sottile del modo in cui i loro clienti percepiscono la relazione interpersonale: possono trovarsi in uno stato
di fusione psicologica con l'altro, in cui il Sè e l'oggetto sono emotivamente indistinguibili; possono essere in
uno spazio diadico dove l'oggetto viene percepito con loro o contro di loro, oppure possono vedere gli altri
come totalmente indipendenti da sé.
Il passaggio del bambino dall'esperienza simbiotica (prima infanzia) attraverso le conflittualità io-tu
(all'incirca intorno ai due anni), per arrivare a identificazioni ancora più complesse (dai tre anni in poi), ha
assunto in questa teoria un risalto maggiore rispetto alle preoccupazioni orali, anali ed edipiche tipiche di
quegli stadi.
La fase edipica era considerata una pietra miliare dello sviluppo cognitivo, e non solo psicosessuale, poiché
è un salto sostanziale, una vittoria sull'egocentrismo infantile, riuscire a pensare che altre due persone (i
genitori secondo Freud) possono essere in rapporto tra loro a prescindere dal bambino stesso.

I concetti portati avanti dai teorici europei delle relazioni oggettuali e dai terapeuti interpersonali
introdussero degli enormi progressi nel trattamento, in quanto molte psicopatologie gravi non potevano
essere curate basandosi sulle tre istanze Es, Io e Super-Io. Persone di questo tipo non possiedono un Io
integrato con funzioni di auto-osservazione, ma diversi stati dell'Io, condizioni mentali in cui si comportano
in un certo modo, diverso da come si comporterebbero in altre situazioni.
Queste persone non hanno quindi la capacità di pensare oggettivamente a ciò che accade dentro di loro.
I clinici che lavorano con queste persone si impegnano a fare in modo che si rappresentino il genitore
interno o l'oggetto precoce importante che si è attivato in un determinato momento. → l'avvento del punto
di vista delle relazioni oggettuali ha avuto implicazioni significative per ampliare gli scopi e la portata del
trattamento: i terapeuti ascoltano anche gli atteggiamenti introiettati che hanno influenzato il bambino e
continuano a vivere nell'adulto e dai quali il cliente non ha ancora operato una separazione psicologica.
→ secondo questa formulazione, il carattere può essere concepito come una serie di modelli interiori che
spingono la persona stesa a comportarsi come gli oggetti percepiti nella prima infanzia.

Nella comunità psicoanalitica si sviluppò inoltre una nuova attenzione al controtransfert, frutto sia della
maggiore esperienza clinica dei terapeuti sia della loro familiarità con l'opera dei teorici delle relazioni
oggettuali che pubblicavano saggi sulle proprie risposte interiori nei confronti dei pazienti.
Freud aveva considerato le forti reazioni emotive nei confronti dei pazienti come una prova di incompleta
conoscenza di sé da parte del terapeuta e di incapacità a mantenere verso l'interlocutore un atteggiamento
medico positivo. In contrasto a questo, gli analisti che lavoravano con pazienti psicotici, borderline o
traumatizzati affermavano che l'intensa risposta controtransferale che avevano nei confronti di queste
persone rappresenta uno dei migliori veicoli di comprensione.
Heinrich Racker ha proposto le categorie di controtransfert concordante (=percezione empatica del
terapeuta di ciò che il paziente aveva sentito da bambino in relazione a un oggetto precoce) e
complementare (=percezione del terapeuta, non empatica, di ciò che l'oggetto aveva sentito verso il
bambino). → esempio: un paziente difende la madre dall'accusa di non avergli dati sufficiente attenzione; si
parla di controtransfer complementare nel momento in cui il terapeuta si immedesima nella madre (stato
emotivo uguale all'oggetto significativo dell'infanzia del paziente), mentre si tratta di controtransfert
concordante quando il terapeuta si immedesima nel paziente da bambino.

La psicologia del sé. A partire dagli anni sessanta dello scorso secolo i clinici hanno iniziato a rendersi conto
che molti pazienti presentavano delle psicopatologie non riconducibili a categorie presenti nei modelli
analitici allora prevalenti., ovvero, la maggior parte di coloro che si rivolgevano al trattamento soffriva di
problemi che non erano riconducibili alla conflittualità tra una spinta istintuale e le relative inibizioni (teoria
pulsionale), oppure all'azione inflessibile di particolari difese contro l'ansia (psicologia dell'Io), o ancora
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all'attivazione di oggetti interni da cui il paziente non si era sufficientemente differenziato (teoria delle
relazioni oggettuali).
→ Queste persone riferivano sentimenti di vuoto, erano prive di oggetti interni (come aveva descritto la
teoria delle relazioni oggettuali).
Mancanti di un senso di direzione interiore si rivolgevano alla terapia per trovare qualche significato alla
vita. All'apparenza potevano sembrare molto sicure di sé, ma internamente erano alla perenne ricerca di
rassicurazione sulla propria possibilità di essere accettate, ammirate o stimate.
Con il loro cronico bisogno di rispecchiamento da parte di fonti esterne, questi pazienti venivano considerati
fortemente narcisistici dai clinici di orientamento analitico. Inducevano un controtransfert notevole non
tanto per la sua intensità, ma per il senso di noia, impaziente, vaga irritazione e futilità che provoca
nell'operatore: gli analisti che avevano come pazienti queste persone riferivano di sentirsi inutili e svalutati.
Il disturbo di queste persone sembrava ruotare attorno al sentimento di sé: chi erano, quali erano i loro
valori e cosa poteva mantenere la loro autostima. A volte dichiaravano di non sapere chi fossero, o cosa
realmente contasse per loro.
Spesso non apparivano manifestamente malate da un punto di vista tradizionale (possedevano controllo
degli impulsi, forze dell'Io, stabilità interpersonale eccetera), tuttavia provavano scarso piacere nella vita e
non provavano alcun orgoglio rispetto a chi erano.

→ alcuni clinici consideravano queste persone inadatte al trattamento in quanto ritenevano che fosse quasi
impossibile creare un Sè rispetto che orientarlo. Altri invece si sono impegnati nella ricerca di nuovi costrutti
per concettualizzare meglio la sofferenza di questi pazienti: alcuni sono rimasti all'interno dei modelli
psicodinamici, altri si sono rivolti altrove.
Nell'ambito psicoanalitico Heinz Kohut formulò una nuova teoria del Sè, che affronta i temi dello sviluppo,
delle distorsioni e del trattamento del sé.
Egli pose l'accento su processi come il normale bisogno di idealizzare e sulle implicazioni per la
psicopatologia dell'adulto di un'infanzia senza oggetti da poter inizialmente idealizzare e poi deidealizzare
gradualmente e in modo non traumatico.
= il contributo di Kohut permise di comprendere in modo migliore questi pazienti, e soprattutto favorì un
riorientamento generale che portò a concepire le persone in termini di strutture del sé, rappresentazioni di
sé, immagini di sé, e a capire come un individuo arrivi a dipendere da processi interni per l'autostima.
L'opera di Kohut quindi ha avuto importanti implicazioni diagnostiche in quanto ha aggiunto alla teoria
analitica il linguaggio del Sè e ha incoraggiato i valutatori a cercare di cogliere nelle persone la dimensione
dell'esperienza di sé.
I terapeuti cominciarono a osservare che anche in questi pazienti era possibile mettere in atto terapie
orientate al sostegno dell'autostima, della coesione del sé e di un senso di continuità.
Le difese vennero riconcettualizzate nel senso che non servivano solo a proteggere l'individuo dall'angoscia
relativa ai pericoli dell'Es, dell'Io e del Super-Io, ma anche a sostenere un senso di sé coerente e positivo.
(esempio pagina 59).

Il movimento relazionale contemporaneo. Alcuni teorici psicoanalitici contemporanei mettono in dubbio


l'assunto secondo cui esiste una personalità come entità discreta, stabile e separata: essi preferiscono
pensare a una serie di stati del Sè che emergono in differenti contesti interpersonali.
L'innovazione teorica più importante negli anni recenti fu portata avanti da Greenberg e Mitchell,che hanno
messo in contrapposizione i modelli pulsionali e la psicologia dell'Io con le teorie relazione (teoria
interpersonale, delle relazioni oggettuali e della psicologia del Sè).
Da allora c'è stato un significativo spostamento nella concettualizzazione dei processi clinici, riconosciuto
come una svolta relazionale, in cui trova riconoscimento la natura inevitabile intersoggettiva della
situazione clinica.
Alcuni studiosi e psicoterapeuti hanno messo in crisi l'idea secondo la quale l'oggettività e la neutralità del
terapeuta siano aspetti fondamentali, sostenendo come sia importante un'analisi della vita inconscia
dell'analista stesso, dato che, per quanto asimmetrica sia la relazione, terapeuta e paziente sono in stretta
relazione tra di loro. Inoltre, l'analista non è considerato come qualcuno che conosce in modo oggettivo,
bensì come colui che scopre insieme al paziente la vita psicologica di quest'ultimo.

Gli psicoanalisti relazionali si sono mostrati molto più interessati al processo terapeutico che a strutture
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ipotetiche quali il carattere, e hanno sottolineato l'impossibilità per gli analisti di osservare asetticamente i
loro pazienti, dato che ogni osservazione influenza l'oggetto dell'osservazione stessa: in questo modo essi
hanno segnalato il valore della personalità del terapeuta, oltre che di quella del paziente, per la
comprensione di ciò che succede tra di loro nella terapia.

Essi hanno sottolineato anche l'impossibilità per gli analisti di osservare asetticamente i propri pazienti, dato
che ogni osservazione influenza l'oggetto dell'osservazione stessa: in questo modo, essi hanno segnalato il
valore della personalità del terapeuta, oltre che di quella del paziente, per la comprensione di ciò che
succede tra di loro nella terapia.
Inoltre, gran parte del pensiero relazionale ha rispolverato i primi contributi freudiani sul trauma, mettendo
però l'accento sul ruolo dei meccanismi dissociativi piuttosto che della rimozione.
Riguardo alla questione della diagnosi di personalità, probabilmente i contributi più rilevanti provenienti
dagli analisti relazionali riguardano la sensibilità verso elementi quali le esperienze non formulate, la
costruzione sociale dei significati, gli stati molteplici del sé e la dissociazione → questi concetti implicano un
modo decisamente più fluido e dialettico di concepire l'esperienza di sé rispetto alla teoria tradizionale.

Altri contributi psicoanalitici alla valutazione della personalità. Oltre alla teoria pulsionale, alla psicologia
dell'Io, alla teoria delle relazioni oggettuali, alla psicologia del Sè e agli orientamenti relazionali, all'interno
della vasta cornice psicoanalitica esistono diverse altre teorie che hanno influenzato le nostre
concettualizzazioni del carattere.
N.B. Le teorie psicoanalitiche mettono l'accento sulle tematiche e sulle dinamiche, non sui tratti ed è
proprio l'attenzione a modelli oscillanti che rende più ricche e clinicamente più pertinenti le nozioni
analitiche del carattere rispetto agli elenchi di attributi statici che si trovano in molti strumenti di
valutazione e compendi quali il DSM.
Le persone vengono organizzate su dimensioni che hanno significato per loro e mostrano tipicamente
caratteristiche che esprimono entrambe le polarità di ogni dimensione saliente. → le persone che hanno
conflitti nell'ambito delle relazioni possono essere profondamente turbate sia dalla vicinanza sia dalla
distanza; le persone che ricercano il successo più avidamente sono spesso le stesse che lo sabotano; la
persona maniacale è psicologicamente più simile al depresso dell'individuo schizoide. = le persone sono
complesse ma le loro complicazioni non sono casuali.

I livelli evolutivi dell'organizzazione della personalità

Storicamente gli analisti hanno concepito il funzionamento mentale lungo una linea continua, che va dal
funzionamento più disturbato a quello più sano → hanno rappresentato la personalità individuale
considerando il livello evolutivo raggiunto e le peculiari caratteristiche dello stile difensivo. La prima
dimensione descrive il grado di individuazione o di patologia (psicotico, borderline, nevrotico, “normale”)
della persona; la seconda identifica il tipo di carattere (paranoide, depressivo, schizoide, eccetera).
La psicoanalisi non ha mai messo seriamente in discussione la convinzione che i problemi psicologici attuali
riflettono condizioni già presenti nell'infanzia, e che le interazioni nei primissimi anni di vita costituiscono il
modello secondo cui più tardi assimileremo l'esperienza.
Individuare quali sfide evolutive non sono state superate può aiutare molto nella comprensione di un
paziente.
Si nota come le stesse tre fasi di organizzazione psicologica infantile continuano a comparire nella teoria
psicoanalitica dello sviluppo: 1.da un anno e mezzo ai due anni (fase orale di Freud); 2.il periodo che va da
un anno e mezzo/due a circa tre anni (fase anale di Freud); 3.il periodo compreso tra tre/quattro anni e
circa sei (periodo edipico di Freud) → l'indicazione approssimativa delle fasce di età riflette la presenza di
differenze individuali nei bambini.
Diversi studiosi hanno sottoposto a critica le teorie degli stadi alla luce di recenti ricerche che hanno messo
in luce come i bambini siano più competenti di quanto prospettato in tali teorie, e che eventuali difficoltà
nello sviluppo riguardino principalmente le relazioni di attaccamento con i genitori piuttosto che presunte
fasi evolutive.
Nonostante questi limiti, alcune nozioni sugli stadi di sviluppo sopravviveranno nel tempo poiché
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contengono qualcosa che è conoscono all'esperienza clinica, cioè l'idea che ogni essere umano attraversi
percorsi di crescita simile.

Il contesto storico: diagnosticare il livello di patologia del carattere. Prima dell'avvento della psichiatria
descrittiva nel XIX secolo, venivano riconosciute alcune forme di disturbo mentale che si riscontravano con
una certa frequenza tra le persone del mondo “civile” e molti osservatori facevano distinzioni tra sano e
malato.
A uomini e donne che presentavano condizioni isteriche, fobie, ossessioni, compulsioni e stati maniacali o
depressivi di natura non psicotica veniva considerate molto vicine alla vera pazzia. Persone che soffrivano di
allucinazioni, deliri e disturbi del pensiero venivano considerate completamente folli.
Questa tassonomia è ancora presente nelle categorie del sistema legale.

La diagnosi kraepeliniana: nevrosi e psicosi. Emil Kraepelin viene di solito considerato il padre della
classificazione diagnostica contemporanea, per il suo tentativo di osservare attentamente le persone che
soffrivano di disturbi emotivi e mentali allo scopo di identificare sindromi generali dalle caratteristiche
comuni.
Inoltre egli sviluppò alcune teorie sulla loro eziologia per distinguere almeno le loro origini in esogene, e
quindi curabili, o endogene, e quindi incurabili; egli collocò i disturbi bipolari gravi nella prima categoria, e la
schizofrenia (ritenuta una degenerazione organica del cervello) nella seconda.
Freud andò oltre la descrizione e i semplici livello di inferenza; enunciava complesse spiegazioni
epigenetiche, preferibili alle semplice descrizioni di Kraepelin di una causalità interna o esterna. Freud
considera comunque la psicopatologia in base alle categorie kraepeliniane allora disponibili, ma al termine
della sua carriera cominciò a distinguere tra una condizione ossessiva in una parte per altri aspetti non
ossessiva e un'ossessione che invece faceva parte di un carattere ossessivo compulsivo.
Analisti successivi distinsero tra: 1.la persona ossessiva essenzialmente delirante che usa pensieri ruminanti
per evitare una totale scompensazione psicotica; 2.la persona la cui ossessione è parte di una struttura di
personalità borderline; 3.la persona ossessiva con un'organizzazione di personalità nevrotica-normale.
Prima che emergesse la categoria borderline a metà del XX secolo, i terapeuti di orientamento analitico
seguivano Freud nel differenziare solo tra il livello nevrotico (percezione abbastanza appropriata della
realtà) e psicotico (perdita di contatto con la realtà) → modello strutturale della mente → infrastruttura
psicologica di una persona → la sofferenza dei nevrotici è quindi dovuta a difese dell'Io troppo automatiche
e inflessibili, che impediscono il contatto con le energie dell'Es utilizzabili per attività creative; quella degli
psicotici è dovuta invece a difese dell'Io troppo deboli per riuscire ad arginare il materiale primitivo
proveniente dall'Es → la terapia del nevrotico implicava l'indebolimento delle difese per ottenere accesso
all'Es, in modo da renderne disponibili le energie per attività più costruttive. All'opposto, la terapia dello
psicotico doveva proporsi di rafforzare le difese, risolvere le preoccupazioni primitive, incoraggiare l'esame
di realtà e respingere nell'inconscio l'Es traboccante.
→ tale compito è stato assorto dagli psicofarmaci.

Le categorie diagnostiche della psicologia dell'Io: nevrosi sintomatica, il carattere nevrotico e la psicosi.
Nella comunità psicoanalitica, oltre alla distinzione tra nevrosi e psicosi, gradualmente cominciarono ad
apparire all'interno della categoria della nevrosi differenziazioni relative al livello di disadattamento.
La prima differenziazione di rilevanza clinica fu tra nevrosi sintomatica (specifica nevrosi) e nevrosi del
carattere (carattere permeato da schemi nevrotici).
Per valutare se avevano a che fare con una nevrosi sintomatica o con un problema caratteriale, i terapeuti
venivano addestrati a cercare i seguenti tipi di informazione nel colloquio iniziale con una persona che
lamentava disagi di livello nevrotico:
1. E' identificabile attualmente un fattore precipitante di quella difficoltà o esisteva in una certa misura
anche in passato (fin dove arriva il ricordo del paziente)?
2. C'è stato un incremento massiccio dell'angoscia del paziente o c'è stato soltanto un peggioramento
dello stato affettivo generale?
3. Il paziente ha deciso autonomamente di iniziare una terapia o sono stati altri?
4. La persona ha sintomi egodistonici (problematici e irrazionali) o egosintonici (l'unico modo che
riesce a immaginare per reagire alle circostanze)?
5. La persona è in grado di avere qualche prospettiva sui propri problemi che consenta di instaurare
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un'alleanza con il terapeuta o considera il clinico come un estraneo potenzialmente ostile?

→ se il cliente soffre di una nevrosi sintomatica allora si può ritenere che qualcosa nella sua vita attuale
abbia attivato un conflitto inconscio e che il paziente stia ora utilizzando meccanismi disadattivi per
fronteggiarlo, ossia metodi che potevano rappresentare la migliore soluzione possibile nell'infanzia. In casi
simili il compito del clinico consiste nell'individuare il conflitto, nell'aiutare il paziente a elaborare le
emozioni che vi sono connesse e a sviluppare nuove soluzioni per affrontarlo. È anche possibile aspettarsi
un clima di reciprocità nel processo terapeutico, un clima nel quale possono emergere forti reazioni di
transfer (e controtransfert).
Se invece le difficoltà del paziente sono meglio concettualizzabili come espressione di un problema
caratteriale o di personalità, il compito terapeutico sarebbe stato più complesso.
Ma la teoria analitica è andata oltre il senso comune quando ha specificato in che modo il lavoro sul
carattere di base di una persona differisce dal lavoro su un sintomo che non è parte integrante della
personalità → In primo luogo non è detto che ciò che vuole il paziente (sollievo immediato dalla sofferenza)
è ciò che il terapeuta ritiene necessario siano ritenuti compatibili dal paziente stesso: in circostanze nelle
quali ci sia divergenza tra le mete del paziente e l'idea dell'analista su come perseguire obiettivi realistici, il
ruolo educativo dell'analista diviene centrale per l'esito della terapia. Compito del terapeuta diventa allora
comunicare al paziente il proprio modo di vedere il problema.
In secondo luogo, lavorando con qualcuno che ha un carattere fondamentalmente nevrotico, non si può
dare per scontata la rapida comparsa di un'alleanza di lavoro, ma è infatti necessario creare le condizioni in
cui tale alleanza possa svilupparsi.
Il concetto di alleanza terapeutica o di lavoro si riferisce alla dimensione collaborativa tra terapeuta e
cliente, a quel livello di cooperazione che permane nonostante le emozioni forti e spesso negative che
possono manifestarsi nel corso del trattamento.
Persone con nevrosi sintomatiche si alleano con il terapeuta nell'opporsi a una parte problematica del Sè;
con esse non c'è bisogno di un lungo periodo per sviluppare una prospettiva comune. Al contrario, coloro i
cui problemi si intrecciano in modo complesso con le caratteristiche di personalità si sentono facilmente soli
e attaccati dal terapeuta.
In terzo luogo, ci si può aspettare che il contenuto del lavoro terapeutico con una persona che ha un
problema caratteriale sia meno eccitante, meno sorprendente e meno vivace.

La distinzione tra sintomi nevrotici e personalità nevrotica ha tuttora un'applicazione significativa:


comprendere l'eventuale rigidità caratteriale di un paziente a volte consente di individuare modi adeguati
per fornirgli quantomeno un aiuto a breve termine, evitando comunque che il paziente si senta non capito.
Per un lungo periodo le categorie di nevrosi sintomatica, nevrosi del carattere e psicosi hanno rappresentato
i principali costrutti attraverso i quali i diagnosti comprendevano le differenze di personalità sulla
dimensione della gravità del disturbo. La nevrosi era la condizione meno grave, un disturbo della personalità
era più grave e un disturbo psicotico era gravissimo.
Queste formulazioni mantenevano la vecchia distinzione tra sano di mente e folle; col tempo tuttavia alla
comunità di salute mentale divenne evidente che tale schema globale di classificazione era incompleto.
Un inconveniente di questa tassonomia è l'implicazione che tutti i i problemi del carattere siano per
definizione più patologici di qualunque nevrosi = alcuni disturbi del carattere appaiono molto più gravi e
primitivi di qualunque altro disturbo che possa esser definito nevrotico.
In questo schema lineare tripartito di classificazione non c'è modo di distinguere tra i disturbi del carattere
lievemente inabilitanti e quelli che comportano conseguenze assai più gravi.

Diagnosi in base alla teoria delle relazioni oggettuali: la psicopatologia borderline. Verso la fine del XIX
secolo alcuni osservatori psichiatrici notarono che certi pazienti sembravano abitare in un territorio
psicologico di confine tra sanità mentale e pazzia e a metà del XX secolo cominciarono a emergere altre idee
sull'organizzazione di personalità, che rimandavano a una zona intermedia tra le nevrosi e le psicosi.
Alfred Stein osservò che le persone con caratteristiche da lui definite “borderline” tendevano a peggiorare
piuttosto che a migliorare con il trattamento analitico classico.
→ pazienti non considerati psicotici perchè non riferivano allucinazioni o deliri, ma erano anche privi della
stabilità e della prevedibilità dei pazienti di livello nevrotico e sembravano sofferenti in modo molto più
globale e meno comprensibile dei nevrotici.
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I terapeuti cominciarono a suggerire nuove definizioni diagnostiche che coglievano la qualità di queste
persone che vivevano al confine tra disturbi del carattere nevrotici e psicotici.
→ nasce la categoria Borderline (con una gamma di gravità che andava dal confine con le nevrosi a quello
con le psicosi).
→ considerare le persone vulnerabili alle condizioni psicotiche come psicologicamente fissate ai problemi
della fase simbiotica precoce (problematica relativa alla fiducia); le persone con organizzazione borderline
come coinvolte in preoccupazioni relative ai temi di separazione-individuazione; quelle con una struttura
nevrotica come descrivibili in termini più edipici, cioè capaci di avvertire al loro interno la presenza di
dimensioni conflittuali. Il tipo di ansia maggiormente presente nello spettro psicotico è la paura
dell'annichilimento. L'ansia che maggiormente rappresenta gli individui nello spetto borderline è l'ansia di
separazione; infine l'ansia dei nevrotici di solito è relativa a conflitti inconsci, in particolare alla paura di
realizzare desideri che scatenerebbero sensi di colpa.

Dimensioni specifiche dello spettro nevrotico-borderline-psicotico.


Caratteristiche della struttura di personalità a livello nevrotico. Al tempo di Freud il termine designava
pazienti affetti da disturbi non organici, non schizofrenici, non psicopatici, ne maniaco-depressivi, cioè
un'ampia gamma di persone con disturbi emotivi non psicotici. Molte persone cui Freud attribuiva una
nevrosi avevano in realtà organizzazioni di carattere borderline e alcune attraversavano periodi di
decompensazione psicotica (l'isteria comprendeva anche esperienze allucinatorie).
Personalità che gli osservatori psicoanalitici attuali considerano organizzate a un livello essenzialmente
nevrotico sono quelle che ricorrono prevalentemente alle difese più mature o di secondo ordine, e se
utilizzano difese primitive queste non hanno grande rilevanza nel funzionamento.
Myerson ha descritto come le cure genitoriali empatiche nei primi anni di vita permettano al bambino di
gestire i sentimenti senza aggrapparsi a modalità infantili; quando il bambino crescerà gli stati mentali
dolorosi verranno messi da parte e dimenticati.
Persino nel trattamento psicoanalitico profondo il cliente nevrotico conserva le capacità più razionali e
oggettive anche nel mezzo di una tempesta emotiva.
Persone con una struttura del carattere più sana possiedono anche un senso integrato della propria
identità. Il loro comportamento mostra una certa coerenza e hanno un'esperienza interiore di continuità
temporale del Sè. Alla richiesta di descrivere se stesse, queste persone non hanno difficoltà a trovare le
parole, provano un senso di continuità con l'esperienza infantile che hanno vissuto, e sanno anche
proiettarsi nel futuro.

Di solito le persone di livello nevrotico hanno un solido contatto con la realtà: non soltanto non sono inclini
a interpretazioni allucinatorie o deliranti ma spesso sorprendono il terapeuta per il loro bisogno
relativamente scarso di distorcere le cose per assimilarle.
Il paziente nevrotico percepisce che una parte di ciò che lo ha spinto a chiedere aiuto è per lui strano e
insolito; in altre parole, la psicopatologia di un individuo organizzato nevroticamente è in gran parte
egodistonica o è suscettibile di diventarlo.
Le persone di tipo nevrotico mostrano ben presto in terapia la capacità di realizzare quella che Sterba ha
definito “scissione terapeutica” tra la parte del Sè che vive l'esperienza e la parte osservante. Ad esempio,
un individuo paranoico con organizzazione nevrotica sarà disposto per lo meno a prendere in
considerazione la possibilità che i suoi sospetti derivino da una disposizione interna. Al contrario, pazienti
paranoici a livello psicotico o borderline eserciteranno una forte pressione sul terapeuta perchè confermi la
loro convinzione che le difficoltà di cui soffrono nascono dall'esterno (ad esempio che il terapeuta ammetta
che gli altri possono avercela con loro). Inoltre, senza tale conferma, avranno paura di non essere al sicuro
con il terapeuta.
Allo stesso modo i soggetti compulsivi di tipo nevrotico ammettono che i loro rituali ripetitivi sono folli, ma
provano ansia se li trascurano; gli ossessivi borderline e psicotici sono invece sinceramente convinti che la
messa in atto di quei rituali li protegga, elaborando razionalizzazioni per spiegarli (=nel primo caso il
paziente capirà l'idea del terapeuta circa la non funzionale utilità di quei riti, mentre nel secondo caso
penserà che il terapeuta che minimizza tali rituali manchi di senso comune).
A volte occorrono anni di trattamento prima che una persona borderline o psicotica riesca anche solo a
parlare di una compulsione, di una fobia o di un'ossessione.
→ le storie e i comportamenti che emergono nei colloqui mostrano che la persona organizzata a livello
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nevrotico ha attraversato, più o meno con successo, i primi due stadi descritti da Erickson, la fiducia e
'autonomia di base, e ha fatto almeno qualche progresso verso l'integrazione dell'identità e il senso
d'iniziativa.
Queste persone si rivolgono alla terapia perchè si trovano in conflitto tra ciò che desiderano e gli ostacoli
che vi si oppongono, che sospettano essere una propria creazione.
La percezione da parte del terapeuta di una valida alleanza di lavoro è la controparte della presenza nel
paziente di un io osservante: spesso fin dalla prima seduta con un cliente nevrotico il terapeuta sente che lui
e il paziente stanno dalla stessa parte e il loro comune antagonista è una parte problematica del paziente.
Inoltre il controtransfert del terapeuta, quale che sia la sua valenza, positiva o negativa, non sarà mai troppo
intenso.

Caratteristiche della struttura di personalità a livello psicotico. All'estremità psicotica dello spettro le
persone sono interiormente molto più disperate e disorganizzate.
Non è difficile diagnosticare i pazienti che si trovano in una condizione psicotica: essi manifestano
allucinazioni, deliri, idee di riferimento e pensiero illogico, nonostante ci siano anche individui che
un'organizzazione del carattere che è di base a livello psicotico ma che non mostrano segni evidenti della
loro confusione interiore.
Secondi alcuni analisti certi pazienti che non arrivano mai a essere diagnosticati come psicotici presentano
comunque un mondo interno simbiotico-psicotico.
Anzitutto è importante capire quali difese utilizza lo psicotico per comprendere la sua soggettività, tra
queste ci sono: chiusura, diniego, controllo onnipotente, idealizzazione e svalutazione primitive, forme
primitive di proiezioni e introiezione, scissione, dissociazione estrema, acting out e somatizzazione. Queste
difese sono preverbali e prerazionali; Fromm-Reichmann ritiene che le persone che soffrono di psicosi
provano un terrore nucleare e immobilizzante rispetto al loro potenziale di distruttività, che percepiscono
come al di fuori dell'umana portata.
In secondo luogo, individui con personalità organizzata a un livello fondamentalmente psicotico hanno gravi
difficoltà con l'identità, tanto gravi da non essere pienamente sicuri di esistere; sono profondamente
confuse su chi sono e non possono neanche dipendere dall'esperienza altrui per riuscire a percepire una
continuità del proprio Sè, poiché non riconoscono la continuità del Sè negli altri (vivono nel timore di
trasformazioni improvvise in cui un individui da buono e gentile diventa sadico e persecutore) = la
descrizione che danno di se stesse o di altri importanti nella loro vita è vaga, evasiva, letterale o visibilmente
distorta = non sono ancorati nella realtà, si sentono confusi ed estranei rispetto a certe formulazioni sulla
realtà comuni nella loro cultura.
Sono caratterizzati inoltre da un'incapacità di avere una visione articolata dei propri problemi psicologici:
mancano di quella funzione riflessiva che Fonagy e Target hanno identificato come necessaria per lo
sviluppo cognitivo.
Anche gli individui di livello psicotico che hanno tratto dalla loro esperienza di pazienti un linguaggio
sufficiente a sembrare buoni osservatori di se stessi (“so di essere troppo reattivo”) riveleranno a un clinico
attento che, nel tentativo di ridurre l'angoscia, ripetono meccanicamente ciò che hanno sentito dir loro.

Le prime formulazioni psicoanalitiche sulle difficoltà degli psicotici ad avere consapevolezza dei propri reali
disturbi mettevano in luce prevalentemente gli aspetti energetici, e cioè che essi impiegano così tanta
energia per combattere il proprio terrore esistenziale da non averne più per affrontare la realtà. I modelli
della psicologia dell'Io hanno posto invece l'accento sulla mancanza di una differenziazione interiore tra Es,
Io e Super-io e tra la parte dell'Io che vive le esperienze e la parte osservante. Nelle relazioni oggettuali e
psicologia del Sè invece è stato fatto riferimento all'incertezza dei confini tra esperienza interna ed esterna e
a quelle carenze nella fiducia di base che rendono soggettivamente troppo pericoloso per lo psicotico
entrare nello stesso mondo del terapeuta.
→ in questi pazienti è possibile trovare molto vicino alla superficie una paura mortale e una terribile
confusione; la natura del conflitto primario è letteralmente esistenziale: vita e morte, esistenza e
annullamento, sicurezza e terrore. I loro sogni sono pieni di terribili immagini di morte e distruzione. Studi
di orientamento psicoanalitico sulle famiglie di soggetti schizofrenici hanno riportato in modo coerente
modelli di comunicazione emotiva in cui il bambino psicotico riceve messaggi sottili di non essere una
persona separata ma un'estensione di qualcun altro.

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Nonostante alcuni loro aspetti particolari i pazienti di tipo psicotico possono generare un controtransfert
positivo nel terapeuta; di solito si ha un atteggiamento di maggiore onnipotenza soggettiva, protettività
genitoriale e sensibilità empatica con gli psicotici che con i nevrotici.
Gli psicotici sono così disperatamente privi di relazioni umane fondamentali e della speranza che qualcuno
possa alleviare la loro sofferenza da essere deferenti e grati verso qualunque terapeuta faccia qualcosa di
più che classificarli e prescrivere farmaci.
Essi apprezzano in modo particolare la sincerità del terapeuta e gli sforzi educativi. Questi atteggiamenti
possono far sentire il terapeuta molto forte e ben disposto, ma l'altra faccia di questa intensa dipendenza
dalle cure riguarda il peso della responsabilità psicologica che lo psicotico inevitabilmente impone.

Caratteristiche della struttura di personalità borderline. Una delle caratteristiche più evidenti delle
persone con organizzazione di personalità borderline è l'impiego di difese primitive. Poiché ricorrono a
meccanismi arcaici e globali come il diniego, l'identificazione proiettiva e la scissione, quando si trovano in
una condizione regressiva sono difficilmente distinguibili dai pazienti psicotici.
Una differenza importante tra borderline e psicotici nell'area delle difese sta nell'effetto che si produce
quando il terapeuta interpreta l'azione di una modalità primitiva di esperienza: il paziente borderline
mostrerà almeno una temporanea ricettività, mentre la persona con organizzazione psicotica diventerà
ancora più agitata.
I pazienti borderline sono al tempo stesso simili e diversi dagli psicotici nella dimensione dell'integrazione
dell'identità. È probabile che abbiano un'esperienza di sé caratterizzata da incoerenza e discontinuità; alla
richiesta di descrivere la propria personalità reagiscono con grande imbarazzo, come gli psicotici. Allo stesso
modo, alla richiesta di descrivere le persone importanti della loro vita, i pazienti borderline non sanno
fornire descrizioni tridimensionali (“Un alcolista. Tutto qui”).
A differenza dei pazienti psicotici, però, le loro risposte non suonano mai letterali o evasive al punto da
essere bizzarre; tendono invece a respingere l'interesse del terapeuta sulla natura complessa degli individui,
inclusi loro stessi. Fonagy sostiene che i clienti borderline hanno un attaccamento insicuro e sono privi di
quella funzione riflessiva che consente di dare un significato ai propri e agli altrui comportamenti: non sono
in grado di mentalizzare, il che significa che non sono in grado di rappresentare laa soggettività delle altre
persone come separata dalla propria.

In genere, i pazienti borderline hanno problemi relativi alla tolleranza e alla regolazione degli affetti, e
frequentemente si arrabbiano laddove altri individui proverebbero vergogna, tristezza, invidia o qualche
altro stato affettivo più sfumato.
Il rapporto dei pazienti borderline con la propria identità differisce da quello degli psicotici per due aspetti:
in primo luogo nel senso di incoerenza e discontinuità di cui soffrono i borderline non si ritrova lo stesso
livello di terrore esistenziale dello schizofrenico. I pazienti borderline possono avere una confusione
dell'identità, ma sanno esistere. In secondo luogo, è meno probabile che le persone con tendenze
psicotiche reagiscano con ostilità a domande sull'identità propria e degli altri.
La dimensione dell'esperienza su cui i due gruppi si distinguono radicalmente è l'esame di realtà (i pazienti
borderline dimostrano di saper valutare la realtà).
Per fare una diagnosi differenziale tra livelli di organizzazione borderline e psicotico, Kenberg consiglia di
indagare la percezione della realtà convenzionale individuando qualche aspetto insolito
nell'autopresentazione del paziente, commentandolo e poi chiedendo al paziente se si rende conto che
altre persone potrebbero trovarlo singolare (ad esempio la scritta “morte” sul volto di un paziente
borderline porterà questo a considerarlo poco convenzionale, mentre un individuo psicotico si sentirà
spaventato e confuso dalla poca comprensione da parte del terapeuta che gli fa questa osservazione).

Persone con un'organizzazione borderline del carattere si rivolgono alla terapia lamentando problemi
specifici, come attacchi di panico, depressione, oppure dietro pressione di un conoscente o di un familiare,
ma non vengono con l'idea di cambiare la propria personalità.
In condizioni non regressive, poiché il loro esame di realtà è buono o spesso riescono a presentarsi in modi
che suscitano l'empatia del terapeuta, i borderline non appaiono particolarmente malati. Di solito il primo
indizio è che gli interventi che il terapeuta ritiene utili vengono recepiti come attacchi: il terapeuta si rivolge
alle capacità di funzione riflessiva che nel paziente borderline sono ridotte = si rivolge a un io osservante,
che però il paziente non ha.
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Il terapeuta continua a cercare di stabilire quel tipo di alleanza di lavoro che è possibile con i pazienti di
livello nevrotico e continua a collezionare fallimenti.
Alla fine il clinico capirà che il primo compito della terapia sarà proprio resistere alle tempeste che
continuano a presentarsi nel rapporto con quella persona.

Materson ha descritto in modo molto efficace come i clienti borderline appaiano vittime di un dilemma:
quando si sentono vicini a un'altra persona provano panico per paura di un eccessivo coinvolgimento e di un
controllo totale, quando si sentono separati vivono un abbandono traumatico. Questo conflitto centrale
della loro esperienza emotiva si esprime nel loro continuo entrare e uscire dalle relazioni, compresa la
relazione terapeutica.
Egli ritiene che essi siano rimasti fissati alla sottofase di riavvicinamento del processo di separazione-
individuazione, quando il bambino ha raggiunto un certo grado di autonomia, ma ha ancora bisogno di
essere rassicurato dalla presenza e dalla forza del genitore. Questo dramma si manifesta nei bambini
intorno ai due anni di età, quando tipicamente oscillano tra il rifiuto dell'aiuto materno e il loro sciogliersi in
lacrime aggrappati alle sue ginocchia.
Egli ritiene che questi pazienti abbiano avuto la sfortuna di avere madre che prima li hanno scoraggiati nei
tentativi di separazione e poi hanno rifiutato di rendersi disponibili quando i figli avevano bisogno di
regredire, dopo aver conquistato una certa indipendenza.

Nei clienti borderline i transfert sono intensi, privi di ambivalenza e resistenti alle normali interpretazioni. Il
terapeuta può essere percepito totalmente buono o totalmente cattivo.

Implicazioni cliniche dei livelli evolutivi di organizzazione

Un terapeuta deve avere diverse aspettative per persone con diversi livelli di sviluppo del carattere, e deve
avere degli obiettivi realistici che proteggono il paziente dalla demoralizzazione e il terapeuta stesso dal
senso di fallimento.
Negli anni 90 gli analisti relazionali hanno messo in discussione molti aspetti della tecnica tradizionale, e in
particolare l’assunto che l’analista sia capace di oggettività e neutralità; inoltre, hanno criticato la tendenza
alla generalizzazione delle strutture caratteriali.

La terapia psicoanalitica con pazienti di livello nevrotico. La psicoanalisi come specifico trattamento s
presta meglio a quei pazienti di chiaro livello nevrotico che si propongono ambiziosamente di modificare il
proprio carattere o di ottenere una più profonda conoscenza di sé stessi. La tecnica e le teorizzazioni che
definiscono l’analisi freudiana classica si sono rivelate meno adatte ad altri tipi di pazienti, anche se all’inizio
del movimento psicoanalitico l’analisi veniva sperimentata con ogni genere di persone. Inoltre, la frequenza
delle sedute fece sì che l’analisi fosse disponibili solo per chi stava bene economicamente.
Per diverse ragioni è più facile fare terapia psicoanalitica con i pazienti più sani, almeno nelle prime fasi del
trattamento, che con persone strutturate a livello psicotico o borderline.
Tra gli scopi del trattamento si include giustamente la rimozione degli ostacoli inconsci alla piena
gratificazione nelle aree dell’amore, del lavoro e del gioco. Freud equiparava la cura psicoanalitica alla
libertà, ed era convinto che fosse la verità a rendere veramente liberi la ricerca di difficili verità su di sé è
possibile con le persone di livello nevrotico, poiché la loro autostima è sufficientemente elastica da
sopportare anche alcune scoperte sgradevoli.

Il paziente nevrotico stabilisce rapidamente con il terapeuta un’alleanza di lavoro, nella quale il clinico e la
parte osservante del cliente sono alleati nella scoperta di difese, sentimenti, fantasie, convinzioni, conflitti e
tensioni precedentemente inconsci. Se il paziente è alla ricerca di una comprensione completa della propria
personalità, ponendosi come obiettivo il più alto livello possibile di sviluppo e di cambiamento, occorre
prendere in considerazione un’analisi intensiva.
I pazienti di livello nevrotico, dopo un periodo di terapia meno intensiva decidono di voler andare più a
fondo e passano da un trattamento analiticamente orientato all’analisi vera e propria.
Le persone hanno una percezione naturale della differenza tra un cambiamento del comportamento che si
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realizza nonostante la propria psicologia e un cambiamento che viene invece sentito coerente con la propria
interiorità. Passare dalla prima alla seconda condizione è una delle ragioni per cui i pazienti spesso scelgono
di restare a lungo nel trattamento analitico.
Per i pazienti di livello nevrotico che non sono in grado o non desiderano assumersi l’impegno di tempo,
denaro ed energia emotiva necessario per un’analisi intensiva, la terapia psicoanalitica può essere di
notevole aiuto; vi è una frequenza inferiore alle tre sedute settimanali, il terapeuta non incoraggia la
regressione emotiva e lo sviluppo di una nevrosi di transfert, mentre è più attivo nel mettere a fuoco temi
che in un trattamento intensivo avrebbero atteso una paziente individuazione.
La psicoanalisi e le teorie ad orientamento psicoanalitico vengono considerate terapie esplorative, di
svelamento o espressive poiché invitano il cliente a essere quanto più aperto possibile a concentrarsi sulle
emozioni e a mettere da parte le precedenti difese. terapie orientate all’insight = la conoscenza di se stessi
riduce i conflitti e promuove la crescita.

Per i pazienti che rientrano nella gamma nevrotica sono indicate anche le terapie analitiche a breve
termine. L’attenzione particolare a un’area conflittuale può risultare dannosa per chi abbia una struttura
borderline o psicotica, mentre può essere sentita stimolante e produttiva da una persona di livello nevrotico
clienti con un livello elevato di funzionamento lavorano bene in trattamenti di gruppi e familiari di
orientamento analitico, che invece spesso non si addicono agli psicotici e ai borderline.
Praticamente ogni approccio terapeutico sarà utile per la maggior parte dei clienti della sfera nevrotica:
nella terapia cognitivo-comportamentale, tali pazienti sono soliti svolgere i compiti che il terapeuta assegna
loro, e se lavorano con psichiatri orientati all’utilizzo dei farmaci, assumeranno volentieri le medicine
prescritte.
Questi pazienti hanno avuto esperienze affettive sufficienti per presumere benevolenza nel terapeuta e
cercare di cooperare ai suoi sforzi; sono pazienti particolarmente apprezzati, che rispondono prontamente
al trattamento e lo valutano positivamente. Fanno un’ottima pubblicità ai loro analisti, diversamente dai
borderline che, anche quando migliorano nel corso della terapia, non fanno altro che screditare i loro
terapeuti.

La terapia psicoanalitica con pazienti di livello psicotico. La cosa più importante da capire sulle persone
con disturbi psicotici o con un livello psicotico di funzionamento è che sono terrorizzate, non a caso i
farmaci più efficaci sono i maggiori ansiolitici.
La persona suscettibile di organizzazione psicotica è priva di un senso basilare di sicurezza nel mondo ed è
sempre pronta a credere che l’annichilimento sia imminente.
Di conseguenza, con questi pazienti il trattamento elettivo è, di solito, la psicoterapia di sostegno, un
approccio che sottolinea il supporto attivo della dignità del paziente, della sua autostima e della sua forza
dell’Io, nonché i suoi bisogni di essere informato e guidato.

Il primo aspetto del lavoro di sostegno che occorre ricordare è la dimostrazione dell'affidabilità del
terapeuta. Il fatto che le persone di livello psicotico siano spesso condiscendenti non significa che si fidino.
In realtà, la loro compiacenza ha un significato del tutto opposto: esprime la paura di essere uccisi
dall'autorità se ci si mostra come essere separati e dotati di una volontà propria → Il terapeuta deve
confermare la propria diversità dalle immagini primitive di un'autorità ostile e onnipotente che tormentano
le persone di livello psicotico.
Occorre agire ripetutamente in modo diverso dalle aspettative più spaventose del paziente. Un'espressione
del viso che comunica rispetto è sufficiente a mettere a suo agio un paziente di livello nevrotico ma, con una
persona a rischio di psicosi, bisogna mostrare molto più attivamente la propria accettazione del paziente
come essere umano di pari dignità → ciò potrebbe includere semplici comunicazioni, come chiedere al
cliente se nello studio fa troppo caldo o troppo freddo, domandare cosa ne pensa di un nuovo quadro,
creare opportunità in cui possa dimostrare le aree di personale competenza, o fare commenti sugli aspetti
positivi e creativi anche dei sintomi più bizzarri.
Un altro modo per dimostrare di meritare fiducia è comportarsi con ferma onestà: i pazienti schizofrenici
hanno bisogno di sapere che il terapeuta è emotivamente sincero; le persone di livello psicotico richiedono
un'apertura emotiva maggiore rispetto ad altri pazienti, e in assenza di ciò non fanno altro che rimanere
bloccate nelle loro fantasie.
Con le persone più sane si possono evitare le rivelazioni emotive, in modo che il paziente possa cogliere ed
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esplorare le proprie fantasie sullo stato affettivo del terapeuta, con i clienti più disturbati invece si deve
essere disposti a farsi conoscere.

Si noti che anche con l'approccio supportivo si invita il paziente a esplorare le proprie percezioni, ma solo
dopo aver depotenziato direttamente con informazioni specifiche una preoccupazione potenzialmente
inibitoria.
(paziente psicotico: “lei è arrabbiato con me?”; terapeuta: “lei è molto percettivo, credo di essere
leggermente irritato. Mi sento frustrato perchè ho l'impressione di non riuscire ad aiutarla con la rapidità
che vorrei. Per quale ragione me lo chiede?”) → in questo caso il terapeuta ha comunicato esplicitamente
rispetto per la percezione precisa del paziente e ha anche implicitamente contrastato le fantasie primitive
sulla pericolosa onnipotenza del terapeuta, collegando l'irritazione ai normali limiti umani piuttosto che a
una ritorsione distruttiva.
Con un paziente psicotico è importante dare esplicite spiegazioni del proprio modo di lavorare, spiegazioni
che assumeranno un significato emotivo per la persona.

Nella mia pratica terapeutica, con la maggior parte delle persone di livello psicotico sono solita aprirmi:
parlo della mia famiglia, della mia storia personale, anche delle mie opinioni, di qualunque cosa possa
mettere la persona a suo agio con me come un normale essere umano.
Il terrore del paziente di trovarsi nelle mani di un Altro potente, distante e forse persecutorio è talmente
grande che i vantaggi di una maggiore apertura possono di gran lunga superare i rischi.
Un altro modo di dimostrare a un paziente di tipo psicotico un interesse di base, e quindi la propria
affidabilità, è offrire un aiuto più specifico e diretto di quanto sarebbe giustificato nella psicoterapia con
persone più sane.
= con persone di livello psicotico occorre entrare in relazione in modo molto più autorevole, comportarsi
come un essere umano alla pari, ma conservando il ruolo del professionista esperto, il terapeuta fa sentire
più sicuri i pazienti spaventati. Assumere un tono egualitario viene percepito dai pazienti di livello psicotico
come non umiliante, e il senso di autorità con cui il terapeuta esprime i concetti li rassicura sul fatto che
questo è abbastanza forte da tollerare le loro fantasie distruttive.

Un secondo aspetto della terapia di sostegno è il ruolo educativo del terapeuta. Le persone che
appartengono alla gamma psicotica hanno aree di grande confusione cognitiva, specialmente riguardo alle
emozioni e alle fantasie; molti individui psicotici sono cresciuti in sistemi in cui veniva usato un linguaggio
emotivo paralizzante e sconcertante: è possibile che i membri della famiglia parlassero d'amore mentre si
comportavano con odio.
Le persone inclini alla psicosi hanno spesso bisogno di un'informazione esplicita su cosa siano i sentimenti,
sul fatto che siano reazioni naturali, su come differiscano dalle azioni, su come tutti li trasformino in fantasie
e su quanto siano universali le preoccupazioni che le persone con organizzazione psicotica ritengono invece
parte distorta del proprio dramma personale.
La normalizzazione è una componente del processo educativo = la sollecitazione attiva di tutte le
preoccupazioni del cliente e la successiva riformulazione dei pensieri e dei sentimenti spaventosi in termini
di elementi naturali dell'emotività umana sono cruciali per aiutare gli individui più disturbati.

Le prime concezioni riguardo alla psicosi la identificavano come uno stato privo di difese, in contrasto con la
condizione iperdifesa dei nevrotici; oggi invece sappiamo che anche le persone di livello psicotico hanno
delle difese, ma sono talmente primitive da non poter essere analizzate senza che il cliente si senta privato
di uno dei pochi strumenti che gli consentono di sentirsi meno spaventato.
Esempio. Un giovane che soffriva di psicosi in seguito alla morte del padre dichiarava di credere di esser
diventato il padre, e di fare sogni ricorrenti in cui, trasformato nel padre, era inseguito da mostri che
tentavano di ucciderlo; era terrorizzato all'idea che il padre morto, che in vita era stato un genitore difficile e
punitivo, fosse capace di invadere il suo corpo anche dalla tomba → idea che indica il diniego della morte
del padre, una normale fase di dolore, quindi esprimeva il senso di colpa per essere sopravvissuto,
attraverso la fantasia che era lui a essere morto invece del padre; inoltre questo era un tentativo di ridurre
l'angoscia in quanto, se il padre si trovava nel suo corpo, non era da qualche altra parte a progettare di
uccidere il figlio per il peccato di essergli sopravvissuto.
→ Molte persone con una struttura di personalità psicotica sono state poste fin dall'infanzia nel ruolo del
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malato, prima delle famiglie e in seguito da altri sistemi sociali che le definiscono bizzarre: di conseguenza,
arrivano al trattamento aspettandosi che il terapeuta sarà ugualmente colpito dalla loro mancanza di sanità.
Interventi che accolgono, invece di stigmatizzare, danno immediato sollievo e sono di per sé efficaci.

Un terzo principio della terapia di sostegno riguarda l’interpretazione dei sentimenti e delle tensioni
emotive invece che delle difese.
Di fronte all’assalto di sentimenti di paura e di odio di livello psicotico, si è tentati di interpretare la difesa
proiettiva o di opporre alle distorsioni del cliente la visione della realtà del terapeuta. Tuttavia è probabile
che entrambe le strategie inducano nel cliente il timore che il terapeuta sia segretamente alleato con i
persecutori.
In primo luogo occorre quindi attendere fino a che il paziente faccia una pausa per riprendere fiato.
In secondo luogo si può fare un commento del tipo: “Oggi sembra più turbato del solito”, senza nessuna
implicazione sul carattere folle di quel turbamento. Infine, si tenta di aiutare il cliente a scoprire che cosa
abbia provocato tale intensità affettiva.
A volte in questo processo occorre tollerare lo strano ruolo di dover apparentemente confermare le
distorsioni del paziente spesso solo grazie a questa alleanza il paziente si sentirà sufficientemente
compreso da accettare le successive riflessioni del clinico.
Esempio: una paziente si infuria nello studio del terapeuta e lo accusa di prender parte a un complotto per
ucciderla. Invece di mettere in questione l’esistenza del complotto o di suggerirle che sta proiettando i
propri impulsi omicidi, il terapeuta dice: “Mi dispiace! Se ho avuto qualche relazione con questo complotto,
non me ne sono reso conto. Cosa sta succedendo?” in questi esempi il terapeuta non esprime accordo con
le interpretazioni dei fatti date dal paziente, ma non ferisce neppure il suo orgoglio rifiutandole.
Di solito, dopo che il paziente si è sfogato a sufficienza, le distorsioni paranoidi vengono gradualmente
sostituite da una comprensione meno spaventosa dei fatti. A volte il terapeuta può favorire questo processo
chiedendo con cautela spiegazioni alternative delle percezioni del paziente, ma solo dopo aver dato al
cliente l’opportunità di sfogarsi.

Nonostante un certo pregiudizio la psicoterapia con persone psicotiche è efficace; la terapia può salvare la
vita ai pazienti disturbati, ma i clinici competenti in questo campo sono più rari di quelli specializzati nel
trattamento delle persone più sane.

La terapia psicoanalitica con pazienti borderline. Il termine borderline, utilizzato come livello di
organizzazione, include molti significati diversi. Una persona depressa con struttura del carattere borderline
non solo è del tutto diversa da una persona borderline narcisistica, isterica o paranoica, ma all’interno della
stessa categoria borderline esiste un’ampia gamma di livelli di gravità, che va dal confine con le nevrosi a
quello con le psicosi.
Quanto più la psicologia di una persona è vicina alla nevrosi, tanto più questa risponderà positivamente a un
trattamento improntato allo svelamento dell’inconscio, mentre i clienti che si trovano ai confini con la
psicosi reagiranno meglio a un trattamento supportivo.
Inoltre, non essendo essere unidimensionali, ogni persona di livello nevrotico ha qualche tendenza
borderline e viceversa, ma in generale le persone con un’organizzazione di personalità borderline hanno
bisogno di terapia molto strutturate.
Lo scopo della terapia per le persone con struttura borderline è lo sviluppo di un senso di sé integrato,
complesso, affidabile e positivamente valutato. Parallelamente a questo processo evolve anche la capacità
di amare pienamente gli altri e tollerare un’ampia gamma di emozioni.

Inizialmente la struttura di personalità borderline era considerata come un arresto evolutivo; più
recentemente è stata vista come effetto del trauma da attaccamento.
 La ricerca sul trattamento delle condizioni borderline restituisce risultati incoraggianti, che
supportano empiricamente diversi approcci terapeutici. In questi studi, la terapia dialettica
comportamentale di Linehan è spesso considerata il trattamento per eccellenza rispetto a tale
disturbo di personalità, ma sono state effettuate anche ricerche metodologicamente rigorose sulla
terapia basata sulla mentalizzazione di Fonagy e sulla psicoterapia focalizzata sul transfert di
Kernberg.

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Sebbene i pazienti borderline possiedano una maggiore capacità di fidarsi rispetto agli psicotici, e quindi
non abbiano necessità che il terapeuta dimostri continuamente che nella stanza di consultazione sono al
sicuro, possono occorrere diversi anni perché si sviluppi l’alleanza terapeutica (cosa che il nevrotico riesce a
provare dopo i primi minuti di incontro).
La persona borderline, per definizione, non ha un io osservante integrato e capace di vedere le cose allo
stesso modo del terapeuta, al contrario, è soggetta a oscillare caoticamente tra diversi stati dell’Io, e non è
ancora in grado di integrare questi aspetti differenti di sé. Mentre lo psicotico tende a fondersi
psicologicamente con il clinico e il nevrotico a mantenere un’identità nettamente separata, il borderline
oscilla, confusamente per sé e per gli altri, tra un attaccamento simbiotico e una separatezza ostile e isolata.
Entrambi gli stati sono disturbanti: uno fa emergere lo spettro dell’inglobamento, l’altro dell’abbandono.

Data l’instabilità dello stato dell’Io, una dimensione critica nel trattamento con i pazienti borderline è
stabilire nella terapia condizioni costanti, ciò che Robert Langs ha definito in termini di cornice terapeutica.
in essa non rientrano solo gli accordi sul tempo e sull’onorario, ma anche numerose altre decisioni sui
confini della relazione che raramente entrano in gioco con altri clienti. Tutte le principali terapie per il
disturbo borderline di personalità prevedono procedure che sono volte proprio a mantenere saldo il
trattamento attraverso l’esplicitazione die suoi confini. Si può invece essere più elastici sia con i pazienti
nevrotici sia con quelli psicotici.
Le questioni relative ai confini sono infinite con le persone della gamma borderline, e ciò che è importante
che il terapeuta conosca non è tanto quali condizioni si debbano porre (che variano a seconda della
personalità del paziente, delle preferenze del terapeuta ecc), quanto piuttosto l’importanza cruciale che
vengano poste, osservate in modo coerente e rinforzate da specifiche sanzioni se il paziente non le rispetta.
Clienti di livello borderline reagiranno spesso con rabbia ai limiti posti dal clinico, ma riceveranno comunque
due messaggi terapeutici: 1.il terapeuta considera il paziente come un adulto e ha fiducia nella sua capacità
di tollerare la frustrazione; 2.il terapeuta rifiuta di essere usato e in tal modo offre un modello di rispetto di
sé.

Di solito le storie personali confermano che i borderline sono stati ampiamenti esposti a messaggi
contraddittori: trovavano indulgenza quando regredivano (e di solito erano ignorati quando si
comportavano in modo più maturo) e ci si aspettava che potessero essere usati e che a loro volta usassero
gli altri.
 McWilliams afferma di aver imparato a mantenere costante il proprio setting di terapia, a
prescindere da quanto duro potesse sembrare al momento: ad esempio non permetteva che le
sessioni andassero oltre l’orario previsto, anche se il paziente era appena entrato in uno stato di
intensa sofferenza, terminava gli incontri gentilmente ma con fermezza, e poi ascoltare nella
sessione successiva la rabbia del paziente per essere stato “cacciato fuori”.
Ha notato che quando tali pazienti riuscivano a tirar fuori l’idea che le mie regole erano rigide ed
egoiste, allo stesso tempo funzionavano meglio di quando provava a condurli verso uno stato di
gratitudine per la sua generosità.
= i terapeuti inesperti nel trattamento di pazienti borderline spesso si chiedono quando si creerà l’alleanza
terapeutica e quando potrà iniziare la terapia vera e propria; può essere dolorose capire che tutto il lavoro
relativo alle condizioni di trattamento è la terapia.

Un secondo aspetto cui occorre prestare attenzione con i clienti borderline è il modo di parlare. Con i
pazienti nevrotici i commenti devono essere abbastanza rari, e quando vengono dati l’obiettivo è che
abbiano uno specifico effetto; con loro si può parlare in modo incisivo ed emotivamente efficace; spesso si
interpreta il lato nascosto di un certo conflitto di cui il paziente riconosce un solo aspetto emotivo.
(esempio, il terapeuta potrebbe commentare il racconto di una paziente dicendo “Ma le piacerebbe anche
ucciderla!”).
In questi casi i clienti nevrotici si renderanno conto che il terapeuta ha svelato una parte della loro
esperienza soggettiva che tenevano fuori dalla coscienza, sentono un ampliamento della loro
consapevolezza, si sentono capiti anche se leggermente feriti.
Parlare in questo modo al borderline, invece, lo farà sentire criticato e sminuito giacchè, se l’interpretazione
non è formulata con parole diverse, il messaggio principali che riceverà è: “Sei del tutto in errore su ciò che
provi realmente”.
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Tale fraintendimento deriva dalla tendenza a oscillare tra diversi stati dell’Io, piuttosto che permanere in
una cornice mentale in cui ambivalenza e ambiguità sono tollerate.
Un modo di aggirare il problema è ricordarsi sempre che nella persona borderline non esiste un io
osservante in grado di elaborare l’interpretazione come informazione supplementare sul sé e che, di
conseguenza, occorre offrire quella funzione all’interno dell’interpretazione stessa. (“mi rendo conto di
quanto Mary significhi per lei. Tuttavia è possibile che esista anche una parte di lei, una parte cui lei,
naturalmente, non vorrebbe dare ascolto, cui piacerebbe sbarazzarsene”).

Un terzo elemento riguarda l’interpretazione delle difese primitive quando appaiono nella relazione. Questo
tipo di intervento non differisce dal lavoro psicologico sull’Io con pazienti di livello nevrotico, ma poiché le
difese del paziente borderline sono così totalizzanti, e poiché egli può risultare diverso in funzione dei
differenti stati dell’Io in cui si trova, l’analisi della difesa richiede un approccio specifico.
Con i borderline non è utile che il terapeuta faccia le interpretazioni genetiche (o storiche), nelle quali una
reazione di transfert viene collegata a sentimenti più appropriati nei confronti di una figura appartenente al
passato del paziente.
Ciò che può essere interpretato con i pazienti borderline è la natura della situazione emotiva con il
terapeuta nel qui-e-ora. Per esempio, quando la rabbia permea la diade terapeutica, è probabile che nel
borderline la difesa all’opera sia l’identificazione proiettiva = cerca di liberarsi del sentimento di un “me
cattivo” e dell’affetto di rabbia che vi è associato ponendolo nel terapeuta, ma il trasferimento
dell’immagino e dell’affetto non è pulito: nonostante la proiezione il paziente conserva i sentimenti di
cattiveria e di rabbia.
 Qui c’è una differenza essenziale tra i pazienti borderline, da un lato, e quelli psicotici e nevrotici
dall’altro. La persona psicotica, quando proietta, è sufficientemente priva di contatto con la realtà
da non preoccuparsi se la proiezione calza o meno; il nevrotico conserva un io osservante capace di
rendersi conto della propria proiezione; i pazienti borderline, quando proiettano, non riescono a
liberarsi davvero del sentimento proiettato. Non sono in grado di assumere un atteggiamento
indifferente circa il carattere realistico del materiale proiettato in quanto l’esame di realtà in loro,
diversamente dagli psicotici, è intatto. E non possono neanche relegarlo nella parte inconscia dell’Io
perché, a differenza dei nevrotici, non usano la rimozione ma slittano da uno stato all’altro del Sé.
Continuano dunque a provare il sentimento che proiettano, insieme al bisogno di renderlo
congruente con la realtà per non sentirsi pazzi. Di conseguenza, il terapeuta riceve la rabbia del
paziente (o un altro affetto intenso), e inizia anche lui a provare rabbia per il fatto di non essere
capito, giacchè il paziente cerca di rendere congrua la proiezione insistendo che la ragione per cui è
arrabbiato è l’ostilità del terapeuta.

Interpretazione che può raggiungere una persona borderline: “lei sembra convinto di essere cattivo. E ne è
arrabbiato, e cerca di gestire questa collera dicendo che il cattivo sono io e che è la mia collera a causa la
sua. Riesce a immaginare che entrambi possiamo essere una combinazione di bene e male e che ciò
comunque non è un grande problema?”.
= questo rappresenta lo sforzo del terapeuta di portare il paziente da una psicologia in cui ogni cosa è
bianca o nera, tutto o nulla, a una psicologia in cui diversi aspetti del sé, buoni e cattivi, e tutta una gamma
di emozioni sono consolidati all’interno di un’identità globale.

Una quarta dimensione tecnica del lavoro con i pazienti borderline è chiedere l’aiuto del paziente per
risolvere i dilemmi di fronte a cui il terapeuta in genere viene posto. Questa tecnica, in virtù della quale il
paziente diventa una sorta di supervisore, si collega alla modalità tutto-o-nulla con cui i borderline spiegano
le cose.
Per esempio, ho avuto in trattamento un giovane di 22 anni con un padre alcolista, che sembrava non
accorgersi della sua esistenza, e una madre troppo possessiva, ansiosa e invadente, che gestiva la vita del
figlio al punto da scegliergli gli abiti ogni giorno. Con il progredire della terapia il paziente cominciò a
smettere di parlare per periodi sempre più lunghi durante le nostre sedute.
Se questo paziente fosse stato nella gamma nevrotica, gli avrei ricordato l’accordo di parlare di qualunque
cosa gli venisse in mente e avrei fatto una semplice analisi della resistenza; ma con questo paziente era
diverso: se rimanevo in silenzio ero certa che si sarebbe sentito terribilmente trascurato, come lo era dal
padre, ma se parlavo, sospettavo che mi avrebbe percepito invadente come la madre. La mia perplessità a
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questo punto rispecchiava probabilmente la sua sensazione di ricevere comunque danno, sia che parlasse
sia che continuasse a tacere.
Mi trovai a chiedere a lui di aiutarmi a risolvere il problema: così gli chiedi come voleva che reagissi nei
momenti in cui cadeva in un silenzio prolungato, e lui rispose che sospettava di volere che gli facessi
domande e che lo tirassi fuori da quella situazione. I sogni e le fantasie che aveva raccontato quando ancora
parlava suggerivano che egli credeva che gli altri, come la madre onnipotente della sua fantasia infantile,
potessero leggere la sua mente. Io volevo mandargli un messaggio contrario e più realistico.
Il paziente si illuminò e a quel punto cambiò idea e decise che avrei dovuto aspettare che lui si sentisse
pronto a parlare.
È interessante osservare che prima di ottenere da lui quel tipo di supervisione, mi trovavo in uno stato
interiore di disagio, mentre in seguito ero del tutto tranquilla con il suo silenzio. Un paio d’anno dopo, egli
riuscì a dirmi che la mia disponibilità a farmi guidare da lui in quel frangente aveva segnato la nascita della
sua capacità di sentirsi una persona separata in presenza di qualcun altro.
 Dunque, questa tecnica riduce il disagio immediato del terapeuta e offre un modello di accettazione
dell’incertezza, afferma la dignità e la creatività del paziente e ricorda a entrambe le parti la natura
cooperativa e non giudicante del lavoro.

Persone con psicologia borderline hanno bisogno di empatia come chiunque altro, ma i loro cambiamenti di
umore e le fluttuazioni dello stato dell’Io rendono difficile al clinico sapere quando e come esprimerla.
Masterson ha notato che i clienti borderline, poiché hanno avuto madri che incoraggiavano i
comportamenti di dipendenza, si sentono al sicuro ogni volta che si trovano in una relazione regressiva e di
dipendenza: quando invece sono sole soffrono di un’angosciosa disperazione definita “depressione da
abbandono” (relazione tra modelli insicuri di attaccamento e uno stile materno ansioso e che impedisce
l’autonomia).
La tecnica che Masterson raccomanda con i clienti borderline sottolinea la necessità che il terapeuta agisca
in un modo opposto a quello della madre, denunciando attivamente i comportamenti regressivi e
autodistruttivi della persona e incoraggiando invece empaticamente ogni sforzo verso l’autonomia e la
competenza.
Nel suo modello è importante che il terapeuta scoraggi l’attaccamento dipendente, il quale non offre ai
pazienti alcuna base per l’autostima e presti attenzione invece agli elementi adattivi ed evolutivi.

Il momento migliorare per fare delle interpretazioni con persone di livello nevrotico sia quello in cui il
paziente si trova in uno stato di agitazione emotiva, in modo che il contenuto dell’osservazione del
terapeuta non venga intellettualizzato e il potere affettivo dei problemi affrontati non sia equivocabile. Con i
clienti borderline si applica la regola opposta, dato che in condizioni di intensa emotività sono troppo
turbati per recepire qualcosa. È possibile fare commenti su quanto è accaduto in un loro stato di rabbia,
panico o disperata regressione, ma solo dopo che quello stato è cessato e si sentono interiormente sicuri di
aver superato.
In una condizione di quiete emotiva il cliente borderline è disposto a sentire il terapeuta che nomina una
dinamica di quel tipo e cerca di comprenderla, traendone anche sollievo. Ma in uno stato di intensa
affettività in genere recepisce l’interpretazione non solo come una condanna, ma anche come un invito a
sforzarsi di abbandonare.

Un ultimo aspetto riguarda il ruolo centrale della comprensione del controtransfert da parte del terapeuta.
Sebbene questi pazienti parlino liberamente nella terapia, le comunicazioni più importanti che inviano non
si trovano nel contenuto delle parole, ma nella musica di sottofondo del loro stato emotivo. Le risposte
intuitive, affettive e immaginali del terapeuta di fronte a un paziente borderline danno spesso informazioni
migliori su ciò che sta accadendo tra le due persone di quanto possa fare qualunque riflessione cognitiva sul
contenuto della comunicazione del paziente o il ricorso a idee sulla teoria e sulla tecnica.
Quando ci si sente improvvisamente annoiati, arrabbiati, in preda al panico, sopraffatti dal desiderio di
salvare, o distratti da immagini sessuali, è probabile che stia succedendo qualcosa che è inconsciamente
indotto dal paziente e che ci dice qualcosa di importante sullo stato interiore di quella persona.
Non tutto ciò che succede sul piano del pensiero e delle emozioni quando si sta con un paziente borderline
è stato messo in campo da lui; nella peggiore delle ipotesi, il terapeuta può provocare un danno in nome di
concetti come l’identificazione proiettiva e la co-costruzione della relazione.
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Ma anche l’atteggiamento contrario, quello che considera il controtransfert soltanto come farina del proprio
sacco può rivelarsi nemico del progresso clinico. Alcuni supervisore psicoanalitici mettono talmente
l’accento sulla comprensione delle dinamiche personali da parte degli allievi da finire col favorire un grado
di autocoscienza eccessivo: al posto della relazione terapeutica si instaura una specie di sterile
autocontemplazione e, quindi, persone dotate di talento e sensibilità hanno difficoltà a fidarsi di quelli che
spesso sono eccellenti istinti naturali.

Il tono da assumere con persone borderline deve essere autentico perché essere neutrali suona loro falso;
inoltre, come ha notato Karen Maroda, quando il terapeuta è capace di esprimere alcune emozioni, ciò non
fa chiudere il paziente in se stesso in quanto sa anche lui quanto sia difficile gestirle.
Nella terapia è importante ricordare l’equivalente psicologico del principio di Heisenberg: quando
osserviamo qualcosa, noi stessi facciamo parte di ciò che è osservato; allo stesso modo, quando siamo con
un paziente, noi ci relazioniamo con una persona che si trova nella situazione di essere con noi.

L’interazione delle dimensioni maturative e tipologiche del carattere. Dimensioni evolutive e tipologiche
della personalità:
Dimensione evolutiva: 1.Livello sanità/nevrosi (integrazione dell’identità e costanza dell’oggetto,
dimensione edipica freudiana, iniziativa/colpa eriksoniana). 2.Livello borderline (separazione-
individuazione, dimensione anale freudiana, autonomia/vergogna e dubbio eriksoniani). 3.Livello psicotico
(simbiosi, dimensione orale freudiana, fiducia/sfiducia di base eriksoniana).
Dimensione tipologica: Psicopatica, Narcisistica, Schizoide, Paranoide, Depressiva, Masochistica,
Ossessivo/compulsiva, Isterica, Altra.
 Le persone non sono uniformemente distribuite in tutti i punti di ciascun continuum; le categorie
che rappresentano l’uso abituale di una difesa primaria satureranno di più verso l’estremo psicotico
del continuum; i paranoici, per esempio, che per definizione dipendono dal diniego e dalla
proiezione, saranno raggruppati soprattutto all’estremità inferiore dell’asse evolutiva più che a
quella superiore. Le categorie tipologiche che rappresentano l’uso di difese più mature satureranno
maggiormente verso il polo nevrotico.
 Spesso è clinicamente più importante cogliere il livello evolutivo globale del paziente che
identificare la descrizione tipologica che più gli si addice.

I processi difensivi primari

Le principali categorie diagnostiche utilizzate dai terapeuti analitici per definire i tipi di personalità si
riferiscono implicitamente all'azione persistente nell'individuo di una specifica difesa o di una costellazione
di difese = un'etichetta diagnostica è dunque una sorta di abbreviazione che indica il modello difensivo
abituale di una persona.
Difese = quelle che negli adulti maturi si chiamano difese si strutturano inizialmente come modi globali,
inevitabili e adattivi di percepire il mondo → Freud fu il primo a ideare il termine “difesa”: 1.analogia con la
terminologia militare (al fine di far comprendere i concetti psicologici ad un pubblico più scettico); 2.quando
vide le attuali principali difese, come rimozione, conversione e dissociazioni, osservò l'attività di questi
processi nella loro funzione difensiva. Le persone emotivamente disturbate facevano di tutto per evitare di
rivivere quello che temevano sarebbe stato un dolore insopportabile.
→ in questo contesto era fondamentale il valore terapeutico di indebolire o infrangere le difese disadattive
della persona, in quanto queste venivano viste come qualcosa di disadattivo e quindi di negativo.
Attualmente gli analisti, nel linguaggio ordinario, usano il termine “difesa” senza pensare necessariamente
che sia in atto qualcosa di patologico.
I fenomeni cui ci riferiamo come difese hanno molte funzioni positive: si manifestano come adattamenti
sani e creativi e continuano a operare in senso adattivo per tutta la vita.
La persona che usa una difesa in genere cerca inconsciamente di ottenere uno o entrambi i seguenti
obiettivi: 1.evitare o comunque gestire qualche sentimento intenso e minaccioso, di solito l'ansia, ma a
volte anche sentimenti intollerabili di perdita, vergogna, invidia e altre esperienze emotive disorganizzate;
2.mantenere l'autostima.
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• Psicologi dell'Io hanno messo in risalto la funzione delle difese nella gestione dell'ansia
• Relazioni oggettuali hanno dato rilievo all'attaccamento e alla separazione, e hanno introdotto
l'idea che le difese agiscono anche contro i sentimenti di perdita
• Psicologi del Sé hanno sottolineato il ruolo delle difese nello sforzo di mantenere un senso di sé
forte

Gli psicoanalisti ritengono che tutti noi abbiamo alcune difese preferenziali che sono diventate parte
integrante del nostro stile individuale di affrontare i problemi. Questo ricorso preferenziale e automatico a
una particolare difesa o serie di difese è il risultato di un'interazione complessa tra almeno quattro fattori:
1.il temperamento costituzionale; 2.la natura dei disagi subiti nella prima infanzia; 3.le difese presentate e a
volte deliberatamente insegnate, dai genitori e da altre figure significative; 4.le conseguenze sperimentate
dell'uso di particolari difese.
Dal lavoro di Phoebe Cramer emerge che le difese: 1.operano al di fuori della coscienza; 2.si sviluppano
secondo sequenza prevedibili con la maturazione del bambino; 3.sono presenti nella personalità normale;
4.vengono usate più spesso nei periodi di tensione; 5.riducono l'esperienza cosciente delle emozioni
negative; 6.operano tramite il sistema nervoso autonomo; 7.quando vengono usate eccessivamente, sono
correlate con la psicopatologia.
→ alcune difese sono evolutivamente meno mature di altre, secondo Cramer il diniego è molto precoce, la
proiezione si sviluppa successivamente, e l'identificazione ancora più tardi. In generale:
– Le difese che vengono considerate primarie, immature, primitive o di ordine inferiore sono quelle
che implicano il confine tra il Sè e il mondo esterno. Operano in modo globale e indifferenziato in
tutta la dimensione sensoriale della persona, fondendo dimensioni cognitive, affettive e
comportamentali
– Quelle che sono ritenute secondarie, più mature, evolute o di ordine superiore hanno a che vedere
con confini interni, come quelli tra l'Io e il Super-io e l'Es, o tra la parte dell'Io che vive l'esperienza e
quella capace di osservare. Operano trasformazioni specifiche del pensiero, del sentimento, della
sensazione, del comportamento o di una loro qualche combinazione.

Per essere definita primaria, una difesa deve mostrare due qualità associate alla fase preverbale dello
sviluppo: mancato raggiungimento della separatezza e della costanza di coloro che sono esterni al Sè. La
difesa del diniego è considerata una manifestazione di un processo più primitivo rispetto alla rimozione.
Perchè qualcosa venga rimosso deve essere in qualche modo conosciuto e poi consegnato all'inconscio,
mentre il diniego è processo istantaneo e antiriflesso.
Il meccanismo di difesa noto come scissione, in cui le esperienze vengono raggruppate nelle categorie del
totalmente buono e del totalmente cattivo, senza lasciare spazio all'ambiguità e all'ambivalenza, è
considerato primitivo in quanto si ritiene che abbia origine in un periodo precedente allo sviluppo della
costanza dell'oggetto.
Al contrario, una difesa come la razionalizzazione è considerata matura in quanto, perchè una persona
formuli spiegazioni ragionevoli capaci di giustificare un sentimento, occorrono capacità verbali e di pensiero
più evolute e un maggior contatto con la realtà.

Le cosiddette difese primitive sono semplicemente i modi in cui noi riteniamo che il bambino piccolo
percepisca naturalmente il mondo. Tali modalità di esperienza sono considerate presenti in tutti noi, che si
abbia o no una patologia significativa → è l'assenza di difese mature, non la presenza di quelle primitive,
che definisce la struttura borderline o psicotica.
Descrivere le difese primitive è complesso dato che sono preverbali, prelogiche, totalizzanti, inscritte nel
registro dell'immaginario e magiche le rende estremamente inadatte a essere rappresentate dalla parola
scritta.

Il ritiro estremo. → persone che si sottraggono a situazioni sociali o interpersonali, sostituendo lo stimolo
del proprio mondo fantastico interiore alle tensioni della relazione con gli altri; anche la propensione ad
usare sostanza psicotrope per alterare la coscienza può essere considerata una forma di ritiro.
Tali individui possono crearsi una ricca vita interiore di fantasia e considerare problematica o affettivamente

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insoddisfacente il mondo esterno.
Esperienze di intrusione o violazione emotiva da parte delle figure di accudimento e di altri oggetti precoci
possono rinforzare la tendenza al ritiro; anche la trascuratezza e l'isolamento possono favorire questa
risposta, poiché portano il bambino a dipendere da ciò che il suo mondo interno può generare per
stimolarsi. La personalità schizoide è l'esito caratteriale di un affidamento alla difesa del ritiro.
L'evidente svantaggio della difesa del ritiro è che essa estrania la persona della partecipazione attiva alla
soluzione interpersonale dei problemi.
Il vantaggio principale del ritiro come strategia difensiva è che, mentre implica una fuga psicologica dalla
realtà, richiede scarsa distorsione della realtà stessa.

Il diniego. Rifiutare di accettare che certe esperienze spiacevoli accadano; questo meccanismo continua a
operare automaticamente in ognuno di noi come prima reazione a qualunque avvenimento catastrofico.
Questa reazione è l'espressione di un processo arcaico radicato nell'egocentrismo del bambino, in cui
l'esperienza è governata dalla convinzione prelogica che “se non lo riconosco non succede”.
Molti di noi utilizzano occasionalmente il diniego, principalmente per rendere la vita meno sgradevole, e
molti lo usano con frequenza quando si trovano di fronte a specifiche tensioni.
(esempio rifiutare di fare il pap-test, come se ignorare la possibilità di un cancro le permetta magicamente
di evitarlo. Coniugi che negano la pericolosità di un partner violento; alcolisti che insistono di non avere
nessun problema col bere; madri che ignorano l'evidenza di molestie sessuali subite dalle figlie).
Componente di diniego nell'azione di molte difese più mature (la credenza consolatoria che la persona che
ci ha rifiutato in realtà ci desiderava, ma non era ancora pronta a un completo coinvolgimento.
L'esempio più evidente di psicopatologia definita dall'uso del diniego è la maniacalità. In uno stato
maniacale, le persone possono denegare in misura sorprendente le proprie limitazioni fisiche, la necessità di
dormire, le emergenze finanziarie, le debolezze personali, persino la propria mortalità.
Coloro che ricorrono al diniego come difesa principale vengono definiti ipomaniacali dai clinici di
orientamento analitico; il prefisso ipo li differenzia dagli individui che soffrono di episodi totalmente
maniacali. Ciclotimico è un altro termine usato per questa categoria di persone a causa della loro tendenza
ad alternare stati d'animo depressivi e maniacali.

Il controllo onnipotente. Per il neonato la fonte di tutti gli eventi è in qualche modo interna: se il bambino,
per esempio, ha freddo e una figura materna se ne accorge e gli offre calore, il bambino ha una sorta di
esperienza preverbale di aver magicamente provocato il calore. La consapevolezza dell'esistenza di una
possibilità di controllo da parte di altri separati, esterni al Sè, non si è ancora sviluppata.
→ Ferenczi: onnipotenza primaria (fantasia di avere il controllo del mondo, di poterlo influenzare, di
produrre qualche effetto); onnipotenza secondaria (l'onnipotenza viene attribuita a una o più figure
primarie di accudimento); infine, dopo un ulteriore maturazione, si arriva a comprendere che nessuno ha
un potere illimitato.
Alcuni residui del senso di onnipotenza infantile rimangono in tutti noi e contribuiscono a farci sentire
competenti ed efficaci nella vita.
Alcune persone hanno un bisogno irresistibile di provare un senso di controllo onnipotente e di interpretare
le esperienze come frutto del proprio illimitato potere. → personalità psicopatica se la personalità è
organizzata intorno alla ricerca di questa gratificante sensazione di esercitare la propria onnipotenza.
Avere potere sugli altri è una preoccupazione e un piacere centrale per gli individui con personalità
dominate dal controllo onnipotente.

Idealizzazione e svalutazione estreme. Conosciamo tutti l'intensità con cui un bambino piccolo ha bisogno
di credere che mamma e papà siano in grado di proteggerlo da tutti i pericoli della vita.
Tutti noi idealizziamo. Ci portiamo dietro dei residui del bisogno di attribuire un valore e un potere speciale
alle persone da cui dipendiamo emotivamente. L'idealizzazione normale è una componente essenziale
dell'amore maturo e la graduale deidealizzazione o svalutazione di coloro per i quali abbiamo avuto
attaccamenti infantili sembra essere una parte normale e importante del processo di separazione-
individuazione.
Ma in certe persone il bisogno di idealizzare sembra relativamente immodificato dall'infanzia. Il loro
comportamento mostra la sopravvivenza di sforzi arcaici e disperati di controbattere il terrore interno con la
convinzione che ci sia una figura di attaccamento onnipotente e che, attraverso la fusione con questo Altro
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meraviglioso, sia possibile salvarsi.

La nostalgia per la figura genitoriale onnipotente appare naturalmente nelle convinzioni religiose; in modo
più problematico si manifesta invece in altri fenomeni, come insistere che il proprio partner sia perfetto, che
il proprio guru sia infallibile, che la propria scuola sia la migliore. → quanto più si è o ci si sente dipendenti,
tanto maggiore è la tentazione a idealizzare.

Quando una persona vive la propria esistenza cercando di classificare ogni aspetto della condizione umana
in base al suo valore in confronto ad altre alternative, e sembra motivata da una ricerca della perfezione che
passa attraverso una fusione con oggetti idealizzati, si parla di personalità narcisistica.
Il bisogno di essere continuamente rassicurate dalla propria avvenenza, potere, fama e importanza per gli
altri (la perfezione) nasce proprio dalla dipendenza da queste difese, in quanto nelle persone organizzate
intorno a esse i problemi di autostima sono contaminati dall'idea che bisogna rendere il Sè perfetto,
piuttosto che accettarlo.

La svalutazione primitiva non è altro che l'inevitabile opposto del bisogno di idealizzare: quanto più un
oggetto è idealizzato, tanto più radicale è la svalutazione cui andrà incontro; quanto più grandi sono le
illusioni, tanto più pesante sarà la loro caduta.
Le personalità narcisistiche presentano delle difficoltà a livello terapeutico e personale legate all'eccessiva
idealizzazione → questo porta ad una forte forma di svalutazione. Le relazioni terapeutiche con pazienti
narcisistici sono soggette a improvvise rotture quando il paziente è deluso dal terapeuta.

La proiezione, l'introiezione e l'identificazione proiettiva. Nella proiezione e nell'introiezione si riscontra


una mancanza di confine psicologico tra Sè e il mondo.
La proiezione è il processo per cui qualcosa di interno viene erroneamente considerato come proveniente
dall'esterno. Nelle sue forme positive e mature, è la base dell'empatia → proiezione = spostare sentimenti
propri, o parti del Sè, su altri oggetti o persone.
= utilizzare la capacità di proiettare la nostra esperienza per capire il mondo soggettivo di qualcun altro.
Nelle sue forme sfavorevoli, la proiezione provoca pericolosi fraintendimenti e immensi danni
interpersonali. Quando gli aspetti proiettati distorcono gravemente l'oggetto su cui vengono proiettati, o
quando ciò che è proiettato consiste in parti ripudiate e altamente negative del Sé, insorgono varie
difficoltà.
→ quando una persona usa la proiezione come modalità principale per comprendere il mondo e affrontare
la vita, possiamo dire che ha un carattere paranoide.

L'introiezione è il processo per cui si considera proveniente dall'interno quando che in realtà è esterno.
Nelle sue forme benigne, equivale a un'identificazione primitiva con altre persone importanti = incorporare
pensieri, sentimenti e atteggiamenti altrui.
Nelle sue forme problematiche l'introiezione è, come la proiezione, un processo molto distruttivo: un
esempio riguarda l'identificazione con l'aggressore = in condizioni di paura o maltrattamento, le persone
tenteranno di padroneggiare lo spavento e la sofferenza assumendo le qualità del loro aggressore.
L'introiezione è implicata anche in alcune forme di depressione: spesso se perdiamo una delle persone di
cui abbiamo interiorizzato l'immagine, per una morte, una separazione o altro sentiamo che anche noi
siamo in qualche modo sminuiti, che una parte del nostro Sè è morta. Ma, se un individuo è incapace di
separarsi interiormente dalla persona amata di cui aveva introiettato l'immagine, e di conseguenza non è in
grado di fare investimenti emotivi su qualcun altro, si sentirà continuamente sminuito.
Allo stesso modo, bambini cresciuti in contesti familiari avversi preferiscono credere che c'è qualcosa di
sbagliato in loro piuttosto che ammettere l'orribile fatto che dipendono da figure di accudimento trascuranti
o abusanti.
→ chi ricorre regolarmente all'introiezione per ridurre l'ansia o l'angoscia, mantenendo legami psicologici
con oggetti non gratificanti, sarà considerato come una tipologia caratterologicamente depressiva.

Identificazione proiettiva: fusione di meccanismi proiettivi e introiettivi = il paziente proietta oggetti interni
e ottiene che la persone su cui sono proiettati si comporti come quegli oggetti.
(esempio paziente A e paziente B; Pag. 140-141).
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La scissione dell'Io. La scissione dell'Io deriva da un periodo preverbale, prima che il bambino sia in grado di
percepire che le figure di accudimento hanno tali qualità buone e cattive, e che queste qualità si associano a
esperienze buone e cattive con loro.
Tale meccanismo può essere molto efficace nelle sue funzioni difensive di riduzione dell'angoscia e
mantenimento dell'autostima. Naturalmente la scissione implica sempre la distorsione.
A livello clinico, la scissione è evidente quando un paziente esprime un atteggiamento non ambivalente e
considera del tutto irrilevante quello opposto (esempio una donna borderline che percepisce il proprio
terapeuta totalmente buono mentre il resto dei terapeuti vengono visti come stupidi e ostili). Messo di
fronte alle incoerenze delle proprie attribuzioni, il cliente che usa la scissione non riterrà degno di
considerazione il fatto che qualcuno che sembrava tanto buono sia diventato così cattivo.

La somatizzazione. Quando i bambini piccoli non vengono guidati dalle figure di accudimento a esprimere
in parole i propri sentimenti, tendono a esprimerli o in stati di esaurimento fisico (malattia) o attraverso
l'azione. Gli analisti hanno definito somatizzazione quel processo in cui gli stati emotivi vengono espressi
attraverso il corpo.
Le nostre prime reazioni agli stati di tensione generati dalla vita sono di tipo somatico (lotta o fuga,
arrossire, ecc), ma con il tempo e con la maturazione si impara a padroneggiare tale linguaggio fisico e
corporeo; se non si è ricevuto adeguato aiuto in questo processo di transizione, le risposte fisiche
automatiche possono restare l'unico linguaggio per esprimere gli stati di attivazione emotiva.
La somatizzazione sembra essere legata ad attaccamenti insicuri, esperienze infantili traumatiche, paure
infantili e un senso di Sè poco integrato.
Vari studi hanno mostrato che il disturbo di somatizzazione si presenta in relazione con i principali disturbi
di personalità = la somatizzazione è comune nelle patologie del carattere più gravi → personalità
somatizzanti = individui che hanno problemi in molteplici sistemi d'organo, per diversi anni e in varie
circostanze.

L'acting out (enactment difensivo). = mettere in atto qualcosa che non ha parole per essere espresso.
L'espressione acting out comparve per la prima volta nelle descrizioni psicoanalitiche di atti compiuti da
pazienti in cui il loro comportamento sembrava contenere sentimenti nei confronti dell'analista di cui il
paziente non era cosciente o che erano troppo angosciosi per prenderne consapevolezza.
In seguito tale termine venne usato in modo più generale per descrivere un comportamento indotto da
bisogni inconsci di padroneggiare l'ansia associata a sentimenti e desideri interiormente proibiti.
Con il termine enactment si indica la rappresentazione in azione di esperienze per le quali l'individuo non ha
mai avuto parole e che non possono essere formulate verbalmente.
 Acting out e enactment si riferiscono a ogni comportamento ritenuto espressione di atteggiamenti
transferali di cui il paziente non si sente ancora sicuro di poter parlare (o che non riesce ad
articolare sul piano emotivo) nell’ambito del trattamento.
Ciò che viene messo in atto può essere prevalentemente autodistruttivo o costruttivo, o entrambe, ma ciò
che lo rende propriamente acting out non è il fatto che sia utile o dannoso, bensì la natura inconscia o
dissociata dei sentimenti che inducono la persona all’azione, e il modo automatico e compulsivo in cui il
comportamento ha inizio.
Le personalità impulsive ricorrono all’acting out per fronteggiare i propri dilemmi psicologici (=quella che
può apparire un’impulsività spontanea e senza complicazioni è spesso un comportamento indotto da
motivazioni inconsce e complesse).
Mettono in atto acting out anche persone con organizzazione isterica, persone con dipendenze, persone
compulsive e psicopatiche.

La sessualizzazione (istintualizzazione). Si è visto come spesso l’attività e le fantasie sessuali vengano usate
difensivamente: per padroneggiare l’ansia, per recuperare l’autostima, per controbattere la vergogna o per
sottrarsi a una sensazione di morte interiore.
Le persone possono sessualizzare qualunque esperienza con l’intento inconscio di convertire il terrore o la
sofferenza, o qualsiasi altro vissuto soverchiante, in eccitazione (=istintualizzazione).
La facilità con cui chi si trova in una posizione di relativa debolezza converte l’invidia e la paura di
maltrattamento in uno scenario sessuale, nel quale la relativa mancanza di un potere ufficiale viene
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compensata da un potere erotico molto personale.
La sessualizzazione non è in se problematica o distruttiva; le fantasie, i modelli di reazione e le pratiche
sessuali di una persona sono probabilmente più individualmente peculiari di ogni altro aspetto della sua
vita.

La dissociazione estrema. Ciò che separa il dolore di un individuo dal trauma di un altro individuo è solo
una questione di grado di dissociazione, e che la dissociazione esiste lungo un continuum che va da forme
normali o minori a forme gravemente soverchianti e patologiche.
La dissociazione è una reazione normale a un trauma.
È possibile dissociare a qualunque età quando si vive un evento catastrofico intollerabile; coloro che da
bambini subiscono ripetutamente orribili abusi possono imparare a dissociare come reazione abituale allo
stress. E quando ciò accade, si può legittimamente affermare che l’adulto soffre di un disturbo dissociativo
cronico, prima definito in termini di personalità multipla, oggi come disturbo dissociativo di identità.
I vantaggi della dissociazione riguardano il fatto che ci si distacca totalmente dal dolore, dal terrore,
dall’orrore e dall’idea di una morte imminente. Lo svantaggio maggiore di tale difesa è la sua tendenza a
operare automaticamente in condizioni nelle quali la sopravvivenza non è realmente a rischio.

I processi difensivi secondari

La rimozione. = dimenticare o ignorare motivato. Se una disposizione interna o una circostanza esterna
sono sufficientemente disturbanti o sconcertanti è possibile consegnarle direttamente all'inconscio.
Questo processo è applicabile a un'esperienza nella sua globalità, all'affetto che vi è connesso o alle fantasie
e desideri che vi sono associati.
Non tutte le difficoltà nel prestare attenzione o nel ricordare sono frutto della rimozione.
(secondo Freud l'attuale “disturbo post traumatico da stress”, caratterizzato dal non ricordo di eventi
traumatici ma solo da flashback, era dovuto proprio al processo di rimozione; oggi invece sappiamo che
l'eliminazione degli eventi traumatici dalla memoria è dovuta al fatto che, durante tali episodi, la memoria
episodica viene resa silente dalla produzione di glucocorticoidi).
Secondo la teoria analitica successiva la rimozione era considerata lo strumento con cui il bambino gestisce
impulsi evolutivamente normali, ma irrealizzabili e spaventosi, come il desiderio edipico di distruggere uno
dei due genitori: lentamente impara a relegarli nell'inconscio.
= Nei normali processi evolutivi che permettono al bambino di allontanarsi dagli oggetti d'amore infantili e
cercare legami al di fuori della famiglia è possibile scorgere la natura adattiva del processo della rimozione.
La rimozione diventa problematica solo nei casi in cui: 1.fallisce nella sua funzione di allontanare
efficacemente dalla coscienza le idee disturbanti, in modo che la persona possa rivolgersi al compito di
adattarsi alla realtà; 2.elimina anche alcuni aspetti positivi della vita; 3.agisce a esclusione di altri modi più
efficaci di fronteggiare le problematiche.
Un ricordo eccessivo alla rimozione, unitamente ad altri processi difensivi, viene considerato il segno
distintivo di una personalità isterica → secondo Freud l'angoscia che si presentava così spesso nell'isteria era
provocata da una massiccia rimozione di pulsioni e affetti. In seguito però capovolse causa ed effetto
sostenendo che la rimozione fosse una conseguenza dell'angoscia.
Un elemento di rimozione si ritrova nell'azione di quasi tutte le difese di ordine superiore.

La regressione. = ricadere in comportamenti propri di uno stadio evolutivo precedente.


Lo sviluppo sociale ed emotivo non progredisce su una linea retta, ma esiste una fluttuazione nella crescita
personale.
Nella psicoterapia a lungo termine e nella psicoanalisi è facile osservare questa tendenza: il paziente che
finalmente riesce a raccogliere il coraggio per provare un nuovo modo di comportarsi, spesso tornerà, nella
sedute successive, alle vecchie abitudini di pensiero, sentimento e comportamento; nonostante però la
dimensione regressiva, bisogna tenere presente che la direzione globale del cambiamento è in avanti.
Perchè sia qualificabile come meccanismo di difesa il processo di regressione deve essere inconscio.
→ forme di regressione si riscontrano anche in pazienti ipocondriaci e con problemi di somatizzazione.

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L'isolamento dell'affetto. Un modo in cui le persone possono gestire l'ansia e altri stati mentali dolorosi
consiste nell'isolare il sentimento dalla conoscenza = l'aspetto affettivo di un'esperienza o di un'idea viene
separato dalla sua dimensione cognitiva.
Persone che dichiarano di non avere nessuna risposta emotiva rispetto a cose per le quali generalmente
tutti gli altri provano sentimenti intensi: tali persone a volte mostrano l'apprezzamento della difesa
dell'isolamento, e idealizzano l'idea di esprimersi in maniera puramente razionale.
Molti psicoanalisti contemporanei considerano l'isolamento come un particolare sottotipo di dissociazione.
Quando l'isolamento è la difesa primaria e il modello di vita riflette la sopravvalutazione del pensiero e la
sottovalutazione del sentimento, la struttura di carattere è di tipo ossessivo.

L'intellettualizzazione. La persona che utilizza l'isolamento riferisce in genere di non provare sentimenti,
mentre quella che intellettualizza parla dei sentimenti in una maniera che l'ascoltatore percepisce come
anaffettiva.
Sesso, umorismo, espressione artistica e altre forme adulte di gioco gratificante rischiano di essere
eliminate nella persona che ha imparato a dipendere dall'intellettualizzazione per affrontare la vita.

La razionalizzazione. Entra in gioco sia quando non riusciamo a ottenere qualcosa che vogliamo e
concludiamo che non era poi così desiderabile sia quando accade qualcosa di spiacevole e decidiamo che, in
fin dei conti, non era poi così grave.
Quanto più una persona è intelligente e creativa, tanto più è probabile che sia abile nelle razionalizzazioni.
Tale difesa agisce in modo benigno se permette di svolgere un'azione nel migliore dei modi, ma è
svantaggiosa nel momento in cui tutto viene razionalizzato.

La moralizzazione. Quando una persona razionalizza cerca inconsciamente delle basi cognitivamente
accettabili per la direzione che ha preso, quando moralizza invece cerca di pensare che sia doveroso seguire
quella linea = la razionalizzazione traduce in un linguaggio ragionevole qualcosa che la persona già desidera,
la moralizzazione lo pone nella sfera di ciò che è giustificato o moralmente obbligatorio.
La moralizzazione è la difesa prevalente nell'organizzazione del carattere che è stata definita masochismo
morale.

La compartimentalizzazione. La sua funzione è permettere a due condizioni in conflitto di esistere senza


creare confusione, sensi di colpa, vergogna o ansia sul piano cosciente. Mentre l'isolamento implica una
spaccatura tra livello cognitivo ed emotivo, nella compartimentalizzazione la spaccatura è tra dimensioni
cognitive incompatibili.
Nella compartimentalizzazione l'individuo abbraccia due o più idee, atteggiamenti o comportamenti che
sono essenzialmente in conflitto, senza coglierne la contraddizione; un osservatore non orientato
psicologicamente non cogli la distinzione tra questo meccanismo di difesa e l'ipocrisia.
All'estremità più patologica di tale forme di difesa troviamo individui particolarmente umanitari nella sfera
pubblica e che invece, nel privato, ammettono la violenza sui figli.

L'annullamento. = è lo sviluppo naturale del controllo onnipotente = consiste nello sforzo inconscio di
controbilanciare un affetto, solitamente il senso di colpa o la vergogna, con un atteggiamento o
comportamento che magicamente lo cancelli.
Quando l'annullamento è la difesa principale nel repertorio dell'individuo, e quando atti che hanno il
significato inconscio di espiazione di crimini passati compromettono il principale sostegno dell'autostima,
riteniamo che si tratti di una personalità compulsiva.

Volgersi contro il Sè. = spostare un affetto o un atteggiamento negativo da un oggetto esterno verso il Sè.
Per quanto l'autocritica sia spiacevole, è emotivamente preferibile al riconoscimento di una minaccia reale
per la propria sopravvivenza in condizioni in cui non si ha il potere di cambiare le cose (figlio che nasce in un
contesto familiare difficile).
Molti di noi conservano la tendenza a rivolgere contro di sé atteggiamenti, affetti e percezioni negative,
illudendosi che il processo ci conferisca un maggiore controllo delle situazioni disturbanti.
L'uso automatico e compulsivo di questa difesa è comune nelle personalità depressive e in alcuni tipi di
masochismo caratterologico.
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Lo spostamento. = una pulsione, emozione, preoccupazione o comportamento venga diretto dal suo
oggetto iniziale o naturale verso un altro, poiché la direzione originaria per qualche ragione provoca ansia.
Quando una persona sposta la propria ansia da qualche area a un oggetto specifico che simbolizza il
fenomeno temuto diciamo che ha una fobia.
Se una persona ha tutta una serie di preoccupazioni e paure spostare su svariati aspetti della propria vita,
viene considerata un carattere fobico.

La formazione reattiva. = conversione di un affetto negativo in positivo o viceversa.


La sua funzione è negare l'ambivalenza, in quanto nessuna disposizione è assolutamente pura (secondo
Freud possiamo odiare la persona che amiamo).
Una situazione in cui questo meccanismo di difesa è positivo riguarda, ad esempio, la sorellina che assiste
alla nascita del secondo figlio (amore e odio).
La formazione reattiva è la difesa privilegiata in quelle psicopatologie in cui predominano sentimenti ostili e
impulsi aggressivi di cui la persona teme di perdere il controllo, ad esempio le persone paranoiche spesso
sentono solo odio e sospetto quando invece l'osservatore esterno ritiene che stiano provando anche
desiderio; le persone ossessive e compulsive credono di avere solo rispetto per l'autorità quando invece
può esserci anche risentimento.

Il capovolgimento. Un'altra modalità per fronteggiare sentimenti che presentano una minaccia psicologia
per il Sé consiste nel creare uno scenario nel quale la propria posizione passa da soggetto a oggetto e
viceversa.
Ad esempio, se si percepisce che il desiderio di ricevere le attenzioni di qualcun altro è vergognoso o
pericoloso, è possibile soddisfare in modo vicario i propri bisogni di dipendenza occupandosi di un'altra
persona e identificandosi inconsciamente con la sua gratificazione.
Un vantaggio è che rende possibile spostare le dimensioni del potere all'interno di un'interazione, in modo
da trovarsi nel ruolo di chi prende l'iniziativa invece che in quello di chi risponde (bambini che giocano con
bambole o pupazzi).
La difesa opera costruttivamente quando lo scenario che viene capovolto è favorevole, opera
distruttivamente quando la situazione capovolta è invece intrinsecamente negativa.

L'identificazione. = operazione deliberata, a un livello maturo, anche se ancora parzialmente inconscia, di


diventare come un'altra persona.
(complesso edipico: il bambino si rende conto di non poter uccidere il padre quindi inizia a somigliare il più
possibile a lui pur di conquistare la madre: secondo Freud questo è il prototipo dell'”identificazione con
l'aggressore”).
L'identificazione è un processo neutrale, può avere effetti positivi o negativi a seconda di chi sia l'oggetto
dell'identificazione. Il processo psicoterapeutico consiste nel rivedere vecchie identificazioni problematiche
che, insorte automaticamente, rappresentarono in un certo periodo la soluzione di un conflitto infantile, ma
ora provocano un conflitto nell'adulto.
Alcune persone sembrano identificarsi in modo più facile e automatico di altre; coloro che di base soffrono
di una confusione dell'identità sono ovviamente a rischio.

La sublimazione. Secondo Freud con tale termine si intende il fatto che gli impulsi istintuali vengono
influenzati dalle circostanze particolari dell'infanzia individuale; alcune pulsioni o conflitti assumono una
rilevanza speciale e possono essere creativamente diretti in attività utili.
Questa difesa era considerata lo strumento più sano per risolvere le situazioni psicologiche per due ragioni;
favorisce un comportamento positivo per la specie e scarica il relativo impulso invece di sprecare una
notevole quantità di energia emotiva trasformandolo in qualcosa di diverso o reagendo a esso con una forza
opposta.
Oggi si parla di sublimazione nel momento in cui ci si riferisce a qualcuno che scopre un modo utile e
creativo di esprimere conflitti e impulsi problematici.

L'umorismo. La compulsione a essere divertenti può essere estremamente difensiva: il bisogno di essere
costantemente divertenti e evitare di sentire l'inevitabile dolore della vita è una caratteristica della
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personalità ipomaniacale, un tipo di personalità che si riscontra più frequentemente a un livello di gravità
borderline.
Gran parte dell'umorismo è difensivo in un'accezione positiva poiché svolge funzioni che sono benvenute
sul piano psicologico, permettendoci di vedere il ridicolo negli oggetti che ci fanno paura, trasformare il
dolore in piacere.

TIPI DI ORGANIZZAZIONE DEL CARATTERE

Le personalità narcisistiche.
Il termine “narcisista” si riferisce a quelle personalità organizzate intorno al mantenimento dell'autostima
tramite le conferme proveniente dall'esterno.
Preoccupate di come appaiono agli altri, le persone organizzate narcisisticamente possono sentirsi
intimamente disoneste e incapaci di amare.
Ciò che le persone narcisiste, in tutte le loro manifestazioni, hanno in comune è un senso interiore di
inadeguatezza, vergogna, debolezza e inferiorità, o il terrore di percepire questi vissuti.

Pulsione, affettività e temperamento nel narcisismo. Alcune ipotesi circa l'eziologia del narcisismo
riguardano la possibilità che le persone a rischio di sviluppare tale disturbo del carattere siano
costituzionalmente più sensibili di altre ai messaggi emotivi non verbalizzati: il narcisismo è stato associato
al tipo di bambino che sembra percepire in modo quasi soprannaturale gli affetti, gli atteggiamenti e le
aspettative non dichiarate degli altri.
Kernberg ha ipotizzato, nei pazienti narcisisti, la presenza di una forte pulsione aggressiva innata o di una
mancanza di tolleranza all'ansia suscitata dagli impulsi aggressivi di natura costituzionale.
Secondo la letteratura, sentimenti di vergogna e timori di essere svergognati pervadono spesso l'esperienza
soggettiva dei narcisisti.
Propensione della persona narcisista all'invidia: se un individuo è interiormente convinto di avere qualche
mancanza e di essere continuamente a rischio di venir scoperto nelle sue debolezze, sarà invidioso di coloro
che appaiono soddisfatti, quindi potrà disapprovare il comportamento dell'altro, disprezzandolo o
criticandolo.

Processi difensivi e processi adattivi nel narcisismo. Le persone strutturate narcisisticamente possono
utilizzare un'ampia gamma di difese, ma l'idealizzazione e la svalutazione sono quelle da cui dipendono in
modo più fondamentale (sono complementari).
Il mondo interiore del narcisista è caratterizzato da un senso di ingigantimento e superiorità: la grandiosità
può essere percepita all'interno del sé oppure può essere proiettata; i narcisisti mettono in atto un continuo
processo di classificazione per affrontare qualsiasi questione si presenti loro (“chi è il medico migliore?”...).
Un'analoga posizione difensiva in cui sono intrappolate le persone con carattere narcisistico riguarda il
perfezionismo: perseguono ideali irrealistici e si convincono di averli raggiunti (esito grandioso) oppure
rispondono al fallimento avvertendo dentro di sé un grave difetto e non accettando la propria umana
fallibilità (esito depressivo).
La richiesta di perfezione di esprime in un atteggiamento cronicamente critico verso di sé o verso gli altri.
Risolvono i loro problemi di autostima considerando perfetto qualcun altro, o conservando un modello
idealizzato per poi distruggerlo non appena compaia un'imperfezione; le soluzioni di natura perfezionista ai
dilemmi narcisistici sono necessariamente destinate al fallimenti: si creano ideali esagerati per compensare
quei difetti nel senso di sé che sono percepiti con tale disprezzo da credere che solo la perfezione possa
ripararli.

I modelli relazionali nel narcisismo. Gli psicologi del Sè hanno coniato il termine “oggetto-sè” intendendo
quelle persone della nostra vita che alimentano la nostra autostima attraverso la loro conferma,
ammirazione e approvazione; tutti abbiamo oggetti-sè e ne abbiamo bisogno, tuttavia è necessario che gli
altri siano qualcosa in più di semplici oggetti-sè.
Le persone narcisiste vedono gli altri quasi esclusivamente come oggetti-sè, e questo porto ad un arresto
dello sviluppo della capacità di amare: il bisogno degli altri è profondo ma l'amore per loro è superficiale.
Alcuni autori ritengono che sia possibile che i pazienti narcisistici abbiamo avuto un'importanza centrale per
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i genitori o altre figure di accudimento non per quel che erano veramente ma per la funzione che
svolgevano; questo porta allo sviluppo del “falso Sè” e cioè il mostrare agli altri unicamente quegli aspetti di
sé che vengono ritenuti accettabili.
Un altro aspetto caratteristico dell'educazione di persone che diventano narcisiste è un'atmosfera di
continua valutazione, anche nel caso in cui il verdetto sia sempre positivo: in questo caso il bambino sentirà
che c'è qualcosa di falso, si crea in lui il timore di essere un impostore che non merita tanta adulazione.

Il Sè narcisistico. Le persone narcisiste possiedono degli stati dell'Io opposti, che vanno da una concezione
del sé grandioso ad altre contrapposte caratterizzate da inferiorità e svuotamento.
Fragilità psicologica: temono di perdere l'autostima o di essere messe da parte.
Una possibile conseguenza del perfezionismo è il tentativo di evitare ogni sentimento e azione che esprima
la consapevolezza di una fallibilità personale (negano il rimorso perchè implicherebbe mettere alla luce un
proprio difetto → no scuse no ringraziamenti).

Transfert e controtransfert con pazienti narcisisti. La prima cosa che il clinico nota è la mancanza di interesse
del paziente narcisista.
Tali pazienti hanno forti reazioni nei confronti del terapeuta: possono svalutarlo o idealizzarlo, ma in
entrambi i casi viene meno la natura umana del terapeuta in quanto tale.
→ particolare transfert dei pazienti narcisisti sul terapeuta: invece di proiettare sul terapeuta un preciso
oggetti interno (esempio la figura di un genitore), esternalizzano un aspetto del proprio Sè (proietta la parte
grandiosa o svalutata del Sè).

Implicazioni terapeutiche della diagnosi di narcisismo. Kohut: accogliere benevolmente l'idealizzazione o la


svalutazione e di esprimere una costante empatia; Kernberg: mettere a confronto il paziente, in modo
cauto, con la sua grandiosità e interpretare le difese mobilitate contro l'invidia.
I terapeuti devono ampliare la consapevolezza e l'onestà del paziente narcisista circa la natura del suo
comportamento, senza suscitare in lui sentimenti di vergogna.

La personalità depressiva.
I sintomi che caratterizzano questo disturbo sono la tristezza invincibile, la mancanza di energie, l'anedonia
(incapacità di godere dei normali piaceri), e i problemi vegetativi (problemi di alimentazione, sonno e
autoregolazione).
Freud distingue lutto normale da melanconia: nel lutto si percepisce il mondo esterno impoverito in qualche
aspetto importante, mentre nelle condizioni depressive ciò che si sente perduto o danneggiato è una parte
del Sè.

Pulsione, affettività e temperamento nella depressione. Freud ha suggerito che un'importante precursore
delle inclinazioni depressive sia l'esperienza di perdita prematura.
Si era notato che le persone che si trovano in stati depressivi distolgono dagli altri e dirigono verso se stesse
gran parte dei propri affetti negativi. → il modello dell'aggressività verso l'interno è coerente con
l'osservazione che le persone depresse solo raramente provano una rabbia spontanea o non conflittuale, si
sentono spesso colpevoli.
Altro affetto importante per le persone depresse è la tristezza, papabile e visibile.

Processi difensivi e processi adattivi nella depressione. La difesa più potente utilizzata dai depressi
introiettivi è l'introiezione.
Lavorando con pazienti depressi introiettivi è praticamente possibile sentir parlare l'oggetto interiorizzato
(“deve essere perchè sono egoista”, “lo dice mia madre”) → il tipo di introiezione che caratterizza i pazienti
depressivi è l'interiorizzazione inconscia delle qualità più odiose di un vecchio oggetto d'amore; i suoi
attributi positivi vengono ricordati con tenerezza, mentre quelli negativi percepiti come parte del Sè.
Perchè il paziente senta un oggetto interno ostile non è necessario che la persona interiorizzata lo sia stata
realmente.
→ i bambini proiettano le proprie reazioni sugli oggetti d'amore che li abbandonano, immaginando che
siano arrabbiati, ma dato che tale immagine è troppo dolorosa viene allontanata dalla coscienza e vissuta
come parte cattiva del Sè → questo crea il sentimento di essere cattivo e di doversi impegnare per evitare
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che le persone lo abbandonino a causa della sua malvagità.
Un meccanismo di difesa osservato nei depressi introiettivi è il volgersi contro il Sé: se le persone da cui il
bambino dipende solo inaffidabili o male intenzionate, può scegliere se accettare quella realtà
(generalizzando e ritenendo che la vita è vuota, priva di significato e questo genera un senso di
incompletezza, vuoto, disperazione esistenziale), o negarla (può convincersi che la fonte dell'infelicità è
dentro di lui). → l'individuo depresso introiettivo si sente cattivo ma potente nella sua cattiveria, mentre
quello anaclitico si sente vittimizzato, privo di potere e passivo.
L'idealizzazione è l'altra importante difesa dei pazienti depressi. La loro autostima è stata danneggiata e
l'ammirazione che provano per gli altri aumenta.

I modelli relazionali nella psicologia depressiva. In primo luogo c'è il ruolo di una perdita precoce e/o
ripetuta.
Secondo Furman il processo di separazione-individuazione (quando il bambino si allontana naturalmente
dalla madre per perseguire la propria autonomia) si risolve in dinamiche depressive solo quando la
sofferenza della madre per la crescita del figlio è talmente forte da indurla ad aggrapparsi a lui e farlo
sentire in colpa oppure ad allontanarlo controfobicamente = sentono come cattiva una parte del Sè.
Tra le altre circostanze che favoriscono lo sviluppo di una personalità depressiva c'è l'incuria dei membri
della famiglia per i bisogni dei figli.
Altra circostanza è un'atmosfera familiare in cui si scoraggia ogni tipo di sofferenza.
→ la combinazione di abbandono, emotivo o concreto, e atteggiamento critico da parte dei genitori finirà
con ogni probabilità per produrre dinamiche depressive.
Infine un fattore molto potente nel provocare dinamiche depressive è l'intensa depressione di un genitori,
specialmente nei primi anni di vita di un bambino.

Il sé depressivo. Le persone con psicologia depressiva sono convinte di essere fondamentalmente cattive.
Hanno tratto dalle loro esperienze di perdite non elaborate la convinzione che sia stato qualcosa in loro ad
allontanare l'oggetto; hanno trasformato la sensazione di essere rifiutate nella convinzione di meritare quel
rifiuto.
Forte senso di colpa, che colmano attraverso l'aiuto degli altri.

I pazienti con carattere depressivo si attaccano subito al terapeuta, ritengono benevoli i suoi intenti e si
impegnano attivamente per essere buoni pazienti.
I pazienti depressivi introiettivi proiettano sul terapeuta le proprie critiche interne.

Transfert e controtransfert. Le difficoltà transferali e controtransferali non tendono ad emergere finchè il


terapeuta non inizia a mettere il paziente a confronto con la necessità di realizzare cambiamenti nella
propria vita.
Col progredire della terapia, i pazienti depressivi introiettivi proiettano meno le proprie disposizioni ostili, e
le sperimentano di più direttamente in forma di rabbia e critica verso il terapeuta → in questa fase i pazienti
stanno portando all'esterno quelle lamentele dirette verso se stessi.
Il controtransfert va da un affetto benevolo a fantasie onnipotenti di salvezza.

La condizione più importante della terapia è un'atmosfera di accettazione, rispetto e impegno alla
comprensione.
Il terapeuta deve porre attenzione a non esprimere giudizi ed essere emotivamente costante.
Una terapia efficace può richiedere un lungo periodo di costruzione di un'alleanza sicura.
Con un paziente con struttura depressiva, il terapeuta dovrà passare molto tempo a dimostrare la propria
accettazione.
È imperativo esplorare e interpretare le reazioni alla separazione, perfino alla separazione dovuta a una
breve silenzio del terapeuta.
Un'accettazione fondamentale non giudicante è una condizione necessaria ma non sufficiente, ciò di cui
questi pazienti hanno bisogno non è una cura continua, bensì l'esperienza che il terapeuta ritorna dopo una
separazione.

Personalità ipomaniacale (ciclotimiche). Hanno un'organizzazione essenzialmente depressiva, neutralizzata


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dalla difesa del diniego.
L'individuo ipomaniacale è euforico, energico, autoaffermativo, sagace, grandioso.
Le difese fondamentali sono il diniego (tendenza ad ignorare eventi che metterebbero a disagio) e l'acting
out (assuma la forma della fuga: si allontanano da situazioni che potrebbero minacciarle).
Nella loro storia si rintraccia un modello di ripetute separazioni traumatiche senza che il bambino abbia
avuto alcuna opportunità di elaborarle emotivamente.
La tendenza controtransferale nei terapeuti che lavorano con persone ipomaniacali è la sottovalutazione del
grado di sofferenza.
La preoccupazione primaria con un paziente ipomaniacale è impedirne la fuga.

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