Vous êtes sur la page 1sur 5

Canto 9

Il canto nono dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nel sesto cerchio, la


città di Dite, ove sono puniti gli eretici; siamo all'alba del 9
aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26
marzo 1300.

Incipit
« Canto nono, ove tratta e dimostra de la cittade c’ha nome Dite,
la qual si è nel sesto cerchio de l’inferno e vedesi messa la qualità
de le pene de li eretici; e dichiara in questo canto Virgilio a Dante
una questione, e rendelo sicuro dicendo sé esservi stato dentro
altra fiata. »
(Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)
Il nono canto presenta un crescendo di immagini che è stato definito
"teatrale", con una rappresentazione dell'azione ben calibrata grazie ai
personaggi che entrano in scena uno dopo l'altro.

Paura di Dante - versi 1 - 33


All'inizio del canto Dante è preoccupato (e ricaccia il proprio pallore)
perché vede tornare Virgilio sconsolato dal colloquio con i diavoli, i quali in
risposta alle parole del "duca" (che Dante non sente) gli sbattono la porta
delle mura della città di Dite in faccia. Virgilio è vago, e si ferma ad
aspettare qualcosa: sa che loro passeranno comunque la città e forse sta
preannunciando l'arrivo di un qualcuno inviato da Dio che gli aprirà il passo.
Virgilio però è titubante (proprio lui che rappresenta la ragione usa un "se
non.." lasciato a metà), e non vede l'ora che arrivi colui che un Tale (Gesù
Cristo, che non viene mai nominato nell'Inferno, o forse Beatrice, che si era
mossa in aiuto di Dante?) ha sollecitato.
Dante, che in questo canto parla molto spesso "da scrittore" al lettore, fa
notare che si era ben accorto della titubanza e del discorso iniziato e non
finito, ma anzi sostituito da un altro della sua guida, e si intimorisce del
senso probabilmente peggiore che Virgilio aveva voluto nascondergli.
Allora Dante, che, come si è visto sul finire del canto precedente, è pieno
di paura perché non vede via d'uscita, chiede un po' ingenuamente, ma molto
realisticamente, se lui, Virgilio, fosse mai arrivato in fondo all'Inferno,
usando però una garbata perifrasi: "Vi è mai alcuna delle anime del Limbo,
quelle che penano perché non vedono Dio, che scenda in fondo alla triste
fossa infernale?"
Virgilio risponde allora rincuorando Dante e gli spiega che è una cosa molto
rara, ma che egli stesso è sceso fino al cerchio più stretto, il nono (il
"cerchio di Giuda"), inviato dalla maga Erictho o Eritone, che lo incaricò di
andare a prendere un'anima da riportare in vita, al tempo in cui Virgilio era
morto da poco. Per questo egli, non solo è già entrato nella città, ma sa bene
il cammino per arrivare fino al punto più fondo e oscuro, che è anche quello
più lontano dal cielo.
Il riferimento a Eritone prende spunto dalle Pharsalia di Lucano, ma è molto
rielaborato con aggiunte originali di Dante. In Lucano Eritone è una
fattucchiera in grado di rianimare i morti. Essa aveva richiamato un defunto
alla vita affinché esso, con il potere di preveggenza tipico di chi ormai abita
l'oltretomba, rivelasse a Pompeo l'esito della battaglia di Farsalo. Non c'è
nessun riferimento al fatto che un'altra anima dovesse accompagnare il
morto resuscitato, né tantomeno che questa fosse Virgilio, quindi è tutta
farina del sacco dell'Alighieri. Semmai si potrà riscontrare come anche
la Sibilla nell'Eneide, guidandoEnea nell'oltretomba, dichiarasse di
conoscere già quel mondo per esserci già discesa (Eneide, VI 565). In ogni
caso bisogna prendere le distanze dalla figura medievale del Virgilio Mago,
che Dante non concepiva, e che semmai in questo caso evoca solo
un'atmosfera soprannaturale e fantastica sulla quale il canto è imperniato.
In ogni caso le gesta di Eritone fanno da spunto a Dante per altri brani del
canto, anche se Dante non la cita più: in Lucano si trovano infatti
le Erinni che abitano lo Stige, Medusa scacciata dalla minaccia di un dio che
la sconfigga, il sepolcreto dove abita Eritone: tutte immagini che si
ritrovano nei versi successivi.

Le Furie - vv. 34 - 63
Virgilio continua a parlare di come sia normale incontrare resistenza alle
mura di Dite, ma Dante ormai non lo ascolta più perché è attratto da
un'altra visione sconvolgente. Cambio di scena quindi, adesso il poeta ci fa
mettere a fuoco un'altra direzione, la torre infuocata che già aveva notato
all'approssimarsi alle mura, sulla quale si alzano di scatto tre furie infernali.
Esse sono le Erinni, "di sangue tinte", con corpi e atteggiamenti femminili
(membra e atto) e circondate o vestite da serpenti verdi. Altri serpenti poi
hanno per capelli, avvinghiati alle tempie, e vengono subito riconosciute
come le serve (meschine, dal provenzale mesquì) di Persefone, la regina dei
lamenti eterni dell'Inferno. Virgilio le indica: all'angolo sinistro
(canto come cantuccio) Megera, a destra Aletto, che piange, e Tesifone nel
mezzo. Come le donne ai funerali esse si disperano, si graffiano il petto e si
battono i palmi delle mani.
Dante è piuttosto terrorizzato e si stringe a Virgilio, quando le Erinni si
precipitano minacciose verso i due: "Vieni Medusa, la Gorgone, così lo
possiamo pietrificare... facemmo male a non vendicare l'assalto
di Teseo a Cerbero quando scese nell'Inferno, perché ora i vivi non son più
scoraggiati ad avventurarsi nel regno dei morti". A queste parole Virgilio
intima a Dante di chiudere gli occhi e mette le sue stesse mani a tappare
con sicurezza le pupille del discepolo.

Il messo divino - vv. 64 - 105


A questo punto Dante si rivolge di nuovo a lettore, dicendogli di "mirare",
cioè guardare il senso nascosto ("la dottrina che s'asconde") sotto il velo
dei versi "strani": un chiaro invito a cogliere l'allegoria della prossima scena,
che è tutt'altro che chiara ancora oggi.
Intanto quello che accade "sopra al velame" è che dalla palude proviene un
fracasso, che come il vento impetuoso che fracassa i rami degli alberi nel
bosco e fa fuggire le pecore e i pastori, così Dante vede, con gli occhi
liberati dalla protezione di Virgilio, uno che viene su per la palude senza
bagnarsi. Le anime dei dannati fuggono alla sua presenza, come fanno le rane
che scappano tutte quando si avvicina una biscia, e questo essere miracoloso
procede diretto scacciando i fumi che ha davanti al viso con la sinistra,
perché con la destra regge una verghetta. Non si preoccupa di niente, solo
i vapori gli disturbano la vista ("sol di quell'angoscia parea lasso", v. 84), e
allora Dante lo riconosce come colui "dal ciel messo", che oggi viene indicato
come l'angelo o come il messo celeste. Esso tocca la porta e l'apre
toccandola appena con la verghetta, mentre rimprovera i diavoli che sono
tutti spariti. Gli ricorda anche come Cerbero, che voleva impedire il
passaggio di Ercole nell'inferno, porti ancora i segni della lotta perduta
contro l'eroe sostenuto dalla volontà divina. Fatto questo il messo si volta
e se ne va, con arie d'urgenza, senza curarsi minimamente dei due poeti.
Dopo la descrizione della scena è lecito domandarsi quale fosse il senso
allegorico che Dante ha voluto inculcarvi e che riteneva così importante da
fare un richiamo esplicito al lettore di cercarlo. La questione è tutt'altro
che semplice e, a differenza per esempio delle allegorie della selva
oscura (Canto I), qui gli studiosi si sono spremuti senza arrivare ad alcuna
conclusione definitiva. Alcuni commentatori hanno riferito l'invito alla sola
scena dell'arrivo del messo, altri a tutto il canto.
Un esempio di interpretazione generale può essere il seguente: la ragione,
simboleggiata da Virgilio, non basta da sola ad affrontare e dominare i
peccati di "malizia" (cioè i peccati commessi con volontà, non per
incontinenza) puniti dentro la città di Dite; essa è ostacolata dalle
tentazioni (i diavoli), dai rimorsi (le Erinni) e dalla disperazione che segue il
rimorso e "pietrifica il cuore" (Medusa); la ragione può aiutare quel tanto
che basta per cavarsela nell'immediato (Virgilio che si cura di coprire gli
occhi a Dante), ma è solo tramite la grazia divina (il messo) che si può
arrivare a una definitiva debellazione del peccato.
Il senso generale dovrebbe essere simile a questo, sebbene i vari
personaggi minori assumano da commentatore a commentatore i più vari
significati. Però pesa anche il fatto che questa spiegazione non possa essere
capita da chi legga il poema linearmente da capo a fondo, perché la
distinzione dei peccati puniti entro o fuori dalle mura di Dite viene esplicata
solo nel canto XI. Non è d'altronde chiaro se Dante proprio a causa della
chiarezza non immediata avverta il lettore di stare attento e magari
ricordare dopo come interpretare la scena.

Dentro le mura: il cimitero degli eretici - vv. 106-133


I due poeti a questo punto non trovano più nessun ostacolo ad entrare nella
città e attraversano le mura. Il cambio di situazione è totale:
dall'affollamento e l'azione dei versi immediatamente precedenti, si passa
al deserto del cimitero, seppure punteggiato dai soliti lamenti dei dannati.
Al lettore moderno magari può impressionare il fatto che dentro le mura
della città invece di trovare case e persone i due poeti trovano l'esatto
opposto cioè un cimitero: bisogna comunque pensare che al tempo di Dante
i cimiteri si potevano ancora trovare dentro le mura, e che il divieto a
seppellire dentro il centro delle nostre città risale solo all'epoca
napoleonica.
Dante quindi si guarda attorno e lo stuolo di tombe gli ricorda due famosi
cimiteri medievali: quello di Arles (l'odierno Cimetière des Alyscamps) e
quello di Pola (oggi scomparso). Dalle fosse (gli avelli) scoperchiate escono
fiamme, che basterebbero ad un fabbro per qualsiasi opera ("che ferro più
non chiede verun' arte"). Dante chiede chi sia sepolto qui e Virgilio risponde
gli eresiarchi, cioè i fondatori di eresie, ma vedremo nel canto successivo
che qui sono puniti anche (e soprattutto) i seguaci, ma sarà un caso voluto o
meno da Dante, si incontreranno solo i negatori della vita ultraterrena, gli
atei o epicurei o monofisiti. In ogni caso Virgilio avverte che in ogni sepolcro
sono puniti seguaci di dottrine analoghe, quindi non ci si dovrebbe
sorprendere di trovare nel prossimo canto solo epicurei, perché viene
descritto un sepolcro solo. Però è anche da sottolineare che
il contrappasso si addice solo agli epicurei: per analogia, poiché essi
negarono la vita dopo la morte, essi sono morti tra i morti.

Dante personaggio e Dante narratore


Dal canto precedente Dante ha intensificato il rivolgersi in prima persona
al lettore ("Pensa lettor"). La critica dantesca, soprattutto contemporanea,
si è concentrata sul metodo di narrazione del poema, con una dicotomia tra
il Dante personaggio e il Dante che scrive del suo viaggio. In realtà si deve
innanzitutto notare che anche il personaggio dello "scrittore che parla in
prima persona" è un'invenzione e non coincide con il vero "Dante persona
reale": basti pensare al fatto che l'io narrante ci parla di un viaggio
immaginario come se fosse vero in tutto per tutto, quindi guardando oltre
la finzione, esiste il vero Dante nell'ombra che sta inventando la storia.
Il narratore usato è quindi solo la proiezione in un tempo futuro del Dante
pellegrino nell'oltretomba, che rende testimonianza del viaggio fantastico
in un secondo momento. Anche il momento in cui parla il narratore è un
presente fittizio, staccato dal tempo della vera biografia dell'Alighieri
storico-anagrafico. Questo presente fittizio è un momento indefinito che
si rinnova ogni volta che un lettore intraprende la lettura dei versi.
Inoltre esiste un livello simbolico nella Divina Commedia: il viaggio di Dante
rappresenta il cammino di ciascun individuo verso la redenzione, quindi si
può dire che esista anche un "quarto" Dante che agisce nel poema a
rappresentazione dell'intera umanità cristiana.

Vous aimerez peut-être aussi