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Una introduzione
1. Profilo di una esistenza filosofica
Una personalità poliedrica e profonda come quella di Franz Rosenzweig (1886 – 1929)
non può essere compresa se non alla luce di un intimo intreccio tra biografia e percorso
filosofico, tra la concretezza delle scelte individuali e l’elaborazione di un pensiero
incentrato sull’esistenza e sulla realtà immediata della situazione. Ed è proprio
l’orizzonte filosofico dell’intreccio e della congiunzione di dimensioni tra loro
polarmente situate che costituisce lo sfondo teorico entro cui matura ed emerge il
“nuovo pensiero”, la proposta filosofica rosenzweighiana la cui lungimiranza teorica e
pratica non smette ancora oggi di offrire preziosi orientamenti per la comprensione del
tempo presente e per la lettura della contemporanea realtà storica. Quando si pensa alle
novità teoriche introdotte da Rosenzweig e al capovolgimento del punto di vista rispetto
alla precedente tradizione ontologica da lui operato, non si possono infatti trascurare
alcune scelte radicali con le quali il filosofo ha orientato il percorso integrale della sua
esistenza e del suo pensiero: il rifiuto dell’attività accademica, la scelta del matrimonio
e l’impegno culturale nella direzione del Freies Jüdisches Lehrhaus, l’istituzione
francofortese per la formazione rivolta agli adulti e per la promozione dello studio della
cultura ebraica, sono solo alcuni esempi della costante dedizione con la quale
Rosenzweig ha speso la sua esistenza. In lui, inoltre, il desiderio di riscoperta
dell’identità e delle radici bibliche della storia ebraica si è accompagnato all’esigenza di
incarnare un fecondo dialogo tanto con la cultura tedesca, entro la quale egli si forma,
quanto con quella cristiana dalla quale sarebbe rimasto sempre affascinato. Insomma,
l’esistenza filosofica di Rosenzweig mostra significativamente come l’istanza teorica
del filosofare giunga alla sua piena espressione quando instaura un dialogo con la vita e
con il contesto materiale in cui essa si colloca: in questo senso, l’eccedenza propria
della filosofia rosenzweighiana va compresa all’interno della connotazione comunitaria
e dialogica in cui matura e si forgia, costituendosi quindi come un pensiero della
relazione e dell’evento sempre incardinato nella situazione e aperto all’esperienza
dell’alterità e della reciprocità. Così inteso, il progetto speculativo di Rosenzweig si
incentra sulla realtà propria dell’esistenziale rivelando l’essere, diversamente dalla
tradizione ontologica precedente, non più come un’entità a-temporalmente presente ma
come una rivelazione ogni volta nuova che lascia spazio alla voce dell’alterità che
interpella. Si comprende, allora, come un ruolo preminente, nel pensiero di Rosenzweig,
assuma il tema della rivelazione religiosa che offre la possibilità di ripensare l’impianto
filosofico non più a partire da un’essenza assoluta e sovra-temporale ma a partire da una
relazione dialogica tra enti posti in una reciproca tensione tra loro. Lo stesso tema
dell’identità personale e collettiva si caratterizza nella riflessione di Rosenzweig in
senso marcatamente dinamico e relazionale per il fatto stesso che egli crea una tensione
reciproca tra due polarità in stretto e sinergico contatto tra loro: sono esse, ad esempio,
la storia e la filosofia, la filosofia e la rivelazione, l’ebraismo e il cristianesimo. A
partire dall’intreccio di vita e pensiero, si cercherà allora, attraverso questa essenziale
introduzione al filosofo, di esplicitare la dialettica interna alle sue riflessioni mostrando
come a partire da un’ontologia della differenza il pensatore giunga infine ad elaborare
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una normativa dell’evento relazionale il cui andamento è sempre ritmico e bifasico,
legato cioè all’incontro tra due differenti poli teorici o tematici. Un pensiero del salto e
della congiunzione la cui forza teorica si regge sull’esperienza di una vita
profondamente vissuta nell’ascolto delle situazioni concrete e nel dialogo con le
diversità, una vita autenticamente dispiegata alle cui principali vicende si intende
dedicare la prima parte di questa introduzione.
2. Vita
2.1 Famiglia, anni giovanili e studi
Quando nasce Franz Rosenzweig, a Kassel, il 25 dicembre del 1886, la Germania
guglielmina procedeva nel suo sviluppo politico ed economico con il decisivo
contributo di quella generazione di ebrei tedeschi che, dopo l’acquisizione dei diritti di
cittadinanza, poteva mettere a frutto le proprie energie e la propria creatività. Gli stessi
genitori di Franz Rosenzweig appartenevano a quella generazione di ebrei commercianti
benestanti che si erano perfettamente integrati nel contesto politico e culturale tedesco;
proveniente da una famiglia alto-borghese, il giovane Franz a partire dall’estate del
1905 può intraprendere gli studi di medicina frequentando le lezioni fra Gottinga,
Monaco di Baviera e, a partire dall’autunno del 1906, Friburgo. È proprio nel contesto
accademico friburghese che Franz Rosenzweig può respirare quell’atmosfera
intellettuale effervescente e dinamica che lo porterà a spostare gradualmente i suoi
interessi dall’area medico-scientifica a quella umanistica. Il cammino filosofico
rosenzweighiano non prende dunque le mosse da una facoltà di filosofia ma dall’ambito
delle scienze naturali, alle quali egli si era inizialmente accostato sia per un’autentica
passione accademica, sia forse anche per sollecitazione familiare. Tuttavia, proprio a
Friburgo gli studi nel campo delle scienze naturali erano già diretti in modo da
connettere l’istanza propria della biologia alla matrice filosofica: il docente di fisiologia
a Friburgo era il prof. Johannes von Kries il quale impostava le sue lezioni a partire
dalla relazione dialettica tra il punto di vista filosofico e quello proprio della fisiologia.
Secondo von Kries, infatti, lo sfondo epistemologico degli studi di fisiologia era una
teoria gnoseologica autonoma ma impostata sulla base della teoria trascendentale
kantiana. Non stupisce, così, che un giovane studente di medicina come Franz
Rosenzweig potesse frequentare, già al suo primo semestre a Friburgo, anche un
seminario sulla Critica della ragion pura di Kant tenuto dal prof. Jonas Cohn. Sarà alla
scuola di questo vivace contesto accademico che Rosenzweig, dopo aver sostenuto nel
febbraio del 1906 il Physikum (l’esame di medicina al termine del primo biennio di
studi), può passare definitivamente alla facoltà filosofica dei Südwestdeutsche
friburghesi. Dapprima egli si dedica agli studi storici guidato dalla straordinaria figura
di Friedrich Meinecke (1862 – 1954): è quindi a partire dalla storia che il giovane Franz
può individuare l’indirizzo vero e proprio del suo filosofare poiché all’epoca essa era
intesa, in continuità con le tesi dell’idealismo, come la scienza della vita umana nella
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sua totalità. È, perciò, attraverso la redazione della sua tesi di dottorato, sotto la
direzione di Meinecke, che Rosenzweig si allontana dalla prospettiva storicista pervasa
da un vivo hegelismo per abbracciare un pensiero dell’individualità che facesse
emergere il valore del singolo nel processo di accadimento della storia. La dissertazione,
intitolata Hegel e lo Stato, riguardava, nello specifico, la storia della dottrina hegeliana
dello Stato alla quale veniva applicato il metodo di studio proprio delle nascenti scienze
dello spirito e, in modo particolare, di Dilthey. La familiarità di Rosenzweig con
l’idealismo tedesco è poi documentata dai verbali delle sedute della Heidelberger
Akademie der Wissenschaften alla quale il filosofo partecipava con assiduità e varietà di
contributi. Nel 1913, anno in cui conclude la sua dissertazione di dottorato, Franz
Rosenzweig è ancora collocato, da un punto di vista teorico e metodologico, nell’esatta
mediana tra la pretesa di Hegel di conoscere la verità assoluta e il relativismo proprio
del metodo storico da lui applicato. Tuttavia, già nella sua dissertazione la varietà di
temi filosofici affrontati, primo fra tutti quello della storicità della storia, lasciava già
presagire una nuova svolta nell’itinerario intellettuale rosenzweighiano: il passaggio
cioè, da una prospettiva storicista e ancora legata al metodo delle scienze dello spirito,
ad una prospettiva apertamente filosofica capace di mettere a tema la domanda
metafisica sull’uno e sull’essere. Sono gli anni della profonda riflessione spirituale, del
cammino verso il cristianesimo e poi del ritorno all’identità ebraica; sono anche gli anni
della definizione di una identità filosofica non più orientata allo storicismo idealistico
ma aperta ad un metodo fenomenologico e al tema religioso della rivelazione e della
relazione tra l’umano e il divino. È infatti del 1914 un articolo di Rosenzweig dal titolo
Teologia atea che affronta il tema della rivelazione inaugurando così la fase più estesa e
feconda del suo itinerario intellettuale. In questo testo emergono già i temi di fondo che
orienteranno la riflessione rosenzweighiana successiva fino all’opera principale La
stella della redenzione: fra tutti, viene tematizzata la questione della pensabilità della
rivelazione biblica, in opposizione alla teologia mitica della nazione che, agli occhi del
filosofo, si rivela come una teologia atea e incapace di cogliere la profonda realtà di Dio
e dell’essere.
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Edifici della città vecchia di Kassel, ai primi del Novecento,
prima delle distruzioni della seconda guerra mondiale
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Rosenzweig all’ipotesi, vissuta in modo personalmente tragico, di abbandonare
l’ebraismo per accogliere il Dio del cristianesimo, un Dio che, pur incarnandosi nella
storia dell’umanità, mantiene la differenza tra la terra e il cielo, tra il finito e l’infinito.
Nel cristianesimo, però, i rischi di una immenentizzazione del divino legata alla dottrina
dell’incarnazione del Verbo si fanno molto più alti allorquando, a partire dallo stesso
Vangelo di Giovanni, viene proclamata la fine del dualismo tra cielo e terra. Se il
cristianesimo, per via dell’idea dell’incarnazione, può inclinarsi verso una teologia
immanentista, solo l’ebraismo, agli occhi di Rosenzweig, riesce a mantenere la rigorosa
affermazione della trascendenza di Dio rispetto al mondo e alla storia degli uomini. Alla
luce di questa nuova consapevolezza che vede nella tradizione ebraica il custode
dell’assoluta trascendenza divina, Rosenzweig decide di rimanere ebreo rifiutando
definitivamente l’ipotesi di una conversione al cristianesimo. Questa matura scelta
religiosa è documentata dalle lettere che il filosofo scrisse nei mesi di ottobre e
novembre del 1913 a Rudolf Ehrenberg nelle quali si racconta la vicenda attraverso la
quale l’autore, rifiutando di aderire ad ogni forma di gnosticismo e storicismo, si
consegna alla tradizione biblica prima guardando alla rivelazione cristiana ma
ritornando poi, in modo ancora più consapevole, all’ebraismo. La volontà
rosenzweighiana che emerge da queste lettere è quella di mantenere la trascendenza di
Dio senza però cadere in una forma di dualismo metafisico che accoglie la
contrapposizione radicale tra il mondo e il divino. In realtà, a ben guardare, in tutta le
trama delle riflessioni filosofiche di Rosenzweig sul divino, la tensione tra una
prospettiva dualistica e una immanentistica non verrà mai esplicitamente risolta,
aprendo piuttosto la strada a profondi interrogativi filosofici e teologici sulla
rappresentabilità di Dio, sulla relazione tra il divino e il mondo e sul tema mai più
abbandonato della rivelazione. Infatti, al rapporto tra la rivelazione e la filosofia Franz
Rosenzweig dedica le sue riflessioni negli anni dal 1913 al 1917 fino a giungere alle
conclusioni poi esposte nel capolavoro La stella della redenzione: in questi anni il
filosofo distingue, anche da un punto di vista epistemologico, la prospettiva della
rivelazione che guarda a Dio da quella della filosofia che guarda al mondo,
reinterpretando questo rapporto dialettico anche nei termini della tensione tra ebraismo
e cristianesimo. Non manca, sempre in questo frangente della sua esistenza, un
confronto serrato con la filosofia medievale, sia con pensatori di matrice cristiana (come
Tommaso d’Aquino o Dante Alighieri) sia con autori della tradizione ebraica
medievale. Attraverso lo studio dei pensatori medievali, Rosenzweig è infine orientato
ad affermare la precedenza della rivelazione sulla filosofia, ovvero la priorità del
rapporto tra Dio e l’uomo rispetto al rapporto tra l’uomo e il mondo. Egli giunge così
alla consapevolezza che l’ebraismo, a differenza del cristianesimo, implica in modo
radicale la distanza tra il Dio legislatore e il popolo che riceve la legge ed è chiamato a
metterla in pratica. Eliminando, invece, la distanza tra il divino e l’umano nella dottrina
dell’incarnazione, il cristianesimo dissolverebbe, allo stesso tempo, la rivelazione nella
filosofia attribuendo una priorità metafisica al pensiero piuttosto che all’atto della
rivelazione.
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La Teshuvà rosenzweighiana, ovvero il suo ritorno all’ebraismo, è stato
certamente segnato dall’incontro che il filosofo ebbe con due importanti esponenti della
cultura ebraica a lui contemporanea: a Berlino, presso la Lehranstalt für die
Wissenschaft des Judentmus, Rosenzweig frequenta le lezioni di Hermann Cohen
dedicate al rapporto tra il sistema di filosofia e la religione; inoltre, nel 1914 egli fa
anche la conoscenza di Martin Buber con il quale stringe da subito una feconda amicizia
che porterà i due pensatori a collaborare nel progetto di una nuova traduzione in lingua
tedesca della Bibbia ebraica. Tuttavia, né Cohen né tantomeno Buber riescono, agli
occhi di Rosenzweig, a conciliare in modo efficace l’istanza filosofica con il tema della
rivelazione rinunciando o all’idea ebraica di Dio (come fa Cohen) o alla concezione
ebraica del patto tra Dio e Israele (come farebbe Buber). Insomma, se questi due
importanti interlocutori non riescono a sciogliere la dialettica tra religione ebraica e
pensiero filosofico, il problema della relazione tra questi due poli della cultura europea
diverrà l’oggetto principe della successiva riflessione rosenzweighiana.
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interrogare dalla precarietà degli eventi e manterrà costante la sua riflessione
intellettuale disseminandola nei suoi diari, negli appunti dal fronte e, principalmente,
nelle cartoline postali che andava via via inviando in Germania nella consapevolezza di
un’eventuale caduta in guerra. Proprio in questo contesto così tragico e precario, la
riflessione rosenzweighiana raggiunge l’apice della profondità teorica e della chiarezza
speculativa: a questi anni, infatti, risalgono le principali intuizioni che, raccolte nelle
cartoline postali, confluiranno nel libro La stella della redenzione che vide la luce solo
nel dopoguerra. In questi appunti, redatti nei momenti di tregua dal fronte balcanico,
ancora una volta il tema di fondo è quello della rivelazione, indagato a partire dalla
concretezza delle situazioni storiche e politiche. Non mancano poi i riferimenti alla
storia della cultura europea e alla situazione ebraica dell’epoca rispetto alla quale
Rosenzweig denuncia l’incapacità di esprimere in modo intimo il significato proprio
dell’ebraismo distinguendolo così dalla tradizione razionalistica del pensiero tedesco.
Nelle lettere che egli scriveva all’amico Rosenstock nel 1916 si riflette adesso non tanto
sulla determinazione della differenza fra ebraismo e cristianesimo quanto piuttosto sulla
possibilità di pensare un nuovo sistema filosofico a partire dall’evento della rivelazione
e, quindi, dalla centralità della relazione fra infinito e finito. Il vecchio sistema
filosofico incentrato sul Logos greco, poi espresso in età moderna dalle filosofie di Kant
e Hegel, si fondava sulla necessità di riconoscere nella ragione il principio dominante e
il criterio esclusivo della conoscenza umana. Nonostante la divergenza di vedute,
soprattutto circa la differenza fra ebraismo e cristianesimo, Rosenzweig e Rosenstock
riconoscono entrambi la crisi della filosofia del Logos e condividono l’esigenza di
rifondare il pensiero filosofico sulla peculiare esistenza del singolo, sulla sua fede e
sulla sua affettività. Altri documenti di estremo interesse risalenti al periodo della guerra
sono poi le lettere inviate a Gertrud Oppenheim nel maggio del 1917 dove ritorna il
problema del rapporto tra rivelazione e filosofia a partire, però, da una prospettiva
intrinsecamente ebraica.
L’insieme delle lettere e degli appunti redatti sul fronte rendono l’idea di come il
filosofare rosenzweighiano si lasci profondamente interrogare dal dramma degli eventi
orientandosi verso un progetto filosofico che possa tematizzare da un lato la relazione
dell’essere umano con l’eterno, dall’altro il camminare proprio dell’uomo nella finitezza
e nella precarietà esistenziale. Non è quindi un caso che l’incipit della Stella rivolga la
sua attenzione al tema della morte e del suo timore come origine possibile di ogni
conoscenza. Così Rosenzweig apre la sua opera: «Dalla morte, dal timore della morte
prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia
ciò che è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo
miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia. Tutto quanto è mortale vive
in questa paura della morte, ogni nuova nascita aggiunge nuovo motivo di paura perché
accresce il numero di ciò che deve morire (…). Ma la filosofia nega queste paure della
terra. Essa strappa oltre la fossa che si spalanca ad ogni passo. Permette che il corpo sia
consegnato all’abisso, ma l’anima, libera, lo sfugge librandosi in volo» (Rosenzweig,
La stella della redenzione, tr. it., p. 3). Di fronte al baratro della finitezza per
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Rosenzweig è la filosofia che apre le porte ad uno spiraglio di eternità, strappando
l’anima alla caduta nell’abisso del nulla. Animandolo di un desiderio di passione per la
conoscenza e di ricerca della verità anche negli scenari più irragionevoli, la filosofia
offre a Rosenzweig una via di redenzione e una possibilità per vivere in modo degno
l’esperienza della guerra. Così nasce e prende forma il progetto filosofico della Stella, a
partire da un’esperienza di morte e solitudine nella quale il filosofo si lascia abitare
dalla passione del pensiero per trovare un senso al paradosso della situazione; nasce così
un capolavoro che si presenta ebraico e universale allo stesso tempo poiché scorge
dietro la condizione ebraica l’essenza dell’umanità intera. Nell’economia globale della
Stella il fuoco e nucleo tematico centrale è rappresentato dal tema della rivelazione
come “e” tra il finito e l’eterno, come congiunzione metafisica tra la creazione e la
redenzione. La rivelazione, nel pensiero di Rosenzweig, rappresenta al tempo stesso la
forza spirituale dell’amore che si riversa nella fragilità della situazione restituendola al
suo valore eterno. La rivelazione, nucleo fondante della Stella, diventa allora l’evento
vissuto per antonomasia, quello in cui l’essere umano si scopre orientato dall’amore
verso Dio e abitato da un desiderio di dialogo e di incontro. In conclusione, l’opera
rosenzweighiana vuole dare una risposta filosofica al dramma della situazione
proponendo all’essere umano quella via indicata dall’amore e dalla rivelazione che
porta a Dio partendo però dal dialogo inter-umano e dalle relazioni sociali fra gli
individui in un percorso fatto di incontri umani orientati verso l’unica destinazione
dell’amore divino.
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2.4 Per una formazione ebraica: il progetto culturale del Lehrhaus
Al termine della guerra, l’impegno di Rosenzweig si concentra a favore della
promozione della cultura e della formazione ebraica. Dopo una serie di incontri con
personalità di spicco della cultura ebraico-tedesca, nel 1920 a Francoforte egli fonda il
Freies Jüdisches Lehrhaus, un istituto superiore di studi ebraici destinato alla
formazione degli adulti. Negli stessi anni, sempre a Francoforte, grazie a personalità del
calibro di Max Horkheimer (1895 – 1973), Theodor W. Adorno (1903 – 1969) o
Herbert Marcuse (1898 – 1979) si sviluppavano i dibattiti e le azioni della più celebre
Scuola di Francoforte con la quale Rosenzweig cercherà di intessere un dialogo
accogliendone alcuni esponenti nel suo Lehrhaus. L’attività presso il Lehrhaus si
accompagna ad una serie di riflessioni, confluite poi in importanti saggi tematici, sul
significato della Bildung ebraica e sulla necessità di un ritorno all’ebraismo come realtà
vivente che si trasmette attraverso le generazioni. Oggetto specifico della riflessione di
Rosenzweig diventa allora il tema dell’educazione dell’ebreo che si lascia orientare
dall’insegnamento divino per imboccare la via della redenzione. Secondo il filosofo non
vi può essere alcuna distinzione tra il problema ebraico e quello umano tout court
poiché la descrizione del rapporto tra uomo e Dio descritta dalla filosofia coincide con
la storia dell’anima raccontata dalle fonti bibliche. Identificando l’educazione dell’ebreo
con l’educazione all’umanità, Rosenzweig intende universalizzare l’esperienza
originaria della rivelazione come evento di amore che coinvolge ogni essere umano;
così l’esistenza ebraica diviene, secondo il pensatore, l’emblema della possibilità di
insegnamento ed educazione dell’umanità tutta. Affrontando in alcuni saggi tematici il
problema pedagogico legato alle attività del Lehrhaus, egli offre una descrizione
puntuale delle caratteristiche proprie della Bildung ebraica: essa prende il suo avvio dal
momento presente e si fonda sulla datità immanente della situazione. Nell’immediatezza
del presente l’esistenza ebraica rivela allora un eterno che non si identifica con l’essere
immutabile della tradizione filosofica ma che si configura con i tratti personali della
divinità biblica che irrompe nella finitezza. Allora, la fede intesa come emunà, fiducia
originaria nel Dio della rivelazione, diventa il tratto costitutivo dell’esistenza ebraica e
colloca l’essere umano nella situazione della prontezza e della responsabilità: l’aver
fiducia implica la risposta ad un appello, l’assunzione dell’impegno ad occuparsi di ciò
che è prossimo. Si rende evidente come la riflessione pedagogica di Rosenzweig
culmini nella nozione di Verantwortung, di responsabilità come compito di prossimità e
cura nei confronti dell’esistente. L’aspetto forse più inedito e significativo delle
riflessioni rosenzweighiane sulla Bildung ebraica è il carattere sempre situazionale della
formazione nella quale si realizza quella coincidenza metafisica tra l’essenza e
l’esistenza che rende l’essere umano sempre incardinato nell’immediatezza del suo
presente. Esistenza ebraica ed esistenza umana vengono allora a coincidere per
Rosenzweig nell’unica figura del discepolo e del santo che accoglie l’insegnamento
divino e lo mette in pratica nelle sue relazioni con gli altri. Questa identificazione
dell’essenza ebraica con l’essenza umana universale emerge, in modo lampante, nei
saggi Spirito ed epoca della storia ebraica e Storia ebraica nella cornice della storia
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universale nei quali l’autore lascia ampio margine al tema messianico della redenzione,
visto come il cammino dell’umanità ad-venire verso la trascendenza e verso l’orizzonte
non del tutto compiuto storicamente dell’eterno. Nella concezione pedagogica elaborata
dal filosofo alla luce dell’attività e del progetto culturale del Lehrhaus diventa allora
fondamentale la figura del santo come emblema della responsabilità individuale di
fronte all’appello della trascendenza. Il santo, oltre ad essere una categoria etico-
antropologica di grande rilievo, assume nel pensiero di Rosenzweig il valore di un
ideale regolativo della vita pratica dell’individuo nella quale si mostra la via della piena
redenzione: il santo è colui che cresce dalla risposta alla parola che gli è stata rivolta, è
colui che, capace di uscire da sé, diventa un recipiente dell’amore di Dio, dischiuso e
trasfigurato dalla grazia. Egli vive nell’assoluto perché vive nella risposta all’amore,
aperto all’ascolto della situazione e costantemente disposto a decentrarsi per accogliere
l’altro e il diverso. A questo modello di umanità Rosenzweig guarda quando definisce il
programma culturale e formativo del suo Lehrhaus.
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il suo ordine, così la lingua del traduttore fornisce allo spirito del testo tradotto la
possibilità di rinnovarsi e di perpetuarsi nella sua originaria destinazione. La teoria
rosenzweighiana della traduzione che emerge tanto dalla postfazione alle liriche di Ha-
Lewi quanto dai commenti alla Scrittura, si fonda sull’idea di una unità originaria ed
essenziale di tutti i linguaggi e sulla necessità della trasmissione dello spirito e della
cultura per mezzo della traduzione. Secondo Rosenzweig vi è una forza eterna nel
linguaggio che si trasmette, un desiderio di contatto che si rinnova nella misura in cui
continua ad esprimersi in forme sempre nuove e diversamente creative. Non solo, per
Rosenzweig il traduttore ha anche un ruolo messianico nel senso che preannuncia e
affretta, attraverso il suo lavoro, la realizzazione del regno universale sulla terra. Il
carattere della traducibilità del linguaggio rivela allora l’intrinseca unità che accomuna
la razionalità umana e mostra nel dialogo tra gli uomini e nella trasmissione del sapere
una via autentica di redenzione. Nell’esperienza dell’incontro dialogico, secondo la
teoria di Rosenzweig, il tutto si compone solo nella “e” della congiunzione e della
mediazione fra diversi dove ciascuno dei poli riconosce un suo costitutivo bisogno
dell’altro nella sua diversità e nella sua distanza. Proponendo una nuova gnoseologia
dell’incontro, il pensatore ebreo elabora un’idea di inveramento che consiste nel
cogliere la verità nelle situazioni via via nuove che si presentano all’essere umano. In
questo senso, nella comprensione dialogica propria del traduttore si svolge qualcosa di
nuovo, si annuncia una creatività mai prima espressa: la traduzione (Über-setzung) è
linguisticamente creativa nel senso che è fondata nell’evento del dialogo del traduttore
con un mondo linguistico che gli è estraneo. Attraverso la traduzione, l’interprete si
lascia abitare da un mondo linguistico totalmente altro che deve restituire nella sua
pienezza di senso e di significato: e, al tempo stesso, la lingua originaria, per mezzo
dell’incontro, trasforma la lingua di destinazione aprendola a possibilità inedite.
L’evento della traduzione diventa allora per Rosenzweig la metafora della dialogicità
propria di ogni essere umano per mezzo della quale ciascuno può scoprirsi nell’intima
relazione con l’altro e con il diverso. Agli occhi del filosofo, dunque, non si può vivere
autenticamente senza tradurre, senza mettersi in atteggiamento di ascolto della voce
dell’altro per rinnovarla nel suo spirito originario.
Con l’elaborazione della teoria della traduzione appena esposta, Rosenzweig
vuole introdurre il suo stesso lavoro di trasmissione e commento della Scrittura e delle
liriche di Ha-Lewi: queste ultime, in modo particolare, consentono al pensatore di
ritornare sul tema della relazione fra l’umano e il divino e di restituire, nel linguaggio a
lui contemporaneo, l’idea ebraica della rivelazione come il “miracolo” nel quale Dio si
mostra in un’azione che diventa esempio per l’agire umano. Nelle liriche di Ha-Lewi
Rosenzweig coglie il carattere sempre singolare dell’io umano, esposto allo sguardo di
Dio e forte solo nella fiducia in Lui. Insomma, il lavoro di traduzione del Diwan di Ha-
Lewi che recupera alcuni temi formulati precedentemente dallo stesso autore nel Kuzari,
consente al nostro filosofo di ritornare sui temi principali della sua stessa filosofia.
Allo stesso modo, allorché egli intraprende, tra il 1925 e il 1929, la traduzione in
tedesco della Bibbia ebraica insieme all’amico Martin Buber, intende soffermarsi sulla
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lingua della Scrittura come voce parlante al tempo presente e come linguaggio
dell’ordinario che ridesta l’invito all’ascolto e all’osservanza dell’insegnamento. Per
Rosenzweig, il linguaggio biblico, ispirato da Dio, coincide essenzialmente con il
linguaggio umano universale che manifesta da un lato il sentire soggettivo degli uomini,
dall’altro il cammino dell’umanità tutta dalla creazione verso l’era messianica. Quindi,
la parola biblica deve essere colta e interpretata come un’esperienza di incontro con il
Dio che si rivela. Tra il 1926 e il 1928 molti saranno i contributi rosenzweighiani sulla
questione della lingua ebraica e sulla relazione fra la parola orale e la parola scritta:
l’invito costante del filosofo rimane sempre quello di evitare di ridurre la scrittura in una
forma oggettivata e cristallizzata di comunicazione; essa piuttosto vive nella traduzione
dialogica da un’esperienza all’altra, nella trasmissione cioè dell’unica rivelazione
d’amore per mezzo di situazioni sempre diverse e sempre singolari. Ancora una volta,
l’analisi della lingua della Scrittura diviene per Rosenzweig l’occasione per riaffermare
l’unità profonda che accomuna tutta l’esperienza umana e il compito messianico di
costruire il regno promesso attraverso l’esperienza dialogica dell’incontro e della
relazione interumana.
allora, per il pensatore, il luogo della mediazione e del congiungimento dove le trame
precarie della storia si illuminano di un respiro di eterna vitalità. Così, infatti,
Rosenzweig aveva concluso la Stella rimarcando la prospettiva del quotidiano della vita
come orizzonte in cui ciò che è ultimo si ricongiunge con ciò che è primo aprendo le
porte del tempo all’eternità:
«Camminare in semplicità con il tuo Dio. Le parole
stanno scritte sulla porta, sulla porta che dal misterioso-
miracoloso splendore del santuario di
Dio, dove nessun uomo potrà restare a
vivere, conduce verso l’esterno. Ma
verso cosa si aprono allora
i battenti di questa
porta? Non lo sai?
Verso la
vita».
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3. Il pensiero e l’opera
Come si è avuto modo di sottolineare, l’intera “esistenza filosofica” di Franz
Rosenzweig è stata incessantemente spesa alla ricerca di un pensiero non aridamente
concettuale, ma fedele alla vita e alle sue dinamiche concrete. L’esigenza stessa di
formulare un “nuovo pensiero”, capace di rendere conto della finitezza dell’esistenza
umana e della sua intrinseca temporalità, strutturato in una dimensione plurale ed
interlocutiva, aperto all’ispirazione della tradizione religiosa e della rivelazione biblica,
ha caratterizzato tutte le tappe del percorso biografico di Rosenzweig e le sue scelte
personali, a tratti anche coraggiose e radicali. Tuttavia, il rifiuto dell’astrattezza teorica
non ha rappresentato, nella sua opera, una tendenza all’irrazionalismo o una statica
contrapposizione della vita e delle sue dinamiche al pensiero concettuale. Anzi, a partire
dalla riconosciuta ed irriducibile differenza tra i due ambiti, Rosenzweig ha perseguito
una continua ricerca di possibili forme di congiunzione: una vita coerente con quanto il
pensiero mostra come vero, e un linguaggio e una teoria volti ad esprimere quanto la
vita rivela come reale.
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sintesi tra due termini contrapposti. Seguendo l’impostazione di Meinecke, Rosenzweig
storicizza la prospettiva dell’opera di Hegel, inscrivendola nel contesto e nell’epoca in
cui venne maturata e fu scritta, e di cui inevitabilmente risente; egli inoltre la relativizza,
evidenziandone sia gli influssi sulla cultura tedesca successiva – in particolare nel
periodo bismarckiano – sia le oscillazioni che hanno potuto o potrebbero generare
diverse prospettive interpretative e quindi nuove linee di sviluppo. Con questa
storicizzazione e relativizzazione si gettano le basi per incrinare le certezze di un
sistema di pensiero – quello appunto hegeliano – che si prefiggeva di tendere al “sapere
assoluto”. Ma il primo obiettivo di Rosenzweig, all’epoca, è forse piuttosto di tipo
latamente politico, ossia aprire le maglie culturali di un Impero tedesco troppo chiuso in
sé stesso e nella propria prospettiva nazionalistica, per incoraggiare una prospettiva
maggiormente cosmopolitica. Lo studio di Rosenzweig, molto accurato da un punto di
vista filologico, si basa anche sull’analisi, da lui condotta a Berlino a partire
dall’autunno del 1910, del lascito manoscritto hegeliano, e vede la luce in forma
pubblicata solo dopo la guerra, nel 1920.
Il Rosenzweig storico della filosofia ed in particolare filologo hegeliano esercitò
inoltre le sue capacità su un testo destinato ad acquisire, anche proprio grazie ai suoi
studi, una notevole importanza, ossia quello che egli stesso intitolò Il più antico
programma di sistema dell’idealismo tedesco. Si tratta di un frammento manoscritto,
acquistato all’epoca dalla Regia Biblioteca Prussiana di Berlino, che venne inizialmente
catalogato sotto il titolo di Un’etica (perché si apre con queste due parole), ma che in
realtà appunto contiene tematiche di tipo programmatico e sistematico legate al
romanticismo e soprattutto all’idealismo. Scritto molto presumibilmente in un’epoca
antecedente anche al Sistema dell’idealismo trascendentale di Schelling, sino a quel
momento considerato il primo testo di quella corrente di pensiero, questo scritto teorizza
la necessità di costruire un sistema di tutte le idee e di tutti i postulati pratici e individua
l’ambito estetico come il luogo in cui la libertà soggettiva e l’oggettività naturale
possono trovare conciliazione. Il testo accenna anche a tematiche religiose, trattando del
rapporto tra mitologia e filosofia. Trattandosi di un manoscritto di Hegel, Rosenzweig
potè datarlo, in base soprattutto ad un confronto basato sulla grafia, all’estate del 1796.
Tuttavia Rosenzweig mise in dubbo l’autentica paternità hegeliana delle idee contenute
in quel manifesto programmatico, perché in quell’epoca Hegel si trovava in una fase di
pensiero caratterizzata piuttosto da una idea di netta ed irriducibile contrapposizione tra
i due elementi (libertà e natura) di cui invece Il più antico programma di sistema
afferma la possibile sintesi. Rosenzweig quindi lo attribuì a Schelling (a tutt’oggi
l’argomento è ancora oggetto di discussione) e ritenne che Hegel lo avesse
semplicemente trascritto.
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15
in quegli anni, e che costituisce l’oggetto centrale dei suoi interessi e delle sue
discussioni. Non solo con i pensatori del passato, ma anche con amici e colleghi, il suo
pensiero procede indefettibilmente in modo dialogico e secondo una dialettica autentica
e reale. Sono in particolare i già menzionati Eugen Rosenstock e il cugino Rudolf
Ehrenberg gli interlocutori di una discussione che, a partire da accenti e tratti forse in
parte gnostici, ossia di rifiuto del mondo, allo scopo di superare la contrapposizione tra
soggettività ed oggettività, conduce Rosenzweig ad avvicinarsi al cristianesimo. In
questa fede Rosenzweig ritiene di trovare una forma di rivelazione che, proprio grazie
alla storia, arriva a conciliare, pur senza confonderle del tutto, trascendenza ed
immanenza. In ambito religioso, infatti, le polarità descritte per un verso si acutizzano e,
per altro verso, si declinano anche secondo modalità diverse (ad esempio mitologia e
rivelazione come contrapposte alla ragione). Ma anche qui sembra essere ancora la
storia il luogo in cui Dio si rivela all’uomo e redime il mondo, così come, per converso
e correlativamente, la storia è anche il luogo in cui l’uomo può e deve partecipare a tale
opera divina. Tuttavia, come detto in precedenza, nonostante questo avvicinamento al
cristianesimo, Rosenzweig decide di rimanere fedele all’ebraismo. Rispetto al
cristianesimo l’ebraismo, infatti, risulta meglio in grado di preservare l’assoluta
trascendenza divina e di non confonderla con il mondo. Mantenere la specifità ebraica è
anzi un compito a cui non ci si può sottrarre, perché essa rappresenta un segno visibile e
tangibile, nella storia, della stessa alterità ed unicità divina. Ebraismo e cristianesimo,
tuttavia, pur nella loro diversità, potranno per Rosenzweig proficuamente integrarsi e
contribuire in modi diversi alla medesima redenzione. Ancora una volta, l’istanza è
quella di coniugare e accostare senza fondere o confondere.
In quegli anni a cavallo del primo conflitto mondiale, come si diceva,
Rosenzweig viene anche a contatto diretto con due delle maggiori figure del pensiero
ebraico dell’epoca, ossia Hermann Cohen e Martin Buber. Con il primo, Rosenzweig
condivide l’idea di creare una istituzione dedicata al rinnovamento degli studi ebraici e
all’approfondimento del portato della cultura religiosa tradizionale nel mondo moderno.
Nel solco di questa ispirazione generale si muoveva anche il lavoro di Cohen intitolato
Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo di cui Rosenzweig può leggere le
bozze prima della pubblicazione, che avverrà nel 1919, solo dopo la morte dell’autore.
Anche se non può essere considerato razionale sotto ogni punto di vista – sostiene
Cohen in questo testo – e anche se ha avuto bisogno soprattutto del platonismo e del
kantismo per liberarsi da incongruenze mitologiche, l’ebraismo, come forma pura di
monoteismo, è la sorgente e la fonte della religione razionale, che per suo tramite è stata
introdotta nel mondo. Questa opera sarà destinata ad esercitare una profonda influenza
su alcuni tratti fondamentali della matura riflessione di Rosenzweig, ed in particolare
sulla Stella della redenzione: ad esempio nell’idea per cui creazione e rivelazione non
sarebbero due atti puntuali e separati, ma due modalità stabili di interpretare la relazione
di Dio con il mondo, il cui rapporto va necessariamente pensato come una correlazione.
Non è concepibile, per Cohen, né un mondo senza Dio, né un Dio senza mondo. Ciò si
verifica in modo particolare sul piano dell’agire e dunque per il tramite del rapporto
17
16
dell’uomo con gli altri uomini, che media necessariamente la relazione tra l’uomo e
Dio.
Di quel periodo è anche il confronto – inizialmente piuttosto critico – con la
filosofia di Martin Buber, nella quale Rosenzweig rinviene il problema di una “teologia
atea”. Questa fa di Dio il frutto di una semplice immaginazione, un mero ideale
funzionale a rappresentare l’unità o l’aspirazione a determinati valori. Per Rosenzweig è
invece necessario riscoprire l’autentico senso della rivelazione, come presenza
effettivamente operante di Dio nella vita e nella storia dell’uomo, secondo un progetto
redentivo. Oltre però a stabilire in seguito la proficua collaborazione alla traduzione del
testo biblico, con Buber Rosenzweig troverà altri importanti fattori di consonanza – a
partire dal tema più noto del pensiero buberiano, il principio cosiddetto “dialogico”,
ossia la strutturale relazione tra l’“io” e il “tu” come principio costitutivo della realtà
umana. Si tratta di un’idea che, come risulta evidente, può essere interpretata anche
come una ulteriore declinazione dell’idea di correlazione, stavolta in termini
direttamente interpersonali e con un tratto marcatamente interlocutivo e linguistico che,
secondo quanto si ribadirà, diviene decisivo nella formulazione rosenzweighiana del
“nuovo pensiero”.
Martin Buber
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nell’idealismo tedesco e dunque nel pensiero di Hegel. Sulla scorta di quanto abbiamo
descritto, è oramai agevole identificarne almeno alcuni: l’astrazione dalla concretezza
ed in particolare dal carattere temporale della realtà, nella pretesa di trovare verità
universali, necessarie ed eterne; il primato surrettiziamente accordato al pensiero e alla
logica sull’essere e sulla realtà; la tendenza al riduttivismo, nella ricerca delle essenze e
di un principio fondativo unico, e dunque l’incapacità di ossservare le differenze reali e
la molteplicità. Rosenzweig si sofferma in particolare sulla circostanza che i tre oggetti
principali della metafisica moderna (il mondo, Dio e l’anima umana) siano stati, nelle
differenti epoche della storia del pensiero, di volta in volta gerarchizzati; così infatti,
ossia con la riconduzione di due di essi al terzo, si sarebbe operata ogni volta di nuovo
una indebita riduzione: gli antichi avrebbero infatti ricondotto tutto al cosmo, i
medievali a Dio, mentre i moderni hanno elevato l’uomo a centro e riferimento
dell’universo.
Connessa a queste due critiche è anche la rivendicazione dell’individuo e della
inaggirabile peculiarità e soggettività del suo punto di vista, di contro ad ogni
impostazione che pretenda di porsi con uno sguardo assoluto. In quest’ultimo tratto,
quindi, Rosenzweig si richiama alla tradizione di pensiero che, in modi diversi, si è
posta in contrapposizione all’idealismo, da Kierkegaard a Schopenhauer a Nietzsche.
Ispirato inoltre dalla “filosofia narrativa”, a cui Schelling aveva alluso nel testo sulle Età
del mondo, e dunque dalle riflessioni sulla mitologia, Rosenzweig arriva anche ad
evidenziare il ruolo del linguaggio come fattore capace di ridimensionare le pretese
della speculazione razionale astratta, ancorandola ad un aspetto comunque corporeo e
dunque fisico.
Proprio come narrazioni di una storia, come espressioni del rapporto personale
di Dio con gli uomini e con il mondo, sono la tradizione religiosa e la teologia ad offrire
al “nuovo pensiero” un ulteriore elemento ispiratore ed uno strumento potente per
radicalizzare la propria prospettiva, che assume importanti tratti – secondo un interesse
costante della speculazione rosenzweighiana – di tipo filosofico-religioso. In
particolare, Rosenzweig introduce le categorie di “creazione”, “rivelazione” e
“redenzione” come chiavi di lettura per interpretare il rapporto autentico che si instaura
tra Dio, il mondo e l’uomo, secondo quanto ora si vedrà più nel dettaglio, trattando della
Stella della redenzione. Ancora una volta, quindi, sono molteplici i motivi di ispirazione
e le tendenze concettuali che, pur nella loro specificità, vengono a confluire, delineando
nel loro complesso la forma di una proposta autonoma, innovativa ed originale. La
posizione matura di Rosenzweig, inoltre, nei tratti che si sono introdotti e che ora si
approfondiranno, giunge a toccare corde comuni anche ad altre tendenze della filosofia
novecentesca, come ad esempio la fenomenologia e l’esistenzialismo – ad esempio
nell’attenzione posta dalla prima al prospettivismo, e dal secondo invece alla vita
concreta dell’individuo – senza che i rapporti reciproci di influenza siano sempre
chiaramente ed univocamente determinabili.
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3.4 La stella della redenzione
È in questo scritto maggiore, pubblicato nel 1921, che tutte le polarità che hanno
animato la riflessione di Rosenzweig sin dalla gioventù e i temi di cui si è interessato
vengono ad essere compiutamente espressi. Si tratta, in un certo senso, del tentativo di
tradurre in un’opera l’esigenza del “nuovo pensiero”. Ma ciò, in modo forse
sorprendente, avviene in una forma che parrebbe essere quante altre mai sistematica. Su
questo almeno apparente contrasto i commentatori si sono lungamente interrogati. Per
un verso, per porsi in dialogo anche decisamente critico con la tradizione precendente e
specialmente con l’idealismo, Rosenzweig non può che, almeno parzialmente, parlarne
la medesima lingua. Per altro verso, vi è una difficoltà più profonda e più strutturale,
che è data dall’impossibilità di esprimere riflessione teorica e concettuale in una
maniera che prescinda dai concetti stessi e da una loro ordinata esposizione. Sin dalla
struttura triadica che la pervade, l’opera rosenzweighiana sembra essere quasi una sorta
di “controcanto” o di “ombra” dell’idealismo, di cui prova a rappresentare un
ribaltamento. In ogni caso, al di là del fatto di rendere in modo organizzato e rigoroso le
istanze del “nuovo pensiero” (che – giova ribadirlo – non è comunque una forma di
irrazionalismo) e di contrapporsi quindi radicalmente all’idealismo, la Stella si presenta
come un’opera sfaccettata, dalle molteplici chiavi di lettura, per alcuni versi sfuggente e
inafferrabile, o comunque non definibile in modo univoco e secondo le categorie più
tradizionali della storia della filosofia, e che permette di essere affrontata muovendo da
punti di vista diversi. Si tratta infatti di un’opera che, allo stesso tempo, è e non è di
metafisica (pur parlando di “metafisica”), è e non è di logica (si parla di “metalogica”),
è e non è di etica (si parla di “metaetica”) – e questi tre assi corrispondono per
Rosenzweig ai tre elementi esistenti, Dio, il mondo e l’uomo. Inoltre, come detto, forte
è il retroterra teologico o quantomeno filosofico-religioso.
L’opera è suddivisa in tre parti, ciascuna delle quali consta a sua volta di tre
libri. La prima parte, definita “premondo”, è dedicata agli elementi costitutivi del
“sistema”, ossia Dio, il mondo e il sé. Qui appunto Rosenzweig teorizza la metafisica, la
metalogica e la metaetica. La seconda parte, dedicata al “mondo”, si rivolge poi alle
relazioni tra questi tre elementi, descritte come creazione, rivelazione e redenzione.
Mentre la terza parte, che ha come oggetto il “sovramondo”, tratta del “fuoco”, o della
vita eterna, dei “raggi”, ovvero del tempo eterno, e della “stella” come percorso eterno,
prima di chiudersi con la già citata “porta” finale. La forma della stella, sin dal titolo,
delinea la dialettica complessiva di questi rapporti tutti orientati alla redenzione: si tratta
della stella cosiddetta “di Davide” – tradizionale simbolo dell’ebraismo – ossia della
stella a sei punte, formata da due triangoli che si intersecano, e che sono rispettivamente
orientati secondo le due possibili direzioni di rapporti tra i tre elementi fondamentali,
uno rivolto con la punta verso l’alto e l’altro verso il basso. La forma della stella viene
inoltre esplicitamente contrapposta da Rosenzweig a quella del circolo, come forma di
chiusura totalizzante di tutto il pensiero della tradizione, sin dalle sue origini nella
grecità. Infatti, lungi dall’esprimere una forma di perfezione ancora una volta astratta e
solo teorica, la stella richiamerebbe il volto concreto e vivente della persona umana.
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Con le righe sulla morte già citate in precedenza, che aprono l’opera,
Rosenzweig introduce immediatamente sia il tema dell’assoluto, perennemente cercato
dalla filosofia, sia la distinzione tra il sé e il mondo, che si origina proprio nella
consapevolezza della finitezza di fronte al nulla della morte. L’uomo si distingue dal
mondo in quanto ha consapevolezza di essere vivo; allo stesso tempo, però, l’uomo ha
anche consapevolezza che tale vita non è un possesso eterno: con la morte, infatti, il sé
torna ad essere una mera cosa del mondo come tutti gli oggetti inanimati. Sono la paura
della morte e la consapevolezza del nulla su cui riposa l’esistenza a condurre quindi
immediatamente all’affermazione della individualità e della sua irriducibilità ad ogni
idea di totalità e di assoluto. L’idealismo invece – ma in generale la tradizione filosofica
occidentale – ha esorcizzato la paura della morte rifugiandosi nell’idea di una unità di
fondo dell’essere, radicato in un assoluto da cui derivano tutti gli enti particolari, che
però ne risultano strutturalmente vincolati, e quindi non ne sono effettivamente e
realmente distinti. Dal nulla, secondo un metodo che Rosenzweig, come già Cohen,
mutua dalla nozione matematica del “differenziale”, si creano gli enti individuali nella
loro specificità, differenziandosi con un movimento che può essere affermativo
(affermazione di essere un non-nulla) o negativo (negazione di essere un nulla) o
entrambe le cose al contempo. L’elemento affermativo è caratteristico per Rosenzweig
di quanto la tradizione filosofica ha concepito come “sostanza” e del logos che la
esprime, mentre l’elemento negativo manifesta piuttosto una qualità attiva come la
libertà. Il mondo e l’uomo si costituiscono nella propria, rispettiva, specificità in virtù
del nulla a cui si contrappongono, così come Dio, che è contemporaneamente sostanza e
soggetto, essere e libertà, oggetto e azione, logos e libertà.
Se nella prima parte i tre elementi sono visti in modo prevalentemente statico e
nelle loro differenze peculiari, nella seconda parte invece se ne analizzano i reciproci
rapporti. Ci si apre quindi ad una concezione dinamica, che comprende l’accadere e la
storia, l’esperienza nel suo senso più profondo e complesso, e che investe non fatti
singoli ed irrelati, ma processi vitali di natura ampia. L’idea chiave per operare il
passaggio a questo nuovo tipo di considerazione è la rivelazione, compresa come un
movimento essenzialmente interlocutivo, da narrare, e quindi non primariamente
concettuale, né direttamente ontologico. La rivelazione permette di spiegare il rapporto
tra Dio e il mondo in termini di creazione (di contro alla prospettiva razionalistica di
una emanazione logica delle cose dall’uno originario), ossia di correlazione in parte
misteriosa tra enti irriducibilmente individuali e finiti e il loro creatore, che ne sorregge
in ogni istante l’esistenza sopra il nulla. La creazione, significativamente, è descritta
dalla rivelazione biblica come un atto essenzialmente linguistico. Linguisticamente
anche il sé si scopre come tale e giunge a differenziarsi dagli altri e a rigenerare
continuamente la propria anima. Ma linguisticamente, soprattutto, l’uomo è sempre già
aperto al rapporto con gli altri, e dunque alla dimensione della responsabilità e all’etica.
Per Rosenzweig la morale non è evidentemente né basata sulla deduzione degli obblighi
specifici da leggi universali, né orientata alla realizzazione di un sé chiuso alla
relazione. Si tratta piuttosto della risposta che ognuno, singolarmente, nella concretezza
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della propria situazione spazio-temporale, deve offrire alla chiamata e alla parola che
sente rivolta a sé. Tale chiamata, comunque, è sempre una chiamata d’amore, e ogni
comando è un comando che, per essere etico, deve essere mosso dall’amore. È la
comunità, ed in particolare la comunità sorretta dal comandamento dell’amore, l’ambito
in cui si rende visibile e concreto il nesso intersoggettivo dei rapporti etici.
Ma le due comunità che si fondano e si orientano sull’etica sono, per
Rosenzweig, la Sinagoga e la Chiesa. Nella loro diversità, entrambe si strutturano
attorno alla rivelazione e sono tra loro in certo modo correlative, non potendo nessuna
delle due, singolarmente, esaurire la verità, che è propria solo di Dio. L’ebraismo è la
comunità della vita (Leben) eterna, mentre il cristianesimo è la comunità della via (Weg)
eterna. La Sinagoga, con la propria vita, rende presente nel mondo l’alterità divina, con
cui è in contatto intimo, immediato e diretto, e si contrappone in modo deciso al
paganesimo e al mondo che è ancora ignaro del Dio unico biblico. Il popolo ebraico, nel
suo complesso, possiede l’unicità di essere già “presso il Padre”. Gli altri, invece, hanno
bisogno della mediazione di Cristo per raggiungere il Padre. La Chiesa rappresenta
perciò la via di mediazione scelta per tutti gli altri popoli, opera perciò nel mondo e
attraverso il mondo, missionariamente, cercando una mediazione con esso. Entrambe le
comunità cooperano misteriosamente alla redenzione, sia pure da due prospettive
differenti. In entrambe risulta decisiva la dimensione liturgica, come aspetto che rende
presente nella vita e nel tempo l’eterno. Nella ripetizione quotidiana, settimanale e
annuale dei cicli di preghiera cultuale, la fede rende “ora” l'istante, rende la vita e il
tempo pronti ad accogliere l'eternità.
Nella sezione finale dedicata alla “porta”, quindi, si apre la contemplazione
dell’assoluto, che è in realtà il volto di Dio, al di là delle differenze e delle specificità, e
che tuttavia è in sé irraggiungibile ed inafferrabile, ma si scopre sempre attraverso la
contemplazione dei volti degli altri uomini. Questo è ciò che svela, in realtà, la figura
della stella. Il compito lasciato al lettore, allora, è quello di prendere su di sé la verità
del libro e di verificarla – anzitutto nel senso di renderla vera – nella vita quotidiana,
attraverso il proprio comportamento.
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21
A questo impegno si accompagna perciò un certo distacco dalla scrittura
filosofica, se si prescinde da poche, tuttavia significative, eccezioni. Nel 1925
Rosenzweig scrisse un saggio espressamente intitolato Il nuovo pensiero, in cui si
ribadiscono e si riformulano, sinteticamente, i tratti della propria prospettiva. In
precedenza, nel 1921, gli era stata commissionata dall’editore Frommann una generica
introduzione alla filosofia, che egli intitolò Il libretto dell’intelletto comune sano o
malato e che si caratterizza come una difesa appassionata del senso comune, ancora di
contro all’astrattezza speculativa. Nel libro (pubblicato postumo, perché Rosenzweig
non ne rimase soddisfatto e decise di non darlo alle stampe) si narra la vicenda di una
persona che resta completamente paralizzata a seguito del suo porsi domande
filosofiche: non muove più un passo per timore che non ci sia fondamento reale su cui
poggiarsi, non riesce più ad essere sicuro di nulla di ciò che vede per il timore che tutto
sia in verità nient’altro che un sogno, non afferra più nulla non avendone in fondo alcun
vero motivo. Si tratta, per Rosenzweig, delle malsane reazioni della filosofia allo
stupore che coglie l’uomo nella sua quotidiana esperienza del mondo. Affrontare però
tale meraviglia con il senso comune, di cui l’uomo è spontaneamente e naturalmente
dotato, e che pervade l’esperienza concreta, dinamica ed essenzialmente temporale della
vita, permette di non restarne irretiti. Allo stesso modo, i nomi e il linguaggio utilizzati
nella quotidianità si rivelano più efficaci delle definizioni univoche e rigide cercate dalla
domanda filosofica per eccellenza: “che cos’è?”. Anche in alcune lezioni di Guida al
pensiero ebraico, tenute nel 1921 presso il Lehrhaus, Rosenzweig scrive: «La filosofia
non è stata universalmente umana. Universalmente umano è stato, è e sarà il sano
intelletto comune. E la filosofia fin dall’inizio lo ha disprezzato».
Nel maggio del 1929, infine, poco prima di morire, Rosenzweig scrisse un breve
testo, intitolato Fronti scambiati. In queste pagine egli commenta il noto dibattito
filosofico che aveva avuto luogo a Davos nel 1929 tra Martin Heidegger e Ernst
Cassirer, in cui i due pensatori si erano confrontati attorno all’interpretazione da
attribuire al pensiero kantiano e alla Critica della ragion pura in particolare. Cassirer la
leggeva – sulla scorta di un’interpretazione fatta propria dal cosiddetto “neokantismo” e
quindi anche in particolare da Hermann Cohen, alla cui eredità Cassirer si richiamava –
come un’opera di epistemologia, che aveva come scopo fondamentale quello di fornire
le coordinate di un pensiero oggettivo e autenticamente scientifico. Heidegger invece vi
scorgeva una profonda istanza metafisica, soprattutto nella determinazione della
intrinseca finitezza umana, incapace di trascendere la temporalità che strutturalmente
caratterizza l’uomo. Commentando questo dibattito, Rosenzweig rinviene una –
apparentemente sorprendente – continuità tra la tesi heideggeriana su Kant e le posizioni
di Hermann Cohen (in particolare il concetto di “correlazione”). In quello che viene ad
essere uno “scambio di fronti”, sono le posizioni di Heidegger, secondo Rosenzweig, ad
esprimere al meglio lo spirito del pensiero coheniano.
Nell’esperienza del Lehrhaus, così come in quella delle traduzioni, che
rappresentano l’impegno intellettuale predominante durante gli anni finali di vita segnati
dalla malattia, si possono inoltre osservare l’originalità e la novità che Rosenzweig,
23
22
coerentemente con le prospettive che gli erano offerte dalla sua riflessione, provava ad
introdurre. In ambito di insegnamento, ad esempio, era uso del Lehrhaus che i docenti
non tenessero corsi solo su argomenti di cui erano esperti, in modo da creare uno stile
ed un ambiente autenticamente votato alla ricerca e imperniato su un domandare aperto,
senza risposte prestabilite. Per quanto riguarda le traduzioni, invece, Rosenzweig
riteneva che si trattasse non tanto di rendere il più fedelmente possibile il testo da
tradurre, ma di sfruttare l’effetto di straniamento introdotto da un testo originariamente
scritto in un’altra lingua per “ringiovanire” la nuova lingua ed aprirne nuove
potenzialità. Questa idea si radica nella prospettiva secondo cui ogni dialogo con
un’altra persona è implicitamente una forma di traduzione e richiede quindi
disponibilità all’ascolto ed apertura; e sullo sfondo è presente la prospettiva escatologica
della necessità di procedere verso la fine della diversità delle lingue. In una lettera del
1917 a Rudolf Ehrenberg, Rosenzweig scriveva: «Tradurre è in linea di principio il fine
proprio dello spirito; solo quando una cosa è tradotta essa è stata realmente detta e non
può più essere cancellata dal mondo. Solo nella versione dei Settanta la rivelazione è
divenuta di casa nel mondo, e finché Omero non ha parlato latino, non era un vero e
proprio dato di fatto. Ciò vale anche per la traduzione da uomo a uomo». La traduzione
della Bibbia, e quindi l’introduzione di quel messaggio nella cultura e nel linguaggio
della contemporaneità, rappresenta dunque il massimo contributo che si può fornire
all’unica opera umana più importante, ossia l’opera redentiva.
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Marc Chagall, Mosè davanti al rovento ardente, 1966
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24
non come un nemico da abbattere o un ostacolo da eliminare quanto piuttosto come una
ricchezza che interpella ciascuno come singolo.
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25
Targa dedicata a Franz Rosenzweig a Francoforte
5. Brani antologici
5.1 “Resto ebreo”
«Caro Rudi, ti devo comunicare una cosa che ti deluderà e che, inizialmente,
perlomeno, ti resterà incomprensibile. Dopo lunga e profonda riflessione sono giunto al
punto di ritrattare la mia decisione. Non mi sembra più necessaria e, dunque, nel mio
caso nemmeno più possibile. Resto dunque ebreo [...] Il cristianesimo riconosce il Dio
dell'ebraismo, ma non come Dio, lo riconosce soltanto come “il Padre di Gesù Cristo”.
Esso riferisce sé stesso al “Signore”, ma lo fa perché sa che solo lui è la via al Padre.
Egli rimane come Signore presso la sua Chiesa tutti i giorni fino alla fine del mondo.
Allora però egli cessa di essere Signore e sarà anch'egli sottomesso al Padre e questi
sarà -- allora -- tutto in tutto (1 Cor 15, 28). Ciò che il Cristo e la sua Chiesa significano
nel mondo è cosa su cui siamo d'accordo: nessuno viene al Padre se non attraverso di
Lui (Gv 14, 6). Nessuno viene al Padre -- è però diverso se uno non ha più alcun
bisogno di venire al Padre, perché è già presso di Lui. E questo è il caso del popolo
d'Israele (non del singolo ebreo). Il popolo d'Israele, eletto da suo Padre, guarda fisso
oltre il mondo e la storia, a quell'ultimo remotissimo punto quando questo stesso suo
Padre sarà – “tutto in tutti” -- l'Uno e l'Unico. In quel punto, dove Cristo cessa di essere
il Signore, Israele cessa di essere l'eletto; in quel giorno Dio perde il nome con cui
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26
soltanto Israele lo invoca; allora Dio non è più “il suo” Dio. Fino a quel giorno però è
vita di Israele l'anticipare nella professione di fede e nell'azione quel giorno eterno, lo
stare come un annuncio vivente di quel giorno, un popolo di sacerdoti, con la Torah, a
santificare mediante la propria santità il nome di Dio» (Lettera a Rudolf Ehrenberg del
31 Ottobre 1913, in Gesammelte Schriften, I/1, pp. 132-133).
28
27
calmare la mia fame di forme, nient’altro. Tra i frammenti dei miei talenti iniziai a
cercare me stesso, tra la molteplicità delle cose l’Uno. Giunsi così (per parlare solo per
metafora) a discendere nei sotterranei della mia esistenza, avvicinandomi all’antico
scrigno del tesoro della mia vita, che non avevo mai dimenticato; […] finalmente lo
avevo trovato un tesoro di mio personale possesso, una cosa ereditata, non presa a
prestito. Guadagnandolo avevo guadagnato qualcosa di interamente nuovo, ossia il
diritto di vivere e persino quello di avere dei talenti; ora ero io che avevo dei talenti, non
loro che avevano me. La cosa essenziale tuttavia è che la scienza non occupa più il
significato centrale e che da allora la mia vita è determinata dalla “forza oscura” della
quale sono diventato cosciente con il nome di “mio ebraismo”. La piccola, spesso
troppo piccola, “esigenza del giorno” come mi si presenta nella mia posizione
francofortese – il molto più snervante, insignificante e tuttavia necessario mio essere
alle prese con uomini e relazioni – questo e non più lo scrivere libri, pur con ogni
contrarietà ad esso connessa, è divenuto il peculiare e amato contenuto della mia vita. Il
conoscere non è più un fine in sé. È diventato per me un servizio. Un servizio all’uomo,
assolutamente non un servizio alle “tendenze” (non mi fraintenda). Il “tendenzioso” è da
me più che detestato, esso è per me impossibile. Il conoscere resta in sé libero; esso non
si lascia prescrivere da nessuno le sue risposte. Tuttavia non le sue risposte, ma le sue
domande. Non ogni questione valida deve essere interrogata [...] Io interrogo solo là
dove io sono interrogato. Sono interrogato da uomini, non da dotti, non dalla “scienza”.
Certamente anche nel dotto c’è un uomo che pone domande e che è degno di risposta.
All’uomo, non più alla scienza nel dotto, non più a questo spettro insaziabilmente
curioso, avidamente vorace che lo possiede, consumato nella sua umanità, non rimane
più nulla. Detesto questo spettro come altri spettri. Le sue domande non mi riguardano.
Ma le domande dell’uomo sono molto più importanti» (Lettera a Friedrich Meinecke
del 20 agosto 1920, in Gesammelte Schriften, I/2, pp. 680-1).
29
28
5.4 Un pensiero della parola e nel tempo
«Questo grande poema del mondo ora viene narrato in tre tempi. Anzi, narrato lo è solo
nel primo, nel libro del passato. Nel presente la narrazione cede al colloquio immediato,
poiché davanti a persone presenti, si tratti di uomini o di Dio, non si può parlare in terza
persona, si può solo ascoltarli o rivolger loro la parola. E nel libro del futuro domina la
lingua del coro, poiché anche il singolo abbraccia ciò che ha da venire (das Zukünftige)
solo se e solo là dove egli può dire “noi”. Così il nuovo metodo scaturisce dalla
temporalità del nuovo pensiero [...] In luogo del metodo del pensare, così come è stato
costituito da tutta la filosofia precedente, entra in campo il metodo del parlare. Il
pensiero è senza tempo, vuole esserlo, vuole porre mille collegamenti in un sol colpo;
l’ultimo, l’obiettivo, è per lui il primo. Parlare è legato al tempo, si nutre di tempo, non
può né intende abbandonare questo suo terreno di coltura, non sa in anticipo dove andrà
a parare, lascia che siano gli altri a dargli la battuta. Vive soprattutto della vita di altri,
siano essi l’uditore della narrazione, l’interlocutore del dialogo o il membro del dialogo,
mentre il pensare è sempre solitario, anche se avviene in comune tra più persone che
“stanno filosofando in comune”: anche allora l’altro mi muove solo quell’obiezione che
io mi sarei potuto porre da solo [...] Avere bisogno di tempo significa non poter
anticipare nulla, dover attendere tutto, per ciò che è proprio essere dipendenti dagli altri.
Per il pensatore pensante tutto ciò è assolutamente impensabile, mentre corrisponde a
pieno al “pensatore della parola.” “Pensatore” del parlare: perché naturalmente anche il
nuovo pensiero, il pensiero che parla, è un pensiero; così come il vecchio, il pensiero
pensante, non avveniva senza un interno parlare. La differenza tra pensiero vecchio e
nuovo, tra pensiero logico e pensiero grammaticale, non consiste nell’esprimersi a voce
alta o a bassa voce, bensì nel bisogno dell’altro o, che è lo stesso, nel prendere sul serio
il tempo; da un lato, pensare significa non pensare per nessuno e non parlare a nessuno
(e se a qualcuno suona meglio, al posto di nessuno si può anche mettere tutti, la famosa
“collettività”); parlare invece significa parlare a qualcuno e pensare per qualcuno, e
questo qualcuno è sempre ben preciso, e non ha soltanto orecchie, come la collettività,
ma ha anche una bocca» (Il nuovo pensiero, tr. it., pp. 270-1).
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Bibliografia essenziale in italiano
Letteratura secondaria:
v E. Baccarini, La soggettività dialogica, Aracne, Roma 2002;
v S. Campanini, La Stella di Davide. Storia di un simbolo, Giuntina, Firenze 2013;
v B. Casper, Il pensiero dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner e Martin
Buber, trad. it. di Emanuele
S. Zucal,Luzzati,
Morcelliana, Brescia 2009;
“La festa di Succoth”, 2002
v F. P. Ciglia, Scrutando la «Stella». Cinque studi su Rosenzweig, Cedam, Padova
1999;
v F. P. Ciglia, Fra Atene e Gerusalemme. Il «nuovo pensiero» di Franz
Rosenzweig, Marietti, Genova-Milano 2009;
v A. Fabris, Linguaggio della rivelazione. Filosofia e teologia nel pensiero di
Franz Rosenzweig, Marietti, Genova 1990;
v A. Fabris (a cura di), Il pensiero ebraico nel Novecento, Carocci, Roma 2015;
v I. Kajon, Il pensiero ebraico del Novecento. Una introduzione, Donzelli, Roma
2002.
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Bibliografia essenziale in italiano
Letteratura secondaria:
v E. Baccarini, La soggettività dialogica, Aracne, Roma 2002;
v S. Campanini, La Stella di Davide. Storia di un simbolo, Giuntina, Firenze 2013;
v B. Casper, Il pensiero dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner e Martin
Buber, trad. it. di S. Zucal, Morcelliana, Brescia 2009;
v F. P. Ciglia, Scrutando la «Stella». Cinque studi su Rosenzweig, Cedam, Padova
1999;
v F. P. Ciglia, Fra Atene e Gerusalemme. Il «nuovo pensiero» di Franz
Rosenzweig, Marietti, Genova-Milano 2009;
v A. Fabris, Linguaggio della rivelazione. Filosofia e teologia nel pensiero di
Franz Rosenzweig, Marietti, Genova 1990;
v A. Fabris (a cura di), Il pensiero ebraico nel Novecento, Carocci, Roma 2015;
v I. Kajon, Il pensiero ebraico del Novecento. Una introduzione, Donzelli, Roma
2002.
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Centro Stampa – Sapienza Università di Roma