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Laboratorio di Formazione Liturgico Spirituale

“Giovani, canto ed educazione alla fede”

Prima sessione, 18-19 novembre 2012

 I supporti strumentali del canto per i giovani: la chitarra


Pierangelo RUARO

Premessa
Vorrei iniziare con un riferimento alla mia storia personale. Per dire che la mia scelta dello studio
della chitarra (dai primi passi come autodidatta fino al percorso decennale di Conservatorio e
conseguimento del relativo Diploma) non è stata dettata da motivi ideologici.
Troppe volte la chitarra è stata utilizzata come una bandiera che identificava un mondo, quello dei
giovani, difendeva un repertorio, il mondo delle canzoni, in contrapposizione ad un’altra realtà
rappresentata da coloro che difendendo la tradizione della musica sacra denunciano il decadimento
della musica di Chiesa causato dalla diffusione di questo tipo di repertori. Due sponde che non si
sono praticamente mai incontrate.
Io, mi son trovato a suonare la chitarra, non per una forma di contestazione ma quasi per caso. In
realtà prima di abbracciare una chitarra io ho studiato per otto anni il pianoforte. Essendo, però, il
sottoscritto, mancino, ad un certo punto ho visto che sul pianoforte i progressi erano lentissimi,
perché la mia mano forte e più sicura era la sinistra e quando sul pianoforte dovevo far correre la
mano destra (cioè molto spesso) entravo in difficoltà. Casualmente ho avuto la possibilità di
adattare una chitarra alle esigenze del mancino (limitandomi, in verità, solamente ad invertire le
corde) e ho notato che riuscivo a superare le stesse difficoltà molto più facilmente. Mi sono, quindi,
semplicemente scoperto più portato per questo strumento.
Così, a distanza di più di trent’anni, voglio farmi testimone della bellezza, e delle potenzialità della
chitarra senza metterla in contrapposizione con altri strumenti. Ritengo, questa, una guerra inutile.

Un apporto caratteristico
Non ho alcun problema a riconoscere che, nella liturgia, all’organo spetta un posto di primo piano,
per tanti motivi, che la Chiesa ha continuamente ribadito; così come apprezzo e gusto ogni
domenica l’enorme repertorio organistico scelto in modo intelligente e appropriato dagli amici
organisti, che con me lavorano nella Cattedrale di Vicenza. Voglio semplicemente testimoniare, a
partire dalla mia esperienza, come il suono della chitarra possa offrire alla liturgia dei contributi
originali e come questo strumento contenga una ricchezza di espressioni musicali quasi ovunque
ancora inesplorata.
A dispetto di chi la considera uno strumento legato alla musica leggera e jazz e quindi con radici
‘corte’, la chitarra in realtà ha una storia plurisecolare.
Il problema è oggi si pensa che la chitarra sia uno strumento facile. Il primo motivo per cui tante
persone, ragazzi e giovani in particolare, si avvicinano alla chitarra (e non, magari, a un pianoforte),
è che quest’ultima è uno strumento poco costoso e facilmente trasportabile. Inoltre, si pensa che sia
uno strumento facile da suonare, perché dopo un anno di allenamento si arriva anche ad
accompagnare (alla buona) un canto e si sa suonare, magari, la melodia di 'giochi proibiti'; la
conoscenza del solfeggio può anche essere approssimativa.
In realtà se si vuole trarre profitto di tutte le possibilità di questo strumento, la chitarra diventa uno
degli strumenti più difficili, o comunque richiede un lungo apprendistato: qualità del suono e
potenza nel tocco, precisione e agilità, educazione all'orecchio (ci vogliono anni prima di accordare
la propria chitarra correttamente) sono risultati che si conseguono solo col tempo.

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Questo va detto per non ridurre l’uso della chitarra ad un semplice ‘attrezzo’ per far musica, sul
quale eseguire alcune posizioni di accordi imparate a memoria e qualche ritmo, quello che viene più
spontaneo (per cui succede che pressoché tutti i canti vengono suonati sullo stesso ritmo).
La praticità in altre parole è andata spesso a scapito della possibilità di suonare con coscienza.

Uno ‘strumento’, non un attrezzo


Etimologicamente, il termine "strumento" deriva dal latino struere, col significato di "accumulare,
aggiungere".
A differenza degli utensìli, che servono a modificare un oggetto, gli strumenti non sono
principalmente destinati alla trasformazione delle cose, ma ad aiutarne la conoscenza e la
comprensione. Per esempio gli strumenti scientifici (es. telescopi e microscopi) ampliano
l’estensione dei sensi umani, permettendoci di osservare e misurare campi altrimenti inaccessibili.
Così gli strumenti musicali dilatano le capacità espressive del corpo umano, permettendoci di
sondare l'universo intangibile del pensiero e dei sentimenti. Scegliendo l’uno o l’altro strumento, i
musicisti esplorano idee e rivelano stati d'animo che altri mezzi non potrebbero rendere in modo
adeguato.
Purtroppo la chitarra dà, oggi, l’impressione di essere solamente un ‘attrezzo’ da suonare (o forse da
‘consumare’, dato che facilmente viene messa in relazione con la musica di consumo). Così non
solo la stragrande maggioranza di coloro che suonano la chitarra (che ‘schitarrano’) non conosce
pressoché nulla della musica, ma nella maggior parte dei casi non dedica praticamente nessun
tempo allo studio, alla tecnica o almeno all’apprendimento di qualche accordo nuovo, di qualche
ritmo o arpeggio particolare.

Fare musica con coscienza


Si nasconde qui il problema di che cosa è diventata oggi la musica per i giovani (e non solo per
loro). Mentre stavo raccogliendo le idee per questa relazione, la settimana scorsa mi sono imbattuto,
in libreria, in un libretto scritto da Therese Henderson dal titolo “il velo sottile - il mistero della
musica” (edizioni Città Nuova). Dalla presentazione del teologo Pierangelo Sequeri, vorrei
riprendere questo passaggio:

La musica è l’acqua nella quale i nostri giovani nuotano più volentieri. Oggi, poi, con la
straordinaria strumentazione mediatica di cui dispongono, la musica ce l’hanno sempre
nelle orecchie. Eppure è chiarissima la percezione della distanza che si è accumulata fra
usare della musica e pensare con la musica. Fra quello che la musica potrebbe essere -
quello che è realmente - e ciò che la musica è diventata, nonostante tutto, nella nostra
cultura e nella nostra vita sociale.

E’ necessario prendere coscienza che suonare uno strumento è molto più che produrre degli accordi.
Lo strumento nasce come prolungamento della persona e quindi, qualsiasi strumento suoniamo, in
qualche modo esprimiamo noi stessi.
Nella specifica esperienza della preghiera e della celebrazione liturgica, suonare non è solo un
sostegno al canto ma può e deve diventare il proprio modo di pregare, di celebrare, di stare davanti
a Dio e all’interno dell’assemblea.
Nonostante non tutti siano d’accordo, a mio parere oggi non ha più senso, almeno in linea di
principio, chiedersi se, o meno, la chitarra possa essere ammessa in liturgia. Il problema generale
non riguarda più ‘quali’ strumenti usare, ma casomai ‘come’ vengono usati. Una chitarra usata male
fa un cattivo servizio al pari di un organo suonato male.

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Usare la chitarra sempre?
Dicendo che la chitarra si può usare non intendo la chitarra si deve usare, e sempre! Anzi, proprio
perché uno ama uno strumento dovrebbe avere la saggezza di riconoscere quando è opportuno
valorizzare quel determinato suono e quando invece è meglio preferirne altri.
Faccio un esempio: la chitarra è uno strumento dal suono delicatissimo ma non potente. E’ un
suono, quindi, che si apprezza meglio in ambienti medio-piccoli. Una piccola regola di fondo della
chitarra (ma anche di molti altri strumenti) ricorda che più delicatamente vengono pizzicate le corde
e più cristallino e bello è il suono. Viceversa più si pesta sulle corde e più la chitarra diventa una...
grattugia.
Voler utilizzare una chitarra per accompagnare un canto assembleare in una cattedrale significa
chiedere allo strumento ciò che esso non può dare; per cui il canto risulterà senza sostegno e
procederà in modo difficoltoso. In questo caso è molto più semplice ed efficace un
accompagnamento organistico. Se, invece, si tratta di sostenere il canto di un salmista, o di una voce
solista, con una dovuta minima amplificazione (del resto anche la voce di chi canta è microfonata),
il suono pizzicato può essere addirittura più redditizio e indovinato del suono tenuto dell’organo.

Le caratteristiche della chitarra


La chitarra è uno strumento a corde pizzicate, cioè unisce il principio degli strumenti a corde libere,
come l’arpa, a quello di strumenti ad arco e a tastiera, come il violino e il violoncello.
La chitarra classica è uno strumento adatto per sviluppare la tecnica ‘polifonica’. Per polifonia si
intende non solo la possibilità di produrre più suoni contemporaneamente, ma anche di eseguire
parti diverse nello stesso tempo. Ciò impone uno studio specifico di interdipendenza delle dita della
mano destra, proprio per poter dare ad ogni dito un suo compito particolare.
Suonare con proprietà una chitarra folk, invece, significa acquisire la tecnica
dell’accompagnamento ritmico, che mette insieme le funzioni del pianista per gli accordi, e del
batterista per quanto riguarda il ritmo.
Di fatto, poi, questi due percorsi si intersecano tra di loro, per cui con la chitarra classica e con le
dita si possono fare dei buoni accompagnamenti, così come su strumenti con corde di metallo è
possibile applicare la tecnica di derivazione classica e suonare in modo polifonico.

Le radici della chitarra


A chi considera la chitarra uno strumento legato alle mode degli anni 60, è opportuno ricordare che,
non solo lo strumento ha radici lontanissime (la prima testimonianza di uno strumento
imparentabile alla chitarra risale a più di 3000 anni fa), ma anche che, dal 1500 al 1700, strumenti
come il liuto, la vihuela, il colascione, (tutti strumenti a corde della famiglia della chitarra) sono
normalmente presenti in chiesa, e lo testimonia un buon numero di trascrizioni di musica sacra
(messe e mottetti) per questi strumenti.
Anche la tecnica del battere ritmicamente gli accordi, ritenuta una moda iniziata con le canzoni dei
Beatles o di Bob Dylan, in realtà ha radici molto più remote: nella prima metà del Seicento, infatti,
in Spagna è fiorito l’uso della chitarra battente, nella quale gli accordi venivano “battuti” con la
tecnica del “rasgueado”, toccando cioè tutte le corde rapidamente con le unghie della mano destra.
Queste richiami storici ci fanno concludere che non è vero che la chitarra è fatta per accompagnare
solo la musica leggera; altrimenti non si spiegherebbe la prassi abbastanza frequente di trascrivere
per questo strumento la polifonia sacra (sono state trascritte intere messe di Josquin e di Palestrina).
Ma per lo stesso motivo, dobbiamo anche concludere che non esiste un solo modo di suonare la
chitarra. Esistono diversi modi di suonare, diverse tecniche.
E’ vero che la tecnica di base non può che passare che attraverso lo studio della chitarra classica (le
tecniche moderne, in qualche modo derivano tutte da quella classica); però è altrettanto vero che i

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programmi di studio attuali dei conservatori e delle varie scuole di musica, hanno un grosso limite
in quanto sono pensati solo per un uso solistico della chitarra, quasi mai per la chitarra concertante,
ancora meno per la chitarra che accompagna.
La chitarra moderna, invece, soprattutto nel suo utilizzo popolare, svolge il ruolo di
accompagnamento al canto. Anche il suo utilizzo all’interno della preghiera e della liturgia durante
le celebrazioni, va pensato prevalentemente su questa linea.
Per questo, da una parte è necessario incoraggiare lo studio personale, o quantomeno un
allenamento continuo per affinare questioni di base come il cambio preciso degli accordi, il suonare
a tempo (senza improvvise accelerazioni o cedimenti), il possedere un minimo di soluzioni ritmiche
e di arpeggi adeguati ai vari tipi di brani. Dall’altra, le scuole diocesane di musica, ma anche la
stessa pastorale giovanile e l’ufficio liturgico, devono preoccuparsi di offrire (forse è più realista
‘creare’) percorsi formativi adatti all’accompagnamento dei canti.
E per costruire questi percorsi, ritengo sia utile, oltre a possedere i fondamentali della tecnica
classica, anche guardare con fiducia agli stili nati nel corso del secolo scorso e utilizzati nel country,
nel blues, nel jazz, e nella stessa musica leggera. Non si tratta di fare country o altro in chiesa; ma
certamente la padronanza delle diverse tecniche diventerà utile di volta in volta, con opportuni
adattamenti, all’accompagnamento dei nostri canti.

Suonare per pregare e far pregare


Il tema del nostro laboratorio non è semplicemente il rapporto tra musica e giovani, ma il valore del
canto e della musica dei giovani in ordine alla educazione alla fede, quindi il canto del giovane che
prega nella Chiesa e con la Chiesa. E, aggiungiamo, il giovane che suona mentre prega nella Chiesa
e con la Chiesa.
Dobbiamo quindi pensare all’utilizzo della chitarra in un ambito preciso, come è la preghiera e
come è la liturgia.
Punto di partenza è che tutti gli strumenti, la chitarra come l’organo a canne, il violino etc., sono e
vanno usati, lo dice il nome stesso, come ‘strumenti’, cioè funzionali a un progetto in cui vengono
inseriti, a cui devono servire.
Anche nella liturgia, o nelle diverse esperienze di preghiera, uno strumento è suonato bene quando
non è invadente, non copre, non viene percepito come padrone, ma come un aiuto alla preghiera, al
canto, all’ascolto dei cristiani che celebrano.

Esiste un modo ‘liturgico’ di suonare?


In quale maniera gli strumenti (non solo la chitarra) possono contribuire alla educazione alla fede?
Concretamente: come vanno usati gli strumenti in chiesa? O, in altre parole: esiste un modo
“liturgico” di suonare?
C’è un documento, per la precisione, una Nota pastorale, che la Commissione episcopale per la
liturgia della CEI ha preparato nel 1970 pensando al mondo giovanile e ad una esperienza tutto
sommato abbastanza assimilabile al tema di questo nostro incontro: in quegli anni era molto diffusa
la messa dei giovani.
Al n. 15 di questo documento si dice riguardo gli strumenti musicali: "Siano davvero strumenti, a
servizio cioè dell'azione sacra, della parola, della partecipazione viva dell'assemblea; non complessi
per spettacoli di liturgia".
La Chiesa cristiana ha sempre privilegiato il canto rispetto alla musica strumentale, con la
motivazione che solo la voce è in grado di portare la Parola, e il canto cristiano è fondamentalmente
canto della Parola.

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Canto significa un testo accompagnato e valorizzato da una melodia. Non una melodia qualsiasi ma
capace di dare maggiore risalto al testo che si canta, una musica che sposi il testo. Già la musica,
quindi, si pone a servizio delle parole.
A maggior ragione, lo strumento chiamato ad accompagnare deve rimanere sempre in secondo
piano, anche se presente, rispetto alle parole che vengono cantate. Contemporaneamente, però, lo
strumento ha anche il compito di sostenere armonicamente il canto e di tenerlo a ritmo o comunque
far sì che non si trascini troppo.
Il difficile sta proprio nel trovare l’equilibrio tra questa presenza di stimolo e il pericolo
dell’invadenza.
Un organista tecnicamente ineccepibile che suona come se fosse ad un concerto, cioè come se lo
strumento fosse al primo posto, davanti a tutto e a tutti, non farà mai un buon servizio liturgico,
anche se la sua esecuzione sarà perfetta.
Lo stesso vale per il chitarrista. Deve essere molto pronto ad intervenire ogni volta che il canto
rischia di perdere ritmo o intonazione, ma altrettanto pronto a ritornare dietro le quinte quando il
canto procede sicuro.

Accompagnare un testo...
La musica leggera, dal rock in poi ha fatto del ritmo la sua colonna portante. Per cui, in mancanza di
batteria e basso, è normale che una chitarra accompagni con degli schemi ritmici ripetuti con
regolarità.
Non lo è più quando si va ad accompagnare un canto che pone il suo centro di importanza nel testo
da cantare insieme. Capita non di rado di trovare, dentro un brano in quattro quarti,
improvvisamente delle misure in tre, o in sei ottavi: ed è qui che il chitarrista di solito va in crisi,
abituato a partire con un ritmo e a mantenerlo inalterato fino alla fine.
Ma un testo ha le sue frasi principali, le sue parole chiave, e le parti secondarie. Può , inoltre, essere
un testo acclamatorio o invocativo, penitenziale o laudativo. Chi scrive la musica deve tener conto
di tutte queste variabili. Lo stesso principio deve valere anche per l’accompagnamento: da una parte
devo saper cambiare ritmo quanto il tempo del canto lo richiede; dall’altra non posso trattare un
testo di lode allo stesso modo in cui tratto un testo penitenziale. Invece spesso si sente lo stesso
ritmo usato indifferentemente per i testi e le musiche più diversi!

....da cantare insieme


Il fatto poi che il testo sia da cantare insieme obbliga ad ulteriori attenzioni. Il canto di gruppo, e a
maggior ragione il canto assembleare non possono garantire precisione ritmica; è un canto che tende
al rallentamento, allunga le finali e ritarda le partenze delle frasi successive ecc.
Il chitarrista anche se non si deve arrendere a queste necessarie imprecisioni, non può suonare, per
così dire, “a metronomo”, incurante del fatto che l’assemblea o il gruppo lo segua o meno. E’ lo
strumento che deve seguire e servire il canto e il gruppo, non viceversa. Per questo è necessario
diventare capaci di adattare continuamente, e sul momento, il proprio modo di accompagnare.
Tutta questa serie di attenzioni messe insieme costituisce in qualche modo lo stile ‘liturgico’
dell’accompagnamento chitarristico.

L’arte/servizio di accompagnare un canto


Andando verso la conclusione, ribadisco la necessità di una maggiore competenza musicale; non
accontentiamoci del metodo “chitarristi in 24 ore”. Però questo aspetto tecnico, il saper suonare
adeguatamente, anche se necessario, non basta. Non può il chitarrista essere "straniero" in mezzo al
popolo "fedele".
Ce lo insegna la pratica stessa della musica d’insieme: quando suonano in un gruppo, in un insieme

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o in un’orchestra, i musicisti non si comportano esattamente come quando suonano da soli, per se
stessi, a casa loro. Perché la coesione che la musica da camera, per esempio, suppone, esige da
ciascuno dei partners un coinvolgimento molto più sottile, attento a reperire quello che gli altri
sentono ed esprimono, per accordarsi ad essi in maniera molto intima. Questo accordo suppone la
tecnica, ma soprattutto una comunione di spirito indispensabile all’unità di interpretazione.
Questa regola, valida per tutta la musica d’insieme, è fondamentale in una azione di preghiera e
soprattutto liturgica dove tutto ciò che si fa è, per natura, comunitario.
Un chitarrista che suona nel corso di una celebrazione ha delle forti possibilità di svolgere meglio il
suo compito se si sente lui stesso membro della comunità che prega e celebra e se si sforza di
integrarsi nell’assemblea.
E' essenziale che il chitarrista si inserisca nell'azione non solo per un apporto tecnico, ma in base
alla condivisione di una fede viva. Non basta suonare delle note, o ricavare suoni deliziosi e precisi
da uno strumento; bisogna attraverso questo servizio riuscire a pregare e aiutare gli altri a fare
altrettanto.

Lo strumentista “un partecipante”


Una raccomandazione finale: vale per chi presiede, per il lettore, l'animatore, il cantore, ancor più
per chi suona: ricordiamo che non dobbiamo essere interessati solamente a quello che dobbiamo
eseguire, ma anche e soprattutto a tutto quello che il progetto di preghiera prevede, o si svolge nella
liturgia (ascolto della Parola, silenzio, risposte comunitarie etc.). Al di là del proprio atto musicale,
chi suona (il chitarrista nel nostro caso) deve dare soprattutto la testimonianza di cristiano che
celebra nella fede.
S. Agostino alla sua comunità diceva: “per voi sono vescovo, con voi sono cristiano”. Possiamo
adattare queste parole al nostro tema: ogni strumentista liturgico di certo deve dire “per voi sono
strumentista” ma soprattutto e prima di tutto, deve saper dire, con la sua presenza e con il suo
atteggiamento “con voi sono cristiano”.

 La Cappella Sistina – la storia


Massimo PALOMBELLA

Un’istituzione che esiste dal 1471. Papa Sisto ha istituito una cappella musicale.
Un gruppo di cantori che sta intorno al papa esiste dall’ VIII secolo. La data che si fissa come
fondazione della Cappella Musicale Sistina è il 1471. Comprende 20 cantori adulti e circa 35
ragazzi. È annessa a questa istituzione una scuola IV e V elementari e i primi anni delle medie dove
i ragazzi, 15 per classe, frequentano e entrano nel coro fino al mutare della voce. Fino alla terza
media.
Circa 600 audizioni all’anno dove si prendono 15 ragazzi. I cantori adulti sono assunti regolarmente
dalla S. Sede; sono professionisti e si accede con audizione. Devono avere una spedita lettura,
sapere il canto gregoriano, avere la tecnica per cantare. Sono presenti persone che lavorano i famosi
organizzazioni, soprattutto quelle del teatro dell’opera e di S. Cecilia. Le prove sono dalle ore 15
alle 17 tutto il coro e i ragazzi provano 3 ore e mezzo fra di loro e il pomeriggio con gli adulti. La
sezione dei ragazzi ha un’attività concertistica propria. Il servizio tipico della Cappella ha una
tipologia contrattuale caratteristica rispetto agli altri enti: essendo la Cappella musicale deputata al
servizio delle celebrazioni del papa, l’attività col papa termina il 29 giugno e riprende a metà
settembre ma l’estate sono comunque in attività nel caso si verifichi il bisogno. Deve cantare a tutte
le cappelle papali.
L’attività ordinaria è quella di tutte le celebrazioni del papa. Ad esempio il triduo santo è un lavoro
continuo. A questa si aggiunge un’attività concertistica che ha la cappella musicale in Italia e
all’Estero.

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Dopo le funzioni di Natale i ragazzi finiscono la scuola ma iniziano a lavorare. I ragazzi che
frequentano la scuola hanno una borsa di studio totale: la S. Sede offre tutta la scuola stipulando un
contratto con i genitori dei ragazzi che si impegnano nell’attività concertistica.
Nella situazione attuale, la Cappella è stata ripristinata dal M° Bartolucci nel 1956 recuperando la
stabilità dei ragazzi cantori. Ci sono due adulti che cantano con i ragazzi, tenori falsettisti, che
aiutano i soprani e i contralti; il loro suono serve solo per ammorbidire in alcuni punti i ragazzi.
Esiste un archivio della Cappella diviso in due parti: uno qui, e il Fondo Cappella Sistina nella
Biblioteca Vaticana. Vi si trova tutto ciò che è stato scritto proprio per la Cappella. Si sta lavorando
per editare le cose più significative scritte.
Da settembre i cantori hanno in mano 3 libri: nel bianco c’è quello che è stato scritto appositamente
da Palestrina.
Il repertorio qual è? C’è quello che si riferisce ad autori classici. Fa ciò che va da 5 voci in su, doppi
cori. L’identità della Cappella è la normale frequentazione della fonte.
Ma c’è anche apertura a tutto ciò che ha consegnato il 900, musicalmente, perché è importante che
la positività e la vocalità che ci ha consegnato il 900 diventi patrimonio di questa realtà che nel suo
operare manifesti l’apertura della Chiesa. La lingua che frequenta è il latino.

 Cantare la fede: un progetto di formazione


Maurizio GAGLIARDI
Universa Laus

Per partire: Tra i nostri giovani la musica ed il canto hanno, in termini generali, enorme presenza
ma la loro fruizione è, per lo più, passiva. Le occasioni di incontro nella Chiesa possono
promuovere o rafforzare il “fare musica” e “vivere la fede” con il canto considerando , soprattutto
il valore formativo che ha il canto nella formazione della persona e dl credente che prega nella
chiesa e con la Chiesa.

La musica di oggi com’è? Passiva? Quanto è cambiata rispetto al passato? Quanto i nuovi strumenti
stanno cambiando la musica?
C’è una musica dei giovani? Risposte diverse ma no, studiando questo argomento. La musica dei
giovani è plurale tanto quanto sono plurali i giovani. Non si può comprendere il linguaggio
giovanile totalmente, musicalmente.
Se pensiamo al generico giovanile, chiedere cosa piace ai giovani si hanno diverse risposte ma
davvero piace ai giovani.
Lo stile di Frisina, utilizza testi dalla scrittura, orchestra d’archi, contrario all’universo giovanile.
Serve a poco chiudere l’universo giovanile in concezioni stereotipate.
Quanto è cambiato il modo di entrare nell’esperienza musicale in questi anni?

- Perché Universa Laus si è interessato dell’universo musicale.

Nel 1965 un gruppo di persone ha l’idea di proporre una rivista che ancora non è autonoma, ma
come supplemento, Il canto dell’assemblea. Immediatamente dopo il concilio, intorno ad una delle
questioni, quella del canto assembleare, un gruppo di persone ritiene che ci sia lo spazio per creare
una rivista pastorale in questo settore. Percepisce la necessità di pensare a degli incontri di
formazione che avviene nel 1971, a Torino.

“Nella situazione può costituire un modesto e utile servizio alle comunità che vogliono
migliorare la loro espressione musicale evitando l’approssimazione, l’assolutizzazione. È un
lavoro fatto in spirito di amicizia e di scambio, senza grossi nomi, fuori dagli impegni della
scuola”.

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- Perché i giovani?
Perché quando parliamo di musica, incontriamo i giovani? Perché ci sono. La situazione delle
comunità dell’animazione delle messe, giovanili e non, è che sono gruppi di giovani a farla e sono
disponibili. Forse un po’ si strumentalizzano pure i giovani, pensando che sia naturale che i giovani
debbano occuparsi di questo. Non si può fingere con i giovani. Loro forse di più sono quelli che non
si accontentano di “stare a guardare”, nella liturgia. È nel loro dinamismo. I giovani, essendo la
liturgia qualcosa di “entusiasmante”, non hanno paura di perdercisi dentro. Non hanno paura di
innamorarsi; nella liturgia c’è amore.
Questi due mondi, l’animazione liturgica e la pastorale giovanile, sono stretti da una relazione di
vicinanza.

- Quale formazione?
- Conoscere. Cosa? Le regole del gioco perché per entrare in una realtà bisogna conoscere le
regole. Conoscere il linguaggio simbolico, che non è immediato, della liturgia. Se conosco le
regole, scopro che dentro c’è una creatività immensa. Le regole del gioco, quando so giocarlo, mi
danno gli strumenti per renderlo il mio gioco, dove io sto bene.
- Fare. Devo avere a disposizione gli strumenti delle regole ma devo muovermi. Fare che
cosa? Le azioni che ci sono da fare. Con chi devo farle? Con un’assemblea di persone che ci sono
vicine e condividono con noi l’esperienza. In che modo? Ogni azione porta uno stile su come può
essere realizzata.
- Saperci fare. Se nel fare c’è il leggere, il fare azioni, il saperci fare comporta una serie di
competenze, di programmare una celebrazione, di fare scelte. C’è una necessità di saper insegnare
(un canto, un gesto) perché alcune cose non sono così immediate. Essere animatore vuol dire
rendersi conto che non possiamo fare tutto noi e che è bene condividere. Infine verificare ciò che
stiamo facendo, perché qualcosa può non aver funzionato: la liturgia è un po’ come quando si parte,
si getta una palla in mezzo ad un campo dove ci sono dei bambini; la palla va dove gli pare. Cercare
il confronto, con le reazioni, le osservazioni delle persone e leggerle con l’atteggiamento del
medico, costruire insieme la cura.

- Il modello organizzativo
Normalmente nel tempo è stato suddiviso in due livelli, base e richiamo, per dare riferimenti in 3
aree: Liturgia (rito della messa nel primo anno, e anno liturgico nel secondo); Vocalità (saper usare
la voce, che diventi competenza così che quando si dirige si sappia usare la voce); Ritmica (si
affrontano le questioni legate alla scrittura e lettura musicale che sa meno di solfeggio). Ogni giorno
attività di coro e di repertorio e una celebrazione, normalmente realizzata insieme ad un gruppo dei
ragazzi che ruota intorno ad un tema: al mattino la messa, con libertà di adesione, la sera
celebrazione della Parola e al termine della settimana una celebrazione tutti insieme. Il pomeriggio
l’attività di coro è opportunità per conoscere i canti e come si insegna un canto oltre ad analizzare i
canti che si hanno fra le mani.
I laboratori occupano il pomeriggio, a scelta. Infine la presentazione dei materiali e l’animazione
della messa parrocchiale.

- Parole chiave
- Asimmetria: formazione significa invitare a fare un passo un po’ più lungo di ciò che riesco
a fare. Non proporre ciò che so fare ma un po’ di più.
- Fatica: cantare è un modo di usare il respiro e la voce più faticoso che parlare. È bello
perché gratuito e inutile!
- Assemblea: celebriamo con un’assemblea che è intorno a noi. Deve essere l’orizzonte della
nostra attività.
Polifonia: cantare a più voci è la più bella espressione di comunità.
- Condivisione: non è un corso in cui c’è qualcuno che parla ma un momento in cui ci si
confronta. Strumento prezioso.

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- Bellezza: la musica non deve essere solo funzionale ma anche bella.
- Pluralità.

Seconda sessione, 24-25 marzo 2012

 La risorsa educativa della musica e del canto liturgico nella formazione dei giovani
Mons. Giuseppe BUSANI,
Vicario Episc. Diocesi Piacenza-Bobbio,
docente di liturgia presso il Collegio Alberoni di Piacenza.

La tesi è la connaturalità e la reciprocità tra canto e liturgia.


Sappiamo che all’inzio della nostra esperienza cristiana, la liturgia ha cercato la musica soprattutto
per custodire la natura sonora della parola. La liturgia è arte della voce e del gesto ma soprattutto
del dare voce e fare spazio alla voce e al gesto di un altro. La liturgica ha cercato il canto per
custodire la natura del gesto. Ha una dimensione di apertura, verso il mistero di Dio.
La connaturalità della liturgia. Essa non parla, canta. Il suo parlare è un cantare. Tutti e due
concorrono per la via per il contatto del mistero e una arricchisce l’altra.
Ma, dopo un incontro felice, c’è stata una svolta infelice quando l’evento musicale è diventato
autosufficiente. Quando la musica è diventata autosufficiente per l’esperienza spirituale, facendo a
meno del rito. La stessa opera è diventata una realtà autonoma. L’atto celebrativa era diventata la
cornice dell’opera musicale creando un difficile rapporto, ripristinato dal Vaticano II. Ora questi due
concorrono in reciprocità per comprendere il mistero.
La reciprocità è intuita ma è difficile da tenere accesa. La liturgia è un cantare spontaneo, è un dire
cantando in ordine all’esperienza del mistero.
Il canto è un parlare allo stato nascente, allo stato di meraviglia.
Come materia prima tenere il silenzio. Sia nella musica che nella liturgia non si devono custodire i
momenti di silenzio perché si aspetta che passano, ma è il silenzio che deve pervadere il gesto e la
parola. La materia prima, tutto il gesto gronda di silenzio perché questo permette l’arrivare della
voce di un Altro attraverso la quale possiamo fare esperienza del mistero.
Custodire la grazia del non detto che potrà giungere a dire, a non spiegarsi.
L’esplicare senza pudore, senza esporre se stessi e senza affermarsi, distrugge gesti e parole della
liturgia. In liturgia è il gesto e il silenzio che prendono la parola.
Ianchelevic, La musica ineffabile: la musica è il silenzio udibile.
La musica è sonora ma rimane una sorta di silenzio perché fa tacere la chiacchierare e fa passare il
rumore a suono melodioso, alleggerisce la pesantezza del discorso che spiega e impedisce che
l’uomo giunga a spiegare tutto. Il silenzio musicale ha delle forme interessanti, non è un momento
di silenzio, è un dire interrotto. Anche il pp è un ascolto più intenso.
La parola però dev’essere sonora. (cfr. S. AMBROGIO, En. in Ps, 1, 9-12).
Fidei canora confessio: la mia fede che nel canto si attua. Mentre si canta per piacere, nello stesso
tempo si impara. Il piacere diventa la via del sapere.
Perché la vita di fede non cada di tono è necessario il canto, la musica. Se prendiamo i salmi, vanno
dal De profundis, l’abisso della nostra oscurità, al Tu solus Altissimus. In qualsiasi condizione è
possibile una invocazione che cerchi il volto di Dio; senza ci sarebbero degli abissi dai quali non si
potrebbe risalire. Dal profondo si può solo chiamare. Quando le parole vengono meno, c’è una vox
che permette di innalzarsi e risalire dal profondo.
Il canto soccorre la dottrina che molte volte si è fatta arida. La teologia è troppo astratta perché ha
dialogato troppo con la filosofia e ha perso il rapporto con l’uomo.
La musica permette la sintonizzazione di tutte le dimensioni umane con il mistero di Dio. Cosa
accade quando si canta? Porta ciò che non è alla portata del discorso ad esperienze; rende sensibili;
apre una via anche per chi non sa tutto. Spesso non sappiamo pregare ne cantare.

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Tutto è in ordine alla risonanza del mistero tenuto vivo dalla possibilità dell’invocazione che ci
permette quella relazione col mistero che avviene in maniera nuda, santa, innocenza, caratteristica
sia della liturgia che della musica.
Nel custodire la forma canora della parola, la fede libera la musica dall’intellettualismo e mantiene
fede e liturgia in una dimensione di naturalezza. Bisogna camminare nella liturgia, nella Bibbia
sennò non si capisce.
Quando sparisce la voce, ne esce una voce anonima. Se si dimentica della parola come suono, tutto
muore , tutto perde sapore. Nella liturgia e nella musica, le figure di parola che hanno il primato
sono la proclamazione, l’invocazione.
Nella figura della vocalità del cantore, o del lettore, e dell’assemblea che acclama, ritorni il primato
della parola e della persona che la fa risuonare. La liturgia ha tenuto conto di questa cosa. Amen e
Alleluia sono acclamazioni che vanno cantate, altrimenti si riduce tutto a un discorso. Precedenza
della voce e della sonorità. Primato della persona che parla.
La musica e la liturgia fanno risuonare lo spazio dell’ascolto. LA musica soprattutto permette che la
parola sia ripresa, abbia tempo, venga assimilata, susciti legami.
Il canto istituisce l’ascolto che è offrire all’altro così come egli è. Seguire un ritmo che non è il mio
perché entri in quello dell’altro. Ti armonizzi con l’altro. Prevede un uscita da se.
Il primato sarà del Signore, se ascoltiamo la Parola. Ognuno sarà tentato di occupare il centro.
Nessuno nella liturgia prende da solo la parola. Tutti verso Lui. Nessuno si sente padrone del gesto,
attendono ciò che sta per arrivare. Nella pausa si attende l’altro suono e si realizza una grande
emozione, si attende l’imprevisto.
Ogni evento musicale ha senso quando ne annuncia un altro e accende l’attenzione nei suoi
confronti. La liturgia cerca la musica, come il suo respiro ma anche il canto cerca Dio.
Il suono di un altro diventa l’espressione delle mie emozioni. Si vive un atto di fede ma va custodito
lo spirito della liturgia, la tensione tra solidarietà e differenza: accoglie tutto ma tutto è organizzato
al modo della differenza. “Suonando, creando, ascoltando musica non si porta a termine niente”:
l’innocenza.
La liturgia non deve produrre risultati efficaci. La musica non dice niente ma in essa l’uomo trova
se stesso.
Anche la ripetizione è una benedizione. Ripetuta perché istituita prima e attestazione di una
precedenza. Facciamo nel rito ciò che ci è comandato di celebrare. Nessuno occupa lo spazio
dell’impresario ma lascia che ci sia spazio per tutti. Quando si celebra si fa l’unica cosa necessaria:
“fate questo in memoria di me”, tutti sottomessi ad un’unica parola.
La musica coglie della vita il semplice ritmo. Anche se prodotta da strumenti, non ha mai strumenti.
La ripetizione nella musica crea un incremento e un rinnovamento.
La musica cerca il rito per essere se stesso ma realizza il senso del rito che cerca la musica per
essere se stesso. Una imprescindibile relazione. Sono intrecciati. Imprime un’intonazione affettiva.
La liturgia crea l’ambiente per il rito e la musica.
La musica e il canto aprono la strada ad una Persona, e non ad un concetto.

 Testimonianze:
Valerio CIPRÌ (Gen Rosso)

Non fermarti d’amare; non fermarti di dare; non fermarti di vivere … per gli altri.

Daniele BRANCA (RnS)

Il canto non è soltanto una esecuzione ma è come uno stile di vita. Ciò che componi è quello che
vivi e diventa più coinvolgente.
C’è bisogno di stili, forme, consoni alla forma liturgica conservando il trasporto del brano.
Sorgente di salvezza, nuovo cd.

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Come tu mi vuoi: dopo essersi sposato, torna a Massa e sente le nuvole nel cuore ma si affida al
Signore: come tu mi vuoi, dove tu mi vuoi.

www.ocp.org/composition

 Partecipazione attiva alla liturgia.


Massimo PALOMBELLA

Sembra quasi che dopo il CV II c’è un ritornello che accompagna i libri di pastorale liturgica che è
la partecipazione attiva. Si è anche identificato il CV II con la partecipazione attiva, consegnataci da
esso. Non è un problema che nasce dal Concilio, e non è un problema di liturgia. La prima volta che
viene usato questo termine è da Pio X. È un problema che nasce nella liturgia lontano.
Già prima del Concilio di Trento si discuteva su ciò, cambi per permettere la comprensione per la
gente: dal greco si passa al latino. C’era una problematica di comprensione.
Il concilio di Trento non ha accolto una richiesta dei padri conciliari di introdurre la lingua viva
nella liturgia perché ciò voleva dare implicitamente ragione a Lutero, che la introduce per un
problema teologico: le persone devono capire cosa succede per rendere il rito valido. Se ciò fosse
vero, i sordi non renderebbero valido il rito. Se releghiamo la nostra comprensione a ciò che
succede, non sarebbero validi i matrimoni, le ordinazioni… La comprensione è necessaria.
Il Concilio di Trento se avesse inserito la lingua viva avrebbe dato ragione a questa idea teologica di
Lutero; perciò è stata bloccata la lingua viva nella liturgia. Storicamente c’è stato un cammino
lunghissimo.
Si deve arrivare agli inizi del 900 con Pio XII in relazione alla partecipazione: egli definisce i criteri
della partecipazione con la Mediator Dei. Esso dice che esiste per la liturgia una partecipazione,
interna ed esterna e l’unione delle due è la partecipazione attiva in unione con quella sacramentale
diventa partecipazione perfetta. L’esterna è l’esserci, l’interna è l’interagire con il mistero celebrato.
Queste due sono la partecipazione attiva che non si identifica con un fare di più ma interagire con la
propria esistenza con il mistero celebrato.
Noi abbiamo sciolto la nozione di partecipazione attiva da quella interna e abbiamo identificato il
partecipare di più o di meno in relazione a ciò che facciamo. Invece l’attiva coniuga due parti. Se
manca l’interna, posso fare di tutto ma non partecipo alla celebrazione.
La Sacrosantum Concilium recepisce ciò che ha detto Pio XII. Se cogliamo questo dato sulla
partecipazione nella sua profondità ci accorgiamo che ha dei risvolti educativi per l’azione
pastorale. Il partecipare, il prendere parte alla liturgia, l’essere capace di culto alla liturgia sottende
un progetto educativo. Nella nostra esperienza umana facciamo delle esperienze che svelano e ci
fanno prendere possesso della nostra umanità, con un insieme di ritualità. In un progetto educativo,
la nostra partecipazione attiva alla liturgia esige una preparazione, una cura di me, l’investimento di
una professionalità per non cadere in un uso della liturgia, ed esige un dato che è il dato
fondamentale della fede, che è l’ascolto: possiamo partecipare musicalmente ad una celebrazione
imparando ad ascoltare; questo fa parte del partecipare alla liturgia, e comporta un’educazione.
Prevede un esserci, un’interazione con il mistero celebrato che esige il fermarmi e ascoltare.
Se noi non mettiamo insieme questi dati rischiamo di usare la liturgia nell’illusione educativa che
abbiamo la gente perché gli facciamo fare qualcosa nella liturgia. È importante cogliere le cose che
interessano ma in un progetto educativo che non si ferma li, necessario per fare in modo che essa sia
il luogo in cui incontriamo Colui che ci fa più uomini e più donne.

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