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Dialogo di Tristano e di un Amico

A cura di Marco Balzano

Introduzione

Le Operette morali sono un’opera in prosa, scritta per lo più nel 1824 e con aggiunte
successive. Le Operette sono 24 testi (per lo più di stampo satirico e di stile ironico),
sviluppati in forma dialogica, e di argomento filosofico. In questa opera Leopardi
sistema in forma unitaria i pensieri e le riflessioni sparsi dello Zibaldone, donando veste
letteraria ai contenuti filosofici con ironia e distacco.

Le Operette morali sono caratterizzate da una grande varietà di temi; in particolare


Leopardi si concentra nella dura critica delle ottimistiche concezioni filosofiche
ottocentesche: l'idea di un progresso continuo, l'illusione della felicità e l'immortalità
dell'anima. Critica soprattutto le teorie antropocentriche, che vedono l’universo come
creato con il solo fine della soddisfazione umana. Le Operette morali sono apparse “come
l’espressione di un ateismo che negava insieme la religione e il progresso: che si
opponeva, quindi, totalmente allo «spirito del secolo»” (Sebastiano
Timpanaro, Classicismo e Illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri Lischi, 1965). Qui
sono evidenti il pessimismo cosmico e la presa di coscienza della esistenziale
infelicità umana. L'uomo non è al centro del cosmo, ma solo una particella; la
Natura opera in maniera autonoma, indifferente all'uomo. Collegato a questa concezione
è anche il tema della morte, sviluppato in diversi dialoghi: la morte è l'unica liberazione
possibile per l'uomo e, in quanto cessazione del dolore della vita, assume una
connotazione positiva 1. La vita, in gran parte delle Operette, pare assurda e priva
di senso, caratterizzata dalla noia da cui si cerca invano di fuggire (anche se
Leopardi, lontano in questo dalle correnti nichiliste, non abbandona mai la ricerca di un
possibile senso al dolore umano): se “non fossimo in su queste navi, in mezzo di questo
mare, in questa solitudine incognita, in istato incerto e rischioso quanto si voglia; in quale
altra condizione di vita ci troveremmo essere? in che saremmo occupati? in che modo
passeremmo questi giorni? Forse più lietamente? o non saremmo anzi in qualche
maggior travaglio o sollecitudine, ovvero pieni di noia? … Quando altro frutto non ci
venga da questa navigazione, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per
un tempo essa ci tiene liberi dalla noia, ci fa cara la vita” (Dialogo di Cristoforo Colombo e di
Pietro Gutierrez).
1
Si veda, ad esempio, l'operetta conclusiva Dialogo di Tristano e di un amico

ANALISI DELL’OPERETTA
Non è un caso che il Dialogo di Tristano e di un Amico sia l’ultimo testo delle Operette
morali. Esso, infatti, rappresenta una sorta di summa del pensiero di Leopardi, che lo
espone attraverso la voce del personaggio di Tristano, il cui nome, oltre a rimandare al
celebre protagonista del romanzo medievale Tristano e Isotta, si riconduce per
paretimologia (ovvero, tramite un’etimologia fasulla) alla parola “triste” (dall’aggettivo
latino tristis, triste), quale è appunto la filosofia del personaggio. Ma la posizione di
coda nell’indice delle Operette morali risulta significativa anche perché questa prosa si
riallaccia per struttura e temi al Dialogo di Timandro e di Eleandro, ossia all’operetta che
chiudeva l’edizione del 1827. Cinque anni più tardi, Leopardi ha incrementato il numero
delle prose del suo libro e ha aggiunto questa nuova conclusione, senz’altro più completa
e potente, capace di rispecchiare gli ultimi drammatici sviluppi del suo pensiero e in
grado di preannunciare la forza poetica e filosofica dell’estrema stagione
leopardiana, in particolare la Palinodia al Marchese Gino Capponi (1835), in cui ritroviamo
la stessa tecnica della finta ritrattazione, e La ginestra o il fiore del deserto (pubblicata per la
prima volta nel 1845). Come nel Dialogo di Timandro anche qui l’alter ego di Leopardi si
imbatte in un altro personaggio che non assume vere e proprie caratteristiche narrative
né ha parte attiva nel dialogo, ma rimane confinato nel ruolo di far parlare il
protagonista, offrendogli il destro per un’esposizione dei nuclei teorici che stanno
alla base della sua argomentazione. C’è chi, tra i critici, ha scorto dietro questo
Amico gli intellettuali fiorentini della «Antologia», ossia quei moderati progressisti da
cui Leopardi andò sempre più distanziandosi nel corso degli anni per abbracciare
posizioni ideologiche più radicali e coraggiose.

Riassunto

Tristano ritiene che non solo il suo tempo sia caratterizzato da un’infelicità solida ed
evidente, ma che ogni uomo sia ontologicamente infelice. Non può perciò accettare
nessuna fiducia nel progresso né, tanto meno, alcun tipo di esaltazione dell’epoca attuale.
Del resto, come è noto, proprio le Operette portano avanti una feroce battaglia contro
le teorie antropocentriche in favore di un relativismo che ridimensiona l'intera
condizione umana, in particolar modo quella presente, che si caratterizza solo per una
superba considerazione di sé da parte delgi uomini. Così Tristano, in aperta polemica
con l’Amico, all’ottimismo spiritualistico della cultura della prima metà dell’Ottocento 1
oppone il suo lucido ed eroico pessimismo ontologico. L’arma con cui egli fa ciò in
questa operetta è senz’altro quella dell’ironia, attraverso la quale il protagonista finge di
aver cambiato idea e di ritornare sui propri passi per abbracciare le tesi dell’Amico. La
materia di scontro è l’ultimo libro di Tristano (palese è il riferimento alle stesse Operette
morali, conosciute dal pubblico nell’edizione del 1827). Già dalle prime battute si può
notare come il piglio ironico non esiti a divenire sarcastico:
Amico: Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
Tristano: Sì, al mio solito.
Amico: Malinconico, sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una gran
brutta cosa.
Tristano: Che v'ho a dire? Io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse
infelice.
Amico: Infelice sì forse. Ma pure alla fine...
Tristano: No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto
libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico.

Attraverso questa finta ritrattazione Leopardi smonterà una dopo l’altra le convinzioni
ottimistiche e antropocentriche dell’Amico, vero laudator della propria epoca. Tristano
gli farà ammettere che l’infelicità è una condizione evidente e innegabile
dell’uomo e respingerà, con il riso prima e con lo sdegno poi, le accuse di essere
approdato a simili convinzioni a causa della propria sfortunata condizione fisica.
Successivamente deriderà la fiducia nel progresso dei contemporanei, che egli
giudica vili e più deboli degli antichi, i quali erano magnanimi e anche fisicamente più
forti, sia nel corpo che nello spirito. Il protagonista espone così un pensiero organico,
che ha come fondamento l’infelicità ineluttabile dell’uomo: infelicità che non può essere
definita, come tenta invece di fare l’Amico, né fenomeno accidentale né condizione
trascurabile.

A supporto della propria teoria Tristano richiama in libera alternanza passi delle Sacre
Scritture e dei poemi omerici. Il suo pessimismo, che preferisce la morte alla vita 2, e
che per nulla si scompone di fronte all’incomprensione che i contemporanei riservano al
suo libro, si potrebbe definire “eroico”, già in linea con quello della Ginestra. Dopo la
finta accettazione di emendare la propria opera per divulgarla tra il pubblico, l’ironia
lascia spazio all’attacco diretto e a un tono di invettiva schietto e crudo, in cui si difende
il pensiero consegnato al libro delle Operette 3. Qui l’autore ha cercato coraggiosamente di
indagare la drammatica essenza della realtà e non di rifuggirla vigliaccamente 4. Tristano
difende con forza il suo intento di aver analizzato la condizione dell’uomo alla luce
dell’effettiva fragilità che lo caratterizza perché, solo in seguito a una onesta
valutazione e a uno sguardo consapevole sulla propria natura, si potrà accedere alla
nobile consolazione del riso e della pietà.
1
Nella fattispecie le “magnifiche sorti e progressive” irrise al v. 51 della Ginestra.
2
Si veda quest’amara battuta di Tristano: “In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli
stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato
con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né
deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni
immaginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade, nella mia
solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa uscire”.
3
Il tono di Tristano da ironico comincia a farsi amaramente caustico quando egli
risponde che forse sarebbe meglio bruciare il libro, dato che non rispecchia più le sue
idee: “Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni
poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità
dell’autore: perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri;
ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e
tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario”. Il gesto di bruciare le
proprie opere è un topos classico: il poeta Virgilio avrebbe infatti chiesto di distruggere
l’Eneide, che egli non considerava compiuta.
4
È stato notato che questa scelta avvicna i toni di quest'operetta a quelli senza speranza
di A se stesso.

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