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“...

SI
TRATTA ORA DI MUTARLO”: GRAMSCI E L’EREDITÀ DELLA “FILOSOFIA
DELLA PRAXIS”

Fabio Frosini

1. Il “chi” e il “che cosa” del proletariato


«I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di mutarlo»
(«Los filósofos sólo han interpretado de diversos modos el mundo; se trata ahora de
cambiarlo»)1. Il testo citato è quello della undicesima tesi su Feuerbach, la più
controversa, la più ambigua e oscura, nella traduzione che Gramsci ne fa in carcere. La
traduzione è condotta da Gramsci sul testo pubblicato da Engels nel 1888 in appendice
al suo Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie, con
il titolo, assente nel manoscritto, di Thesen über Feuerbach2. Nel manoscritto,
pubblicato come testo critico per la prima volta nel 1932, il titolo è invece, come è noto,
«1. ad Feuerbach»3. Questa non è la sola modifica apportata da Engels al testo, che fu
da lui pubblicato con una serie di cambiamenti che dovevano renderlo più
comprensibile, insomma chiarirlo, ma che in realtà lo hanno interpretato. Proprio di una
interpretazione si tratta, nel caso della tesi 11, che nell’originale così recita: «Die
Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert, es kömmt drauf an, sie zu
verändern», e cioè: «Los filósofos no han hecho más que interpretar de diversos modos
el mundo, se trataría de transformarlo»; mentre nella riscrittura di Engels abbiamo:
«Die Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert; es kommt aber darauf
an, sie zu verändern», e cioè: «Los filósofos no han hecho más que interpretar de
diversos modos el mundo; pero de lo que se trata es de transformarlo»4.
L’interpretazione di Engels, esplicita un punto che in Marx, se c’è, è solamente
implicito, vale a dire l’opposizione tra «interpretare» e «trasformare». Marx non usa il
«pero», introdotto da Engels. Nel manoscritto, tra i filosofi che “interpretano” il mondo
e il nuovo soggetto, non nominato, della sua “trasformazione”, c’è una relazione di
cambiamento, non di diretta opposizione. Quel soggetto, Engels l’aveva, proprio nel
Ludwig Feuerbach, perfettamente identificato: era il «proletariato tedesco» come «erede
della filosofia classica tedesca»5. E pertanto, per lui il passaggio dall’interpretazione alla

1
A. Gramsci, Quaderni del carcere, Vol. 1: Quaderni di traduzioni (1929-1932), a cura di G.
Cospito e G. Francioni, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2007, p. 745.
2
Il testo tedesco è letto da Gramsci in un’antologia: K. Marx, Lohnarbeit und Kapital. Zur
Judenfrage und andere Schriften aus der Frühzeit, ausgewählt und eingeleitet von E. Drahn, Leipzig,
Phil. Reclam jun., [s.d. ma 1919].
3
Su tutte queste vicende cfr. G. Labica, Karl Marx – Les «Thèses sur Feuerbach», Paris, P.U.F.,
1987; e più di recente P. Macherey, Marx 1845. Les «thèses» sur Feuerbach, Paris, Éditions Amsterdam,
2008.
4
Per il testo tedesco cfr. K. Marx, F. Engels, Werke, Vol. 3, Berlin, Dietz, 1958, p. 7 (testo
critico) e p. 535 (ed. Engels). Per la traduzione spagnola cfr. C. Marx, Obras escogidas, Edición del
Instituto Marx-Engels-Lenin, de Moscú, bajo la dirección de V. Adoratsky, trad. de W. Roces, Barcelona
1938, Ediciones Europa-América, p. 445 (testo critico) e F. Engels, L. Feuerbach y el fin de la filosofía
clásica alemana, trad. W. Roces, Barcelona, Ediciones Europa-América, 1936, p. 65 (ed. Engels).
Bisogna dire che nella traduzione di Wenceslao Roces la differenza tra le due versioni va del tutto
perduta.
5
Cfr. F. Engels, Ludwig Feuerbach und der Ausgang der deutschen klassischen Philosophie, in
K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 21, Berlin, Dietz, 1962, p. 307.
2

trasformazione corrispondeva al passaggio storico dalla filosofia al proletariato


organizzato in partito politico, cioè dalla teoria alla prassi politica. In Marx, invece,
questo passaggio era indeterminato: lo era nel 1848, anno di redazione del Manifesto,
ma di certo, infinitamente più indeterminato era nel 1845, quando, oltre alle Tesi, Marx
scrive insieme a Engels L’ideologia tedesca, in cui il «comunismo» è definito appunto
come «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente»6: chi è il soggetto di
questo movimento? È il proletariato, certo; ma – chi è il proletariato?
Che cosa è il proletariato, Marx l’aveva messo a fuoco già nel 1843, nella
Introduzione a Per la critica della filosofia hegeliana del diritto, e il concetto era stato
ripreso anche nella Ideologia tedesca: si tratta di una classe che, in quanto esclusa dalla
società in modo assoluto, può anche soltanto “esistere” solo rivoluzionando tutti i
rapporti. Non c’è dubbio che questa di Marx sia una straordinaria invenzione:
identificando il proletariato come nuovo protagonista storico (o della “storia”), Marx lo
istituisce (nel senso classico dello instituere, per cui si parla di institutio principis a
proposito di quei testi che intendono allo stesso tempo educare un principe e definire le
qualità del principe) e, istituendolo, colloca dentro la società borghese/civile7 un «luogo
vuoto» che per definizione è e rimane, nell’ambito dell’ordine esistente, non occupabile
da alcuno degli “attori” già presenti e riconosciuti in essa8.
Il “chi” del proletariato appare in questa luce come un compito che non potrà
mai considerarsi – finché ci sarà una società borghese/civile – definito una volta per
tutte: il “proletariato” è una categoria politica e non sociologica; esso è definito dal fatto
di occupare una posizione (la posizione dell’impossibile, si potrebbe dire con
Althusser), non da una serie di caratteristiche sociali. Ogni tentativo di identificarlo con
una particolare figura sociale – come nel caso di Engels – non può che avere effetti di
impoverimento rispetto all’indeterminazione strutturale nella quale Marx l’aveva
lasciato: indeterminazione che è, a ben vedere, la critica di ogni soggettivismo politico
come di ogni teleologia storica.
Critica del soggettivismo politico, perché – come appare chiaramente leggendo
il Manifesto del partito comunista – il comunismo come «movimento reale» non può
mai ridursi a un “soggetto” che lo impersoni per intero. Al contrario, questo “soggetto”
– che nel Manifesto sono appunto i “comunisti” – è tale, cioè è protagonista del
“movimento” solamente se e in quanto riconosce il fatto che un soggetto unico il
movimento del comunismo – cioè in definitiva la storia in quanto storia di lotte di classi
– non potrà averlo mai. I comunisti sono perciò, in modo paradossale, un partito che
non è un partito, cioè una “parte” che però non agisce come parte, né dal punto di vista
del conflitto tra gli interessi del proletariato e quelli delle altre “parti” della società, né
in quanto “parte” in relazione all’insieme delle classi dominate. «I comunisti non sono

6
Cfr. K. Marx, F. Engels, Werke, Vol. 3, cit., p. 35.
7
Come è noto, l’espressione utilizzata da Marx, e prima di lui da Hegel, è «bürgerliche
Gesellschaft», che Hegel, come Marx ricorda nella Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia
politica, aveva ripreso dagli autori inglesi e francesi del XVIII secolo (K. Marx, Vorwort a Zur Kritik der
politischen Ökonomie, in K. Marx, F. Engels, Werke, Vol. 13, Berlin, Dietz, 1969, p. 8). Questa
espressione traduce in tedesco l’inglese «civil society», e quindi significa, in modo irriducibile, sia il
terreno della società come distinta dallo Stato, sia – data la particolarità della lingua tedesca (che non
distingue tra burgués y ciudadano, entrambi espressi dal termine Bürger) – una particolare
organizzazione della società.
8
Per questa tesi cfr. E. Kouvélakis, Philosophie et révolution de Kant à Marx, Paris, PUF, 2003,
pp. 404-409.
3

un partito particolare di fronte agli altri partiti della classe operaia»9; essi invece «sono
in pratica la parte più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, quella che sempre spinge
in avanti»10 la lotta. La figura del “proletariato” nasce, si può dire, dall’incontro tra le
diverse e sempre specifiche “classi operaie” e i “comunisti”; esso nasce nel momento in
cui l’oppressione si traduce in un’azione politica il cui soggetto è assegnato solamente
dal tipo di azione svolta, non da caratteristiche pre-esistenti. Ed è anche la critica di ogni
teleologia storica, perché se non esiste un soggetto storico definito, non esiste neanche
una “missione” storica a esso assegnata per definizione, come invece afferma Engels
nell’Evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza e, appunto, nel Ludwig
Feuerbach.
Facciamo ritorno all’undicesima tesi. Come si sarà capito, nella leggera modifica
introdotta da Engels nel testo si può riconoscere la traccia della tendenza a fare del
proletariato una riconoscibile figura sociale, del comunismo come «movimento reale»
una determinata politica di partito, della storia un’evoluzione necessaria. L’opposizione
tra “interpretare” e “trasformare”, che è alla base di questi slittamenti, proviene a sua
volta da una relazione profonda, che struttura tutta l’interpretazione engelsiana della tesi
11: quella tra l’identificazione del soggetto della storia e il passaggio dalla filosofia alla
politica. Questa relazione presuppone una precisa filosofia della storia, secondo la quale
la “filosofia”, in quanto tale, non esiste più, è diventata obsoleta. Della filosofia, come
Engels scrive nell’Antidühring, rimane solamente la «scienza positiva della natura e
della storia»11.
C’è insomma, per Engels, una relazione tra la politica (il “trasformare”) e la
scienza, e tra la scienza e il proletariato tedesco, e infine tra questo e, di nuovo, il
trasformare. Questa triplice relazione istituisce una riflessione reciproca tra il
proletariato come soggetto reale, a cui la scienza si rivolge per “illuminarlo”, e il
proletariato come soggetto storico, “chiamato” (nel senso del Beruf, la vocazione
luterana) a liberare l’umanità intera12. L’uno si riflette nell’altro, grazie alla funzione di
cerniera svolta dalla “scienza”, dalla «espressione teorica del movimento proletario, il
socialismo scientifico»13. La scienza della storia funziona perciò da garanzia del fatto
che questo proletariato, che ho di fronte a me, sarà in grado di incorporare in sé il
Proletariato che ha ricevuto il Beruf di liberare l’umanità.

2. Passato e presente – e la filosofia


Se riprendiamo in mano la traduzione di Gramsci della tesi 11, non può che sorprendere
l’infedeltà al testo di Marx-(Engels). Gramsci infatti – che non conosceva il testo critico
– non solamente elimina l’avversativa che oppone l’interpretare al trasformare, ma
aggiunge un «ahora» («se trata ahora de cambiarlo») che spinge ancora più sullo sfondo
quella opposizione. «Ahora» indica una specificazione temporale, che in definitiva si
ripete in ogni momento presente: ciò vuole dire che il passaggio dall’interpretazione alla
trasformazione occorre ripeterlo ogni volta, che esso non è accaduto una volta per tutte.
Tale passaggio non è perciò garantito dal possesso di uno strumento scientifico – il
9
Marx, Engels, Manifest der kommunistischen Partei, in K. Marx, F. Engels, Werke, Vol. 4,
Berlin, Dietz, 1969, p. 474.
10
Ibidem.
11
F. Engels, Herrn Eugen Dührings Umwälzung der Wissenschaft (Antidühring), in K. Marx, F.
Engels, Werke, Vol. 20, Berlin, Dietz, 1968, p. 24.
12
Cfr. F. Engels, Die Entwicklung des Sozialismus von der Utopie zur Wissenschaft, in K. Marx,
F. Engels, Werke, Vol. 19, Berlin, Dietz, 1969, p. 228.
13
Ibidem.
4

materialismo storico. Ciò vuole dire che non esiste una scienza che faccia da garante
della corrispondenza tra classe operaia e proletariato, in modo “oggettivo”. Ma se il
passaggio dall’interpretazione alla trasformazione non è condizionato dalla conquista di
una teoria scientifica, allora esso stesso sarà di natura pratica, politica.
All’apparenza abbiamo un paradosso: da una parte la distinzione del presente dal
passato è un fatto politico, dall’altra la filosofia (esponente del “passato”,
dell’interpretazione) rimane un elemento vitale del tempo presente. Questo paradosso
non è però niente altro che l’espressione della necessità – da Gramsci pienamente
avvertita – di eliminare l’opposizione tra teoria e pratica, tra filosofia e politica, non
solamente in linea di principio, ma concretamente, nella definizione dello statuto tanto
della filosofia del passato, quanto dello stesso marxismo. E questo passa anzitutto per la
negazione del carattere “scientifico” del marxismo: il marxismo non è una scienza della
storia, perché il suo punto di vista non è stabilito una volta per tutte. Questo punto di
vista va ogni volta ridefinito in base alle concrete situazioni, ai rapporti di forze.
L’unico elemento di universalità, o se si vuole di invarianza, è il criterio con il quale
questa ridefinizione va fatta, cioè il punto di vista del proletariato come dinamica (non
soggetto) di universalizzazione dei processi di emancipazione all’interno dei rapporti
sociali dati.
“Forzando” la traduzione della tesi 11, Gramsci finisce per ritrovare la versione
originaria della stessa, la ricchezza dell’idea espressa da Marx. Questo ritrovamento non
è del resto casuale. Nella definizione della filosofia della praxis le Tesi su Feuerbach
sono collegate da Gramsci alla Miseria della filosofia («desde el punto de vista teórico,
la Miseria de la filosofía puede ser considerada en parte como la aplicación y el
desarrollo de las Tesis sobre Feuerbach»14), ma questo vuole anche dire imboccare una
strada di interpretazione del marxismo, della sua natura e del suo statuto, che si oppone
non solamente a tutte le interpretazioni dominanti, a cominciare da Engels, ma in parte
anche a quelle date dallo stesso Marx al proprio pensiero.
Non è qui possibile seguire nei dettagli questo percorso15, ma sarà almeno
necessario nominare le sue principali conseguenze. La prima e principale è, come si è
detto, la ridefinizione del concetto di filosofia e di passaggio dalla filosofia alla politica.
In modo perfettamente coerente con la sua traduzione della tesi 11, Gramsci nei
Quaderni del carcere scrive:
La tesi XI [...] non può essere interpretata come un gesto di ripudio di ogni sorta di filosofia, ma
solo di fastidio per i filosofi e il loro psittacismo e l’energica affermazione di una unità tra teoria e pratica.
Questa interpretazione delle Glosse al Feuerbach come rivendicazione di unità tra teoria e pratica, e
quindi come identificazione della filosofia con ciò che il Croce chiama ora religione (concezione del
mondo con una norma di condotta conforme) – ciò che poi non è che l’affermazione della storicità della
filosofia fatta nei termini di un’immanenza assoluta, di una «terrestrità assoluta» – si può ancora
giustificare con la famosa proposizione che «il movimento operaio tedesco è l’erede della filosofia
classica tedesca», la quale non significa già, come scrive il Croce: «erede che non continuerebbe già
l’opera del predecessore, ma ne imprenderebbe un’altra, di natura diversa e contraria», ma
significherebbe proprio che l’«erede» continua il predecessore, ma lo continua «praticamente» poiché ha
dedotto una volontà attiva, trasformatrice del mondo, dalla mera contemplazione e in questa attività
pratica è contenuta anche la «conoscenza» che solo anzi nell’attività pratica è «reale conoscenza» e non
«scolasticismo»16.

14
Quaderno 4, § 38 (A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a
cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 462).
15
Cfr. F. Frosini, Da Gramsci a Marx. Ideologia, verità e politica, Roma, DeriveApprodi, 2009.
16
Quaderno 10 II, § 31 (Quaderni del carcere, cit., p. 1270).
5

Sarebbe complicato commentare dettagliatamente questo passo. Mi limiterò a


dare gli elementi essenziali. Va subito notato che l’affermazione di Engels sul
proletariato tedesco è riletta all’interno di questa nozione di unità di teoria e pratica. Ne
segue che tutte le conseguenze di quel testo sono riassorbite all’interno di questa
concezione, e quindi neutralizzate. Il proletariato tedesco non “spezza” il nesso tra
filosofia e politica, ma lo rende concreto. Anzi è proprio la «contemplazione» il punto di
partenza di questa nuova posizione, nel senso che anche all’interno
dell’«interpretazione» era presente quel nesso, che tuttavia in essa si poneva come
«scolasticismo».
Questo termine ci porta a un altro aspetto di questo testo, e cioè il ricorso sia alla
tesi 2 e alla tesi 8: lo scolasticismo e la terrestrità sono delle tracce precise. Ciò vuole
dire anche che quando Gramsci nomina la «filosofia» la pone in equivalenza con ciò che
Marx nelle Tesi descrive nella tensione tra «pensiero» concreto, pratico, potente ecc. e
«teoria», cioè il pensiero «che si isoli dalla praxis» (tesi 2), e che è sviato «verso il
misticismo» (tesi 8). Ciò ha come conseguenza che non è possibile prescindere dalla
filosofia, se s’intende porre la distinzione tra “pensiero” e “teoria”, tra “verità” e
“scolasticismo”. Il criterio di questa distinzione non è racchiuso in una formula
scientifica, ma nella capacità del pensiero di “imporre” una certa verità, di appropriarsi
della vita storica, di conformarla a sé stesso, di esserne l’espressione più “vera”. Ma
questo non accade, se il pensiero – sia pure speculativo – non riesce a evadere dallo
“scolasticismo” e dal “misticismo”. Cioè se il pensiero non si pone, al suo interno e coi
suoi mezzi, la questione dell’unità di teoria e pratica.
Tutta la storia della filosofia è, per Gramsci, la storia dei tentativi di porsi questo
problema, ma sempre da un punto di vista limitato, segnato dagli interessi di certe classi
sociali, di certe posizioni di potere. Ecco perché Gramsci in quel passo nomina
Benedetto Croce e la concezione della “religione”. Gramsci si riferisce alla riduzione
della filosofia a religione nel significato di «una concezione della realtà e [...] un’etica
conforme», prescindendo «dall’elemento mitologico, per quale solo secondariamente le
religioni si differenziano dalle filosofie», realizzata da Croce nella Storia d’Europa17,
ma già presente nel saggio su Storia economico-politica e storia etico-politica da lui
pubblicato nel 192418. È significativo il fatto che questa equiparazione si accompagna in
Croce alla sempre più avvertita necessità di lottare Contro le sopravvivenze del
materialismo storico, come lecita il titolo di un suo opuscolo anch’esso del 1924,
posseduto da Gramsci prima dell’arresto19. In questa concomitanza Gramsci fissa
l’importanza dell’elaborazione più recente di Croce, elaborazione che gli appare tutta
svolta in previsione di «una rivalutazione trionfale del materialismo storico [...] Egli ‒
prosegue Gramsci ‒ resiste con tutte le sue forze a questa pressione della realtà storica,
con una intelligenza eccezionale dei pericoli e dei mezzi dialettici di ovviarli. Perciò lo
studio dei suoi scritti dal 19 ad oggi è del maggior valore»20.

17
B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), a cura di G. Galasso, Milano,
Adelphi, 1991, pp. 28-29.
18
«Bisogna pur raccomandare di non prendere “religione” nel significato materiale degli adepti
delle varie religioni o ristretto degli avversarii filosofici delle religioni, ma, come intendeva il Goethe, in
quello di ogni sistema mentale, di ogni concezione della realtà, che si sia tramutata in fede, diventata base
di azione e lume di vita morale» (B. Croce, Storia economico-politica e storia etico-politica, «La
Critica», a. 22, 1924, pp. 334-341: 341).
19
B. Croce, Contro le sopravvivenze del materialismo storico. Nota letta all’Accademia di
scienze morali e politiche della Società Reale di Napoli dal socio Benedetto Croce, Napoli, 1924.
20
Quaderno 1, § 132 (Quaderni del carcere, cit., p. 119).
6

Non casualmente, se Croce “forza” la natura “speculativa” della filosofia,


coniando questo nuovo concetto di “religione/filosofia”, che va in direzione di una
forma di unità di teoria e pratica, dall’altra mantiene ferma la sua interpretazione delle
Tesi su Feuerbach come presa di congedo da ogni filosofia e passaggio all’agitazione e
propaganda politica (come si è visto nel passo del Quaderno 10 sopra citato). Il
marxismo insomma non poteva essere un movimento di pensiero, perché era una
corrente politica. L’importanza che Gramsci gli assegna nasce dalla posizione che Croce
riesce a occupare: il più possibile mimetica di quella marxista autentica, in modo da
impedire la sua riammissione nel circuito della discussione culturale21, e in modo da
poter sfigurare la posizione marxista in filosofia, egemonizzandola da una prospettiva
borghese.

3. La traducibilità dei linguaggi


Qual è, dunque, l’eredità più viva che possiamo ricevere oggi da Gramsci? Il confronto
con Benedetto Croce – grande filosofo liberale – è in questo senso esemplare. Gramsci
sembra dirci che non è possibile criticare realmente una posizione se si rimane a essa
subalterni, ma non è possibile liberarsi di questa subalternità, se non si riconosce la
presenza, dentro quella posizione, di una specifica “potenza-verità” (nel senso delle Tesi
su Feuerbach), e che infine questo riconoscimento non è possibile, se si pretende di
liberarsi una volta per tutte della “filosofia” per trovare rifugio nella “scienza”. La
filosofia non è solamente uno sterile gioco di interpretazioni. Anzi: spesso queste
contengono molto più di quello che mostrano in modo esplicito, sono delle opzioni
politiche, pratiche. Occorre saperle riconoscere – in Croce, in Hegel – e per fare ciò è
indispensabile tenere unite la teoria e la pratica, vedere la filosofia come una forza
politica, e la verità non come esito della “scienza” ma come risultato di uno scontro che
è insieme teorico e pratico.
Il pensiero di Gramsci trae da questo punto la sua originalità, la sua unicità: nel
fatto di collocarsi esattamente all’intersezione di politica e filosofia, facendo
dell’unificazione di teoria e pratica il compito per il quale il marxismo è sorto e che ne
identifica la natura più profonda. Egli ha anche elaborato, nella nozione di traducibilità
dei linguaggi, lo strumentario logico che permette di intendere la specifica posizione
della teoria e della pratica nel loro riflettersi reciproco l’una nell’altra (il valore pratico
della teoria e quello teorico della pratica). L’insieme di queste due tesi ‒ unità di teoria e
pratica e traducibilità dei linguaggi ‒ costituisce il suo marxismo, non solo: è
l’intervento più acuto che lo stesso marxismo abbia prodotto per essere all’altezza del
proprio compito, se questo deve essere la trasformazione globale del mondo.
La definizione probabilmente più compiuta di cosa esattamente intenda con
“traducibilità dei linguaggi”22, Gramsci la dà nel seguente passo del Quaderno 10:
IV. Traducibilità dei linguaggi scientifici. Le note scritte in questa rubrica devono essere
raccolte appunto nella rubrica generale sui rapporti delle filosofie speculative e la filosofia della praxis e
della loro riduzione a questa come momento politico che la filosofia della praxis spiega «politicamente».

21
Ristampando nel 1938 i saggi di Antonio Labriola su La concezione materialistica della storia
(Bari, Laterza, 19473), Croce vi aggiunse lo scritto Come nacque e come morì il marxismo teorico in
Italia (1895-1900). Da lettere e ricordi personali (ivi, pp. 265-312), che ad ogni buon conto (perché fosse
tutto chiaro) pose anche in appendice alla quinta edizione (1941) del proprio Materialismo storico ed
economia marxistica (Bari, Laterza, 1968, pp. 253-294).
22
Cfr. R. Lacorte, Translatability, Language and Freedom in Gramsci’s Prison Notebooks, in
Gramsci, Language, and Translation, ed. by P. Ives and R. Lacorte, Lanham (Maryland), Lexington
Books, 2010, pp. 213-224.
7

Riduzione a «politica» di tutte le filosofie speculative, a momento della vita storico-politica; la filosofia
della praxis concepisce la realtà dei rapporti umani di conoscenza come elemento di «egemonia»
politica23.
Nella misura in cui non sono elucubrazioni intellettuali, ma intervengono su
problemi concreti (politicamente concreti), le filosofie tradizionali possono essere
tradotte (ridotte)24 criticamente in rapporti di conoscenza reali, cioè efficaci sul senso
comune, di massa, cioè infine possono essere intese come «elemento di “egemonia”
politica». Tra filosofia ed egemonia c’è dunque un nesso strettissimo, e non
riconoscerlo mette il marxismo in uno stato di perenne subalternità all’interno dei
“rapporti umani di conoscenza”. Infatti, chi oggi, da marxista, è in grado di fare questo
lavoro di comprensione della potenza e allo stesso tempo di critica distruttiva delle
filosofie contemporanee? Questo è il compito che Gramsci ci ha affidato: esso ha a che
fare con la politica – con la politica reale – molto più di quello che appare agli occhi di
chi continua a pensare che i giochi siano già fatti – mentre il mondo va avanti,
tranquillamente “interpretando”.

23
Quaderno 10 II, § 6.IV (Quaderni, cit., p. 1245).
Sul rapporto tra questi due concetti cfr. F. Frosini, On ‘Translatability’ in Gramsci’s Prison
24

Notebooks, in Gramsci, Language, and Translation, cit., pp. 171-186: 178-183.

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