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ISSN 1824-761X

Studi Slavistici
XV • 2018 •1 Rivista dell’Associazione Italiana degli Slavisti

FIRENZE
UNIVERSITY
PRESS
Studi Slavistici
Rivista dell’Associazione Italiana degli Slavisti

XV · 2018 · 1
Firenze University Press
Studi Slavistici
xv · 2018 · 1
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Il volume è curato dalla redazione sulla base delle specifiche competenze dei suoi componenti.
“Studi Slavistici” è una rivista peer reviewed. Tutti i contributi (eccettuati i Materiali e Discussioni,
il Forum e le Recensioni) vengono inviati per valutazione a due referee anonimi

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Rivista di proprietà dell’Associazione Italiana degli Slavisti


(registrato al n° 5385 – 29.xii.2004 del tribunale di Firenze)
issn 1824-7601 (online) · issn 1824-761x (print)
© 2018 Firenze University Press – Università degli Studi di Firenze
In copertina : motivo ormanentale utilizzato per la decorazione di uova colorate (pisanki),
da E. Gasparini, Il matriarcato slavo, Firenze 2010 (19731), p. 697.
Studi Slavistici xv · 2018 · 1

INDICE

F. Romoli Sulle varietà dell’omiletica di Kirill Turovskij: lo


Slovo po Pascě 5-27
А. Грищенко Языковые и литературные контакты восточных
славян и евреев в средние века. Итоги и перспек-
тивы изучения 29-60
J. Doti Il mito del Demetrio moscovita nell’Italia del Seicento.
Dal romanzo di Maiolino Bisaccioni alle tragedie di
Bianco Bianchi e Giuseppe Teodoli. 61-86
L. Dovga, R. Kyselov Principles of Quoting the Holy Scriptures in Works by
17th Century Ukrainian Authors: Approaching the Issue 87-110
A.V. Maiorov Schlözer and Karamzin. Struggle for Priority in
Studying Russian Chronicles 111-130
А. Шишкин ‘Лицо’ – ‘маска’ в культуре Серебряного века.
Вяч. Иванов, К. Сомов, Н. Ульянов и другие 131-151
Ч. Дж. Де Микелис Двенадцать А. Блока между Россией и Италией 153-164
G. Larocca Il paradigma dell’antico. Lev Pumpjanskij e la classicità 165-182
V. Vukićević-Janković Kišov pohod u sjećanje svijeta 183-196
A. Amenta Anna In w grobowcach świata di Olga Tokarczuk. Una
rilettura femminista del mito sumerico della dea Inanna 197-216

Materiali e discussioni

M. Garzaniti Da Roma a Mosca. Sofia Paleologa e i greci in Russia


fra la fine del medioevo e l’inizio dell’epoca moderna.
A proposito della recente biografia di T. Matasova
(Mosca 2016) 219-226
D. Suvin Avevamo un classico. Appunti per collocare Predrag
Matvejević 227-241
4 Studi Slavistici xv/1 (2018)

recensioni

J.A. Álvarez-Pedrosa Núñez (ed. y coord.), Fuentes para el estudio de la religión eslava
precristiana, Libros Pórtico, Zaragoza 2017 (B. González Saavedra) 245-247
V.M. Živov, Istorija jazyka russkoj pis’mennosti, i-ii, Russkij fond sodejstvija obrazovaniju
i nauke, Moskva 2017 (N. Marcialis) 247-251
L. Banjanin, P. Lazarević Di Giacomo, S. Roić, S. Šeatović (a cura di), Il SoleLuna presso
gli slavi meridionali, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2017 (N. Badurina) 251-253
B. Ronchetti, Dalla steppa al cosmo e ritorno. Letteratura e spazio nel Novecento russo,
Lithos Editrice, Roma 2016 (G.E. Imposti) 253-256
J. Křesálková, Italská literatura v Čechách a na Slovensku: bibliografie italských literár-
ních děl přeložených do češtiny a slovenštiny, vydaných od počátku knihtisku do sou-
časnosti, a přeložených netištěných divadelních her a operních libret inscenovaných
od 18. století. Univerzita Karlova, Filozofická fakulta, Praha 2017 (G. Mazzitelli) 257-259
© 2018 Author(s). Open Access. This article is “Studi Slavistici”, xv, 2018, 1: 5-27
distributed under the terms of the cc by-nc-nd 4.0 doi: 10.13128/Studi_Slavis-20616
Submitted on 2017, April 11st issn 1824-761x (print)
Accepted on 2017, December 11st issn 1824-7601 (online)

Francesca Romoli

Sulle varietà dell’omiletica di Kirill Turovskij: lo Slovo po Pascě

1. Premessa
Recenti indagini sulla predicazione di Kirill Turovskij (1130-1182, vescovo dal 1169)1
hanno permesso di acclararne la specificità nel confronto con la produzione omiletica di
alcuni fra i più noti predicatori del ‘primo’ medioevo slavo orientale (xi-xiii sec.)2, di pre-
cisare il carattere di tale specificità e di investigarne le ragioni. Il corpus omiletico preso a
riferimento è costituto in particolare dalle prediche attribuite al vescovo Luka Židjata (†
1059), al metropolita Nikifor i († 1121), all’igumeno Moisej († 1187) e al vescovo Serapion
Vladimirskij († 1275) (‘corpus kieviano’; cfr. Romoli 2009).
Lo studio delle funzioni delle citazioni bibliche nello Slovo na verbnoe voskresen’e
(Omelia per la domenica delle palme) e nello Slovo o rasslablennom (Omelia sul paralitico)
(‘corpus cirilliano’) ha rivelato così la loro divergenza dal ‘modello funzionale’ esemplato
dal corpus kieviano, fondando l’ipotesi della sussistenza in area slava orientale di una
ripartizione fra sermoni didattico-morali e omelie esegetiche affine alla suddivisione
bizantina fra omelie esegetiche e festive (e lato sensu a quella occidentale fra omelia e
sermone). Se, infatti, i corpora cirilliano e kieviano condividono le funzioni ermeneuti-
ca e pragmatica delle citazioni bibliche, che, rispettivamente, fondano la polisemia del
discorso e ne realizzano l’intenzione didattico-morale, il corpus cirilliano si distingue
tuttavia per la particolare funzione liturgica espletata dalle letture bibliche del giorno,
che, rese oggetto di esegesi, conferiscono al messaggio predicato una finalità esegetica
evidente e preminente (Romoli 2016c, 2017a).
La disamina dello Slovo na voznesenie (Omelia per l’ascensione; corpus cirilliano), al
cui interno la funzione liturgica della componente biblica si espleta piuttosto nel senso
dell’attualizzazione a scopo celebrativo dell’evento biblico commemorato, sovente in
forma drammatizzata, ha permesso di perfezionare l’ipotesi precedentemente formulata,
riconducendo la specificità dell’omiletica cirilliana a un orientamento consapevole sui te-
sti-modello patristici. La capacità di Kirill Turovskij di discernere le varietà funzionali dei
modelli di riferimento – la varietà esegetica rappresentata dai commentari ai libri biblici e
quella celebrativa dalle omelie festive – e di riprodurre tali varietà, che di quell’orientamen-

1
Si intendono qui le indagini recentemente condotte da chi scrive nell’ambito dell’omileti-
ca cirilliana, alle quali di seguito si fa più esplicito riferimento (cfr. Romoli 2016c, 2017a, 2017b).
2
Sulla periodizzazione della civiltà letteraria russa cfr. Garzaniti 2012.

Francesca Romoli (University of Pisa) – francesca.romoli@unipi.it


The author declares that there is no conflict of interest
6 Francesca Romoli

to costituisce il presupposto, sembra allora fondare la distinzione fra omelie esegetiche e


festive al centro stesso della sua omiletica (Romoli 2017b).
Il corpus cirilliano esempla, dunque, in maniera pressoché esclusiva nell’ambito della
predicazione di epoca kieviana, le varietà tradizionalmente rappresentate dall’omiletica bi-
zantina (e occidentale)3. Nel confronto con le prediche del corpus kieviano, specificamente
orientate all’ortoprassi e come tali animate da un’intenzione didattico-morale che realizza
la finalità parenetica del discorso, le omelie cirilliane si caratterizzano infatti per il rapporto
certo con una festa liturgica, per la centralità al loro interno delle letture bibliche proclama-
te in occasione di tale festa e per la finalità esegetica o celebrativa, che, pur non escludendo
la finalità parenetica tipica delle prediche del corpus kieviano, appare assolutamente premi-
nente rispetto a quella.
La varietà omiletica determina i contenuti e gli stilemi del discorso, attuandosi la fi-
nalità esegetica attraverso l’elaborazione esegetica delle letture bibliche associate alla festa
celebrata, e la finalità celebrativa attraverso procedimenti di attualizzazione e drammatiz-
zazione degli eventi biblici commemorati. Sulla base delle indagini finora condotte, la ti-
pologia dell’omelia patristica abbinata alle singole feste nel Typikon studita – a seconda,
cioè, che si trattasse di un commentario ai libri biblici o di un’omelia festiva – sembra avere
avuto un ruolo dirimente ai fini della scelta della varietà omiletica di riferimento da parte
del predicatore (Romoli 2016c, 2017a, 2017b).
Premessi, dunque, l’orientamento sui testi-modello patristici delle omelie cirilliane
e la centralità al loro interno della componente biblica mediata dalla liturgia e dai libri
liturgici, l’individuazione delle citazioni bibliche, innografiche, patristiche e bizantine che
ne costituiscono la trama e l’ordito, e la definizione delle loro funzioni costituiscono un
passaggio imprescindibile ai fini della piena e completa fruizione del messaggio predicato,
della ricostruzione dei meccanismi di funzionamento del discorso e di creazione di signi-
ficato attivi al suo interno (anche in riferimento alle associazioni suscitate dalla memoria
ecclesiale), e della sua (ri-)contestualizzazione liturgica4.
Obiettivo di questo lavoro è lo studio dello Слово по Пасцѣ, похваление въскресениꙗ,
и о арътусѣ, и о Фоминѣ испытаньи ребр господних (Omelia dopo la Pasqua, encomio della
resurrezione, e sul sacramento, e sulla prova di san Tommaso del costato del Signore; d’ora in
avanti Slovo po Pascě), variamente noto in letteratura come Slovo v novuju nedelju po Pasche
(Omelia nella domenica nuova dopo Pasqua), Slovo na Antipaschu (Omelia per l’Antipasqua)
e Slovo na Fominu nedelju (Omelia per la domenica di san Tommaso). L’indagine, concepita

3
Sull’omiletica bizantina si possono consultare Cunningham, Allen 1998, su quella occi-
dentale Kienzle 1993, De Reu 1993 e Valente Bacci 1993. Per la distinzione fra ‘omelia’ e ‘sermone’ si
rimanda a Sachot 1994.
4
Sulle funzioni delle citazioni bibliche, sul ruolo della liturgia e dei libri liturgici e sul con-
cetto di memoria collettiva applicato allo studio della civiltà letteraria slava ecclesiastica si veda-
no, oltre a Picchio 1977, Naumow 2004, Garzaniti, Romoli 2013, Garzaniti 2014, e Romoli 2016a,
2016b, 2017c (tutti con bibliografia).
Sulle varietà dell’omiletica di Kirill Turovskij 7

come contributo alla verifica della validità dei risultati finora raggiunti nell’ambito della
predicazione cirilliana, sarà orientata all’analisi dei contenuti e degli stilemi del discorso e
della loro stratificazione biblica, innografica, patristica e bizantina, al fine di accertarne la
finalità e determinarne la varietà omiletica5.

2. Analisi del testo


2.1. Dalla prefigurazione veterotestamentaria della festa al suo compimento escatologico
Il predicatore esordisce rilevando la necessità di un maestro e retore esperto per cele-
brare degnamente la festa del giorno, in una constatazione contenutisticamente prossima
all’incipit dell’omelia pseudo-crisostomica In s. Thomam apostolum sermo (= cpg 4574;
versio graeca in pg 59: 497-500, versio slavica in Sever’janov 1904: 508-513 e Zaimov, Ca-
paldo 1982-1983: 508-513)6:

Slovo po Pascě: Велика учителꙗ и мудра сказателꙗ требуеть церкви на украшение


праздника. Мы же нищи есмы словом и мутни умом, не имуще огнꙗ Свѧтаго Духа на
слажение душеполезных словес (Eremin 1957: 415).
In s. Thomam apostolum sermo: Законѹ ѹбо црькъвнѹѹмѹ, покарѣѧ сꙙ присꙙгохъ,
ꙗкоже моштьно стѫпа ти, величьствиѥм же ѹказаньꙗ сьделѣва, ѹкланꙗѭ сꙙ стра-
хы, и отъвьсѫдѣ съдръжѫ сꙙ, како сьрꙙштѫ се дѣꙗниѥ (Sever’janov 1904: 508).

5
Si adotta l’edizione Eremin 1957: 415-419, che si basa sul ms. gim, Čudov, 20, xiv sec., ff.
185v-190v (Eremin 1955: 351-352). Per un inventario delle opere attribuite a Kirill Turovskij, per notizie
sulla tradizione manoscritta e a stampa delle stesse e sulla sua vita si vedano Eremin 1955 e Tvorogov
1987 (con bibliografia). Fra gli studi dedicati alla produzione letteraria cirilliana che affrontano, fra le
altre, la questione del rapporto con le Scritture, si ricordano a titolo di esempio, oltre a Suchomlinov
1858, Rogačevskaja 1989a, 1989b, 1992, 1995, Franklin 1991, Naumow 1991, Dvinjatin 1995 e Lunde
2000, 2001. Le funzioni delle citazioni bibliche sono state studiate in particolare da E.B. Rogačevskaja
(1989b) e F.N. Dvinjatin (1995, 2000), che, pur cogliendo la centralità degli elementi biblico e liturgico
nell’omiletica cirilliana, gli riconoscono un ruolo perlopiù stilistico. Alla “stilistica” dell’“oratoria” di
Kirill Turovskij (e di Gregorij Camblak) è dedicato Begunov 1971. Lunde 2000 parla di una “retorica
della citazione” di Kirill Turovskij, in una trattazione apparentemente viziata da un’eccessiva astrazio-
ne: l’esegesi tipica delle Scritture, per esempio, è trattata alla stregua di una funzione delle citazioni
bibliche (la funzione cosiddetta “profetica”). Nell’ultimo decennio, la figura di Kirill Turovskij e le
sue opere sono state oggetto di nuovi studi. Si segnalano qui, senza pretesa di esaustività, le relazioni
a conferenze internazionali Ermakova, Kozoroz 2006, 2007, Mil’kov 2007 e Bedina 2013, e i saggi
Barankova 2009, 2011, Makeeva 2009а, 2009b, Mil’kov 2011 e Moščenskaja 2000, 2003 (questi ultimi
dedicati allo Slovo po Pascě studiato anche nel confronto con lo Slovo o polku Igoreve [Il canto della
schiera di Igor’]). Allo Slovo po Pascě è dedicato inoltre Kožinova 1987.
6
A quanto ci consta, l’identificazione dell’omelia In s. Thomam apostolum sermo come pos-
sibile fonte dello Slovo po Pascě compare qui per la prima volta. Sulle fonti patristiche dell’omelia ci-
rilliana hanno già scritto Suchomlinov 1858: 9-57, Vinogradov 1915: 106-117, Vaillant 1950, Begunov
1976, Thomson 1983: 66-67, 67-68 e Lunde 2001: 111-112.
8 Francesca Romoli

La constatazione di esordio apre all’identificazione della ricorrenza celebrata, indivi-


duata nella domenica di Antipasqua (exordium)7 – “о поновьленьи въскресениꙗ христова”
(Eremin 1957: 415) –, e alla sua contestualizzazione liturgica nel confronto con la Pasqua
che la precede (expositio), di cui, sulla falsariga del veličanie (μεγαλυνάριον) del mattutino
del giorno, è evocato e reso esplicito il significato simbolico8:

Slovo po Pascě: В минувшюю неделю свѧтыѧ Пасхи удивление бѣ небеси и устраше-


ние преисподним, обновление твари, избавьление миру, раздрушение адово и попрание
смерти, въскресение мертвым и погубьление прелестьныꙗ власти дьꙗволꙗ съпасение же
человѣческому роду христовымь воскресениемь, обнищание ветхому закону и порабоще-
ние суботѣ, обогащение церкви и въцарение недели (Eremin 1957: 415).
Mattutino di Antipasqua, veličanie: Величаемъ тѧ живодавче хр͠сте, насъ ради во адъ
сшедшаго, и съ собою всѧ воскр͠сившаго9.

I contenuti del veličanie sono rifusi nel senso dell’amplificatio, in una formulazione
che coniuga ispirazione innografica, patristica e bizantina. Così, i binomi ‘resurrezione-
rigenerazione del creato’ e ‘resurrezione-redenzione’ richiamano l’Oratio xliv. In nouam
dominicam di Gregorio di Nazianzo (= cpg 3010/44; versio graeca in pg 36: 607-622,
versio slavica in Aitzetmüller 1957: ff. 143v-148r)10: “[і͠сь] днсь распинаѥмь, третии же д͠нь
вьскрѣшаѥмь и прѣбываѥть вь вѣкь. Да азь сп͠сѹсе ꙍт прьвааго падениꙗ, взовѹсе и
бѹдѹ новаꙗ тварь” (Aitzetmüller 1957: f. 144r).
Il riferimento congiunto alla vittoria sulla morte, al rovesciamento della potenza del
diavolo e alla salvezza dell’umanità per mezzo della resurrezione è motivo condiviso con
l’omelia pseudo-crisostomica In s. apostolum Thomam (= cpg 5832; versio graeca in pg 59:
681-688 e Leroy 1967: 237-251, versio slavica in Sever’janov 1904: 498-508 e Zaimov, Capal-
do 1982-1983: 498-508), poi attribuita a Proclo di Costantinopoli (Homilia xxxiii): “ты
дьꙗвола попьра ѥлико хотѣ […] ты сьмрьть вь пльти ѹмрьтви […] ты въскрьсениѥмъ
въскръсеньѥ намъ понови” (Sever’janov 1904: 505)11.
La coppia ‘resurrezione-salvezza’ appare affine per relazione di contiguità ai bino-
mi ‘inchiodatura delle mani-estinzione dei peccati’ e ‘ferimento del costato-salvezza’, e

7
Le omelie cirilliane condividono con i sermoni didattico-morali ricompresi del corpus
kieviano la struttura delle orazioni classiche di genere epidittico (Romoli 2009: passim).
8
La festa di Antipasqua, altrimenti nota come Domenica dell’incredulità di san Tommaso,
è la seconda domenica di Pasqua (la domenica successiva alla Pasqua), che nella tradizione cattolica
corrisponde alla Domenica in albis, o Domenica dell’ottava di Pasqua.
9
Per il testo delle celebrazioni della Domenica di Antipasqua si attinge alla traduzione slava
del Triodio pasquale nell’edizione Triod’.
10
L’identificazione dell’Oratio xliv come fonte dell’omelia cirilliana si deve a M.I. Suchom-
linov (1858: 29-34).
11
L’identificazione dell’omelia In s. apostolum Thomam come fonte dell’omelia cirilliana si
deve ugualmente a Suchomlinov 1858: 20-22.
Sulle varietà dell’omiletica di Kirill Turovskij 9

genericamente equivalente all’antitesi ‘incarnazione di Dio-deificazione dell’uomo’ che


nell’omelia procliana ribadiscono la valenza salvifica dell’esperienza terrena e del sacrifi-
cio di Cristo: “видѣхомъ ѥмѹ рѫцѣ имаже съкрѹши сьмрьть, вь неюже приѧ острость
гвоздиинѫѭ, и чловѣчьскыѧ грѣхы поглади, видѣхомъ ѥго и свꙙтоѥ ребро, ꙗзвьшее
сꙙ насъ ради, и источивъшѹ крьвь и водѫ” (Sever’janov 1904: 499); “ты б͠г сы быстъ
чловѣкъ, да чловѣка сътвориши б͠а” (Sever’janov 1904: 506). Gli accenni alla legge
veterotestamentaria e alla festa del sabato potrebbero inoltre riecheggiarne la polemica
anti-giudaica12.
L’accenno alla festa del sabato si fa esplicito nell’accostamento antitetico dei giorni
del sabato e della domenica, con l’enunciazione del motivo della preminenza della dome-
nica sul sabato che ripropone, ripetendolo pressoché alla lettera, un passo degli Scholia in
Orationes Gregorii Nazianzeni di Niceta di Eraclea (= cpg 3027; versio graeca [parziale] in
Hoeschel 1587: 20-84, 243-333, pg 36: 908-913, 944-984 e Dyobouniotes 1950; fragmenta
in Constantinescu 1977: 170-197) all’Oratio xliv 13:

Slovo po Pascě: Тѣмь и праздьник суботѣ преста, а недѣли благодать дана бысть
въскресениꙗ ради, и царствуеть уже в днех недѣлꙗ, ꙗко в ту въскресе из мертвых.
Венчаем, братье, царицю днем и дары честны с вѣрою той принесем (Eremin 1957: 415).
Scholia: царствуетъ же бо днехъ недѣлꙗ, понеже воскресе въ ню Христосъ (Vinogradov
1915: 114).

La specificazione del significato simbolico della Pasqua, con il riferimento alla scon-
fitta del giogo diabolico sul mistero della croce – “В минувшюю недѣлю […] погубисѧ
бѣсовьское насилье крестным таинством” (Eremin 1957: 415) –, potrebbe infine essere in-
terpretata come un’allusione all’eresia di Ario, contro la quale è diretta l’omelia pseudo-
crisostomica In s. Thomam apostolum sermo (Sermo in sanctum Thomam apostolum, et con-
tra Arianos, deque eo qui tyrannidem in Thracia occupavit, et e medio sublatus est, cum ipse
Arianus esset; pg 59: 497-498).
La trattazione centrale dell’omelia verte interamente sulla ricorrenza dell’Antipasqua,
di cui ora si enuncia il significato di renovatio della resurrezione, in una comparatio con la
Pasqua che restituisce l’eco dell’Oratio xliv:

Slovo po Pascě: Не бо та же Пасха, но Антипасха наречетьсѧ. Пасха бо изъбавленье миру


есть от насильꙗ дьꙗволꙗ и свобождение мертвым от ада преисподнꙗго; Аньтипасха же
есть поновление въскресениꙗ (Eremin 1957: 415).

12
Sulla polemica anti-giudaica nell’omiletica cirilliana si veda Pereswetoff-Morath 2000.
13
L’identificazione della fonte si deve a V.P. Vinogradov (1915: 114). La versio slavica degli
scoli nicetani è interpolata nel testo dell’orazione nazianzena nel Sobornik edito a Mosca nel
1647. L’inaccessibilità dell’opera ha reso necessario il riferimento alle porzioni di testo offerte in
Vinogradov 1915. Fragmenta della versio slavica in traduzione romena e latina sono editi in Con-
stantinescu 1977.
10 Francesca Romoli

Oratio xliv: что ѹбо г͠леть, не бѣ ли ѹбо прьваꙗ н͠делꙗ поновлениѥ, ꙗже постѣ и нощи
и по просвѣшении, нь д͠ньшнии сѣи даждь любеи праздникы, и многа разь мышлꙗѥ
просвѣщениꙗ, ꙍна с͠псению бѣꙗше, а сии спсениꙗ родьство, ꙍна же ѥще межда гробѹ и
вьскрснию, сии же чистѣ вьторааго бытиꙗ (Aitzetmüller 1957: f. 145r).

Si considerano quindi, specularmente, la prefigurazione veterotestamentaria e le im-


plicazioni escatologiche della festa. L’impianto esegetico, fondato sull’alternanza fra va-
rietà tipica e varietà escatologica, conferisce al discorso un duplice livello di significato,
caricandolo di un senso letterale (storico) e di un senso spirituale (anagogico)14.
La dimensione profetica emerge in particolare dalla citazione diretta di Es 6,6 – “Се
избавлꙗю люди моꙗ от работы фараонꙗ и свобожаю ѩ от мученьꙗ приставьник его [да
понавлꙗеши день спасениꙗ твоего, вонь жь побѣдих враги твоꙗ, Израилю]” (Eremin 1957:
415-416) –, che, sottoposta a esegesi tipica ed escatologica, acquisisce il valore di un presa-
gio. L’evento storico della liberazione dei leviti dalla schiavitù di Egitto (senso storico) si
fa allora prefigurazione dell’Antipasqua intesa come renovatio della liberazione del mondo
dal principio e dalle potenze delle tenebre (senso anagogico): “Се нынѣ и мы понавлꙗем
празднующе побѣдныи день христов, вонь же спасение всему миру сдѣꙗ побѣдив начала
и въласти темныѩ” (Eremin 1957: 416).
Questa duplice prospettiva è ulteriormente sviluppata dall’interpretazione tipica del
successivo riferimento all’episodio della manna (cfr. Es 16,1-36), che nella sua parte conclu-
siva tradisce una palese ispirazione innografica, richiamando in particolare l’irmo (εἱρμός)
del mattutino, con i leviti che prefigurano i cristiani, la manna l’eucaristia, e la renovatio
della liberazione dalla schiavitù corporale quella della liberazione dalla schiavitù intel-
lettuale del faraone diavolo e della vittoria sul nemico (sensi storico e anagogico). Lungi
dall’essere imitata servilmente, l’innografia è asservita allo scopo del discorso attraverso un
meccanismo di variazione semantica che si realizza nel passaggio da “ѿ рабо́ты фараѡ́ни”
a “от работы мысленаго фараона дьꙗвола”:

Slovo po Pascě: Того ради и артусный хлѣб от Пасъхи и до нынꙗ в церкви свѧщен
бысть и днесь на иерѣйских версѣх ломитьсѧ за опрѣснокы, несеныꙗ на главах лев-
гит от Егупта по пустыни, дондеже и Чермьное море проидоша и ту того освѧтиша
богови, его же вкушающе сдрави бываху и врагом страшни. Они же убо изъбывше
телесныѩ работы, понавлꙗху празднующе день опрѣсночный; мы же Владыкою спа-
сени от работы мысленаго фараона дьꙗвола, понавлꙗем побѣдный на враги день
(Eremin 1957: 416).
Mattutino di Antipasqua, irmo: Поимъ вси людїе, ѿ горкїѧ работы фараꙍни ін͠лѧ
измѣншему, и во глубинѣ морстѣй ногами немокрыми наставльшему, пѣснь побѣдную:
ꙗкꙍ прослависѧ.

14
Sull’esegesi patristica si vedano almeno De Margerie 1980, Simonetti 1985, Bori 1987 e
Kannengiesser 2004. Sull’esegesi medievale resta fondamentale De Lubac 1959-1964.
Sulle varietà dell’omiletica di Kirill Turovskij 11

La polisemia del discorso, originata dall’approccio esegetico alle Scritture, si manife-


sta poi in una lunga comparatio che coniuga ispirazione innografica, patristica e bizantina,
e che, sulla falsariga dell’irmo del mattutino e dell’Oratio xliv, equipara con procedimento
allegorico la renovatio antipasquale alla primavera:

Mattutino di Antipasqua, irmo: Царица временъ, свѣтоносному дню, дней же ц͠рю


ꙗвственнѣйши дароносѧ.
Oratio xliv: цсрица врѣмень, цсрица д͠нии ꙗвлꙗѥть и дарь приносить ꙍт себе, все ѥже
доброѥ и красно зѣло (Aitzetmüller 1957: 147r).

I cieli si fanno allora metafora degli apostoli (cieli intellegibili), introducendo un rife-
rimento all’apparizione fra loro di Cristo nel giorno della resurrezione che ricorda il podo-
ben (προσόμοιον) del mattutino, alludendo al tema evangelico del giorno:

Slovo po Pascě: Нынѣ небеса просвѣтишасѧ, темных облак ꙗко вретища съвьлекъше,
и свѣтлымь въздухом славу господню исповѣдають. Не си глаголю видимаꙗ небеса,
нъ разумныꙗ, апостолы, иже днесь на Сионѣ к ним въшедша познаша Господа, и всю
печаль забывша и скорбь июдѣйскаго страха отвергъше, Свѧтымь Духомь осѣнившесѧ
въскресение христово ѧсно проповѣдають (Eremin 1957: 416).
Mattutino di Antipasqua, podoben: Страха ради іудейска, сокровеннымъ ѹченикꙍмъ,
и въ сїꙍнѣ собраннымъ, вшелъ еси къ нимъ б͠лже, и сталъ еси посредѣ ихъ, дверемъ
заключеннымъ радостотворѧй и показалъ еси имъ руцѣ, и пречистыхъ твоихъ ребръ
ꙗзвы, глаголѧ невѣрующему ѹченику: принеси руку твою и испытай, ꙗкꙍ самъ азъ
есмь, тебе ради пострадавый.

Sono resi oggetto di analogo procedimento interpretativo ora il sole e la luna suo sa-
tellite, che richiamano per relazione metaforica Cristo sole di giustizia e la legge vetero-
testamentaria, ora l’inverno, metonimicamente antitetico al sole, e il ghiaccio, espressione
metonimica dell’inverno, che richiamano invece, ancora per relazione metaforica, l’inverno
del peccato e del paganesimo e il ghiaccio della mancanza di fede e dell’incredulità di san
Tommaso – nuova allusione, quest’ultima, al tema evangelico del giorno –, assommando
ai sensi storico e anagogico il senso tropologico. Il senso tropologico informa anche la se-
quenza successiva, con la primavera, antiteticamente opposta all’inverno, che è espressione
metaforica della fede in Cristo, i venti di tempesta, metonimicamente antitetici alla prima-
vera, che a loro volta sono metafora dei pensieri peccaminosi, e la terra che lo è dell’essenza
terrena. L’intero passo restituisce l’eco dell’innografia del mattutino (irmo ed exapostilarion
[ἐξαποστειλάριον]), a tratti sottoposta a rielaborazione esplicativa, come nel caso del passag-
gio da “мрачную бурю грѣха нашегꙍ” a “бурнии же вѣтри – грѣхотворнии помыслы”:

Slovo po Pascě: Нынѣ солнце красуꙗсѧ к высотѣ въсходить и радуꙗсѧ землю огрѣваеть,
взиде бо нам от гроба праведное солнце Христос и всѧ вѣрующаѩ ему спасаеть. Нынꙗ
луна с вышнꙗго съступивши степени болшему свѣтилу честь подаваеть; уже бо ветъ-
12 Francesca Romoli

хий закон по Писанию с суботами преста и пророки христову закону честь подаеть. Нынꙗ
зима грѣховнаꙗ покаꙗниемь престала есть и лед невѣриꙗ богоразумиемь растаꙗсѧ;
зима убо ѧзычьскаго кумирослужениꙗ апостолскимь учениемь и христовою вѣрою пре-
стала есть, лед же Фомина невѣриꙗ показаниемь христов ребр растаꙗсѧ. Днесь весна
красуетьсѧ оживлꙗющи земное естьство, и бурьнии вѣтри тихо повѣвающе плоды гобь-
зують, и землꙗ сѣмена питающи зеленую траву ражаеть. Весна убо краснаꙗ есть вѣра
христова, ꙗже крещениемь поражаеть человѣческое паки естьство; бурнии же вѣтри –
грѣхотворнии помыслы, иже покаꙗниемь претворьшесѧ на добродѣтель душеполезныѩ
плоды гобьзують; землꙗ же естьства нашего, аки сѣмѧ слово божие приемши и страхом
его болꙗщи присно, дух спасениꙗ ражаеть (Eremin 1957: 416)15.
Mattutino di Antipasqua, irmo: Днесь весна душамъ, зане х͠рстосъ ѿ гроба ꙗкоже
солнце возсїѧвъ тридневный, мрачную бурю ѿгна грѣха нашегꙍ. Того воспоимъ, ꙗкꙍ
прослависѧ.
Mattutino di Antipasqua, exapostilarion: Днесь весна благоухаетъ, и новаѧ тварь ли-
куетъ. Днесь взимаютсѧ ключи дверей и невѣрїѧ Ѳꙍмы друга вопїюща: гс͠дь и б͠гъ
мой.

Le due sequenze successive identificano, sempre per traslato, ora gli agnelli con i miti,
i vitelli con gli adoratori di idoli dei paesi infedeli e i pastori con i maestri del gregge di Cri-
sto, ora, invece, gli alberi con i cristiani, i fiori con le virtù e i giardinieri con i prelati e gli
igumeni, sviluppando a loro volta i sensi storico, tropologico e anagogico – quest’ultimo
reso manifesto da un riferimento al rampollo di Iesse (cfr. Rm 15,12) –, in un’alternanza di
immagini floreali e faunistiche. A queste succedono due sequenze metaforiche non esplici-
tate che richiamano da un lato l’aratore della parola, i buoi [della parola], il giogo spirituale,
l’aratro della croce16, la briglia della penitenza e il seme spirituale, e dall’altro lato i fiumi
apostolici, i pesci pagani, i pescatori di anime e le reti della Chiesa. L’ape operosa che co-
struisce il favo del miele, la cui dolcezza è evocata anche nell’innografia del mattutino, con
la sua saggezza rappresenta invece i monaci17:

15
L’antitesi ‘sole-luna’ e il binomio ‘luna-legge veterotestamentaria’ trovano equivalenza nel-
lo Slovo o zakone i blagodati (Sermone sulla legge e sulla grazia) del metropolita Ilarion: “Отиде бо
свѣтъ луны, солнцю въсиавъшу, тако и законъ, благодѣти ꙗвльшисѧ, и студеньство нощьное по-
гыбе, солнечьнѣи теплотѣ землю съгрѣвши” (Moldovan 1997: 30). Nello Slovo compare inoltre l’ul-
timo versetto della pericope Gv 1,1-17 che si proclamava durante la liturgia di Pasqua e Antipasqua
(Aken’tev 2005: 122-123), la cui presenza sembra tuttavia piuttosto casuale, considerata l’estrema
varietà, per rilevanza liturgica, dei riferimenti biblici che confluiscono nel testo.
16
Sul simbolismo dell’aratro come croce e sulla sua diffusione nell’omiletica pasquale si veda
Danielou 1961: 95-107.
17
L’immagine del monaco come ape “saggia/sapiente” compare già, seppur in forma di simi-
litudo, nella Vita Antonii di Atanasio di Alessandria (3,4) e nelle Istituzioni cenobitiche di Giovanni
Cassiano (5,4) (Atanasio 2007: 86, nota 23). Sulla diffusione della metafora dell’ape nella letteratura
monastica si può consultare Penco 1964: 31-34.
Sulle varietà dell’omiletica di Kirill Turovskij 13

Нынꙗ новоражаеми агньци и уньци быстро путь перуще скачють и скоро к матерем
възвращающесѧ веселꙗтьсѧ да и пастыри свирꙗюще веселиемь Христа хвалꙗть. Агньца
глаголю кроткиꙗ от ѧзык люди, а уньца – кумирослужителꙗ невѣрных стран, иже хри-
стовымь въчеловѣчениемь, и апостольскимь учениемь и чюдесы, скоро по закон емьшесѧ,
к свѧтѣй церкви възвратившесѧ, млеко си учениꙗ съ суть, да и учители христова ста-
да о всѣх молꙗщесѧ Христа Бога славꙗть, всꙗ волкы и агньца в едино стадо събрав-
шаго. Нынꙗ древа лѣторасли испущають, и цвѣты благоуханиꙗ процвитають, и се
уже огради сладъку подавають воню, и дѣлатели с надежею тружающесѧ плододавца
Христа призывають. Бѣхом бо преже аки древа дубравнаꙗ неимущи плода, нынꙗ же
присадисѧ христова вѣра в нашемь невѣрьи, и уже держащесѧ корене Иосѣева, ꙗко цвѣти
добродѣтели пущающе, райскаго паки житиꙗ о Христѣ ожидають, да и свѧтители о
церкви тружающесѧ от Христа мьзды ожидають. Нынꙗ ратаи слова словесныѩ уньца
к духовному ꙗрму приводꙗще, и крестное рало в мысьленых браздах погружающе, и
бразду покаꙗниꙗ прочертающе, сѣмѧ духовное всыпающе, надежами будущих благ
веселꙗтьсѧ. Днесь ветхаꙗ конець приꙗша, и се быша всꙗ нова въскресениꙗ ради. Нынꙗ
рѣки апостолскиѩ наводнꙗютьсѧ, и ѧзычныѩ рыбы плод пущають, и рыбари глубину
божиꙗ въчеловѣчениꙗ испытавше, полну церковную мрежю ловитвы обрѣтають; Рѣками
бо – рече пророк –расꙗдетьсѧ землꙗ, узрꙗть и разболꙗтьсѧ нечестивии людье. Нынѣ
мнишьскаго образа трудолюбиваꙗ бчела свою мудрость показающи всꙗ удивлꙗеть;
ꙗко же бо они в пустынꙗх самокормиемь живуще аньгелы и человѣкы удивлꙗють, и
си на цвѣты възлѣтающи медвены сты стварꙗють, да человѣком сладость и церкви
потребнаꙗ подасть (Eremin 1957: 416-417).
Mattutino di Antipasqua, irmo: Желчи ѹбꙍ вкуси, древнее вкушенїе исцѣлѧѧ, нынѣ
же съ сотомъ меда, просвѣщенїе подаѧ х͠рстсъ прао͠цу, и свое сладкое причастїе.

La successiva descrizione dei canti di lode che i religiosi, definiti in metafora uccelli
dal dolce canto che nidificano presso gli altari del Signore (Sal 84[83],4), innalzano inces-
santemente a Dio nel giorno della festa, con la notizia del passaggio a nuova vita di profeti e
patriarchi, apostoli e presuli, martiri e confessori, imperatori e principi, monache e monaci,
penitenti ed eremiti, esaurisce la comparatio fra la primavera e la renovatio antipasquale:

Нынꙗ всꙗ доброгласныѩ птица церковных ликов гнѣздꙗщесѧ веселꙗтьсѧ. И пьтица


бо, рече пророк, обрѣте гнѣздо себѣ олтарꙗ твоꙗ и свою каꙗждо поющи пѣснь, славꙗть
Бога гласы немолчьными. Днесь поновишасѧ всѣх свѧтых чинове, нову жизьнь о
Христѣ приимъше: пророци и патриарси трудившеисѧ в райстѣй почивають жизни, и
апостоли с свѧтители пострадавъшеи прославлꙗютьсѧ на небеси и на земли, мучени-
ци и исповѣдници за Христа претерпѣвъше страсть с ангелы вѣнчаютьсѧ; цесари и
кнѧзи послушаниемь спасаютьсѧ; дѣвьствении лици и иночъстии състави, свой крест
терпѣниемь понесъше, первѣнцю Христу от землꙗ на небо послѣдують; постьници и
пустыньници, от руки господнꙗ труда мьзду приимъше, в горнемь градѣ с свѧтыми
веселꙗтьсѧ (Eremin 1957: 417).

Come si accennava, parallelamente all’influsso dell’innografia del mattutino, que-


sta comparatio tradisce un’indubbia ispirazione patristica complessiva, rielaborando nel
14 Francesca Romoli

senso dell’interpretazione allegorica la descrizione della primavera offerta nell’Oratio


xliv. Dalla descrizione nazianzena discendono in particolare le immagini dei cieli che
si rasserenano, del sole che si eleva e della luna, dell’inverno, dei venti e della terra, della
gioia degli agnelli e della melodia intonata dai pastori, dell’effluvio dei giardini e dei
contadini che invocano colui che concede i raccolti, del giogo e dei buoi, dell’aratro e
della briglia, dei fiumi e dei pescatori che ne scrutano le profondità, dell’ape operosa e
saggia che costruisce il favo del miele, degli uccelli che nidificano e delle lodi innalzate
da ognuno a glorificazione di Dio18:

н͠нꙗ н͠бо свѣтлѣѥ, н͠нѣ сл͠нце высочаѥ и златоꙍбразнѣѥ, н͠нꙗ лѹнныи крѹгь
позрачнѣі, и звѣздныи ликь чистѣи, н͠нꙗ поморних вльни изливаютсе, сльнцѹ же
ꙍблакь, вьздꙋхѹ же вѣтри, земли садове, садове же вьзорꙋ, н͠нꙗ ѹбо источници
свѣтлѣѥ истѥчют, н͠нꙗ же паче рѣкы силнѣѥ, зимныихь сьѹзь раздрѣшившесе, и
травьнци бл͠говонѥть, и садни ничють, и жнѥтсе трава, и агньци играють ѹ зе-
лень нивь, н͠нꙗ же корабль ꙍт пристанища изводитсе сь ꙗдрь, и сиимь ѥси иже
паче чловѣколюб͠цемь и ꙗдромь ꙍкрилꙗѥть, играѥть делфинь риба морьскаа,
юже прозываѥть свиниꙗ, сии бо зімѣ не вьсходиить, нь вь веснѣ начнеть метатисе
врьхѹ воды, вьздыхаѥ аки сладко зѣло и вьзпѹщаѥмь, и ꙍтпѹщаѥ корабльни-
кы з благод͠шьствомь, н͠нꙗ ратаи рало погльблꙗѥть, горѣ вьзираѥ и плододавца
призываѥ, и вь ꙗрмо приводитсе воль ꙍрныи, и прочрьтаѥть сладкѹю браздѹ, и на-
деждами веселитсе, н͠нꙗ же пастѹхь и краварь сьстраꙗють свирꙗли, и пастѹшьскыи
свиреще глас, и садовии камениѥмь веснѵютсе, н͠нꙗ же садь градарь дѣлаѥть, и
имелникь трьсти твориить и вьзираѥть вѣнꙗ, и прѣлѹкѹѥть перо птице, и рыбарь
глѹбинѹ прозриить, и мрѣжю очищаѥть и на камени сѣдить, н͠нꙗ ѹбо дѣлолюбиваꙗ
пчела крило привлькши и ꙍт вощинь вьставши свою мѹдрость показаѥть, и трав-
никы попарꙗѥть и збираѥть цвѣты, сии же здѣловаѥть сьтнѥ о шести ѹгьль и
сѹпротивь лежещеѥ сьтнѥ истькѹщии, преможе ѹглль прѣмѣнꙗѥщіи, дѣло вькѹпь
доброты и незблажиениꙗ, сии же медь вь кровѣхь полагаѥть, и здѣловаѥть
набдещюмѹ плод сладкь и не ꙍрань, ꙗкоже пдобно и намь х͠стовамь пчеламь, и
такѹ приѥмше мѹдрость и лѹдѣꙗниꙗ притьчю, н͠нꙗ же гнѣздо птица везеть,
ꙍва ж ходить, а дрѹгаꙗ веселꙗѥтьсе, ꙍва ꙍкрсть паріть, а дрѹгаа ꙍглашаѥть
лѹгь и ѹвещаваѥть чловѣка, вси бо б͠а поють и славеть вси гласы нѥизг͠ланьны
(Aitzetmüller 1957: ff. 147r-147v).

Il procedimento allegorico che presiede alla rielaborazione cirilliana di questa de-


scrizione sembra ispirato alle antitesi ‘primavera spirituale/dell’anima-primavera del
corpo’ е ‘primavera visibile-primavera invisibile’ con cui termina l’orazione nazianzena:
“весна д͠ховнаꙗ, весна д͠шевнаꙗ, весна тѣлесемь, весна краснаа, весна видимаꙗ, весьна
невидимаꙗ” (Aitzetmüller 1957: f. 148r). Queste antitesi, infatti, echeggiano nell’asserto
introduttivo della comparatio cirilliana secondo cui la festa di Antipasqua segna la fine del

18
Le descrizioni cirilliana e nazianzena della primavera sono poste a confronto in Vinogra-
dov 1915: 106-117, Vaillant 1950 e Begunov 1976.
Sulle varietà dell’omiletica di Kirill Turovskij 15

vecchio e l’inizio del nuovo in ciò che è visibile e in ciò che è invisibile – “Днесь ветхаꙗ
конець приꙗша, и се быша всꙗ нова, видимаꙗ же и невидимаꙗ” (Eremin 1957: 416) –,
portando l’autore a giustapporre i piani letterale e traslato19.
Se l’orazione nazianzena offre alla comparatio cirilliana un’ispirazione complessiva,
gli Scholia nicetani sono fonte di ispirazione letterale. Così il riferimento alle nubi plum-
bee con cui si apre la comparatio – “темных облак ꙗко вретища съвьлекъше” (cfr. supra)
– ripete lo scolio “темныхъ облакъ, ако одежды черны, совлекшесѧ” (Vinogradov 1915:
115), variandone la similitudo. Similmente, la descrizione del dolce effluvio dei giardini – “и
се уже огради сладъку подавають воню” (cfr. supra) – ricalca lo scolio “и мѣста цвѣтна
и овощницы сладкую воню посылаютъ” (Vinogradov 1915: 115), alterandone il soggetto.
La comparatio fra la primavera e la renovatio antipasquale, e con essa la tractatio thema-
tis, si conclude con un’esortazione implicita per l’uomo nuovo a portare nuovi doni a Dio,
che, richiamando il monito di Es 34,20 e la promessa di 1Sam(1Re), 2,30 che demarcano la
fine dell’expositio – “Не ꙗвлꙗйсѧ предо мною тощь в день праздника […] Славꙗщаꙗ бо
мѧ – рече – прославлю” (Eremin 1957: 415) –, chiude idealmente il cerchio della trattazione
centrale, aprendo nei toni all’admonitio.

2.2. Il vangelo del giorno: la pericope giovannea sull’incredulità di san Tommaso


L’esortazione ad ascendere mentalmente al monte Sion scandisce il passaggio all’ad-
monitio, che offre la drammatizzazione del tema biblico associato alla festa di Antipasqua –
l’incredulità di san Tommaso – così come rappresentato nel vangelo del giorno, Gv 20,19-
31 (Garzaniti 2001: 484, Pentkovskij 2001: 262, cfr. Mateos 1963: 108-109), in una possibile
eco dell’omelia procliana, che presenta una drammatizzazione analoga (Sever’janov 1904:
498-506). La vicenda, introdotta dalla descrizione dell’apparizione di Cristo, con il sa-
luto di pace rivolto ai discepoli e la loro reazione di giubilo (Gv 20,19-20) – “апостоли
събрашасѧ и сам Господь Исус Христос, затвореным дверем, посредѣ их обрѣтесѧ и рек Мир
вам исполни ѩ радости” (Eremin 1957: 417) –, è interamente ripercorsa nel suo svolgimen-
to, dalla constatazione dell’assenza di Tommaso (Gv 20,24) – “Не бѣ бо Фома в первый
приход с ученики видѣл Господа” (Eremin 1957: 417) –, alla richiesta che egli avanza di una
prova tangibile (Gv 20,25) – “Аще не вложю руки моеꙗ в ребра его и в ꙗзву гвоздиньную
перста моего, не иму вѣры” (Eremin 1957: 417) –, fino al dialogo intrattenuto con Cristo.
Il dialogo restituisce, in chiave drammatizzata, il laconico scambio di battute di Gv
20,27-28, elaborandolo sulla base di una catena di associazioni bibliche. Nella parenesi
rivolta a Tommaso tali associazioni sono scandite (perlopiù in diadi) dall’alternanza rego-
lare fra esortazioni e moniti ripetuti. Così, l’esortazione alla prova (Gv 20,27) – “Принеси
руку твою и вижь прободение ребр моих” (Eremin 1957: 417) –, che apre la parenesi, è

19
La comparatio antitetica è espediente diffuso nella tradizione patristica ed è variamente
rappresentata sia nell’omelia procliana In s. apostolum Thomam sia nell’omelia pseudo-crisostomica
In s. Thomam apostolum sermo.
16 Francesca Romoli

avvalorata dal riferimento alla prefigurazione veterotestamentaria dell’incarnazione (Gv


19,34, cfr. Ez 47,1, Zc 13,1) e al congedo dal mondo di Simeone dopo la vista del Messia
(cfr. Lc 2,25-35); il monito a non essere incredulo (Gv 20,27) – “не буди невѣрен” (Eremin
1957: 418) – dal riferimento al progetto di Erode (Mt 2,8, cfr. Mt 2,13-18) e alla prefi-
gurazione veterotestamentaria del suo fallimento (Pr 1,28); l’esortazione a credere (cfr.
Gv 20,27) – “Вѣруй ми” (Eremin 1957: 418) – dal riferimento all’apparizione di Mamre
(cfr. Gen 18,1-8) e alla distruzione di Sodoma (Gen 19,1-29); il monito (ripetuto) a non
essere incredulo dal riferimento ai vaticini di Valaam e alla sua morte (cfr. Nm 22-24.31);
l’esortazione (ripetuta) a credere dal riferimento al sogno di Giacobbe (cfr. Gen 28,11-
15); il monito (nuovamente ripetuto) a non essere incredulo dal riferimento, di probabile
ascendenza innografica (cfr. mattutino di Antipasqua, irmo), a Nabucodònosor e all’ado-
razione della statua d’oro (cfr. Dn 3); l’esortazione (nuovamente ripetuta) a credere dal
triplice riferimento (scandito dalla ripetizione di “Аз есмь”) alle visioni da parte di Isaia di
Dio in trono (cfr. Is 6,1), di Ezechiele del carro di Dio (cfr. Ez 1) e di Daniele del figlio di
uomo (cfr. Dn 7,13-14). La parenesi termina con una rinnovata esortazione alla prova che
completa l’esortazione iniziale (Gv 20,27) – “Принеси, о близнече, твой перъст” (Eremin
1957: 418) – ed è integrata dalle espansioni “и вижь руцѣ мои […] вижь и нози мои” (Ere-
min 1957: 418) che introducono il riferimento alle guarigioni miracolose di ciechi (cfr. Mt
9,27-31), sordi (Mc 7,31-37) e muti (Mt 9,32-33), alle abilità prodigiose di camminare sulle
acque (cfr. Mt 14,22-33) e librarsi in aria, alla discesa agli inferi (cfr. At 2,31) e al viaggio a
Emmaus con Cleopa e Luca (cfr. Lc 24,13-53).
La replica di Tommaso è ispirata alla sua professione di fede (Gv 20,28) – “Вѣрую,
Господи, ꙗко ты еси сам Христос Бог мой” (Eremin 1957: 418) –, aprendosi prima a una
serie di riferimenti generici alla vicenda terrena di Cristo e all’annuncio profetico della sua
incarnazione, poi alla testimonianza oculare resa su di lui, espressa da moduli di ripetizione
speculari a quelli dell’invito alla prova che la suscita. Così, la sua fede è fede nel Dio dei
profeti illuminati dallo Spirito, nel Dio prefigurato dalla legge di Mosè, respinto dai farisei,
invidiato dai giudei, crocifisso sotto Ponzio Pilato e risorto. La testimonianza di Tommaso
scaturisce in particolare dalla prova del costato di Cristo – “вижю ребра” (Eremin 1957:
418) –, dal quale uscirono sangue e acqua (cfr. Gv 19,34) per la purificazione della terra e la
santificazione dell’uomo, delle sue mani – “вижю руцѣ твои” (Eremin 1957: 418) –, artefici
della creazione del mondo e dell’uomo (cfr. Gen 1-2), e dei suoi piedi – “вижю нози твои”
(Eremin 1957: 419) –, elemento ricorrente nelle vicende della peccatrice perdonata (cfr. Lc
7,36-50), della resurrezione del figlio della vedova di Nain (cfr. Lc 7,11-17) e della guarigione
dell’emorroissa (cfr. Mt 9,20-22).
L’enumeratio delle partes corporis Christi e dei suoi miracoli restituisce l’eco dell’ome-
lia procliana: “видѣхомъ ѥмѹ рѫцѣ […] видѣхомъ ѥго и свꙙтоѥ ребро, ꙗзвьшее сꙙ насъ
ради, и источивъшѹ крьви и водѫ” (Sever’janov 1904: 499); “не бо и ни блѫдницꙙ съ
слъзами к тебѣ прибѣгъшꙙ к тебѣ не отъбѣже, ни разбоиника остави быти ꙗкъ бѣ, ни
мытара отъврьже покаѭшта сꙙ, ни гонителꙗ отъгъна познавьша твоѥ цѣсарьствиѥ”
(Sever’janov 1904: 507).
Sulle varietà dell’omiletica di Kirill Turovskij 17

La replica di Cristo, con l’esortazione a credere senza prove (Gv 20,29) – “Ꙗко видѣв
мѧ и вѣpова, блажени невидѣвшеи в мѧ вѣровавшеи” (Eremin 1957: 419) – pone fine
al dialogo. Questa esortazione è amplificata dall’accumulatio parenetica conclusiva, che,
esplicitando il valore salvifico del sacrificio di Cristo, manifesta ulteriormente, ribaden-
dolo, il duplice livello di significato del discorso, con ciò chiudendo idealmente il cerchio
aperto dalla tractatio thematis.

3. Citazioni bibliche e reminiscenze innografiche


La disamina dei contenuti dello Slovo po Pascě testimonia la centralità della compo-
nente biblica al suo interno, in una varietà e stratificazione di ‘funzioni’ (le funzioni erme-
neutica, pragmatica e liturgica; cfr. § 1, Romoli 2016c) che presiedono ai meccanismi di
costruzione e funzionamento del testo. Così, le citazioni di Es 6,6 ed Es 16,1-36 (tractatio
thematis) istituiscono un nesso fra l’apparizione di Cristo ai discepoli, la sua prefigurazione
veterotestamentaria e il compimento escatologico dell’evento, fondando la polisemia del
discorso e rendendola manifesta, con un’evidente funzione ermeneutica (§ 2.1).
La drammatizzazione del tema biblico associato alla festa, con l’attualizzazione dei con-
tenuti del vangelo di Antipasqua (admonitio), esplicita la finalità celebrativa del discorso, de-
terminandone l’appartenenza alla varietà omiletica festiva (§ 2.2) (specularmente, l’elabora-
zione esegetica del tema liturgico è procedimento prevalente nelle omelie di varietà esegetica;
cfr. § 1, Romoli 2017a, 2017b). Proprio in virtù del suo ruolo nelle celebrazioni, la pericope Gv
20,19-31 esercita nel testo una chiara funzione liturgica. Questa funzione è condivisa dal rife-
rimento all’apparizione di Cristo che apre la comparatio fra la primavera e la renovatio antipa-
squale, e dal successivo riferimento all’incredulità di san Tommaso (tractatio thematis) (§ 2.1).
Il saluto di pace di Gv 20,19 e l’esortazione alla prova di Gv 20,27, con il monito a non
essere incredulo e l’esortazione a credere, palesano la funzione anche pragmatica della pe-
ricope Gv 20,19-31, che, rivolta direttamente all’uditorio, attua il potenziale metamorfico
delle Scritture, esplicandosi a livello attuativo (§ 2.2). Condividono tale funzione, fra le al-
tre, le citazioni di Es 34, 20 e 1Sam(1Re), 2,30 (expositio), che concorrono all’attuazione del
potenziale metamorfico delle Scritture (livello attuativo), il riferimento all’episodio della
strage degli innocenti (cfr. Mt 2,13-18), che è funzionale all’argomentazione che incoraggia
ad agire (livello argomentativo), e i riferimenti all’apparizione di Mamre (cfr. Gen 18,1-8)
e alla distruzione di Sodoma (cfr. Gen 19,1-29) (tutti nell’admonitio), che hanno invece un
ruolo esemplificativo (livello didattico-esemplificativo) (§ 2.1-2.2)20.

20
La funzione pragmatica delle citazioni bibliche attua il potenziale metamorfico delle
Scritture. Nell’ambito di tale funzione si possono distinguere diversi livelli di uso, che variano a se-
conda del ‘grado di partecipazione’ delle citazioni bibliche alla realizzazione dello scopo didattico-
morale dell’azione comunicativa. Le citazioni, cioè, possono presentare un’esortazione che il pre-
dicatore rende attuale adattandola al contesto del discorso e rivolgendola direttamente all’uditorio
(livello attuativo), possono contribuire a formulare l’argomentazione che incoraggia e persuade ad
18 Francesca Romoli

La trama biblica dello Slovo po Pascě si intreccia con un ordito innografico che ne con-
ferma l’orientamento sulle celebrazioni liturgiche, recandone ulteriore evidenza. Remini-
scenze innografiche evocative del mattutino del giorno ricorrono in particolare nell’expo-
sitio, con l’enunciazione del significato simbolico della Pasqua che riecheggia il veličanie,
nella tractatio thematis, dove l’allusione all’apparizione di Cristo richiama il podoben, men-
tre l’interpretazione dell’episodio della manna, l’immagine del sole, la sequenza metaforica
che ne discende e l’immagine del favo del miele rimandano all’irmo, e nell’admonitio, dove
il riferimento a Nabucodònosor ricorda nuovamente l’irmo (§ 2.1-2.2).

4. Echi patristici e bizantini


Per la domenica di Antipasqua il Typikon studita raccomandava la lettura di un’ome-
lia crisostomica dedicata alla festa: “и ны(н) б(о) по се(м) чьтеть (с) сло(в) б͠гсловь(ц) И
обновлениꙗ почь(т)те” (Pentkovskij 2001: 261). Malgrado i tentativi finora volti all’iden-
tificazione di tale omelia, condotti sia su omeliari e cataloghi di manoscritti slavi sia sul
corpus patrologico greco, non abbiano prodotto esiti apprezzabili, la disamina della lette-
ratura patristica e bizantina sulla festa di Antipasqua nel confronto con l’omelia cirilliana
ha permesso di documentare l’influsso su di essa dell’Oratio xliv nazianzena, degli Scholia
nicetani, dell’omelia procliana In s. apostolum Thomam e dell’omelia pseudo-crisostomica
In s. Thomam apostolum sermo.
Le affinità, di vario grado, riscontrabili fra l’omelia cirilliana e le sue fonti patristiche
e bizantine investono pressoché tutte le partes orationis: nell’exordium si scorgono infatti
tracce dell’incipit dell’omelia pseudo-crisostomica; nell’exposito si rilevano un’eco dell’o-
razione nazianzena nei binomi ‘resurrezione-rigenerazione del creato’ e ‘resurrezione-re-
denzione’, dell’omelia procliana nella sequenza ‘resurrezione-rovesciamento della potenza
del diavolo-vittoria sulla morte-salvezza dell’umanità’, nel binomio ‘resurrezione-salvezza’
e nel riferimento alla legge veterotestamentaria e alla festa del sabato, degli Scholia na-
zianzeni nell’asserto sulla supremazia della domenica, e dell’omelia pseudo-crisostomica
nell’accenno alla sconfitta del giogo diabolico sulla croce; nella tractatio thematis emerge
l’influsso delle comparationes fra Pasqua e Antipasqua e fra primavera e Antipasqua dell’o-
razione nazianzena, e degli Scholia nicetani nella descrizione delle nubi e dei giardini;
l’admonitio, infine, è debitrice dell’omelia procliana nella drammatizzazione dell’episodio
dell’incredulità di san Tommaso e nell’enumeratio delle partes corporis Christi e dei suoi
miracoli (§ 2.1-2.2).
Pur nelle difficoltà poste dall’identificazione del patrimonio patristico e bizantino
disponibile in traduzione slava e circolante in epoca kieviana, e considerate le implicazio-

agire (livello argomentativo), a esplicare tale argomentazione (livello didattico-esplicativo), ovvero


a esemplificarla (livello didattico-esemplificativo) (Romoli 2014). Sulla finalità pragmatica della
letteratura slava ecclesiastica si vedano Seemann 1993, Garzaniti 1998, 2014, e, con particolare rife-
rimento all’omiletica di epoca kieviana, Romoli 2009.
Sulle varietà dell’omiletica di Kirill Turovskij 19

ni di metodo che ne derivano21, riteniamo che le analogie fra l’omelia cirilliana e le opere
patristiche e bizantine a cui si è fatto riferimento si prestino a essere ragionevolmente in-
terpretate come l’esito del ricorso effettivo a tali fonti, acquisite attraverso un processo di
ri-creazione che non si esaurisce nella ricezione di singole lezioni, ma si manifesta anche e
soprattutto nella rifusione di tematiche, elementi e componenti che rinviano a una deter-
minata tradizione patristica e bizantina, oltre che, più in generale, nell’imitatio funzionale
di una specifica tipologia testuale.

5. Conclusione e nuove ipotesi di ricerca


I risultati prodotti dall’analisi dello Slovo po Pascě recano ulteriore conferma della
specificità dell’omiletica cirilliana in seno alla predicazione slava orientale dei primi secoli,
contribuendo a una più puntale definizione dei meccanismi che ne sono responsabili. La
specificità di questa omelia risiede in particolare nella centralità della pericope Gv 20,19-
31, associata alla festa di Antipasqua insieme al tema dell’incredulità di san Tommaso, e
nell’approccio a tale pericope, che manifesta la finalità celebrativa del discorso, determi-
nandone l’appartenenza alla varietà omiletica festiva. Specularmente, l’approccio esegetico
a citazioni apparentemente svincolate dalla liturgia – Es 6,6, Es 16,1-36 – genera un duplice
livello di significato al suo interno, accostando al senso storico i sensi anagogico e tropolo-
gico (§ 2.1-2.2). Il tipo di approccio al vangelo, e con esso la finalità e la tipologia dell’opera
sembrano discendere dall’imitatio funzionale della varietà e del funzionamento dell’omelia
patristica associata alla festa celebrata, che in questo caso coincide appunto con un’omelia
festiva (§ 4). La specificità dell’omelia cirilliana si riflette nella varietà e nella stratificazione
delle funzioni delle citazioni bibliche al suo interno. L’opera, che con i sermoni didattico-
morali di epoca kieviana condivide le funzioni ermeneutica e pragmatica delle citazioni
bibliche, si discosta infatti da quelli per la particolare funzione liturgica espletata dalla
lettura evangelica del giorno, che, resa oggetto di drammatizzazione, manifesta la finalità
celebrativa del discorso, in un rapporto con le celebrazioni reso stabile da un reticolo di
reminiscenze innografiche (§ 3).
Il prisma della liturgia (e della memoria ecclesiale) rifrange parimenti la letteratu-
ra patristica e bizantina sulla festa di Antipasqua, riverberando nello Slovo po Pascě echi
dell’Oratio xliv. In nouam dominicam di Gregorio di Nazianzo, degli Scholia in Orationes
Gregorii Nazianzeni di Niceta di Eraclea, dell’omelia In s. apostolum Thomam di Proclo
di Costantinopoli e dell’omelia pseudo-crisostomica In s. Thomam apostolum sermo (§ 4).
L’omelia cirilliana coniuga così ispirazione innografica, patristica e bizantina, intessendo
elementi derivati da queste tradizioni in intrecci complessi. L’influsso concomitante dei
suddetti testi-fonte induce ad avanzare l’ipotesi di una loro possibile compresenza sui fogli

21
Alle questioni metodologiche sollevate dall’identificazione delle fonti patristiche delle
omelie cirilliane e più in generale delle prediche di epoca kieviana dedicheremo uno studio specifi-
co, che è attualmente in fase di preparazione.
20 Francesca Romoli

di uno stesso omeliario. I loro echi concomitanti potrebbero cioè testimoniare implicita-
mente la composizione dell’ipotetico omeliario (ovvero di altra silloge compilata sulla base
di fonti patristiche e bizantine tradotte) da cui sarebbero stati derivati, offrendo, almeno
in linea teorica, tracce utili ai fini dell’identificazione del tipo di raccolta (se non addirit-
tura dell’esemplare concreto) a cui il predicatore avrebbe avuto accesso. Le prime verifiche
condotte su alcuni omeliari slavi, fra i quali il codice Suprasliensis e l’omeliario Mihanović,
che tramandano la versio slavica rispettivamente delle due omelie pseudo-crisostomiche
e dell’omelia nazianzena, hanno però dato esito negativo. Nondimeno, queste tre opere
sono attestate congiuntamente in un omeliario palinsesto di origine italo-greca (contenen-
te omelie per il periodo dal giovedì santo all’ascensione) – il Vaticano greco 2061A –, poi
confluito in un codice greco della prima metà del x sec. (contenente omelie di Gregorio
di Nazianzo) – il Vaticano greco 2061 –, dove compongono la sequenza cpg 5832-4574-
3010/44 (n. 23-25, Voicu 1982-1983). Questa testimonianza sembra così avvalorare l’ipotesi
qui avanzata: l’esistenza di un omeliario slavo di fattura analoga, infatti, non può essere
esclusa a priori, e, anche laddove si supponga che esistesse solo una sua versione greco-
bizantina, si potrebbe forse ammettere che Kirill Turovskij fosse abbastanza erudito da
potersene servire come fonte. Ulteriori approfondite indagini, che abbiamo già avviato,
potranno forse dimostrare l’attendibilità di queste ipotesi.
In ultima analisi, i risultati prodotti dalla disamina dello Slovo po Pascě confermano,
ribadendola, la specificità dell’omiletica di Kirill Turovskij, che nell’ambito della predica-
zione slava orientale dei primi secoli sembra aver introdotto una distinzione cosciente fra
le varietà tradizionalmente rappresentate nell’omiletica bizantina (e occidentale). In parti-
colare, l’omelia qui esaminata, insieme allo Slovo na voznesenie, esempla la varietà festiva,
lo Slovo na verbnoe voskresen’e e lo Slovo o rasslablennom, invece, quella esegetica. Questa
distinzione può essere interpretata come l’esito di un approccio erudito alle opere della
tradizione patristica, percepite e recepite come modelli anche teorici (tipologici) e rese
oggetto di un’imitatio consapevolmente ri-creativa. In questo senso Kirill Turovskij rappre-
senta una tradizione più colta (e capace), e per questo più precisamente ‘retorica’ in seno
alla predicazione di epoca kieviana. La specificità della sua omiletica, allora, può a ragione
considerarsi la sua marca autoriale, e come tale, per esempio, dovrebbe assurgere a criterio
discretivo dirimente nella vexata quaestio delle attribuzioni.

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26 Francesca Romoli

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toire des textes”, xii-xiii, 1982-1983, pp. 139-148.
Sulle varietà dell’omiletica di Kirill Turovskij 27

Abstract

Francesca Romoli
About the Varieties of Kirill Turovskij’s Homiletics: the Slovo po Pascě

On the basis of recent studies aimed at investigating Kirill Turovskij’s preaching, an hypoth-
esis regarding the specificity of his homiletics emerged. If compared with the corpus of instructional
sermons dating back to the Kievan period (11th-13th centuries), Kirill Turovskij’s homilies stand out
for the particular liturgical function that biblical quotations serve within them. In the Slovo na
verbnoe voskresenie (Homily for Palm Sunday) and the Slovo o rasslablennom (Homily about the sick
man), this function advances primarily an exegetical aim, fulfilled through exegetical devices, while
in the Slovo na voznesenie (Homily for Ascension) this very function serves primarily a celebratory
aim, fulfilled through dramatizing devices. Recalling patristic models, the homilies seemingly fol-
low – within Turovskij’s homiletics, as well as medieval East Slavic preaching – the Byzantine divi-
sion between exegetical and festal homilies and the Western one between homily and sermon. The
analysis of the Slovo po Pascě (Homily for Low Sunday [Sunday after Easter]) offered in the present
article confirms the previous hypothesis. The homily, founded on a chain of biblical, hymnographic,
patristic and Byzantine references clearly pointing to its liturgical, patristic and Byzantine sources,
closely recovered here, functionally reproduces patristic festal homilies, thus demonstrating the va-
riety of Turovskij’s homiletics.

Keywords

Medieval East Slavic preaching; Kirill Turovskij; Slovo po Pascě.


© 2018 Author(s). Open Access. This article is “Studi Slavistici”, xv, 2018, 1: 29-60
distributed under the terms of the cc by-nc-nd 4.0 doi: 10.13128/Studi_Slavis-20511
Submitted on 2017, January 9th issn 1824-761x (print)
Accepted on 2017, January 28th issn 1824-7601 (online)

Александр Грищенко

Языковые и литературные контакты восточных славян и евреев


в средние века. Итоги и перспективы изучения*

0. Вводные замечания
Итогам и перспективам изучения такой противоречивой и вызывающей посто-
янную полемику темы, как языковое и литературное взаимодействие славян и евреев в
средневековой Slavia Orthodoxa, причём в сугубо восточнославянском ареале, посвя-
щено по крайней мере три статьи последних лет (Taube 2012; Алексеев 2014; Бондарь
2016) и блок глав в Истории еврейского народа в России (Кулик 2010: 345-397), и в на-
стоящей работе сделана ещё одна попытка взглянуть на эту тему, но в большей степени
с лингвистической точки зрения, – конечно, с учётом данных истории как отдельных
текстов (если таковая разработана), так и восточнославянской книжности в целом.
Безусловно, ведущая роль здесь принадлежит исследованиям Анатолия Алексеевича
Алексеева, который продолжает настаивать на существовании “киевской переводче-
ской школы” домонгольского периода, занимавшейся переводами на церковнославян-
ский язык древнерусского извода как с греческого языка, так и с древнееврейского:
обоим направлениям переводческой деятельности посвящена обширная полемиче-
1
ская литература, и лишь краткий обзор её может занять несколько десятков страниц .

* Работа выполнена на средства гранта Президента РФ по государственной поддерж-


ке молодых российских учёных – кандидатов наук МК-1338.2017.6, проект: Лингвотекстоло-
гическое исследование славяно-русских пятикнижий, правленных по Масоретскому тексту.
1
“Греческое” направление представляет прежде всего полемика А.А. Алексеева
с Фр. Томсоном (Thomson 1993; Алексеев 1996), см. также дополнения Томсона (Thomson
1999: 16-48) и обзор А.А. Пичхадзе (2011: 10-17). Здесь особую роль играет позиция болгар-
ских палеославистов, в чьих работах “возможность существования древнерусских переводов
[старшей поры. – А.Г.] вообще отвергалась, а переводы, который А.И. Соболевский считал
восточнославянскими, стали объявляться болгарскими “явочным порядком”, т.е. без какой-
либо аргументации […]. При этом дискуссия […] часто выходит за рамки научной коррект-
ности – как ввиду неаргументированности, так и ввиду откровенной недоброжелательности
высказываний” (Пичхадзе  2011: 14-15). “Древнееврейское” направление – в полемике того
же А.А. Алексеева с Г. Лантом и М. Альтбауэром прежде всего вокруг старшего славянского
перевода книги Есфирь, о которой красноречиво высказался А.А. Архипов: “История ис-
следования славянской книги Эсфири почти драматична […]. Каждый новый автор, как бы
сводя счеты с предшественниками, старается по-своему пересказать все те же немногие, но
крутые перипетии этой драмы. Сам пересказ, при всем его невольном однообразии, стал

Alexander Grishchenko (Moscow State Pedagogical University) – a.i.grishchenko@mpgu.edu


The author declares that there is no conflict of interest
30 Александр Грищенко

В последней работе А.А. Алексеева на эту тему Русско-еврейские литературные


связи Киевской эпохи с характерным подзаголовком Результаты и перспективы ис-
следования (Алексеев 2014) суммируются более ранние работы того же автора о др.-
рус. переводах с древнееврейского библейских книг, о др.-рус. апокрифах прежде
всего в составе Толковой Палеи, о гипотетическом др.-рус. переводе книги Иосиппон
(средневековый перевод-пересказ глав из Иудейских древностей и Иудейской войны
Иосифа Флавия на др.-евр. язык) и такими связанными с ним слав.-рус. памятника-
ми, как Сказание о трёх пленениях Иерусалима и Слово блаженного Зоровавеля. При
этом А.А. Алексеев чётко отделяет эту группу текстов (древнейшую, по его мнению)
от другой-конца XV в., которую связывают с деятельностью жидовствующих (относя
сюда же и переводы из Виленского библейского свода), но признаёт, что

[м]ежду двумя группами источников существует несколько изолированных доку-


ментов, переведенных с еврейского оригинала, и для них пока не найдено ясной
связи с названными группами (ibidem: 170),

и относит к этой “промежуточной” группе ц.-слав. Псалтырь Феодора Жидовина


1460-1470-х гг., ц.-слав. перевод Песни песней по единственному списку XVI в. (РГБ,
Муз.8222) и, наконец, многочисленные глоссы и исправления в слав.-рус. Пятикни-
жии, которое по крайней мере в 20 списках кон. XV-нач. XVII вв. содержит явные
отсылки к др.-евр. Масоретскому тексту Библии и другим семитским источникам иу-
дейского происхождения (здесь приводится несколько примеров, связывающих эти
глоссы с таргумами: ibidem: 171-172; см. также Грищенко 2016).
Другой из недавних обзоров гебраизмов в слав.-рус. книжности – с особым упо-
ром на апокрифы Соломонова цикла – принадлежит Константину Бондарю, кото-
рый, перечисляя основные свидетельства непосредственного заимствования форм
из др.-евр. языка в ц.-слав./др.-рус., предполагает при этом, что

в сознании древнего книжника еврейское наследие играло свою роль вне связи с
физическим присутствием евреев в Киевской Руси. Ведь библейская история – не
только начальный период, но и архетип всех христианских историй, в которых рас-
крываются ее символические смыслы (Бондарь 2016: 42).

Оставляя за скобками механизмы проникновения исследователя в сознание


средневекового книжника, нельзя не увидеть, что автор здесь волей-неволей соли-

уже не просто обязательной, рутинной частью работ последнего времени, не просто унылой
историей вопроса, а своего рода рассказыванием мифа, баснословием” (Архипов 1995: 241).
Совсем недавно В.М. Лурье выдвинул ещё одну, на первый взгляд весьма экстравагантную,
гипотезу об оригинале старшего славянского перевода Есфири – сирийском, сделанном в
эллинистическую эпоху с греческого перевода еврейского текста; славянский же перевод, по
мнению В.М. Лурье, был осуществлён на заре славянской письменности (Лурье 2017).
Языковые и литературные контакты восточных славян и евреев в средние века 31

даризируется с представителями гиперкритического направления средневековой


иудео-славики, например с И. Пересветовым-Муратом, который посвятил целую
монографию опровержению того, что реальных языковых и литературных контактов
между восточными славянами и евреями в раннюю эпоху не было и быть не могло, а
все имеющиеся явные свидетельства (а самое раннее физически относится к XIII в.
– это две формы имени иудейского мессии Машика и Машиаакъ в Изборнике РНБ,
2
Q.п.I.18) заимствованы из ю.-слав. книжности (Pereswetoff-Morath 2002) .
Чтобы масштабы непосредственных восточнославянских иудео-христианских
контактов в разные эпохи были наглядно представлены, необходимо систематизиро-
вать данные по всем известным нам памятникам, в которых в той или иной степени
отразились эти контакты – от вкрапления отдельных гебраизмов до переводов целых
произведений, а затем проследить, имеются ли между различными свидетельствами
этих контактов общие языковые черты.

1. Сводный список слав.-рус. памятников, в которых отражены непосредственные


контакты славян и евреев в средневековой Slavia Orthodoxa
В представленном в Таблице  1 сводном списке памятников сделана попытка
обобщить данные обо всех средневековых литературных источниках, происходящих
из Восточной Славии XIII-XVI вв. (Древней Руси, Новгородской республики, Вели-
кого княжества Литовского и Великого княжества Московского), с указанием их да-
тировок, локализации, языковых особенностей, характера и объёма языковых и лите-
ратурных контактов: в последнем случае объём находится в диапазоне от вкрапления
единственного слова, которое свидетельствует о непосредственном, без участия гре-
3
ческой или латинской книжности, межъязыковом контакте (в РЖ ), до значительных
фрагментов кириллической транслитерации др.-евр. текстов (в У). Особняком здесь,
однако, стоит ЛП, которое, вероятно, является оригинальным произведением, пусть
и возникшим, по предположению Моше Таубе, под влиянием каббалистических
идей. Не учтены здесь также тексты предположительно фольклорного происхожде-
ния, в которых исследователи прошлого видели переклички с сюжетами мидрашист-
ской и талмудической литературы (Перетц 1926): основания для выводов о том, что в
этих текстах отражены непосредственные литературные контакты восточных славян
и евреев, слишком зыбки и ненадёжны.

2
Др.-рус. характер Речей к Жидовину о вочеловечении Сына Божия из Изборника
XIII в., где встречаются эти семитизмы, подробно демонстрируется в работах Grishchenko
2012 и Райнхарт 2015; см. также критическую рецензию Водолазкин 2004 на книгу А. Пере-
светова-Мурата. См. также более ранний обзор свидетельств о еврейском присутствии на
Руси Г. Бирнбаума (Birnbaum 1981).
3
Для каждого памятника (или группе родственных, но малоисследованных памятни-
ков) в Таблице 1 присвоено сокращённое обозначение.
32
Характер и Основная
Название Датировка Локализация Язык Издание
объём контактов литература
1. ДРЕВНЕЙШАЯ ГРУППА ТЕКСТОВ
1. Речи к
? Wątróbska 1987:
Жидовину о два слова (две
[др.-рус., ркп. ц.-слав. др.- 180-196; Grishchenko 2012;
вочеловечении не позже XIII в. формы одного
имеет новг. рус. извода Райнхарт 2015: Райнхарт 2015
Сына Божия слова?)
черты] 313-332
(РЖ)
Тексты в составе Палеи (толковой и хронографической)
[в изданиях
Палеи: Ученики
2. Благословение 1892: 182-193;
Иакова сыновьям одно слово Толковая Палея Грищенко 2015б
(БИ) ? 1892: ff. 137d-144a;
не позже кон. [в основе – Камчатнов 2002:
XIV в. ю.-слав. (?) 240-253]
перевод с греч.] [критического
два гебраизма,
издания нет; Kulik 2005;
Александр Грищенко

3. Откровение ц.-слав. др.- внесённые в


список изданий Успенский 2015
Авраама (ОА) рус. извода ранний перевод
см. в: Орлов 2011:
с греч.
196-197]
4. Апокрифы компилятивный Бондарь 2011: 103-
Соломонова перевод целых Бондарь 2011
138
цикла (С) текстов из
не позже нач. ?
мидрашей [критического
XV в. [др.-рус.]
5. Житие и Талмуда; издания нет; Taube 1993; Алексеев
Моисея (ЖМ) вкрапления список изданий см. 2007
семитизмов в: Орлов 2011: 217]

Таблица 1
Характер и Основная
Название Датировка Локализация Язык Издание
объём контактов литература
2. ТЕКСТЫ ФЛАВИЕВСКОЙ ТРАДИЦИИ
1. Иосиппон
Мещерский
(фрагменты без
[отсутствует] 1958; Taube 1992;
специальных
Петрухин 1995: 25-40
названий) (И)
не позже перевод
2. Сказание о
1372 г. отдельных
трёх пленениях ? ц.-слав. др.- [готовится
(по цитате фрагментов; Таубе 1989
Иерусалима [др.-рус.] рус. извода М. Таубе]
в Тверской вкрапления
(СТПИ)
летописе) семитизмов
3. Слово
блаженного Navtanovich 2011:
Navtanovich 2011
Зоровавеля 315-335
(СБЗ)
3. БИБЛЕЙСКИЕ КНИГИ
[Древняя
Русь? рус. Архипов 1995:
1. Есфирь Мещерский 1978;
не позже кон. земли ц.-слав. др.- 241-263; Lunt, Taube
(старший Lunt, Taube 1998;
XIV в. Великого рус. извода переводы 1998; Люсен 2001;
перевод) (Е) Люсен 2001
княжества целых текстов; Алексеев 2003
Литовского?] вкрапления
[рус. земли семитизмов
2. Песнь песней гибрид ц.-
не позже втор. Великого Алексеев 2002: Алексеев 2002: 144-
(старший слав. в.-слав.
пол. XVI в. княжества 144-148 148
перевод) (ПП) извода и рут.
Литовского?]
Языковые и литературные контакты восточных славян и евреев в средние века
33

Таблица 1 (продолжение)
34
Характер и Основная
Название Датировка Локализация Язык Издание
объём контактов литература
Дан: Евсеев 1902;
Плач: Перетц 1908:
28-40;
3. Восемь книг переводы Песн, Руфь, Плач, Altbauer, Taube 1992;
рут.,
в Виленском целых текстов; Еккл, Есф: Altbauer, Архипов 1995: 147-
Киев частично ц.-
библейском своде вкрапления Taube 1992; 240; Taube 2005;
слав.
(ВБС) семитизмов [Иов готовится к Темчин 2006
изданию
С. Темчиным;
Притч не издана]
втор. пол. XV в. Горский 1860;
Thomson 1998: 651-
654;
4. Правленое
ц.-слав. др.- глоссы и Алексеев 1999: 182-
Пятикнижие [рус. земли
рус. извода, эмендации 184; Успенский 2012;
(П) Великого
вкрапления по МТ и его Idem 2013; Idem
княжества 2014; Grishchenko
в.-слав. разг. тюркскому
Александр Грищенко

Литовского?] 2016; Грищенко 2017


идиомов таргуму
5. Правленые
[отсутствует]
Толковые Калугин 2017
Пророки (ПТП)
др.-евр. алфавит
6. Плач Иеремии квадратным
в библейском Вильна, письмом; назва-
ц.-слав. в.- Алексеев, Лихачева
сборнике 1502-1507 гг. Супрасльский ния еврейских
слав. извода 1978; Темчин 2010
Матфея монастырь букв в еврейской
Десятого (МД) и кириллической
графике

Таблица 1 (продолжение)
Характер и Основная
Название Датировка Локализация Язык Издание
объём контактов литература
4. ПЕРЕВОДЫ ЭПОХИ “ЖИДОВСТВУЮЩИХ”
ц.-слав. в.-
1. “Псалтырь” слав. извода с перевод целых
Сперанский 1907:
Феодора Еврея тр. четв. XV в. Москва орфографиче- текстов (по Zuckerman 1987
53-72
(ПФЕ) скими памяти?)
русизмами
рус. земли перевод
2. Шестокрыл Великого целого текста; Соболевский 1903:
Taube 1995a: 174-177
(Ш) княжества вкрапления 413-418
Литовского семитизмов
3. “Логика Соболевский 1903:
Неверов 1909
Киевская” (ЛК) компилятивный 401-409
4. “Логика рут. с ц.-слав. перевод;
втор. пол. XV в. Киев
Московская элементами вкрапления
семитизмов Taube 2016 Taube 2016
(Московский
органон)” (ЛМ)
рус. земли перевод
Сперанский 1908: Сперанский 1908;
5. “Тайная Великого целого текста;
131-241; Буланин Буланин 1989; Taube
тайных” (ТТ) княжества вкрапления
1984 1998
Литовского семитизмов
гибридный [фрагменты пере-
ц.-слав. водов в т. ч. пред-
не позже сер. ? Турилов, Чернецов Турилов, Чернецов
6. “Рафли” (Р) (вкрапления положительно с
XVI в. [в.-слав.] 1985: 290-344 1985
в.-слав. разг. неких восточных
Языковые и литературные контакты восточных славян и евреев в средние века

идиомов) языков]
35

Таблица 1 (продолжение)
36
Характер и Основная
Название Датировка Локализация Язык Издание
объём контактов литература
фрагменты
рус. земли
[предположи- утраченной Соболевский 1903:
7. “Космография” Великого
не позже XVI в. рут. тельно связана рукописи: 409-413; Taube
(К) княжества
с Ш] Соболевский 1903: 1995a: 172-173
Литовского
409-413
De Michelis 1993:
[предположи-
8. “Лаодикийское Казакова, Лурье 41-61; Taube 1995b;
тельно содержит
послание” Фео- ц.-слав. в.- 1955: 256-276; De обзор остальной
кон. XV в. Москва (?) фрагменты
дора Курицына слав. извода Michelis 1993: 219- литературы см. в:
кабалистической
(ЛП) 222 Дмитриев 2016:
литературы]
247-261
5. “СПРАВОЧНЫЕ” СОЧИНЕНИЯ
транслитерация
1. “Учебник” др.-евр. библей-
рут., вкрапле- Темчин 2011; Idem
древнееврейского втор. пол. XV в. Киев ских текстов; Темчин 2012
ния ц.-слав. 2012; Temchin 2014
языка (У) глоссарий др.-
Александр Грищенко

евр. слов
переводные или изданы частично:
2. Календарно-
оригинальные Романова 2002:
астрономичес- не позже кон. ц.-слав. в.-
? компиляции; 380-381; Мильков, Романова 2002
кие сочинения XV в. слав. извода
вкрапления Полянский 2008:
(КАС)
семитизмов 408-427
3. Перечни не позже нач. перечень
? — Грищенко 2018а Грищенко 2018а
месяцев (ПМ) XVI в. семитизмов

Таблица 1 (продолжение)
Языковые и литературные контакты восточных славян и евреев в средние века 37

При неизвестности точной датировки памятника или отсутствия относительно


неё исследовательского консенсуса приводится обозначение типа “не позже N в.” –
по датировке старшего (или единственного) списка, который, как правило, довольно
значительно отстоит от протографа, но в каждом случае временной зазор между соз-
данием памятника и его старшим списком разный, поэтому мы здесь пока отказыва-
емся от хронологической определённости, отсылая к основной литературе, посвя-
щённой тому или иному памятнику: предпочтение в кратком списке литературы – в
случае её обилия – отдаётся тем работам, где предлагается датировка и локализация
памятника по данным языка и истории текста (в случаях, если таковая выявляется).
Для группировки памятников выбран смешанный принцип – тематико-хроно-
логический. Так, однозначно к древнейшему пласту следует отнести РЖ и апокрифы
Толковой Палеи (и составленной на её основе Полной Хронографической Палеи).
Группу памятников, связанных с книгой Иосиппон, А.А. Алексеев относил также к
древнейшему пласту, однако её датировка ещё требует уточнения, равно как и полно-
ценное лингвотекстологическое исследование всех входящих в неё произведений.
Все библейские тексты, переведённые непосредственно с семитских источников или
глоссированные и правленные по ним, мы, условившись пренебречь хронологией,
объединили в отдельную группу, хотя совершенно ясно, что Е – наиболее старый в
ней памятник. Относительно библейских текстов сразу придётся отвергнуть пред-
положение, высказанное сначала А.А. Алексеевым (1999: 185), а затем поддержанное
Б. Успенским (2014), о том, что это были своеобразные слав. таргумы, использовав-
4
шиеся иудеями Восточной Славии .

Дело в том, что все памятники группы 3 известны нам исключительно в слав.
графике, тогда как для языковой ситуации средневековых еврейских диаспор, пере-
ходивших на местные языки, использование этих языков, особенно в религиозной
сфере, было возможно исключительно в аутентичной иудейской графике (на ква-
дратном письме, изначально древнеарамейском), что мы находим в том числе и для
слав. глосс в средневековых еврейских рукописях (Bláha и др. 2015): исключение
касается еврейского алфавита в МД и буквы ‫“ א‬алеф”, которая могла передаваться
особым знаком в кириллическом тексте (Успенский 2013), однако последний во-
прос требует дополнительного изучения. При этом в с е д о ш е д ш и е д о н а с
памятники бытовали исключительно в православной кон-
ф е с с и о н а л ь н о й с р е д е (конечно, с поправкой на возможные отклонения
в ереси), поэтому в нашем случае корректнее говорить об и у д е о - х р и с т и а н -
с к о м с о т р у д н и ч е с т в е – вслед за М. Таубе, который так и назвал свою ста-

4
Таргумы (с арамейского буквально ‘перевод’) – арамейские переводы Библии, ис-
пользовавшиеся в синагогальной практике при чтении библейских текстов на др.-евр. языке
для облегчения их понимания арамеоязычными иудеями. Этот термин расширительно упо-
требляется также для всех еврейских библейских переводов на любые другие языки диаспоры.
38 Александр Грищенко

тью, посвящённую обзору восточнославянских переводов с др.-евр. языка (Taube


2012); там же приводится его корпус текстов, разделённый на две части: 1) ранняя
группа – до 1400 г. (ЖМ и тексты Флавиевской традиции) и 2) поздняя группа –
со втор. пол. XV в. (Ш, К, ЛК, ЛМ, ТТ, ЛП и ВБС). Более ранняя классификация
нашего круга памятников была в виде кратких тезисов предложена А.А. Алексе-
евым: во-первых, по тематическим группам: 1) Св. Писание (Е, ПП, ВБС и П),
2) Св. История (И), 3) “Апокрифические вариации Св. Писания” (ЖМ, С и СБЗ),
4)  “Литургика” (ПФЕ), 5) “Философские и естественно-научные трактаты” (ЛМ,
ЛК, ТТ, Ш и Лунник – одно из произведений, объединённое нами в группу КАС);
во-вторых, по языковым особенностям: 1) “Тексты с признаками древности в язы-
ке и яркими лингвистическими русизмами” (Е, И, ЖМ, С и СБЗ), 2) “Сравнитель-
но чисты церковнославянский язык с редкими фонетическими западнорусизма-
ми” (ПФЕ), 3) “Мова” (т.е. тексты на рут. языке: ВБС и философские трактаты)
(Алексеев 1993). Ту же классификацию полностью принимает К.В. Бондарь (Бон-
дарь 2016: 38-39), который пишет также о необходимости “современного полного
издания памятников еврейско-славянских литературных связей” (ibidem: 57 и да-
лее). Среди памятников, предложенных для этого будущего издания К.В. Бонда-
рем, но не вошедших в наш сводный перечень, – “некоторые апокрифы о Давиде в
сборниках и списках Псалтыри” (ibidem: 39) (со ссылкой на Алексеев 1993, однако
там эта группа апокрифов не упоминается), они же: “цикл сказаний о царе Давиде
(Слово о Давиде царе и пророке, Сказание о Давиде царе, Апокрифы о составле-
нии Псалтыри)” (ibidem: 58). Непосредственная связь этой группы апокрифов с
семитоязычной литературой пока никем не устанавливалась, а в последнем её из-
дании прямо сообщается:

Тексты апокрифов “Жития Давида”, как и “Слова о Псалтыри”, вероятнее всего


восходят к греческим оригиналам, а до Руси дошли в южнославянских, сербских и
болгарских, рукописях (Каган-Тарковская и др. 1999: 381).

Наш сводный перечень на сегодня является самым полным, и он же наглядно


демонстрирует лакуны в изучении многих текстов, ряд которых не имеет до сих пор
даже полноценного научного издания.
К этому перечню следует также добавить список произведений антииудейской
направленности, в которых упоминается др.-евр. имя еврейского мессии, заимство-
ванное либо из РЖ, либо из БИ (см. данные Таблицы 2): эти тексты могли возникать
и бытовать вне каких бы то ни было контактов с реальными иудеями – лишь в силу
литературной традиции; однако устойчивость традиции в передаче самого ранне-
го из известных нам славянских гебраизмов поразительная, поскольку эти тексты
не связаны друг с другом сюжетно или цитатно, но довольно близко передают этот
примечательный гебраизм. Особняком в ряду форм еврейского имени мессии стоят
примеры из У, где ими передаётся имя не иудейского Машиаха (антихриста в христи-
Написание имени
Название памятника Датировка Локализация Язык Издание
еврейского мессии
1.
не позже машика Wątróbska 1987: 180-196;
Речи к Жидовину... ?
XIII в. машиаакъ Райнхарт 2015: 313-332
(РЖ)
2.
не позже ц.-слав. др.-
Благословение Иакова ? машлѧхъ [издания Палеи]
кон. XIV в. рус. извода
сыновьям (БИ)
3. [ркп. киевская, к [только извлечения в работах:
не позже
Толковые пророки настоящему времени машьꙗкъ, машьꙗхъ Шахматов 1904; Адрианова
1483 г.
(ТП) утрачена] 1910: 64-78]
4.
Добавление к рут.
не позже ц.-слав. в.-
списку Жития машиа Молдован 2000: 646
нач. XV в. слав. извода
Андрея Юродивого рус. земли Великого
(ЖАЮ) княжества Литовского
5.
не позже гибрид ц.-
Особное мовене до машиꙗкъ Попов 1879
1580 г. слав. и рут.
Жидов (ОМЖ)
6.
Азбучный стих из не позже ц.-слав. в.- Pereswetoff-Morath 2006: 111-
? машьꙗⷯ
Жемчужной матицы 1632 г. слав. извода 113
(АС)
Языковые и литературные контакты восточных славян и евреев в средние века
39

Таблица 2
40 Александр Грищенко

анском понимании), а Иисуса Христа, причём в двух вариантах: основном (Игошоу


Мешиꙗⷯ) – и дополнительном, “по иных евреех полнаго закону”, с передачей явно аш-
кеназского произношения (Иѡсоу Месиꙗⷯ).

Исходя из приведённых форм, всю цепочку фонетико-орфографических преоб-


разований исходной др.-евр. формы māšîaḥ ‘помазанник’ можно реконструировать
следующим образом (подробнее об этом, но, к сожалению, без учёта РЖ, ЖАЮ и АС
см. в статье Грищенко 2012):

др.-евр. mašíax / mašíaħ (XI-XII вв.?)


→ слав. *mašijahъ / *mašijakъ (XI-XII вв.?)
→ *mašı̌jáhъ / *mašı̌jákъ (XI-XII вв.?)
→ mašjáhъ / mašjákъ (XII-XIII вв.?)
→ mašl’ahъ (mašl’akъ) (втор. пол. XIV в.)

Все предложенные в данной реконструкции изменения могли происходить ис-


ключительно в устной речи (в книжной не происходило бы падения напряжённого
редуцированного; также чисто графически нельзя объяснить переход j > l’), в связи с
чем особую роль в выявлении непосредственных славяно-еврейских контактов игра-
ют именно фонетические показатели, прошедшие, естественно, через графико-орфо-
графические фильтры восточнославянской книжности.

2. Фонетико-орфографические особенности передачи гебраизмов


Общепринятым маркером непосредственных языковых контактов славян с
носителями семитских языков (это касается не только др.-евр., но и арамейского,
сирийского и арабского) является передача /š/ буквой Ш, что исключает грече-
ское или латинское посредничество при заимствовании соответствующих форм5.
Ещё тремя “сильными” показателями следует считать: 1) передачу семитских “шва”

5
Именно передача буквы ‫“ שׁ‬шин” /š/ в собственных именах славянской С, а не Ш
в большинстве ранних списков Е стала главным камнем преткновения в вопросе о непо-
средственном переводе этой книги с др.-евр. языка. Так, после изданий Е Ланта-Таубе и
Люсен А. А. Алексеев вновь обращает внимание исследователей на формы с буквой Ш в
ряде рукописей, которые не были учтены Лантом и Таубе, в особенности на Тихонравов-
ский хронограф XVI в. (РГБ, Тих.704), который не был включён в общую историю тек-
ста Люсен (Алексеев 2003: 188). Нельзя не согласиться с тем, что несмотря на серьёзность
исследований и изданий Е Мещерского, Ланта-Таубе и Люсен, в них “проведена только
предварительная классификация списков, но исчерпывающее изучение истории текста не
выполнено, не найдено место в этой истории для крайне важного свидетеля, каким явля-
ется Тихонравовский хронограф […] с его уникальными чтениями, воспроизводящими ев-
рейский оригинал. Рано или поздно кому-то придется это сделать” (Алексеев 2014: 169).
Данные Тихонравовского хронографа (в котором Е уже издана Т.В. Анисимовой (2015: 103-
Языковые и литературные контакты восточных славян и евреев в средние века 41

при помощи славянских еров, а также буквы Ы, на что впервые обратил внимание
6
А.А. Архипов ; 2) передачу семитских ‫ ה‬/h/ и ‫ ג‬/g/ славянскими Г и ГК (КГ) соот-
ветственно (использовалась непоследовательно); 3) употребление буквы Э или осо-
бого графического знака (похожего на Л или на λ) на месте буквы ‫“ א‬алеф”. Менее
надёжными маркерами оказываются соответствия /b/ → Б, /ṣ/ (общепринятое обо-
значение буквы ‫“ צ‬цади” /c/ в транслитерации) → Ц; /ḥ/ (условная транслитерация
буквы ‫“ ח‬хет”, которая в средневековом иврите реализовывалась разными глухими
щелевыми звуками от гортанных до задненёбных; применительно к славяно-еврей-
ским языковым контактам, связанным с передачей этой буквы и двумя европейскими
ареалами средневекового еврейства, см.: Грищенко 2015а: 307-308) → Х.
В Таблице 3 собраны примеры из памятников, перечисленных в Таблице 1, с ука-
занными особенностями передачи семитских фонем (примеры из П, ВБС и У при-
ведены лишь выборочно, в самих памятниках их значительно больше). К ним добав-
лены примеры передачи йота (вероятно, только удвоенного) при помощи звонких
шипящих, а также регрессивной ассимиляции по звонкости и глухости в гебраизмах,
обнаруженные нами в нескольких памятниках и очередной раз свидетельствующие о
некоей у с т н о й с т а д и и в освоении этих гебраизмов.

Судя по Таблице 3, среди многих памятников встречаются одни и те же способы


передачи др.-евр. фонем, не предполагающие греческого посредничества, но опреде-
лённое исключение здесь можно видеть только для Е, а памятники, собранные нами в
п. 4 Таблицы 1, пока ещё недостаточно исследованы с лингвистической точки зрения,
нет в них и того обилия собственных имён, которое нам дают библейские книги. Ряд
почти дословных совпадений между разными текстами в передаче одной и той же се-
митской формы вряд ли случаен, так что здесь можно сделать предположение если не
о единстве переводческой школы, то по крайней мере о единстве традиции, которая
7
не прерывалась на землях Руси на протяжении нескольких столетий .

109, 121-125) и некоторых других списков Е, где “шин” передаётся через Ш, к сожалению, не
учитываются В.М. Лурье.
6
Показательными здесь могут быть только “шва” произносимые (šəwa mobile), по-
скольку Ъ и Ь (а также заменяющие их паерки) в славяно-русских орфографических системах
XV-XVI вв. играли в релевантных позициях фактически ту же роль, что и “шва” немое (šəwa
quiescent) в масоретской графике, т. е. лишь формально разбивали группу из двух согласных.
Об этом, например, свидетельствует форма Саазъгазъ из Е (см. в Таблице 3), где “ер” в середине
слова точно соответствует немому “шва”, тогда как последовательность -з(ъ)г- могла образо-
ваться исключительно в результате ассимиляции по звонкости, поскольку в исходной др.-евр.
форме находим на этом месте -šḡ-, давшее сначала слав. -sg-.
7
Явные текстологические связи обнаружены пока только между Песн в ВБС и ПП
(Алексеев 2002: 141-142), а также между У и ВБС (Темчин 2011).
42 Александр Грищенко

Славянская Др.-евр. формы Славянские Традиционные греч. Памятники


передача (транслитерация) формы соответствия
Др.-евр. /š/
С šûšān Соусанъ Σουσά
waštî Вастиı-а Αστιν
šēṯār Сефаръ Σαρσαθαιος (?)
šimə‘î Симаи Σεμεϊος
karšənā Карсона Αρκεσαιος (?) E
taršîš Тирисъ — (все списки)
qîš Кисъ Κισαιας
ša‘šḡaz Саазъгазъ Γαι
zereš Зересъ Ζωσαρα
paršandāṯā Парсандастъ Φαρσαννεσταιν
kûš Хоусъ Αἰθιοπία
Е (часть
tereš Вафесъ Θαρρα
списков)
’ǎḥašwērôš Ахасъверосъ Ἀρταξέρξης
Ш (Эль) Шаддаи,
(θεὸς) Σαδδαι П
Шеддаи
(’ēl) šaddāy ἱκανός, κύριος, ὁ
Шадаи τὰ πάντα ποιήσας, ВБС
παντοκράτωρ
kûš Кꙋшь Αἰθιοπί α Е (часть
списков)
tereš Терешь Θαρρα
ВБС
Ахашворошь,
Е (Тих.704)
’ǎḥašwērôš Ах(в)асворошь Ἀρταξέρξης
Ахашверошь ВБС
Машиаакъ, РЖ и
māšîaḥ Машика, Μεσσίας др. (см.
Машлѧхъ и др. Таблицу 2)
[βασίλισσα (του)
malkaṯ šəḇā’ *Малкатъ Шьва
Σαβά] С
šāmîr ‘алмаз’ шамиръ —
’byš’wš Авиош(евъ) —
СБЗ
Корѣшь
kôreš Κῦρος
Корешь ВБС

Таблица 3
Языковые и литературные контакты восточных славян и евреев в средние века 43

Славянская Др.-евр. формы Славянские Традиционные греч. Памятники


передача (транслитерация) формы соответствия
Ш šilōaḥ Шилоахъ Σιλωάμ СТПИ
gōšen Гошѣнъ Γεσεμ
Гошинъ П
məṯûšelaḥ / Матоушалахъ / Μαθουσαλα
məṯûšālaḥ Матꙋшелахъ
ʼĕnôš Єношь Ενως
bə’ēr šeḇa‘ Поурршева φρέαρ τοῦ ὅρκου
šip̄rā(h) (Исх 1:15) Шивра Σεπφωρα
yərûšālayim Иерꙋшалаимъ, Ἱερουσαλήμ ВБС
Єрꙋшалаимъ
Ироушьлаимъ У
šôp̄ār шофаⷬ σάλπιγξ
šəlōmō Шломо Σαλωμών
ПП
šîr ha-šîrîm ширь гаши[ри]м ᾆσμα ᾀσμάτων
ḥešbôn Хежбонъ Εσεβων
šəma‘yā́hû Шемаинъ Σαμαιας ПТП
šēm Шимъ Σημ
tišrî тишри, Тиⷬшїи θερσή, θεσρί ПМ
marḥešwān мархашванъ μαρσουάν,
μαρχεσουβάν
šəḇāṭ шватъ σαβάτ, σαφάτ
шеваⷮ КАС
šôr ‘телец’ шорь [ταῦρος] Ш
qešeṯ ‘стрелец’ кешеть [τοξότησ]
šûmā ‘родинка, шюма — ТТ
бородавка’
’bn rwšd Авенроштъ Ἀβερρόης
šəmûʼēl Шмоилъ Σαμουήλ Р
rêš решь ρης, ρηχς МД
šîn шинъ σεν, χσεν
Др.-евр. /ə/ (“шва” произносимое)
А ’aḏəmāṯā’ Адамафана —
Е
šimə‘î Симаи Σεμεϊος

Таблица 3 (продолжение)
44 Александр Грищенко

Славянская Др.-евр. формы Славянские Традиционные греч. Памятники


передача (транслитерация) формы соответствия
А məṯûšelaḥ / Матоушалахъ /
Μαθουσαλα П
məṯûšālaḥ Матꙋшелахъ
О karšənā Карсона Αρκεσαιος (?)
marśənā Марсона Μαλησεαρ (?)
Е
Ъ bizzəṯā’ Визъсанъ Βαζαν
Амъдафа
hamməḏāṯā Αμαδαθος
Гамъдата ВБС
У məmûḵan Моумоуханъ Μουχαιος
Е
И (*jь?) wayəzāṯā Ваизаса Ζαβουθαιθαν (?)
yərûšālayim Ироушьлаимъ Ἱερουσαλήμ У
yəhûdā̠ Игуда Ιουδα
(*ь?̌ ) ’ǎḏaləye’ Адалиı-а Βαρεα (?)
Ы bēlṭəša’ṣṣ ar Белтышац҃рь Βαλτασαρ ВБС
nəḇûḵaḏneṣṣ ar Нывꙋхаднецаръ Ναβουχοδονόσωρ
məmûḵān Мымꙋханъ Μουχαιος
wə‘im-’ănāšîm выимъ анашиⷨ [καὶμετὰ ἀνθρώπων]
wənāśā’ высана [καὶἀρεῖ]
У
Е wə‘ûḡāḇ веоугавъ [καὶὀργάνῳ]
təhallēl тегалѣлъ [πνοὴ]
Иерꙋшалаимъ,
yərûšālayim Ἱερουσαλήμ ВБС
Єрꙋшалаимъ
gəḏî ‘козерог’ геди [αἰγόκερως]
Ш
bəṯûlā(h) ‘дева’ бетула [παρθένος]
kəḇār Кеваръ Χοβαρ
rəṣîn Рецинъ [лат. Rasin] ПТП
šəma‘yā́hû Шемаинъ Σαμαιας
’ehəye(h) Эгее [ἐγώ εἰμι] П
шеваⷮ КАС
šəḇāṭ σαβάτ, σαφάτ
∅ шватъ ПМ
kərōḇ кровъ [τῆς μεγαλωσύνης]
ṯərû‘ā(h) троуı-а [ἀλαλαγμοῦ] У

šəlōmō(h) Шломо Σαλωμών


ПП
Снирь
śənîr Σανιρ
Сниръ ВБС

Таблица 3 (продолжение)
Языковые и литературные контакты восточных славян и евреев в средние века 45

Славянская Др.-евр. формы Славянские Традиционные греч. Памятники


передача (транслитерация) формы соответствия
∅ bəṯûlā(h) ‘дева’ бтула [παρθένος]
ТТ
kəp̄îr ‘львёнок’ кфиръ [σκύμνος λεόντων]
šəmûʼēl Шмоилъ Σαμουήλ Р
Др.-евр. /h/
∅ hōddû ‘Индия’ Ѡдоу Ἰνδική
hăṯāḵ Афанъ, Афахъ Αχραθαῖος
məhûmān Ємоуоуманъ Αμαν Е (все
hēḡe, hēḡay Єгаи Γαι списки)
hamməḏāṯā Амъдафа Αμαδαθος
Аманъ, Амонъ
Г hāmān Αμαν Е (Тих.704)
Гаманъ

məhûmān Мыгꙋманъ Αμαν


Гека, Гекаи,
hēḡe, hēḡay Γαι
Гекѣи ВБС
hamməḏāṯā Гамъдата Αμαδαθος
hăṯāḵ Гатахъ Αχραθαῖος

yəhûd̠ā Игоуда Ἰούδα(ς)

’aḇrāhām Ав̾рагаⷨ Ἀβραάμ


У
heḇel Гевеⷧ҄ Ἅβελ
’ĕlōhîm εлωгимъ [θεός]
mahǎlal’ēl Маглалѣелъ Μαλελεηλ
hôšēa Гошеѧ Αυση П
hāhār Гагаръ Ωρ
ba‘al hāmôn Балгамонъ Βεελαμων ПП
гандасїı-а
handāsā(h) —
‘геометрия’
ЛМ
гїюль, гїюли,
hiyyûlî ὕλη ‘материя’
гїюлїи
hê ге η МД
Др.-евр. /g/ и /ḡ/
Г [τῆς μεγαλωσύνης
gudlô годлω
αὐτοῦ] У
laggôyim лагоимъ [εἰς τὰ ἔθνη]

Таблица 3 (продолжение)
46 Александр Грищенко

Славянская Др.-евр. формы Славянские Традиционные греч. Памятники


передача (транслитерация) формы соответствия
Г gil‘āḏ Гелад Γαλααδ ПП
go‘ā́ṯā(h) Гаажа [ἐκλεκτὸς λί θος] ПТП
Гошѣнъ СТПИ
gōšen Γεσεμ
Гошинъ П
dāḡîm ‘рыбы’ дагимъ [ἰχθύες]
Ш
gəḏî ‘козерог’ геди [αἰγόκερως]
gîmel гимелъ γιμ(ε)λ МД
hēḡe, hēḡay Єгаи Γαι
ša‘šḡaz Саазъгазъ Γαι
Е
Вигъфанъ,
biḡṯā’, biḡṯān Вигъхванъ Γαβαθα (?)
Бигъта, Бигьтанъ
’ăḇaḡṯā’ Авагъта Αβαταζα (?)
hā’ăḡāḡî Агагии Βουγαῖος
ВБС
К hēḡe, hēḡay Гека, Гекаи, Гекѣи Γαι
ša‘šḡaz Шаашаказъ Γαι
КГ ‘ên geḏî Єнкгеди Εγγαδδι
ГК gid̠gad̠ Гкудгкодъ Γαδγαδ
Геционъ га- П
‘eṣyôn-geḇer Γεσιωνγαβερ
Гкаверь
Графические аналоги буквы ‫א‬
Э, Λ, λ, Ꙁ ’ehəye(h) ’ăšer
’ehəye(h) ‫אהיה‬ эгее эшеръ эгее [ἐγώ εἰμι ὁ ὤν] П
‫אשר אהיה‬
’ēl ‫אל‬ эль [θεός] ОА, П
Э ’êp̄ā(h) ‫איפה‬
эфа οιφι П (только
‘мера зерна’
в двух
’ēṯām ‫אתם‬ Этамъ Βουθαν списках)
Др.-евр. /b/
В Вигъфанъ,
biḡṯā’, biḡṯān Γαβαθα (?)
Вигъхванъ Е
Визъсанъ
bizzəṯā’ Βαζαν
Б Бизита
bo‘az Боазъ Βοος ВБС
bāḇel бавель(скы) Βαβυλών

Таблица 3 (продолжение)
Языковые и литературные контакты восточных славян и евреев в средние века 47

Славянская Др.-евр. формы Славянские Традиционные греч. Памятники


передача (транслитерация) формы соответствия
Б biḡṯān Бихванъ Γαβαθα (?) Е
ba‘al hāmôn Балгамонъ Βεελαμων
ПП
ḥešbôn Хежбонъ Εσεβων
bāśmaṯ Басматъ Βασεμμαθ
bera‘ Бера Βαλλα П
ba‘al-ṣəp̄on Бальцефонъ Βεελσεπφων
bəqoḏšô бекωⷣшо [ἐν τοῖς ἁγί
οις αὐτοῦ]
birqiya‘ бирькиı-а [ἐν στερεώματι]
У
ὁ τοῦ Ναυη (υἱὸν
bin-nûn бинъ Ноунъ
Ναυη)
бетула Ш
bəṯûlā(h) ‘дева’ [παρθένος]
бтула ТТ
bêṯ бетъ βηθ МД
Др.-евр. /ṣ/
Ц цирѧне
ṣōr Τύρος, Σορ
(< *Циръ)
СБЗ
цидѧне
ṣîḏôn Σιδών
(< *Цидонъ?)
ṣipporā Циппора Σεπφωρα
ba‘al-ṣəp̄on Бальцефонъ Βεελσεπφων П
’ĕlîṣûr Єлицоуръ Ελισουρ
ḥeṣrôn Хецронъ Εσρων
ṣiyyôn Циωнъ Σιων ВБС
pereṣ Перец(овъ) Φαρες
ḇəṣilṣəlê бецилъцⸯлѣ [ἐν κυμβάλοις]
miṣrayim Мицьраиⷨ [Αἴγυπτος] У
yiṣḥāq Ицьхаикъ Ἰσαάκ
ṣāḏê цади σαδη, τιαδη МД
rəṣîn Рецинъ [лат. Rasin] ПТП
Др.-евр. /ḥ/
Х БИ и др. (см.
māšîaḥ Машлѧхъ и др. Μεσσίας
Таблицу 2)
ûmāḥôl оумахωⷧ [καὶχορῷ]
У
ḥibbəlā(h) хибⸯла [ὠδί
νησέν]

Таблица 3 (продолжение)
48 Александр Грищенко

Славянская Др.-евр. формы Славянские Традиционные греч. Памятники


передача (транслитерация) формы соответствия
Х ḥêṯ хетъ ηθ МД
Харвоунанъ,
ḥarḇônā Βουγαθαν
Харвоуна
Е
’ăḇîḥayil Авихаилъ Αμιναδαβ
Ахасъверосъ
’ǎḥašwērôš Ἀρταξέρξης
Ахашверошь
naḥšôn Нахшонъ Ναασσων
ВБС
ḥeṣrôn Хецронъ Εσρων

ḥermôn Хермонъ Ἕρμων


ПП
ḥešbôn Хежбонъ Εσεβων
ḥănan’ēl Хананеилъ Αναμεηλ ПТП
ḥănōḵ Ханохъ Ενωχ
ḥûr Хоуръ Ωρ
П
ḥiroṯ Хиротъ Εϊρωθ
Г taḥaš, tāḥaš тагаш- [ὑακίνθινος]
bêṯ-leḥem Бетлегемъ Βαιθλεεμ
maḥlôn Маглонъ Μααλων ВБС
rāḥēl Рагель Ραχηλ
Др.-евр. /yy/
Ч (*d͡ž?) ичжаръ, ичгарь ПМ
’iyyār ἰάρ
Ж жаигарьрси КАС
важомеⷬ,
wayyō’mer [εἶπεν δὲ αὐτῷ] У
важомѣръ
Регрессивные ассимиляции по голосу:
ассимиляция по звонкости
ЗГ ša‘šḡaz Саазъгазъ Γαι Е
ЖБ ḥašmōnā(h) (А)хежбонъ Σελμωνα П
ḥešbôn Хежбонъ Εσεβων ПП, П, ВБС
ассимиляция по глухости
ХФ biḡṯān Бихфанъ Γαβαθα (?) Е
’ăḇaḡṯā’ Авахфанъ Αβαταζα (?)
ХЦ yāhṣa(h) I–Ахца Ιασσα П

Таблица 3 (продолжение)
Языковые и литературные контакты восточных славян и евреев в средние века 49

Заключение
Собранные в Таблице  1 данные о памятниках – при всей заведомой неполно-
те приведённой библиографии – не только позволяют увидеть итоги изучения не-
посредственных языковых и литературных контактов славян и евреев на Руси, но и
обнажают многие лакуны: ряд памятников до сих пор точно не датирован и не ло-
кализован, для ряда текстов отсутствуют научные издания, не выявлены оригиналы
переводов и т. п. – все эти вопросы ждут своих исследователей. Но уже сейчас можно
сделать ряд обобщающих выводов:

РЖ и Толковой Палее), литера-


турные контакты русских книжников с иудеями сосредоточились на исторических
сочинениях (И), а затем сместились к Библии, философским и календарно-астро-
номическим произведениям, причём если в ранний период наблюдалось межконфес-
сиональное напряжение (даже с учётом ограниченности личных контактов и следо-
вания полемистов традиционной византийской топике), то к XV веку оно переросло
в своего рода диалог, возможный благодаря и весьма высокой религиозной терпи-
мости в Великом княжестве Литовском8, и новым гуманистическим веяниям, при-
давшим обращению христианских книжников к иудейской традиции совершенно
новый смысл: так, вместо “религиозно-литургических целей” при обращении к др.-
евр. оригиналам Св. Писания на первый план выходят именно “познавательные или
литературные цели”, в которых русским книжникам отказывал А.А. Алексеев (1999:
185), утверждая, что новые переводы библейских текстов и глоссы к существующим
славянским переводам возникали сначала в синагогальной среде. Гораздо проще при-
знать, что православные деятели разных русских земель XV века

не только были иудаизантами [не иудейскими прозелитами, а лишь интересующи-


мися иудаизмом – А.Г.] в узком смысле слова, но и составили первое поколение
русских образованных людей, которым были присущи западные по типу гумани-
стические интересы (Дмитриев 2016: 223).

Здесь М.В. Дмитриев продолжает развивать концепцию, согласно которой в “ереси


жидовствующих” полностью отсутствовал элемент прозелитизма со стороны собствен-
но иудеев: эта концепция в наиболее обстоятельном виде изложена в книгах Т. Зеебома

8
Условия религиозной терпимости, позволившей расцвести славяно-еврейским
контактам, А.А. Алексеев относит к киевской эпохе, признаваясь при этом в бедности “исто-
рических свидетельств о пребывании евреев в восточной Европе” в это время: “…тот куль-
турно-религиозный симбиоз, какой существовал в Киевскую эпоху, мог возникнуть лишь в
обстановке религиозной толерантности, обычной для древних империй, и в данном случае
мог быть наследием Хазарской империи” (Алексеев 2014: 177). Конечно, на тёмную хазарскую
древность можно много чего списать, но это лишь запутывает иудео-славянскую проблему и
уводит в область домыслов.
50 Александр Грищенко

(Seebohm 1977) и Ч. Де Микелиса (De Michelis 1993). Кроме того, статья М.В. Дмитри-
ева представляет особый интерес в концептуальной оценке движения русских “жидов-
ствующих”, которое, как убедительно демонстрирует автор, не возникает на пустом ме-
сте, а коренится “в конфессионально-богословских особенностях отношения христиан
к иудаизму в православной части европейского мира” (Дмитриев 2016: 212).

-
вяно-еврейских (resp. христианско-иудейских) контактов на Руси от ранней эпохи к
более поздним, вплоть до их искусственного прерывания на землях Великого княже-
ства Московского и вошедшего в его состав Новгорода. Собственно, вся книжная
традиция на ц.-слав. языке была непрерывной, и эту непрерывность можно постули-
ровать и в области средневековой иудео-славики. В связи с этим нельзя пренебрегать
и такими древними свидетельствами возможных славяно-еврейских контактов, как
надписи на стенах Новгородского Софийского собора кон. XI в. коуни рони (из др.-
евр. qûmî ronnî, Плач 2:19?) и парехъ мари (из сирийского barreḵ mār ‘благослови, Го-
споди’?) (Gippius и др. 2012), даже с учётом критики С.Ю. Темчина (2013, 2015).

-
ского имени мессии по разным памятникам, отражённом в Таблице 2) славяно-еврей-
ских контактов наблюдается непрерывность языковая, о которой свидетельствуют
данные Таблицы 3 (впрочем, демонстрируют они и её неоднородность). Так, несмотря
на наличие некоторых редких примеров ашкеназского произношения др.-евр. языка,
основной массив языковых данных говорит о неашкеназской основе того идиома,
с которым имели дело средневековые русские книжники, причём вплоть до конца
XV в., когда ашкеназы уже прочно обосновались в Восточной Европе. О неашкеназ-
ском произношении переводчиков ВБС писал ещё Моше Альтбауэр (Altbauer, Taube
1992: 22-23, 78), предлагавший на роль искомого идиома др.-евр. язык литовских
караимов; Сергей Юрьевич Темчин предполагал, что это был провансальский или
итальянский (близкий сефардскому) диалект средневекового иврита, основываясь на
реализации др.-евр. -yy- в качестве ž (Temchin 2014: 276-277), однако ту же черту мож-
но найти и во многих тюркских (в основном кипчакских) говорах, так что участие в
славяно-еврейских контактах тюркоязычных носителей некоей иудейской традиции
весьма вероятно, особенно в свете того, что в глоссах и эмендациях П обнаружилось
значительное количество тюркизмов и арабизмов, прошедших через явное тюркское
посредничество (Grishchenko 2016). Более того, эти глоссы и эмендации восходят к
тюркскому таргуму, сохранившемуся в более поздних рукописях восточноевропей-
ских караимов (Грищенко 2017; 2018б)9. Согласно последней публикации В.В. Калу-

9
Единственная рукопись тюркского таргума, практически современная спискам П,
– РНБ, Евр. I. Библ, № 143 – датирована нами по водяным знакам 1470-80 гг.: Пятикнижие в
ней представлено фрагментом Исх 21:11 – Числ 28:15, в котором, однако, имеется ряд соответ-
Языковые и литературные контакты восточных славян и евреев в средние века 51

гина, по крайней мере один тюркизм – точнее, тюркская форма скындыⷬ имени Алек-
сандр (то есть Александра Македонского, который представлен как “еллинский царь”
в глоссе к Дан 8:21) – засвидетельствован в ПТП (Калугин 2017: 20), и аналогичная
тюркская форма скиндириı-а топонима Александрия (араб. al-’Iskandariya) – без на-
чального и- и с гармонией гласных – представлена в П (Grishchenko 2016: 256); ис-
точники правки ПТП требуют дальнейшего изучения: со всей очевидностью, они не
ограничены одним МТ.

переводе и транслитерации из квадратного письма в кириллическую графику, что


предполагает беспрецедентное для всего Средневековья и раннего Нового времени
разрушение графического барьера между противопоставленными друг другу конфес-
сиональными традициями. Объяснение А.А. Алексеева этому графическому пере-
ключению тем, что

славянское кириллическое письмо, благодаря наличию букв, восходящих к ев-


рейскому квадратному шрифту, имело значительные преимущества в передаче ев-
рейской произносительной системы, и это обстоятельство могло способствовать
отказу в самой еврейской среде от использования квадратного шрифта (Алексеев
2014: 173),

не выглядит убедительным хотя бы потому, что основной массив литературных за-


имствований из иудейской традиции составляли тексты, п е р е в е д ё н н ы е на
славянские идиомы (ц.-слав., рут. языки и переходные между ними формы), а н е
т р а н с л и т е р и р о в а н н ы е кириллицей (кроме части У), так что передавать
особенности “еврейской произносительной системы” не имело в целом никакого
смысла, кроме случаев передачи имён собственных и терминов, остававшихся без
перевода, – то есть того материала, который практически с исчерпывающей полно-
той приведён нами в Таблице 3. Использование еврейской графики для славянского
языка широко известно из чешских глосс, среди коих некоторые формы можно ин-
терпретировать как восточнославянские, хотя вопрос о языке восточнославянских
евреев эпохи средневековья несколько шире (Kulik 2014). Опубликованный Алек-
сандром Куликом кириллический абецедарий со славянскими названиями букв (по
многим формальным признакам – именно восточнославянскими) в еврейской гра-
фике из Бодлеанской Псалтири кон. XIII-нач. XIV в. (Он же 2012: 389-399) мог быть
составлен вовсе не евреем из средневековой Руси, а английским гебраистом, упраж-
нявшимся в учёности, правда, конечно, не без участия еврейского информанта, по

ствий глоссам и эмендациям П. Гораздо больше совпадений между глоссами и эмендациями


П и тюркским таргумом обнаруживается в более поздних рукописях (начиная с XVIII в.) и
печатных изданиях (с 1830-х гг.) этого таргума в нескольких довольно близких друг другу вер-
сиях на различных диалектах караимского языка.
52 Александр Грищенко

крайней мере имевшего торговые контакты с Русью. Целый восточнославянский


текст, записанный еврейскими буквами, известен в существенно более поздней фик-
сации – 1830-х гг., из черновых бумаг Авраама Фирковича (обнаружен Даном Шапи-
рой и готовится нами совместно к публикации), поэтому существование славянского
таргума всё ещё остаётся дискуссионным вопросом.

Корректурное дополнение
Когда настоящая статья уже была на вёрстке, в Государственном историче-
ском музее в Москве мы обнаружили подборку текстов, имеющих прямое отноше-
ние к нашей теме (собрание И.Е. Забелина, № 436 – Конволют 1640-1650-х гг.): в
продолжение тетрадей, содержащих фрагменты Иудейского Хронографа, следовал,
во-первых, второй (и доныне неизвестный) список У, правда, без начала (лл. 302-
306об.); во-вторых, совершенно неизвестные тексты: 1) глоссарий к Песни песней
в рут. переводах, причём как ПП, так и из ВБС, а также из не идентифициро-
ванных пока источников, включая кириллическую транслитерацию слов из МТ
(лл.  306об.-308); 2)  фрагмент рут. перевода Числ  24:2-25, 23:18-19 с др.-евр. языка
(лл. 308-309об.); 3) фрагмент рут. перевода Ис 10:32-12:4 с др.-евр. языка (лл. 309об.-
311); 4) фрагмент рут. перевода Притч 8:11-31 с др.-евр. языка, отличный от того, что
содержится в ВБС (лл. 311-312об.). Эту группу текстов можно условно назвать “За-
белинской подборкой” (ЗП) и включить в группу 3 Таблицы 1. Примечательно, что
ЗП была создана книжником-христианином, что очевидно из его ремарки перед
чтением из Числ: “О Христѣ моем упование имѣя, худыи аз потщахся от евреискых
книг вновѣ превести и написати иже о Христѣ пророчьствия от Числъ”. Сейчас мы
готовим комментированное издание ЗП.

Сокращения

в.-слав. восточнославянский
греч. греческий
др.-евр. древнееврейский
др.-рус. древнерусский
МТ Масоретский текст
новг. новгородский
разг. разговорный
ркп. рукопись
рус. русский
рут. рутенский (на “простой мове”)
Языковые и литературные контакты восточных славян и евреев в средние века 53

слав. славянский
слав.-рус. славяно-русский
ТП Толковая палея 1477 г. Воспроизведение Синодальной рукописи
№ 210, I, Санкт-Петербург 1892 (= Издание Общества любителей
древней письменности, 93).
ц.-слав. церковнославянский
ю.-слав. южнославянский
Сокращённые названия библейских книг даны в соответствии с со-
временной традицией издания русского Синодального перевода.

Литература

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Abstract

Alexander Grishchenko
The Linguistic and Literary Contact between East Slavs and Jews in the Middle Ages: Results and
Perspectives of the Study

This article gathers all the data on the medieval East Slavonic canonical texts – written be-
tween the 13th and 16th centuries – which evidence direct linguistic and literary contact between East
Slavs and Jews. Several linguistic indicators of immediate contact have been extracted from these
texts: the transferring of the Hebrew phonemes /š/, /ə/, /h/, /ḥ/, /g/, /b/, and /c/ via correspond-
ing Slavic letters, using a specific grapheme for the Hebrew letter ‘Aleph,’ assimilations by voice, and
transferring Hebrew -yy- via ž or dž (which is explained by a Turkic mediation in these contexts).

Keywords

Old Russian literature; Jewish-Christian relations; Church Slavonic; Ruthenian; Judaizers.


© 2018 Author(s). Open Access. This article is “Studi Slavistici”, xv, 2018, 1: 61-86
distributed under the terms of the cc by-nc-nd 4.0 doi: 10.13128/Studi_Slavis-20603
Submitted on 2018, March 4th issn 1824-761x (print)
Accepted on 2018, March 11th issn 1824-7601 (online)

Jacopo Doti

Il mito del Demetrio moscovita nell’Italia del Seicento.


Dal romanzo di Maiolino Bisaccioni alle tragedie
di Bianco Bianchi e Giuseppe Teodoli

1. Introduzione
La fortuna letteraria del Boris Godunov di Puškin (1825/1831), e ancor più quella della
magistrale trasposizione musicale datane da Musorgskij nella seconda metà dell’Ottocen-
to, hanno contribuito alla cristallizzazione di un mito politico-letterario di sorprendente
vitalità, legato non tanto all’imponente figura dello zar infanticida quanto a quella del suo
sfuggente antagonista, il cosiddetto Falso Demetrio (Лжедмитрий), sulla cui identità an-
cora oggi non è possibile pronunciarsi con assoluta certezza1. Nel corso del tempo, infatti, si
sono avvicendate teorie fra le più disparate sulla figura del sedicente zarevič, in un viluppo
inestricabile di mito e storia, che si è rivelato un humus quanto mai fecondo per l’affer-
mazione sulla scena letteraria europea dei Torbidi moscoviti. “Universale e particolare”2,
attuale e al contempo inattuale, il soggetto dimitriano è stato capace di rigenerarsi per oltre
due secoli: dalle peripecías novelescas di Lope de Vega e del suo Gran Duque de Moscovia
(1606?-1613) sino alla trasfigurazione classicistica a sfondo politico del Demetrios di Paul
Ernst (1905) e ad altre declinazioni novecentesche3. Attorno alla figura del samozvanec,
prima che l’imponente opus magnum karamziniano desse sostanza e caratura drammatico-

1
Senza aver la pretesa di fornire in questa sede riferimenti bibliografici esaustivi, segnalia-
mo in ambito russo l’ampia produzione di R.G. Skrynnikov sul Periodo dei Torbidi, mentre in
ambito polacco ricordiamo il volume di Danuta Czerska (1995), il cui intento principale è stato
quello di “riunire in una monografia i risultati delle ricerche svolte in un lasso di tempo che ha visto
la pubblicazione tanto degli studi polacchi sui rapporti fra il Falso Demetrio e la Rzeczpospolita,
quanto del terzo volume de La Russie et le Saint Siège di Paul Pierling (Paris 1901), integrandoli con
il frutto delle proprie indagini d’archivio” (Bernardini 1997: 365). La ‘scuola francofona’, in Italia
conosciuta soprattutto grazie al volume di Prosper Mérimée, Épisode de l’histoire de Russie. Les faux
Démétrius (1853), ci ha consegnato nel 1990, a opera di Yves-Marie Bercé, uno studio affascinante sul
mito politico-popolare del ‘re nascosto’, a cui lo studioso riconduce anche le figure dei samozvancy
russi (Bercé 1990). Infine, in ambito anglosassone, va senz’altro ricordata la pregevole monografia
di Maureen Perrie, che all’approccio sociologico unisce una dettagliata e attendibile ricostruzione
storica dei primi anni della Smuta (Perrie 1995).
2
Bernardini 1994: 138.
3
Sono più di quattrocento i testi dedicati al mito di Demetrio (Niedziela 1991). Sulla fortu-
na teatrale della Dimitriade rimando ad Alekseev 1936 e Bernardini 2010. Per un approfondimento

Jacopo Doti (University of Bologna) – jacopo.doti2@unibo.it


The author declares that there is no conflict of interest
62 Jacopo Doti

morale al Godunov, si era coagulato infatti un universo vastissimo di affabulazioni storico-


letterarie ancora oggi parzialmente inesplorato.
Fra queste risultano di particolare interesse due tragedie italiane del xvii secolo, en-
trambe riconducibili al tardo classicismo barocco: Il Demetrio di Bianco Bianchi (1645) e
Il Demetrio moscovita (1651) di Giuseppe Teodoli. Alle opere di questi due letterati, oggi
pressoché sconosciuti, non arrise la fama toccata in sorte al pregevole romanzo di Maioli-
no Bisaccioni (Il Demetrio moscovita, 1639); tuttavia esse attestano – insieme alla succitata
comedia di Lope e alla tragicommedia di John Fletcher (The Loyal Subject, 1618) – l’in-
dubbia fortuna teatrale del mito dimitriano nell’Europa del Seicento e offrono al critico
letterario un campo d’indagine privilegiato per il vaglio delle implicazioni politico-ideo-
logiche della vicenda. D’altro canto, poiché in entrambi i casi i drammaturghi italiani si
rifecero al modello della tragedia regolare, risulterà d’ulteriore interesse osservare in quale
misura i dettami di poetica e retorica abbiano inciso sulla presentazione, distribuzione e
variazione della materia storica.

2. La ricezione italiana del mito di Demetrio


Se vogliamo davvero comprendere il contesto storico-culturale, nonché ideologico, in
cui attecchì in Italia la Dimitriade, è necessario fare un piccolo salto temporale all’indietro,
ricordando che il coinvolgimento della Chiesa cattolica e, in particolar modo, dell’Ordine
dei Gesuiti nella risoluzione della guerra di Livonia (1558-1583) aveva di fatto reso il nostro
Paese un centro privilegiato per la ricezione e l’irradiazione delle notizie che giungevano
dai territori dell’Europa nordorientale.
Protagonista incontrastato di quella stagione fu senz’altro Antonio Possevino. Già
autore della Moscovia, una raccolta di due Commentarii sulle missioni diplomatiche
da lui compiute nelle vesti di legato papale, il padre gesuita è da molti considerato l’e-
stensore dell’anonima Relatione della segnalata, et come miracolosa conquista del paterno
imperio, conseguita dal Serenissimo Giovine Demetrio Gran Duca di Moscovia, in questo
Anno 1605 [...], stampata a Venezia presso Barezzo Barezzi4. Pur essendo stato rimos-
so nel 1597 dal suo incarico, Possevino aveva infatti continuato a tenersi informato su
tutto ciò che accadeva nell’Europa settentrionale e centro-orientale. Nella fattispecie,
grazie alla stretta corrispondenza epistolare intrattenuta con i padri Ławicki e Czy-
rzowski, entrambi al seguito di Demetrio nella sua campagna di riconquista del trono
moscovita, egli seguiva a distanza e caldeggiava più che mai l’impresa del pretendente,
sotto le cui insegne auspicava potesse realizzarsi la tanto agognata riunificazione delle
due Chiese, obiettivo ultimo della sua attività nelle terre ‘scismatiche’. Quale che fosse

sull’età barocca si guardi Brody 1972; per una prospettiva di traduzione intersemiotica del soggetto
si veda invece Emerson 1986.
4
Fra i primi a ipotizzarne la paternità fu Sebastiano Ciampi (Firenze 1827). Oggi tuttavia
l’acritica attribuzione a Possevino viene messa in discussione. Si veda Bernardini 2012.
Il mito del Demetrio moscovita nell’Italia del Seicento 63

l’autore del succitato libello, l’operazione che vi era alla base era di natura squisitamente
pubblicistica e ne garantì il successo editoriale: già nel 1606 il gesuita spagnolo Juan de
Mosquera ne forniva infatti una versione, seppur non letterale, in lingua spagnola, fon-
te primaria della comedia di Lope de Vega; ma ne apparvero a breve giro anche tradu-
zioni in lingua francese, tedesca e latina (cfr. Poehl 1932: 49). Come scrive Paul Pierling
nella sua monumentale disamina dei rapporti intercorsi fra la Russia e la Santa Sede,
“[Possevino] s’adresse au grand publique, et lance dans le monde sa courte et substan-
tielle Relazione. [...] L’histoire de Dmitri devenait de la sorte populaire en Occident”
(Pierling 1901: 196-197).
Tuttavia, se l’alacre attività del padre gesuita5 farebbe presupporre un appoggio in-
condizionato da parte della Chiesa cattolica alla causa di Demetrio, la posizione ufficiale
della Santa Sede era in realtà decisamente più cauta, per non dire scettica. Pare infatti che a
margine di un dispaccio proveniente da Cracovia, nel quale veniva annunciata la comparsa
sul confine polacco-lituano del redivivo zarevič, papa Clemente viii abbia scritto: “Sarà un
altro Re di Portogallo resuscitato”6.
Su posizioni simili si attestava anche il cancelliere polacco Jan Zamoyski, il quale
aveva sin dall’inizio manifestato il suo scetticismo nei confronti del protegé del principe
Wiśniowiecki. Era stato su suggerimento di quest’ultimo che Demetrio aveva confeziona-
to con cura la propria ‘versione dei fatti’, concorrenziale allo sledstvennoe delo, il rapporto
stilato dalla commissione d’inchiesta del ‘caso Uglič’7. Lo stesso Wiśniowiecki l’aveva poi
messa per iscritto e inviata a Sigismondo iii, nella speranza di poter ricevere udienza. In
essa Demetrio affermava di essere scampato ai sicari assoldati da Boris Godunov grazie al
provvidenziale intervento del suo istitutore, il quale lo aveva sostituito nel letto con un cu-
gino della medesima età, all’insaputa della madre, e lo aveva poi dato in custodia a un uomo
fidato. Alla morte di quest’ultimo, Demetrio aveva preso su suo consiglio le vesti monacali,
girando in incognito per gran parte della Moscovia, finché non era stato riconosciuto da un
confratello “ex incessu moribusque heroicis”8 ed aveva quindi deciso di varcare il confine
polacco-lituano in cerca di aiuto e protezione.

5
Cfr. Pierling 1901: 194-197. A p. 445 del detto volume è possibile trovare la trascrizione di
una lettera inviata da Possevino a papa Paolo v in cui il padre gesuita riferisce, tra l’altro, dei suoi
contatti con padre Ławicki e delle speranze riposte in Demetrio.
6
Il riferimento naturalmente è ai falsi Sebastiani che avevano imperversato in Portogallo fra
la fine del xvi e gli inizi del xvii secolo. Si veda, sull’argomento, Bercé 1990.
7
Per fare luce sulle cause dell’improvvisa morte del piccolo Demetrio (1582-1591) e dei di-
sordini che ne erano seguiti, Boris Godunov – allora consigliere dello zar Fëdor i – aveva inviato a
Uglič una commissione d’inchiesta capeggiata da Vasilij Šujskij, la quale era giunta alla conclusione
che lo zarevič era stato colto da un attacco epilettico proprio mentre stava giocando con un coltello
e si era così ferito mortalmente. Gli atti sono consultabili in Klejn 1913.
8
Nowakowski 1839: 8.
64 Jacopo Doti

Aveva senz’altro ragione Zamoyski quando obiettava che la fabula poteva ben
essere materia delle commedie di Plauto e Terenzio9; vi figuravano infatti alcuni mi-
tologemi di fattura squisitamente letteraria (innocente perseguitato, sostituzione di
persona, morte simulata, travestimento, fuga in terra straniera, agnizione, ecc.) che sa-
rebbero poi andati a costituire il cuore della versione polacco-gesuitica del mito (cfr.
Pierling 1901: 400-401).
Un’altra figura-chiave per la diffusione in Italia delle notizie riguardanti il giova-
ne pretendente fu infatti il padre gesuita Claudio Rangoni, nunzio papale a Cracovia.
Questi aveva tenuto costantemente aggiornato Clemente viii sull’evolversi della vicen-
da10, e quando era giunta nella capitale polacca la relazione di Demetrio ne aveva fatto
subito tradurre il testo in latino e lo aveva inviato al pontefice (8 novembre 1603)11. Tut-
tavia, a mio avviso, è ancora più interessante la lettera in cui Rangoni – due anni dopo
– ragguaglia Paolo V sui casi moscoviti12. Essa infatti non solo attesta la cristallizzazione
dell’archetipo mitico (l’autoaffabulazione di Demetrio), ma ne esplicita anche la portata
politico-ideologica. Il nunzio papale infatti insiste sulla conversione del pretendente al
cattolicesimo e sugli impegni presi da quest’ultimo a Cracovia, vale a dire la riunifica-
zione delle Chiese e la conseguente alleanza politica in chiave anti-musulmana. Nella
parte conclusiva dello scritto, Rangoni traccia inoltre un breve ritratto fisico e morale
di Demetrio che lo pone agli antipodi dell’immagine propagandata prima da Boris Go-
dunov e poi da Vasilij Šujskij. Il sedicente zarevič, lungi dall’essere un oscuro monaco
spretato versato nelle scienze occulte e noto col nome di Griška Otrep’ev, si presenta
ai nostri occhi come un giovane d’aspetto nobile, di spirito vivace, di buona eloquenza
e indubbio coraggio. Ha quindi tutte le carte in regola per essere presentato agli occhi
dei fedeli come un autentico ‘principe cristiano’, chiamato dalla Divina Provvidenza a
compiere alte imprese.
Ora che abbiamo individuato il nucleo archetipico del mito (la relazione Wiśnio-
wiecki) e la sua provenienza geografica (Polonia), non ci resta che valutare in quale misura
le successive ‘metamorfosi’ letterarie (nel nostro caso, italiane) si siano discostate da tale
affabulazione, verificando di volta in volta il peso del filtro politico-ideologico di partenza
(fondamentalmente gesuitico) e, su un piano diverso, le convenzioni di genere a cui il sog-
getto dovette sottostare.

9
Cfr. Perrie 1995: 41-42. La fonte citata dalla studiosa è la Russkaja Istoričeskaja Biblioteka,
izdavaemaja Imperatorskoju Archeografičeskoju Kommissieju, i, Sankt-Peterburg 1872 (p. 16). Cfr. an-
che la relazione di Rangoni a Paolo v: “Il gran cancelliere, che diceva ciò essere materia delle come-
die di Terentio di riconoscere figliuoli ecc.” (Pierling 1901: 436).
10
I suoi dispacci a Clemente viii si possono leggere in Pierling 1878: 175-198.
11
L’originale è conservato negli Archivi Vaticani (Fondi Borghese, iii, 90, a), ma è possibile
leggerne una riproduzione negli Żródła do dziejów Polski (Nowakowski 1841). Preciso tuttavia che
io ho potuto consultare il resoconto come riportato in Nowakowski (1839).
12
Ne leggiamo una trascrizione in appendice a Pierling 1901: 431-444.
Il mito del Demetrio moscovita nell’Italia del Seicento 65

3. Il Demetrio moscovita di Maiolino Bisaccioni


Un punto di partenza ineludibile per il nostro excursus è rappresentato dal Demetrio
moscovita del conte Maiolino Bisaccioni13, un romanzo storico-politico stampato per la pri-
ma volta a Venezia nel 163914. Il curatore dell’edizione moderna – Edoardo Taddeo – nelle
prime pagine della sua introduzione storico-critica all’opera ammette che, in assenza di
una mappatura completa degli scritti dell’epoca, non gli è dato avere un quadro preciso
delle fonti accessibili al Bisaccioni15. Egli, tuttavia, dubita fortemente che la Relazione del
Barezzi-Possevino possa essere annoverata fra queste. O, perlomeno, che si tratti di una
fonte diretta. Ipotizza invece che l’autore abbia fatto ricorso alla Tragoedia Moscovitica del
Grevenbruch16, una concisa prosa latina di tipo storico, che, pur seguendo la versione po-
lacca del mito (essa infatti deriva in buona parte dalla Relazione17), “attenua i tributi alla
provvidenza divina [...] e capovolge il tono trionfalistico in quello tragico, deplorando l’in-
costanza delle cose umane e la fallacia della fortuna”18. D’altronde, le numerose digressioni
che puntellano la narrazione del Bisaccioni tradiscono “la vivace vocazione pedagogico-
teorizzante dell’autore”19 e lo inseriscono a pieno titolo nel tacitismo secentesco, lasciando
trapelare una concezione laica e disincantata dell’esistenza, financo pessimistica, e perciò
ben lontana dal provvidenzialismo della Relazione, la quale, del resto, si arrestava trionfal-
mente con i preparativi per le nozze con Maryna Mniszech.
Dalla lettura del romanzo emerge un ritratto positivo di Demetrio, eroe ineccepibile
dal punto di vista morale e legittimato per ragioni di sangue a governare; tuttavia egli non
muore da martire della fede – come invece avverrà nella tragedia del Teodoli (1651) – ma

13
Maiolino Bisaccioni (Ferrara 1582-Venezia 1663) fu storiografo e letterato italiano, mem-
bro di varie Accademie, tra cui quella degli Incogniti, di cui divenne Segretario a partire dal 1651. Si
vedano la voce dedicatagli dal dbi (Dizionario biografico degli italiani, x, 1968), a firma di Valerio
Castronovo, e la nota biografica a cura di Edoardo Taddeo in Bisaccioni 1992: li-lix.
14
La composizione del Demetrio risale al 1638. La terza e ultima edizione, corretta e ampliata
(con l’aggiunta di una seconda parte dedicata al destino di Maryna Mniszech e del cosiddetto Se-
condo Demetrio), esce a Venezia nel 1649.
15
Per una panoramica sulla ricezione del mondo slavo in Italia si rimanda a Cronia 1958. In
particolare, si leggano le pagine dedicate alle principali fonti di informazione disponibili al lettore
secentesco (245-246). Puntuale e illuminante la recensione critica all’edizione moderna del roman-
zo bisaccioniano firmata da Luca Bernardini, in cui lo studioso rettifica e arricchisce le ipotesi di
Taddeo (Bernardini 1994).
16
Tragoedia moscovitica, sive de vita et morte Demetrii (Coloniae 1608, apud Gerardum Gre-
venbruc [Gerhard Grevenbruch/Grevenbroich]). Sempre Bernardini ipotizza come “fonte interme-
dia” gli Historiarum sui temporis Libri cxxxv (t. v) di Jacques-Auguste de Thou, stampati nel 1620
(Bernardini 1994: 126-130).
17
Cfr. Bernardini 1994: 127.
18
Bisaccioni 1992: xx.
19
Bisaccioni 1992: xlvi.
66 Jacopo Doti

da principe ‘infelice’; e se è vero che la fortuna è a lui sfavorevole, sarà la sua inesperienza
nell’arte del governo a farlo precipitare (“infatti il misero s’intimorì, perché, se ben era
nato, non era però allevato Prencipe; era grande ma nudrito fra’ vili; era prodotto nel co-
mando, ma trapiantato nell’ubidienza”)20. Il fine del romanzo non è quindi celebrativo né
tantomeno propagandistico, bensì didascalico (historia magistra principis)21.
Dal punto di vista del genere letterario il Demetrio moscovita è un’opera ibrida, in cui
la storiografia (intesa come opus oratorium maxime) viene felicemente contaminata con un
modello narrativo d’ascendenza novellistica (l’historia tragica)22. Ed è interessante notare che
– secondo Taddeo – Bisaccioni avrebbe subordinato la materia storica non tanto a ragioni
di contingenza politica23 quanto piuttosto alle convenzioni dettategli dall’assunto narrativo
(protagonista virtuoso destinato a soccombere). Il romanzo bisaccioniano diventa quindi in
quest’ottica un ponte ideale fra la narrazione provvidenzialistica della tradizione polacco-
gesuitica e la sua sublimazione tragica nei drammaturghi italiani del Seicento. Se infatti Lope
de Vega nella sua comedia legittimista aveva fatto vestire a Demetrio i panni di un pícaro de
cocina, presentando al pubblico spagnolo la parabola ascendente di un eroe positivo che dalle
cucine del conte palatino era giunto a riconquistare il trono avito (secondo lo schema col-
laudato dell’innocente perseguitato), Bianco Bianchi e Giuseppe Teodoli decisero invece di
metterne in scena l’improvvida caduta, facendogli così calzare i coturni della musa tragica.

4. Il Demetrio di Bianco Bianchi


Il primo a cimentarsi nell’impresa fu il lucchese Bianco Bianchi. Scarsissime le notizie
a suo riguardo24. Fu teologo e membro dell’Accademia degli Oscuri, istituitasi a Lucca nel
158425. Della sua produzione letteraria ci rimangono, oltre al Demetrio, tre drammi spiritua-
li (La Costanza, Il martirio di S. Agnese, Il martirio di S. Vittoria), tutti stampati nel 1645
per i tipi di Baldassar del Giudice26.

20
Bisaccioni 1992: 102.
21
Cfr. Bisaccioni 1992: 133.
22
Per ulteriori approfondimenti e rimandi bibliografici si legga Bisaccioni 1992: xxxii, n. 40.
23
All’epoca la Serenissima incoraggiava la Repubblica polacca a una comune alleanza contro
gli Ottomani.
24
Fra gli eruditi settecenteschi lo menziona il Mazzuchelli, il quale peraltro si limita a indicar-
ne luogo di nascita, accademia di affiliazione e produzione drammatica (Mazzuchelli 1760). Ne parla
anche il Lucchesini nella sua Storia della letteratura lucchese, inserendolo fra i “coltivatori della poesia
tragica” ed elencandone in nota i testi drammatici (Lucchesini 1831: 53). Lo troviamo inoltre citato nel
volume che Giovanni Sforza dedica a Francesco Maria Fiorentini (1603-1673) e ai suoi contempora-
nei (Sforza 1879: 359-360). Secondo l’autore il Bianchi fu maestro del cardinal Montalto.
25
Sull’Accademia degli Oscuri rimando a Garuffi 1688: 299-320, Lucchesini 1825: 50-60,
Bertacchi 1881: 3-50.
26
Poiché non si tratta di stampe di allestimento e la letteratura sulla vita teatrale lucchese del
’600 non ci viene in aiuto, non ci è dato sapere se questi drammi furono o meno messi in scena (cfr.
Il mito del Demetrio moscovita nell’Italia del Seicento 67

Stando al Lucchesini, i poeti drammatici lucchesi dell’epoca furono molti “ma tenuis-
simo [fu] il loro merito” (Lucchesini 1831: 55). Lo stesso Alekseev non è meno tranchant nel
suo giudizio sul Demetrio, che definisce una tragedia verbosa ed enfatica, aderente alla tra-
dizione classica e sostanzialmente avulsa dal contesto storico di riferimento (cfr. Alekseev
1936: 96-97). Se è vero che lo studioso sconta i pregiudizi di epoca sovietica sulla letteratura
barocca, è innegabile che il Bianchi, aderendo ai dettami di retorica e poetica vigenti all’e-
poca, ci presenta uno spazio scenico quasi angusto nella sua astrattezza ‘verticistica’27: una
dimensione fondamentalmente extra-temporale in cui gli interlocutori del dramma danno
sfogo alle proprie passioni e confessano i propri tormenti in una verbosità a tratti concetto-
sa, spesso caratterizzata dall’accumulazione metaforica.
Il processo di sublimazione messo in atto dal drammaturgo tende altresì a spogliare i
personaggi della marca individuale (e nazionale), finendo per trasformarli in pure maschere
tragiche. Dei dieci interlocutori (di contro ai trenta e più di Lope!) solo tre sono formal-
mente riconducibili a un corrispettivo storico: Demetrio, Eunice (Irina Godunova) e la
Regina Madre (Marija Nagaja). A questi vanno aggiunte la figura di Borizio (Boris Godu-
nov), che compare nelle vesti di ombra vendicatrice nel solo prologo, e quella di Elena (tra-
sfigurazione classicheggiante di Maryna Mniszech), la quale contende l’amore di Demetrio
a Eunice senza tuttavia apparire mai sulla scena.
L’adesione alla poetica della tragedia regolare si riflette anche sulle strategie messe
in atto dal drammaturgo nella scelta e nella disposizione del materiale storico-mitico. Va
premesso naturalmente che l’adozione dell’unità di tempo per una vicenda che si estendeva
dal 1584 fino al 1606 poneva non pochi problemi nella selezione del fulcro attorno al quale
far ruotare l’azione tragica. Se Lope, ignorando le unità pseudo-aristoteliche, aveva avuto
agio di distribuire l’arco drammatico lungo un periodo di circa diciotto anni, Bianchi si
trovava invece a dover condensare e semplificare il soggetto per poterlo ridurre a un’azione
che si risolvesse ‘in un giro di sole’. In questo modo, il nucleo dell’autoaffabulazione dimi-
triana viene relegato alla protasi del dramma, esposto a mo’ di antefatto, in un susseguirsi
un poco artificioso di dialoghi informativi.
Nonostante l’eccentricità rispetto alla forma ‘canonica’ del mito, tale narrazione di-
pende con ogni evidenza dal filone polacco-gesuitico e ne riprende i mitologemi. La princi-
pale innovazione apportata dal Bianchi consiste nell’introduzione dell’elemento amoroso:
veniamo a sapere infatti che Borizio, nella sua smisurata brama di potere, aveva convinto la
sorella Eunice a sposare Teodoro, primogenito di Basilio, sebbene ella nutrisse sin dall’in-
fanzia un tenero affetto per Demetrio, che ne era a sua volta innamorato. Questi non era

Pellegrini 1914). Del pari, nulla lascia intendere che rientrassero nel novero degli esercizi di eloquen-
za e poetica praticati in Accademia (cfr. Bertacchi 1881).
27
Il contrasto risulta quanto mai evidente se guardiamo a due drammi che, pur essendo assai
lontani fra loro, rigettavano del pari la poetica classicistica. Mi riferisco al Gran Duque di Moscovia di
Lope de Vega e al Boris Godunov di Puškin. In entrambi infatti lo spazio scenico si estende sia in senso
orizzontale (dalla Moscovia alla Polonia) sia in senso verticale (da cucine e taverne a palazzi nobiliari).
68 Jacopo Doti

stato confinato a Uglič, ma risiedeva a corte insieme alla madre, la quale – avvertita per
tempo delle trame messe in atto da Borizio per assassinarlo – gli aveva intimato di fuggire.
Demetrio allora, affranto e bandito dalla patria, si era dato al romitaggio; l’incauta bal-
danza giovanile lo aveva spinto tuttavia a dar prova del suo valore cavalleresco sui campi
di battaglia. Borizio aveva quindi deciso di inviare un sicario “scizio” per ucciderlo. In soc-
corso del figlio era giunta ancora una volta l’intrepida madre, che nell’infuriare della lotta
aveva fatto in modo che tutti dessero per morto Demetrio e ne aveva pianto costernata il
cadavere; si trattava in realtà di “un giovinetto a lui sembiante”, caduto nel combattimento.
Come si può notare, in Bianchi scompare la figura dell’istitutore, adottata in buona
parte delle affabulazioni di matrice polacco-gesuitica. Di fatto, la sua funzione drammatica
viene assunta, seppur con qualche forzatura, dalla Regina Madre28. Permane tuttavia il topos
della sostituzione; e, come da copione, alla sepoltura del finto cadavere segue la fuga in in-
cognito del protagonista oltreconfine, in terra polacca (“al Regno del Sarmata feroce”). Qui
Demetrio vive mendicando nella reggia del re, abbattuto nel corpo e nello spirito, finché
l’amore per la “bella Elena”, sorella del sovrano, non ridesta in lui l’animo di un tempo. In-
coraggiato da una lettera della madre a tornare in patria, dove Borizio regna ormai incontra-
stato, il giovane pretendente si decide a rivelare i suoi nobili natali, chiede la mano di Elena
e ottiene dal re un “formidabile esercito guerriero”, alla testa del quale avanza incontrastato
sulla Moscovia, dove nel frattempo la fazione a lui favorevole ha fatto scempio dello zar
usurpatore. Solo l’intervento di Eunice riesce a evitare una guerra civile: memore dell’antico
amore per Demetrio, ella gli concede la corona, mettendo così a tacere le discordie interne.
In questa seconda parte dell’antefatto sorprende l’assenza di figure politiche di spic-
co come quella del principe Wiśniowiecki e quella del conte Palatino Mniszech; singolare
anche la fine violenta di Borizio, che non muore per un colpo apoplettico ma viene truci-
dato in quanto ‘tiranno’; ciò che più colpisce però è il ruolo preminente svolto da Eunice
nel riconoscimento di Demetrio, come ella stessa racconterà nel corso del dramma alla
Regina Madre:

Io bene ai primi incontri


potea ingannarmi al guardo
del variato aspetto di Demetrio,
ma tosto al mover sol d’una palpebra
al favellar, al mover d’un ciglio,
ove l’alma dal cor più viva splende,
chiaro la riconobbe accorto amore.
(Atto iii, scena vi)29

28
D’altronde, Demetrio nella tragedia del Bianchi non è con ogni evidenza un bambino di
otto anni, bensì un adolescente, se non già un giovane adulto.
29
Qui e oltre cito da Bianchi 1645. Per rendere più agevole la lettura ho optato per un am-
modernamento dell’ortografia e della punteggiatura.
Il mito del Demetrio moscovita nell’Italia del Seicento 69

Interessante notare come alla canonica agnizione attraverso oggetti o peculiarità


corporee, di cui abbiamo un’ampia casistica anche all’interno della Dimitriade, qui si so-
stituisca un riconoscimento ‘im-mediato’, dove per l’appunto l’anima dell’innamorata ha
l’intima coscienza di aver ritrovato la sua metà perduta. Il legame spirituale si fa quindi
garante ‘neoplatonico’ della legittimità del sovrano, un vincolo a cui dapprincipio pare cre-
dere anche lo stesso Demetrio:

Con quella stessa mano


mi cinse il crin della real corona.
Io quell’affetto, che stimai da prima
desio d’Imperio, or sento
fatta cura amorosa ond’ardo, e regno.
(Atto i, scena ii)

Eppure, ben più forte si dimostrerà per lui il patto politico stretto col re polacco e,
soprattutto, più rapinoso l’amore carnale per Elena. Demetrio non solo non sa scegliere
fra l’idealizzato amore adolescenziale per Eunice e il fatale coup de foudre per Elena, ma
rimane anche impaniato in vincoli inestricabili di natura politico-cavalleresca: egli infatti
è debitore della corona tanto a Eunice, che si è fatta mediatrice con la fronda boiara a lui
ostile, quanto al re polacco, che gli ha fornito l’esercito e alla cui figlia ha promesso la mano.
L’eroe si trova quindi al centro di un campo di forze insieme centripete e centrifughe su cui
non riesce a esercitare alcun controllo, ed è costretto di fatto all’inazione.
Sul fronte interno, peraltro, Demetrio non deve solo fare i conti con l’inquietudine
crescente di Eunice, che attende di essere chiamata in sposa, ma deve anche frenare l’im-
pazienza dei “baroni” e tenere a bada il malumore che serpeggia fra il popolo, fieramente
ostile alle ingerenze polacche. Addotto a più miti consigli dall’azione congiunta della Re-
gina Madre e dal fido consigliere Lamberto, il giovane sovrano sembra ormai convinto che
l’unico modo per scongiurare una guerra civile sia quello di convolare al più presto a nozze
con Eunice e, per fugare ogni sospetto, congeda definitivamente l’ambasciatore polacco;
ma venuto a sapere che Elena, in tenuta da caccia, ha varcato i confini moscoviti, risolve di
andarle incontro. È questa la peripezia che conduce la traiettoria della tragedia verso l’ine-
vitabile catastrofe. Demetrio infatti, prima di andare incontro all’oggetto del suo desiderio,
decide di congedarsi da Eunice, conducendola con la sua confessione sull’orlo della follia.
In preda a un vero e proprio furor, ella non riesce a capacitarsi di quanto sta avvenendo e
inizia a dubitare dell’identità dell’amato:

Ah falso, ah traditor, voi m’ingannaste;


voi del sangue reale?
Una sembianza, un’ombra
siete voi di Demetrio.
Quest’anima sì vil non è già quella
che dava spirti al generoso petto;
70 Jacopo Doti

fatto tiranno del gran Regno Mosco


tentate con lusinghe
tiranneggiare ancor quello d’amore?
[...]
Oh, apri gli occhi, innamorata Eunice.
E quest’è il tuo Demetrio?
No, che se ben tardi ora il conosco.
Sotto finte apparenze
un servo di Demetrio,
che giace là tra miserabil ossa,
venne con sì vile arte
ad ingannar innamorata donna.
(Atto iv, scena vi)

Si affaccia così nella tragedia un tema centrale del mito, quello del doppio e dell’impo-
stura30. Dimostrandosi fedifrago, Demetrio diventa automaticamente agli occhi dell’amata
un vile impostore: un’ombra, l’immagine ribaltata del nobile cavaliere che ella aveva incoro-
nato come legittimo pretendente del suo cuore. Egli è quindi un usurpatore e, in quanto tale,
non può che definirsi tiranno. Il cortocircuito fra semantica amorosa e semantica politica
verrà esplicitato con indubbia chiarezza dalla stessa Eunice nella scena successiva, quando
ella chiama a raccolta i cittadini moscoviti invocando vendetta sul capo del traditore:

O cittadini del gran Regno Mosco,


soffrirete ch’un vile, un servo indegno
si usurpi il vostro Imperio?
Udite, udite d’innocente amore
colpe pur troppo vere.
V’ingannai, v’ingannai:
questi non è Demetrio. Ah, ben sapete
che si restò colà sotto un gran sasso
quel generoso germe
del gran Basilio estinto.
Questi si finse, o il mio voler se ’l finse
Demetrio, che già un tempo
tra tenere memorie amore impresse.
Non mi udite? Che fate?
Che fan vostre saette?
Trafiggete quel petto
che sa fingere amor, mentir Demetrio.
(Atto iv, scena viii)

30
Sul tema rimane ancora un punto di riferimento imprescindibile il saggio di Boris Uspenskij,
Car’ i samozvanec: samozvančestvo v Rossii kak kul’turno-istoričeskij fenomen (Uspenskij 2002).
Il mito del Demetrio moscovita nell’Italia del Seicento 71

Preda delle rabbiose Furie infernali, Eunice evoca poi, in un crescendo parossistico,
le ombre di Borizio e Teodoro affinché mettano a ferro e fuoco l’intera Moscovia. Il suo
appello viene quindi raccolto dai baroni che, alla guida di un manipolo di uomini, raggiun-
gono Demetrio, trucidandolo (fuori scena) al grido:

Mora il perfido, mora!


Mora il tiranno del gran Regno Mosco,
mora il finto Demetrio.
Mora, ché la regina,
ingannata e tradita,
sangue, grida, e vendetta.
(Atto v, scena iv)

Demetrio, pur non essendo un impostore né un tiranno, cade; e cade perché la sua de-
bolezza viene (a torto) interpretata dalla fazione a lui ostile come segno della confusio tyran-
ni, vale a dire il momento in cui chi detiene il potere pecca e dimostra inequivocabilmente di
non essere più nella Grazia di Dio; e pertanto il suo corpo ‘sacro’ perde la prerogativa ‘divina’
di intangibilità, esponendosi così al braccio del tirannicida31. Ed è proprio attorno al ‘doppio
corpo’ del sovrano (sacro o sacrilego?) che si consumano gli istanti finali della tragedia:

Giace il gran re del Mosco


sul più bel fior degl’anni
tra ’l sangue, e tra la polve orrido in vista,
smorto le labbra, pallida la guancia,
la fronte annuvolata, irta la chioma.
Estinto a mezzogiorno il più bel lume,
lacero il forte petto, altro d’umano
non riserva infelice
che vestigia sanguigne
calcate orribilmente dalla morte.
Stassi la nobil destra
inerme e fredda al proprio ferro accanto.
Così giacciono i re? Così sepolto
tra l’istessa sua polve, e tra ’l suo sangue
giace quest’ampio Regno?
(Atto v, scena iv)

La folla “incostante”, che ora tenta di portare le spoglie di Demetrio dentro il Palazzo,
inveisce contro i regicidi. Solo l’intervento di Eunice riuscirà ancora una volta a ristabilire
quell’ordine che l’aleatorietà dell’impostura aveva temporaneamente incrinato:

31
Si legga, a riguardo, la voce “usurpatore” sul Dizionario dei temi letterari (Bernardini,
Domenichelli 2007).
72 Jacopo Doti

Cittadini del Mosco, udite udite,


anime generose, anime grandi,
contro me rivolgete e l’ira e ’l ferro;
questi sono innocenti.
Miseri, il mio furore
l’ha resi troppo arditi, e la lor destra
tinsero per pietà del mio dolore
(ahi, pur è ver) del proprio re nel sangue.
[...]
Io sono, io sono ch’il vostro re v’uccisi.
ché il vostro re fu questi.
Credeste alle mie furie,
credete al vero duol, quest’è Demetrio.
(Atto v, scena vi)

La tragedia si conclude con il suicidio fuori scena della protagonista, mentre i baro-
ni regicidi Ruteno e Silao, inorriditi di fronte allo scempio testé consumatosi, riflettono
sull’instabilità dei regni terreni e la fallacia del giudizio umano.
A questo punto, vale la pena di fare un passo indietro e soffermarsi brevemente sul
prologo che Bianchi ha premesso al suo dramma. Esso è evidentemente esemplato sul mo-
dello senecano del Tieste o dell’Agamennone, e assume una funzione prolettica. Vi appare
infatti l’ombra inquieta di Borizio, il quale, risorto alla luce “dagli oscuri d’Averno orridi
abissi”, invoca vendetta sul capo dell’ingrata sorella, rea di aver ceduto per amore il trono
all’odiato Demetrio, e profetizza rovina per l’intera Moscovia:

Accenderò di nuovo ardore il seno


del rio Demetrio, ond’ei disprezzi Eunice.
E questa, che dormendo
nel sen d’alta speranza si riposa,
con sogni spaventosi e con l’orrore
del sangue del marito e del fratello
risveglierò dal sonno;
e pungendole il sen con questi serpi
farò sì che, anelando,
per gelato sudor chieda vendetta
della schernita fede,
onde agitati dalle furie orrende,
i più cari ministri, e i cittadini,
dian per tributo al lor Signor la morte.
(Prologo)

La cornice del ‘dramma di vendetta’ sacrifica quindi in via preliminare le dinamiche


interne a una volontà superiore (o meglio, infera), proiettando sull’azione il cono d’ombra
Il mito del Demetrio moscovita nell’Italia del Seicento 73

dell’ineluttabilità. Siamo di fatto agli antipodi della visione provvidenziale (e teleologica)


che promanava dalla tradizione polacco-gesuitica. Tuttavia non va dimenticato che in ottica
legittimista la caduta di Demetrio poneva non pochi problemi al drammaturgo. Pertanto
l’adozione del modello tragico classico in cui l’eroe positivo è destinato a soccombere non
è frutto di una stilizzazione letteraria tout court. Essa permetteva a Bianchi di disinnescare
il cortocircuito politico-ideologico della vicenda, agendo su due fronti: svuotare da un lato
l’azione della sua cogenza politica, sublimandola a livello esemplare (Demetrio cade perché
incapace di dominare le proprie passioni, e risulta quindi inadatto all’esercizio del potere), e
deresponsabilizzare dall’altro i suoi attori, facendoli soggiacere al dominio di forze esterne
eterogenee (ombre vendicatrici, rovesci della fortuna, strali amorosi). All’amartía del prota-
gonista maschile fa da contraltare il furor cieco della protagonista femminile, e se entrambi
sono vittime della tirannide di Amore, l’uno è altresì esposto ai colpi della Fortuna incostante,
mentre l’altra diventa strumento inconsapevole della vendetta ultraterrena di Borizio. La pe-
ripezia innescata dall’arrivo di Elena e dalla conseguente rottura del foedus politico-amoroso
che vincolava i due protagonisti risulta in ultima istanza frutto di un accecamento tempora-
neo (atē): nel breve lasso temporale di incertezza epistemologica che lascia sguarnito Deme-
trio dello scudo della legittimità si consuma la catastrofe, così che il regicidio possa assumere
in apparenza le vesti del tirannicidio. Bianchi tuttavia si guarda bene dal trasformare il delitto
in martirio, come avverrà invece nel Teodoli, e consegna il corpo del suo eroe a un più laico
compianto, che suscita – in conformità allo spirito classico della tragedia – pietà e terrore.

5. Il Demetrio moscovita di Giuseppe Teodoli


A pochi anni di distanza dalla pubblicazione della fatica letteraria del drammaturgo
lucchese, le sventurate vicende del pretendente al trono moscovita destarono l’interes-
se del conte Giuseppe Teodoli [Theodoli]32. Figlio di una prestigiosa famiglia romana di
origini forlivesi, il Teodoli fu accademico Filergita, Incognito e Principe degli Umoristi.
Il Loredano, nel volume celebrativo Le glorie degli Incogniti (1647)33, lo definisce “uno de’
più rinomati scrittori del nostro secolo”34, tessendone magnifici elogi. All’epoca tuttavia il
Nostro non si era ancora cimentato nella scrittura drammatica, ma solo in quella lirica. E fu
proprio in quella drammatica che il Teodoli parve eccellere agli occhi dei contemporanei e
dei posteri35. Oltre al Demetrio moscovita (tragedia, 1651), di lui ci rimangono l’Er(i)minda

32
Sul Teodoli si vedano Loredano 1647, Bonoli 1661, Allacci 1666, Mandosio 1692, Mar-
chesi Buonaccorsi 1741, Quadrio 1749. Una piccola nota anche in appendice a Franchi 1988 (cfr.
Indice dei nomi).
33
Il volume, in realtà, è anonimo e per anni la paternità è stata attribuita a Gian Francesco
Loredano, Segretario dell’Accademia, che ne firmò un avviso al lettore. Oggi si pensa che l’opera sia
stata compilata almeno in parte da Girolamo Brusoni (si veda la voce a lui dedicata sul dbi).
34
Loredano 1647: 290.
35
Cfr. Bonoli 1661: 469 e Marchesi Buonaccorsi 1741: 195-196.
74 Jacopo Doti

(tragicommedia pastorale, 1648) e l’Ipsicratea (favola tragicomica, 1649). Il Mandosio nella


sua Bibliotheca romana ci informa che prima di morire il Teodoli ordinò di bruciare tutte le
sue altre opere poetiche (liriche e drammatiche) affinché non venissero pubblicate postu-
me. Del Demetrio moscovita, edito quando l’autore era ancora in vita, oltre a due edizioni a
stampa (Cesena 1651, Bologna 1652), disponiamo anche di un Argomento in sedici pagine,
le cui copie furono pubblicate in occasione di una messinscena presso il Collegio Capranica
di Roma (1653)36. Si tratta di una testimonianza preziosa perché ci conferma che la tragedia
fu effettivamente messa in scena e, stando alle parole dello stampatore bolognese Giacomo
Monti e dei tre componimenti celebrativi premessi a entrambe le edizioni, essa dovette ave-
re una discreta circolazione o, perlomeno, una buona risonanza.
Non abbiamo alcuna notizia sulla gestazione dell’opera, ma di certo non va dimen-
ticato che nel 1649 era uscita a Venezia per i tipi di Viest la terza edizione, “corretta e ac-
cresciuta”, del Demetrio moscovita del Bisaccioni. Non stupirebbe quindi che il Teodoli,
sull’onda del successo riscosso dal romanzo, abbia deciso di cimentarsi proprio in quegli
anni in una drammatizzazione del soggetto37. Se è vero che alcuni passaggi della tragedia
paiono esemplati sull’historia tragica bisaccioniana, Teodoli tuttavia non sposa la Weltan-
schauung laica del collega accademico e decide di trasformare Demetrio in un principe-
martire che cade vittima di un complesso gioco di intrighi di corte nel vano tentativo di
introdurre il cattolicesimo nella ‘barbara’ Moscovia38.
Torneremo più avanti sulle implicazioni ideologiche della tragedia. Ora vorrei con-
centrarmi sulla struttura del dramma. Canonicamente suddiviso in cinque atti, esso ri-
spetta le tradizionali unità pseudo-aristoteliche. L’azione si svolge infatti a “Mosca, città
imperiale”, poco dopo l’ascesa al trono di Demetrio, nel giorno dei festeggiamenti per il
matrimonio con Maryna Mniszech (qui, Marianna39). Non ci troviamo quindi confinati
come nel Bianchi in un’astratta dimensione extra-temporale; e la scena, seppur addomesti-
cata, ci presenta uno sfondo plausibile per un intrigo di natura politico-religiosa.

36
Ricavo la notizia da Franchi (1988: 304). Peraltro, che la tragedia non fosse stata concepita
dall’autore per una semplice lettura lo si desume dalle parole che lo stesso Teodoli rivolge al dedi-
catario dell’opera, Carlo II, duca di Mantova: “Si compiaccia l’a.v. [...] col sostener la mia penna,
donargli ne’ teatri quegli applausi che non d’altronde che dalla vostra ambiziosa protezione può rice-
vere” (Cesena 16511). Si noti, al contempo, che in entrambe le edizioni a stampa sono presenti lunghe
sequenze di versi ‘virgolati’. Si tratta per lo più di passaggi sentenziosi, impreziositi da complesse figure
retoriche, che non venivano declamati dagli attori ma riservati alla fruizione privata del testo.
37
Nel catalogo bibliografico Autori italiani del ’600 i compilatori indicano esplicitamente
come fonte della tragedia il romanzo del Bisaccioni (Piantanida 1951: voce n. 3911), dato riportato
poi anche in Franchi 1988. In una recensione di quest’ultimo volume, apparsa nel 1990 sulla “Rivista
di letteratura italiana”, Martino Capucci include il Demetrio moscovita fra le tragedie secentesche di
chiara ispirazione romanzesca.
38
Vedi tavola i.
39
Ricordo che, oltre a Maryna Mniszech, sono attestate anche le varianti Maryna Mnisz-
chówna e Marianna Mniczech.
Il mito del Demetrio moscovita nell’Italia del Seicento 75

Le unità di tempo e d’azione – nonostante la ricercatezza sentenziosa e lo stile de-


clamatorio del dettato – conferiscono all’intreccio la concentrazione necessaria per far
percepire la catastrofe come impellente40. Il passato – vale a dire la ‘preistoria mitica’ del
pretendente – non inibisce infatti il presente scenico; esso è ridotto al minimo indispensa-
bile (salvataggio provvidenziale da parte dell’istitutore, vagabondaggio, fuga in terra stra-
niera, innamoramento, agnizione, riconquista del trono) e distribuito con sapienza lungo
tutto l’arco del dramma. D’altro canto, come già avveniva nella tragedia del Bianchi, alcuni
eventi non trovano rappresentazione diretta sulla scena ma sono riferiti a un interlocutore
(e indirettamente al pubblico) tramite classiche rheseis. Si può quindi affermare che, pur
all’interno di una cornice convenzionale, Teodoli è riuscito là dove il Bianchi aveva fallito:
dare sostanza drammatica alla parabola tragica dell’eroe, pur relegandone l’antefatto miti-
co (‘innocente perseguitato’) sullo sfondo.
Anche il numero di personaggi, che in Bianchi era ridotto a dieci (di cui, peraltro,
sette erano parti comprimarie o secondarie) si infoltisce (sedici in tutto); una buona parte di
questi, inoltre, è facilmente riconducibile a precise figure storiche. Non dobbiamo tuttavia
farci illusioni. Se le maschere del Bianchi si sostanziavano di pura retorica, i personaggi del
Teodoli non escono immuni dal processo di semplificazione e addomesticamento impo-
sti tanto dal dramma regolare quanto dal filtro politico-ideologico: Demetrio è un giovane
sovrano ingenuo e idealista, Marianna (Maryna Mniszech) una fanciulla devota al suo in-
namorato, timorosa dei fasti e dei rovesci della Fortuna, Teresilla (Marija Nagaja / Marfa)
una donna accorta ma ormai lontana dagli intrighi e dalla corruzione della corte, Altamiro
( Jerzy Mniszech) un nobile ambizioso ma assennato, Basmano (Pëtr Basmanov) un esempio
preclaro di lealtà eroica, Astero (balio di Demetrio) un vecchio sapiente e un fido consiglie-
re, Basilio (Vasilij Šujskij) un vile cortigiano. A essi si aggiungono l’intransigente Dossiri-
de, patriarca di Mosca (Iov?), Alconte, presidente del Senato, Arcomano, ministro di corte,
Coralto, generale delle guardie imperiali, Amiltone, capopolo di Mosca, Erasto e Childoro,
cortigiani41, e infine la nutrice di Marianna, Ormonda, e la cameriera di Teresilla, Artina.
L’impianto drammaturgico prevede una costellazione mobile di personaggi, che si avvi-
cendano sulla scena in agglomerati sempre mutevoli e finiscono per avvolgere il protagonista,
giro dopo giro, in una spirale da cui non riuscirà più a divincolarsi. Sono fondamentalmente
tre i fronti antagonistici che egli si trova a dover affrontare: quello dogmatico-religioso di
Dossiride, granitico difensore dell’ortodossia, quello cortigiano di Basilio, ambizioso com-
plottista che accusa il neo-zar di impostura, e quello nazional-populista di Amiltone, che si
fa portavoce dell’insofferenza dei moscoviti nei confronti dell’alleanza ‘innaturale’ con i po-
lacchi. Una posizione neutrale è occupata da Alconte, che pur essendo preoccupato per il
nuovo corso della politica demetriana (filo-cattolica e filo-polacca) teme più d’ogni altra cosa

40
Di diverso avviso il Cronia (1958: 275).
41
Entrambi sono protagonisti di una vera e propria trama secondaria. Il piano, ordito da
Erasto al fine di mettere in cattiva luce l’odiato Basmano, sarà sventato da Childoro, suo sodale, ma
di onesti principi.
76 Jacopo Doti

lo scoppio di una guerra civile, e pertanto tenta di mediare le istanze sediziose. Nel campo
opposto, Altamiro, che pure appoggia il disegno politico-religioso di Demetrio, non è sordo
alla Realpolitik professata da Astero ed è più pronto ad ascoltarne i consigli di quanto non
lo sia lo zar stesso, che a tratti pare animato da un vero e proprio fervore controriformistico:

demetrio
[…] Al Ciel, divoto,
consacro l’alma, e ’l core appendo in voto.
Altamiro, ha gran tempo
che del barbaro scisma
questa del nostro Impero empia follia
noi di troncar fervidamente ardemmo.
[…]
Già troppo tralignato è ’l popol lungi
dal vero culto; e troppo l’orme indegne
del greco rito ciecamente preme.
Temp’è, che ravveduto in sé ritorni,
e faccia de l’error ben giusta emenda.
(Atto i, scena ii) 42

Dei tre fronti, quello ‘cortigiano’ risulterà formalmente il più debole. Basilio infatti –
in udienza al Senato – accuserà incautamente Demetrio di essere non solo un usurpatore
ma anche un empio tiranno, asceso al trono con l’aiuto di genti nemiche al solo scopo di
introdurre in Moscovia la fede latina. Così riferisce Childoro:

Proruppe il folle in improperi in prima


di traditor, d’empio tiranno infido.
Indi colpollo iniquo,
ch’usurpando l’Impero altrui devuto
reggea lo scettro e la corona ingiusta;
cui, col nudrire le genti a lei nemiche,
cercava d’introdur riti stranieri.
Poscia mill’altre e mille
produsse accuse ond’ei, convinto e stretto,
precipitar devesse
dal Ciel di Gloria ad un abisso infame.
(Atto v, scena iii)43

42
Qui e oltre cito da Teodoli 1651. Ho provveduto, come per la tragedia del Bianchi, a un
ammodernamento della grafia e della punteggiatura.
43
Tutta la scena, esemplata sul Bisaccioni, non avviene sotto gli occhi degli spettatori ma
viene riferita ad Arcomano da Childoro, che ne è stato testimone.
Il mito del Demetrio moscovita nell’Italia del Seicento 77

L’eloquenza e l’umiltà del giovane zar, che scende ‘al banco degli imputati’ spoglian-
dosi di ogni simbolo regale, trasformano il potente j’accuse di Basilio in un’arma spuntata.
La riunificazione delle Chiese infatti – chiarisce Demetrio – non è l’imposizione di una
fede sull’altra ma il tentativo di ricucire uno strappo insensato, che divide due credi uniti
dagli stessi precetti; il trono non è stato usurpato ma concesso dal Senato stesso dopo che fu
accertata l’identità del pretendente, riconosciuto come legittimo erede dalla madre Tere-
silla e da mille altre prove; l’usurpatore fu semmai Boride, e nulla vieta – in questi casi – di
ricorrere all’aiuto di un esercito straniero per riconquistare il trono, tanto più se le milizie
vengono congedate a mano a mano che la situazione politica si stabilizza. Assolto dalle
accuse, Demetrio esercita clemenza nei confronti dell’accusatore – come già aveva fatto,
all’insediamento, con i sostenitori di Boride – e rafforza, idealmente, agli occhi dei senato-
ri, la propria immagine di sovrano legittimo e magnanimo.
Questa mossa politica, tuttavia, non basterà a disinnescare la miccia incendiaria delle
nozze con Marianna. La peripezia che condurrà l’eroe all’inevitabile catastrofe sarà infatti
la decisione di approntare il banchetto nuziale in un giorno di digiuno44, gesto che viene
interpretato come segno incontrovertibile di blasfemia e tirannide (confusio tyranni) da
parte dei suoi più fieri oppositori (Dossiride e Amiltone). Riporto di seguito il passo cor-
rispettivo nel Bisaccioni:

Erano li nove di Maggio; e perché ai dieci la Russia tutta suole con ogni divozione solen-
nizzare il giorno quanto quello di Risurrezione, avendo inteso il Patriarca che Demetrio
voleva fare il banchetto, mandò a pregarlo che se ne astenesse non solo per il culto che
a Dio si deve, ma per non scandalizzare i popoli, che pur troppo lo stimavano alieno dal
rito della patria. Rispose egli che l’allegrezze de’ matrimonii non disconvengono alla so-
lennità della Chiesa, nondimeno che volentieri l’avrebbe differita, se non avesse saputo
che questo era un incomodare gli ambasciadori; [...] Fu fatto il convito, al quale sederono
Demetrio e Anna coronati. Si stomacarono i cittadini stimando profanata la festività
loro, e irreligioso Demetrio; onde si credettero disubligati da quel religioso giuramento
di fede, che poco prima gli aveano prestato (Bisaccioni 1992: 117).

Appare evidente che da questo momento l’empietà (presunta) del sovrano diven-
ta una prova tangibile della sua tirannia, con conseguente perdita della Grazia divina e
dell’inviolabilità della sua persona45. Demetrio, che su consiglio di Alconte aveva conge-
dato le milizie sarmate onde acquietare il malcontento popolare, si trova sguarnito e cade,
ferito mortalmente da una lancia infetta di veleno, sotto i colpi di una rivolta capeggiata da
Amiltone. Se l’eroe del Bianchi, esalando l’ultimo respiro, aveva rivolto il suo ultimo pen-
siero a Eunice, il Demetrio del Teodoli si conferma anche nel momento estremo ‘principe
cristiano’ e chiede perdono a Dio per il suo uccisore:

44
Vale a dire il giorno precedente la Festa di S. Nicola.
45
Cfr. Uspenskij (2002) e Bernardini-Domenichelli (2007).
78 Jacopo Doti

Pure, avanti al morir, con calde note


pregò per l’uccisor, chiedeo perdono
de le sue colpe al sommo Nume [...]
(Atto v, scena ix)

Si noti inoltre che, a fronte del ruolo decisivo svolto dalla controparte femminile nel-
la tragedia del teologo lucchese, qui figure del calibro di Maryna Mniszech (Marianna) e
Marija Nagaja / Marfa (Teresilla) vengono quasi relegate a un ruolo ancillare. Alla prima
non è nemmeno concessa una scena insieme al protagonista, che pare più devoto alla causa
religiosa che non all’innamorata; ella di fatto passa tutto il tempo rinchiusa nelle sue stan-
ze, paventando rovesci della Fortuna o raccontando lugubri sogni ammonitori all’esausta
nutrice. Prostrata dagli eventi luttuosi, verrà portata in salvo dal padre, a cui preme salvarne
l’onore più che la vita. Teresilla invece, pur inserendosi all’interno dell’agone drammatico
e, in piccola parte, anche in quello politico, si lancia il più delle volte in lunghe tirades
contro la vita corrotta delle corti e, a fine tragedia, abbandona il figlio al proprio destino,
riparando alle più sicure mura del convento. Ciò detto, la sua figura – forte e discreta allo
stesso tempo – ricorda la vera Marija Nagaja più di quanto non lo facesse la Regina Madre
del Bianchi, la quale era ancora ben inserita a Palazzo, difendeva il figlio sventurato come
una leonessa e – ben lungi dal prendere i voti monastici – auspicava di vivere gli ultimi anni
della propria vita circondata dall’affetto dei nipotini.
Un indubbio punto di tangenza fra le due tragedie è rappresentato invece dal prologo
di stampo senecano. Anche in Teodoli infatti il sipario si alza sull’uscita in scena dell’ombra
adirata di Boride, che reclama vendetta per la “consorte estinta” e “l’innocente prole”. Il
sanguinario tiranno non contesta la legittimità del suo successore, asceso al “paterno Impe-
ro” grazie al favore della sorte, ma ne preconizza l’imminente caduta:

Saran l’armi più crude e più pungenti


quelle che oggi procacci,
politico mal saggio e stolto rege,
con nuova ipocrisia, con rito strano
al culto greco e all’instituto antico
del patrio Cielo, del nativo albergo.
(Atto i, scena i)

Boride si dichiara “fabbro” della “tragedia” che trascinerà Demetrio a “catastrofe orren-
da”, ma sa bene che a tessere le fila del destino è solo la “varia Fortuna”. Anche in questo caso,
la visione provvidenziale che stava alla base della propaganda gesuitica, pur facendo qua e là
capolino, si trova a competere con un’immagine precristiana del destino, e tuttavia organica
alla Weltanschauung secentesca46. Essa attraversa come un filo rosso tutta la tragedia e finisce
per ricondurre la Dimitriade a un esempio preclaro dell’instabilità della fortuna:

46
Interessante la visione ‘sincretica’ che emerge dalle parole di Basmano, quando commenta
con Coralto l’inaspettata vittoria di Demetrio sul campo di battaglia: “Fu ’l Giusto, fu ’l Valor, fu la
Il mito del Demetrio moscovita nell’Italia del Seicento 79

O di Fortuna stravaganze estreme!


O di stelle nemiche aspro tenore!
O Sorte! O Cielo! O Dio!
Devrà perir colui ch’a pena è giunto
sulle braccia de’ sudditi acclamanti
al trono ereditario, al patrio tetto,
sol per ombra fallace
di machinata Fé, di rito infesto!
O superbia mortal quanto in un core
sovrasti e sforzi e ciecamente irriti!
Per te Demetrio il Grande,
il generoso eroe, fia ch’abbattuto
spieghi a l’età future un strano esempio
d’una proterva e instabile Fortuna,
d’un popolo incostante ed inumano!
(Atto v, scena vi)

Questo intervento coreutico – affidato in realtà alla voce sola di un corifeo – potrebbe
essere derubricato a semplice stilizzazione di uno stasimo se il tema della instabilità della
sorte terrena (e in particolare di quella dei potenti) non corresse lungo tutta la tragedia.
D’altronde, il teatro si è sempre premurato di porre fra la scena e la platea una ‘distan-
za di sicurezza’, vuoi spaziale vuoi temporale; non stupisce pertanto che l’attualità politica
della Dimitriade, oltre a essere proiettata su uno sfondo esotico (la ‘barbara’ Moscovia),
venga programmaticamente sublimata dal Teodoli come vicenda esemplare. Scrive infatti
l’autore nella dedica prefatoria alla tragedia:

Demetrio Gran Duca di Moscovia fu lo scopo infelice in cui mai sempre bersagliasse la
Sorte le sue più strane vicende. Volò, dopo molt’anni pellegrino, sull’ali d’Amore, colla
scorta vigorosa d’un sollecito Marte, all’ereditate grandezze, per ivi ben tosto dall’emi-
nenza d’un soglio sublime precipitar nell’abisso d’una incostante Fortuna.

Ciò detto, sarebbe riduttivo fermarsi a questo livello di lettura e non cogliere all’inter-
no della cornice classicheggiante l’eco palpitante di una vicenda che aveva avuto in quegli
anni una notevole risonanza ed era stata fatta oggetto di una seria riflessione politica da
parte del Bisaccioni, il quale aveva riconosciuto in Demetrio un potenziale politico ine-
spresso. E sicuramente la sua “partecipazione commossa alla storia narrata” e la “desolata
constatazione dell’instabilità e precarietà della condizione umana”47 erano stati colti dal
Teodoli che, pur calcando artificiosamente la mano sul fervore controriformistico di De-

Fortuna, / anzi fu il Ciel pur solo, / (da cui deriva la Fortuna, e ’l Fato) / che, proteggendo il Giovine
feroce, / a l’onesta cagion donò la palma / di tant’armi rubelle, e squadre avverse; / ch’ove combatte
a pro del giusto il Cielo, / non val forza terrena, uman contrasto” (Atto i, scena vii).
47
Bisaccioni 1992: li.
80 Jacopo Doti

metrio, ne aveva fatto un eroe moderno, assai più vicino al principe católico di Lope che alla
vuota maschera barocca del Bianchi. Concordo pertanto con Federico Doglio che, nella
sua ampia rassegna sul teatro tragico minore del Seicento italiano, dedica un breve para-
grafo al Demetrio moscovita, confermandoci che il valore storico-letterario dell’opera non
risiede tanto nella patina ideologica di cui è rivestita quanto nel dialogo che essa instaura
col contesto storico, politico e culturale in cui è stata concepita:

Questa è tragedia che, oltre i consueti lamenti sulla corrotta vita delle corti, rivela una
attenzione assidua alla politica ecclesiastica e alla necessità di una sapiente condot-
ta di governo, ed è importante testimonianza della riflessività degli intellettuali del
tempo sul nuovo indirizzo filosofico e storico dei trattatisti politici dell’età barocca
(Doglio 1960: c).

6. Conclusioni
Giunto al termine di questo excursus, che non pretende naturalmente di essere esau-
stivo, vorrei tentare di riannodare i fili del discorso e proporre alcune considerazioni finali.
Abbiamo visto innanzitutto che la ricezione della Dimitriade nei paesi cattolici fu
legata alla politica ecclesiastica e, in particolar modo, alla militanza dei gesuiti, che si pro-
ponevano di ricomporre lo scisma fra Chiesa cattolica romana e Chiesa ortodossa. Costoro
avevano individuato nel sedicente Demetrio l’uomo della Provvidenza: l’immagine idea-
lizzata del principe cattolico perseguitato che, in virtù delle sue innate qualità morali riesce
a riconquistare il trono per poi cadere prematuramente senza essere riuscito a compiere
il volere divino, diventa il nucleo affabulatorio che dalla Polonia giunge a Roma e di lì si
irradia nell’Europa meridionale.
L’eco delle vicende, fors’anche grazie all’ampia pubblicistica gesuitica, fu tale da
creare un mito storico-politico che ebbe da subito un’incredibile fortuna letteraria. Il
primo a cimentarvisi fu Lope de Vega con la sua comedia El Gran Duque de Moscovia.
Egli proponeva al pubblico spagnolo, senza mai sconfinare nel propagandistico, le av-
vincenti peripezie di un valoroso principe cattolico che, dopo essere stato ingiustamente
perseguitato, riusciva a riconquistare il trono che gli era stato sottratto. Non sappiamo
se Lope fosse o meno a conoscenza della fine tragica del suo eroe, tuttavia non sarebbe
improprio ipotizzare che la spinta esercitata dalle convenzioni drammaturgiche dell’e-
poca lo avrebbe comunque portato al sacrificio del vero storico in virtù di una più alta
giustizia poetica: il trionfo provvidenziale dell’eroe sul tiranno, in una chiave di lettura
legittimista (cfr. Brody 1972: 69).
Nondimeno, a trent’anni dalla caduta rovinosa di Demetrio, si poneva per i ricettori
della versione polacco-gesuitica un problema di non poco conto, vale a dire quello di conci-
liare la visione provvidenziale dell’impresa dimitriana con il tragico destino a cui era anda-
to incontro l’eroe. E se la questione era meno cogente per la riflessione politica bisaccionia-
na, fondamentalmente riconducibile al tacitismo secentesco, il finale catastrofico diventava
Il mito del Demetrio moscovita nell’Italia del Seicento 81

un vero e proprio cappio per i tragediografi italiani del Seicento48. Se infatti, in Russia, un
secolo più tardi Aleksandr Sumarokov nel suo Dimitrij Samozvanec (1771) non si poneva
alcun problema nel mettere in scena il tirannicidio di un perfido impostore, la posizione
legittimista d’area cattolica imponeva invece l’irragionevole caduta di un principe giusto.
Alekseev propone una lettura del problema in una chiave puramente socio-ideologica, che
però si attaglia con ogni evidenza al solo Teodoli e non al Bianchi:

[...] катастрофу составляет непризнание [Дмитрия] народом московским, причем


мотивами конфликта является дикость московской толпы, не понявшей реформа-
торских (в том числе и вероисповедных) замыслов молодого царя. Такая постанов-
ка темы ведет прежде всего к идеализации образа Дмитрия и к резкому осуждению
всего его окружения, за исключением, конечно, иноземцев, на которых автор чаще
всего густо накладывает светлые краски (Alekseev 1936: 95-96).

Sono convinto che al critico sovietico sia sfuggito l’escamotage drammaturgico col
quale entrambi i poeti, pur consegnandoci due declinazioni del mito assai differenti (l’una
classicistica l’altra controriformistica), sono riusciti a risolvere l’apparente paradosso che
proponeva loro l’assunzione del modello tragico. Egli infatti afferma che “почти все [ита-
льянские драматические произведения о Лжедмитрии] избегают вопроса о ‘само-
званце’” (Alekseev 1936: 95). E invece è proprio la problematizzazione del fenomeno del
samozvanstvo che innesca la macchina tragica. È nel breve lasso di tempo in cui Demetrio
diventa agli occhi dei suoi interlocutori un impostore – e quindi, automaticamente, un
tiranno usurpatore – che la sua figura viene desacralizzata, rendendone possibile la detro-
nizzazione e l’eliminazione fisica. In Bianchi infatti la rottura del patto politico-amoroso
con Eunice getta un’ombra sulla dirittura morale dell’eroe, che fugge fra le braccia della
bella straniera tradendo la sua regina e il suo popolo. In Teodoli invece è l’allestimento del
banchetto nuziale in un giorno di digiuno che viene interpretato maliziosamente dagli op-
positori dello zar come empio disprezzo del culto locale. In entrambi i casi l’immagine del
sovrano ne esce incrinata, e le sue azioni vengono interpretate come segno tangibile della
perdita della Grazia divina. La confusio tyranni tuttavia si rivela un mero abbaglio e tra-
sforma i sedicenti tirannicidi in regicidi. È questo lo stratagemma attraverso il quale i due
tragediografi sono riusciti a tenere in piedi il decorso tragico dell’azione evitando di fare
del loro eroe un autentico impostore. E lo hanno fatto potendo contare sul meccanismo
dell’ironia tragica: l’oscillazione epistemica non coinvolge infatti lo spettatore, ma solo i
personaggi o, almeno, una parte di essi.
In quest’ottica di accecamento temporaneo (simile all’atē classica), i due prologhi se-
necani appaiono un po’ meno posticci di quanto ci sembrassero all’inizio. Essi preconizza-
no un delittuoso ribaltamento prospettico in cui a Boris viene concessa post mortem un’ul-

48
Al melodramma e al dramma spagnolo, con particolare riferimento alla comedia di Lope,
guarderà invece Pietro Mancuso nel suo Disinganno dei Principi in Demetrio Moscovita, pubblicato
a Palermo nel 1703 (Mancuso 2013).
82 Jacopo Doti

tima mossa, quello scacco matto che la Storia gli aveva negato e che qui lo rende occulto
manovratore ‘metateatrale’ delle vicende terrene:

Sì, sì, m’aspetta pure,


tra l’oziose piume,
lascivo sposo a la consorte in seno;
che se dai lacci miei fanciullo inerme
n’andasti già disciolto,
non sarà che tu possa
più mai campar, benché gigante armato,
dagli assalti di Boride sdegnato.
(Atto I, scena I)

Tavola i.
Antiporta dell’edizione a stampa del Demetrio moscovita di Giuseppe Teodoli (Cesena 1651).
Come si può notare, vi è raffigurata l’apoteosi del ‘principe martire’.
Il mito del Demetrio moscovita nell’Italia del Seicento 83

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84 Jacopo Doti

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Il mito del Demetrio moscovita nell’Italia del Seicento 85

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Madrid 1617 (cfr. Lope de Vega, Comedias, vii/1, Lérida 2008,
pp. 457-587).
86 Jacopo Doti

Abstract

Jacopo Doti
The ‘Demetrius Legend’ in Italy During the 17th Century

This article aims at giving an account of the reception, diffusion and literary elaboration of the
‘Demetrius legend’ in Italy during the 17th century. Its main focus is on the political and ideological
background as well as the genre conventions which played a role in shaping the mythos of the Rus-
sian pretender. After considering the peculiarities of Maiolino Bisaccioni’s historical novel, the article
focuses on two tragedies by two minor Italian playwrights, Bianco Bianchi and Giuseppe Teodoli.
Notwithstanding their different treatments of the subject, both authors were confronted with a dif-
ficult task: how to justify the fall of their hero (the legitimate heir to the Muscovite throne). They
opted for a similar dramatic device: at the turning point of the tragedy Demetrius is erroneously
considered an impostor, then dethroned and put to death as a tyrant. Finally, his legitimacy is reas-
serted and he is celebrated as a martyr of the faith or pitied for his unfortunate destiny. Both tragedies
were drawn from the Jesuit account of the myth, spread from Poland, and are modeled on the rules
of classical tragedy.

Keywords

Demetrius legend; Bisaccioni; Bianchi; Teodoli; Italian Baroque tragedy.


© 2018 Author(s). Open Access. This article is “Studi Slavistici”, xv, 2018, 1: 87-110
distributed under the terms of the cc by-nc-nd 4.0 doi: 10.13128/Studi_Slavis-22900
Submitted on 2017, August 6th issn 1824-761x (print)
Accepted on 2017, December 11st issn 1824-7601 (online)

Larysa Dovga
Roman Kyselov

Principles of Quoting the Holy Scriptures in Works by 17th Century


Ukrainian Authors: Approaching the Issue

1. General Considerations
This article deals with a question that has been somewhat overlooked by scholars of
Early Modern Ukrainian culture, namely how, from which sources, to what extent and in
which cases 17th-century Ukrainian scholars and thinkers quoted from or referred to the
Holy Scriptures1. This is by no means a secondary issue if we are to understand the process
by which the culture of that period took shape and evolved in Ukraine.
Firstly, the attitude towards the Scriptures, and the ways in which they were quoted
and referred to, indicate the specificity of the Ukrainian intellectual culture and the range
of freedom that this culture sets as a frame for its own development. It also indicates the
possible range of sources considered as the most authoritative argument in any dispute.
This is especially important for the Baroque period which was dominated by conceptism,
rhetoricity, disposition to accumulate quotations, a tendency to prove the validity of new
ideas by referring to their ‘antiquity’, emphasizing the hidden sense of certain words and
searching for etymological roots.
Secondly, by verifying quotes based on manuscript copies and printed editions of the
Holy Scriptures2 in different languages (Church Slavonic, Latin, Polish or Old Ukrainian
/ prosta mova) and within various confessional canons (Orthodox, Catholic or Protestant
Churches), we can discover which particular texts were most widely used by Ukrainian
intellectuals, whether and to what extent they were tied to a particular language and/or
tradition, how far ‘Latin erudition’ influenced the theological discourse of the Orthodox
Kyjivan Metropolitan Church and its leading representatives.

1
However, Vasyl Simovyč had already paid attention to this problem back in 1930 analyzing
the language of Joanykij Galiatovs’kyj, and comparing his quotations from hs with the Ostroh Bible
(1581). He pointed out that quotations were not literal and may have been written ‘from memory’.
For details, see Simovyč (1930). Some observations concerning sources of quotes from the hs in the
works by Meletij Smotryc’kyj were offered by American researcher David Frick (1995). The Italian
Slavist Marcello Garzaniti briefly addressed the issue of quoting and translating hs (Garzaniti 1999)
in the same author’s works, however some of his findings are controversial, as will be discussed below.
German scholar Hartmut Trunte paid special attention to quoting from the hs and other methods
of referring to the Bible in Perlo Mnohocinnoje by K.T. Stavrovec’kyj (Trunte 1985: 249-263).
2
Hereafter the Holy Scriptures will be referred to as hs.
Larysa Dovga (National University of Kyiv-Mohyla Academy) – l.dovha@ukma.edu.ua
Roman Kyselov (National Academy of Sciences of Ukraine) – kyselyov@yahoo.com
The author declares that there is no conflict of interest
88 Larysa Dovga, Roman Kyselov

Thirdly, and this is perhaps the most interesting point, by elucidating the principles
of quoting from the hs, we may better understand how Early Modern Ukrainian authors
interpreted and rendered the Bible texts3. This problem was key for culture all over Europe
in the 16th-17th centuries, when Protestantism spread through numerous countries, debates
about the canonicity of sacred books and levels of their interpretation were renewed, nu-
merous translations of the Bible into vernacular languages appeared and the right to read
and understand the Bible independently was acknowledged even for the laity. At the same
time, the widespread use of references to the hs in works of inter-confessional polemics
required theologians to adopt a particularly scrupulous approach to their choice of frag-
ments for quotation and to the way these were presented4. The need to translate, verify
and edit fragments of the hs5 or the writings of the Church Fathers for printed editions
urged representatives of various theological schools and confessions to evaluate what was
more important when working with sacred texts: to follow them ‘to the letter’ (to quote or
translate literally), or to render the meaning accurately6. Moreover: should (and can) one

3
In this case we are not talking about the scholastic principle of the four levels of inter-
pretation of the hs, used by theologians of the Baroque era (one of the first detailed descriptions
of this principle can be found in the homiletic manual Nauka, al’bo sposob zloženja kazanja by
Joanykij Galiatovs’kyj [Kyjiv, 1659]; see: Jakovenko 2017: 273-280), but about different textual
issues connected with the purpose and process of translation. In relation to Ukrainian or, more
generally, Kyjiv Metropolis literature, this question, as far as we know, is still almost unexplored.
Perhaps the only work that sheds some light on this issue is the article by Svetla Matchauzerova
(Matchauzerova 1976), in which the author briefly refers to the Kyjivan tradition of translation
and interpretation of the text when analyzing Simjaon Polacki’s views. See also: Uhlenbruch 1983
(especially p. 118). On the broader context of the meaning of biblical images and citations from
the hs in the late medieval and early modern Orthodox literature, see also: Picchio 1977, Nau-
mow 1983, Garzaniti 2008, Marcialis 2008.
4
The response of the Catholic Church in the debates on the trustworthiness of books of the
Old Testament was the peremptory declaration of the authority of Vulgata by the Council of Trent
(1546) and the preparation of its most accurate canonical version for print (the so-called Vulgata
Clementina published in 1592 gained the status of such edition).
5
It should be mentioned that several Polish translations of the hs were still being published
within the Polish-Lithuanian Commonwealth in the 16th century: the Bible of Leopolita (1561) and
Jakub Wujek’s Bible (1599) within the Catholic canon; the Bible of Brest (1563) and Symon Budny’s
Bible (1572) within canons of protestant confessions. The Kyjivan Orthodox Church did not stay
aside from the European mainstream: the first complete and corrected Church Slavonic Ostroh Bi-
ble was published in 1581. The translations of biblical books into prosta mova (i.e. the literary version
of Ukrainian and Belarusian spoken languages) were related to protestant ideas. These include the
handwritten Peresopnytsia Gospel (1556-1561), the Krekhiv Apostle (after 1563), the New Testament
translated by V. Nehalevskyj (1581), the printed Gospel edited by Vasyl Tyapynskyj (1570s).
6
For the European context of this issue cfr. for example Vanhoozer 1998 and Vdovina 2009.
The latter includes a lengthy review of literature on the subject, and the most comprehensive list of
relevant publications.
Principles of Quoting the Holy Scriptures 89

retell the sacred texts in one’s own words, or should they just be quoted without insertions,
reductions or other formal changes within the phrases?
Late 16th and 17th century Ukrainian printed books offer a certain amount of infor-
mation on this subject. Such information appears in the prefaces to editions of translated
literature, where translators or editors explained to the readers how the book was prepared
for print, why this particular work was chosen, what reasons determined the choice of the
language for translation, what principles were essential for a translator in his attempt to
reproduce the original content most accurately, how a potential recipient had to read a
book to gain the greatest benefit7. Unfortunately, we failed to find any reflections directly
concerning rules for quoting the hs in the Ukrainian editions of the time.
Obviously, a single article is not enough to discuss all these issues in detail. Our goal
here is to raise the problem and check the adequacy of some theoretical premises, rather
than obtain final results. To start with, we will look for answers to the following questions:
a) to what extent were quotations from the hs literal? b) which editions served as a source
of quotations for the intellectuals of the Kyjivan Metropolis?8 c) how frequently did the
Kyjivan erudites quote the hs and which factors influenced that frequency? d) how were
fragments of the hs connected with the author’s main text? (here we will only consider
quotations properly documented by the author and will ignore hidden citations), e) which
“techniques” did authors apply when paraphrasing hs fragments?
The main work analyzed in this article is Inokentij Gizel’s treatise Myr s Bohom
čoloviku (Kyjiv 1669). By way of comparison we will also refer to a range of other edi-
tions published in the Kyjivan lands in the first half of the 17th century. These include, in
particular, Jevanhelije Učytelnoje9 (Krylos 1606; in general this text corresponds to the ju
published in Zabludiv, 1569), ju translated by Meletij Smotryc’kyj (Vievis 1616, repub-
lished by Petro Mohyla in Kyjiv, 1637), ju by Kyrylo Trankvilion Stavrovec’kyj (Rochma-
niv 1619) and Zercalo Bohosloviji by the same author (Počajiv 1618). We have also made
a selective analysis of the hs quotations in the collections of sermons Věnec’ Chrystov
by Antonij Radyvylovs’kyj (Kyjiv 1688) and Oběd duševnyj by Simjaon Polacki (Moskva
1681). We purposely chose texts of different types and different times of creation, because
this approach allows us to follow not just random features inherent to a particular writer,
circle of authors or a particular genre, but the continuing trends that essentially deter-
mine the type of intellectual tradition.

7
Cfr. for example the second preface to Anthologion (Kyjiv 1619), and the first and second
prefaces to Besědy na 14 poslanij sviataho apostola Pavla by John Chrysostom (Kyjiv, 1623), both
republished in Titov 1924: 20-23, 53-64.
8
Probably some Ukrainian authors/translators used also manuscript copies of the hs
books as a source of quoting, including the Peresopnytsia Gospel, but in this article we refer only to
printed books.
9
Hereafter the text and editions of the Jevanhelije učytelnoje will be referred to as ju.
90 Larysa Dovga, Roman Kyselov

To check quotes from the hs we used the Ostroh Bible 10 (1581) and the following edi-
tions: Jevangelije (with narrow fonts) (Moskva 1553-1554), Jevangelije (with medium-sized
fonts) (Moskva 1558-1559), Jevangelije (with wide fonts) (Moskva 1563-1564), Jevanhelije
(Vilnius 1575), Novyj Zavět i Psaltyr (Ostroh 1580), Jevanhelije (Vilnius 1600), Jevangelije
(Moskva 1606), Novyj Zavět i Psaltyr (Vievis 1611), Biblija (Moskva 1663). There are gen-
erally very few differences in the texts of these publications, on both lexical and syntactic
levels, and in terms of content. For verification and comparison we also used the Polish
texts of the Leopolita Bible (1561), the Brest Bible (1563), and the Bibles of Symon Budny
(1572) and Jakub Wujek (1599), as well as the canonical Latin Vulgata.
In actual fact, the most complicated part of this research proved to be the ‘technical’
aspect, namely identifying fragments of the hs in the texts analyzed and identifying the
editions (sources) from which the quotations were taken (especially in cases of non-literal
citations or incorrect margin references).

2. Literal Quotes
The most fitting text for our analysis is the edition of Inokentij Gizel’s treatise Myr
s Bohom čoloviku11 (1669) which was published as a reprinted version in 2009 (Gizel’
2009) and in Ukrainian translation in 2012 (Gizel’ 2012) with an index of quotations
from the hs.
Myr numbers about 700 pages, it contains 1055 different references to almost all of
the Old and New Testament books, including 720 literal quotations, 711 of which coincide
with the text of Ostroh Bible while 9 were drawn from the Vulgata (apparently, the author
of the treatise independently translated them from Latin into Church Slavonic). Literal
matches are found both in very small portions, not exceeding a few words, and in lengthy
fragments occupying several lines. Precise quotes are not usually related to liturgical read-
ings (which the author could have known by heart), and a significant part of the longer
quotes were taken from the books of the Old Testament. We can thus confirm that the
author/compiler of Myr collated them with existing printed versions.
Further on, we will examine why the Orthodox theological treatise quoted from the
hs of the Catholic canon. Now we will focus on fragments borrowed from ob.
The concentration of quotations in the body of the treatise is not uniform. There are
sections and pages that are packed with quotations, to the extent that it is hard to distin-
guish the author’s ‘original’ text. In other cases, there are hardly any quotations for anything
up to 10 pages. So far, we have failed to find a consistent principle of quotation usage that
might clarify in which cases the compiler of Myr felt the need to prove his own thesis
through the authority of the sacred text and when, on the contrary, he thought he could
ignore it. This question may become less obscure when we have unveiled the entire web

10
Hereafter it will be referred to as ob.
11
Hereafter referred to as Myr.
Principles of Quoting the Holy Scriptures 91

of quotations and all the Myr sources 12. A preliminary analysis indicates that the author
selected most quotations from the hs autonomously and because he wished (or needed)
to offer solid documentation from the hs in the parts of the treatise containing postulates
which might appear new, unusual or non-Orthodox to the meticulous scrutiny of Eastern
Christian theologians13.
In support of this hypothesis, we will give a few examples. In the “Preliminary re-
marks” (Gizel’ 2009: 22-24), which consider the nature of “conscience, will, grace, justifi-
cation and merit”, the whole page of the text concerning ‘conscience’ (the presentation is
consistent with Orthodox views) is devoid of quotes from the hs; explaining the notion
of ‘will’, the author uses a quote from the hs only to confirm the postulate about free will
as a cause of good acts (that thesis was not quite in tune with contemporary Orthodox
doctrine, which considered free will as a motive rather for evil than good deeds); while ex-
plaining the nature of ‘active grace’, ‘justification’ and ‘merit’ (less than one page is devoted
to the discussion of all three issues), i.e. concepts mostly borrowed from Catholic moral
teaching, the author uses as many as 10 references from the hs, and 6 of them are full-sized
literal quotations from Psalms and the New Testament. The same is true of the explanation
of nature and gradations of sins (Gizel’ 2009: 34-35), which are not only divided into origi-
nal and active but also into mortal and venial – a doctrine which is unusual for Orthodox
theology. In that case, a half-page text has no fewer than nine quotations from the hs.
The need to draw heavily on the hs was felt especially when discussing theses of special
social significance, but that Orthodox believers might view with some mistrust. A telling
example may be offered by the requirement for laity “to ensure a decent profit for priests”
(the fourth commandment of the Church)14. Interestingly enough, especially large quota-
tions accompany the third paragraph of comments on this commandment where material
benefits received by believers (good harvests, a quiet peaceful life, etc.) are considered to be
the result of having provided proper maintenance for pastors. On the other hand, it also
names possible calamities (God’s punishment), which may strike those who ignore the com-
mandment. The whole fragment takes up 20 lines, 12 of which are quotations from the hs.
A more detailed analysis of cases and ways of quoting the hs to confirm or illustrate
the statements of Myr requires a separate article and goes beyond our purpose. We would
just like to point out that there is sufficient proof that mid-17th century Kyjivan intellectu-
als made use of precise quotations from the hs as irrefutable arguments which allowed
them: a) to deny allegations of possible deviation from Orthodox doctrine or revision
of Orthodox dogma; b) to convince laity, that the ‘duties of conscience’ mentioned in

12
Among the sources which were certainly or probably used by Gizel’ one should remember
the Summa Theologiae by Thomas Aquinas, the Roman Catechism, works by Mikołaj Mościcki and
several other Catholic authors of the late 16th-early 17th centuries. For details, see Korzo 2010.
13
The fact that the treatise contains ideas borrowed from “foreign authors” was openly stated
by Gizel’ himself in the preface to Myr (Gizel’ 2009: 21).
14
Ibidem: 66-67.
92 Larysa Dovga, Roman Kyselov

Myr do not contain excessive requirements, do not contradict Church tradition and are
grounded in Biblical texts.
Let us now focus on the few cases where quotations are given not from ob, but fol-
lowing the Vulgata.
Preliminary observations indicate that a) some or all quotes translated from the Vul-
gata were selected by the compiler of Myr himself or, at least, they are not to be found in the
texts that the latter surely used as a fundamental source15; b) quotations from the Vulgata
appear only when the text of the latter and relevant fragments of ob considerably differ,
or when the Church Slavonic translation does not convey meanings which are useful for
illustrating Myr’s moral instructions The reason for the substantial differences between the
Vulgata and ob is mostly that the latter was a translation from a different source and lan-
guage, i.e. the Greek redactions of the Septuaginta. As mentioned above, we have identified
only 9 cases belonging to this typology out of 720 documented quotations.
Among the most interesting examples we mention the following.

1. The first quote from the Vulgata appears when, describing the “seven main deadly
sins”, the author considers dizziness as the first consequence of gluttony:

Єгда кто дымовъ ради и паръ, ω(т) излишнихъ снѣдей и питїй… помраченну иматъ
главу, сице, яко бываетъ слабъ, и ѕѣло немощенъ, до дѣлъ разума ко сп(асе)нїю при-
слушающихъ: якоже до истязанія совѣсти, предъ исповѣдїю или пре(д) сномъ, до
М(о)л(и)твы съ Вниманїемъ, до поятїя разумомъ яковых вещей сп(асе)нныхъ, или
до помнѣнїя ихъ, и про(ч). В коихъ всѣхъ дѣлех къ стяжанїю м(уд)рости потребно
єстъ воздержанїе, по сему єже рече Єкклесїастъ: Мышляхъ в(ъ) с(е)рдци моемъ, воз-
держати ω(т) вина плоть мою, да с(е)рдце мое пренесу къ мудрости (Eccl. 2) [italics
in all citations ours]16.

15
Not knowing all sources of Myr, we cannot exclude that any quote borrowed from Vulgata
might be mediated by some other Latin text. This is not the subject of the analysis in this article
and needs further investigation in the direction substantially started by M. Korzo (2010). However,
ultimately, the clarification of these points would hardly affect the conclusions of our study, since
there is a large number of quotes from the hs that were undoubtedly inserted into Gizel’s treatise
along with fragments borrowed from Latin authors, but they were compared with the text of the ob
and quoted in the form which was considered canonical for the local Orthodox Church.
16
Gizel’ 2009: 157: “If someone because of fumes and vapors from excessive food and drink
[...] has a dizzy head, so that he becomes weak and quite unable to deal with matters of mind that are
useful for salvation, such as testing conscience before making confession or before bedtime, praying
with attention, considering some salutary things or remembering them, and so on. In all these cases,
to acquire wisdom it is necessary to have restraint in accordance with the words of Ecclesiastes:
Мышляхъ в(ъ) с(е)рдци моемъ, воздержати ω(т) вина плоть мою, да с(е)рдце мое пренесу къ
мудрости” (Еccl. 2). Hereafter in footnotes we translate the Church Slavonic text of Myr in English
and leave the quotes from the hs in original.
Principles of Quoting the Holy Scriptures 93

This translation from Ecclesiastes can certainly be defined as made by the compiler
of Myr from the Latin original since it literally corresponds to the text of the Vulgata:
“Cogitavi in corde meo abstrahere a vino carnem meam, ut animam meam transferrem
ad sapientiam”. The corresponding fragment in the Church Slavonic translation of the
Bible substantially differs: “и созрѣх(ъ) да с(е)рдце мое оставитъ ω(т) вина плоть мою,
и с(е)рдце мое наставитъ мя мудрости” (Eccl. 2:3). Indeed, ob (as well as later Ukrainian
translations, namely those by Pantelejmon Kulish, Ivan Ohijenko, Ivan Chomenko, Rafajil
Turkonjak) suggests that the person deliberately indulges in drinking in order to grasp and
evaluate the essence of thoughtlessness17. However, a treatise on moral theology would be
unlikely to give believers this sort of advice: it would rather encourage them to abstain
from sin, while its negative effects were to be learned not from their own experience, but
from descriptions or from the experience of other sinful people. Consequently, letting
aside the issue of an adequate hermeneutical interpretation of this passage, we can reason-
ably assume that the author of Myr could reject the version of ob because it was not clear
enough and might have been wrongly perceived as an indirect encouragement to personal
knowledge of the disastrous nature of drunkenness. Therefore he chose the Vulgata version,
which clearly articulated the notion of not drinking.

2. Another case concerns the sin of ultimate impenitence. In Myr we read:

И того ради Ап(осто)л якоже за вышшїй грѣхъ ожесточенїя, сице и за сей конеч-
наго непокаянїя, претитъ тако: по жестокости твоей и непокая(н)ному ср(д)цу со-
бираеши себѣ гнѣвъ на д(е)нь Гнѣва, и ω(т)кровенїя пр(а)в(ед)наго суда Б(о)жїя.
(Рим. 2) Іеронѵм же с(вя)тый також(д)е ω семъ грѣсѣ конечнаго непокаянїя толкует
словеса Б(о)жїя реченная Амосомъ: За три без(ъ)честїя Дамаску, и за четыри не
ωбращу єгω (Am. 1)18.

17
In ob the cited phrase continues as: “и єже дръжати въ веселїи, дондеже вижу кое бл(а)-
го с(ы)номъ ч(е)л(овѣ)ч(ес)кимъ, єже творятъ по(д) с(о)лнце(м)”. The word веселїe, which in
the version of ob denotes the aim of drinking, corresponds to “ἀφροσύνη” in Septuaginta and “stul-
titia” in Vulgata. Although the Greek version presents it as an object of a trial (καὶτοῦ κρατῆσαι ἐπ’
ἀφροσύνῃ), the Vulgata clearly tells about the desire to avoid foolishness (devitaremque stultitiam).
In later Ukrainian translations we have “придержуватись і сієї дурниці” (Kulish), “буду держатись
глупоти” (Ohijenko), “віддаватись дурощам” (Khomenko), which all mean “to stick to foolish-
ness”. To compare, Russian Synod translation also gives it as “придержаться глупости”, in the King
James Bible and the Standard English Bible we have a rather ambiguous “to lay hold on folly”, while
in International Standard English version one reads: “I decided to indulge in wine, while still re-
maining committed to wisdom. I also tried to indulge in foolishness, just enough to determine
whether it was good for human beings under heaven given the short time of their lives”.
18
Gizel’ 2009: 190. “Therefore the Apostle both for the previous sin of insensibility and
for this one of ultimate impenitence reproaches with these words: “По жестокости твоей и не-
покаянному с(е)рдцу, собираеши себѣ гнѣвъ на д(е)нь гнѣва, и ω(т)кровенїя пр(а)в(е)днагω
94 Larysa Dovga, Roman Kyselov

Here again the author chooses the Vulgata as a source and this option is related to
the semantic context of the treatise. In ob we read: “И рече Г(оспод)ь на три бесчестїя
дамаска, и на четыри не ω(т)вращуся ихъ” (Am. 1:3). The expression “не ω(т)вращуся
ихъ” here means ‘I will not leave them (бесчестїя) undetected’, or, to paraphrase, ‘I won’t
close my eyes to them’. Translations into modern Ukrainian were similar, namely the ones
by P. Kuliš (“я не пощаджу” – ‘I will not spare them’), I. Ohijenko (“цього не прощу” – ‘I
will not forgive that’) and I. Chomenko (“не попущу того” – ‘I will not overlook that’).
Instead, the Vulgata reads: “Haec dicit Dominus: Super tribus sceleribus Damasci, et super
quatuor non convertam eum, eo quod trituraverint in plaustris ferreis Galaad”. Here “non
convertam eum” means ‘I will not convert (correct) them’: perseverance in sin (the author
of Myr considers ‘ultimate impenitence’) prevents God from guiding the sinful to moral
recovery. The Polish translations in the Leopolita and Wujek Bibles follow the Vulgata and
interpret this fragment in the same way: “nie nawrócę go”. Moreover, in these two Bibles,
God promises different punishments for impenitent sinners.

3. The next fragment of Myr concerns slanderers and detractors. By spreading gossip
and slandering their neighbors, they fall into the sin of calumny considered here in the con-
text of the mortal sin of envy and interpreted as one of its most disgusting fruits. This sin
characterizes both those who slander, and those who listen to such stories. In Myr we read:

Вѣдати подобаетъ въконецъ, яко не токмо клеветати, но и послушати клевещу-


ща(го), грѣ(х) є(ст). И того ради запрѣщае(т) сїе Солωмо(н) [по Зводу Іеронѵма
с(вя)т(о)го]: Ниже съ оклеветающими смѣсися, внезаапу бо востанетъ погибель
ихъ, и паденїе ωбою кто извѣсть? (Prv. 24:21-22)19.

This quote is literally translated from the Vulgata: “et cum detractoribus non com-
miscearis; quoniam repente consurget perditio eorum, et ruinam utriusque quis novit?”
The corresponding verses in ob read: “Боися Б(ог)а с(ы)ну и ц(а)ря, и ни едíному же
ихъ противися. Внезапу бо стяжетъ нечестивыи, мученїя бо обою кто извѣсть” (Prv.
24:21-22). The last variant does not mention slanderers or detractors at all, although with-
in the chapter we can find general recommendations which may imply the need to avoid
sinners of that kind: “не радуися о sлодѣющи(х), и не ревнуи путемъ грѣшныхъ. Не
пребуду(т) бо внуци лукавныхъ, свѣтило же нечестивы(х) оугаснетъ” (Prv. 24:19-20). It
is evident that the formulation of the Vulgata illustrates the meaning of this moral teaching
in Myr much better.

суда Б(о)жїа” (Rom. 2). Also saint Jerome relates the words of God, spoken by Amos to this sin of
ultimate impenitence: “За три без(ъ)честїя Дамаску, и за четыри не ωбращу єгω” (Am. 1).
19
Gizel’ 2009: 169. “Finally one should know that not only calumny itself, but also listening
to a calumniator is a sin. Therefore Solomon forbids it (according to Jerome’s code), saying this:
Ниже съ оклеветающими смѣсися, внезаапу бо востанетъ погибель ихъ, и паденїе ωбою кто
извѣсть?” (Prv. 24:21-22).
Principles of Quoting the Holy Scriptures 95

4. The following example shows that the author (or compiler) of the treatise felt free
to combine the version of the Vulgata with the version of the ob just for reasons of clarity
or semantical exactness, according to his own understanding. The quote from Ecclesiastes

Туга житїя. Єгда кто тужит якω въ мірѣ сем и живет, видя яко єлико множае жи-
ветъ, толико паче за свою лѣно(ст) Заповѣди Божїя оставляетъ, къ чесому могутъ
прислушати сія Єк(к)лесїастова словеса: Возненавидѣ(х) живот(ъ) мой, видя зла
быти вся по(д) с(о)лнцемъ (Eccl. 2:17)20.

corresponds to the text of the Vulgata: “Et idcirco taeduit me vitae meae, videntem mala
universa esse sub sole”, but in this case Gizel’s variant may be considered a contamina-
tion with the ob: “И възненавидѣхъ животъ, яко лукавно мнѣ сътворенїе сътворено
по(д) с(о)лнцемъ”. Perhaps, the Latin adjective malus ‘bad; evil; worthless’, translated
here as злый ‘evil’, was felt as more appropriate to describe the perception of a person
who, because of constant apathy or spiritual despair, has become indifferent to any moral
values. The Church Slavonic lexeme лукавный was probably felt to be less suitable for
this purpose.

5. Of special interest are the cases where the author compares two variants of the hs
translation. Let us examine the fragment

Приставници убωгихъ, или наданїй шпиталныхъ, согрѣшаютъ: аще приходо(в)


бывающи(х) на убωги(х), не иждиваю(т) на ихъ токмо требованїе, но на иное єже
сами хощут(ъ)? Чесого запрѣщает(ъ) Сира(х): Чадо живота нищаго не лиши (Sir.
4). Инъ Звод(ъ) пишет(ъ): М(и)л(о)стынѣ убогаго не ωбиди (Sir. 4)21.

The first quote corresponds with ob, while “another code” indicates the Vulgata.
The author of the treatise probably considered the phrase from the Latin Bible “Fili,
elemosynam pauperis ne defraudes” (Sir. 4:1) as more precise or more understandable,
because “живота не лиши” (‘do not deprive of life’) can refer to both the illegal with-
drawal of maintenance and to murder. We maintain that for the author of Myr it was
important to emphasize the connotations of both versions. So he gives two parallel
translations in order to underline that depriving the poor of charity is equivalent to
depriving them of life.

20
Gizel’ 2009: 184-185. “Melancholy of life. When someone regrets even his living in this
world, seeing that the longer he lives, the more he neglects God’s commandments due to his laziness.
These words of Ecclesiastes may be applied to him: Возненавидѣ(х) живот(ъ) мой, видя зла быти
вся по(д) с(о)лнцемъ” (Eccl. 2:17).
21
Gizel’ 2009: 222. “Administrators of donations for the poor and for hospitals commit sin:
Don’t they spend funds intended for the poor not only on the latters’ needs but also as they wish
themselves? What Sirach prohibits: Чадо живота нищаго не лиши (Sir. 4). Another code [сводъ]
says: М(и)л(о)стынѣ убогаго не ωбиди (Sir. 4)”.
96 Larysa Dovga, Roman Kyselov

6. Apparently, similar reasons inspired the author of Myr to contaminate the versions
of ob and Vulgata in the following case as well:

Подобает(ъ) женам(ъ) быти ч(е)стним (или сты(д)ливым), не клеветливы(м), не


навадница(м), трезвеннымъ, вѣрнымъ ω всемъ.

In the ob we have: “[...] женамъ же такоже чистам(ъ) не клеветивамъ, не нава(д)-


ницамъ, трез(ъ)венамъ, вѣрнымъ о всемъ” (1 Tm. 3:11); in the Vulgata: “Mulieres similiter
pudicas, non detrahentes, sobrias, fideles in omnibus”. Perhaps, in the context of the moral
prescriptions of Myr, the author considered it too general and ambiguous to characterize a
woman just as чистая, ‘pure’, as the ob has it, while the adjective честный – which Gizel’
uses in the fragment mentioned instead of чистый and translates/interprets in brackets
(“или стыдливымъ”) – corresponds rather to pudicus ‘shy, chaste, modest’.

This may complete the review of hs quotations that correspond to the text of the
Vulgata. What do the resulting examples indicate? First of all, that, a) Kyjiv Orthodox
theologians used both Orthodox and Catholic canons of the hs simultaneously; b) they
had an attentive and critical approach when reading the sacred books, they verified them
and felt entitled to choose whichever text seemed more relevant or accurate; c) we may
assume that, in the case of Myr, most of the quotations from the hs were originally se-
lected from the Vulgata (or taken from the texts of Catholic authors), while their equiva-
lents were added from the ob only later; the Myr author/compiler translated the quota-
tions that had no exact equivalents in ob directly from Latin; d) the authors did not see
the ob as a canonical text that could not be reviewed; e) they felt entitled and sufficiently
competent to read and interpret the hs independently and considered this kind of work
as a fairly pious activity.
These observations, although very preliminary, show how little we still know about
the creative methods of the 17th century Kyjivan Orthodox intellectuals and to which un-
expected results research in this field may still lead.

3. Non Literal Quotes


Non literal quotes may generally be reduced to: a) quoting with additional explana-
tions from the author; b) contamination of several quotations; c) more or less accurate
paraphrasing of hs fragments with indication of the corresponding Bible fragments in the
page margin.
However, let us begin with a case which does not fit into any of the above categories:
the author makes use of a phrase which is quite close to the text of the Gospel of Matthew
(Mt. 11:12), but is not indicated by any reference. This happens in the first chapter of the
first part, where, among numerous quotations (literal and approximate) with the corre-
sponding indications, we meet a cryptoquote. The fragment mentioned in full reads:
Principles of Quoting the Holy Scriptures 97

Єстъ на земли путь онъ тѣсенъ, и узкая врата въводящая въ животъ (Mt. 7 [with
reference to the source]), и дающая нуждникωмъ восхитити Ц(а)рствїе Н(е)б(е)-
сное [Mt. 11:12, no reference given]”22.

The ob says:
Что оуз(ъ)скаа врата и тѣсенъ путь, в(ъ)водяй в животъ, и мало ихъ есть иже
обрѣтаютъ его (Mt. 7:14);
ω(т) дни же Іоанна Кр(е)ст(и)т(е)ля доселѣ, ц(а)рьствїе н(е)б(е)сное нудится, и
нужници въсхищаютъ е (Mt. 11:12).

Neither piece of the sentence is literal quotation from the Gospel, but in one case
no reference is given. Such “cryptoquotes” are not common in the treatise: this case may
simply be an oversight on the part of the compiler or printer.
Apart from this specific case and literal quotations, the most common way to draw on
the hs in Myr is the contamination of several fragments. For example:

Радость бываетъ Аггелω(м) на Н(е)б(е)си, ω єдиномъ грѣшницѣ кающемъся, не-


жели ω девятьдесяти и девять пр(а)в(е)дникъ, иже не требуютъ покаянія (Lk. 15
[reference of the author])”23.

ob says:
Гл(агол)ю вамъ, яко тако радость будетъ на небеси о єдíномъ грѣшницѣ кающем-
ся, нежели о девятьдесятихъ и девять праведъникъ, иже не требую(т) покаанїа (Lk.
15:7);
Тако гл(агол)ю вамъ, радость бываетъ пре(д) агг(е)лы б(о)жїи, о едíномъ грѣшницѣ
кающимъся (Lk. 15:10).

The same page also includes literal quotations from the Psalms and the Gospels of
Luke and Matthew. Indeed, it is important to underline, that all the above ways of quot-
ing from hs – literal quotations, contaminations, paraphrases and cryptoquotes – may be
found not only within a single page, but even in the same paragraph. Moreover, quotations
and paraphrases of the hs located within the same sentence or paragraph usually concern
the same book of the hs. This may be interpreted as a deliberate construction of the text by
the author, who wanted to avoid overloading the text with oversized quotations. In no case
can this circumstance be interpreted as a careless approach to the hs or its quotations by
early modern Kyjivan authors. One of many examples of such combinations is the begin-
ning of the second chapter of the first part of Myr 24 where, among five quotations, four are

22
Gizel’ 2009: 25.
23
Ibidem: 24-25.
24
Gizel’ 2012: 83.
98 Larysa Dovga, Roman Kyselov

transferred literally from the ob, and one is a paraphrase of a fragment from the Acts of the
Apostles (with appropriate marginal reference).
The logic of giving the treatise a rational structure also explains the reason for another
way of drawing on the hs. By this we mean quotes which very briefly indicate some funda-
mental theses accompanied by the appropriate reference. This approach can be explained
by the author’s desire to be laconic and by his attempt not to conceal the presentation of
moral teachings behind excessive quotations. This was especially suitable in the case of
liturgical Gospel readings, which were obviously familiar to potential recipients of Myr
and did not need the whole episode to be repeated: an eloquent example is offered by the
reference to the Parable of the Publican and the Pharisee (Lk. 18)25. Yet, in other cases, a
paraphrase of Gospel parables might also be supported by short literal quotes (Lk. 18)26.
Another method of quoting is to break a quote from the hs with the author’s com-
ment, explaining the sense of the fragment. Interestingly enough, such explanations do not
always match the original meaning of the quote exactly. Here is an example:

Аще быхом(ъ) себе разсуждали, сі естъ сами себе казнили [our italics], не быхомъ
оубω ωсуждени были” (1 Cor. 11)27 (ob: “Аще бо быхомъ себе разсужали, не быхомъ
oубо осуждени были”.)

We also need to underline the difference in meaning between the epistle to the Cor-
inthians and Myr: the former does not deal directly with self-punishment or penance, but
tells only about judgment, i.e. about a fair assessment of people’s deeds that urges them to
act according to God’s will, and thus to avoid His condemnation; in the latter the quote
concerns the explanation of the nature and necessity of penance, which is treated as a
kind of deliberately accepted punishment for sins committed. Thus, the extension added
to the quotation (“this means if we punish ourselves”) does not aim to clarify a problem-
atic phrase of the hs, but rather to properly harmonize the selected quotation with the
content of the treatise.
The latter method of quoting includes cases when a part of a quote is given literally,
while its completion is closely adapted to the author’s text. A telling example is offered by
the citation of Rom. 14:23, where one word is replaced by another. The quote has been
included in the context of the doctrine of conscience in order to confirm the importance
of a steady conscience in matters of salvation. In Myr we read: “а сомняяйся аще творитъ
ωсуждается”28. Instead, ob says: “а съмняйся аще ястъ, осуждается”. As we can see, there
is a significant change at the end of the quote (Rom. 14:23) due to the verb ясти (‘to eat’)
being replaced with the verb творити (‘to do’), which denotes any action. The idea that

25
Ibidem: 86.
26
Ibidem: 87.
27
Gizel’ 2009: 31.
28
Ibidem: 37.
Principles of Quoting the Holy Scriptures 99

an action may become sinful not as much by the fact itself, but rather by doubt as to its
correctness, implicitly contained in the given phrase of the Epistle to the Romans, becomes
a generalized saying in the variant of the author of Myr.
However, in many other cases, the meaning of the hs fragments which have been
epitomized or elaborated in some detail is reproduced in Myr rather accurately. For
example, when it comes to differentiating between deadly and venial sins, the author
explains that “є(ст) грѣ(х) къ см(е)рти, и є(ст) грѣ(х) не къ см(е)рт(и)” 29, referring
to 1 Jn. 5:16-17. ob says:

Аще кто оузрит(ъ) брата съгрѣшающа грѣхъ не къ смерти, да проситъ, и дастъ ему
животъ съгрѣшающи(м) не къ смерти. есть грѣхъ къ смерти, не о томъ гл(агол)ю
да помолится. всяка неправда грѣхъ есть, и есть грѣхъ не къ см(е)рти (1 Jn. 5:16-17).

Also the interpretation of Rom. 1:32 is quite accurate when it considers a sin the
very act of approving it: “Не точїю (рече) иже сами творя(т) злая, но иже и соизволя-
ютъ творящимъ, достойны суть смерти”30. The fragment in ob sounds: “Нѣцыи же и
оправданїе б(о)жїе разумѣвше, яко иже таковая творящеи достоини смерти суть, не
точїю (же) сїя творятъ, но и волю дѣю(т) творящимъ”.
Sometimes large fragments from hs are given literally but with significant gaps,
though not distorting the meaning of a quote. Such cases also belong to the category of
quoting and not just referring to the hs. Here are some examples:

а) Почто […] прослави сыны своя паче мене […] се днїе идутъ, и потреблю сѣмя
твое, и племя дому отца твоего, и не будет старца в дому твоемъ […] (1 Sm.
2:29-32)31.

Here is the corresponding full text in ob:

Почто же ты призрѣ на ѳїмїямъ мои, и на жрътву мою лукавнымъ окомъ, и прослави


с(ы)на своя паче мене. еже благословити исперва, всяку жрътву въ і(зра)или, предо
мною. Сего ради сице рече г(оспод)ь б(ог)ъ і(зра)илевъ гл(агол)я рекохъ домъ твои,
и домъ ω(т)ца твоего, преидетъ предо мною до вѣка, но н(ы)нѣ рече г(оспод)ь ника-
коже не буди то въ мнѣ якоже прославляющаго мя прославлю, и оуничижаяй мя без
чести будетъ. Се д(ь)ни иду(т) и потреблю сѣмя твое, и племя дому ω(т)ца твоего, и
не будетъ старца в дому твоемъ, и узриш(ъ) противника твоего въ храмѣ с(вя)том(ъ)
въ всѣхъ бл(а)гостехъ і(зра)илевыхъ. И старца не будетъ в дому твоемъ въ вся дни и
ни всяка мужа (1 Sm. 2:29-32).

29
Ibidem: 34. “There is a sin [leading] to death, and not [leading] to death”.
30
Ibidem: 39. “Not only those who do evil, he said, but also those praising them who do so,
deserve death”.
31
Ibidem: 40. Here we mark the gaps in citations with ellipsis in square brackets while there
are no signs for these phrasal contractions in the original.
100 Larysa Dovga, Roman Kyselov

b) […] Оболстисте мя […] якω десятины и начатцы с(ъ) вами суть […] лѣто се ско(н)-
чася, и внесосте вся стяжанїя въ сокровища, и расхищенїе нищагω в(ъ) домы
ваша: обратѣте же ся о семъ […] аще не ω(т)верзу вамъ хлябїй н(е)б(е)сныхъ;
и излїю вамъ бл(агосло)веніе мое, дондеже оудоволитеся, и разнствую вамъ во
брашна, и не имамъ изтлити вамъ плодъ земныхъ, и не имутъ изнемощи вамъ
винограды селныя […] и ублажат(ъ) вы вси языци […] (Mal. 3:7-12)32.
Τhe corresponding text in ob reads as follows:
Зане вы обольстисте мя. и рѣсте, о чесомъ обольстихомъ тя. яко десятины и нача-
т(ъ)цы с(ъ) вами суть, и възирающе вы възираете на ня, и мене бо обольщаете, лѣто
се искон(ъ)чася. и внесосте вся стяжанїя въ сокровища, и расхищенїе нищаго въ
домы ваша. обратите же ся о се(м), гл(агол)етъ г(оспод)ь вседръжитель. аще не ω(т)
верзу вамъ хлябїи н(е)б(ес)ныхъ, і излїю вамъ бл(агосло)венїе мое дондеже оудово-
литеся. и разньствую вамъ въ брашна, и не имамъ истлити ва(м) плодъ земльны(х).
и не имуть изнемощи вамъ виногради селнїи, гл(агол)етъ г(оспод)ь вседръжитель.
и ублажатъ вы вси языцы, зане будете вы земля изволена (Mal. 3:7-12).

c) In other cases, a long narrative passage taken from the hs to confirm a thesis of Myr, is
rendered in just a few words. Here are some examples: i) for the statement that responsi-
bility for deadly sins (in particular murder) lies not only with the person who committed
it, but first of all with the one who induced the wrongdoer to commit the crime: “Сице
Д(а)в(и)дъ оуби Урїю, аще и не своима рукама, но чре(з) писанїе, повелѣвая да на
брани оубїе(н) буде(т)”33 (2 Sm. 11); ii) concerning the need to refrain from giving a bad
example: “Пачеже и сам(ъ) Х(ристо)с, дабы другихъ не соблазнилъ, дань даяше, аще
и не долженъ бѣ”34 (Mt. 17); iii) about the duty of honoring clerics and providing them
with appropriate income35 references are made to Nm. 16; 2 Sm. 1; 2 Sm. 2; Zec. 2; Lv. 23;
1 Cor. 9; iv) when it is necessary to give an example of an act or an event from the life of
any biblical character, the hs is not usually quoted literally, but only with a hint at some
event or mention of some personal name, with a proper reference on the margin of the
printed page. For example: “єже собыст(ь)ся на богатомъ Єѵ(анге)лскомъ (Lk. 16), оу
негоже якω Лазаръ не оупроси крупицы…”36; “аще бы оная въ с(вя)томъ Писанїи
помянутая Сусанна (Dn. 13), боящися ωклеветанїя, изволила на прелюбодѣянїе…”37.

32
Ibidem: 67.
33
Ibidem: 39. “Thus David killed Uriah, though not with his own hands but per letter order-
ing that he would be killed in a battle”.
34
Ibidem: 48. “Even Christ himself paid the toll, so that others wouldn’t be tempted, al-
though it was not His duty”.
35
Ibidem: 66.
36
Ibidem: 136. “...which came true in the case of the Gospel’s rich man (Lk. 16), whom Lazar
begged from without success…”
37
Ibidem: 127. “As if, for example, Susanna, mentioned in the hs (Dn. 13), being afraid of
calumny had agreed to adultery”.
Principles of Quoting the Holy Scriptures 101

4. Practice of Other Authors


Was Inokentij Gizel’ original in the ways he quoted from and referred to the hs com-
pared to other Ukrainian intellectuals of the 17th century? A convincing answer to this
question requires separate research. Here we will present only some results of a selective
analysis of the texts published before and after the publication of Myr. They will not allow
us to reach any final conclusions, but may indicate some common trends of the time.
The earliest text we have referred to was Jevanhelije Učytelnoje, translated into Church
Slavonic and published in Zabludiv in 1569. It contains sermons allegedly written by Pa-
triarch Kallistos. It is important to note that neither liturgical Gospel fragments nor other
quotations from the hs are accompanied by marginal references in this edition, and there-
fore we cannot strictly call this practice ‘quoting’. Sermons were not supplied with appro-
priate Gospel fragments at the beginning, only the name of the Gospel was provided (for
example, “Поученїе в недѣлю сырную Євангелїє от Матфея, слово 4”)38. Quotes are
indicated in the text by the phrase “the Lord said”, without any other references. For ex-
ample: “рече Г(оспод)ь: аще оставляете ч(e)л(овѣ)комъ прегрѣшенїя ихъ. оставитъ и
вамъ ω(те)цъ вашъ н(е)б(ес)ныи прегрѣшенїя ваша”39.
If we compare the Zabludiv ju with the printed Church Slavonic versions of the
Gospels edited before 156940, we see that the compiler of Zabludiv ju does not worry too
much about literal correspondence (although not showing any significant semantic de-
viations from translations of the hs existing at the time). For example, we could not find
an exact equivalent of the above-mentioned fragment (Mt. 6, “začalo” 17). The version of
the printed Gospel is as follows: “Aще бо ω(т)пущаете ч(e)л(овѣ)ко(м) согрѣшенїя ихъ,
ω(т)пусти(т) и вамъ ω(те)цъ вашь н(е)б(ес)ныи. аще ли не ω(т)пущаете ч(e)л(овѣ)
ко(м) согрѣшенїя и(х), ни ω(те)цъ вашь ω(т)пуститъ ва(м) согрѣшенїи вашихъ”41. The
replacement of ω(т)пущаете with оставляете, or of согрѣшенїя with прегрѣшенїя does
not affect the understanding of the fragment, at the same time indicating that the printed
text of the hs was not subject to that specific reverence which would require a perfectly
literal quotation from it.
An almost literal repetition of Zabludiv ju is a book published in 1606 in Krylos. How-
ever, there is one significant difference between them: the Krylos edition provides marginal
references for each fragment or quotation from the hs, so we may assume that quotations
were collated, possibly with ob. However, lexical differences in quotations are not correct-
ed, which also indicates that the authors of this ju learned new (Western?) rules of working

38
ju 1569: 20 v.
39
Ibidem: 21 v.
40
Jevangelije (with narrow fonts) (Moskva 1553-1554), Jevangelije (with middle size fonts)
(Moskva 1558-1559), Jevangelije (with wide fonts) (Moskva 1563-1564).
41
Jevangelije 1563-1564: 16. Later editions in Church Slavonic have identical text. These are:
Yevanhelije, Vilnius 1600; Novyj Zavit i Psaltyr, Ostroh 1580 and so on.
102 Larysa Dovga, Roman Kyselov

with borrowed texts: they provided source references and did not feel the need to reproduce
the text of the hs literally, considering that the meaning is more important than the verbal
identity. Finally, many of the early 17th century religious thinkers of the Kyjivan Metropolis
participated in verifying the text of the Bible during preparation for printing it in Ostroh; so
we may assume that they did not (and could not) have the same reverential attitude towards
the Church Slavonic version of the Bible which was to appear much later with respect to the
printed version of the hs. Even Gizel’, who was very attentive to the literal authenticity of
quotes, does not mention ‘canonical’ and ‘non-canonical’ texts of the hs, but only different
‘codices’ (“своды”). This implies the existence of differences in the sacred text, differences
which, however, did not affect the credibility (canonicity?) of its versions.
Other collections of Sunday and festive church sermons named Jevanhelije Učytelnoje
were printed in the first half of the 17th century. They substantially differ from Krylos ju
and Zabludiv ju. Let’s take a brief look at how the hs was quoted in these works.
In his Jevanhelije Učytelnoje printed in Rochmaniv in 1619, Kyrylo Trankvilion Stavro-
vec’kyj often refers to specific places in the Bible. However, he offers a paraphrase of almost
all the biblical fragments, so that they cannot be defined as quotations. Even more often,
marginal notes just point at the places in the Bible that can serve as proof or illustrations
of the author’s thoughts. The real quotations are the readings from the Gospel, given in
Church Slavonic at the beginning of each sermon. By collating the texts of these readings
in three sermons (namely on Cheesefare Sunday, on the first and second Sundays of Lent)
with the corresponding ob text, we found some differences (mostly in the use of functional
words, such as prepositions, conjunctions etc., and sometimes in grammatical forms), which
show that the author most probably used other Church Slavonic sources, or – maybe – he
did not pay much attention to the literal accuracy of quoting. Anyway, the number of lexi-
cal differences is limited, hence there is no reason to assume that in these particular cases
Stavrovec’kyj translated the text of the Gospel from the Vulgata or some Polish sources.
Yet in the sermon on Cheesefare Sunday there are a few places that might indicate
deliberate changes that Stavrovec’kyj made in the existing Church Slavonic text of the
Gospel. For example, a quote from Mt. 6:16, about hypocrites who like to show off that
they are fasting, the Rochmaniv ju has a phrase “яко ωтстоатъ мзды своея” (Stavrovec’-
kyj 1619: 31), which can be translated as “because they are far from their reward”. Instead,
in both ob and Vulgata, as well as in all Polish printed translations of the 16th century, the
corresponding phrase says that, for hypocrites, their demonstration of fasting is already
a reward, while the idea that – for this reason – they will lose more valuable rewards, is
not explicitly expressed: “яко въспрїимутъ мзду свою” (ob); “quia receperunt mercedem
suam” (Vulgata); “iż odnoszą zapłátę swoję” (Bible of Budny); “iż wzięli zapłátę swoję”
(Bible of Wujek), and other similar42.

42
The anonymous referee of “Studi Slavistici” pointed out that the source and reason for this
change might be the Greek text, which has “ἀπέχουσιν τὸν μισθὸν αὐτῶν”, with ἀπέχω meaning “to
have”, as in the Latin version, but also “to hold back, keep off, prevent”, “to be absent, distant” and
Principles of Quoting the Holy Scriptures 103

In the same evangelical passage Stavrovec’kyj writes: “идеже будетъ сокровище


ваше, ту будетъ сердце и душа ваша” (Stavrovec’kyj 1619: 31; Mt. 6:21). The words “и
душа” (‘and soul’) seem to have been added by the author himself. Indeed, all the sources
mentioned speak only of the heart: “идѣже бо єсть сокровище ваше, ту будетъ и сердце
ваше” (ob); “Ubi enim est thesaurus tuus, ibi est et cor tuum” (Vulgata); “Gdzie bo jest
skarb wász, tám będzie i serce wásze” (Bible of Budny); “Abowiém gdzie jest skarb twój,
tám jest i serce twoje” (Bible of Wujek) and similar.
An analysis of the references to the hs in Stavrovec’kyj’s work Zercalo Bohosloviji
(Počajiv 1618) shows that in this work the author does not resort to direct quotations,
although he gives many references to the hs in the page margins. The fragments of the hs
indicated may easily be identified and are coherent with the meaning of the author’s theses.
In Zercalo Bohosloviji one can trace the following methods of ‘working’ with a text of the
hs: a) a rather close paraphrase of the hs fragment indicated on the page margin; b) an
allusion to the semantic dominants of a certain chapter or a verse; c) free interpretation
of meanings embedded in a text of the hs (it may be even a wordplay); d) an allusion to
certain evangelical parables or narrations without direct semantic links; e) use of hs meta-
phors (e.g. metaphor of the Holy Mountain). All this may confirm H. Trunte’s conclusion
that in Stavrovec’kyj’s Perlo Mnohocinnoje, the author considered only the meaning, not
the literal text (Trunte 1985: 263) to be sacred.
Another work to be considered here is Meletij Smotryc’kyj’s Old Ukrainian transla-
tion of Jevanhelije Učytelnoje published in Jevje (now Vievis in Lithuania) in 1616. The
sermons of this book are also attributed to patriarch Kallistos, although this edition is not
identical to Zabludiv and Krylos ju, neither in contents nor in structure. According to
D. Frick, Smotryc’kyj’s Ukrainian translations of Gospel fragments were heavily depen-
dent on the Polish translation of the hs by the Protestant Symon Budny: “Smotryc’kyj
‘translated’ the Gospels by providing a corrected Ruthenian version of Budny’s Polish text”
(Frick 1987: xii-xiii). Garzaniti supported this opinion (Garzaniti 1999: 176), but the ar-
gumentation of both differs. Frick’s statement, as it was presented, is based on only one
sentence from Smotryc’kyj’s text which is both grammatically and lexically identical to
Budny’s version, while at the same time being very close to the Bibles translated by Leo-
polita and Wujek. On the other hand, Garzaniti compares about two dozen arbitrarily
selected lexemes and phrases with the corresponding units of Budny’ translation and that
of the Church Slavonic text of the Moscow edition of ju from 1686. In actual fact, none of
the examples provided by Garzaniti confirms Smotryc’kyj’s dependence on Budny’s text:
in most of them there is no coincidence43, and in the few cases where a coincidence does

“to hold one’s self off, abstain”. Hence the lection “ωтстоатъ” instead of “въспрїимутъ”. We thank
the referee, whose explanation of the case looks quite convincing.
43
For example (Budny’s and Smotryc’kyj’s versions correspondingly): “v sobie / особно
(Smotryc’kyj); daleko / оподаль; zszedł / отишо(л); na drugi brzeg / в дальший берегъ; pozdychały
/ потонули; y co było z opętánemi / и што сѧ стало з бѣсноватыми etc.” (Garzaniti 1999: 177-178). 
104 Larysa Dovga, Roman Kyselov

exist44, it derives not from a textual relationship, but from the Ukrainian-Belarusian-Polish
joint area of lexical fund, which is still considerable now and was huge in Smotryc’kyj’s day.
This applies to both the vernacular and the two literary languages, i.e. Old Polish and the
Ukrainian-Belarusian literary language called prosta mova. Scholarly methodology would
also require Smotryc’kyj’s translation to be compared not only with Budny’s version, but
with other Polish Bibles edited by that time as well.
In order to verify the above assertion that Smotryc’kyj translated the evangelical texts
from Budny’s edition, we collated two arbitrarily selected Gospel readings from ju 1616 –
on Cheesefare Sunday and on the second Sunday of Lent – with the ob text and several
Polish versions: Leopolita Bible (1561), Brest Bible (1563), Symon Budny’s Bible (1572) and
Jakub Wujek’s Bible (1599). Taking these two readings as the basis for comparison, we can
conclude that Smotryc’kyj’s translation was done from the Church Slavonic text, precisely
in the version of ob. It is a literal translation from Church Slavonic in prosta mova, preserv-
ing the exact word order and all the syntactical features that could be reproduced by the
Ruthenian language of the time. Due to lack of space, we have illustrated it with just two
quotes from Mark (2:3-4)45:

ju 1616: А ото пришли до него несучи паралижем зараженого, которого несли


чотыри. А не могучи приближити ся до него для мнωзства народа, розобраши [!]
дахъ где былъ: и стелю пробравши, звѣсили ложко, на которомъ ро(з)слабленый
лежа(л)46.
ob (1581): И прїидошя к нему носяще раслаблена жилами, носима четырми. и не
могуще(м) приближитися к нему народа ради, ω(т)крышя покровъ, идѣже бѣ, и
прокопавше, свѣсишя одръ, на нем(ъ) же раслабленыи лежаше.
Leopolita Bible (1561): I przyszli do niego niosąc páráliżem záráżonego, ktorego czterzej
nieśli. A gdy go nie mogli wnieść do niego przed tłuszczą odárli dách tám gdzie był
(Christus) á otworzywszy, spuścili łoże ná ktorym leżał on páráliżem záráżony.
Brest Bible (1563): Tedy przyszli k niemu niektorzy niosąc powietrzem ruszonego, kto-
rego nieśli czterzej. A gdy się k niemu przycisnąć nie mogli dla zgromádzenia, oddárli
dach tam gdzie był, á oddarszy, ná powroziech spuścili łożko, ná ktorym on powietrzem
ruszony leżał.
Symon Budny’s Bible (1572): I przyszli k niemu niosąc powietrzem ruszonego, ktorego
nieśli czterzej. A gdy się k niemu przycisnąć nie mogli dla tłuszczej oddárli dách tám
gdzie był, á oddárszy, ná powroziech spuścili łożko, ná ktorym powietrzem ruszony leżał.

44
For example: “do nieba podnieść / поднести на небо; bił w persi swoe / билъ перси свои;
z iych granic / з границъ ихъ; zachowan (był) świat prezeń / захован бы(л) свѣ(т) чере(з) него”
(Garzaniti 1999: 177-179).
45
All quotations from Polish Bibles are taken from the site <https://ewangelie.uw.edu.pl/>.
46
ju 1616: 51 v.-52.
Principles of Quoting the Holy Scriptures 105

Jakub Wujek’s Bible (1599): I przyszli do niego niosąc powietrzem ruszonégo, którégo
nieśli cztérej. A gdy go nie mogli przedeń przynieść dla ciżby, odarli dách gdzie był: á
uczyniwszy dziurę spuścili łóżko, ná którym powietrzem ruszony leżał.

The comparison of the quoted texts gives no evidence of any kind of dependence of
Smotryc’kyj’s translation from one or more Polish versions among the ones we cited above,
neither in the selection of lexical equivalents, nor in syntactic structures. Smotryc’kyj’s text
is an almost precise translation from the ob. It is interesting, however, that the translator
allows himself to clarify the word прокопавше, indicating that it concerns not the roof
where the first hole was made, but another hole in the ceiling (“стелю пробравши”): he
thus introduces additional information to the biblical text. In actual fact, in all Polish ver-
sions only one and the same hole in the roof is mentioned, while in the Church Slavonic
version (прокопавше) and in the Vulgata (patefacientes) the text is really ambiguous, it is
not clear whether the evangelist speaks of the same hole, or of a new one in the ceiling.
Noteworthy in Smotryc’kyj’s translation is also the definition of the illness that affected
the man who was to be the object of the miracle. The Polish version of the Brest Bible as
well as Budny’s and Wujek’s variants all use the form “powietrzem ruszony”, while in the
Leopolita Bible the man is “páráliżem záráżony”, like in Smotryc’kyj’s Ukrainian text. How-
ever, there are no reasons to interpret this detail as a dependence on the Polish translation
because the word “паралижъ” (“паралѣжъ”) was a regularly used lexeme of the Ukrainian
language in the 16th-18th centuries47.
On the other hand, it is reasonable to assume that, when translating from Church
Slavonic, Smotryc’kyj could at the same time look at Polish translations of the Bible: he
himself wrote in Polish and 17th century Polish was considerably closer to Ukrainian than
today, especially in lexis. It is normal for a translator to take an interest in the ways and
means applied by his colleagues. However, this is not proof in itself that he referred to
Polish translations of the Bible to the extent that his text could be qualified as being sig-
nificantly dependent on or a kind of hybrid of other versions. It is also highly unlikely
that Smotryc’kyj would choose the translation of the protestant Budny as his main source
for quotations. At least no one ever provided sufficient arguments for such textual depen-
dence. As D. Frick has shown with a number of examples, in the Polish written Threnos
(Vilnius 1610), Smotryc’kyj usually quoted the Bible from Catholic translations by Leopo-
lita and Wujek (Frick 1995: 363-367).
It is also worth mentioning that in 1637, with the blessing of Petro Mohyla, the Kyji-
van Cave Lavra printing house produced a new edition of Smotryc’kyj’s ju. In both edi-
tions (Vievis 1616 and Kyjiv 1637) the texts of the sermons are identical, including trans-
lated fragments of the hs. In the preface to the 1637 edition, however, which is written in
Old Ukrainian, almost all the quotations from the hs already follow literally the Church
Slavonic ob: out of nine cases only one fragment of the hs is given in Ukrainian para-

47
See, for example, Tymčenko 2003: 85.
106 Larysa Dovga, Roman Kyselov

phrase, all the other eight fragments are literal quotations in Church Slavonic48. These facts
indicate that a) Kyjivan authors of the first half of the 17th century considered it normal
to operate with sacred texts in different ways even within one edition of a work, b) it was
acceptable to translate the hs into the Old Ukrainian language, which could also be un-
derstood by ordinary lay believers.
This is not the place to dwell on texts by Kyjiv-educated writers of the second half
of the 17th century. Preliminary research, however, indicates that Vĕnec’ Chrystov (Kyjiv
1688) by Antonij Radyvylovs’kyj and Obĕd duševnyj (Moscow 1681) by Simjaon Polacki
still show the same tendency. Radyvylovs’kyj and Polacki, as well as Gizel’ and the author of
the preface to the Kyjiv ju of 1637, usually quoted hs fragments literally from the ob, but
paraphrases, associative references, use of symbolic images and other kinds of elaboration
of the Bible were also accepted.

5. Conclusions
In order to summarize the results of our observations, we can distinguish the typology
and methods of quoting from the hs as follows:

1. Direct and literal quoting after ob49.


2. Quoting the hs in precise Ukrainian translation from ob (as in ju 1616, ju 1637).
3. Quoting after other hs versions than ob (Vulgata, Leopolita and Wujek Bibles, some-
times also after other Polish editions of the hs).
4. Contamination of several closely situated phrases from the hs in order to transfer
the idea of the whole fragment, sometimes with the addition of new nuances or new
meanings.
5. Free paraphrasing of the ideas taken from the hs (usually with a precise reference to a
book, a chapter or liturgical fragment).
6. Non-indicated quoting without reference to the books of hs.
7. Generally precise quotation being a considerable fragment from the ob with one or
more replaced words, which can introduce new connotations or meanings into the
fragment quoted.
8. Quoting a piece from ob exactly with the addition of one or more words from other
versions of the hs inserted in brackets, sometimes with the remark “following an-
other code”.

48
ju 1637: f. [7-8].
49
Some authors could also have used the Bible printed in Moscow in 1663, but that edition,
except for a few corrections of minor importance, just reproduced the text of ob.
Principles of Quoting the Holy Scriptures 107

9. Quoting a fragment from ob exactly but with the addition of an explanatory phrase
incorporated in the quote. Usually this addition is not marked in any way (this may
probably be explained by the lack of a normalized system of punctuation).
10. Quotation with an erroneous reference to the book of hs.

What do these observations indicate if we consider Early Modern Ukrainian intel-


lectual culture in more general terms?

First: Kyjivan scholars of the 17th century used almost all the methods that we use
today for adapting and introducing such an authoritative source as the Bible into the body
of a new text.
Second: The hs was treated by Ukrainian religious intellectuals as the most authori-
tative source for legitimizing new ideas and concepts which were adopted from the texts of
non-Orthodox authors and were to be integrated in the Orthodox theological discourse.
Third: Authors did not feel too much reverence towards any of the printed versions
of hs and admitted independent translations (from Latin, Church Slavonic, Polish) as
well as the possibility of replacing certain words or specifying meanings, and what is most
significant – comparing different ’codices’ of the hs in search of the one they considered
most favorable for their goals: Ukrainian authors felt free to choose the hs ‘codex’ when-
ever it seemed more accurate in a certain case or better suited to formulating their moral
instructions.

All this testifies to the considerable intellectual freedom of Kyjivan theology. In addi-
tion, it shows that Ukrainian authors were skilled enough to feel semantic peculiarities of
lexemes or concepts and were able to manage lexical ambiguities, nuances, semantic paral-
lels and similar ways of expression. Attention to and understanding of semantics (i.e. of the
correlation of the sign and the signified) is consistent with the philosophical trends of the
so called ‘second scholasticism’ (Vdovina 2009).
Our observations do not embrace all the information potential of analyzing the prin-
ciples of quoting the hs in the texts written by Ukrainian religious thinkers of the 17th
century. In this paper we have just tried to outline the problem and give some examples
taken from a few important texts. Further investigation of various kinds of records from
17th century erudite literature will help to enrich our knowledge and to outline some speci-
ficities of the whole of Ukrainian cultural history.
108 Larysa Dovga, Roman Kyselov

Abbreviations

Jevangelije 1563-1564: Jevangelije (with wide fonts), Moskva 1563-1564.


ju 1569: Jevanhelije Učytelnoje, Zabludiv 1569.
ju 1616: Jevanhelije Učytelnoje, transl. by M. Smotryc’kyj, Vievis 1616.
ju 1637: Jevanhelije Učytelnoje, transl. by M. Smotryc’kyj, Kyjiv 1637.
ob 1581: Biblia, syrĕč knyhy Větchaho i Novaho Zavěta, Ostroh 1581.

Literature

Frick 1987: D.A. Frick, Meletij Smotryc’kyj’s Ruthenian Homiliary Gospel of 1616,
in: The Jevanhelije učytelnoje of Meletij Smotryc’kyj, Cambridge (MA)
1987 (= Harvard Library of Early Ukrainian Literature. Texts, 2), pp.
ix-xvi.
Frick 1995: D.A. Frick, Meletij Smotryc’kyj, Cambridge (MA) 1995.
Garzaniti 1999: M. Garzaniti, Učitel’noe evangelie Meletija Smotrickogo v kontekste
cerkovno-slavjanskoj tradicii evangel’skoj gomiletiki i problema perevo-
da evangel’skich čtenij, in: G. Brogi Bercoff, M. Di Salvo, L. Marinel-
li (a cura di), Traduzione e rielaborazione nelle letterature di Polonia
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Gizel’ 2009: I. Gizel’, Myr s Bohom čoloviku, Kyjiv 1669 (reprinted in: I. Gizel’, Vy-
brani tvory u 3 tomach, red.-upor. L. Dovha, i/2, Kyjiv-L’viv 2009).
Gizel’ 2012: I. Gizel’, Myr z Bohom čoloviku (Ukr. transl. by R. Kysel’ov, apparatus
by L. Dovha), in: I. Gizel’, Vybrani tvory u 3 tomach, red.-upor. L. Do-
vha, i/1, Kyjiv-L’viv 2012.
Jakovenko 2017: N. Jakovenko, U pošukach Novoho Neba. Žyttja i teksty Joanykija Ga-
liatovs’koho, Kyjiv 2017.
Korzo 2010: M. Korzo, “Myr z Bohom čoloviku” Inokentija Gizelja v konteksti ka-
tolyc’koji moral’noji teolohiji kincia xvi-peršoji polovyny xvii st., in: I.
Gizel’, Vybrani tvory u 3 tomach, red.-upor. L. Dovha, iii, Kyjiv-L’viv
2010, pp. 195-262.
Marcialis 2008: N. Marcialis, Reminiscencija, parafraza, citacija: o principach ispol’zo-
vanija istočnikov v moskovskoj polemičeskoj literature xvi veka, in: A.
Alberti, S. Garzonio, N. Marcialis, B. Sulpasso (a cura di), Contributi
italiani al xiv Congresso Internazionale degli Slavisti (Ohrid, 10-16
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Principles of Quoting the Holy Scriptures 109

Matchauzerova 1976: S. Matchauzerova, Dve teorii teksta v russkoj literature xvii veka,
“Trudy Otdela drevnerusskoj literatury”, xxxi, 1976, pp. 271-284.
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Picchio 1977: R. Picchio, The Function of Biblical Thematic Clues in the Literary
Code of “Slavia Orthodoxa”, “Slavica Hierosolymitana”, i, 1977, pp.
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Simovyč 1930: V. Simovyč, Sproby perekladiv Sviatoho Pysma u tvorach J. Galiatovs’-
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Trunte 1985: H. Trunte, Gott und seine Schöpfung bei Cyrillus Tranquillus: Kap. I.
Quellen der Theologie; Kap. II. Die Lehre von Gott, in: C.T. Stavro-
veckij, Perlo Monohocĕnnoje (Černĕhov 1646), Herausgegeben und
kommentiert von H. Trunte, II. Kommentar. Literarischer und theo-
logischer Kommentar auf dem Hintergrund der Geschichte des 16. und
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Vanhoozer 1998: K. Vanhoozer, Is There a Meaning in this Text? The Bible, the Reader,
and the Morality of Literary Knowledge, Grand Rapids (MI) 1998.
Vdovina 2009: G. Vdovina, Jazyk neočevidnogo. Učenija o znakach v scholastike XVII
veka, Moskva 2009.
110 Larysa Dovga, Roman Kyselov

Abstract

Larysa Dovga, Roman Kyselov


Principles of Quoting the Holy Scriptures in Works by 17th Century Ukrainian Authors: Approaching
the Issue

Ukrainian attitudes towards the holy scriptures, and the ways in which they were quoted and
referred to, indicate the specificity of the Ukrainian intellectual culture and the range of freedom
that this culture set as a frame for its own development. The Bible quotations used in the selected
17th century texts in Old Ukrainian (prosta mova) and Church Slavonic show that the scriptures
were treated by Ukrainian religious intellectuals as the most authoritative source for legitimizing
new ideas and concepts which were adopted from the texts of non-Orthodox authors and were
to be integrated in the Orthodox theological discourse. At the same time, the authors did not feel
excessive reverence towards any of the printed versions of holy scriptures and admitted independent
translations (from Latin, Church Slavonic, Polish) as well as the possibility of specifying meanings.
What is most significant was the comparison of different codices of the scriptures in search of the
one they considered most favorable for their goals. It is worth emphasizing that the Church Slavonic
translation of the Bible served as one of the possible versions and not as a sacred literary canon. If
needed it was quite acceptable to translate the holy scriptures into the Old Ukrainian literary lan-
guage, based on vernacular practice and easily understood by ordinary lay believers.

Keywords

Translations of holy scriptures; biblical quotations; Ostroh Bible; Old Ukrainian language;
Inokentij Gizel’; Meletij Smotryc’kyj; Kyrylo Trankvilion Stavrovec’kyj.
© 2018 Author(s). Open Access. This article is “Studi Slavistici”, xv, 2018, 1: 111-130
distributed under the terms of the cc by-nc-nd 4.0 doi: 10.13128/Studi_Slavis-22128
Submitted on 2017, November 27th issn 1824-761x (print)
Accepted on 2018, June 5th issn 1824-7601 (online)

Alexander V. Maiorov

Schlözer and Karamzin.


Struggle for Priority in Studying Russian Chronicles*

The outstanding German historian August L. Schlözer (1735-1809), who intermit-


tently lived and worked in St. Petersburg in 1761-1767 (see Peters 2005: 55-132; Lauer 2009:
272-281), played an important role in the development of historical studies in Russia. He
was one of the most prominent historians and publicists of his time, who can rightly be
called the “Mediator of the World” (Muhlack 2012: 7 ff.).
Assessing the professional level of Russian historians of the eighteenth century, Hans
Rogger rightly wrote: “It is true that there was no scholar in Russia during the entire cen-
tury who could measure himself with Schlözer in terms of achievement or expertness. His
knowledge of history, of ancient and modern languages, his mastery of the methods of
textual criticism, of historical geography and linguistics, gave him an undoubted advantage
over his Russian colleagues” (Rogger 1960: 222).
At the same time, the major Russian historian and source-study expert Michail N.
Tichomirov noted: “The first attempt to publish chronicles, made under Schlözer’s su-
pervision, was not successful, which did not prevent the aristocratic-bourgeois histori-
ography from proclaiming him the pioneer in the Russian source study, deliberately ig-
noring Tatiščev’s activity. The failure of the publication was to a large extent explained by
Schlözer’s excessive self-confidence, who at that time had a bad command of the Russian
language” (Tichomirov 1955: 220). These words naturally show the influence of the Sta-
lin era’s historiographical stereotypes. However, as we will show further, such accusations
against Schlözer were already expressed by Karamzin, who went a difficult path from admi-
ration for Schlözer to understanding his flaws and realizing that his own vision of Russian
history was deeper and more comprehensive, and would surpass that of Schlözer.
Like Schlözer, Nikolaj M. Karamzin (1766-1826) considered Russian chronicles to
be the main source of historical information about Ancient Rus’. Following his German
predecessor, Karamzin believed that the Nestor Chronicle was the most important among
them. “Like Schlözer, he praised the Primary Chronicle (Nestor) by extolling it as a ‘treasure
of our history’ and by maintaining that it was superior to those of other ancient peoples”,

* The study was carried out with the financial support of the Russian Science Foundation
(Rossijskij naučnyj fond), Project 16-18-10137. I express my sincere thanks to Brian Boeck for his help
in preparing this article for publication.

Alexander V. Maiorov (Saint Petersburg University) – a.majorov@spbu.ru


The author declares that there is no conflict of interest
112 Alexander V. Maiorov

wrote Joseph Laurence Black (Black 1975a: 38)1. In order to surpass Schlözer’s academic
achievements, Karamzin begins searching for new ancient copies of Russian chronicles,
especially of the Primary Chronicle, and introducing them into academic circulation.
In this article we will try to show the role of Schlözer and Karamzin in the search
for and the study of the oldest copies of the Russian chronicles and, above all, of the most
important among them – the Hypatian (Ipat’ev) Chronicle.
Both Schlözer and Karamzin became acquainted with the Hypatian Chronicle long
before it was first published. Both scholars rated high the manuscript significance for the
Russian history. Both of them used the information from this chronicle widely in their
works. Nevertheless, the opinion about Karamzin’s primary role in the study of the Hypa-
tian Chronicle prevails in modern historical literature, while Schlözer’s name is hardly ever
mentioned in this context.
Why so many twentieth-century historians preferred to ignore Schlözer’s primary
role? Undoubtedly, when answering this question, we need to take into account the Stalin
era prescription to give Russia priority in all sorts of discoveries. An objective assessment
of Schlözer‘s achievements in the development of historical studies in Russia was ham-
pered by his non-Russian background. His disagreements with Michail Lomonosov, who
personally disliked Schlözer, also played a very negative role, especially because during the
Soviet era Lomonosov became in many ways a propaganda symbol of the triumph of the
Russian science in the fight against hostile foreign influences (see more Usitalo 2013). It is
only through the prism of a skewed view of the eighteenth-century history in the Soviet
period that Karamzin’s ‘priority’ becomes a priority.

1. “What Do We Need this German Scholarship with Its Pedantic Requirements for?”
Priority of Schlözer and his students in the discovery and study of the Hypatian
Chronicle is undoubtedly stated in the main work of the German professor in Russian his-
tory, published in five volumes under the general title Nestor (Schlözer 1802: ii). The Ger-
man edition of Nestor (1802-1809) was constantly used by Karamzin in his work on the
first volumes of his History of the Russian State. After the publication of the Russian transla-
tion (1809-1819), Schlözer’s work gained wide popularity in Russia.
As Schlözer had left Russia, he certainly did not have access to the original Hypatian
Codex. However, he was able to use an exact transcript of the Academy Library copy of
the chronicle, prepared especially for him by his students Semën S. Bašilov and Aleksej Ja.
Polenov. The historian defined its significance as the most important source of historical
knowledge about Ancient Rus’. At the initiative and under the direction of Schlözer, the
St. Petersburg Academy of Sciences even began preparing the Chronicle for publication,
which, however, did not take place (see Majorov 2017: 166-183).

1
On Schlözer’s study of the Nestor Chronicle, the importance that the historian attached to
this written monument, the advantages and disadvantages of his research method, see Müller 1962:
138-149; Zimin 1962: 132-137; Henkel 2006: 101-117.
Schlözer and Karamzin 113

Karamzin undoubtedly knew about the precedence of Schlözer and his students in
the discovery and the study of the Hypatian Chronicle. Nevertheless, he did not say a word
about it. It seems that the historiographer deliberately kept silent about the role of his
predecessors. To this end he apparently abandoned the name given to the chronicle by
Schlözer – the Hypatian Chronicle – and instead used the names of its separate parts – the
Kievan and the Volhynian Chronicles.
This situation requires an explanation. Undoubtedly, the national feelings and pa-
triotic moods of Russian historians played an important part in reassessing the contribu-
tion of foreigners to the study of the ancient history of Russia, especially after the suc-
cess of Catherine ii’s foreign policy and the victory of Russia in the Patriotic War of 1812.
Karamzin actively expressed such moods himself. Let us dwell on this point.
The national feelings of Russians were offended by Schlözer’s conclusions regarding
the initial period of Russian history. The German historian defined the social development
level of the ancient Slavs at the level of primitive savagery, comparing them with American
Indians before the coming of the white man. “Like the Iroquois or Algonquins”, Schlözer
wrote, “the peoples of the Baltic shores had neither the goods, nor the money, nor the liter-
acy which would have enabled them to trade” (Schlözer 1809: 388-390). All across Russian
North, up to the middle of the ninth century, there was not a single settlement that could
justly be called a town. “Savage, coarse, and dispersed, the Slavs began to form themselves
into communities under the influence of the Germans, who had been appointed by des-
tiny to sow the first seeds of civilization in the North-Western and North-Eastern Worlds”
(Schlözer 1816: 178-180).
No matter how great Schlözer’s devotion to historical truth was, it is only natural that
Russians would consider such language condescending and intemperate, a sign of German
haughtiness. In addition, Schlözer thought of Russian historians as lesser examples of the
species. His condemnation of their provincialism and backwardness appeared to them to
have grown out of a general theory of Russian backwardness. “What kind of people were
those”, he exclaimed, “who prided themselves on their knowledge of Russian history?” “Peo-
ple without any formal training, people who read only their chronicles, not knowing that
there was history outside Russia, people who knew no language but their own”. “I was at
least a scholarly critic […] I was in this respect the only one in Russia” (Schlözer 1768a: 70).
Apart from a higher professional skill level, Schlözer differed from Russian historians in
his understanding of the essence of the historian’s work. According to Schlözer, history was
not history if its inspiration was anything but the impartial search for truth. “Love for the
fatherland, wrongly understood, makes impossible the critical and dispassionate treatment of
history... and becomes ridiculous.” Lomonosov thought otherwise. “If literature can move the
hearts of men, should not true history have power to inspire us for praiseworthy deeds, espe-
cially the history that relates the feats of our ancestors?” (quoted by Rogger 1960: 221-222).
In this respect, Karamzin’s views were undoubtedly close to those of Lomonosov.
As a patriot and a staunch supporter of autocratic monarchy, Karamzin emphasized in
the Russian history the progress achieved in creating a powerful state. Only the strong
114 Alexander V. Maiorov

state led by the absolute monarch, in his opinion, could ensure historical progress and
prosperity of the Russian people. Karamzin’s starting point was the statement that Russia
possessed a highly developed material and spiritual culture at the very beginning of its
existence as a state. Neither internal dissension nor foreign invasion were able to destroy
the creative ability of the national character that had shaped at the very early stage, and
together with the wise policy of Russian rulers and the institution of autocracy could
create a new empire that integrated the best features of the Slavic, Germanic, Mongolian,
and Byzantine life (Karamzin 1991b: 23).
The aforesaid explains the general hostility of Karamzin to Schlözer and his scholarly
work. At the very beginning of his studies in Russian history, Karamzin sought to overcome
the dependence on Schlözer’s methods and conclusions. Having finished the draft version
of the first two volumes of his History, in a letter dated 6 March 1806, Karamzin wrote to
his patron, Vice Minister of Education Michail N. Murav’ev (1757-1807), “Now I can catch
my breath and I’m not afraid of Schlözer’s ferule” (Karamzin 1998: 291). This meant that
from then on Karamzin no longer considered himself, as he had used to, Schlözer’s pupil,
afraid of punishment from a strict teacher.
With time, Karamzin’s criticism of Schlözer became stronger. The famous historian
Michail T. Kačenovskij in a letter to the poet Vasilij A. Žukovskij on 15 December 1810
quoted Karamzin’s public statements about the Göttingen professor, which he had recent-
ly heard: “Schlözer is a charlatan, he is a foreigner; Russian history is for him absolutely
alien; he does not know anything about it and talks idly, he shows off in front of the igno-
rant” (Iezuitova 1981: 105).
In a letter to Aleksandr I. Turgenev on 3 April 1810, Karamzin, referring to the Ger-
man edition of Schlözer’s Nestor, wondered for whom that work was written. He answered
himself: “For seven or eight inquisitive people. It is not much use. The explanation and the
translation of the text are very bad and often ridiculous. The old man did not know well
both the language of the chronicles and their content after Nestor” (Saitov 1899: 231).
This harsh tone of the assessment given to Schlözer may have surprised and disappoint-
ed Turgenev. After all, he knew that a few years ago Karamzin and Murav’ev were going to
visit Schlözer in Göttingen in order to get his advice on Russian history (the letter from Tur-
genev to his parents dated 28 December 1803/9 January 1804)(Istrin 1911: 135). Turgenev,
who was a student at the University of Göttingen in 1802-1804, assumed the role of an
intermediary between Schlözer and Karamzin’s (see more Lehmann-Carli 1997: 539-554).
Even an enthusiastic admirer of the historiographer Michail P. Pogodin was indig-
nant at the unfair evaluation of Schlözer’s scholarly merit. : “Those are the few words”,
wrote Pogodin about the above quotation, “that I would not like to hear from Karamzin!
They show that working to the letter of Schlözer’s instructions and being partially indebted
to Schlözer for his method […] he did not quite understand that and did not realize that he
was among those seven or eight readers of Schlözer’s work, and therefore Schlözer’s writ-
ings were not only useful, but also necessary for historical studies, that without Schlözer
our history would not have been able to appear in its present form” (Pogodin 1866: 54).
Schlözer and Karamzin 115

The negative attitude of Karamzin to Schlözer is confirmed by Archbishop (later the


Metropolitan) Evgenij (Bolchovitinov), who also disapproved of the Russian historiog-
rapher on that ground. In a letter to Vasilij G. Anastasevič, dated 13 January 1819, Evgenij
wrote, “…let the magpies chatter at him [Schlözer], like at a bear in the forest, but at its
lair it is important. Karamzin also sometimes pinches him like a flea; he lives on Schlözer’s
comments in his History but does not say whose blood he has been drinking” (Bolchovi-
tinov 1889: 165).
Subsequent researchers repeatedly confirmed that Karamzin built his method of
source critical analysis based on the model developed by Schlözer. This can be undoubtedly
concluded from the analysis of the Notes compiled by Karamzin for his History (see more
Black 1975b: 127-147; Bächtold 1946).
“It seems, that the first thing to do for Karamzin”, argued Pogodin, “was to write a let-
ter to his teacher, to the master, i.e. to Schlözer, who discovered the world of Russian annals
to Europe, showed their significance, and taught how to use them […] But no, Karamzin
did not write a letter to Schlözer. He must have been afraid to tell him about the intention
to write the History, because he realized the level of Schlözer’s requirements…” Karamzin
“must have been scared at first. However, his ardent desire to write the History and his first
hope, based on superficial knowledge, to overcome difficulties soon naturally put a differ-
ent perspective on the matter. What do we need this German scholarship with its pedantic
requirements for? Is it worth the trouble to sweat over letters and to write dissertations
about a certain word? Russians need a book of a different kind. They need the History that
is understandable to all. With Schlözer, it should be expected in about a hundred years…”
(Pogodin 1866: 20-21).
Pogodin undoubtedly had in mind the situation described in the book about Schlöz-
er by his son Christian, who in 1801 became a professor at Moscow University and lived in
Russia for many years (see more Kaplunovskiy 2014). Soon after Karamzin was appointed
imperial historiographer, Christian Schlözer wrote to his father from Moscow to Göttin-
gen (late 1803), “I saw him [Karamzin] recently. He assured me many times of his respect
for you and by the way said that before starting his work he would write to you and ask
for instructions” (Schlözer 1828: 418-419). The Russian historian did not fulfill that inten-
tion. The hypothesis that Karamzin might have corresponded with Schlözer, but the letters
burnt in the Moscow fire of 1812, has not been proved (Lehmann-Carli et al. 2008: 69, note
217). We know only one letter from Karamzin to Schlözer where he thanked the latter for
volumes iii and iv of Nestor, delivered by Turgenev in 1805 (Istrin 1911: 229).
It can be assumed that Karamzin’s refusal to cooperate with Schlözer was caused by
the rumors that the latter expressed doubts about the creative abilities of Karamzin as a
historian. In January 1805 Turgenev wrote to Andrej S. Kajsarov that Karamzin wanted
to send Schlözer the first pages of his History. Then Turgenev asked Kajsarov if it was true
that Schlözer had written to Petersburg that Karamzin could not write the history of Rus-
sia (Istrin 1911: 327). Schlözer considered it necessary to clear himself of all the charges.
In a letter to Turgenev on 26 March/7 April 1805 he emphatically declared: “If someone
116 Alexander V. Maiorov

tells you that I wrote anything against Karamzin, Thun you can on my behalf show these
lines and call that person a liar and a scoundrel!” Nevertheless Schlözer further admitted
that he had written a letter to the President of the Imperial Academy of Sciences Nikolaj
N. Novosil’cev, where he expressed doubts about the prospects of the academic history of
Russia being written in the near future, but in that letter he did not mention Karamzin’s
name (Istrin 1911: 307).
In any event, the relationship between two historians was poisoned. Karamzin re-
fused to go to Schlözer for advice and preferred to play a lone hand. Perhaps this explains
the harsh tone of Karamzin’s statements about Schlözer cited above and his desire to be-
little Schlözer’s contribution to the study of the Russian history in general and the Russian
chronicles in particular.
To Schlözer’s German scholarship and pedantry in his slow and laborious search for
the initial versions of Nestor by means of comparing and critically examining a large num-
ber of chronicle copies, mostly late ones, Karamzin could oppose only one reliable remedy:
the use of the oldest surviving Russian chronicles, especially those that had not been previ-
ously known and involved in the historical study.
In this respect, Karamzin made a remarkable progress. On 12 September 1804, in a
letter to Murav’ev, Karamzin wrote: “I have found two really good parchment chronicles:
one of the 14th century, at Count Puškin’s (the Laurentian Chronicle of 1377, preserved
until our time) (rnb or, f. iv. 2), which I have already copied, and the other in the Troitsky
Library, just as ancient (the Troitsky / Troickaja Chronicle burnt in the Moscow fire of
1812). Neither Tatiščev nor Ščerbatov had such precious copies of Nestor. Every day I find
new gross mistakes of Tatiščev and Boltin. I remark on them in the notes, in no way offend-
ing the memory of the dead” (Karamzin 1998: 285).
Given by the Emperor Alexander i the right of unimpeded access to all the archives
of Russia, Karamzin, of course, had an indisputable advantage over Schlözer, who lived in
Germany and, apart from a few printed publications, possessed only his old extracts from
and copies of chronicles made during his stay in Petersburg in the 1760s.
As noted by Pavel N. Miljukov, Schlözer surpassed Karamzin “with his materials and
critical techniques”. The range of issues raised by Karamzin was “essentially conditioned by
the matters considered by Schlözer. Even where Karamzin does not agree with him, he al-
ways operates with the help of Schlözer’s data”. Karamzin frees himself from Schlözer only
where he “has to choose between various versions of chronicles: having such good texts of
the chronicles as represented by the Laurentian and Troitsky Manuscripts, Karamzin could
resolve such issues without any academic reasoning – simply by virtue of the best manu-
script. In the terminology of Schlözer, it meant that Karamzin possessed a ‘pure’ Nestor
and, therefore, did not need to ‘restore’ it” (Miljukov 1898: 158-159).
To what has been said by Miljukov, we can only add that the Hypatian Chronicle, by
its historical significance, is not inferior to the Laurentian and Troitsky Chronicles, and per-
haps even surpasses them. In the first place, the Hypatian contains another ancient version
of the Tale of Bygone Years, that is, the ‘pure’ Nestor, and offers many advantages, including
Schlözer and Karamzin 117

the extension of the Tale to 1117, and in many cases provides a very useful corrective to the
Laurentian (Ostrowski 2003: xxiv; see more Šachmatov 2003: 528ff.). In addition, only the
Hypatian retained two other most important Rus’ chronicles of the 12th-13th centuries – the
Kievan and Galician-Volhynian2. Getting hold of such valuable sources and appreciating
them as “treasures”, Karamzin felt his complete superiority over Schlözer and no longer
wanted to share the priority in studying the annals.

2. Discovery of the Chlebnikov Copy


The information about how and when Karamzin found the manuscripts of the Hypatian
Chronicle is extremely contradictory. For example, Jurij M. Lotman believed that the historian
got hold of two important copies of the annals in the summer of 1808 (Lotman 1998: 319, 379).
It is often stated that Karamzin found the oldest copy of the chronicle in 1814 when he visited
the Ipat’ev Monastery (Brjusova 1982: 64; Agapov et al. 2003: 97). Some authors specify that
until 1814 the chronicle had been kept in the sacristy of the main monastery church – the Holy
Trinity Cathedral (Gluchov 2008: 70). In the newest biography of Karamzin we find contra-
dictory information. In one place it is said that the historian found the chronicle in 1808, in the
other – the middle of 1809 is pointed out (Murav’ev 2014: 313, 476).
However, according to Karamzin himself, his acquaintance with the chronicle began
not with the Hypatian, but with the Chlebnikov Copy. “In 1809”, the historian wrote, “while
examining the ancient manuscripts of the late Peter Kirillovič Chlebnikov, I found two
treasures in one book: the Kievan Chronicle, known only to Tatiščev, and the Volhynian
Chronicle, previously known to nobody. A few months later I found another copy of them.
Once it had resided with the Ipat’ev Monastery and later got lost among the Defects in the
library of the St. Petersburg Academy of Sciences” (Karamzin 1989: 25).
Contemporary researchers are critical of Karamzin’s information about the circum-
stances of his acquaintance with the Hypatian Chronicle. Among others, the commentators
of the latest academic edition of The History of the Russian State refute this information.
The Hypatian (Academic) Copy “was discovered by A.I.  Turgenev in the Library of the
Academy of Sciences around 1807, who told the historiographer about it” (Afanas’eva et
al. 1989: 333). Or: Karamzin had the Academic Copy of the Hypatian Chronicle that had
been “discovered by A.I.  Turgenev in the Library of the Academy of Sciences around
1807” (Afanas’eva et al. 1991: 660). The same comment is repeated with an addition: “A
copy [from the Academic Chronicle] belonging to A.F. Malinovskij is known […] which
Karamzin could use while working on the History in Moscow” (Afanas’eva et al. 1992: 351).
However, no grounds are given for this assumption.
Meanwhile, the circumstances of Karamzin’s discovery of the Hypatian Chronicle
are well known from the surviving correspondence, including the letters to A.I. Turgenev:
“What a discovery I made!” wrote Karamzin, “The Volhynian Chronicle, complete, up to

2
On the historical significance of these chronicles, see Pritsak 1990: xxiii-xxxii.
118 Alexander V. Maiorov

1297, abundant in details, absolutely unknown. What will Engel say? I have not been sleeping
several nights for joy. The copy is beautiful, of the fourteenth century. An interesting item
for connoisseurs. In a word, it is a treasure; God sent it from heaven” (Pogodin 1855: 80-81).
In the first publication (1855), that letter was dated 23 August 1807. This date is
sometimes accepted in the academic literature (Prijma 1980: 60). However, a few years
later, M.P.  Pogodin dated the letter 1809, finding the previous dating erroneous (Pogo-
din 1866: 49). Among other events, the letter mentioned the wedding of Princess Ekate-
rina A. Vjazemskaja and Prince Aleksej G. Ščerbatov (“…we gave our former princess to
Prince Ščerbatov”), held in April 1809 (Obolenskij 1876: 98). Hence, the document could
not be written before that time.
An error in the dating was probably made when copying Karamzin’s letters in the
course of their preparation for publication on Turgenev’s initiative in 1836. At that time the
publication was rejected by the censorship committee. Two decades later, Pogodin used
the copy, which has survived to our time in the Manuscript Division collection of the Insti-
tute of Russian Literature (the Puškin House) of the Russian Academy of Sciences. The last
number in the letter date indicating the year is illegible, and this letter was placed among
letters dated 1806 and 1808 (irl ro, no. 15976, l. 5).
In the original, which was kept in the Turgenevs’ family archive and published in
1899, the document in question is dated 23 August 1809 (Saitov 1899: 226). The original of
the letter has also been preserved until our time in the Turgenevs’ fund at the Manuscript
Division of the Puškin House. Written by Karamzin’s hand, the date thereon is quite leg-
ible – 23 August 1809 (irl ro, f. 309, no. 125, ll. 17-18).
This date is confirmed by another document, i.e. Karamzin’s letter to Novosil’cev, dat-
ed 23 August 1809. In that letter the historian also mentioned his recent discovery of the
Volhynian Chronicle. “Having described the rule of Donskoi, I had to return to the 12th and
13th centuries, in order to add a lot from the comprehensive Volhynian Chronicle that I have
found recently. It has been unknown until now and is very precious. This find is the most
important among those at which I have rejoiced in six years” (Pogodin 1866: 50).
Turgenev was the first to ask Karamzin about the origin of the manuscript. On 17
September 1809, he received an answer. “I got the Volhynian Chronicle not from Russov,
but from the library of a certain Kolomna merchant. This find spared me shame, but cost
six months work. The gods do not give, but sell living pleasures, as the ancients used to say”
(Saitov 1899: 228).
Karamzin received the copy of the Hypatian Chronicle that came from the library
of a Kolomna merchant and industrialist Pëtr K. Chlebnikov (1734–1777) from his good
friend Dmitrij Poltorackij (1761–1818), married to Chlebnikov’s daughter Anna. This was
evidenced by Michail P. Pogodin, who wrote down his conversation with Karamzin when
they first met in December 1825 (Barsukov 1888: 231).
Until the summer of 1809 the chronicle was kept in Moscow, in Chlebnikov’s old
estate on Všivaja Gorka on the other side of the Jauza. There it was found by Karamzin,
who was invited to sort out the books in the deceased merchant’s library. Obviously having
Schlözer and Karamzin 119

heard about it from the historiographer, Konstantin F. Kalajdovič described that event in
1813: “…the Volhynian Chronicle was accidentally found among the heaps of thick but un-
important books, which were absolutely disappointing” (Kalajdovič 1813: 210).
The date of the discovery of the manuscript can be determined more accurately. On
June 25 that year, the Poltorackij’s purchased a house on the Bol’šaja Kalužskaja street from
duchess A.A. Orlova-Česmenskaja (Ivanov 2006). It is quite possible that, preparing to move
to a new house, the owners invited an expert to sort out the old library they had inherited.
Karamzin’s letter to his brother dated 21 June 1809 confirms this assumption. In it the
historian told about the unexpected need to rewrite many of the earlier chapters of his His-
tory: “I am working as usual, and I have finished describing the time of Donskoj, but now I
have to correct a lot in what was written earlier” (Pogodin 1866: 48).
The above facts lead to the conclusion that Karamzin most likely discovered the
Hypatian Chronicle in June 1809. However it was only two months later that the historian
fully appreciated the significance of the discovery he had made.
As a result of the manuscript examination, the historian discovered numerous unique
reports related to the history of Rus’ of the 12th-13th centuries that no historian had previ-
ously known. This unexpected discovery, as if sent from heaven, inspired Karamzin and
made him believe in himself as a pioneer. From then on he knew and could tell to the whole
world as many new historical facts about Ancient Rus’ as none of his most knowledgeable
predecessors, including Schlözer, could.
The amount and importance of the new historical knowledge learnt from the Hypa-
tian Chronicle forced Karamzin to stop working on the History and to make numerous
additions and amendments to the already written volumes. Particularly significant were
the borrowings from the Volhynian Chronicle, which had previously been unknown to
scholars. The historian decided to place lengthy extracts from it in the notes, as he notified
Turgenev on 3 April 1810. “The amendments are already finished; now I am writing out
the most important passages from the Volhynian Chronicle for the notes, and then I will
proceed with God’s help” (Saitov 1899: 231).

3. Search for Hypatian Copy


Only after Karamzin had encountered the Chlebnikov Copy of the Hypatian Chronicle
and appreciated its significance did he show interest in the Hypatian Copy that resided
with the Academy of Sciences.
In the letter to Novosil’cev cited above, Karamzin wrote, “The Academic Library
possesses the manuscript in folio, which has not been printed before. It is written in two
columns and called Chronograph or Vremennik Russkii; the first white sheet states Chro-
nograph or Vremennik Kievskij; and further kniga Ipat’eva monastyrja služki Tichona (the
book of the Ipat’ev Monastery acolyte Tichon) and kniga Ipat’eva monastyrja starca Tara-
sija (the book of the Ipat’ev Monastery monk Tarasij). I need to see that record. Be so kind,
lend it to me for a month…” (Pogodin 1866: 50).
120 Alexander V. Maiorov

Worried about the long absence of response from Novosil’cev, Karamzin turned to
Turgenev for help on 17 September 1809. “For God’s sake, my dear friend, persuade Nikolaj
Nikolaevič Novosil’cov to send me for a while the Academic Codex, about which I asked
him. I need it. It has the following features: 1) written in folio in two columns; 2) on the
first white sheet it is stated that it belonged to a monk and an acolyte of the Ipatov or
Ipat’ev Monastery; 3) called Chronograph or Vremennik and continues up to about 6780.
You will do a great service to a zealous historiographer” (Saitov 1899: 228).
Apparently, the Hypatian Codex was delivered to Karamzin in early October. It took
long to fulfill the historiographer’s request because the information about the manuscript
in the catalogue of the Library of the Academy of Sciences was missing, and therefore it
was difficult to find it. This can be inferred from the explanations given in the letter to Tur-
genev on October 15. Thanking him for the delivery of the Hypatian Chronicle, Karamzin
apologized for failing to do so earlier because of his “twelve-day illness”. Besides, the his-
torian complained about the neglect of the academic librarian. “I hope that Mr. Librarian
will now include the Hypatian Chronicle in the catalogue” (Saitov 1899: 228-229).
How did Karamzin learn about the existence of the Hypatian Codex, which was not
included in the catalogue of the Library of the Academy of Sciences of the time?
Of course, the historian was aware of the brief information about this codex, quoted
by Schlözer in the second part of his Nestor, the German edition of which Karamzin had
used (see Afanas’eva et al. 1989: 377-378). Schlözer named the Hypatian or Academic Co-
dex among the earliest and the most important copies of the oldest Russian Chronicle
(see Schlözer 1802: ii). However, Schlözer did not mention the Kievan and the Volhyn-
ian Chronicles included in the Hypatian Codex. Besides, Schlözer, who had not seen the
manuscript with his own eyes and judged it solely based on what he had heard from the
others, did not provide any of the paleographic information about the codex that we find
in Karamzin’s letters cited above.
Karamzin, who was mostly engaged in literary work, rarely went to archives and li-
braries himself. He did not go to St. Petersburg to visit the Academic Library in the spring
and the summer of 1809. After the imperial decree on appointing Karamzin to the post
of historiographer (31 October 1803) and until Napoleon’s invasion, the historian spent
winters in Moscow, while in summer he lived in Ostafyev, the estate of the Princes Vjazem-
skij, whose relative, Ekaterina A. Kolyvanova (the illegitimate daughter of Prince Andrej
I. Vjazemskij) Karamzin married in January 1804. However, throughout his work on the
History of The Russian State, he regularly employed his volunteer assistants from among the
leading Russian archaeographers and archivists.
Karamzin’s letters and other documents known today provide no information on the
issue in question. Who exactly told the historiographer about the existing in the Academic
Library in St. Petersburg another ancient copy of the Volhynian Chronicle and provided
its exact description, can be inferred only from indirect data. One can only say with cer-
tainty that Karamzin could not get this information from Turgenev or from the staff of the
Academic Library, since the manuscript, according to the correspondence with Turgenev,
Schlözer and Karamzin 121

was not even included in the library catalog. Moreover, there was no information about it
in the printed catalogue of the library published by P.I. Sokolov in 1818. They were added
later, by hand, on the margins of one of the surviving copies (Petrov 1956: 234).
No mention of the Hypatian Copy in Karamzin’s correspondence suggests that he
could obtain information about this manuscript from available printed publications or
when meeting in person one of his Moscow assistants.
Let us consider both possibilities.
For many years the historiographer was assisted by the staff of the Moscow archive of the
College of Foreign Affairs, headed by the archive manager, outstanding historian, archaeog-
rapher and archivist Nikolaj N. Bantyš-Kamenskij (1737-1814). Karamzin constantly used his
works and the ancient manuscripts he had found (see Bantyš-Kamenskij 1818). The Moscow
house of Bantyš-Kamenskij, together with his personal archive, burned down in 1812. How-
ever, it is clear from the surviving Karamzin’s letter to him, dated 27 September 1813, (where
Karamzin expressed his critical opinion about the Cyprian Book of Degrees) that the scholars
exchanged information about the Old Russian chronicles (oipb91: 23-24).
The closest assistant and friend of Karamzin was Aleksej F. Malinovskij (1762-1840),
the most prominent expert of the time in Russian antiquities. Since 1803 he was Assistant
Administrator of the Moscow Archive of the College of Foreign Affairs. He headed the
Archive from 1814 until his death (see Dolgova 1992: 176-229; Beljakova 2010: 125-144).
Malinovskij regularly supplied Karamzin with historical information and archival materi-
als, which is evident from the correspondence between them. Only Karamzin’s letters to
Malinovskij have survived that were written between 1813-1826, when the historian lived
outside Moscow – in Nižnij Novgorod, St.  Petersburg and Carskoe Selo. However, it is
clear from the correspondence that cooperation and friendship between the scholars began
much earlier. Karamzin wrote to Malinovskij very sincerely on October 10, 1818: “For two
decades I have seen from you only the evidence of true friendship” (Longinov 1860: 35).
As we know, Bantyš-Kamenskij and Malinovskij together with Count Aleksej
I. Musin-Puškin studied the manuscript of The Lay of Igor’s Campaign and prepared the
first edition of the manuscript (1800) (see Dmitriev 1976: 97-103). Malinovskij wrote
the foreword and the comments, and translated The Lay into the contemporary Russian
language. The historian continued to be actively interested in this record later on and
was looking for chronicle records concerning Prince Igor and his campaign against the
Polovtsians (see Speranskij 1920: 1-24).
The interest in The Lay and the need to explain the information contained in it could
put the Moscow archivists on the trail of the Academic Copy of the Hypatian Chronicle,
which had retained the most complete story about Igor’s Campaign in year 1185. It is pos-
sible that Karamzin could participate in that pursuit himself. He was among those few who
read the manuscript of The Lay before its publication and made several reports about it in
the press (see Dmitriev 1962: 38-49).
A hand written copy of the chronicle story about Prince Igor’s campaign on the sheets
that, according to the water-marks, are dated 1814 was found in Malinovskij’s papers. This
122 Alexander V. Maiorov

proves that Malinovskij was undoubtedly acquainted with the Hypatian (Volhynian)
Chronicle at the beginning of the nineteenth century. The copy is performed with an ex-
pressed stylization of the handwriting of the 17th century (sheets 9-12a). Michail N. Speran-
skij and Lev A. Dmitriev concluded that the copy was made from the now unknown copy
of the Hypatian Chronicle (Dmitriev 1960: 193 f.).
In addition, at Malinovskij’s initiative, at about the same time, the complete copy of
the Hypatian Codex was prepared (rgada, f. 181, n° 10). It is the manuscript in folio, on
ii + 346 sheets, written in one handwriting, on blue paper, dated 1814. On sheet 346 there
is the copyist’s note: “From the chronicle original was copied by collegiate registrar Petr
Bol’šakov. The copy was verified against the original by the collegiate counsellor and cheva-
lier Ivan Ždanovskij”. At the beginning of the manuscript, on sheet i, one more entry can
be read: “This chronicle, named Volhynian, was donated to the Archive Library in 1816. A.
Malinovskij” (see Kloss 1998: f-g).

4. A Manuscript “Recovered from Dust”


Be that as it may, Karamzin adhered to the version that he found both copies of the
Hypatian Chronicle – the Chlebnikov and the Academic – independently and without par-
ticipation of anyone else.
The historian and his friends made sure that as many people interested in Russian
antiquities as possible would become aware of the discovery of the new chronicle.
First of all, the news about the find reached Germany. In the letter dated 29 Septem-
ber 1809, A.I. Turgenev asked his brother Nikolaj, who was a student at the University
of Göttingen, to tell about Karamzin’s new discovery to Schlözer, the professor of that
university. “Tell Schlözer that Karamzin has found a new complete Volhynian Chronicle,
up to year 1297 (?), abundant in details, which has been absolutely unknown. The copy is
beautiful, of the 14th century; the style is interesting for experts, in a word, it is a treasure, as
Karamzin has written to me. He has not been sleeping for several nights for joy” (Tarasov
1911: 398). Unfortunately, the news was late: Schlözer had died on 9 September 1809.
Death did not let Schlözer comment on Karamzin’s discovery. One can only assume
that he would not have been delighted about it, for he would have remembered (or realized
after further clarification) that he had been aware of that chronicle almost half a century
before Karamzin discovered it. As we will show further, in 1767 Schlözer received a mes-
sage from his student Semen Bašilov about the delivery to the St. Petersburg Academy of
Sciences of a newly discovered chronicle from the Ipat’ev Monastery. The chronicle “begins
in exactly the same way as all Nestor’s codices and ends in year 6800 (i.e. 1292 a.d.)” (the
date specified in Turgenev’s letter – 1297 – is an error).
Schlözer’s Russian students, who copied the Hypatian Chronicle in the late 1760s,
could not comment on Karamzin’s find either. Bašilov died in 1770, while Aleksej Polenov,
who had helped him, had long since been dismissed from the Academy of Sciences and
completely stopped his studies in history.
Schlözer and Karamzin 123

Meanwhile, the largest experts in Russian antiquities of the time – Aleksej N. Olenin
and Aleksandr I. Ermolaev – were immediately notified about Karamzin’s discovery of a
previously unknown chronicle. Both of them were obviously told about the contents of
the newly discovered manuscript. It is known that on 18 August 1810, while in Černihiv
on his archaeographic tour of Russia, Ermolaev informed Olenin: “In the Lubensk Mhar
monastery we found a record [...] I think it is the same chronicle that Karamzin calls the
Volhynian. We have this interesting chronicle now and intend to have it copied in Kiev”
(quoted by Prijma 1980: 76). In fact, Ermolaev found and copied one of the copies of the
so-called Hustynian Chronicle.
Among the first to learn about the Volhynian Chronicle was Duke Tadeusz Čackij
(Czacki) (1765-1813), the general visitor (inspector of educational institutions) in the Ki-
evan, the Podol’sk and the Volhynian provinces, a historian and a collector of ancient man-
uscripts. In 1816, Karamzin’s letter to him, translated into Polish and dated 4 August 1810,
was published. In the letter the historian briefly described the manuscripts he had found
(Melamed 1976: 54).
Karamzin often spoke about his discovery of the Hypatian Chronicle with young his-
torians who were eager to help in his work in the archives and libraries. The first press re-
port about this discovery was probably made by K.F. Kalajdovič (1813). He mentioned only
the copy found by Karamzin among the manuscripts of merchant Chlebnikov. Kalajdovič
also published the first brief description of the chronicle in Russian (Kalajdovič 1813: 210).
Several months later, Kalajdovič in a letter to academician Filip I. Krug (dated 15 Jan-
uary 1814) informed his addressee about Karamzin’s discovery of the Hypatian Copy that
had fallen into oblivion in the Academic library. The message contains a veiled rebuke of a
young historian to the entire academy: “Do you really know that a treasure resides with the
academy – the Volhynian Chronicle, buried among defects and not included in the catalog
– that N.M. Karamzin recovered from dust? I would like to know who will have the honor
to publish these manuscripts” (quoted by Bessonov 1862: 126).
In the last year of his life, in conversation with M.P. Pogodin, Karamzin recalled both
copies of the Hypatian Chronicle as his most important academic findings: “…one is mine,
presented to me by the late Poltorackij, the other, also almost mine, I found in the aca-
demic defects” (Barsukov 1888: 331).
Apparently, Karamzin concluded independently that the Hypatian (Academic) Codex
should include the Kievan and the Volhynian Chronicles and thus be similar to the Chlebnikov
Copy. It seems possible to restore in general outline the path of the historian’s research.

5. Schlözer or Karamzin
Karamzin, undoubtedly, made the most important discovery on the first acquain-
tance with the text of the Chlebnikov Copy. In its title he must have found the name of the
compiler of the chronicle that is absent in all other copies – The Tale of the Bygone Years by
Nestor, the monk of the Feodosiev Pečerskij Monastery (Pritsak 1990: 3).
124 Alexander V. Maiorov

Being familiar with the works of V.N. Tatiščev and Schlözer, Karamzin knew that
Nestor’s name could not be a mistake or a later addition, since it was present in two other
ancient copies containing The Tale of the Bygone Years that were available to Tatiščev, but
already unavailable to Schlözer.
This, as well as other original versions of the Hypatian Codex mentioned by Schlözer,
likened it to the lost Raskol’ničij and Golicyn Copies, from which Tatiščev learned much
about the history of Southern Rus’ in the 12th-early 13th centuries. That information was ab-
sent in the chronicles initially available to Karamzin, however, much of it was found in the
Chlebnikov Copy, which he discovered in the summer of 1809. The new discoveries made by
the historiographer must have prompted him to try to find the Hypatian Copy.
When Karamzin was starting the search, he only knew that the manuscript was once
kept in the Library of the Academy of Sciences in St. Petersburg. This was evident from
Schlözer’s description of the known to him copies of Nestor’s Chronicle where it was stated
under number ii: “The Hypatian, in folio, Old style (Fraktur), continues until 1292; the
analogue (Seitenstück) of the above Radz[iwil] [described under number i], with which
it coincides considerably. This codex [Hypatian] arrived at the Academy after me (i.e.,
after Schlözer had left Russia). That same Bašilov sent me its skillfully performed copy
(Abschrift) from the beginning to the death of Rurik, along with the description of this
important old codex, which I published in Universal. hist. Bibl. Gatterer. t. vi. s. 304”
(Schlözer 1802: ii).
There is no doubt that Karamzin availed himself of Schlözer’s reference to his descrip-
tion of the Hypatian Copy in the Allgemeine Historische Bibliothek published by J.Ch. Gat-
terer (Johann Christoph Gatterer, 1727-1799) in Göttingen. Nevertheless, in the notes to The
History of the Russian State Karamzin made no reference to this publication, while he used
and repeatedly referred to other Gatterer’s publications (see Afanas’eva et al. 1989: 358-359).
Volume 6 of the Bibliothek published in 1768, contained “An Abstract from a Report
from St.  Petersburg dated 16/27 December 1767”. The editorial introduction explained
that it was about the delivery to St. Petersburg of “a very valuable codex of the Annals, the
second oldest after the Radziwil codex, of which the Academy of Sciences had previously
had certain information; it is likely to be from the 13th century. Mr. Bašilov wrote the fol-
lowing preliminary report to Mr. Prof. Schlözer about the codex and other news concern-
ing Russian literature” (Schlözer 1768b: 303).
From the description of the codex that followed, Karamzin was to find not only an
indication that the record continued up to 6800 (1292), but also that it concerned the
Volhynian princes. The historiographer found there all the paleographic features of the
manuscript that he listed later in the letters to Novosil’cev and Turgenev3. Karamzin un-
doubtedly used the description published in Göttingen (referred to by Schlözer) in his
search for the Volhynian Chronicle.

3
The text of Bašilov’s message, together with Gatterer’s editorial explanations and Schlözer’s
comments to him in our translation from Latin and German, see Majorov 2017.
Schlözer and Karamzin 125

After Schlözer and his students, at least one more prominent Slavic scholar became
acquainted with the ancient copy of the Hypatian Chronicle. It was an outstanding Czech
scholar Josef Dobrovský. From August 15 to October 15 in 1792, he worked in the Library
of the St. Petersburg Academy of Sciences and saw the Hypatian Chronicle among other an-
nals. This is directly evidenced in his notes to The History of the Russian State by Karamzin,
“Ipat. academičn. codex Bombicina, ut vidi etc.” (The Hypatian academic codex. Paper, as
I saw it, and so on) (see Moiseeva et al. 1990: 51). This fact became for Edward Keenan one
of the most important reasons to suspect Dobrovský as a possible author of the Igor’Tale
(see Keenan 2003).
Being the first to get acquainted with the Chlebnikov Copy of the Hypatian Chroni-
clele, Karamzin did not want to give up his priority and recognize the right of precedence
for Schlözer, who had found and published a description of its more ancient Hypatian
Copy forty years earlier. As far as we know, Karamzin did not explain to any of his corre-
spondents or interlocutors, how, without leaving Moscow, he was able to learn about the
forgotten ancient manuscript in the Library of the Academy of Sciences in St. Petersburg,
which was not even listed in the library catalogs.
Under the influence of Karamzin, the new name of the Hypatian Chronicle – the Vol-
hynian Chronicle – for some time replaced the former one. The imperial chancellor Count
Nikolaj P. Rumjancev planned to print the record under this new name. In the letter to the
Minister of the Internal Affairs, Osip P. Kozodavlev, dated 18 January 1818, Rumjancev ex-
pressed his wish that the St. Petersburg Academy of Sciences should begin printing the sec-
ond part of the Complete Collection of Russian Chronicles, published at his expense, “as-
signing therefor the so-called Volhynian Chronicle” (spbf aran, f. 2, op. 1, n° 2, ll. 33-33v).
The name “Volhynian Chronicle” was used because the information about it was re-
ceived directly from Karamzin. This name should be evidence of the recognition of his
priority as the discoverer. It was Rumjancev’s informed choice. It is clear from the letter to
Archbishop Evgenij (Bolchovitinov), dated 7 August 1820, that the Chancellor preferred
the new name of the chronicle given by Karamzin, knowing about Schlözer’s priority in
studying the manuscript. “Nikolaj Michajlovič [Karamzin] named [the chronicle] the Vol-
hynian, which is nothing else but the chronicle that had already been known to Schlözer
under the name of the Ipat’ev” (Bolchovitinov 1868: 34).
Rumjancev’s efforts failed (see Majorov et al. 2018: 5-34). Fifteen years later, the Im-
perial Archaeographic Commission began publishing the Complete Collection of the
Russian Chronicles. The question of choosing the name for the Hypatian Chronicle arose
again. As far as we can judge, the initial intention was to use the name “Volhynian Chroni-
cle.” (Zamyslovskij 1885: 106, 263-264). The name “Hypatian Chronicle”, given by Schlözer
and his students, became the name of the codex only at the last stage of its preparation for
publication. The chronicle was published under this name in 1843, 1871 and 1908. Since
then it has been a rightful part of the academic circulation.
126 Alexander V. Maiorov

Abbreviations

irl ro Rukopisnyj Otdel Instituta Russkoj Literatury (Puškinskij Dom)


Rossijskoj Akademii nauk.
oipb91 Otčet Imperatorskoj Publičnoj Biblioteki za 1888 god, Sankt-Peterburg
1891.
rnb or Otdel Rukopisej Rossijskoj Nacional’noj Biblioteki.
spbf aran Sankt-Peterburgskij Filial Archiva Rossijskoj Akademii nauk.

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130 Alexander V. Maiorov

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beziehungen im 18. Jahrhundert, Berlin 1962 (= Quellen und Studien
zur Geschichte Osteuropas, 12), pp. 132-137.

Abstract

Alexander V. Maiorov
Schlözer and Karamzin. Struggle for Priority in Studying Russian Chronicles

In the 18th and 19th centuries, new knowledge about the history of ancient Rus’ was acquired by
the introduction of new written sources, primarily narrative sources, into academic circulation. The
ancient Russian chronicles were most significant in this respect. Each historian sought precedence
for his own discovery and study of a previously unknown ancient record. This explains misconcep-
tions about the role of some scholars as pioneers in studying Russian chronicles. In some cases, these
misconceptions persist to our time.
The article studies the history of the discovery by Nikolaj M. Karamzin of the Hypatian (Aca-
demic) and the Chlebnikov Copies of the Hypatian Chronicle. It is established that Karamzin found the
information about the Hypatian Copy in a little-known Latin description of the manuscript published
in Göttingen in 1768. This description leads us to the conclusion that the first to discover the chronicle
was not Karamzin (as it is still customarily thought) but August L. Schlözer and his students. Karam-
zin was the third to find the Hypatian Codex but the first to understand its true significance.

Keywords

Hypatian Chronicle; Nikolaj M. Karamzin; August L. Schlözer.


© 2018 Author(s). Open Access. This article is “Studi Slavistici”, xv, 2018, 1: 131-151
distributed under the terms of the cc by-nc-nd 4.0 doi: 10.13128/Studi_Slavis-22673
Submitted on 2018, February 15th issn 1824-761x (print)
Accepted on 2018, April 30th issn 1824-7601 (online)

Андрей Шишкин

‘Лицо’ – ‘маска’ в культуре Серебряного века.


Вяч. Иванов, К. Сомов, Н. Ульянов и другие

Проблематика “лица/маски” в культуре Серебряного века в последнее время


стала предметом обсуждения на различных конференциях, ей посвящаются диссер-
тации и монографии. Концепт “лица/ маски” усматривают в философской мысли П.
Флоренского и Ф. Степуна, прозе З. Гиппиус, Д. Мережковского, А. Ремизова и Ф.
Сологуба, поэзии Андрея Белого, А. Блока, Вяч. Иванова и А. Ахматовой1. Особый
интерес для историка русского модернизма представляют идеи о “лице / маске” В.
Розанова, пристально внимательного к живописному и литературному портрету
(см. подробно: Медведев 2008: 1876-1881)2. Стоило бы задаться вопросом о причине
столь широкого функционирования этого концепта в литературной культуре конца
XIX-начала ХХ века – не было ли это связано с ощущением fin du siècle, близящегося
конца русского ренессанса? Другой вопрос – о границах функционирования кон-
цепта “лицо/ маска” в Серебряном веке: возможно ли, в частности, применить его
к знаменитой сомовской серии портретов писателей, опубликованных на страницах
журнала “Золотое Руно”? Наконец, более общий вопрос: насколько целесообразны
и действенны были многочисленные прямые или переносные виды маскирования? В
какой мере эти виды маскирования исходили из истинных трансцендентальных во-
просов, вновь поставленных Серебряным веком?
Для ответа необходимо привлечь многочисленные и разнообразные свидетель-
ства персонажей рассматриваемой эпохи. Необходимо сразу оговориться: эти выска-
зывания принадлежат различным уровням авторитетности: одно дело – продуманная
формулировка в теоретическом эссе, другое – высказывание в частном письме, совсем

1
Лунквист 1998; Струтинская 2000; Павлова-Левицкая 2000; Левицкая 2001; Моки-
на 2001; Осьмухина 2002; Иванов 2007; Николаева, Калачина 2007; Осьмухина 2009; Исупов
2010; Исаев 2012.
2
По поводу своего портрета работы Л. Бакста (1901) Розанов замечал: “Бакст с меня
пишет большой портрет и – о, суета сует! – Я очень рад. […] В сущности, это ужасно важно, ибо
лица человеческие не повторяются, и как ведь нужно бы каждому оставить с себя вечную маску
[курсив В. Розанова]” (цит. по Фатеев 2008: 1881). Между прочим, многочисленные псевдонимы
Розанова можно истолковывать как “маски-имена”, которые сохраняют древнейшую функцию
маски – делать видимым скрытое (Едошина 2008: 1675; ср. также Крылова 2008: 1616-1620).

Andrej Šiškin (University of Salerno) – achichkine@unisa.it


The author declares that there is no conflict of interest
132 Андрей Шишкин

иное – в дневнике, предназначенном для чтения интимным кругом; отдельный статус


авторитетности имеет художественный мифопоэтический текст, подобный стихотво-
рению Вяч. Иванова Лицо или маска? (см. ниже). Далее, эти разнообразные, а иной раз
очень существенные высказывания не представляют единой картины: их семантиче-
ский разброс затруднительно связать воедино. Необходимо иметь в виду, что самим но-
ваторам этой эпохи было непросто эксплицировать и сделать доступными свои идеи;
в тем более в сложном положении находятся их интерпретаторы. Не приходится пока
думать и о какой-либо общей классификации и теории маски в эпоху русского модер-
низма. Остаются неясными многие вопросы, в частности, вопрос о запрете на маску,
актуальный в ряде культурных дискурсов. Полагая нашу статью первым попыткой в
этом направлении, ограничиваемся сейчас несколькими главками в тезисной форме.

Тема ‘лица’ и ‘маски’, восходящая к античности и вновь инициированная Ниц-


ше , была глубоко и разнообразно осмыслена русским модернизмом начала ХХ века.
3

Как известно, на повестке дня стояла ориентация на архаику; о связи маски с арха-
икой, сакральным и магией, с загробным культом и жизни в посмертии подробно,
на широком литературном, археологическом и историко-мифологическом материале
было рассказано в Эллинской религии страдающего бога Вяч. Иванова:

[…] Люди отдаленной древности употребляли маску как средство закрепить в теле
его остывающую жизнь. […] Голова – преимущественное седалище души, вмести-
лище психической энергии. […] Погребальные маски не только полагались в гроб.
Они возлагались на тризнах на лицах живых, и тогда живые, проникшиеся душою
маски, отождествлялись с умершими, со вступившими в божественный сонм под-
земных душ, сильных благодетельствовать и губить. […] Маска, как отличительный
признак дионисийского служения вообще и драмы в частности, есть погребальная
маска, возложенная на лицо живого носителя ее души, преемника затаившейся в ее
чертах божественной силы. […] Дионисийство одно дало эллинству то, что сделало
его эллинством – маску4.

3
Как показывает современный философ, Ницше следовал за антигегельянской идеей
Шопенгауэра о невозможности совпадения сущности и феномена (Vattimo 1974: 12, ср. 9-16).
4
Цитирую по последнему научному изданию этого исследования (“Символ. Журнал
христианской культуры”, LXIV, с. 148-149, 151, 157). Обзору происхождения и истории погре-
бальных масок, вплоть до сценической маски посвящена практически вся седьмая глава – с.
146-157. К близким выводам приходит современное исследование древнегреческих и древне-
римских источников (Onians 2006: 151). Продолжая в ряде моментов идеи Вяч. Иванова, В.
Н. Топоров отмечал, что “складывавшиеся представления об искуплении и посмертной жизни
[курсив В. Н. Топорова] […] дают весьма сильные и плодотворные импульсы для становления
‘портрета’” (Топоров 1987: 279). Ср. также Батожок 1979, Батожок 1980; о термине ‘маска’ ср.
Гольдт 2012: 182. Идеям о ‘лице /маске’ Флоренского, которые во многом тесно связаны с Вяч.
Ивановым, должно быть посвящено специальное исследование.
‘Лицо’ – ‘маска’ в культуре Серебряного века 133

Как известно, работа Иванова печаталась в номерах журнала “Новый путь” с ян-
варя по сентябрь 1904 г.; излишне говорить, что этот труд был прочитан и усвоен мно-
гими значительными деятелями Серебряного века. Иные, наиболее острые положения
исследования, касающиеся смысла и роли дионисизма, не могли не вызвать замеша-
тельства. Ближайший пример здесь – полемика в осенних номерах журнала “Новый
путь” за 1904 г. Д.С. Мережковский, инициатор публикации “Эллинской религии” в
журнале и его идейный руководитель, с доктринерской интонацией недоумевал:

Вячеслав Иванов верит, или хотел бы верить в него [Диониса] как в доселе живого,
реального, действительно спасающего Бога. Возможна ли для нас такая вера? Маска
нужна тому, кому еще не открылось Лицо. Но к чему маски, когда уже есть Лицо?5

Непосредственно в следующем номере, октябрьском выпуске журнала Вяч.


Иванов отвечал оппоненту стихотворением Лицо или маска?. В этом своеобразном
кратком религиозно-философском эссе в поэтической форме Иванов смело заявлял:
Лицо Бога – загадка и тайна, Он открывается в разных Ликах:

Ты, Сущий – не всегда ль и, Тайный, – не везде ли, –


И в гроздьях жертвенных, и в белом сне лилей?
Ты – глас улыбчивый младенческой свирели;
Ты – скалы движущий Орфей6
(Иванов 1974: 265).

Как видим, по мысли поэта, маска призвана не скрывать тождество того, кто
скрыт под ней, но указывает на различные воплощения, через которые трансцендент-
ное может быть явленным в мире.
Своеобразный диалог о маске и лице в том же 1904 г. развернулся и на стра-
ницах журнала московских модернистов “Весы”. Первое слово тут принадлежало
Андрею Белому, который весной этого года стал тесно общаться с Вяч. Ивановым.
Соединяла обоих символистов проблематика дионисизма; об этом свидетельствует
знаменательная запись Белого за апрель 1904 г.: “Встреча с Вячеславом Ивановым в
Москве – всюду: проблема дионисизма [курсив Белого – АШ]; темы “религии страда-
ющего бога”; […] прения у меня на воскреснике с Вяч. Ивановым” (Белый 2016: 351).
В шестом номере “Весов” напечатано эссе Андрея Белого “Маска” со следующей при-
мечательной дедикацией: “Посвящено Вячеславу Иванову, проповеднику диониси-
азма [так! АШ]” (см. Соболев 2003: 37). “Вглядись, сколько масок показалось среди
нас!”, “воскресла маска античной Греции”, –писал Белый в начале эссе. Приведя опре-
деление символа и мифа из ивановской статьи “Поэт и чернь”, поэт заключал: “Тра-

5
Цитирую по комментариям О.А. Шор (см. Иванов 1974: 705).
6
Как известно, в раннем христианстве Орфей мог отождествляться с Христом: см.
Топоров 1982: 263; Chevalier, Gheerbrant 1982: 712.
134 Андрей Шишкин

гическая маска – символ созревающего действа – несказанным [курсив мой – АШ]7


видом своим способна превратить созерцателя в изваяние – ужасная, глядящая пу-
стотой, маска Горгоны в ореоле змеиных волос”8 (“Весы”, 1904, 6, с. 8, 9). То есть, от-
талкиваясь от ивановских идей о дионисизме и маске, Белый усматривал как наи-
более актуальную для себя и для русской предреволюционной современности маску
трагическую, – маску, внушающую страх и ужас, пророчащую гибель. Неслучайно,
что в следующее десятилетие аполлонические и дионисийские маски составят основу
образной системы романа Петербург (ср. Barta 1991-92: 393-403). При этом красное
маскарадное домино – визуальную доминанту романа 1913-1914 г. – Андрей Белый
летом 1906 г., в момент глубокого личного кризиса, сам примеривал на себя (Лавров,
Малмстад 2006: 565; Телегина 2013: 99-107)9.
Тот факт, что непосредственно в следующем, седьмом выпуске “Весов” за 1904
г. была напечатана теоретическая статьи Иванова Новые маски была скорее всего
случайностью, но при желании за этим фактом можно увидеть искусную режиссуру
редактора журнала В. Брюсова. В этой статье ставились уже другие, широкие тео-
ретические вопросы, сама статья могла восприниматься как своеобразный манифест
нового театра и театрализации жизни.
Однако вернемся к трагической маске у Белого: ее ‘демоничность’ могла быть
связана с определенным комплексом идей, принадлежащих определенной культуре.

В древности Панетий Родосский говорил, что каждый человек носит четыре ма-
ски, “маску человека, маску конкретной индивидуальности, маску общественного по-
ложения и маску профессии” (цит. по Аверинцев 1971: 218). Раннее христианство не
могло принять подобного заявления, исключающего идею цельной личности. Эта идея
была сформулирована в знаменитой дефиниции Боэция: “persona est enim, ut dictumest,
naturae rationabilis individua substistentia”, личность есть рациональная неделимая сущ-
ность, дефиниция, которая была поддержана Фомой Аквинским и осталась действен-
ной для всего средневековья (Vigna 1996: 175). Представляется, что отсюда идет запрет
на маску, представление, что маска однозначно обладает негативным значением.

7
Формула “несказанный вид” маски не просто переход от вербального к визуальному;
ее дополнительные значения – магизм, универсализм, архаическое мифологическое и т. д.
8
“Весы. Научно-литературный и критико-библиографический ежемесячник”, 1904, 6
(электронный ресурс: <https://dlib.rsl.ru/viewer/60000100917#?page=2>).
9
См.: “Я был ненормальным в те дни; я нашел среди старых вещей маскарадную, чер-
ную маску: надел на себя, и неделю сидел с утра до вечера в маске […] мне хотелось одеться в
красное домино и – так бегать по улицам; переживания этих дней отразились впоследствии
темою маски и домино в произведениях моих” (Белый 1997: 238); в более позднем мемуар-
ном тексте Белый писал, что задумал предстать перед Л. Блок-Менделеевой “в домино цвета
пламени, в маске и с кинжалом в руке” (Белый 1990: 85). В связи с данной темой важно также
стихотворение Белого Маскарад (1908).
‘Лицо’ – ‘маска’ в культуре Серебряного века 135

илл. 1
К.А. Сомов, Обложка к книге А. Блока Лирические драмы, 1907 (хромолитография).

Новое время и картина мира, созданная барокко, возродили универсальную


античную метафору Theatrum mundi – ‘Мир-как-театр’, к которой в античности об-
ращались Гомер, Платон, Цицерон и другие (Vuillemin 2012: 173–199), но которую
осуждали Отцы Церкви; рефлексы этого осуждения присутствуют в Новое и Но-
вейшее время. Метафору ‘Мир-как-театр’ находим в сочинениях Эразма, Шекспира,
Сервантеса, Сковороды, богословском трактате митрополита Платона Левшина, в
“Системе трансцендентального идеализма” Шеллинга (Марченко 2007: 142-143); нет
необходимости далее останавливаться на ‘машкерах’ скоморохов, лицах / масках гоф-
манианы, контекстах венецианских масок и вообще на культуре маскарада, распро-
странившейся во всех европейских странах.
136 Андрей Шишкин

Как метафора ‘Мир-как-театр’ стала обыгрываться художниками Серебряно-


го века нагляднее всего представляется по цветной обложке К. Сомова, рисованной
им для издания 1907 г. трех мистерий-фарсов Блока: на первом плане на нас смотрят
две дамы в полумасках, брюнетка в глухом черном платье и нарумяненная рыжеволо-
сая в декольтированном оранжево-красном; у той, что в черном, карминно-красное
пламенеющее сердце и строго сжатый рот, поза напряженная и, кажется, испуганная;
оранжево-красная в поднятой руке держит куклу арлекина и улыбается; слева амур с
колчаном стрел, справа нестрашный, толстый и безобразный черт (аллегории любви и
искушения); во втором ряду в самом центре возвышается скелет, он увенчан золотым
венцом и распростер свою черную вуаль над всеми четырьмя персонажами; условную
театральность подчеркивают семь свечей, освещающих сцену снизу (илл. 1). Очевид-
но, что этот рисунок напрямую не мог быть соотнесен ни с одной из трех ‘лирических
драм’, включенных в книгу (это Балаганчик, Король на Площади и Незнакомка), однако
соответствует ряду мотивов в творчестве Блока (а также, в какой то мере, Белого, Брю-
сова, Мережковского и др., связанных с комплексом Danse macabre в широком смысле).

“Маскирование — это общая идея Серебряного века, который стремился раз-


рушить границу между искусством и жизнью, выстроить жизнь по законам искусства.
Тогда утверждалось, что лишь искусство способно проникнуть в суть вещей и увидеть
их такими, какие они есть на самом деле, тем более, что внешнее в этой концепции ис-
кусства совпадает с внутренним” (Софронова 2006: 353). Это простое и точное суж-
дение нуждается, однако, в дальнейшем развитии; особенно важны здесь последние
слова о совпадении внешнего и внутреннего. Другой исследователь писал о Башне Вяч.
Иванова: “сюда приходили или спрятать свое лицо под удобной для общения маской,
или выявить свое лицо сквозь приросшую к нему маску” (Исупов 2006: 307-308). Спра-
ведливое наблюдение, хочется только задасться вопросом: к умалению или к обогаще-
нию личности был этот башенный маскарад? Следует ли оценивать сугубо негативно
намерение ‘спрятать лицо’ в данном контексте? К. Исупов придерживается именно
последнего мнения: по его словам, “созерцание правды единого лица” на Башне не-
выносимо, игра масками была формой спасения ‘я’ от ‘я’ и ‘другого’ от всех ‘мы’ (Ису-
пов 2006: 308). Соотнесем бахтинианскую логику К. Исупова с известным нам теперь
историей ‘гафизитов’ (т. е. Бердяева, Вяч. Иванова, Сомова, Бакста, Кузмина и др.) на
Башне (см. Богомолов 1995, Шишкин 2011). Эта история говорит, как кажется, совсем
о другом: хотя высшая цель гафизитского маскарада не была достигнута10, результатом
эстетской ориенталистской игры гафизитов неоспоримо стала креативность, создание
как нового стиля поведения, так и новых поэтических форм. Маски гафизитов, знаме-
нуя перенос к трансцендентному суфийской мистики, явлению всенародной культуры
высокого уровня, расширяли перспективу объективного творчества.

10
На языке Вяч. Иванова она могла быть обозначена как богочеловеческая встреча или
‘соборность’: ср. “Свершается церковь когда / Друг другу в глаза мы глядим…” (Иванов 1979: 215).
‘Лицо’ – ‘маска’ в культуре Серебряного века 137

Свидетельства современников Серебряного века являют значительно более бо-


гатую и разнообразную картину, чем та, которая вырисовывается из исследований.
Для молодого А. Блока нормой было представление, что в повседневной жизни при-
личествует скрывать лицо некоей маской, а истинное лицо открывается только до-
веренному другу и лишь в особом времени. Кажется, это смысл слов, которые поэт в
апреле 1906 г. обратил своему близкому другу: “Меня беспокоит вопрос: где встре-
тимся вплотную? Не стащишь ли мою маску в какое-нибудь Светлое Воскресенье?”
(Блок, Иванов 2017: 60). В одном из писем 1909 г. он упоминал “тяжелую и непово-
ротливую маску, которая мне всегда доставляет мучение” (Блок 1963 : 271). В 1920 г.
Блок писал о масках и лице Вл. Соловьева так:

Куда же поместить нам сегодня разные знакомые лики Соловьева, где найти для
них киот? Нет такого киота, и не надо его; ибо все знакомые лики Соловьева – ли-
чины, как указывал в воспоминаниях о нем А. Белый […] Соловьев философ – ли-
чина, публицист – тоже личина, Соловьев – славянофил, западник, церковник,
поэт, мистик – личины (Блок 1962: 159).

Как истолковать это высказывание? Общий контекст статьи предлагает, как


кажется, следующее толкование: истинный лик Соловьева не явлен; лик Соловьева
значительнее всех его масок.
О двух постоянных посетителях Башни – А. Ремизове и М. Кузмине – сохра-
нились воспоминания Модеста Гофмана, ближайшего участника ивановских ‘сред’.
Гофман писал о ‘громадном таланте’ Ремизове и маске шута, которая скрывала его
истинное лицо. О Кузмине же сообщалось:

В нем тоже было что-то от маски, но нельзя было разобрать, где кончалась маска и
где начиналось настоящее лицо (Гофман 1993: 373).

О том, что Кузмин в своей поэзии скрывал свое сокровенное, надевая различ-
ные маски, отмечал Блок в статье о книге Сети (Блок 8: 46). По этому поводу Кузмин
9 ноября 1908 г. запальчиво писал к Вяч. Иванову:

Блок пишет, что я сам виноват, что ‘большая публика’ не видит моего лица. Но кто
хочет, кто может – видит, и не довольно ли этого? (Кузмин 2006: 262-263).

Крайне интересно более раннее свидетельство Кузмина в дневнике от 25 октя-


бря 1905 г. В этом пространном автоописании присутствует, кажется, даже некоторое
замешательство:

Мои… три лица до того непохожие, до того враждебные друг другу, что только тон-
чайший глаз не прельстится этою разницей, возмущающей всех, любивших какое-
нибудь одно из них, суть: с длинной бородою, напоминающее чем-то Винчи, очень
изнеженное и будто доброе, и какой-то подозрительной святости, будто простое,
138 Андрей Шишкин

но сложное; второе, с острой бородкой — несколько фатовское, франц[узского]


корреспондента, более грубо-тонкое, равнодушное и скучающее, лицо Евлогия;
третье, самое страшное, без бороды и усов, не старое и не молодое, 50-л[етнего]
старика и юноши; Казанова, полушарлатан, полуаббат, с коварным и по-детски све-
жим ртом, сухое и подозрительное (Кузмин 2000: 61).

Здесь поразительно прежде всего установка на зрительную живописную пор-


третность, определенное и точное указание моделей собственного лица / маски: homo
universalis гений Леонардо, александриец Евлогий, венецианец Казанова; соединение
молодости и старости, зла и доброты, святости и шарлатанства, трех или более наци-
ональностей; и все это не без игры, эстетства и некоторого снобизма, но с заметной
долей исповедальности.
Автобиографическое экзистенциальное признание Бердяева, постоянного
председателя башенных симпосионов, и, что более важно, одновременно с Кузми-
ным, Сомовым и другими члена ‘секретного’ кружка ‘гафизитов’, было совершенно
иного рода. Отметим сразу, что Бердяев имлицитно исходит из противопоставле-
ния лица и маски. Как известно, в юности Бердяев избрал путь революции, но затем
коренным образом разочаровался в ней. Все это дало основание его современникам
называть его именем Ставрогина. Вот как философ пишет об этом эпизоде в книге
Самопознание:

У каждого человека кроме позитива есть и свой негатив. Моим негативом был
Ставрогин. Меня часто в молодости называли Ставрогиным, и соблазн был в
том, что это мне даже нравилось (например, “аристократ в революции обаятелен”,
слишком яркий цвет лица, слишком черные волосы, лицо, походящее на маску11
[курсив мой АШ]). Во мне было что-то ставрогинское, но я преодолел это в себе.
Впоследствии я написал статью о Ставрогине, в которой отразилось мое интимное
отношение к его образу (Бердяев 1989а: 77).

Далее Бердяев сообщал, что эта его статья (напечатана в 1914 г. в журнале “Рус-
ская мысль”, № 5) вызвала негодование. Причиной этого, как можно думать, был фи-
нал статьи, где мыслитель оспаривал тезис о том, что у Достоевского “все обстоит
религиозно благополучно”. По этой мысли Бердяева, отпадение героев Достоевского
от веры есть жажда нового откровения, гибель Ставрогина не окончательна, Ставро-
гина необходимо спасти (Бердяев 1989б: 109-111).
Кузмин мог констатировать, что у него возможны три ‘лица/маски’; Бердяев
утверждал, что сочетает сам в своей личности ‘высшее’ (‘позитив’) и ‘низшее’ (‘не-
гатив’). На языке Иванова это соответствует терминам ‘Лицо/Личина’ или ‘Лик/

11
Ср. о ставрогинской маске в статье 1914 г.: “Огромная, исключительно одаренная
личность Ставрогина не оформлена и не кристаллизована. Единственное ее оформление и
кристаллизация – жуткая, застывшая маска, призрачный аполлонизм” (Бердяев 1989б: 105).
‘Лицо’ – ‘маска’ в культуре Серебряного века 139

Личина’. ‘Негодование’ иных современников, таким образом, было обращено про-


тив бердяевской идеи о единстве большой человеческой личности при возможной
подвижности и полярности, антиномичности ее внутреннего содержания. Концепт
‘лица/ маски’ окажется существенным, когда мы будем рассматривать критику совре-
менниками портретного цикла Сомова (см. ниже). Только негативные оценки, в слу-
чае сомовских портретов, будут обращены не к оригиналу, а к художнику.

Инициатором серии портретов был П. Рябушинский, который предназначал их


для издаваемого им журнала. В редакционном отчете за 1906 год заявлялось:

В течение года “Золотым Руном” было дано пять портретов из задуманной им об-
ширной галереи русских современных художников и поэтов, исполненных специ-
ально для журнала современными мастерами кисти (“Золотое Руно”. Отчет за 1906
год [без указ. года и места][Библиотека ИРЛИ РАН], с. 5.).

Сомов создал портреты Вяч. Иванова (1906), А. Блока (1907), М. Кузмина (1909,
два варианта), автопортрет (1909), М. Добужинского (1910), Ф. Сологуба (1910), В.
Нувеля (1914); кроме того, в первые года существования журнала в нем появились
портреты Бальмонта (работы Серова), Андрея Белого (Бакст), З. Гиппиус (Бакст),
Брюсова (Врубель), Рериха (Головин), Ремизова (Кустодиев); особенно интересен, в
виду нашего поворота темы, маскированный портрет Мейерхольда в костюме Пьеро
работы Н. Ульянова (1907)12. То есть на страницах журнала портрет поэта или писате-
ля мог диалогировать с печатаемыми в журнале их текстами. Для духа символистской
культуры характерно, что нечто аналогичное проекту Рябушинского уже в конце того
же 1906 г. задумала Маргарита Сабашникова, впервые оказавшаяся на Башне в октя-
бре 1906 г. 18 декабря 1906 г. она писала Волошину:

Хорошо было бы Тебе издать книжечку, в которой было бы 7 портретов. Вячес-


лав Иванов, Кузмин, Городецкий, Брюсов, Бальмонт, Ремизов, и, может быть,
Блок или Белый. Ты бы написал очерки, привел лучшие стихи, и портреты мож-
но воспроизвести. Вячеслав Иванов – Сомова; Бальмонта – Серова, Кузмина –
Сомова, моего будущего Городецкого, Белого –  Бакста… моего Ремизова” (Во-
лошин 2015: 204-205)13.

12
См. их репродукции в статье Гофман 2008 [электронный ресурс:] http://www.
nasledie-rus.ru/podshivka/8711.php
13
О своих портретах Ремизова и Кузмина Сабашникова вспоминала так: “Я рисовала
углем Ремизова – кутающегося в свой платок, с его висячими чертиками на заднем плане - в
манере натуралистического гротеска; Кузмин стилизован под фаюмский портрет” (Волоши-
на 1993: 377). Сабашниковой принадлежали портреты А. Ремизова (1906), М. Кузмина (1906),
М. Волошина (1907), Л.Д. Зиновьевой-Аннибал (1907-1908), Нины Бальмонт (1908), Э. Мет-
нера (1908), Екатерины Бальмонт (ок. 1912), Андрея Белого и Аси Тургеневой (1915-1916;), В.
140 Андрей Шишкин

илл. 2
С. Городецкий. “Отцы мифотворцы”. Шарж. Б., к.
Музей ИРЛИ РАН.

С того же 1906 г. серию эскизных портретов участников и хозяев ‘сред’ на Баш-


не начал набрасывать Добужинский. Как и Сомов, Добужинский стал ближайшим
участником башенных художественных проектов: осенью 1906 г. он создал эскиз для
издательской марки издательства “Оры”, а несколькими годами позже – марку для
книги Иванова По звездам (1909). Марка, изображающая средневековую сторожевую
башню на фоне звезд и Млечного Пути, была аллегорией, своего рода изобразитель-
ным манифестом Башни. Среди портретов Добужинского этих лет, кроме хозяев
Башни, – Рославлев, Сюннерберг, Блок, Кузмин, Философов, Бакст, Вера Шварса-
лон, кажется, также Ремизов и Гумилев (Устинов, Шишкин 2017, илл. 13-15, 19, 21-28).
Многие из этих портретов шаржированы, карикатурны (в особенности Бакст и Зи-
новьева-Аннибал); иными словами, были представлены своеобразными масками.
Посвященность Добужинского во внутреннюю жизнь Башни придавала
ряду его карикатурных зарисовок особенную ценность. Особое внимание худож-
ник уделил Вяч. Иванову: за первым наброском, изображающим характерный чуть
сгорбленный профиль с бородкой, в пенсне, с пышной львиной гривой, следовал
шарж, изображающий поэта, молитвенно держащего в руке свечку и стоящего над

Ленина (1921), Н. Бердяева (1922?), П. Муратова (1922?) (Wermbter 1982: 172-178). Аналогом
портретной серии “Золотого руна” стала серия литографий Н. Войтинской, семь из которых
было напечатано в журнале “Аполлон”.
‘Лицо’ – ‘маска’ в культуре Серебряного века 141

облаками на самом краю высокой крыши, – очевидно, дома на Таврической 25; в


третьем шарже поэт на рассвете, – видимо, после бессонной ночи, отданной сим-
посиальному общению – стремительно возносился с края крыши в воздух, причем
над его головой изображен язычок нисходящего на него Духа Святого (см. Усти-
нов, Шишкин 2017, илл. 21, 28) – иронический намек на ‘апостольство’ Иванова,
который с весны 1909 г. возглавил Христианскую секцию Религиозно-философско-
го общества, собиравшуюся непосредственно на Башне. Подобного рода ирония и
автоирония, ироническая, а то и карикатурная маска, излюбленная Добужинским
с юности, составляла также и дух Башни (ср., прежде всего, шарж С. Городецкого
Отцы мифотворцы, 1906-190714 [илл. 2]).

Как говорилось выше, концепт ‘лица / маски’ – ключ к портретному циклу Со-
мова. Сомовский цикл особенно показателен для нас в связи с тем, что Сомов был
наиболее близок к интеллектуальным энергиям и художественным проектам Башни.
Вслед за Добужинским, создавшим обложку и титульный лист книги По Звездам, Со-
мов создал аллегорическую обложку для Cor Ardens (1911), самой значительной для
современников поэтической книги Иванова.
Портрет Вяч. Иванова Сомов начал в феврале 1906 г.; в марте сеансы продол-
жались каждый день, от часу до четырех дня. По мнению исследователя, сам поэт
воспринимал свое позирование художнику как символическое действо (Богомолов
2009: 161, 174). Сомов планировал также создать портрет Л. Зиновьевой-Аннибал в
красных и оранжевых тонах – цвете дионисийства (Богомолов 2009: 174-175, 178). 26
марта Зиновьева-Аннибал сообщала в письме:

Решено … с осени начать “преображать” костюмы и нравы, устроив ядро истинной


красоты при помощи наших художников. […] Сомов называет каждый сеанс у нас
сказкой Шехеразады и не спешит кончать свой делающийся, кажется, совершенно
замечательный портрет. В Вячеславе ему нравится его многосторонность и всеот-
зывчивость (Богомолов 2009: 176-177)15.

14
А также шарж Блока на Городецкого (1909-1910 - опубл.: “Вестник литературы”,
1910, 4, стлб. 93); ‘двойной’ шарж на Кузмина В. Серова и Добужинского (сентябрь 1907); на
шарже Городецкого на Иванова (1920) последний подписывает: “Ерунда! Совсем не похоже.
ВИ.” – см. электронный ресурс: <http://www.nasledie-rus.ru/podshivka/pics/11808-pictures.
php?picture=1180801>, шаржи Белого на Брюсова (1900-е гг.) и Иванова (1910-е гг.) и т. д.
Примечательно, что ирония в портрете/шарже может соединяться с высоким или даже са-
кральным: на портрете Н. Гумилева работы Н. Гончаровой (1917) фигура поэта-творца упо-
доблена средневековому летописцу. Разумеется, шаржи рисовали и вне Башни, здесь укажем,
прежде всего, на интереснейшие шаржи В. А. Серова на Яремича, И. Грабаря, М. Кузмина,
Иду Рубинштейн, Коровина.
15
Примечательно также полушутливая фраза о сомовском портрете Вяч. Иванова, об-
роненная им в интимном письме к Лидии Зиновьевой-Аннибал 4 августа 1906 г.: “Сомов, в
142 Андрей Шишкин

Художественным ответом Иванова Сомову в эти последние мартовские дни


было создание поэтом Терцин к Сомову – словесного портрета художника и одно-
временно “портрета идеи художника”16. По словам Зиновьевой-Аннибал эти Терци-
ны – “глубокий и изящный портрет художника и души – пессимиста, влюбленного
в ушедшую красоту, в потерянное счастье”. С. Городецкий в тексте Иванова выде-
лял визуальное начало: “чудесные терцины, дающие полную характеристику, до са-
мых подробностей, почти со зрительным ощущениями” (Богомолов 2009: 177, 190).
Чтением Терцин была открыта беседа на очередной ‘среде’ 29 марта, чтение было по-
вторено еще дважды (Богомолов 2009: 183, 186, 187), – слово и образ таким образом
многообразно вступали в диалог друг с другом.
С апреля 1907 г. Сомов принялся за портрет Блока. Если верить позднему сви-
детельству О. Дымова, сеансы проходили на Башне.

Мы собирались по утрам у В. Иванова, обсуждали, выбирали, намечали материал


(речь шла о подготовке материала для журнала “Адская почта” – АШ), а К. Сомов
усаживал Блока и тут же, среди редакционных обсуждений, рисовал его портрет”
(Дымов 2011: 63).

Этому как будто не противоречит свидетельство самого Блока: “Сейчас Сомов


рисует, а Кузмин занимает” (письмо А. Блока к матери, первая треть 1907 – Блок 1927:
186). В другом письме к матери он сообщал: “Сейчас Сомов показал нам мой рот и
нижнюю часть лица – очень мне нравится” (там же). Правда, послав ей 2 марта 1908
г. цветную репродукцию сомовского портрета, через три дня писал: “Мне портрет
нравится, хотя тяготит меня” (там же: 197) . На всех сеансах присутствовала возлю-
бленная поэта Валентина Веригина, иногда – Чулков, кажется также, и мать Блока А.
Кублицкая-Пиоттух.
Прежде чем перейти к дальнейшему изложению, отметим сейчас важный момент.
Сомов отнюдь не стремился к портретной точности. О портрете Блока было точно и
отмечено: “Сомов, конечно, не получил от натуры, а именно выбрал эту концепцию
блоковского портрета” (Алленов 1982: 160-181). Как передать эту формулу иными сло-
вами: портрет Сомова постигал не ноумен, а феномен, изображал не лицо, а маску?
Сомовские портреты Иванова и Блока, теперь ставшие столь привычными и
классическими, воспринимались современниками совсем иначе. Их суждения под-
тверждают формулу Муратова, ставя ее в широкий контекст поисков ‘лица / маски’ в
Серебряном веке.

качестве моего портретиста, остановившись принялся рассматривать меня своим таинствен-


но наблюдающим, серьозно ласковым взором владельца живой маски [курсив мой –  АШ],
которую изучил” (РО РГБ 109.10 ед. хр. 3, л. 48 об.).
16
Ср. также записи в дневнике Иванова от 13 июня и 14 августа 1906 г.: “Свидание с
Сомовым, проекты написать статью о его творчестве”; “Обедал милый Сомов. Мы читаем ему
стихи” (Иванов 1974: 748, 789).
‘Лицо’ – ‘маска’ в культуре Серебряного века 143

Начнем с неожиданной трактовки портрета Иванова, принадлежащей Андрею


Белому. Автор Петербурга утверждал, что в первый период Башни Вяч. Иванов в
какой-то мере стилизовал себя под Христа работы Антонио Корреджо и что Кор-
реджиевский образ проступает в портрете Сомова. В ‘берлинской’ редакции книги
Начало века (1923) Белый вспоминал :

когда [Иванов] носил бороду, то… чуть-чуть… – простите за выражение – “христо-


сился” он (по Корреджио), сантиментально, вздыхательно […] все это схватил Со-
мов (Белый 2014: 625).

В “московском” варианте этой же книги (1930) ироническое начало усилено:

он, перетряся руном завивающихся белольняных волос, улыбаясь устами пурпу-


ровыми из портрета художника Сомова, напоминая раздвоенною белольняной
бородкой Христа по Корреджио, – многим являться стал; недоставало, чтобы он,
возложивши терновый венец на себя, запахнувшись во взятую у маскарадного ма-
стера им багряницу, извлек восклицания: “Се человек” (Белый 1990: 346).

Отзыв Г. Чулкова (1930) об обоих портретах – Вяч. Иванова и Блока – был  одно-
временно критический, как бы простодушно недоумевающий и одновременно двусмыс-
ленный; важно, что Чулков использует два важных нам термина – ‘маска’ и ‘карикатура’:

Вячеслав Иванов вовсе не представляется мне таким бесхитростным и чувствен-


ным, каким изобразил его художник. И лицо Александра Блока на портрете слиш-
ком тенденциозно и похоже на маску. […] Меня всегда удивляла манера Сомова
рисовать модель. Он как будто хотел быть точным во что бы то ни стало. Но в кон-
це концов он рисовал злую карикатуру. Его честность мастера была, однако, удиви-
тельна (Чулков 1999: 212-213).

Особенно много откликов вызвал сомовский Блок. И. Анненский написал сти-


хотворение К Портрету А.А. Блока (“Под беломраморным обличьем андрогина…”,
1908?), Б. Садовской – В груди поэта мертвый камень (1910). Добужинский в своих
воспоминаниях (1950-е годы) называл блоковский портрет Сомова “мертвенным” (До-
бужинский 1987: 280). Неумеренную подчеркнутость в изображении нижней губы по-
эта увидел Белый (Белый 2014: 333). Наиболее критическими были отзывы ближайших
к поэту людей. Отзыв Веригиной (1930-е гг.) стоит привести почти полностью:

Портрет не удался. Я не могу понять, откуда художник взял эту маску с истериче-
ской впадиной под глазом, и красными, как у вампира, губами. […] В данном случае
сыграла роль индивидуальность Сомова, его манера подчеркивать, отыскивать от-
рицательное в лицах. […] Портрет не понравился никому из близких Блока. Он
послал фотографию, снятую с злополучного портрета, матери с надписью: “Я сам,
позорный и продажный / с кругами синими у глаз…” (Вацуро и др. 1980: 444).
144 Андрей Шишкин

илл. 3
Н.П. Ульянов, Портрет поэта Вяч.И. Иванова, 1920, Х., м. ГРМ.

Будучи излишне эмоциональным и субъективным, этот отклик, однако, крайне


примечателен для возможного веера интерпретаций этой замечательной работы Со-
мова. Но для нашего поворота темы наиболее важен обзор Художественные итоги
зимы 1910 г. М. Волошина, мастерски ориентирующегося в терминах ‘лик/ лицо / ма-
ска’. За словами Волошина стоит четкая и продуманная концепция.

Вспоминаю портреты Вячеслава Иванова и Александра Блока, сделанные Сомовым


для “Золотого руна”. В них он натолкнулся на лица более сложного типа, лишь случай-
но принявшие налет Петербурга, и получилось несоответствие между их подлинным
ликом и сомовскими портретами, лишающие последние исторической ценности […]
Любезная и успокоенная маска несколько близорукого, несколько слащавого челове-
ка, с профессорскими маститыми кудрями и с пенсне в руке, которую он понял как
лицо Вяч. Иванова, действительно появляется у последнего в некоторые моменты
общественных отношений, но эта маска случайна и не срослась с лицом. Пронзи-
‘Лицо’ – ‘маска’ в культуре Серебряного века 145

тельную же остроту и змеиную обольстительность, которые составляют истинные


черты этого лица, Сомов или не заметил, или не захотел увидеть: оно за пределами
петербургской культурной маски. Тоже повторилось , хоть не так резко, в портрете
Ал. Блока. Лицо Блока само по себе – маска греческого бога […] Но это маска не куль-
турная, а наложенная на его лицо от природы. […] Зато лица Добужинского, Кузми-
на, Сологуба поняты им идеально (Волошин 2007: 125-126).

Итак, в некоторых случаях маска совпадает с лицом, может быть получена от


природы, или, напротив, быть плодом концепции художника. Маска противопо-
ложна лицу как черное и белое, но при этом повторяет его черты (случай портрета
Мейерхольда работы Б. Григорьева, 1916 – Павлова-Левицкая 2000: 127). Личность и
маска находятся в сложном диалектическом отношении; как излагала мысль Ф. Сте-
пуна Ольга Шор, человек исконно многолик, а личность входит в мир по жертвам
убиенных ею других возможностей, которые ждут воплощения – “маска придает им
полуреальную жизнь”17. Маска иронична, карикатурна, шаржирована, но при этом
может сводить вместе полярное: смерть и священное. Серебряный век предоставил
художникам, мыслителям и поэтам выбор масок, способных говорить о божествен-
ном откровении, тайнах природы и извилинах человеческого характера, маску траге-
дии и маску комедии, иронии, карикатуры.
Маска и лицо могут быть разведены, иной раз радикально. Предельный случай
здесь –  портрет Вяч. Иванова, принадлежащий Н.П. Ульянову (илл. 3)18. Первона-
чально портрет должен был сопровождать статью о поэте в издании Русская лите-
ратура ХХ века под редакцией С.А. Венгерова19, другими словами, иметь статус
‘официального портрета’. Работа над ним затянулась. В последних окончательных
вариантах 1920 г. (ГТГ и ГРМ) в верхней левой части картины помещена посмертная
маска А. Пушкина, с ней разнообразно контрастирует шаржированный образ Вяч.
Иванова. Усмешке пушкинской посмертной маски противопоставлена острая иро-
ническая улыбка Иванова; маска неподвижна, ей противопоставлен динамизм поэта
ХХ века20, обернувшегося вполоборота к зрителю. Но посмертная маска Пушкина,
благодаря воспоминаниям Жуковского о последних минутах поэта, обладает в рус-
ской культуре особенным статусом21. Сюжет портрета – именно в этом диалектиче-

17
Цит. по комментарию О. А. Шор, близкого друга Степуна (Иванов 1979: 840).
18
Этой серии посвящено наше специальное исследование (в печати).
19
Об этом сообщалось в письме Иванова к Эрну от 21 мая 1915 (РО ИРЛИ ф. 94 – Ар-
хив В. Н. Княжнина – № 54. Л. 1-1об).
20
Об это динамизме писал в статье 1925 г. Б. Грифцов: “Готовые унести в беспредмет-
ность, как крылья, складки поэтова плаща композиционно уравновешены бронзовой маской”
(Муратов, Грифцов 1925: 64).
21
“Это было не сон и не покой! […] нет! какая то важная, удивительная мысль на нем
развивалась; что-то похожее на видение, на какое-то полное, глубоко-удовлетворяющее зна-
146 Андрей Шишкин

ском совмещении священной для русской культуры ‘вечной’ маски божества и гения
Золотого века с ‘мирским’ лицом поэта Серебряного века, изображенного с большой
долей остроты, иронии и шаржа. Одновременно понятен замысел художника: частью
композиции портрета Вяч. Иванова, предназначенного для канонической галереи
русских писателей, избран сакральный символ, обозначающий как живой культ, так и
жизнь в посмертии (насколько нам известно, ни прежде Н. Ульянова, ни после него
художники не совмещали пушкинской посмертной маски с портретом писателя).

Живые свидетельства Серебряного века иной раз оказываются неожиданнее


и интереснее, чем самые смелые концепции, претендующие на новизну. Можно,
конечно удовлетвориться констатацией, что Серебряный век неслучайно поставил
императив синтеза искусств и осуществил новое открытие античности и архаики, в
частности, открытие иконы, и что иной раз в диалоге между словом и изображением
визуальное оказывалось значительнее словесного. Но гораздо больше скажет истори-
ку этой эпохи недавно опубликованный аллегорический рисунок О.А. Флоренской
(родной сестры о. Павла) 1913 г.: у трона Богородицы предстоят пять персонажей,
представляющих пять видов искусства; лик Богородицы дано узреть и запечатлеть
только художнику, и на него устремлен взор писателя (“Аллегория. Д.С. Мережков-
ский у трона Богородицы”: илл. 4).

Литература

Аверинцев 1971: С.С. Аверинцев, Греческая литература и ближневосточная сло-


весность, в: П.А. Гринцер (отв. ред.), Типология и взаимосвязь
литератур древнего мира, Москва 1971, с. 206-266.
Алленов 1982: М.М. Алленов, Портретная концепция К. Сомова, “Советское
искусствознание”, 1982, 1 (81), с. 160-181.
Батожок 1979: Н.И. Батожок, История развития значений исходных рефлексов
корня *lik в праславянском и русском языках (опыт семантической
реконструкции), Автореферат канд. дисс., Ленинград 1979
Батожок 1980: Н.И. Батожок. К уточнению семантической структуры слова в
словаре (лицо), в: Диахрония и типология языков, Москва 1980, с.
70-77.

ние. […] В эту минуту, можно сказать, я увидел лице самой смерти, божественно тайное, лице
смерти без покрывала. Какую печать на него наложила она! и как удивительно высказала на
нем и свою и его тайну. Я уверяю тебя, что никогда на лице его не видал я выражения такой
глубокой, такой величественной, торжественной мысли. […] К счастию я вспомнил во-время,
что надобно с него снять маску; это было сделано немедленно; черты его еще не успели изме-
ниться” (Жуковский 1837: XV-XVI).
‘Лицо’ – ‘маска’ в культуре Серебряного века 147

илл. 4
О.А. Флоренская. Аллегория. Д. С. Мережковский у трона Богородицы, 1913
Москва, частное собрание
148 Андрей Шишкин

Белый 1990: А. Белый, Начало века, Москва 1990.


Белый 1997: А. Белый, О Блоке: Воспоминания. Дневники. Речи, Москва 1997.
Белый 2014: А. Белый, Начало века (Берлинская редакция). 1923, Санкт-
Петербург 2014 (= Литературные памятники).
Белый 2016: А. Белый, Автобиографические своды, Москва 2016 (= Литератур-
ное наследство, 105).
Бердяев 1989а: Н. Бердяев. Собрание Сочинений, I, Париж 1989.
Бердяев 1989б Н. Бердяев. Собрание Сочинений, III, Париж 1989.
Блок 1927: Письма Александра Блока к родным, I, Ленинград 1927.
Блок 1962: А. Блок, Собрание Сочинений, V, Москва-Ленинград 1962.
Блок 1963: А. Блок, Собрание Сочинений, VIII, Москва-Ленинград 1963.
Блок 2010: А.А. Блок, Полное Собрание Сочинений и писем в 20 томах, VIII,
Москва 2010.
Блок, Иванов 2017: А.А. Блок, Е.П. Иванов, Переписка (1904-1920), I, Санкт-Петер-
бург 2017.
Богомолов 1995: Н.А. Богомолов, Петербургские гафизиты, в: Он же, Михаил
Кузмин: статьи и материалы, Москва 1995, с. 67-98.
Богомолов 2009: Н.А. Богомолов, Вячеслав Иванов в 1903-1907 годах, Москва 2009.
Вацуро и др. 1980: В.Э. Вацуро и др. (ред.), Александр Блок в воспоминаниях совре-
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Abstract

Andrei Shishkin
The Face and the Mask in Silver Age Culture

The Masque is a common concept in the Silver age: according to the Silver Age aesthetic vision
only art is capable of getting to the essence of things. The Masque can represent either the sublime
or the lowest image. It can be ironic, caricature like but it can also unite within itself polar opposites.
The article analyzes the portraits of the poets made by M. Dobužinskij, K. Somov, N. Ul’janov and
others and draws in its interpretation on the seminal texts of N. Berdjaev, M. Kuzmin, V. Ivanov, F.
Stepun concerning the Face/Masque dichotomy.

Keywords

Vjačeslav Ivanov; symbol; mask; portrait of writer.


© 2018 Author(s). Open Access. This article is “Studi Slavistici”, xv, 2018, 1: 153-164
distributed under the terms of the cc by-nc-nd 4.0 doi: 10.13128/Studi_Slavis-22300
Submitted on 2017, December 13th issn 1824-761x (print)
Accepted on 2018, June 5th issn 1824-7601 (online)

Чезаре Дж. Де Микелис

Двенадцать А. Блока между Россией и Италией

Как положительное, так и отрицательное восприятие современниками поэ-


мы Двенадцать, “первого значительного отклика русской литературы на Великую
Октябрьскую революцию” (Орлов 1967: 3), было обусловлено идеологическими
соображениями.
С одной стороны, Александр Блок был одним из немногочисленных представи-
телей русской интеллигенции, откликнувшихся на призыв Луначарского в декабре
1917 года перейти на сторону большевиков1; разумеется, поэма была встречена резко
отрицательно противниками революции.
С другой стороны, ее загадочный финал, где за Христом следуют двенадцать
красногвардейцев, вызывал – по совершенно разным, противоположным причинам
– неприятие у многих: как и у противников революции, так и у ее сторонников.
Эмигрировавший в Италию Василий Сумбатов, поэт второго ряда, ответил ав-
тору Двенадцати довольно ‘сумбурной’ поэмой Без Христа:

Пусть флаги в пляске летят кровавой,


Над омраченной Москвой горя
(Сумбатов 1922: 98)

Зинаида Гиппиус обвинила Блока в ‘измене’ и написала едкую пародию на финал


поэмы:

Впереди 12-ти не шел Христос:


Так сказали мне сами хамы.
Зато в Кронштадте пьяный матрос
Танцевал польку с Прекрасной Дамой.
(Гиппиус 1962)

Владимир Маяковский тоже высмеял последний стих, прибегнув к различным


ассонансам: “впереди Абрам Эфрос”, или: “Луначарский Наркомпрос”.

1
Впрочем, не прошло и года, как Блок был арестован за связь с партией эсеров.

Cesare G. De Michelis (University of Rome “Tor Vergata”) – demichelis@lettere.uniroma2.it


The author declares that there is no conflict of interest
154 Чезаре Дж. Де Микелис

Иначе говоря, восприятие Двенадцати с самого начала было сопряжено с идео-


логическими разногласиями и непониманием.

Двенадцать – не единственная поэма Блока, посвященная революции. К за-


мыслам того же рода можно причислить незаконченную поэму Возмездие, в основе
которой лежала идея грядущей Революции как ответ поляков на имперскую поли-
тику России. В Предисловии (написанном в 1919 году) Блок объяснял эту незакончен-
ность тем, что предсказанная им революция уже свершилась, но не так, как он себе
это представлял: не Польша восстала против России, против отцов юноши, взращен-
ного в буре “над занесенными снегом польскими клеверными полями”, а советская
Россия выступила против Польши (см. Strada 2017: 54), и была остановлена в Варша-
ве Пилсудским 16 августа 1920 года. Однако, ввиду того, что Блок вернулся к работе
над поэмой незадолго до смерти – последние стихи задуманного им Эпилога были
написаны в июле 1921 года – данное им объяснение не выглядит убедительным. Что-
бы лучше понять Двенадцать, нужно разобраться, в чем поэма по сути отличается
от Возмездия. Поэта называли ‘гамаюном’ (Орлов 1980) своего времени, – райской
вещей птицей: действительно, и Возмездие, и Двенадцать проникнуты особенным
блоковским отношением к современному и будущему русской истории.
Возмездие по форме является классической поэмой: она открывается канониче-
ским обращением к Музe и написана типичным для данного жанра четырехстопным
ямбом, который в финале Пролога приобретает функцию внутритекстового тема-
тического индикатора: “Дроби, мой гневный ямб, каменья”. В поэме присутствует
также музыкальная тема, заявленная в Предисловии – это мазурка. Иными словами,
несмотря на незавершенность (обусловленную, по сути, неразрешимым противоре-
чием между эпическим и лирическим началом), Возмездие должно было быть ‘пра-
вильной’ поэмой, рожденной из метаисторического видения грядущей революции,
попытки постигнуть правду, явленную в ее закономерности.
Никакой ‘правильности’ в Двенадцати нет. С ее изысканной и сложнейшей
мелопеей (как вспоминает Ремизов, “долго разговаривал с Блоком по телефону, он
слышит ‘музыку’ во всей этой метели, пробует писать и написал что-то” [Орлов 1980:
593]), ‘нервная’ поэма переходит от чистой тоники к частушечному хорею и затем к
ямбическому ларго – это чистая синкопированная музыка (см. Жирмунский 1922:
100). Ощущая разыгрывающуюся бурю, поэт жесткими штрихами обозначает собы-
тия 1918 года как истину (конкретную реальность) революции.
Итак, разница, по-видимому, коренится в дихотомии русского понятия правда-
истина2. Что-то в этом роде чувствовал Пьеро Гобетти, когда в 1921 году писал, что
“речь идет о реализме, исключающем рефлексию” (Gobetti 1969: 89).

2
Дихотомия русского понятия правда-истина была предметом долгих размышлений
(ср. Успенский 1987). Ольга Харина недавно предложила неплохое определение: правда – это
veritas “de dicto”, тогда как истина – это veritas “de re” (Харина 2007).
Двенадцать А. Блока между Россией и Италией 155

Толкование текста в контексте аллоглоссии зачастую позволяет раскрыть более


глубинные смыслы, нежели это возможно при эндолингвистическом подходе. Это
в первую очередь относится к переводу, т.е. интерпретации текста на другом языке.
Особого внимания в этой связи заслуживают переводы на итальянский, выполнен-
ные русскими переводчиками (насколько мне известно, существует 4 перевода, пол-
ных или частичных, авторами которых являются Георгий Бомштейн, Михаил Перву-
хин, Раиса Олькеницкая и Юрий Крайский).
Нижеследующие заметки, относящиеся к итальянским переводам текста, будут
дополнены указаниями на явные или скрытые итальянские реминисценции у Блока.

Имя Александра Блока становится известным в Италии в 1912 году: о нем упоми-
нает как о сотруднике альманаха “Факелы” Джан Пьетро Лучини в статье о Максиме
Горьком, в которой речь идет о мистическом анархизме (Lucini 1913). Что же касается
поэмы Блока Двенадцать, то, насколько нам известно, о поэме впервые говорится в
письме Ольги Ресневич к Джованни Папини от 8 января 1919 года:

Меня очень удивила весть о том, что философ (позитивист, марксист) Булкаков
стал священником. Бердяев занимается Св. Синодом, Иванов остался почти преж-
ним. Так или иначе, они стараются упорядочить и обуздать религиозную казуисти-
ку. Белый склоняется к теософии! Блок пишет великолепные стихи к вящей славе
большевизма. Самые “тонкие” усматривают в большевизме своего рода браманизм
(Vassena 2010: 254).

Отрывки текста поэмы в итальянском переводе появились в том же году в статье


Григория Бомштейна (Bomstein 1919) в журнале “Rassegna Internazionale” (‘Между-
народное обозрение’)3. Годом позже публикуется перевод поэмы Блока, выполнен-
ный Г. Бромштейном и Телезио Интерланди, который позднее станет виднейшим
представителем фашистского расизма (Blok 1920а). Наряду с переводами фрагментов
(Blok 1920б и 1920в) в том же году выходит еще одна полная анонимная версия (воз-
можно, самая первая), которая становится знаковой для восприятия Двенадцати в
Италии. Она называлась Большевистские песни (Canti bolscevichi: Blok 1920г) и пред-
ставляла собой скорее цикл стихотворений, а не поэму из двенадцати глав. Об этой
публикации стало известно Блоку, который остался крайне недоволен (“Е.Ф. Книпо-
вич принесла парижские бездарности, Двенадцать во всех видах”4, и затем уточнил:
“у меня есть парижское и миланское издания”)5. В 1921 году Пьеро Гобетти оставил о
поэме свой негативный отзыв6, однако лет тридцать тому назад некоторые известные

3
Журнал “Rassegna Internazionale” был итальянским рупором движения ‘Ясность’
(“Clarté”) Анри Барбюса, сторонника советской власти.
4
Записные книжки, 16.12.1920 (Блок 1965: 509).
5
Письмо к Н. Нолле Коган от 2 марта 1921 (Куванова 1981: 350).
6
“Сомнительный, грубый перевод, не без серезных ошибок” (Gobetti 1969: 88).
156 Чезаре Дж. Де Микелис

итальянские поэты (Джованни Джудичи, Джованни Рабони и Патриция Вальдуга),


сочтя опубликованный вариант ‘прекрасным’, предложили приписать авторство не
кому-нибудь, а Клементе Ребора. Предполагаемое авторство оказалось выдумкой (ср.
De Michelis 1987; Ghini, Amico Roxas 1994). При этом выяснилось, что перевод был
не только не так уж прекрасен, но еще и неверен7.
Знаменательной вехой в истории рецепции Большевистских песен стала публи-
кация статьи одного из самых влиятельных представителей итальянской культуры
XX века, Эмилио Чекки (Cecchi 1920), который не только отважился судить о стихот-
ворном произведении по переводу (к тому же плохому), но и, нисколько не разобрав-
шись, позволил себе ряд грубых саркастических комментариев8; согласно его точке
зрения, чтобы понять смысл этого текста, нужно быть “безграмотным, коммунистом,
кретином, сутенером, налетчиком, громилой, футуристом” (“analfabeta, comunista,
cretino, magnaccia, razziatore, gorilla, futurista” [ibidem]).
Не будем распространяться о не заслуживающих внимания высказываниях, при-
надлежащих перу Чекки, а также о судьбе анонимного издания Quintieri. Отметим
только, что Двенадцать, несмотря на колоссальную популярность и многочисленные
переводы на итальянский9 и вопреки высокой самооценке автора (закончив работу
над текстом, 29 января 1918 года он сделал примечание – “сегодня – я гений”), не
воспринималась в Италии единогласно как вершина поэтического творчества Блока:
например, П. Гобетти нашел ее “бесплодной” (“из всех впечатлений не возникает впе-
чатления, то есть не видно души” [Gobetti 1969: 89]).
Крупнейший переводчик русского поэта в Италии, Анджело М. Рипеллино, еще
со времен своей юности очень сдержанно высказывался об этом произведении (“По-
эма Двенадцать не представляет в общей сложности такой ценности, как Скифы,
она распадается на ряд шумных, негармоничных, диссонирующих стихов” [Ripellino
1942: 29]), и именно поэтому он не включил поэму в свою знаменитую блоковскую
хрестоматию 1960 года. Даже такой видный французский блоковед, как Жорж Нива,
полагал, что речь идет отнюдь “не о шедевре Блока” (Nivat 1989: 151).

Отметим некоторые места, неправильно истолкованные в итальянских переводах


(как впрочем и в комментариях, русских и не только) (Орлов 1967; ср. Пьяных 1976;
Долгополов 1979; Приходько 1994). Возьмем, к примеру, дистих из второй главы:
– Ну, Ванька, сукин сын, буржуй,
мою попробуй, поцелуй!

7
Категория ‘некрасивых неверных’ не слишком популярна среди исследователей тео-
рии перевода.
8
“Рецензия Чекки необыкновенной пошлости и тупости” (Carpi 1981: 80, прим. № 9).
9
Я насчитал 10 полных версий, с 1920 по 1998 год (Blok 1920а; 1920г; 1935; 1942; 1957;
1969; 1971а; 1971б; 1995; 1998), не говоря уже о неопределенном количестве переведенных
фрагментов.
Двенадцать А. Блока между Россией и Италией 157

Здесь присутствует эллипсис, понять который – значит подобрать в тексте пере-


вода эквивалент подразумеваемому слову. Почти во всех переводах на итальянский
язык (и не только), а также во всех мне известных комментариях (кроме предложен-
ного Серджо Леоне, Leone 1981), последний стих переведен как ‘попробуй поцелуй
мою девушку’ (“provati a baciare la mia ragazza”). Исключения редки: худший вариант
принадлежит Дженовеффе Лонго (Blok 1963), которая заменяет глагол на существи-
тельное, женский род на мужской и получает ‘попробуй мой поцелуй’ (“prova il mio
bacio”). Ренато Поджиоли вводит неуместное ‘поцелуй ей руки’ (“baciale le mani”),
чтобы хоть как-нибудь передать рифму “figlio di cani” (‘собачий сын’). Однако вульгар-
ная речь в данном контексте (“сукин сын”), с учетом расширения семантики глагола
‘целовать’ (не только ‘лобзать’, но и ‘лизать’), позволяет скорее предположить ‘мою
жопу’, то есть “provati un po’ a leccarmelo [il culo]”.
Если из народной, уличной речи (подчеркнутой сознательными морфо-синтак-
сическими нарушениями: “у ей керенки есть в чулке!”, или ‘вскидавает’ вместо ‘вски-
дывает’) мы переходим к высокому, религиозному стилю (параллельно с чередовани-
ем этих двух уровней чередуется и метрика глав), то сталкиваемся в переводе с еще
одним часто допускаемым искажением в 11 главе:

И идут без Имени святого


все двенадцать – вдаль.

Переводчики предлагают самые разные варианты: “Senza aiuto di santi marcia-


no” – ‘шагают без помощи святых’ (Blok 1920а), “Senza il nome benedetto” – ‘без име-
ни благословенного’ (Blok 1942), “E vanno senza nome di santo” – ‘И идут без имени
Блаженного’ (Blok 1971б), или время от времени проскальзывающее “[un] santo nome”
– ‘святое имя’ (Blok 1920в; 1957; 1977; 1995). Везде речь идет о буквальном переводе,
который не передает сознательную отсылку к непроизносимому древнееврейскому
имени Бога YHWH: ‘без Имени святого’ - “senza il Nome santo”, которое соответству-
ет Богу (ср. в молитве: “да святится Имя Твое”).
Иногда перевод искажает оригинал, потому что переводчик не может идентифи-
цировать экстратекстуальные реалии. Так, например, опытный славист Ренато Под-
жиоли передает выражение “над Невской башней” как “над башней Невы” – “sulla
torre della Nevà”, в то время как речь идет о башне, которая является частью ансамбля
Городской Думы на углу Невского проспекта. Неточность сама по себе, казалось бы,
не так уж важна, однако, таким образом теряется детальное указание на конкретную
топонимику и на разворачивающиеся события. Иным является случай с “красной
гвардией” в третьей главе (“в красной гвардии служить”), которая периодически пре-
вращается в “красную армию”, тогда еще несуществующую10, – вольность, обязанная
парижскому изданию 1920 года (изд. Мишень), в которое закрался ложный вариант

10
В ту пору даже РСФСР еще не родилась (она была формирована только 31 января 1918 г.).
158 Чезаре Дж. Де Микелис

(“в красной армии”). Очередной загадочный и повсеместно искажаемый фрагмент


– это финал. Для того, чтобы попытаться пояснить суть дела, я буду обращаться пре-
имущественно к анализу Ефима Эткинда (Эткинд 1978).
Эткинд выявил в поэме симметричный концентрический механизм, согласно
которому поэтическая речь из универсально-символического измерения в первой
главе переходит в конкретно-городское в интермедиях (главы вторая-одиннадца-
тая), чтобы снова вернуться в универсально-символическое в двенадцатой главе.
В пределах таким образом организованной композиции Эткинд видит зеркальное
чередование эпоса (1-2 и 11-12), лирики (3-5 и 8-10) и драмы (6-7), в эпизоде с Петь-
кой, который стреляет и убивает свою любимую. Здесь вновь возникает тема лю-
бовного треугольника, уже звучавшая в Балаганчике – это итальянская тема, арле-
кинада: “любовь Ваньки и Петрухи к Кате, как писал Рипеллино, напоминает нам
[...] размолвку между Арлекином и Пьеро, влюбленными в Коломбину”, которая,
в свою очередь, свидетельствует о низведении образа ‘прекрасной Дамы’ в лирике
юного Блока (Беатриче → Коломбина → Катя).
Концентрическая симметричная конструкция поэмы могла бы показаться
схематичной, если бы она не была замаскирована благодаря невероятному разно-
образию метрики – хаос, отражающий смятение настоящего – которое порождает
полиметрическую мелопею как искусство контрапункта. Языковой регистр также
расширяется до крайности – от самых грубых уличных выражений до церковно-
славянского молитвенного поминания убиенной: “Упокой, Господи, душу рабы
твоея”, которое совпадает с латинским “Requiem aeternam dona ancillae tuae, Domine”
– очередной стих, часто искажаемый итальянскими переводчиками, которые, из-за
незнания церковно-славянского, часто порождают переводы такого рода: ‘Оставь
в покое, Господь, душу твоего верного слуги’ (“Lascia in pace, Signore, l’anima del
tuo servo fedele”), ‘Уcпокой, Господь, душу твоего слуги’ (“Acqueta, Signore, l’anima
del servo tuo”), ‘Упокой, о Господи, душу твою рабу’ (“Placa, o Signore, l’anima tua
schiava”), и так далее.
Структурный анализ Е. Эткинда может быть дополнен точным наблюдением
Ю. Тынянова, согласно которому

В ранних его вещах конец повторяет начало, смыкается с ним, — эмоция коле-
блется: дан эмоциональный ключ, эмоция нарастает и на высшей точке напря-
жения вновь падает к началу, таким образом целое замыкается началом и как бы
продолжается после конца, вдаль. Но для позднейшего Блока характерно завер-
шение на самой высокой точке, к которой как бы стремилось все стихотворение
[…]. Также и в Двенадцати последняя строфа высоким лирическим строем за-
мыкает частушечные, намеренно площадные формы. В ней […] весь эмоциональ-
ный план его, и таким образом самое произведение является как бы вариациями,
колебаниями, уклонениями от темы конца (Тынянов 1929: 519-520).
Двенадцать А. Блока между Россией и Италией 159

Таким образом, мы подходим к знаменитой концовке блоковской поэмы:

…Так идутъ державнымъ шагомъ –


Позади – голодный песъ,
Впереди – с кровавымъ флагомъ,
И за вьюгой невидимъ,
И отъ пули невредимъ,
Нѣжной поступью надвьюжной,
Снѣжной россыпью жемчужной,
В бѣломъ вѣенчикѣ изъ розъ -
Впереди – Iсусъ Христосъ.

Стихи столько же знаменитые, сколько необъяснимые (Орлов 1967: 108), не по-


нятые даже Лениным11; о них было написано “до тошноты” (Ripellino 1960: 64), но
до сих пор не существует убедительного их толкования. Я отважусь предложить соб-
ственное прочтение, основанное на наблюдении, относящемся к творчеству Блока
в целом, а именно на том, что источником его символизма является “чужое слово”
(Минц 1973: 402 и след): безусловно, не для того, чтобы ему вторить, а для того, что-
бы за счет него расширить коннотации собственного слова.
К этому замечанию я сразу же добавлю другое, а именно то, что сопоставление
темы “Христа” и “Революции” уже назревало: оно встречалось и у Маяковского (пре-
жде чем он заменил “Впереди Исус Христос” на “Луначарский Наркомпрос”):

Где глаз людей обрывается куцый,


главой голодных орд,
в терновом венце революций
грядет шестнадцатый год
(Маяковский 1915: 350)

После Блока – и поэмы Христос воскрес Андрея Белого – к этой теме возвраща-
лись пролетарские поэты (Железный мессия Владимира Кириллова, Красное евангелие
Василия Князева, и т. д.).
Эта тема была широко исследована (в работах как русских, так и зарубежных
литературоведов) на предмет неоднозначного отношения Блока к фигуре Христа и
христианству на протяжении всей жизни и творчества поэта (ср. Розенблюм 1994).
Я не думаю, что этот путь может привести к разгадке финала Двенадцати. В сущ-
ности, доказательство: доминирует ли в поэме ‘женственный призрак’ или ‘Христос
Дюрера’, насколько здесь важен старообрядческий образ Иисуса – не представляется
необходимым; гораздо важнее выявить вкрапленные в текст скрытые цитаты, обна-
ружить ‘чужое слово.

11
“Впереди Исус Христос. Вы это понимаете? Объясните мне” (Шульгин 1957: 124).
160 Чезаре Дж. Де Микелис

На первую цитату указал сам поэт: это “голодный пес”, отсылающий нас к Фау-
сту Гете (“knurre nicht, Pudel”, который потом обернется Мефистофелем): пес связан
с восприятием “буржуя” - умирающего мира – как “Сатана” (“Господи, Боже! Дай мне
силу освободитъся от ненависти к нему […]. Отойди от меня, Сатана, отойди от меня,
буржуа!”)12. Вторая цитата просматривается во флаге (не знамя, а именно “vessillo”, “sten-
dardo”, “drappo” по-итальянски, не “bandiera”), который сначала ‘красный’ (“в очи бьет-
ся / красный флаг”), а затем в конце – ‘кровавый’: но ведь синтагма “кровавый флаг” –
это же перевод с французского étendard sanglant, ‘кровавый флаг’ Марсельезы (она тоже
звучит в поэме Двенадцать, но Чекки этого не заметил!)13. Конечно же, Иисус несет не
знамя тирании, окрапленное кровью народа, но знамя революционного времени, исте-
кающее кровью (как жертв, так и палачей, при этом совершенно неясно, где одни, а где
другие: возможно, на нем кровь самого Христа, искупившего и тех, и других).
И, наконец или прежде всего, “белый венчик из роз” в конце главы, который свя-
зывает воедино все ее элементы (один из переводчиков14, чтобы хоть как-то передать
смысл и рифму к итальянскому слову “Cristo”, еще более “намудрил” в переводе, предло-
жив вариант: “Il capo ornato di cisto” [‘ладанник’] (“Голова, украшенная ладанником” –
имеется в виду смолоносное растение с маленькими цветами, похожими на шиповник).
Для начала сделаю одно лингвистическое замечание: “венчик” – это умень-
шительное от слова ‘венец’, а не от слова ‘венок’, иначе должен был быть ‘веночек’: в
православном обряде венчания, над головами жениха и невесты несут венцы (“По-
ложилъ еси на главахъ ихъ венцы отъ каменей честныхъ”); здесь “камни честные” (в
явно символическом понимании) заменены на “белые розы”, традиционно являющи-
еся символом ‘чистоты’, ‘доброты’.
При чем же здесь Христос? Изображение Христа в образе жениха напрямую
восходит к евангельской притче о мудрых и неразумных девах (От Матфея, глава 25:
“Се, Женихъ грядетъ въ полунощи”), а также к браку Агнца из Апокалипсиса (Откр.
19, 7): однако здесь стих отсылает скорее к отрывку из “Рая” Божественной Комедии
Данте (XXXI, 1-3):
In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa,

стихи, которые по-русски звучат так:


В виде же белоснежной розы
передо мной предстала святая рать
с которой кровью своею Христос венчался.

12
Дневник 1918 года, 26 (13) февраля, ночь (Блок 1963а: 327-328).
13
В данном переводе читается “vessillo / insanguinato”, но он написал: “А Марсельеза не
безупречна как Горациева Ода”, и впрочем, подразумевает, она гораздо лучше чем Двенадцать.
14
Паоло Статути. См. Blok 1971б.
Двенадцать А. Блока между Россией и Италией 161

Как подчеркивала Зара Минц, логика символа – полисемичного по своей при-


роде – заставляет Блока прибегать к “полигенетичным цитатам”, которые оказыва-
ются особенно функциональными в случае обращения к “мифемам”, а также многое
объясняют о сомнениях самого автора по поводу концовки поэмы. Эта логика не от-
ражает неоднозначное и противоречивое представление об образе Христа, очевидно
сложившееся у Блока, и тем более не свидетельствует о “религиозном благословении”
Октября, как часто полагали его сторонники и противники. Эта логика воплощает
вечную тему внутреннего языка Блока, беспрестанное столкновение “хаоса” и “гар-
монии”, “мира ужасного” и “мира прекрасного” (страшный / прекрасный) возвращая
к надежде, которая в финале Возмездия рождается из самого беспросветного отчая-
ния: “а мир прекрасен, как всегда”.

Только насквозь идеологическая трактовка15 могла увидеть в двенадцати крас-


ногвардейцах “передовых представителей рабочего класса”. Это кучка негодяев но,
в то же время, это святое войско двенадцати “Апостолов”; они идут без Бога, но им,
втайне от них самих, предшествует Иисус.

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Михайловича Бахтина (к 75-летию со дня рождения), Тарту 1973
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15
Например, трактовка предложенная Вирджилио Галасси и Луиджи Онорато для
журнала “Il Politecnico” под ред. Элио Витторини в декабре 1945 года.
162 Чезаре Дж. Де Микелис

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Двенадцать А. Блока между Россией и Италией 163

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164 Чезаре Дж. Де Микелис

Abstract

Cesare G. De Michelis
Alexander Blok’s The Twelve Between Russia and Italy

The perception of a literary text in a language and culture different from the author’s can aid
the analysis of the poetics and the translation of the work. Examples taken from mistaken transla-
tions and the Italian notes to the text in fact highlight the symbology of The Twelve. At the same
time, it is possible to see some literary fragments – Italian, of course – which act as the hypotext of
Blok’s poem.

Keywords

Ideology; poetics; symbols; someone else’s language.


© 2018 Author(s). Open Access. This article is “Studi Slavistici”, xv, 2018, 1: 165-182
distributed under the terms of the cc by-nc-nd 4.0 doi: 10.13128/Studi_Slavis-22584
Submitted on 2018, February 8th issn 1824-761x (print)
Accepted on 2018, April 10th issn 1824-7601 (online)

Giuseppina Larocca

Il paradigma dell’antico. Lev Pumpjanskij e la classicità*

1. Introduzione
Filologo, storico della letteratura russa dei secoli xviii-xx e filosofo, Lev Pumpjanskij
(1891-1940) è stato per molti anni una figura sbiadita nella mente di studiosi e critici lettera-
ri. Il suo ricordo è sopravvissuto solo nella memoria silenziosa di filologi a lui vicini o nell’e-
pisodica menzione in chiave polemica di accademici avversi alla sua impostazione metodo-
logica. Una delle ragioni di questo lungo oblio va probabilmente ricercata nella pluralità di
competenze possedute da Pumpjanskij, capace di collegare in un quadro unitario diverse
linee letterarie delle culture russa ed europea. Approccio ermeneutico in controtendenza
rispetto alla critica ufficiale sovietica, la quale dagli anni ’40 decretò di fatto la sua scomparsa
dalle bibliografie scientifiche, nonostante il carattere antesignano di molte sue indagini1.
Nato a Vilna, trasferitosi a Pietroburgo dove frequentò l’università senza terminare gli
studi, nel 1915-1916 Pumpjanskij si recò a Nevel’ e nel 1920 partì alla volta di Vitebsk, dove,
insieme a Michail Bachtin e Matvej Kagan, diede vita alla cosiddetta Scuola filosofica di
Nevel’ (Nevel’skaja Škola filosofii)2. Tornò poi a Pietrogrado nell’ottobre dello stesso anno
e vi rimase collaborando con il Puškinskij dom, il conservatorio e la facoltà di filologia3.
Gli anni a Nevel’ e Vitebsk costituirono per Pumpjanskij il periodo più fecondo, giacché
il critico ebbe modo di discutere e approfondire questioni che si sarebbero rivelate fondamen-
tali nella sua opera futura. Gran parte dei dibattiti affrontati dal gruppo di Nevel’ ruotava
attorno al problema dell’antichità e del significato da attribuire alla classicità, nel solco di una
doppia tradizione: quella della filologia classica tedesca del xix secolo da Friedrich Wolf fino
alla svolta di Friedrich Nietzsche, e quella del Terzo Rinascimento slavo, postulato da tre co-
rifei della cultura russa degli anni ’10, estimatori ed essi stessi allievi dell’Altertumswissenschaft
tedesca, Tadeusz Zieliński, Vjačeslav Ivanov e Innokentij Annenskij4.

* Vorrei ringraziare i revisori esterni per i loro commenti e suggerimenti.


1 Per conoscere in lingua originale gran parte degli scritti di Pumpjanskij si dovrà attendere
la fine degli anni ’70. Per i titoli si rimanda alla bibliografia in calce all’articolo.
2
Per una storia della Scuola si vedano Clark, Holquist 1991: 135-194; Nikolaev 1991: 32;
1992: 224; 2003b; Machlin 1995b, 1996.
3
Per una prima biografia di Pumpjanskij cfr. Nikolaev 2000a, 2017.
4
Ispirandosi al neoumanesimo tedesco di Winckelmann, Schiller e Goethe, Zieliński fu il
primo a formulare l’idea di “Terzo Rinascimento slavo” nel 1899 nel saggio Il mondo antico nella po-

Giuseppina Larocca (University of Florence) – giuseppina.larocca@unifi.it


The author declares that there is no conflict of interest
166 Giuseppina Larocca

L’antičnost’ per Pumpjanskij è un modello lontano dalla stilizzazione o dalla pedisse-


qua imitazione dei paradigmi greci ed è composto da cinque elementi che fanno del сlassico
(klassičeskij), e quindi dell’antichità, non più e non solo una categoria storica, ma una di-
mensione più propriamente estetica, i cui cardini sono le Muse5, lo stile, l’entusiasmo, l’as-
sassinio (spargimento di sangue) (ubijstvo, prolitie krovi) e il giudizio (sud). Attraverso il
dialogo con questa dimensione, ogni generazione di letterati – sottratta a qualsiasi localizza-
zione spaziale – si confronta con i paradigmi consolidati dalla generazione immediatamente
precedente e dà vita a una propria idea di classico, conferendo linfa vitale sempre nuova allo
spirito greco6. Alla nozione di classico sono strettamente connesse quelle di simbolo, mito e
tragedia. È classico ciò che riproduce il simbolo e tutte le sue successive stratificazioni.
Di converso, tutto ciò che rifiuta l’esistenza del simbolo è definito da Pumpjanskij “re-
lativo”, non fondato, “individuale”: “Ricordiamo com’è nata la follia del relativismo: dalla
cancellazione dei simboli…”7; “È classica quella letteratura che si trova in un certo rapporto
con valori assoluti non suoi; non è classica la letteratura relativizzata”8.
Partendo da queste premesse, Pumpjanskij mira a comprendere come si siano formati
i generi letterari, in particolar modo tragedia e commedia, quale sia stato il loro destino
nelle letterature moderne e come si sia giunti, in una prospettiva diacronica, alla novella, al
racconto e al romanzo. La sua indagine si snoda tra diversi ambiti: l’estetica, la teoria della
letteratura e la storia della letteratura russa.

esia di A.N. Majkov (Antičnyj mir v poėzii A.N. Majkova) (Zelinskij 1899). Sul tema si veda Machlin
1996; Nikolaev 1997; Gardzonio 2003; Braginskaja 2004; Nikolaev 2006; Garzonio 2012: 77-84.
5
Il topos delle Muse è assai diffuso nella critica del Novecento e si giova del sostegno autorevole
di studiosi molto vicini tipologicamente alla sensibilità intellettuale di Pumpjanskij. È questo il caso
di Ernst Robert Curtius e del suo Letteratura europea e Medio Evo latino in cui un capitolo intero è
dedicato alle figlie di Zeus. Interessante non è solo rilevare l’affinità tipologica dei contenuti di Curtius
con quelli di Pumpjanskij, ma prestare attenzione alla funzione conferita all’immagine e al ruolo delle
Muse. Nell’analisi della letteratura europea Curtius ravvisa nelle Muse uno di quei fattori denominati
“costanti ‘formali’ concrete”, ovvero immagini proprie dell’inventio trasferitesi da un testo all’altro, uno
degli elementi di continuità rintracciabili “da Omero a Goethe” (Curtius 19932: 255). Ciò significa che
il tentativo messo in atto da Curtius di dar vita a una topica storica è già avviato da Pumpjanskij quasi
trent’anni prima con l’individuazione del topos delle Muse e, più in generale, dei cinque topoi appar-
tenenti all’antichità. Certamente, rispetto a quella di Curtius, la disamina di Pumpjanskij si dimostra
meno sistematica, ma a ben vedere definisce lo stesso perimetro metodologico.
6
Cfr. Pumpjanskij 2000b: 30, 35, 54, 56, 58.
7
“Вспомним, как возникло безумие релятивизма: из стирания символов […] Но сим-
волы могут стирать медленнее и быстрее […] в зависимости от силы носителя”. Pumpjanskij
1997c: 10. Ove non diversamente indicato, tutte le traduzioni sono a cura di chi scrive. Per Dosto-
evskij e l’antichità (Dostoevskij i antičnost’, 1922) si utilizza la traduzione a cura di Roberto Salizzoni
(Pumpjanskij 2003).
8
“Литература, находящаяся в известном отношении к не своей абсолютной ценности
– классична; не классична релятивированная литература”. Pumpjanskij 2000b: 30.
Il paradigma dell’antico. Lev Pumpjanskij e la classicità 167

Scopo di questo contributo è la ricostruzione del nucleo concettuale che investe la de-
finizione di simbolo, mito e tragedia e su cui Pumpjanskij fonda la propria interpretazione
dell’idea di antichità e classicità.

2. Simbolo e mito
Simbolo e mito, insieme alla tragedia, sono gli elementi estetici caratterizzanti
quell’antichità che Pumpjanskij, in modo simile a Bachtin e a Kagan, pone al centro delle
proprie riflessioni sul finire degli anni ’10.
Seppure la sua idea di simbolo sembri molto affine a quella di Ivanov, partito dall’in-
segnamento di Creuzer e Nietzsche per attribuire al simbolo una funzione “magico-
divinatoria”9, essa rivela una sostanziale differenza: il simbolo ricostruito da Pumpjanskij
è spoglio dell’accezione divina ivanoviana e coniuga in sé una realtà trascendente e una
immanente. Da una parte si nutre di valori universali e sovratemporali, dall’altra esprime
un’interpretazione di classicità e antichità calata nella storia, ricreata e rinnovata dal genio
dell’artista10. Per tale ricostruzione Pumpjanskij prende le mosse dal compito che Ivanov
affida al poeta nel saggio Il poeta e la folla (Poėt i čern’, 1904), dove l’artista diviene media-
tore di una grande arte universale, facendo rivivere al popolo la cultura del mito. Allo stesso
modo di Ivanov, anche Pumpjanskij sottolinea il ruolo primario del poeta nella rinascita
del simbolo: egli ricrea una realtà definita classica, recuperando uno o più elementi tra
Muse, stile, entusiasmo, spargimento di sangue e giudizio.
Il passo in avanti compiuto da Pumpjanskij rispetto a Ivanov è duplice: carica il sim-
bolo del significato di responsabilità (otvetstvennost’) e applica una simile intuizione alla
storia della letteratura, in particolare russa.
Il tema della responsabilità, questione cara anche a Bachtin insieme a quella della mo-
ralità (nravstvennost’)11, fu discusso nell’estate 1919 a Nevel’ in relazione a Dostoevskij e

9
Cfr. Ivanov 1974: 593; Carpi 1994: 27, 37, 55; 2010: 615-617. Sul rapporto che lega simbolo-
mito-tragedia in Ivanov si vedano Terras 1990; Dioletta Siclari 1993; Carpi 1994; Ghidini 1997;
Cantelli 2000; Bird 2006; Bërd (Bird) 2009; Vestbruk (Westbroek) 2009. Si guardi inoltre la sezio-
ne “Articoli” (Stat’i) di Grjakalova, Šiškin 2016: 9-108.
10
Pumpjanskij non conobbe mai Ivanov. Secondo la testimonianza di un suo allievo, Efim
Šapiro (1899-1977), Ivanov non ricordava chi fosse Pumpjanskij. Invece, com’è noto, Bachtin am-
mise di aver conosciuto Ivanov a Pietrogrado e riconobbe la forte influenza che il teorico simbolista
aveva esercitato sul suo gruppo, ivi compresa l’influenza sui membri del circolo dei giovani omfali-
tici. Bachtin, tuttavia, non raccontò di aver accennato a Ivanov la discussione sul saggio Dostoevskij
i roman-tragedija che aveva occupato un posto di rilievo negli incontri dei nevel’cy. Cfr. Nikolaev
2003a: 289; Cfr. Bachtin 2008: 159; 2002: 17-19; 2000: 388-398.
11
I due concetti vengono postulati da Bachtin in forma più compiuta rispetto a quella di
Pumpjanskij in Arte e responsabilità (Iskusstvo i otvetstvennost’, 1919) e successivamente ripresi in
L’autore e l’eroe nell’attività estetica (Avtor i geroj v ėstetičeskoj dejatel’nosti) e in Problemy tvorčestva
Dostoevskogo (Problemi dell’opera di Dostoevskij, 1929). A proposito del concetto di responsabilità
168 Giuseppina Larocca

al Dostoevskij e il romanzo-tragedia (Dostoevskij i roman-tragedija, 1911) di Ivanov. In uno


degli incontri della Scuola filosofica di Nevel’ Bachtin presentò un intervento che con tutta
probabilità già conteneva in nuce le idee chiave più tardi elaborate in Problemy tvorčestva
Dostoevskogo del 1929 (cfr. Nikolaev 1992: 225-232). In seguito alla lettura della relazione,
Pumpjanskij trascrisse alcune riflessioni sulla tematica della responsabilità, evidentemente
toccata da Bachtin:

1. Le condizioni logiche della realtà morale sono state stabilite da lui [Bachtin] senza
possibilità di errore e si riassumono nella parola: responsabilità.
2. Ma quali sono le condizioni di queste condizioni, ovvero su quali strade, ovvero dove
(ubi, quo loco) cercare la loro possibile realizzazione?
3. In primis, queste strade esistono e la realtà etica esiste, perché in caso contrario… De-
scartes…
4. In secundis, l’essere reale, come qualcosa di completamente fondato, non può essere
se non è eterno, ovvero non precede metafisicamente ogni altro essere; esso dunque è
sempre stato, sempre è e sempre sarà. Esso non è una realtà perfettissima, è l’unica realtà
(esisteva prima del peccato originale, è diventato grazie ad esso invisibile; si fa sempre più
evidente dalla metà del processo storico e regnerà nuovamente con la sua fine).
5. Ma dove cercare l’essere morale [nravstvennoe bytie]? Visto che esso è invisibile (come
detto sopra), vederlo è impossibile, per quanto ci si sforzi (escludiamo la fede, quella che
muove le montagne). Occorre cercare delle vie traverse.
6. Visto che la realtà etica non soltanto esiste, ma esiste come unica, tutto ciò che è esiste
esclusivamente in relazione a essa… Perfino il relativismo… A maggior ragione il simbo-
lismo vive come simbolizzazione della vera realtà e non altrimenti… Ne consegue che
nei simboli possiamo trovare un alfabeto accessibile del reale (una trascrizione latina del
sanscrito!). Dunque, [rechiamoci] nel mondo dei simboli!
7. Si cercano le condizioni della responsabilità del reale? Volgiamoci alle condizioni della
responsabilità simbolica!12

in Bachtin la bibliografia è sterminata. Si rimanda in questa sede alla voce nravstvennost’ contenuta
nell’indice del primo tomo della raccolta di scritti di Bachtin Filosofskaja ėstetika 1920-1930-ch e fra
gli studi italiani a De Michiel 2001; Sini 2011: 38-45.
12
“1. Логические условия нравственной реальности им установлены безошибочно и
сводятся к слову: ответственность. 2. Но каковы условия этих условий, т. е. на каких путях,
т. е. где (ubi, quo loco) искать возможного их осуществления? 3. Во-первых, эти пути есть и
нравственная реальность есть, потому что в противном случае... Декарт... 4. Во-вторых, дей-
ствительное бытие, как сплошь обоснованное, не может быть, не будучи от века, т. е. не пред-
шествуя метафизически всякому иному бытию; итак, оно всегда было, есть и будет; оно толь-
ко не совершеннейшая, но единственная реальность; (оно было до грехопадения, перешло
в невидимое состояние, благодаря ему, становится все очевиднее с середины исторического
процесса и воцарится снова с окончанием его). 5. Но где же искать нравственное бытие? Так
как оно (по объясненному выше) невидимо, то, как ни старайся, его не увидишь (исключается
Il paradigma dell’antico. Lev Pumpjanskij e la classicità 169

Il chiaro influsso neokantiano porta Pumpjanskij a ritenere che non esista simbolo
senza etica e responsabilità: se il poeta agisce con etica, responsabilità e moralità, riesce a
cogliere il simbolo e a trasformarlo in poesia.
Da solo, però, il simbolo così definito non è considerato sufficiente da Pumpjanskij
per esprimere la realtà noumenica: esso necessita di essere elaborato e trasformato in rac-
conto affinché, parafrasando Ivanov, la folla possa percepirlo e farlo diventare patrimonio
comune. Sulla scorta della tradizione filosofica da Schelling fino a Creuzer e Bachofen,
Pumpjanskij stabilisce che ciò che traduce il simbolo in immagine del mondo è il mito. Al
mito viene attribuita pertanto una funzione esegetica, poiché solo a partire da esso il sim-
bolo diventa concepibile agli occhi del poeta: “I grandi poeti pensano in forma di mito e i
loro pensieri sono simboli”13.
Oltre a permettere la fruizione immediata del simbolo, il mito è concepito da
Pumpjanskij come un prodotto del processo storico ed è in tale prospettiva che esso assu-
me valore estetico (cfr. Pumpjanskij 2000c: 751); in questo modo il mito conserva le tracce
di due importanti fenomeni storico-culturali-religiosi: i culti arcaici consacrati alla Grande
Madre e quella che viene considerata la grande religione greca del dio sofferente, torturato
e ucciso dalla dea madre e sposa, quello stesso dio di cui scrive Ivanov in La religione ellenica
del dio sofferente (Ėllinskaja religija stradajuščego boga, 1907). Il lessico e le nozioni utilizzati
da Pumpjanskij sono infatti gli stessi che costellano il noto saggio ivanoviano; non a caso,
la concezione ivanoviana di mito viene citata direttamente (cfr. Pumpjanskij 2000d: 760).
Sul primo punto, vale a dire sui culti rivolti alla Grande Madre – elemento che peral-
tro contraddistingue la lettura del mito data da Pumpjanskij rispetto a quella offerta da Iva-
nov, tutta concentrata sul dio sofferente –, Pumpjanskij non fornisce descrizioni dettaglia-
te: le sue laconiche affermazioni, tuttavia, permettono di affermare che il richiamo al culto
della Grande Madre testimonia la centralità attribuita al principio tellurico nella storia del
mito. Questo assunto autorizza a motivare l’affiliazione di Pumpjanskij all’interpretazione
bachofeniana14, secondo cui solo la supremazia del principio tellurico – tradottasi nella

адекватная вера, та, что движет горами), а нужно искать косвенных путей. 6. Так как нрав-
ственная реальность не только есть, но есть единственно, всякое другое бытие живет лишь
соотносительно ей... Даже релятивизм... Тем более символизм живет как символизация ис-
тинной реальности и не иначе... Следовательно, в символах мы можем найти доступную азбу-
ку реального (лат. транскрипция санскрита!). Итак, в мир символов! 7. Ищутся условия ответ-
ственности реального? Обратимся к условиям ответственности символической!” (Nikolaev
1992: 228). La discussione seguita all’intervento di Bachtin su Dostoevskij mette nuovamente in
evidenza la centralità degli incontri del Circolo di Nevel’ tanto nell’opera di Bachtin quanto in
quella di Pumpjanskij e Kagan. Al 1919 appartengono non a caso molti contributi di Pumpjanskij – e
anche di Kagan – consacrati a questioni assai affini a quelle affrontate da Bachtin.
13
“Великие поэты думают мифами, и их мысли суть символы” (Pumpjanskij 1997b).
14
Pumpjanskij lesse Il matriarcato (1861) tra il 20 aprile e il 20 dicembre 1925, ma anche negli
anni precedenti, soprattutto tra il 1919 e il 1920, doveva essere stato influenzato dall’interpretazione
di Bachofen sul simbolo e il mito. Cfr. Spisok.
170 Giuseppina Larocca

supremazia del matriarcato – consente di salvare il mondo e di rinnovare il simbolo, dando


la possibilità all’uomo di vivere una dimensione perfetta e di non cadere nel cosiddetto
“relativismo” o “individualismo”.
Se, quindi, il dominio matriarcale15 garantisce una stabilità etico-religiosa alle civiltà, va
da sé che il principio uranico incarnato da Dioniso porta all’affermazione del patriarcato e,
di conseguenza, alla fine di una società fondata sulla sacralità cosmico-storica: una vittoria
di Dioniso porterebbe a una realtà priva di simboli (cfr. Pumpjanskij 1997c). Perché il dio
maschile non vinca, egli deve essere torturato e ucciso dalla Grande Madre, la quale, quindi,
con l’assassinio compie una tragedia. Il principio tragico che, secondo Pumpjanskij, anima la
tragedia parte proprio da questo assunto, cioè dal compimento di un omicidio o, per meglio
dire, dal compimento dell’omicidio per antonomasia, l’assassinio del dio da parte della dea, la
morte del personaggio maschile per opera di quello femminile (cfr. Pumpjanskij 2003: 129).
Non è da sottovalutare il fatto che questa centralità della figura femminile si collochi
in una determinata evoluzione storica che parte dalla comprensione dell’origine del mito
stesso e si sviluppa presso gli elleni, penetrando successivamente nella cultura europea. È
questa la prospettiva che più interessa Pumpjanskij, una prospettiva che potremmo defini-
re bifronte: essa cerca di conoscere il mito da un punto di vista temporale – indagandone
prima l’origine e poi lo sviluppo – e tenta di analizzarne il contenuto in senso spaziale. Tut-
tavia, il peso assunto dalla dimensione temporale in tale prospettiva supera di gran lunga
il peso di quella spaziale, presa in considerazione solo in conseguenza della prima (come
il tempo nel cronotopo di Bachtin). Per Pumpjanskij il mito rappresenta storicamente la
prima forma di narrazione poi trasferitasi nel genere della tragedia; è dalla tragedia che ha
origine uno dei problemi più cari al critico per tutti gli anni seguenti, ovvero la stratifica-
zione dei generi letterari (commedia, racconto, novella e romanzo)16.

3. La tragedia tra antichità e modernità


L’interesse che Pumpjanskij riserva alla tragedia può essere rintracciato nei suoi scritti
redatti tra il 1919 e il 1922, soprattutto quelli più aforistici o composti in forma di appunti
(Pumpjanskij 1922; 1997a; 1997b; 1997c).

15
La centralità della figura femminile nelle società slave era evidentemente un tema caro a
Pumpjanskij come ad altri critici della sua generazione e oltre. Essa permette di riflettere sulle radici
antropologiche degli slavi e sulle differenze con le altre civiltà europee. Si rimanda al classico studio
di Gasparini sul matriarcato del 1973 poi riedito nel 2010.
16
Questo legame fra mito e storia, così profondo nel Pumpjanskij di fine anni ‘10, richiama
il saggio di Kagan Sul corso della storia (O chode istorii) scritto nel febbraio-marzo 1920 a Nevel’
di cui Pumpjanskij era sicuramente a conoscenza. Seguendo il dettato di Natorp, in esso Kagan
affida al mito una funzione prettamente storica, svalutando la dimensione più religiosa presente
invece in Ivanov. Cfr. Kagan 2004: 250, 251; Machlin 2004: 688; Nikolaev 2000b. Allo stesso modo
Pumpjanskij accoglie l’idea neokantiana di processo evolutivo e comprende il mito in prospettiva
diacronica, indagandone le radici storiche.
Il paradigma dell’antico. Lev Pumpjanskij e la classicità 171

Nella tragedia Pumpjanskij individua le due volontà (dve voli) (Pumpjanskij 1997c:
7), intendendo con esse la dicotomia tra necessità e libertà formulata da Schelling nelle
Lettere filosofiche sul dogmatismo e il criticismo (1795) che porta il filosofo tedesco alla di-
samina analitica della nozione di tragico e, in particolar modo, all’interpretazione della
tragedia di Edipo, considerata la massima espressione di lotta. Nell’esposizione di entrambi
i concetti, Schelling dimostra l’indipendenza nella tragedia greca dell’oggetto dell’azione
dal suo soggetto. L’oggetto è governato da norme che vanno oltre la libertà e l’esperienza
dell’individuo, ovvero da una forza impenetrabile alla ragione umana, presente sotto forma
di fatum sovrapotente (сfr. Schelling 1976: 91).
Attingendo a questa tradizione, la necessità (neobchodimost’) di cui scrive Pumpjanskij
è legata alla nozione di fato (rok) che nella sua accezione di ἀνάγκη limita e condiziona l’a-
zione dell’eroe tragico: è il fato una delle peculiarità della forma tragica (cfr. Pumpjanskij
1997a: 3, 4). Nel suo significato di ἀνάγκη, esso si pone dunque nella tragedia come una ne-
cessità che sovrasta ogni umana razionalità; è una condizione indispensabile della tragedia
(neobchodimoe uslovie tragedii) (Pumpjanskij 1997a: 4) portatrice di dolore e sofferenza, di
fronte alla quale la capacità umana si interroga sulla giustizia delle proprie azioni. Questa
situazione colloca l’eroe tragico di fronte alla propria coscienza, lo lacera fino a renderlo
consapevole dell’ineluttabilità della caducità e del dolore nel divenire umano.
A tal proposito Pumpjanskij confronta tre diversi contesti letterari in cui l’eroe si mi-
sura con la propria coscienza: Edipo dopo essersi scoperto assassino del padre, Oreste di
fronte al matricidio e Amleto dopo l’omicidio dello zio Claudio (cfr. Pumpjanskij 1997b).
Comune denominatore di queste tre differenti realtà è il cosiddetto motivo etico-religio-
so del parricidio (religiozno-nravstvennyj sjužet otceubijstva)(ibidem) ovvero il momento
dell’assassinio come momento di riconoscimento dell’autocoscienza.
Insieme al fato, nella tragedia Pumpjanskij individua altri due elementi compositivi:
l’assassinio (definito anche spargimento di sangue) e il giudizio.
L’assassinio compiuto nella tragedia è nuovamente messo a confronto con quelli che
si compiono in Amleto, Delitto e castigo e I fratelli Karamazov. Nelle opere di Shakespeare
e Dostoevskij viene meno la costante formale preponderante nella tragedia attica, il fato.
I delitti commessi da Amleto, Raskol’nikov e Smerdjakov non sono dettati da inelutta-
bili circostanze esterne all’eroe come nella tragedia, ma sono sempre una libera scelta dei
protagonisti che, ribellandosi a un progetto prestabilito, commettono un’azione politica
di palingenesi sociale: Amleto assassina lo zio Claudio perché usurpatore del regno del
padre, Raskol’nikov premedita l’omicidio e veste i panni di un organizzatore sociale e il
servo Smerdjakov uccide il vecchio padrone (Fëdor) per riconoscerne uno nuovo (Ivan)
(cfr. Pumpjanskij 2003: 133).
Rispetto a quanto accade nella tragedia greca, in Amleto, Delitto e castigo e I fratelli
Karamazov è l’eroe con la sua psicologia, le sue scelte e la sua personalità a combattere con-
tro un disegno già tracciato e inevitabile, che ora egli stesso intende superare. Pumpjanskij
ha quindi ragione di credere che quando l’omicidio di cui si macchia il protagonista con-
serva intrinsecamente il valore di ribellione, l’azione si connota come politica ed è il se-
172 Giuseppina Larocca

gnale di una nuova epoca definita “tardo Rinascimento” o “individualismo romantico”


(Pumpjanskij 2003: 125, 131-133, 139), in cui viene meno il rapporto di sudditanza aedo /
Musa tipico dell’antichità.
Attraverso il significato attribuito all’assassinio nelle opere di Shakespeare e Dosto-
evskij si evince il valore assegnato da Pumpjanskij all’assassinio all’interno della tragedia.
Esso viene presentato come un’azione carica di un doppio significato: 1) si conferma il mo-
mento in cui l’eroe tragico porta forzatamente a termine il volere del fato e 2) diventa un’a-
zione riconosciuta (più tardi, sul finire degli anni ’20, definita “qualificata”, kvalifikacionnyj
postupok, Pumpjanskij 1929: 10) e giudicata dall’Areopago. È per questo che alla nozione di
assassinio lo studioso affianca quella di giudizio.
Per giudizio Pumpjanskij intende la dichiarazione vincolante della volontà della legge
espressa per mezzo di un’istituzione legale, il tribunale, al quale è demandato il riconosci-
mento o meno della colpevolezza di un individuo. È infatti con questa motivazione che nel-
le Eumenidi di Eschilo l’Areopago viene creato da Atena in occasione del processo contro
Oreste accusato di matricidio. In Dostoevskij e l’antichità il riferimento all’istituto ateniese
occupa uno spazio assai limitato, ma comunque determinante per comprendere la diffe-
renza fra il tribunale dell’età classica e quello dell’età moderna e, nello specifico, il tribunale
rappresentato da Eschilo e quello chiamato a decidere il destino di Dmitrij Karamazov:
“Ma quale differenza fra la seduta dell’areopago in Eschilo e quella del giudizio dei giurati
[in Dostoevskij – gl]!” (Pumpjanskij 2003: 150). A differenza della tragedia eschilea, nel
romanzo dostoevskiano lo spargimento di sangue viene considerato da Pumpjanskij alla
stregua di un assassinio politico: Smerdjakov è il servo che insorge contro il suo stato di su-
balternità. Il giudizio del tribunale non riguarda solo l’assassinio (un evento già accaduto),
ma la lotta politica tra Smerdjakov e Fëdor Karamazov. La dialettica servo-padrone pro-
fetizzata da Dostoevskij nel romanzo è infatti destinata a perpetuarsi nel corso dei secoli.
Di conseguenza, i giurati dostoevskiani non possono individuare il vero colpevole, perché
l’ostilità di classe (vražda klassovaja) non ha raggiunto la sua acme (cfr. ibidem: 149, 150).
Fondandosi sull’analogia tra Eschilo e Dostoevskij, Pumpjanskij giunge a sostenere
che il giudizio emesso dal tribunale definisce la condizione dell’individuo il quale si qua-
lifica di fronte allo Stato. È questo stesso motivo della qualificazione dinnanzi allo Stato
a ritornare qualche anno più tardi nei saggi su Turgenev, in cui Pumpjanskij fa uso delle
espressioni “azione qualificata” (Pumpjanskij 1929: 10) e “giudizio statale” (gosudarstvennyj
sud)(ibidem) per definire il romanzo dostoevskiano, nettamente diverso da quello di Tur-
genev, in cui il crimine di sangue non riveste alcun ruolo significativo.
Un simile sistema concettuale permette a Pumpjanskij di compiere un ulteriore passo
in avanti. Dopo aver riconosciuto al fato il ruolo centrale all’interno della tragedia, sconfes-
sa la teoria del romanzo-tragedia applicata alle opere di Dostoevskij da Ivanov.
Pur riconoscendo a Ivanov il merito di aver avviato un nuovo studio dell’opera dosto-
evskiana, mettendone in relazione i nessi con il repertorio dell’antičnost’, Pumpjanskij gli
rimprovera la convinzione che i romanzi di Dostoevskij riproducano lo spirito delle tragedie
greche (Pumpjanskij 2003: 126). Al contrario di quanto affermato dal teorico del simboli-
Il paradigma dell’antico. Lev Pumpjanskij e la classicità 173

smo, Pumpjanskij sostiene che i romanzi di Dostoevskij non siano affatto imparentati con il
genere tragico. Dostoevskij rielabora autonomamente due delle caratteristiche della tragedia
– l’assassinio e il giudizio – ma ne tralascia interamente la colonna portante, il fato.
Nella lettura di Pumpjanskij, l’operazione proposta da Dostoevskij non è quella di
rinnovare il canone della tragedia, ma di sostituire a esso nuovi elementi come, specie per
quanto riguarda I fratelli Karamazov, l’amore (quello di Katerina Ivanovna per Ivan, quello
di Dmitrij per Grušen’ka, a sua volta amata da Fëdor) e il denaro a cui è legato il tema del
“napoleonismo”. Sono queste le uniche due ragioni che modulano e regolano le azioni dei
personaggi (cfr. Pumpjanskij 1997a: 4; 1997b).
Vi è, secondo Pumpjanskij, un’ulteriore caratteristica a distinguere i romanzi di Do-
stoevskij dalla tragedia greca: la comparsa di un impostore, tema che lega Dostoevskij
alla pratica narrativa di Puškin e Gogol’. Se nell’ottica ivanoviana Smerdjakov reca i trat-
ti del figlio assassino del padre, aderendo così alla struttura consueta della tragedia, per
Pumpjanskij egli è il servo ribellatosi al padrone uccidendolo, perché istigato dalle teorie
nichiliste del fratellastro Ivan. Non solo. Secondo Pumpjanskij, visto lo svelamento finale
dell’identità di Smerdjakov, il lettore assiste a un vero e proprio rovesciamento, a un colpo
di scena. Smerdjakov è un impostore, perché da servo si trasforma in figlio illegittimo (cfr.
Pumpjanskij 1997b; 1997c: 9).
La figura dell’impostore rappresenta per Pumpjanskij un personaggio che Dostoevskij
ha ereditato interamente da Puškin (ne sono esempio i falsi Dmitrij, Pugačëv, il cavaliere
avaro, Salieri), non più cantore della storia universale (il mito), ma autore di eroi realmente
esistiti (Boris Godunov, Mozart, Salieri) e realtà storicamente determinate (la Moscovia di
inizio xvii secolo, l’Austria del Settecento, l’Inghilterra medievale flagellata dalla peste, la
Spagna del Siglo de Oro). Questa pratica verrà tramandata a Gogol’ e cesserà di esistere con
l’affermazione del romanzo storico (cfr. Pumpjanskij 1997a: 4).
Tutte queste ragioni – l’elemento politico, la presenza di un impostore e il suo sma-
scheramento – allontanano la trama e la struttura dei romanzi dostoevskiani dal modello
tragico, ne relativizzano i contenuti, abbandonano il mito come rivelazione del simbolo e
scavano esclusivamente una dimensione storica, circoscritta alla storia di un popolo che
non potrà mai essere assunta come modello universale: “Ma dov’è la tragedia? è incomple-
ta… Un quasi mito, ma incompleto, perché c’è già umbratilità”17.
In virtù di tutti questi motivi, Dostoevskij, nella concezione di Pumpjanskij, non può
essere definito un artista tragico.

4. Muse, stile, entusiasmo


L’immagine della Musa ispiratrice del canto del poeta è il primo topos che definisce
la letteratura antica. Il classicismo russo per Pumpjanskij nasce con l’assunzione del culto

17
“Но где же самая трагедия? Она неполна […] Почти миф, но неполный, потому что
тенеобразность уже есть”. Pumpjanskij 1997a: 4.
174 Giuseppina Larocca

delle Muse (cfr. Pumpjanskij 2000b: 35). Così come Omero nell’Iliade e nell’Odissea ed
Esiodo nella Teogonia, ma anche similmente ai poeti tardo arcaici come Pindaro, il poeta
è capace di riprodurre il canone dell’antico / classico ed è colui che canta un catalogo di
eventi solo perché prescelto dalle Muse. Il primo ad aver presentato queste caratteristiche e
ad aver assolto a questo compito è stato Lomonosov, con cui l’entusiasmo si manifesta per
la prima volta nella letteratura russa:

“Un improvviso entusiasmo si impossessò della mente”: e qui si tratta non di un ‘falso
classicismo’, ma di vero ‘entusiasmo’ dionisiaco, che ‘canta’ la realtà e non il ‘falso classi-
co’. […] Questo entusiasmo tipicamente dionisiaco fu l’inizio della cultura tragica russa
(Pumpjanskij 2003: 127)18.

Concepito come una sorta di θυμός, ora carico di tinte nietzschiane e allusioni all’e-
saltazione prodotta dalla riscoperta dell’antichità tipica del Rinascimento europeo19 (cfr.
Pumpjanskij 2003: 127, 1983a: 44, 2000b: 31), l’entusiasmo di Pumpjanskij svolge un
ruolo cruciale nella mediazione tra poeta e simbolo: come formulato in Dostoevskij e
l’antichità, scritto nel 1922, ma pensato a Nevel’ sulla base dei due interventi dedicati a
Dostoevskij del 191920, il simbolo si manifesta all’artista / poeta solo se questi raggiunge
il momento del dionisiaco “entusiasmo”, si immerge nei simboli e ne estrapola la verità
(Pumpjanskij 1997c: 10)21.

18
“Восторг внезапный ум пленил” è, com’è noto, il primo verso dell’Oda na vzjatie Choti-
na, mentre “пою” si riferisce al cantare in generale dell’aedo, anche se è pure l’incipit del verso “Пою
перед тобой в восторге похвалу” del Pis’mo o pol’ze stekla (Lettera sull’utilità del vetro, 1752).
19
La nozione di “entusiasmo” gode di una tradizione letteraria già presente, in riferimento
alla poesia, in Platone, e nella filosofia soprattutto tedesca, in particolar modo nel concetto di “me-
raviglia” formulato nell’Estetica di Hegel, opera e autore ben noti a Pumpjanskij. Hegel tesse l’elogio
della “meraviglia” quando vede in essa il momento in cui ha inizio l’intuizione artistica o religiosa e
dunque il momento della ricerca. Cfr. Hegel 1997, i: 356, 357. Nonostante questa analogia, è tutto di
Pumpjanskij il percorso in cui l’entusiasmo del poeta (a cui è associata la produzione dell’ode) viene
equiparato alla follia dell’eroe (Amleto come Raskol’nikov, protagonisti, invece, della produzione
in prosa). Cfr. Pumpjanskij 2003: 134, 138.
20
Dostoevskij poeta tragico (Dostoevskij kak tragičeskij poėt), Breve intervento sulla discussio-
ne in merito a Dostoevskij (Kratkij doklad na dispute o Dostoevskom) rispettivamente Pumpjanskij
1997a e 1997b.
21
Le considerazioni sull’intelligibilità e la sensibilità del simbolo potrebbero dimostrarsi
affini anche all’itinerario cassireriano anticipato in Sostanza e funzione (1910) e sviluppato nella
Filosofia delle forme simboliche (1923-1929), in cui Cassirer giustificava l’esistenza del simbolo solo at-
traverso la doppia dimensione sensibile-intelligibile, poiché a esso è riconosciuta sia una fisicità che
una valenza gnoseologica. Cfr. Cassirer 1961, i: 20. Come attesta l’elenco delle letture fra il gennaio
e il giugno 1923, Pumpjanskij lesse Libertà e forma. Studi sulla storia spirituale della Germania (1917)
del filosofo tedesco. Archivio privato di Lev Pumpjanskij, San Pietroburgo.
Il paradigma dell’antico. Lev Pumpjanskij e la classicità 175

Come si è detto, ciò avviene per la prima volta nella letteratura russa attraverso l’opera
di Lomonosov. Con una terminologia intrisa di simbolismo Pumpjanskij spiega la compar-
sa del vostorg nell’Ode per la presa di Chotin:

Per capire l’origine della geniale questione del 1739 occorre immaginare l’istante me-
desimo in cui l’entusiasmo per l’Occidente all’improvviso (esplosione) si trasformò in
entusiasmo per se stessi come paese occidentale. […] I russi compresero se stessi: già da
quarant’anni sapevano di tendere alla grandezza, ma all’improvviso, nel percorrere que-
sto cammino verso la grandezza, essi compresero di essere già grandi. Fu un momento
decisivo nella storia della cultura, poiché il momento in cui si concepisce la propria gran-
dezza è già il momento delle Muse. E il primo indizio della presenza delle muse è lo stile22.

Oltre alle Muse, il tassello necessario per comporre il mosaico della classicità è ciò che
Pumpjanskij definisce “stile”.
Lo stile è considerato un dono supremo delle Muse (Pumpjanskij 2000b: 54, 56) e di
conseguenza ne simboleggia la presenza. Ma esso è anche “il tratto che divide l’arte dalla
realtà, la corona dell’inaccessibilità intorno alla scena dell’arte”23, ovvero un insieme di tec-
niche e strumenti che permettono al poeta di allontanarsi dalla realtà sensibile (relativa) di
cui egli stesso è parte24.

22
“Чтобы понять происхождение гениального дела 1739 г., надо вообразить ту первую
минуту, когда восторг перед Западом вдруг (взрыв) перешел в восторг перед собой, как запад-
ной страной. […] Русские поняли себя они уже сорок лет знали, что стремятся к величию, но
вдруг, на этой пути к величию, понято собственное величие – это была решающая в истории
культуры минута, потому что минута постигнутого величия себя есть уже минута Муз. А пер-
вый признак присутствия Муз – стиль [...]” (Pumpjanskij 2000b: 54, 55). Trad. italiana di Guido
Carpi. Carpi 2010: 84, 85. La prima riga della traduzione è mia (“Per capire l’origine della geniale que-
stione del 1739 occorre immaginare”).
23
“черта, отделяющая художество от реальности, ободок недоступности вокруг сцены
искусства” (ibidem: 55).
24
Il concetto di “stile” risente evidentemente dell’idealismo e del romanticismo tedesco (in
particolare, la linea di continuità che lega Kant a Schiller), nonché della loro ricezione in Russia
ad inizio secolo. Un diretto riferimento potrebbe essere l’idea di “stile” formulata da Schiller nelle
Kalliasbriefe, autore e testo che Pumpjanskij sicuramente conosce e ha letto (al neoumanesimo schil-
leriano si riferisce con il termine “немецкий моральный гуманизм”, ‘umanesimo morale tedesco’,
Pumpjanskij 2000b: 665). Nella contrapposizione di reale e ideale, che nella concezione schilleriana
si saldano in un unico spirito vivente, in un tutt’uno organico, Schiller rileva l’importanza attribuita
all’artista in quanto medium fra materia e forma, fra ciò che è appunto sensibile e ciò che è invece
intelligibile. Nel riprodurre la forma, l’artista deve imitare l’ideale senza però contaminarlo con la
sua soggettività, altrimenti rischia di snaturarne l’essenza profonda. Se questo accade, scrive Schiller,
significa che a prevalere non è lo stile, ma la “maniera”, cioè il tratto soggettivo dell’artista, il suo
peculiare gusto. Schiller 1976: 291, 292. Le affermazioni di Pumpjanskij sullo “stile” come fenomeno
dell’arte ricordano anche le affermazioni di J.J. Winckelmann nella Storia dell’arte nell’antichità
176 Giuseppina Larocca

Per emulare l’antichità il poeta deve rinunciare alla propria individualità di cantore e
ricorrere al principio oggettivo dello stile che gli fa modellare forme artistiche il più possi-
bile vicine ai concetti di armonia e perfezione, tratti peculiari della cultura greca. Al poeta,
quindi, è richiesto l’annullamento della propria personalità e la totale dedizione al pro-
getto dettato dalla Musa. In qualche misura, tuttavia, l’individualità del poeta sopravvive
a questo percorso verso l’alto, nel momento in cui egli prende coscienza della superiorità
dello stile25, lasciandosi travolgere dall’entusiasmo dionisiaco (Pumpjanskij 2003: 127).
In conclusione, possiamo affermare che simbolo, mito e tragedia, così come l’invoca-
zione alle Muse, lo stile e l’entusiasmo, risentono chiaramente della terminologia e dell’e-
stetica simbolista (ivanoviana principalmente, sebbene in dialettica con essa), nonché della
filosofia idealistica e della filologia tedesca (prevalentemente romantica) filtrate in Russia
sul volgere del nuovo secolo, e si interrogano ancora una volta sul rapporto tra letteratura
ed estetica. Non di meno, il dialogo con il patrimonio intellettuale russo, da una parte,
e germanico, dall’altra, mette in luce le due dimensioni di riferimento grazie alle quali
Pumpjanskij intraprende una riflessione sulla centralità dell’Antico nella genetica di stili
e generi letterari. Il tentativo di collocare Lomonosov in questa lettura evidenzia il nesso
che Pumpjanskij istituisce fra antichità e modernità, poi esteso – negli scritti fra gli anni
’20 e ’30, debitori dei lavori di fine anni ’10 – ai poemi e ai racconti di Puškin, alle comme-
die di Gogol’, ai romanzi di Dostoevskij e a quelli di Turgenev, persino alle opere di Oleša
(Pumpjanskij 1931) e, per la letteratura straniera, a quelle di Proust (Pumpjanskij 1998).
L’interesse nei confronti delle dinamiche storico-letterarie russe si salda alla necessità
di comprendere la formazione della stilistica e dei generi letterari in Russia come in Europa
in consonanza con la ricerca di una teoria letteraria propria di quegli anni. Il contributo

(1764). In essa le riflessioni del critico tedesco sullo stile e sull’arte in generale si articolano su un
doppio binario: da una parte, lo stile viene inteso all’interno di ciò che si definisce “un sistema dot-
trinale”, ovvero un edificio teorico, e, dall’altra, ne vengono ritracciate le radici nel sistema “della
storia dell’arte in senso stretto” ovvero nella linea dello sviluppo storico, dove lo stile costituisce
l’oggetto specifico. Winckelmann 1990: 17.
25
Questo percorso che porta alla definizione di stile è affine a ciò che più tardi Bachtin, defi-
nendo il significato di romanzo (con particolare riferimento ai romanzi di Dostoevskij), aveva chia-
mato “memoria oggettiva del genere”. Bachtin 20022: 158. Riprendendo Bachtin, Sergej G. Bočarov ha
rielaborato la formula in “memoria genetica della letteratura” (genetičeskaja pamjat’ literatury) ovvero
un “codice genetico ereditato” (nasledstvennyj genetičeskij kod). Bočarov 2012: 16. In un procedimento
assai simile il poeta/aedo, per Pumpjanskij, non fa altro che recuperare attraverso la propria coscienza
un sistema di segni, un genere che giace nella sua memoria e che lo porta a dar vita a un rinnovamento
poetico. Anche Averincev nota come nella letteratura greca l’autorialità (avtorstvo) sia una categoria
legata al concetto arcaico di autorità (si pensi ai salmi di Davide, agli inni di Omero, alle favole di
Esopo nella fase che Averincev definisce “tradizionalismo preriflessivo”, doreflektivnyj tradicionalism).
L’autorialità si evolve in “stile individuale” (indivual’nyj stil’) nel momento in cui l’autore prende co-
scienza di sé (è questo il passaggio al “tradizionalismo riflessivo”, reflektivnyj tradicionalizm), ponendosi
nei confronti del passato in un rapporto di aemulatio. Cfr. Averincev 1981: 4, 5.
Il paradigma dell’antico. Lev Pumpjanskij e la classicità 177

di Pumpjanskij nel più ampio contesto critico del tempo si distingue, pertanto, per una
prospettiva volta a definire, soprattutto attraverso il significato attribuito ad antichità e
classicità, un enciclopedismo delle ipotesi (ėnciklopedizm gipotez) (Pumpjanskij 2000b:
33), uno spazio unico, composto da elementi eterogenei raggruppabili tipologicamente in
determinati momenti storici. In siffatto spazio si incontrano e dialogano culture e lettera-
ture diverse, tutte figlie, per usare un termine a caro a Pumpjanskij, della stessa Musa.

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182 Giuseppina Larocca

Abstract

Giuseppina Larocca
The Paradigm of Antiquity. Lev Pumpjanskij and ‘Classicality’

The article is devoted to the role of antiquity in Pumpjanskij’s works with special attention
to those contributions written between 1919 and 1922. Pumpjanskij is one of the prime examples
of writers who link the world of literary study (in part, a world of genres and texts) with the philo-
sophical world (in part, a world of analyses and arguments) in order to identify and map common
aspects of antiquity and modernity into a general theory of literature.

Keywords

Literary criticism; twentieth-century Russian aesthetics; Bachtin’s circle.


© 2018 Author(s). Open Access. This article is “Studi Slavistici”, xv, 2018, 1: 183-196
distributed under the terms of the cc by-nc-nd 4.0 doi: 10.13128/Studi_Slavis-20514
Submitted on 2016, September 19th issn 1824-761x (print)
Accepted on 2017, June 9th issn 1824-7601 (online)

Vesna Vukićević-Janković

Kišov pohod u sjećanje svijeta

O složenom književnom opusu Danila Kiša (1935-1989) postoji velika kritička litera-
tura, koja obuhvata više od trideset monografija, isto toliko zbornika radova sa međuna-
rodnih književnih skupova, kao i mnogobrojne članke, eseje i prikaze. Značajno je istaći da
se kritički osvrti na ovog pisca i njegovo djelo oblikuju na dva suprotstavljena kritička pola,
od čega jedan obuhvata rezultate dominantno zastupljene afirmativne kritike (nastajale u
periodu od 1963. do 2015. godine) dok se drugi nalazi na polu manje zastupljene ospora-
vajuće kritike, pokrenute nakon izlaska iz štampe Grobnice za Borisa Davidoviča (1976)1.
Zbirka pripovijesti/novela pod nazivom Enciklopedija mrtvih (1983) njegovo je posljednje
djelo2, kojim je dosegao svoju ranu poetičku težnju za oblikovanjem knjige koja će se moći
čitati i kao knjiga i kao enciklopedija (Kiš 1974: 68).
Svoju konstantnu poetičku tendenciju Kiš je autopoetički izložio kao spisateljski ide-
al da se kroz mali broj životnih podataka i mali broj riječi oblikuje vječna mitska knjiga.
Posežući za reverzibilnim čitanjem vidljivom simbolikom hasidimskog pohoda u sjećanje
svijeta, uz pomoć “magije riječi i čarolije neizrečenog” Kiš aktivira našu kulturnomemorij-
sku matricu i zahtijeva mentalni napor u odgonetanju “milosti uobličenja” (ibidem). Od
takvog ranog teorijski proklamovanog cilja, krećući se atipičnim stvaralačkim putem: od
romana ka noveli (up. Delić 1995: 29), Kiš je tematski i formalno težio da oblikuje knjigu

1
O kritičkim prilozima o Kišu opširnije piše Ivanović (2016: 99). Osporavanje Kiša kao pis-
ca započelo je 1977. godine i preraslo je u jednu od najvećih književnih polemika izraslih iz nerazu-
mijevanja za primijenjeni književni postupak u romanu Grobnica za Borisa Davidoviča (1976). Ovaj
roman je preveden na tridesetak jezika i o njemu su afirmativno pisala neka od najvećih književnih
pera poput Josifa Brodskog, Petera Esterhazija, Vilijama T. Volmana, Đerđa Konrada... Ono što je,
po izlasku iz štampe, napadano kao plagijat zapravo je bila najava postmodernističke upotrebe ci-
tatnosti i dokumentarnosti u književnom djelu. Iako je iz ove polemike, iz koje je proistekao njegov
magistralni Čas anatomije (1978) i u kojoj su na Kišovoj strani bili brojni pisci tadašnje Jugoslavije,
izašao kao pobjednik, Kiš se od toga nikada nije oporavio. Napadi na njega nastavljani su iz ideološ-
kih razloga o čemu svjedoči i Britanac Mark Tomson u knjizi Birth Cetrificate: The Story of Danilo
Kiš (Izvod iz knjige rođenih: Priča o Danilu Kišu, prev. M. Bazdulj, Beograd 2014), nagrađene od
strane Instituta za evropske studije nagradom “Lora Šenon” kao djelo koje stimuliše nove načine
razmišljanja o savremenoj Evropi. Prim. V.V.J.
2
Za Enciklopediju mrtvih Kiš je dobio Andrićevu nagradu (1984).

Vesna Vukićević-Janković (University of Montenegro) – teajankovic@t-com.me


The author declares that there is no conflict of interest
184 Vesna Vukićević-Janković

koja bi bila istovremeno “veličanstvena knjiga u raspadanju, knjiga koja se osipa i troši, pe-
ščanik-knjiga, vreme knjiga, sve(t)-knjiga” (Pijanović 2005: 80). Svoju prvobitnu riješenost
da ne komentariše Enciklopediju, Kiš je ubrzo preinačio brojnim poetičkim smjernicama
i iskazima o djelu, nastalim vjerovatno kao rezultat nezadovoljstva književnom kritikom
(up. Delić 1995: 324). Upravo zbog toga, metodološki pristup zahtijeva pregled relevantnih
kritičkih stavova o fenomenima Kišove naracije, što uz neophodan osvrt na piščevu auto-
poetiku, pruža uvid u mogućnosti pomjeranja interpretativnih modela književnog teksta.
Naslovom pripovjedačkog vijenca Enciklopedija mrtvih, Post scriptumom, kao i nizom
eksplicitnih poetičkih komentara, Kiš nastoji da intenzivira čitalačku recepciju. Kroz speci-
fično oblikovan fenomen hipermnemične iluzije, ulazimo u čitalački pohod koji uzdrmava
ustaljene predstave o životu i smrti, zaboravu i sjećanju, mitu, njegovoj upotrebi i zloupo-
trebi, o litereaturi i fikciji... Taj svoj idealni projekat uvjenčavanja i sažimanja pripovijed-
nog materijala predočenog u Enciklopediji, Kiš započinje heterodijegetičkom projekcijom
legendarne pripovijesti o Simonu Čudotvorcu. Ona predstavlja inicijalni signal koji ukazuje
na “gnostički sindrom odbacivanja vremena i istorije” (Eko 2001: 47). Nimalo slučajno, u
legendu o onome kojega “hrišćanski apologeti prikazuju kao prvog jeretika i preteču svih
jeresi” (Elijade 1991: 293-294), uvučeni smo posredstvom pripovijednog glasa koji se na sa-
mom početku tehnikom kadriranja zamrzava u slici uroborosa. Ovaj ikonički znak upućuje
na gnostička tumačenja simbola zmije koja je smatrana obnoviteljkom znanja i simbolom
suprotstavljanja materijalnom svijetu. Istovremeno, on upućuje na suštinu vremena kao
iskrivljene slike vječnosti: jer ne ide ka kraju, već se vraća ka početku (po principu: kraj je
početak). U Kišovoj naraciji apostrofirano je da su i vrijeme i prostor samo iluzije.
Gnostička legenda projektuje semantički disperzivan uticaj na ostale priče shvaćene
kao enciklopedijske jedinice. Kroz postuliranje sumnje kao temeljnog ljudskog pogona u
dolaženju do saznanja, Kiš pravi temeljnu rekonstrukciju kolektivne memorije i udrmava sve
predstave sisteme koji počivaju na stereotipima, predrasudama i totalitarističkim sistemima.
Njegov dekonstrutivni zahvat zadire u sveopštu memorijsku matricu zahvaljujuću osjećanju
“pobune protiv čovekove smrtnosti i protiv poretka koji vlada svetom”3. Uloga pisca kao
‘božjeg arhivara’ iz Časa anatomije podsjeća na drevne predstave Knjige svijeta ili Knjige mi-
robitija, u kojoj su zapisane sudbine svih ljudi od samog postanka. Kiš svoj poetički credo ek-
splicira na sljedeći način: “Pisac sad više ne prodire u svoje junake sa božanskim sveznanjem,
nego na način božjeg arhivara i zapisničara koji u času smrti vadi veliki protokol postupaka i
iz njih čita ,već zapisane’ postupke, misli i ideje svojih junaka!” (Kiš, 1978: 113).
Centralna priča istoimene knjige (kao zbirke narativno uobličenih registarskih jedi-
nica) – Enciklopedija mrtvih (čitav život) oblikovana je kroz kazivanje o čudesnoj enciklo-
pedijskoj snazi uskrsnuća života koja počiva na egalitarističkoj viziji “sveta mrtvih [...] a sa
namerom da se ispravi ljudska nepravda i da se svim Božjim stvorenjima dâ jednako mesto

3
Iz razgovora emitovanog na Radiju France Culture od 8. do 12. decembra 1986. pod na-
slovom La rage d’aimer de Danilo Kiš. Razgovor je vodio Š. Žilije, a prevela ga je M. Miočinović.
<http://www.danilokis.org/danas23-02-02.htm>.
Kišov pohod u sjećanje svijeta 185

u večnosti” (Kiš 1990a: 56). Sveobuhvatnost informacija koje su pohranjene među korice
enciklopedije, predstavljaju simulakrum apsolutnog pamćenja, čime se odbacuje i mehani-
zam selekcije u ljudskom trajanju. Ideal enciklopedijske forme kao hipermnemične jedinice
oslikan je u zgusnutom pripovjedačkom impresumu, koji je prepun znakova koji se opažaju
i uvezuju tek regresivnim čitanjem i uvezivanjem, sa nabrajanjima i tehnikom kišovskog
virtuznog kadriranja.
Autoreferencijalnim komentarima u Post scriptumu, fusnotama i u brojnim razgovo-
rima o svojoj knjizi, Kiš pravi neku vrstu paramnemičnog učitavanja značenja u gotov tek-
stualni zapis – čime se on percipira kao simulakrum apsolutne memorije. Kišovski napor
da apokrifnim pseudofaktom uzdrma selektivnost činjenica dolazi do izražaja u pokušaju
da se dočara ideal Hipermnesie, dakle (pot)pune memorije (up. Creet 2002). Jer, pamćenje
koje je zapisano, zarobljeno jeste ‘hipomnemično’, u čemu se podudaraju Ž. Derida i P.
Nora – uvijek bilježi manje od sjećanja i istovremeno uništava memoriju pretvarajući je u
institucionalnu formu (Creet 2002: 276).
Hipermemični efekat Kiš postiže semantičkim vezama na sintagmatskoj ravni i para-
digmatičnim ulančavanjem beskrajnog niza pojavnosti po enciklopedijskom ključu i to: “s
jedne strane zgušnjavanjem pojedinih fragmenata koji funkcioniraju kao sinegdohe, budu-
ći da impliciraju i ono što je izostavljeno. A s druge – po sebi naravno nedovršivim – meto-
nimijskim nizanjem tih sažetih isječaka stvarnosti” (Nicolosi 2013: 230). Ovakvo bilježenje
stvara i jedan sasvim neočekivan fenomen paramnezije (popunjavanja sjećanja), omogu-
ćen promjenom dijegetičke pozicije i zahvaljujući u diskurzivne strategije utisnutoj logici
ponavljanja, doprinoseći razaranju automatizacije u percipiranju vremenskih i prostornih
jedinica. Na taj način se manifestuje neka vrsta nelinearne, montažne, fragmentarne, plu-
ralne tekstovne i kontekstovne koegzistencije koja se ogleda, kako opisuje Kiš (1995: 218):

[…] u naglom, u vrtoglavom smenjivanju pojmova, po zakonima slučaja i azbučnog (ili


nekog drugog) sleda, gde se jedan za drugim tiskaju imena slavnih ljudi i njihovi životi
svedeni na meru nužnosti, životi pesnika, istraživača, političara, revolucionara, lekara,
astronoma itd., bogovski izmešana sa imenima bilja i njihovom latinskom nomenkla-
turom, s imenima pustinja i peščara, s imenima bogova antičkih, s imenima predela, s
imenima gradova, sa prozom sveta.

Kiš, dalje, insistira da čitalac traga za analogijama, prožimanjima, ekvivalencijama; da


ukršta semantička polja i dopunjava značenja uz mogućnost reinterpretacije i dekonstruk-
ciju ‘istorijske istine’. Na tom nivou postaje uočljiva i uloga ponuđenih pripovijesti kao
metaliteraturnih konstrukcija.
Primjera radi, na okvirima Enciklopedije mrtvih nailazimo na simptomatičnu projek-
ciju putovođe – gospođe Johanson iz Instituta za pozorišna istraživanja (koja je naratorkin
vodič i instruktor) sa portirom Kraljevske biblioteke, koji naratorku uvodi u tajanstveni
arhiv. Već ovdje vidimo analogiju sa obrisima mitologemskog putovanja koje se odvija pod
rukovodstvom jednog putovođe ili više njih, a poznatog iz antičkih i kasnijih evropskih
književnih obrada. Dalje, svežanj ključeva na alci koju portir drži u ruci identičan je ono-
186 Vesna Vukićević-Janković

me koju je dan ranije imao u rukama čuvar koji je naratorku uveo u Centralni zatvor, što
opravdava projekciju Kerbera u trenutku kada tog istog portira naratorka preimenuje u
čuvara zatvora. Kolebanje između logike realnosti i logike arhetipskih slika koje naviru
intenzivira se nakon što gospodin Kerber, nakon što je uvede u biblioteku, izlazi i zaključa-
va vrata, čineći da se bibliotečki prostor u naratorskoj fokalizaciji poredi sa kazamatom.
Projekcija utamničenosti preliva se u arhetipske projekcije puta u podzemni svijet i nastav-
lja se informacijom da su knjige: “kao u srednjovekovnim bibliotekama, vezane debelim
lancem za gvozdene karike na policama”, odnosno da su “okovane u negve, kao robijaši na
galijama” (Kiš 1990a: 52), pri čemu signalizira i da na lancima nije bilo lokota (ibidem).
Po principu približavanja, umnožavanja i umrežavanja značenja može se dovesti u vezu
i faraonska mumija sa kojom je upoređen iz mulja izvađeni jedrenjak Vasa nakon nekoliko
vjekova i paučina koja liči na prljavu iskidanu gazu koja se spuštala sa polica sa knjigama;
ali i upoređenje lanaca kojima su knjige vezane za police sa onima koje vezuju galiote; I
dalje – zamišljanje Enciklopedije kao “drevne knjige, knjige starostavne, Tibetanske knjige
mrtvih, Kabale ili Žitija svetaca u kojima mogu da uživaju samo pustinjaci, rabini i monasi”
i prašina na knjigama, ujedno su elementi na osnovu kojih pojedini kritičari percipiraju En-
ciklopediju kao oblik horor fantastike ili gotsku priču. Tome doprinosi i neobjašnjivi izvor
promaje u prividno zatvorenom prostoru (mogućem prolazu između dva svijeta), koje se
dovodi u vezu sa pećinskim izgledom prostora izbušenog u granitu Stjenovitih planina i
mormonskom bibliotekom (za koju osoba koja je sanjala san saznaje šest mjeseci nakon
košmarnog iskustva). Prostor pećine je i prostor priče u Legendi o spavačima, a ukoliko u
dalje ulančavanje uključimo opštekulturološko percipiranje značenja ovog prostora, dobi-
jamo brojne semantičke punktume. S tim u vezi, posebno je zanimljiv primjer (na koji uka-
zuje J. Creet) da u ovoj pećinskoj kondenzaciji značenja otkrivamo frojdovski oblikovane
predstave: tome, tomb, and womb (Creet 2002: 275).
I tajanstveno porijeklo rukopisa iz Knjige kraljeva i budala, koje eksperti pokušavaju
da razjasne, dajući protivrječne tvrdnje, svijetu se predočava kao istraživanje u fiktivnoj
arhivi “koja je neka vrsta predvorja pakla u koji se ne ulazi dvaput” (Kiš 1990a: 169), a ako
tome dodamo i iskaz: “Lična je biblioteka čovekova jedino ona što mu je ostala u sećanju
– kvintesenca, talog” (ibidem: 173), upadamo u vrtlog semiotičkih indukcija. To ukazuje
na različite mogućnosti uvida u ispripovijedani materijal, što aktivira i nove mogućnosti
tumačenja – zahvaljujući fenomenu paramneze, odnosno učitavanja u prostor teksta. Sa
druge strane, ovome doprinosi mogućnost ulančavanja, odnosno uvjenčavanja pripovijed-
nih jedinica. Najpotpuniji primjer popunjavanja praznina, dakle paramnezije, nailazimo u
eksplicitnom navodu iz Post scriptuma:

Taj zamišljeni esej o Protokolima raspao se sam od sebe onog časa kada sam pokušao da
dopunim, da domislim, one delove te mutne povesti koji su do dana današnjeg ostali u
senci i koji, po svoj prilici, neće nikad biti razjašnjeni; kada se, dakle, stavila u pokret, ona
barokna potreba inteligencije koja nastoji da ispuni praznine’ (Kortazar) i kada sam rešio
da oživim i one likove koji su ostali u mraku (Kiš 1990a: 237-238).
Kišov pohod u sjećanje svijeta 187

U traženju mogućnosti da se rekonstruiše proteklo vrijeme i da se ožive zaboravljene


istine, Kiš poseže za svjedočenjima, manje ili više podudanim, jer ono što se čini vjerodo-
stojno takvo je samo zahvaljujući ugradivosti u kolektivnu memoriju. S obzirom na to da
je sumnja osnovni uslov i pokretač u dolaženju do istina, a da se obje – i vječna sumnja i
vremenska istina, prepliću i izmiještaju u stvarnosnoj fantastici Kišove naracije u knjizi En-
ciklopedija mrtvih, suočeni smo sa pozicijom da svjedočenje, predanje i pseudo-dokument
služe istoj svrsi – da nam pokažu kako stvarnost zapravo odlikuje viši stepen fantastičnog
nego što čovjek sam može da domisli. Najintenzivniji stepen razgradnje objektivnosti, po-
uzdanosti i vjerodostojnosti podataka jeste način na koji Kiš ironijski destruira pouzdanost
aparature karakteristične za dokazivanje istinitosnog i autentičnosti naučnog teksta, pri
čemo su najeksplicitniji primjer upravo njegovo unošenje fusnote u Knjigu kraljeva i buda-
la. Ono što nam je ovdje od presudne važnosti jeste “da i ovjerovljeni, autentični, i fiktivni
dokument pripadaju istom semantičkom polju, da su povezani sličnošću, da se jedan zrcali
u drugome” (Lachmann 2006: 102).
Promjenama narativne perspektive modeluje se aktiviranje subjektivne reproduk-
cije sjećanja, tako da se egzistencija registra ogleda u višestrukoj fokalizaciji koja ukazuje
na temeljnu mogućnost osvjedočavanja istinitosti enciklopedijskog narativa. Informacije
eruditne kaste, koju čine privrženici “koji riju po čituljama i biografijama ljudi, uporno i
diskretno, a zatim obrađuju podatke i dostavljaju ih ovoj centrali koja se nalazi u Stokhol-
mu” (Kiš, 1990a: 56), osvjedočavaju se zahvaljujući aktiviranju naratorkinog sjećanja; a
kompleksnost istinitosti udvaja se i komentarom koji se nalazi u Post scriptumu. Temeljna
razgradnja pseudofaktičkog realizuje se u fazama prelaska na fikcionalni modus – jer na-
ratorka tokom čitanja pravi bilješke (dakle nove otiske teksta, tj. stvarnosti), zatim navo-
đenje da ona enciklopedijski zapis vidi (dakle, ne čita), prelazak na sopstveno svjedočenje
o posljednjim očevim danima, buđenje iz košmarnog sna i zapisivanje onog što je zapam-
tila. Igra stvarnosti i fikcije se u samom narativnom tkanju usložnjava komentarom u Post
skriptumu, čime se broj otisaka na tekstu višestruko umnožava. Umjesto da dovede do raz-
gradnje stvarnosnog, konherencija redundantnog materijala doprinosi vjerodostojnosti,
čija posljednja potvrda dolazi od doktora Petrovića. Izvjesna, gotovo olakšavajuća misao
da i anonimni sastavljači Enciklopedije mogu da pogriješe, prerasta u košmar iznanadnog
spoznanja da su realno opazive činjenice potkrijepljene i podacima koji su van mogućno-
sti ljudske spoznaje što povlači i jezovitost saznanja o mogućnosti panoptikalnog uvida u
ljudski život. Na drugoj strani, otkriva se moć umjetničkog nagona da oslika čulno nesa-
znatljive segmente stvarnosti.
U Enciklopediju mrtvih ugrađeni su “nehermetični fantastički tekstovi” koji, kako kaže
R. Lachmann (2002: 11): “razvijaju strategije provjere smisla kojima podređuju fantazam
manifestiran kao kontingentan događaj, kao prodor neobjašnjivog u postojeći poredak”.
Za njih je karakteristično da se granični prostor “između neobjašnjivosti i objašnjivosti,
nepoznatosti i poznatosti kakva događaja ili fenomena pojavljuje kao granica između kon-
tingencije i smisla” (ibidem). To su, prije svega, priče koje imaju somnabularnu dimenziju.
San je zona objedinjavanja života i smrti, pri čemu je suprapozicioniran iskustvu i reflektuje
188 Vesna Vukićević-Janković

se po principu spiritualističkog odraza u odnosu na svjesnu stvarnost. Svjesno i nesvjesno


u toj međuzoni potiru sopstvene funkcije. Vrisak kao znak prekida košmara i njegova ute-
meljenost u fikcionalnoj stvarnosti nalazi se u naslovnoj priči i u Ogledalu nepoznatog. I tu
imamo postupak koji je vođen prethodnim minus-prisustvom narativnog svjedočenja da
je riječ o somnabularnom iskustvu, uz gotovo identično dočaravanje atmosfere sanjanja.
Kao i naratorka u Enciklopediji mrtvih, koja se prisjetila da je već negdje čitala o toj čuvenoj
knjizi, tako i djevojčica Berta u hrastovoj šumi u kojoj zalazi sunce, “kao u snu, pronala-
zi nekakve dugovrate pečurke, za koje jasno zna, mada joj to niko nikad nije rekao, da su
otrovne: o tome govori njihov preteći izgled. (Devojčica se ne vara, devojčica je u pravu:
to su otrovne gljive, Ithyphalus Impuditus, što ona ne zna, ne bi smela znati” (Kiš 1990a:
118, naglašavanje V.V.J.). Dalje, onaj pogled “u kojemu je sažet čitav život i sav užas saznanja
smrti” (ibidem: 82), zapravo tanatofobni užas koji ukazuje na iskustvo konačnosti, jeste me-
tonimijska jedinica koja se prenosi i na ostale priče u knjizi. Zapravo, nasilna smrt Bertinih
sestara identična je nasilnom iskustvu unezvijerenih djevojčica iz Knjige kraljeva i budala.
U njoj je, na samom početku “u jednom peterburškom listu avgusta hiljadu devetsto šeste
godine nagoviješten zločin, u košmarnoj scenografiji” (ibidem: 155), a o čemu se obavješta-
vamo kroz narativno anahroničnu perspektivu (aktiviranjem mehanizma sjećanja X. -a)
uzrokovanog iznenadnim otkrićem o ispravnosti “sumnje u postojanje Zavere”:

I tu mu iskrsnu pred oči izbezumljen pogled jedne devojčice, negde u Odesi. Naslonjena
glavom na razvaljeno krilo ormana, u kojem je pokušala da se sakrije, leži kao skamenje-
na, mada još diše. U ogledalu, kao citat, vide se iznakaženi leševi, razbacani komadi na-
meštaja, ogledala, samovara, razbijenih lampi, rublje i odeća, madraci, razvaljene perine;
ulica je prekrivena snegom: svuda je popadalo paperje, pa i po drveću (Kiš 1990a: 181,
naglašavanje V.V.J.).

U snu ili ogledalu se reflektuju nesaznatljivi kodovi stvarnosti, koje je Kiš izrazio ko-
mentarom o tome da su “najintimniji košmari već materijalizovani u tvrdom kamenu, kao
kakav čudovišan spomenik” (Kiš 1990a: 231). U Crvenim markama s likom Lenjina stoji
Kišov navod da su “snovi slika onoga sveta, i dokaz njegovog postojanja” (ibidem: 225).
Paralela unutrašnjeg i spoljašnjeg protoka nesaznatljive energije uma odražava se i u priči
Enciklopedija mrtvih prikazom opsesivnog slikanja koje ne predstavlja floralne motive, već
efloraciju opake bolesti.
U Legendi o spavačima, gdje je Kiš više nego u ostalim pričama saobrazio jezik i stil pri-
povijedanja jeziku i stilskoj organizaciji poezije, san prevladava kao medijum između života i
smrti, stanje koje je najpotpuniji sublimat Erosa i Tanatosa. Eros je sila koja otima spavača Di-
onisija Tanatosu, koja mu posredstvom “ruže u srcu” ne dozvoljava “da smesti svoje telo i svo-
ju svest u srce vremena”. Sjećanje na ono što je prethodilo buđenju, Dioniziju liči na san prije
tristogodišnjeg sna, to je “mora života i mora smrti, mora neutažene ljubavi, mora vremena i
večnosti” (ibidem: 88). Međuzona dva stanja oličena je u zapitanosti šta je zapravo postojanje
– da li “san u snu, te stoga stvarniji od pravog sna, jer se ne da meriti snagom budnosti, jer se
ne da meriti svešću, pošto se iz tog sna čovek budi opet u san?” (ibidem: 91-92).
Kišov pohod u sjećanje svijeta 189

Somnabularno kodiranje stvarnosti ukazuje na čitav splet mogućih otisaka na tekstu,


i ukazuje na igru kodiranja, potiskivanja i reskripcije. Težnja ka poniranju u sjećanje svijeta,
u mnemoničko jezgro, koja oblikuje Kišov pripovjedački vijenac, nadređujući oniričko i
nesvjesno opazivom svijetu, nije nimalo slučajno započet upravo gnostičkom legendom.
Pošto je San (Hipnos) brat blizanac Tanatosa (Smrti), čin buđenja je u najstarijim kul-
turnomemorijskim zapisima imao soteriološko značenje, koje u Kišovoj varijanti legende
izostaje. Ono što ostaje, što je jedina konstanta jeste – užas umirućeg. Pokušaj da se pobi-
jedi san upravo ukazuje na neuspjeh gilgameškog inicijacijskog iskušavanja, ali ima i šire
simboličko značenje, zastupljeno u brojnim religijama i tumačenjima. U različitim uče-
njima buđenje “podrazumeva anamnezu, otkriće stvarnog identiteta duše”, dok neznanje,
amnezija, ropstvo, san, pijanstvo predstavljaju gnostičke metafore čije je značenje duhovna
smrt (up. Elijade 1991: 161). San je zapravo besvjesnost, stanje koje rađa strah, zbrku i ne-
stabilnost, jer oni koji spavaju bivaju uhvaćeni u mnoge Iluzije. Upravno, somnabularni
materijal je poslužio za slikanje jedne dublje stvarnosti, kao fiktivna dokumentarnost, jer
“fiktivni dokumenti nose i inskripcije, znakove, refleksije: refleksije imaginacije nadahnute
specifičnim iskustvom. To je metonimijska funkcija dokumenta. Na drugoj strani može se
tvrditi da ‘krivotvoreni’, fiktivni dokument funkcionira kao metafora. Ona je trop koji za-
mjenjuje pravi izraz a da ga pri tome ne briše” (Lachmann 2006: 102). Buđenje, dakle može
da se shvati kao otrežnjenje, kao novo saznanje, odnosno spoznaja. Probudi se, na taj način,
postaje meta-znak koje u paradigmatskoj ravni osvjetljava dvije kišovske dvadesetodijelne
parabole – parabolu o spavačima i parabolu o zlu. Zapravo, na ovaj se način jasno predoča-
va na koji način funkcionišu enciklopedični mehanizmi u narativnom tkanju. Pri tome, po-
sebno treba ukazati na to da: “Kad objašnjava svoj interes za enciklopediju, Kiš objašnjava
i svoj interes za metonimiju kao logiku narativne koherencije: jer su dodiri i stjecaji na ka-
kve među svojim jedinicama računa enciklopedija (u suprotnome, ne bi bila enciklopedija)
istodobno točke njihova kapilarnog, metonimijskog širenja ( Jukić 2012: 101).
Završnu riječ u obje verzije legende o Simonu Čudotvorcu ima upravo Sofija ‘urna
blaženstva’ čije će se smrtno tijelo vratiti u Lupanar (bordel ali i nered), a duh useliti u neku
novu Iluziju (jer, vrijeme i prostor su iluzije, istorija je iluzija). U Legendi o spavačima, kroz
međuzonu stvarnosti i iluzije Dionizije doživljava košmar buđenja, jer se njegovo sjećanje
deformisalo, iskrivilo i izgubilo smisao. Ruža u srcu – inicijator buđenja, postaje i izvor
patnje, jer ona, koja ju je usadila u srce, više nije prisutna. Svojevrsna metempsihoza koja
je uvezivala Sofiju iz Simona Čudotvorca sa Lotovom kćeri, Rahiljom, Lepom Jelenom na
fonu ovog čitanja postaje još jedna Iluzija4. Slijedeći Kišovo ‘uputstvo’ da se Enciklopedija

4
Na ovo se nadovezuje i intertekstualno zračenje koje Kiš u Post scriptumu priziva pismom
‘vrlo materijalističkog Didroa’: “O! moja Sofija, ostaje mi, dakle, izvesna nada da ću vas moći dodir-
nuti, osetiti, da ću moći da se sjedinim s vama, da se izmešam s vama kad nas ne bude više, ukoliko
postoji u našem počelu zakon srodnosti i ako nam je suđeno da ostvarimo jedinstvo bića; ja bih
onda, u sledu vekova, mogao da budem jedno s vama, a molekuli vašeg raspadnutog ljubavnika mo-
gli bi da se uskomešaju, da se razbude i da tragaju za vašim molekulima raspšenim u prirodi! Ostavite
190 Vesna Vukićević-Janković

iščitava po ključu metafizičkog koncepta Ljubavi i Smrti, jasnije se predočava i značenje


koje ima moto Crvenih marki s likom Lenjina – Pesma nad pesmama, 8.6. Ti stihovi glase:
“Metni me kao pečat na srce svoje, kao pečat na mišicu svoju. Jer je ljubav jaka kao smrt, i
ljubavna sumnja tvrda kao grob; žar je njezin kao žar ognjen, plamen Božji” (podvl. V.V.J.).
Kroz jasnu aluziju na obilježavanje jevrejskog naroda i učinjeni pogrom u ime ideološki
proklamovane mržnje, Kiš produkuje pobunu protiv pogroma i totalitarnih ideologija. U
Posmrtnim počastima, svojevrsna revolucija, koju inicira sahrana prostitutke prizilazi iz ega-
litarističke vizije Ukrajinca Bandure, jer ona “nije imala predrasuda prema boji kože, rasi ili
religiji. [...] u njen su se ljiljanski vrat utiskivali, kao pečat sveopšteg bratstva među ljudima,
malteški krst, i raspeće, i zvezda Solomonova, i ruska ikona, i zub morskog psa i talisman
u vidu korena mandragole...” (Kiš 1990a: 44). Jedna od najuzvišenijih zamisli oličena u
trojnom jedinstvu Liberté, égalité, fraternité, kako nas navodi Kiš, u istoriji svijeta svedena
je na značenje nezavisno složenog dijela parole: la mort!
O ulozi ironijskog modusa u pripovjednom tekstu sâm Kiš je u izjavio: “Ne podnosim
književnost bez ironije. Pa, ironija je jedino sredstvo protiv užasa egzistencije. [...] Ja i u svo-
jim knjigama koristim ironiju i menjam perspektive; jednom postmatram događaje objek-
tivno, kao romantičarski sveznajući pripovedač, zatim opet namerno uništavam iluziju
obraćajući se čitaocu kao autor i govoreći mu: ovde imamo posla sa književnošću, a ona je
samo odsjaj stvarnosti” (ibidem: 276). Zahvaljujući redeskriptivnom raskrinkavanju istine /
činjenica, čuda i vjere, krećući se na području dokumentarnog i kvazidokumentarnog, fik-
cije i realnosti, pokazuje se da je svaka Iluzija podložna najmanje dvostrukom tumačenju,
da se sve istine izmještaju i postaju pogodne za različite uvide i različita tumačenja. Upravo
zbog toga, moramo obratiti pažnju na širok raspon pretpostavki koje leže između utopije i
entropije, kao krajnjih ishodišta ljudske misli. U Simonu Čudotvorcu predmet rastakanja,
redeskripcije jesu riječ/govor i čudo, kao najtemeljniji načini za postizanje uvjerljivosti,
manipulacije i zamagljivanja čula: Među njima je bilo dobrih govornika koji su znali da ne-
poverljivom narodu i još nepoverljivijim vlastima daju odgovore na mnoga zamršena pitanja
(ibidem: 13); odnosno: Kad se jedna laž ponavlja dugo, narod počinje da veruje. Jer vera je
narodu potrebna (ibidem: 15). Ironijskom sjenčenju podvrgnute su u knjizi upravo religi-
je i ideologije, kao najrepresivniji oblici ljudskog djelovanja. Kiš daje pesimističu viziju o
ishodu čovjekove pobune, jer i tamo gore i tamo dolje je isto: hladno kao na dnu bunara.
Upravo na metanarativnom nivou uspostavlja se paramnemični kontakt sa značenjem zvi-
jezde mikrokosmosa (Davidove zvijezde, Solomonovog pečata) kao znaka duhovne moći in-
dividue koja može da sebe beskonačno poništava, simbola svjesnog i nesvjesnog, jedinstva
suprotnosti. Na ovakav način se i značenjske ravni pojedinačnih priča proširuju, a kontakti
među narativnim jedinicama Enciklopedije mrtvih i dodatno oznakovljuju.
U eseju o gnozi (Izgnanstvo i kraljevstvo Marije Čudine) Kiš ističe da je “svako biće
svesno svog poraza, svoje efemernosti. Večni su samo bunari, večna je samo pustinja. Več-

mi to maštanje, ono mi dođe kao melem, ono bi moglo da mi obezbedi večnost u vama i sa vama...”
(Kiš 1990a: 240-241).
Kišov pohod u sjećanje svijeta 191

na je samo voda u dnu mračnog bunara, nevidljiva, nemišljena, voda-koncept, voda-ideja,


zaboravljena voda u dnu ponora, u mraku nevidljiva voda” (Kiš 2010: 117). A po Jevanđe-
lju istine, Pleroma (punoća, ispunjenost) predstavlja čisti duhovni svijet u kojemu prebiva
Otac Istine. To je božanska duhovna bit iz koje proizlazi sve, svijet sastavljen od jedinstva
božanskih emanacija. Materijalni, zemaljski svijet je praznina kojom vlada Greška – Plane
(Đorđević Mileusnić 1992: 62). Zapravo, cijeli zemaljski prostor i cjelokupni ljudski život
jeste, po gnostičkom ključu, samo praznina, ništa, iluzija, san, pijanstvo, zabluda, privid.
U paraboličnoj Priči o majstoru i učeniku, koja govori o događaju koji proizilazi iz Ben
Haasovog učenja “i stavlja na ispit čitav jedan komplikovani sistem vrednosti” (Kiš 1990a:
138), naratorski glas u duhu hasidskih predanja eksplicira ‘novu pouku’ “koja nam sugerira,
poslovično, da je opasno naginjati se nad tuđom prazninom, a u pustoj želji da se u njoj,
kao na dnu bunara, ogleda svoje sopstveno lice; jer i to je taština. Taština nad taštinama”
(ibidem: 146). I tu smo već uvučeni u čitav splet razmatranja o vjeri i sumnji u sve istine,
jer imamo otvoren još jedan intertekstualni dijalog – dijalog sa Knjigom propovjednikovom,
koja predstavlja jedno od najpolemičnijih poglavlja u Starom zavjetu: “Taština nad taština-
ma, veli propovjednik, taština nad taštinama, sve je taština” (1.2; 12.8). Pri tome, posebno
je zanimljivo što ova knjiga o taštini (ispraznosti) ima tri uporišne tačke: da pravednike
pogađa nepravda; da nakon života slijedi smrt i da nema ništa novo pod suncem5. Pri tome,
jedna od najznačajnijih smjernica u tumačenju ovog registarskog dodira jeste onaj koji nas
upozorava na činjenicu da Biblija nudi odgovore, ali da je Knjiga propovjednikova zapravo
pitanje (up. Hohnjec, 2002: 338). U priči Enciklopedija mrtvih iznesena je “osnovna poruka
sastavljača Enciklopedije – nikad se ništa ne ponavlja u istoriji ljudskih bića, sve što se na
prvi pogled čini da je isto jedva da je slično; svaki je čovek zvezda za sebe, sve se događa
uvek i nikad, sve se ponavlja beskrajno i neponovljivo” (Kiš 1990a: 65). I tu smo već uvu-
čeni u čitav kišovski splet razmatranja o smislu života, o mogućnosti spoznaje, o svrsi i
vrijednosti stvaranja; o kolebljivosti vjere i trajnosti sumnje, koje metonimijski prožimaju
cjelokupni tekst njegove knjige. Ako pođemo od toga da pred sobom imamo autora “kojem
je ironija strukturalno imanentna, Kišova će se poetika zrcaliti u procesu rastakanja stvar-
nosti na tekst koji se koleba između svoje dokumentarnosti, fikcije i fantastičnog i koji u
tim svojim kolebanjima ostvaruje upravo ono bitno: kritiku ideologije i afirmaciju etičkog
prava na epifaniju” (Mirčev 2008).
Cijeli pripovjedni vijenac pod naslovom Enciklopedija mrtvih obuhvata semantički
prostor koji obuhvata osciliranje ljudske istorije u prostoru između gnostičkih i hermetičkih
usmjerenja. Na jednoj strani, osvjedočava se ljudska žeđ ka spoznaji i dokazivanju činjenica
u težnji da se dođe do Istine, dok na drugoj strani postoji nemogućnost dolaska do nje usljed
ograničenosti ljudskog znanja. Upravo zbog toga, sumnja predstavlja temeljni pogon u do-
lasku do spoznaje, jer su činjenice često potisnute ili izbrisane a ostatak sjećanja koji nam se
predočava zbog toga je podložan učitavanju novih značenja. Upravo, u povijesti o Knjizi
kraljeva i budala, Kiš pokazuje mehanizam pomoću kojega se esej o knjizi “pretvara u pri-

5
Što je bilo to će biti, što se činilo to će se ćiniti, i nema ništa novo pod suncem (up. Prop 1,9).
192 Vesna Vukićević-Janković

povijest o povijesti knjige: povijesti njezina nastanka, širenja, recipiranja, uporabe i, nakraju,
zlouporabe” (Beganović 2005: 109). Ovaj esej-pripovijest izrasta na predlošku jednog od
najviše zloupotrebljavanih zapisa u istoriji: Protokolima sionskih mudraca. Ta parabola o zlu
je “započeta na marginama činjenica – ne izneveravajući ih sasvim”; pri čemu Kiš postulira
jednu od karakteristika svoje ars poeticae: pripovijest-esej se “razvija upravo na mestima gde
su podaci bili nedovoljni a fakta nepoznata, u polumraku gde stvari zadobijaju pomerene
senke i oblike” (Kiš 1990a: 157). Falsifikat izrasta iz satiričnog dijaloga između Makijavelija
i Monteskjea koji vode u paklu (autora Morisa Žolija, napisanog 1864. godine kao kritike
politike Napoleona iii) i zagonetnog Nilusovog Antihrista, pretvara se u povijest o Zaveri
i na duši nosi nekoliko miliona mrtvih. Na taj način, zvanična istorija postaje rezultat fan-
tazmagorije koja ima za cilj dokazivanje navodne jevrejske namjere da se zavlada svijetom,
što uz Kišovu aluziju na istovjetan duh koji povezuje francuske revolucionare i boljševike,
te uticaj knjige na Hitlera (slikara-amatera) i Staljina (nesvršenog bogoslova), raskrinkava
pogubnost ideoloških sistema koji su obilježili prvu polovinu xx vijeka. U takvoj paradok-
salnoj situaciji Kiš “likove kao personifikacije živih ljudi zamjenjuje knjigom, koja postaje
personalizirani i personificirani glavni junak jedne pripovijesti” (Beganović 2005: 110).
Demonska snaga knjige-ubice, koja pokreće Zaveru je upravo u sljedećem: “Ona ima
u sebi, bar naizgled, sve ono što imaju svete knjige: zakone i kaznu za prekršioce. Njen je
nastanak isto toliko tajanstven kao i nastanak Biblije, a skromni sastavljač – Nilus - pojav-
ljuje se tu samo kao komentator i priređivač, neka vrsta egzegete. Jedina je razlika u tome
što je Zavera, uprkos svom mutnom poreklu, ipak ljudska tvorevina. To je čini zavodnič-
kom, sumnjivom i zločinačkom” (Kiš 1990a: 157-158). Od posebnog nam je značaja ukazati
na činjenicu da Kiš problematizuje odnos istorijskog i fiktivnog u ljudskoj istoriji, na jednoj
strani, dok na drugoj ukazuje na mogućnosti zloupotrebe knjige i svetih zapisa. Jer: “svaki
nauk koji se temelji na moralu, može da nanese, dospevši u nedorasle ruke, isto toliko zla
koliko bi moglo doneti dobra” (ibidem: 164).
Kiš se, bez izuzetka, ostvrljuje na sve tirane, na sve koji smatraju da u ime ideoloških
težnji imaju pravo da uništavaju ljudske živote i upravljaju tuđim sudbinama. Uzrok za či-
njenje svih zala u ljudskoj istoriji počiva u ravni pogrešnog tumačenja zapisanog, pri čemu
se isključuje mogućnost dijaloga i kritičkog mišljenja. Danilo Kiš ovo objašnjava na sljede-
ći način: “Svete su knjige, međutim, kao i kanonizovana dela gospodarâ mišljenja, poput
zmijskog otrova; one su izvor moralnosti i bezakonja, milosti i zločina. ‘Mnoge knjige nisu
opasne. Opasna je samo jedna ’” (Kiš 1990a: 236). S ovim je u vezi i Ekov stav da “svaka knji-
ga sadrži u sebi jednu iskru istine” što znači da se u dolasku do saznanja sve knjige moraju
uzajamno potkrepljivati (Eko 2001: 47)6. Jer, u osnovi svakog totalitarističkog mišljenja

6
Ovdje se možemo podsjetiti legende o halifu Omaru (Umaru). Zapravo, nasuprot težnji
da se sva znanja svijeta sačuvaju i pohrane na jednom mjestu (koju simbolizuje Aleksandrijska bi-
blioteka), legenda o halifu Omaru svjedoči o opravdanju koje je on svojoj vojsci dao kao razlog za
uništavanje aleksandrijskog hrama drevnog znanja. Ono se sadrži u argumentaciji: te knjige u Alek-
sandrijskoj biblioteci su ili u suprotnosti sa Kuranom, što znači da su jeres; ili kazuju isto, što znači da
Kišov pohod u sjećanje svijeta 193

opstoji pozivanje na samo jednu Knjigu, na samo jedan stav koji ne dozvoljava drugo i
drugačije mišljenje. Vidimo da Kiš pravi rekonstruktivan mnemonički manevar ukazujući
na to da mehanizam svih ‘centara moći’ proističe iz jednostranog i nekritičkog tumačenja,
iz riječi/govora koji nalikuje jedan na drugi, iz pozicije totalitarne svijesti koja projektuje
mnoštvo mišljenja kao odjek samo jednog: Simonovi oponenti bili su slični po fizičkom
izgledu, ali još sličniji mentalno “kao da su učili iz iste knjige” (Kiš 1990a: 12). Dakle, nji-
hova svijest je oblikovana po principu jednoobraznosti što ih ne dovodi u mogućnost da
drugačije misle i još manje da prihvataju drugačije stavove. Ovo nedvosmisleno ukazuje na
to da svako jednostrano učenje/ tumačenje, čak i kada je utemeljeno u sadržaj svetih knjiga,
može da postane izvor zla:

[...] opasnost “političke životinje” dolazi iz uverenja crpenog iz samo jedne knjige, koja
može biti Biblija, Kur’an ili Marksovi ili Homeinijevi spisi, i obično su u pitanju ljudi koji
su pročitali samo jednu knjigu, a jedna knjiga ne seje sumnju. U tome i jeste opasnost
te jedne jedine knjige, jer nema takve knjige koja bi, kao kod Žida, imala dva stupca u
kojima se nalazi tvrdnja i poricanje te tvrdnje. Dakle, više knjiga, to su uvek protivurečne
tvrdnje. I to sam hteo da kažem i pokažem na konkretnom primeru jedne opasne knjige,
koja još postoji, koja se preštampava, koja i dalje pobuđuje veliku znatiželju i predstavlja
ogromnu opasnost za mnoge ljude (Kiš 1986)7.

Kao vezivna nit svih narativnih jedinica provlači se spoznaja da pri pozivanju na do-
gmu nema suštinske razlike među progoniteljima i tiranima – kako god se nazivali i u čije
god ime nastupali, svi oni pretvaraju živote ljudi u tragične farse koje “ispisuju ljudi skoro
isto toliko moćni kao bogovi” (Kiš 1990a: 151). Pogubnost ideoloških pohoda koji vode u
pogrom, u uništenje i pokušaj brisanja onih koji drugačije vjeruju, promišljaju i dovode u
sumnju ono što drugi zastupaju, počiva na zabludi da su dželati istorije (ili dželati u istoriji)
samo izvršitelji namjere neke više sile (svete knjige) i time oslobođeni lične odgovornosti.
Kiš u Knjizi kraljeva i budala ne raskrinkava samo filozofiju i psihologiju zavjere, već mae-
stralno slika mehanizam zločina koji plodno tle nalazi upravo u atmosferi u kojoj “se mešaju
sujeverje, okultizam i mistično ludilo sa verskim fanatizmom i razvratom” (ibidem: 161).
Zato i uzima najuzvišeniju i najplemenitiju od svih ljudskih tvorevina – knjigu i pokazuje da
ona može da bude izvor zločina u mjeri u kojoj se može pretpostaviti da je njena riječ i njeno
trajanje vrijednije od života, ili da je iznad vrijednosti koje se njome uništavaju. Kišov hasi-
dimski manevar ka spoznaji istorije svijeta ukazuje na najveću zabludu čovječanstva: “sve
što je izgledalo kao plod slučaja i nebeske mehanike, borba uzvišenih principa i sudbine”
zapravo je dio ljudske volje i taštine; jer “neko ovozemaljski pokreće konce” (Kiš 1990a: 157).

su suvišne. Dakle, kalif je predstavnik svih totalitaristički usmjerenih ideologa koji su spremni da u
ime jedne Istine unište sve druge istine, što u konačnom rezultatu povlači uništenje pamćenja svijeta.
7
La rage d’aimer de Danilo Kiš je naziv intervjua koji je sa Kišom vodio Š. Žilije na fran-
cuskom radiju, a prevela ga je M. Miočinović. Dostupno na: < http://www.danilokis.org/da-
nas23-02-02.htm>.
194 Vesna Vukićević-Janković

Danilo Kiš u Enciklopediji mrtvih aktivira našu percepciju istorije svijeta kao sveuku-
pnost ljudskih života, koji bez obzira na istorijsku anonimnost, nose u sebi dio opšteg kul-
turnog nasljeđa. Taj kišovski manevar zahtijeva čitanje kroz buđenje svijesti o jednakoj vri-
jednosti pojedinačnih ljudskih života, o postojanju ideološki projektovanih mehanizama
koji dovode do uništenja duha i tijela i o neponovljivoj individualnosti svakog živog bića.
Zahvaljujući takvom postupku on uvezuje kulturalnomemorijske matrice i značenja svetih
knjiga, pokazujući da one ne šalju različite poruke, već da su pogubni i različiti zapravo po-
hodi učinjeni u ime njihovih pogrešnih tumačenja. Sve u knjizi zastupljene povijesti o smrti
reflektuju isječke ljudskog trajanja koje zaslužuje da bude ugrađeno u ljudsko pamćenje sa jed-
nakim pravom kao i oni čija su imena već zabilježena u istoriji ili enciklopedijskim priručnici-
ma. Pri tome, ne smijemo zaboraviti ni to da glavni likovi njegovih pripovijesti nose obilježja
određena kulturnim identitetom i s njim povezanim kulturnim pamćenjem, egzistirajući kao
semiozis ugrađen u istoriju i literaturu, dakle u kolektivno pamćenje koje se podastire kao op-
šti simbolički svijet smisla (up. Asman 2007: 12). Na taj način, knjiga postaje ‘otekstotvoreni
svet’ ili paralelni Univerzum (Pijanović 2005: 194), koji reflektuje totalitet svega što postoji.
Kišov rani enciklopedijski ideal pisanja i opsesivna tema smrti dovedeni su do savr-
šenstva upravo u ovom njegovom posljednjem djelu. Pripovijesti iz Enciklopedije mrtvih
pokazuju načine na koje se između života i smrti, istine i dogme, činjenice i iluzije oblikuje
sjećanje svijeta kao jedinstveni semantički prostor u kojemu su jedine konstante Ljubav i
Smrt. Upravo, izborom forme i književnim postupcima koji su u Enciklopediji zastuplje-
ni, Kiš pokazuje da je sveukupna literatura zapravo jedina riznica pamćenja koja se opire
istorijskim supresijama i svim oblicima hijerarhizovanja. Ako prihvatimo mišljenje da su
sve pripovijesti Kišove Enciklopedije zapravo alegorija pisanja, postajemo svjesni i toga da
Kišova tekstualizacija svijeta zahtijeva neprekidno promišljanje konteksta priče i time tvori
hipertekstovnu riznicu u kojoj se dodiruju fikcija i realnost, zvanična i nezvanična istori-
ja, pravi i krivotvoreni dokument, intertekstualna afirmacija i pritajena polemika. I Post
scriptum, koji moramo smatrati dijelom njegove promišljene narativne strategije, ukazuje
na potrebu da se sve ‘velike priče’ iz istorije svijeta iščitavaju na fonu sumnje i neprekidnog
sučeljavanja činjenica – jer nekada je ono što je od suštinske važnosti u njima istorijski
zloupotrebljeno, zaboravljeno, ili čak izbrisano poput pojedinačnog ljudskog trajanja. A
misija literature je, kišovski rečeno, da postavlja pitanja umjesto da daje konačne odgovore.

Literatura

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Pijanović 2005: P. Pijanović, Proza Danila Kiša, Podgorica 2006.
196 Vesna Vukićević-Janković

Abstract

Vesna Vukićević-Janković
A Pilgrimage Through the Memory of the World by Danilo Kiš

Danilo Kiš carried out an inquiring maneuver for the absolute form in which the written has
the ability to override and/or delete time and space. It is the result of his desire for compression
or de/constructive effort to transform a novelistic tissue into an encyclopedic register. His liter-
ary work is aimed at integration of the obverse and reverse of fate in duration and disappearance.
Through the exposure and semantic para-semantic levels of human understanding of the factual
and fictional, through questioning face and reverse the history of the world, The Encyclopedia of the
Dead suggests a smoldering in religions and philosophical systems, whose central issue is always in a
vacuum between death and love. The Encyclopedia of the Dead offers the key to figuring out the ideal
of the writer’s poetics, though, in his words, its ideal is never achieved.

Keywords

Memory; remembrance; encyclopedia; metonymy; narration; symbol.


© 2018 Author(s). Open Access. This article is “Studi Slavistici”, xv, 2018, 1: 197-216
distributed under the terms of the cc by-nc-nd 4.0 doi: 10.13128/Studi_Slavis-22496
Submitted on 2018, January 13th issn 1824-761x (print)
Accepted on 2018, April 9th issn 1824-7601 (online)

Alessandro Amenta

Anna In w grobowcach świata di Olga Tokarczuk.


Una rilettura femminista del mito sumerico della dea Inanna*

1. Introduzione
La reinterpretazione di narrazioni mitologiche è una prassi diffusa di scrittura fem-
minista volta a “trasformare storie normative in potenti racconti di resistenza” (Zajko,
Leonard 2006: 2). Ripensare topoi, figure e miti elaborati all’interno di culture andro-
centriche, di cui riflettono idee e valori, consente alle scrittrici di mettere in discussione il
discorso patriarcale che li ha prodotti, riappropriarsi della tradizione e reinventarla in una
nuova chiave (cfr. Irigaray 1974; Cixous 1975). In quest’ottica, riscrivere il mito significa
alterarne il significato, attualizzarne l’intreccio, mutarne simbolismo e prospettive, elici-
tarne i sottotesti di violenza e oppressione, colmarne lacune e omissioni, dare voce a icone
del femminino tradizionalmente mute. Celebri rifacimenti di questo tipo sono Le guerri-
gliere (1969) di Monique Wittig, La camera di sangue (1979) di Angela Carter, Cassandra
(1983) e Medea. Voci (1996) di Christa Wolf, Amatissima (1987) di Toni Morrison, La
torcia (1987) di Marion Zimmer Bradley, Il canto di Penelope (2005) di Margaret Atwood
o Lavinia (2008) di Ursula Le Guin.
In questo filone si inserisce anche Olga Tokarczuk, la più importante prosatrice polacca
della generazione post-1989, autrice di una quindicina tra romanzi e racconti tradotti in oltre
venti lingue e due volte vincitrice del prestigioso premio Nike. Il suo Anna In w grobowcach
świata (Anna In nei sepolcri del mondo, 2006) è una singolare reinterpretazione di uno dei miti
più antichi del mondo, quello della dea sumerica Inanna. Il romanzo è stato scritto nell’ambi-
to del progetto internazionale promosso dall’editore scozzese Canongate Books e incentrato
sulla rielaborazione di miti e leggende da parte di autori contemporanei1. Il procedimento di
rimitologizzazione operato da Tokarczuk si basa su strategie quali l’ammodernamento del
racconto, l’introduzione di modifiche rilevanti alla struttura narrativa, la fusione sincretica di
topoi di origine differente, la ridefinizione dei significati psicologici insiti nel mito. L’aspetto
più interessante del romanzo consiste nella risemantizzazione e nella rifunzionalizzazione del
materiale originario in chiave femminista e junghiana.

* Il presente articolo è stato realizzato nell’ambito del prin 2015 n. 2015kaz284 intitolato
(De)costruzione del mito nella letteratura femminile contemporanea in Russia e in Polonia. Uno stu-
dio comparato.
1
Con tre pubblicazioni l’anno per una durata prevista di trentatré anni (2005-2038), ac-
cordi con quaranta editori nazionali e il coinvolgimento di autori provenienti da tutto il mondo, la
Canongate Myth Series costituisce uno dei più grandi progetti della storia dell’editoria.

Alessandro Amenta (University of Rome “Tor Vergata”) – alessandro.amenta@uniroma2.it


The author declares that there is no conflict of interest
198 Alessandro Amenta

Tokarczuk non è nuova a operazioni del genere. Una delle linee narrative di Prawiek
i inne czasy (1996, tradotto in italiano prima come Dio, il tempo, gli uomini e gli angeli e
in seguito come Nella quiete del tempo) è incentrata sul tema del materno e del femmi-
nino ctonio. Il rapporto nonna-madre-figlia presente nel romanzo può essere inteso alla
luce della triade Rea-Demetra-Kore (Dragun 2005: 132), mentre il personaggio di Kłoska
sembra modellato su Persefone e Lilith (Fliszewska 2005: 523; Lasoń-Kochańska 2005:
197). La protagonista di Dom dzienny, dom nocny (1998, Casa di giorno, casa di notte) è una
personificazione della natura e contiene “un esplicito richiamo ai miti agrari e al mito di
Aracne-tessitrice”2 (Dragun 2005: 130). In Ostatnie historie (Ultime storie, 2004) la scrit-
trice inserisce riferimenti alle Parche, mentre l’umile donna di servizio di Un mese in Sco-
zia, contenuto in Gra na wielu bębenkach (2001, Che Guevara e altri racconti), incarna la
sapiente, anziana depositaria di una conoscenza ancestrale. Si può dunque affermare che
“quasi tutta la sua produzione ricorre a motivi fantastici e mitologici” ( Jarzębski 2008: 50),
rimaneggiati e connessi alla sfera del femminile, della natura, della morte e della rinascita.
Tuttavia, solo Anna In w grobowcach świata si configura come opera esplicitamente e pie-
namente rimitologizzante, in cui l’elemento mitico non ha carattere accessorio o episodico,
ma informa le dinamiche narrative, gli orizzonti simbolici e la semantica del testo.
Prima di esaminare le strategie di riscrittura alle quali ricorre Tokarczuk, occorre in-
trodurre alcune informazioni sulla dea Inanna.

2. Inanna
Dea poliade di Uruk, ma venerata in tutte le città sumeriche, Inanna è “la divinità
femminile più importante dell’antica Mesopotamia” (Black, Green 1992: 108). Il signifi-
cato comunemente accettato del suo nome è “signora del cielo” (Leick 2003: 86; Kramer,
Wolkstein 1985: 12)3. A seconda della versione del mito giunta sino a noi, suo padre è il
dio del cielo An o il dio della luna Nanna, sua madre la dea della terra Ningal, sua sorella
la dea dell’oltretomba Ereškigal e suo fratello il dio del sole Utu (Leick 2003: 88; Black,
Green 1992: 108). In alcune narrazioni è sposata con il re-pastore Dumuzi, ma nella saga
di Gilgameš l’eroe omonimo rifiuta le sue profferte d’amore dato il trattamento che aveva
riservato ai suoi amanti precedenti4. Ad accompagnarla nelle sue imprese è Ninšubur, dea
minore e “regina d’oriente”, messaggera e mediatrice. La natura della dea, definita di volta
in volta paradossale, ossimorica, poliedrica e ambigua, continua a sfuggire agli studiosi e
“una definizione generale di Inanna è impossibile” (Verderame 2009: 72). Questo è dovuto
a fattori quali la frammentarietà delle fonti, che ostacola la ricostruzione di un’immagine

2
Qui e di seguito, ove non diversamente indicato, la traduzione è mia (aa).
3
Una voce fuori dal coro è Jacobsen (1976: 36), che lo interpreta come “signora dei grap-
poli di dattero”.
4
Nella saga di Gilgameš si parla invero di Ištar, equivalente assiro-babilonese di Inanna. Sull’i-
dentificazione tra le due figure cfr. ad es. Jacobsen 1976: 135-143; Heimpel 1982; Leick 2003: 96-97.
Anna In w grobowcach świata di Olga Tokarczuk 199

integrale e coerente della dea; la sua natura sincretica, frutto della sedimentazione, stratifi-
cazione e fusione di diversi numi anteriori come risultato di una “graduale organizzazione
delle divinità locali in un panteon nazionale” (Black, Green 1992: 108); problemi di ordine
metodologico, come “il tentativo di ricondurre a modelli e categorie generali le specifiche
figure divine” (Verderame 2009: 72). I racconti mitici incentrati su Inanna consentono
tuttavia di affermare che i suoi principali ambiti di responsabilità siano l’amore erotico e la
guerra. La dea è inoltre identificata col pianeta Venere e numerose sono le interpretazioni
astrali dei suoi miti (Heimpel 1982). La sua figura non condivide con altre divinità femmi-
nili la sfera della famiglia, della casa, della maternità:

Se è indubbio che abbia incorporato differenti divinità femminili locali, residui dell’an-
tica Dea Madre, non si comporta da madre. Rimane principalmente una dea dell’amore
sessuale piuttosto che coniugale. Rappresenta la forza della fertilità piuttosto che il pro-
cesso della nascita in sé (Leick 2003: 88).

Inanna dunque “è una figura liminale; è androgina, marginale, ambigua” (Harris 1991:
265) e occorrere “identificare proprio nella liminalità e negli opposti l’essenza stessa della
dea” (Verderame 2009: 72). Anche gli epiteti con cui viene chiamata ne rispecchiano le
contraddittorietà. Inanna è “regina di tutti i me”, dove i me sono i poteri divini (Black,
Green 1992: 130; Leick 2003: 117), cosa che la rende “la più influente tra le divinità nel
mondo degli dei e degli esseri umani” (Leick 2003: 87). Ma è anche “ierodula del cielo”, a te-
stimonianza del legame con la prostituzione sacra, “campione eroico” e “distruttore di terre
straniere”, appellativi che la descrivono come nume tutelare della guerra e ne rimarcano la
natura androgina e mascolina. A livello iconografico è ritratta spesso con arco e frecce, in
compagnia di un leone, in armatura maschile, e persino con la barba, tanto da essere vista
come “donna dallo stile di vita maschile” e “trasgressore di genere” (Frymer-Kensky 1992:
29). Secondo alcuni “rappresenta l’irrazionale all’interno della società sumerica” (Alster
1973: 109), mentre il furto dei me per donarli all’umanità la rende icona della ribellione e
prototipo della figura di Prometeo. Inanna “incarna polarità e contrari, e perciò li trascen-
de. In altre parole, incorpora paradossi fondamentali e irriducibili. Rappresenta l’ordine e il
disordine, la struttura e l’antistruttura. Nei suoi tratti psicologici e nel suo comportamento
fonde e confonde categorie e limiti normativi” (Harris 1991: 263).

3. Attualizzazione e arcaizzazione
Un primo aspetto della riscrittura attuata da Tokarczuk consiste nella manipolazio-
ne delle coordinate spazio-temporali del mito. Queste svolgono un ruolo centrale nelle
sue opere, dove non costituiscono solo la cornice della narrazione, ma sono intessute
di simboli e rimandi intertestuali (Fliszewska 2005; Larenta 2014). Tokarczuk colloca
il mito di Inanna in una dimensione insieme futuristica e atemporale, una realtà post-
apocalittica, un mondo ipertecnologico sorto sulle macerie di una precedente civiltà
cancellata da una catastrofe:
200 Alessandro Amenta

La città si erge sulle rovine, sotto la città si trova il mondo dei sepolcri. Non c’erano forze
sufficienti per smaltire le macerie prima di procedere alla sua costruzione. Per questo la
città è stata eretta su pilastri di metallo […]. È durato molti anni, migliaia di anni. […]
Ora la terra è coperta da un micelio di ferro che continua a crescere (Tokarczuk 2006: 7).

La realtà finzionale non si basa su una concezione lineare del tempo. A dominare è il
tempo ciclico della natura, con il perpetuo susseguirsi di nascita, morte, rinascita, e il tem-
po a spirale, dove gli eventi, pur ripetendosi, tendono verso un qualche sviluppo o evoluzio-
ne. Il primo trova concreta raffigurazione nell’epilogo: l’avvicendamento tra il Giardiniere
e la sorella nell’oltretomba è una chiara metafora del succedersi delle stagioni. Il secondo è
rappresentato dalle vicende della protagonista: tornando indietro dal “luogo del non ritor-
no” compie un’impresa mai realizzata prima e viola per sempre le leggi che regolano nascita
e morte, segnando un punto di rottura definitivo nel tessuto del tempo. Tokarczuk ha cer-
cato di coniugare due esigenze differenti: conservare il carattere eterno del mito e rendere
il racconto appetibile per il lettore contemporaneo. La soluzione è un romanzo che da un
lato ammicca alla letteratura distopica, al cinema, al fumetto di fantascienza, da cui mutua
immagini e codici facendo leva sul bagaglio di conoscenze del lettore5, e dall’altro mantiene
un’aura atemporale grazie a un racconto che avviene “allora, adesso e sempre” (Tokarczuk
2006: 207), in “un antico domani” (Czapliński 2006: 14).
Come quella temporale, anche la dimensione spaziale oscilla tra concretezza e in-
definitezza. Con l’eccezione delle scene ambientate all’esterno, la steppa regno della Dea
Madre Ninma e della natura, non soggetta alle regole della civiltà, la trama è circoscritta
alla sola megalopoli, un groviglio di metallo che si sviluppa in altezza e in cima al quale
abitano gli dei, creature celesti, umane e robotiche insieme (alcune ricordano delle intel-
ligenze artificiali), giacché alla verticalità è connesso lo status sociale. Lo spostamento
avviene tramite ascensori, la cui mappa “ricorda un immenso intrico di liane, somiglia al
tessuto nervoso, ai neuroni e ai fasci di nervi” (Tokarczuk 2006: 12). A segnare lo spazio è
uno staffage tecnologico, un campionario di decorazioni high-tech che ricordano l’estetica
cyberpunk: scale mobili, ologrammi, piattaforme sospese, trasformatori, diodi luminosi.
La società è costituita, oltre che da esseri umani e creature divine, anche da ibridi: con-
ducenti di risciò il cui corpo è un tutt’uno con il veicolo, tartarughe il cui carapace è uno
schermo su cui vengono proiettate le quotazioni della borsa, segretarie fuse con la propria
sedia. Queste metamorfosi sono presentate in senso utilitaristico, sono funzionali a un
migliore svolgimento delle proprie mansioni. Nei sotterranei è collocato l’oltretomba,
spazio antinomico rispetto alla città, della quale è una versione fatiscente e corrotta. Qui
la tecnologia è atrofizzata, a regnare sono binari arrugginiti, cavi ammuffiti, polvere, mu-
schio, umidità. Al baccano della città, connesso all’imperativo della produttività, corri-

5
Alcuni critici segnalano nessi con la letteratura e il cinema fantascientifico, soprattutto
Blade runner (Nowacki 2006: 23), mentre per altri “il mito sumerico è stato adattato alle convenzio-
ni della fantasy contemporanea” (Uniłowski 2006: 16).
Anna In w grobowcach świata di Olga Tokarczuk 201

spondono il silenzio e la stasi, una perenne marcescenza che non giunge mai a termine, so-
spesa tra essere e non-essere. Se gli ibridi della città sono invenzioni mirate all’efficienza e
alla razionalizzazione, quelli dell’oltretomba sono una loro variante grottesca e insensata:
polli fatti di sole cosce, pecore con le branchie, uccelli con le pinne al posto delle zampe,
cani in livrea. Se la metropoli somiglia a un sogno malato che mescola visioni distopi-
che, anticapitalistiche e totalitarie, l’oltretomba si configura come reame dell’anarchia,
del disordine e del nonsense in cui vige un solo principio: chi entra non può più uscirne,
perché “il mondo può essere un caos, ma quest’unica regola ci tiene a freno: nessuno è mai
tornato da qui” (Tokarczuk 2006: 36). Nonostante il descrittivismo di Tokarczuk, la me-
tropoli non assume mai reale concretezza, la sua topografia è volutamente confusa, la sua
fisionomia nebulosa. Potrebbe essere l’Uruk del futuro che sorge sull’Uruk del passato,
ma non è un luogo definito, per quanto immaginario: è una città senza nome, un luogo
archetipico, “è ogni città” ( Jentys 2007: 117).
Anche sul piano linguistico Tokarczuk oscilla tra attualizzazione e arcaizzazione.
Da un lato notiamo l’ammodernamento dei nomi attuato tramite anagrammi o pseu-
doanagrammi: Inanna diventa Anna In, Ninšubur (in polacco Ninszubur) Nina Szubur,
Gilgameš è Giga Mass, Enḫeduanna è Anna Enhudu, Geštianna (in polacco Gesztianna)
Anna Geszti. Al contempo, quasi Tokarczuk dubitasse della riconoscibilità della versio-
ne moderna dei nomi, oppure per circonfonderli di un’aura antichizzante, pospone talo-
ra quello originario: “io che interpreto i sogni, io, Anna Geszti, Gesztianna” (Tokarczuk
2006: 174); “l’attendo ai cancelli dei sepolcri, […] io, Nina Szubur, Ninszubur” (Tokarczuk
2006: 140). Nel caso della protagonista la scrittrice mostra persino il procedimento di
scomposizione e ricomposizione onomastica, meccanismo metanarrativo che svela la ma-
trice originaria del racconto: “pronuncio melodiosa il suo nome: Anna In, In Anna, Inan-
na” (Tokarczuk 2006: 113).
Il romanzo ricorre anche a convenzioni linguistiche che rimandano alla narrazione
epica, alla melorecitazione e “altri residui di oralità” (Uniłowski 2006: 14) quali l’itera-
zione, che Tokarczuk mutua dal mito originario6. A enfatizzare il carattere universale del
racconto mitico è la strategia di autopresentazione dei narratori che si mostrano al lettore
come “uno e chiunque”: “io, Neti, io, un mucchio di ossa tenute insieme da uno spago,
io chiunque, io che racconto” (Tokarczuk 2006: 199); “io, un conducente di risciò che
nessuno ascolta mai, io che porto sulla schiena le persone, io chiunque, io che racconto”
(Tokarczuk 2006: 173). A tal proposito Uniłowski (2006: 22) parla di una “comunità di
narratori” per cui “il mezzo narrativo si rivela intercambiabile e trasferibile. I narratori cre-
ano un circolo all’interno del quale si passano di mano in mano il racconto [e] chiunque si
assuma l’onere di narrare diventa figura dell’essere umano in generale”.

6
Come afferma Diane Wolkstein, il “connotato stilistico predominante del ciclo di Inanna
[è] l’iterazione. Vengono iterate le parole, viene iterata la struttura della frase; e, grazie a questa
lenta, studiata, quasi ipnotica iterazione, veniamo trasportati in un’altra dimensione, la dimensione
atemporale degli dei, dell’anima e delle origini della vita” (Kramer, Wolkstein 1985: 115).
202 Alessandro Amenta

4. Identificazione delle fonti e struttura compositiva


Nella postfazione al romanzo, Tokarczuk illustra il lavoro svolto sul mito mediante
una serie di metafore e similitudini. Il processo di rinarrazione è definito “una sorta di
archeologia letteraria” funzionale a “plasmare un racconto completo dai frammenti che
si sono conservati” (Tokarczuk 2006: 196), mentre il mito è paragonato a un vaso antico
che, dopo essere stato riportato alla luce, “non solo si rivela incompleto, ma non è chiara
nemmeno la sua funzione” (Tokarczuk 2006: 196). Rinarrare, per Tokarczuk, significa an-
zitutto tentare di ricomporre il disegno originale, rielaborarlo e ridefinirne la semantica.
La tecnica impiegata non è tuttavia quella del restauro, ma del collage. I passaggi oscu-
ri, i problemi interpretativi, le lacune dell’intreccio sono sciolti sulla base di un principio
analogico-deduttivo. La scrittrice ha esaminato la forma assunta da certi mitologemi (Ke-
rényi 1983: 15-17)7, tra cui la discesa agli inferi e la Grande Madre8, in aree diverse da quella
sumerica, facendovi ricorso per integrare il racconto su Inanna. Il risultato è un romanzo
dalla tessitura sincretica basata su una molteplicità di fonti. In primo luogo, sono state ri-
elaborate composizioni sumeriche indipendenti tra loro (poemi, inni, racconti, epopee).
Alcuni brani del romanzo non paiono però basati sulla versione sumerica del mito, ma sulla
successiva rielaborazione assiro-babilonese imperniata sulla dea Ištar. Motivi attinti dalla
mitologia greca sono introdotti nella parte centrale del romanzo e riguardano la Grande
Madre in cui sono sussunti rimandi a Demetra e ai misteri eleusini. Tokarczuk non si limita
tuttavia a riunire diverse narrazioni in un racconto coerente, ma introduce modifiche alla
fabula volte alle rifunzionalizzazione del mito.
Il nucleo centrale del romanzo è basato sul ciclo noto come Discesa di Inanna agli
inferi, costituito da tre composizioni: Dal Grande Superno al Grande Infero, Il sogno di
Dumuzi, Il ritorno9. I primi sette capitoli riprendono l’inizio del primo racconto, di cui

7
Per Kerényi (1983: 15) il mitologema è un modello, un topos, un archetipo, un’unità di
significato mitico: “Esiste un materiale particolare che determina l’arte della mitologia: un’antica
massa di materiale tramandata in racconti ben conosciuti che tuttavia non escludono ogni ulteriore
modellamento, – ‘mitologema’ è per essa il migliore termine greco, – racconti intorno a dei, esseri
divini, lotte di eroi, discese agli inferi. La mitologia è il movimento di questa materia; qualcosa di
solido e tuttavia mobile, materiale e tuttavia non statico, bensì suscettibile di trasformazioni”.
8
La Grande Madre (o Dea Madre) è uno degli aspetti o funzioni dalla Grande Dea, divinità
primordiale connessa alla natura, al ciclo stagionale, al processo di nascita, morte e rigenerazione il
cui culto si sviluppa nell’Europa preindoeuropea a partire dall’epoca paleolitica (Gimbutas 1997,
2005, 2012, 2013; Graves 1992; Campbell, Musès 1992). Con le trasformazioni legate alla scomparsa
delle società matrifocali viene scissa in diverse divinità e, con l’avvento delle religioni monoteiste, i
suoi attributi finiscono per essere associati soprattutto alla sfera demoniaca (cfr. Gimbutas 2013). Si
trattava di “una religione che venerava sia l’universo quale corpo vivente della Dea Madre Creatrice,
sia tutte le cose viventi dentro di esso, in quanto partecipi della sua divinità” (Gimbutas 1997: xiii).
9
Le composizioni originarie, datate al 3500-1900 a.C., sono sprovviste di titoli, attribuiti solo in
epoca recente. Pertanto, gli stessi testi riportano titoli diversi a seconda dello studioso che ne ha curato la
pubblicazione, e anche la suddivisione interna può variare. Qui seguiamo Kramer, Wolkstein 1985: 53-78.
Anna In w grobowcach świata di Olga Tokarczuk 203

seguono l’intreccio: accompagnata da Nina Szubur, Anna In si reca nell’oltretomba per


incontrare la sorella Ereškigal; al passaggio dei sette cancelli, il custode Neti le ordina di
togliersi un capo di vestiario; nuda di fronte alla sorella, Anna In è condannata a morte per
aver infranto il più grande dei tabù, essere scesa negli inferi pur essendo ancora viva, e il suo
cadavere è appeso a un gancio; passati tre giorni, Nina Szubur cerca aiuto dai tre ‘padri’10 di
Anna In. Qui Tokarczuk introduce la prima modifica strutturale dalle profonde ricadute
sul piano narrativo e soprattutto ideologico. Nel mito, i primi due padri (Enlil e Nanna)
respingono la richiesta di aiuto, mentre il terzo (Enki) acconsente. Nel romanzo, invece,
tutti e tre rifiutano di soccorrere la figlia.
I successivi cinque capitoli, pur riprendendo alcuni motivi tratti da narrazioni miti-
che, sono un’elaborazione originale di Tokarczuk. Nina Szubur cerca aiuto presso Szara
e Lulal, fugacemente menzionati come figli di Inanna in Dal Grande Superno al Grande
Infero (Kramer, Wolkstein 1985: 65-66) e dei poliadi di Umma e Bad-Tibira. In seguito,
si reca da Giga Mass, ex amante di Anna In, attualizzazione dell’eroe Gilgameš. Questa
sottotrama presenta motivi tratti dal Gilgameš e il toro celeste, poema ripreso poi nella
tavola vi de La saga di Gilgameš, di cui nel romanzo sono presenti parafrasi e criptoci-
tazioni11, e da L’albero di Huluppu, uno dei primi testi cosmogonici al mondo (Kramer,
Wolkstein 1985: 27-30). Viene introdotto quindi il personaggio di Anna Enhudu, basato
sulla figura storica di Enḫeduanna, figlia del re Sargon, vissuta intorno al 2300 a.C., po-
etessa, sacerdotessa e autrice di inni dedicati a Inanna12. Il nono capitolo è un racconto
nel racconto basato sul mito Enki e Ninmah (Pettinato 2001: 407-415): Anna Enhudu
narra della creazione degli uomini a opera di Ninma, unica dea in grado di plasmare la
vita dall’argilla, e della sua rottura insanabile con gli altri dei. L’incontro tra Nina Szubur
e Ninma, presentata come Grande Madre, è assente nel mito originario. La sua figura è
il risultato di una fusione sincretica di diverse divinità femminili, tra cui Demetra, dalla
quale trae l’attributo della cesta mistica, al centro di miti “il cui compito, dal punto di
vista psicologico, è rendere inoffensiva la minaccia della morte” (Tokarczuk 2006: 209).
Guardare dentro la cesta di Demetra era un rituale dei misteri eleusini e “l’iniziazione
rivelava sia la prossimità con il mondo divino, sia la continuità fra la vita e la morte”
(Eliade 2006: 326). Nel romanzo il contenuto della cesta non viene svelato, ma si tratta

10
Il termine ‘padre’ non deve essere inteso in maniera letterale. Nella cultura sumerica si
tratta di “un termine di rispetto usato nei confronti degli dei maschili” (De Shong Meador 2009:
229) e in questa accezione viene utilizzato anche da Tokarczuk.
11
Si pensi, ad esempio, a quando Gilgameš rifiuta le profferte amorose della dea affermando:
“Tu saresti comunque una montagna di ghiaccio, / una porta sgangherata che non può trattenere i
venti e la pioggia / […] / pece che brucia l’uomo che la porta, / […] / una scarpa che morde il piede
del suo portatore” (Pettinato 2016: 180). Nel romanzo, Giga Mass definisce Anna In con queste
parole: “È ghiaccio secco, una porta sgangherata che non trattiene il vento e non fornisce riparo, è
pece che imbratta i vestiti, una scarpa che stringe il piede” (Tokarczuk 2006: 68).
12
Sulla figura di Enḫeduanna cfr. De Shong Meador 2009.
204 Alessandro Amenta

probabilmente di oggetti sacri e simboli sessuali connessi al mistero dell’immortalità


intesa nell’ottica del ciclo di morte e rinascita13. Ninma formula una minaccia che Nina
Szubur deve riferire ai padri per persuaderli a soccorrere Anna In e che sortisce l’effetto
sperato. Con poche modifiche, il romanzo si riallaccia a Dal Grande Superno al Grande
Infero. Il terzo padre crea delle mosche meccaniche che, non essendo né vive né morte,
possono entrare nell’oltretomba senza sottostare alle sue regole. Questo motivo è una
rielaborazione futuristica di galaturra e kurgarra, i due esseri né maschi né femmina del
mito sumerico. Le mosche consolano Ereškigal mostrando compassione per il suo dolore
e ne ricevono in cambio il cadavere di Anna In. Resuscitata, alla dea viene concesso di
lasciare gli inferi a patto che trovi un sostituto. La narrazione segue quindi la trama de
Il ritorno, in cui un’orda infernale segue la dea per accertarsi che rispetti il patto. Nina
Szubur, Szara e Lulal sono risparmiati in quando amici fedeli che hanno mostrato dolo-
re per la scomparsa di Anna In. A questo punto viene inserita, con modifiche, la trama
de Il sogno di Dumuzi. Nel mito, il marito della dea fa un sogno che, interpretato dalla
sorella Geštianna, si rivela un preannuncio di morte imminente. Nel romanzo questo
personaggio è fuso con il protagonista del mito Inanna e Šukalletuda (Pettinato 2001:
380-395), dando vita alla figura del Giardiniere. Come Dumuzi, costui tenta di sfuggire
al suo destino, ma è catturato e portato nell’oltretomba. La sua condanna è mitigata dal
sacrificio della sorella Anna Geszti, che sceglie di soggiornare al suo posto negli inferi per
sei mesi all’anno, garantendo il naturale ciclo delle stagioni.
A questo punto avviene una nuova interpolazione mediante l’inserimento di una nar-
razione che ricalca quella nota come Viaggio di Inanna ad Eridu (Pettinato 2001: 307-336):
durante un banchetto, tra i fumi dell’alcol, uno dei padri concede una lunga serie di me alla
dea, che si affretta ad allontanarsi per concederli agli esseri umani. Il romanzo si conclude
con un rifacimento di uno degli inni composti da Enḫeduanna, la terza sezione di Signora
dal cuore immenso (De Shong Meador 2009: 149-154), dove Inanna viene celebrata me-
diante l’enumerazione dei suoi poteri.

5. La reinterpretazione femminista del mito


Dal punto di vista della fabula, il rifiuto dei padri di soccorrere la figlia, l’introduzione
della figura della Grande Madre e la risoluzione dell’intreccio mediante un’inattesa allean-
za tra soggetti ‘deboli’ costituiscono le tre modifiche principali apportate da Tokarczuk al

13
Secondo Eliade (2006: 323), “si è cercato di ricostruire il rituale iniziatico partendo dalla
formula segreta, il synthema o parola d’ordine degli iniziati, trasmessaci da Clemente d’Alessan-
dria (Protreprico, ii, 21, 2): ‘Ho digiunato, ho bevuto il ciceone; ho preso il paniere e dopo averlo
maneggiato l’ho deposto nella cesta, poi, riprendendo dalla cesta, ho ricollocato nel paniere’. […]
Molti studiosi hanno creduto di poter identificare il contenuto del paniere e della cesta: si tratte-
rebbe sia di una copia dell’utero, sia di un fallo, sia di un serpente, sia di dolci a forma di organi
genitali. Nessuna di queste ipotesi è convincente. Può darsi che i recipienti contenessero oggetti-
reliquie dei tempi arcaici, solidali di un simbolismo sessuale caratteristico delle culture agricole”.
Anna In w grobowcach świata di Olga Tokarczuk 205

mito. Al tempo stesso sono anche i nuclei tematici intorno ai quali ruota il ripensamento
del racconto in chiave femminista e, più in generale, sociale.
Come in ogni narrazione distopica in cui l’universo finzionale si regge su un concetto
distorto di ordine e logica, anche il rifiuto dei padri si basa su una motivazione stricto sensu
razionale. Entrando da viva nel regno dei morti, Anna In infrange un divieto che neanche
gli dei hanno il potere di trasgredire. La sua uccisione pare dunque giustificata. I padri, ga-
ranti del regolare funzionamento del mondo, non possono che biasimare il comportamen-
to della figlia: “chi agisce senza riflettere deve pagarne le conseguenze” (Tokarczuk 2006:
48), afferma il primo padre, e il secondo domanda in maniera retorica “quando qualcuno
è causa delle sue stesse sciagure dovrebbe forse contare sull’aiuto degli altri?” (Tokarczuk
2006: 52). A sintetizzare il giudizio sulla figlia è il terzo padre:
Anna In è sempre stata imprudente […]. Ci ha sempre procurato guai. […] Qui regna un
bell’ordine gerarchico. […] Ma lei, Anna In, In Anna, non è riuscita a inserirsi bene. È
asociale, adivina. È una ladra e un’ubriacona, so bene quello che dico. Un’imbrogliona,
una sgualdrina, una tossica. Un’attaccabrighe. Va sempre a caccia di avventure, ma cos’è
che va cercando? […] Non posso metterla al di sopra della legge. Ormai l’ho eliminata
dalla mia rubrica. Stanotte, a quanto vedo, è stata cancellata e il suo numero identificati-
vo è stato annullato (Tokarczuk 2006: 58).

Anche il rifiuto di Giga Mass riecheggia quello dei padri: “Quello che [Anna In] fa
non è umano. Noi vogliamo ordine, leggi, definizioni” (Tokarczuk 2006: 67).
I tre padri non hanno un nome, proprio come la città sono una rappresentazione ar-
chetipica e incarnano ciò che Jung chiama “ego-animus” ( Jung 1980: 121), un io centrato
unicamente sul principio maschile (animus) che, privo dell’elemento femminile (anima),
appare “rigido, attaccato ai propri principi, pronto a imporre la legge, didascalico, riforma-
tore del mondo, teorico, venditore di parole, litigioso e avido di potere” ( Jung 1980: 122).
I padri sono una personificazione dell’ordine patriarcale inteso come cieco mantenimento
dello status quo: chiusi nel proprio universo fondato su una logica inflessibile e un’asettica
razionalità, sono incapaci di comprendere le motivazioni altrui e integrarle nella propria
visione del mondo. Anna In si configura come elemento di disturbo, portatore di disordine
e scompiglio, contestatore di prassi e consuetudini. Come afferma Giga Mass,
là dove Anna In si ferma, dove si stabilisce un po’ più a lungo, dove si comporta come se
fosse a casa sua, tutto diventa subito sfocato, una leggera nebbia cala sugli occhi, si for-
mano crepe, piccoli passaggi tra il giorno e la notte. Ai confini si muovono i contrabban-
dieri, i segnali stradali perdono significato, la sinistra diventa la destra, il davanti diviene
il dietro (Tokarczuk 2006: 67).

La dea rappresenta il fattore entropico, anarchico, sovversivo, ma è proprio il suo com-


portamento avventato, l’esplorazione dell’ignoto, il ritorno dal mondo dei morti a spezzare
la ciclicità del tempo e dare avvio al cambiamento. L’evoluzione dei costumi e il progresso
culturale, sembra dire Tokarczuk, non possono avvenire senza strappi allo status quo, senza
metterne in crisi le norme. Il femminile è qui sinonimo di innovazione e rinnovamento.
206 Alessandro Amenta

L’introduzione del personaggio di Ninma serve a sbloccare Nina Szubur dallo stallo in
cui si trova dopo il rifiuto da parte di tutti i personaggi maschili. La scrittrice non le affida la
risoluzione diretta del problema, non sostituisce cioè il terzo padre del mito con la Grande
Madre, ma le assegna il ruolo di mediatrice. Ninma è il risultato della fusione della sumerica
Ninmah con altre divinità connesse alla creazione e alla maternità, è al contempo Grande
Dea e Baba Jaga, demiurga e strega. Nel romanzo appare come la genitrice primordiale, “è
più vecchia di quanto pensi”, confida Anna Enhudu a Nina Szubur, “dicono sia la madre
di tutti loro” (Tokarczuk 2006: 76). Diversamente dal mito Enki e Ninmah, la Ninma del
romanzo ha lasciato la città, e dunque la civiltà, stabilendosi nello spazio esterno, la steppa,
che nella concezione sumerica del mondo è il regno del caos e del disordine. Il suo autoesilio
è dovuto al fatto che, nonostante sia l’unica in grado di plasmare gli uomini dall’argilla,
uno dei padri la umilia accusandola di essere solo un’esecutrice di idee altrui: “Oh, no, no,
mia cara. Tu li hai solo fatti. Li hai realizzati benissimo, ma il progetto era mio. Sei un’a-
bile artigiana, ma l’artista sono io” (Tokarczuk 2006: 87-88). Qui ravvisiamo una chiara
allusione al dibattito sul ‘genio femminile’ che ha interessato a lungo la critica letteraria e
artistica occidentale, in particolare tra la seconda metà del xix e la prima metà del xx se-
colo. Come ricorda Showalter (1977: 98), secondo i critici vittoriani “il difetto maggiore
del genio femminile era la mancanza di immaginazione”. Le donne possono dunque essere
brave imitatrici, ma non vere artiste, opinione con cui ne veniva giustificata l’esclusione dalle
arti svalutandone programmaticamente l’operato (Gilbert, Gubar 1979; Battersby 1989). In
quanto Grande Madre, Ninma ha dalla sua la natura che, seppure sottomessa alla città, ne
è la fonte di sostentamento. Formula quindi un anatema che riecheggia quello di Demetra
(Eliade 2006: 318) e che Nina Szubur deve riferire ai padri per convincerli ad aiutare la figlia:

Ora tornerai dai padri. Rimarrai davanti a loro senza alcuna paura. Ripeterai le mie pa-
role, ricordale bene. Digli che se Anna In non tornerà, io non muoverò più un dito, mi
fermerò, smetterò di occuparmi di ogni cosa. Digli che finché non tornerà, non germo-
glierà neppure un seme, […] le stagioni cesseranno, il sole si fermerà a metà strada e loro
governeranno un mondo vuoto […]. Tutto morirà. […] Distruggerò le parti del discorso,
mescolerò le lingue […]. La gente abbandonerà la città e tornerà selvaggia. Così farò
(Tokarczuk 2006: 108-109).

Ninma si rivela non solo madre, ma anche dea della vendetta. È un femminino polie-
drico e sfaccettato che sfoggia il suo immenso potere nel suo aspetto creativo e distruttivo,
è insieme meravigliosa e mostruosa, in ogni caso terrificante. Rispecchia dunque la visione
della Grande Dea in quanto “Dispensatrice di Tutto” e “Reggitrice di Morte” (Gimbutas
1997: 328-329), senza dimenticare la terza funzione, quella di “Rigeneratrice”, secondo una
visione non dualistica ma basata su un concetto di continuum nascita-morte-rinascita che
ricalca la ciclicità della natura14.

14
Cfr. Gimbutas 2005: 27: “La Dea era una e molte, unità e molteplicità. La dea ibrida uccel-
lo-serpente era la grande dea del continuum vitale, la dea della nascita, della morte e della rinascita,
Anna In w grobowcach świata di Olga Tokarczuk 207

Prima di lasciare Nina Szubur, Ninma le rivela un segreto. In una serra sta coltivando
una nuova specie umana:

“Questi li sto creando con la luce e i minerali più puri della terra, mercurio e argento”,
afferma con tenerezza la vecchia donna. “Sono leggeri, ma capaci di mettere radici. Sono
calmi e fiduciosi come piante, ma non sono sciocchi. […] Sono autonomi, ma non sono
soli. Non combattono tra loro, non mangiano altre creature. Li ho dotati di un piccolo,
buffo istinto: si sostengono a vicenda. Più si aiutano l’un l’altro, più diventano forti. […]
Li sto trasferendo fuori dalla città, tra le rovine, di nascosto, li porto via nei cesti oltre i
confini metropolitani e li lascio liberi un po’ alla volta. Questi saranno diversi, avranno
una maggiore consapevolezza, le loro città saranno più felici, ampie e pulite, andranno
lontano”, dice Ninma con orgoglio (Tokarczuk 2006: 110-111).

Qui la distopia lascia il passo all’utopia. Una nuova razza, figlia di una visione antimi-
litarista, solidale, ambientalista e antiutilitarista, sta per invadere pacificamente il mondo.
Quella di Ninma è una concezione sovversiva, tesa a soppiantare i disvalori su cui si fon-
da la città-incubo: competizione, aggressività, dominazione, sfruttamento. “Non dirlo ai
padri”, conclude Ninma, coinvolgendo Nina Szubur in una cospirazione per plasmare un
nuovo mondo. Il suo braccio destro si rivela la stessa Anna In. “Rifonderò il mondo dal
principio”, aveva dichiarato la dea prima di chiedere alla madre la mappa degli inferi e rea-
lizzare le sue “visioni di risanamento” (Tokarczuk 2006: 107). Se l’attuale umanità è frutto
di una Weltanschauung patriarcale, il futuro si apre a una rivoluzione al femminile, e per
realizzarla occorre morire e rinascere con una nuova consapevolezza.
Il terzo aspetto della rilettura del mito ruota intorno al concetto di ‘sorellanza’, mutua-
to dal femminismo radicale degli anni Settanta, che indicava una rete di relazioni di vici-
nanza fondata sull’assistenza, l’incoraggiamento, il sostegno, il rispetto reciproco, costitui-
va un legame di solidarietà e forniva un simbolo dell’alleanza tra donne in quanto soggetti
storicamente accomunati dall’esperienza dell’oppressione (cfr. Code 2000). Come afferma
Humm (1989: 210), “la sorellanza è basata sulla chiara consapevolezza che tutte le donne,
indipendentemente dalla classe sociale, la razza o la nazionalità, hanno un problema co-
mune, il patriarcato”. Tokarczuk ne amplia il campo semantico, includendovi qualunque
soggetto socialmente emarginato, sottomesso, escluso. Dopo il rifiuto del terzo padre, Nina
Szubur trova aiuto in un servo, una creatura senza volto, privata di un’identità, “perché ai
servi un volto non serve” (Tokarczuk 2006: 60), che le suggerisce di rivolgersi ad Anna
Enhudu. Questa introduce Nina Szubur al vincolo della sorellanza tramite il racconto della
storia di Ninma, che assume i contorni della parabola della ribellione al patriarcato, e le
fornisce l’indirizzo del rifugio della Grande Madre. È di nuovo una vittima del sistema,
un anonimo conducente di risciò, che aiuta Nina Szubur a uscire di nascosto dalla città-
incubo portandola nella steppa. Ninma, infine, le fornisce la cesta mistica e l’anatema che

creatrice e distruttrice, fanciulla e vecchia, una dea che nel fiore degli anni sposava il giovane dio
nello hieros gamos, le ‘nozze sacre’, e faceva nascere – per l’eternità – tutto il creato”.
208 Alessandro Amenta

convinceranno i padri ad agire. “Sorellanza è potere”, recitava uno slogan degli anni Set-
tanta divenuto il titolo di un’importante antologia del femminismo radicale (cfr. Morgan
1970), e Tokarczuk ne fornisce una dimostrazione concreta sul piano delle dinamiche nar-
rative. La soluzione dell’intreccio è infatti il frutto di un lavorio comune, di un’alleanza tra
oppressi fondata sulla solidarietà, l’empatia, la compassione. Anna In, “la nostra Anna In”
(Tokarczuk 2006: 60), come afferma il servo senza volto, si configura come patrona delle
vittime del sistema, e non a caso la sorellanza figura nell’elenco dei poteri divini della dea
(Tokarczuk 2006: 192).
Vale la pena notare che alcuni critici hanno ravvisato un approccio manicheo alle
questioni di genere e hanno espresso forti dubbi sulla rappresentazione della mascolinità
nel romanzo (Nowacki 2006: 23; Siwor 2012: 121). Senza dubbio alcune dinamiche sono
descritte in maniera volutamente esasperata o parodistica. Tuttavia, le critiche non pren-
dono in considerazione figure come Lulal, Szara, il conducente di risciò e il servo senza
volto che incarnano una mascolinità inoffensiva, sensibile, empatica. Il binomio, infatti,
non è mascolinità e violenza, ma potere e violenza. Slegata dall’esercizio del potere, un’altra
mascolinità è possibile. Quella di Tokarczuk è una critica ad ampio raggio che non ha per
oggetto solo il sessismo, ma a ogni forma di predominio basato su sottomissione e sfrutta-
mento. È anche una critica anticapitalista, luddista, ecologista, antiurbanista: motivi come
la città che soppianta la natura, la tecnologia che manipola le identità, il paternalismo come
forma totalitaria di ‘buon governo’, l’asservimento dei corpi alle esigenze della produttività,
la manipolazione genetica come sfruttamento dei più deboli informano da sempre la sua
scrittura (Czapliński 2006; Wiącek 2012).

6. Una rilettura psicanalitica


Quasi tutti i romanzi di Tokarczuk sono intessuti di riferimenti diretti o indiretti alla
psicanalisi junghiana, dalla quale derivano concetti e nozioni (Olteanu 2006: 59; Witkoś
2009; Wiącek 2012), spesso sotto forma di criptocitazioni (Kantner 2015: 48), tanto che
la scrittrice è “nota per filtrare le narrazioni mitiche attraverso il pensiero di Jung” (Lasoń-
Kochańska 2005: 197)15. Da questo punto di vista, Anna In w grobowcach świata non co-
stituisce un’eccezione. Stupisce, pertanto, la scarsa attenzione della critica a questo aspetto
del testo, motivata forse dalla sua ricezione come semplice “parafrasi” o “trasposizione” del
mito (Nowacki 2006: 23) e non come opera pienamente originale. Eppure, il romanzo può
essere visto come punto di arrivo di una tradizione esegetica che ha interpretato il mito di
Inanna alla luce della psicologia analitica (Campbell 1976, 2012; Brinton Perera 1981; Kra-
mer, Wolkstein 1985; De Shong Meador 2009; Palmiotto 2009).
Il primo a interpretare la figura di Inanna in questa chiave è stato Campbell, che ne
parla come di “una dea in forma duale: da un lato era la dea della vita e dall’altra la dea della

15
Ricordiamo che Olga Tokarczuk si è laureata in psicologia all’Università di Varsavia nel
1985 e, prima di raggiungere il successo come scrittrice, ha lavorato per alcuni anni come psicologa.
Anna In w grobowcach świata di Olga Tokarczuk 209

morte” (Campbell 1976: 48)16. La sua discesa agli inferi è la prima attestazione scritta del
topos del “viaggio dell’eroe”:

Inanna ed Ereškigal, le due sorelle, rispettivamente la luce e le tenebre, insieme rappresen-


tano, secondo il simbolismo antico, i due aspetti di un’unica divinità; e il loro confronto
costituisce l’epitome dell’intero significato del difficile cammino delle prove. L’eroe, sia
egli dio o dea, uomo o donna, il protagonista di un mito o l’autore di un sogno, scopre
e assimila il proprio contrario (il proprio io insospettato) inghiottendolo o venendone
inghiottito. […] Allora scopre ch’egli e il suo contrario non sono di specie diversa, ma
sono un’unica carne (Campbell 2012: 130).

Il concetto è sviluppato da Sylvia Brinton Perera, che vede nel dualismo Inanna /
Ereškigal la prima fase del processo di disgregazione e di depotenziamento subito dall’ar-
chetipo della Grande Dea, i cui attributi vengono prima disgiunti nei poli contrapposti del
mondo superiore e inferiore e in seguito ridistribuiti tra varie divinità. La discesa agli inferi
costituirebbe un rituale di iniziazione mirato alla “ricerca di interezza” (Brinton Perera 1981:
7) come risposta allo smembramento simbolico del femminino. Ottenere la “riconnessione
del sé” implica il desiderio di entrare in contatto con gli aspetti repressi o negati del femmi-
nile, il sacrificio dell’identità della donna in quanto figlia spirituale del patriarcato e il suc-
cessivo rinnovamento come individuo dotato di una consapevolezza più profonda. Uscita
dagli inferi, Inanna simboleggia la donna che ha concluso il “processo di individuazione”
junghiano17 e ha saputo ripristinare una “coscienza integrale” (Brinton Perera 1981: 14).
Per Paola Palmiotto i personaggi del mito incarnano le diverse componenti dell’in-
dividuo. La dea che si spoglia davanti ai cancelli degli inferi simboleggia “l’io che lascia le
redini del comando e si arrende al proprio sé”, e la sua discesa è “un’immersione nell’in-
conscio” (Palmiotto 2009: 132). Ninšubur agisce da io ausiliario, quella “parte dell’io che
rimane a vegliare quale garante del viaggio di ritorno” (Palmiotto 2009: 132). Ereškigal è
l’Ombra in senso junghiano. Per Jung (1980: 276), “la figura dell’Ombra personifica tutto
ciò che il soggetto non riconosce e che purtuttavia, in maniera diretta o indiretta, instanca-
bilmente lo perseguita: per esempio tratti del carattere poco apprezzabili o altre tendenze
incompatibili”. Condannando a morte Inanna, Ereškigal, la parte oscura del sé, compie
un sacrificio, dato che “l’iniziazione comporta la perdita di una parte, qualcosa che si è
inaridito deve finire” (Palmiotto 2009: 133). Questa aridità di Inanna è l’assenza di un ani-

16
L’opera di Campbell è stata pubblicata originariamente nel 1949. Lo studioso vede nel
mito di Inanna la prima testimonianza letteraria della Grande Dea. Cfr. le sue parole con quelle di
Gimbutas (2005: 78): “la dea della nascita e della vita era anche la dea della morte e della rigenera-
zione. Rappresenta il ciclo completo del continuum vitale”.
17
Nella psicanalisi junghiana è “quel processo che produce un ‘individuo’ psicologico, vale
a dire un’unità separata, indivisibile, un tutto” ( Jung 1980: 267) in cui le diverse componenti del sé
vengono finalmente integrate, perché “questa totalità deve necessariamente includere non solo la
coscienza ma anche lo sterminato campo degli accadimenti inconsci” ( Jung 1980: 268).
210 Alessandro Amenta

mus18, ossia “l’‘uomo interiore’ della psiche femminile” ( Jung 1985: 206). Se la donna non
interiorizza l’animus (e l’uomo l’anima), il benessere e l’equilibrio della persona sono com-
promessi. Per recuperarlo, Inanna si confronta con l’Ombra che, uccidendola, uccide l’io,
ma è una morte simbolica che porta alla rinascita come individuo completo. Il mito narra
perciò di un’eroina “che scende nell’inconscio e si riconcilia al sé, acquisendo rinnovamen-
to e saggezza” (Palmiotto 2009: 140).
Anche il romanzo contiene un’analoga interpretazione, ma la codifica mediante
un linguaggio simbolico. Anna In va negli inferi perché sente la voce della sorella:

“Lei mi sta chiamando”, afferma Anna In. Dice che da qualche giorno sente la sua voce,
riflessa e amplificata dallo scheletro della città, dai labirinti del proprio orecchio, il mar-
tello risuona sull’incudine come una campana. La voce è distorta; non riesce a distin-
guere le parole. Scuote la testa, ma quella voce non la lascia in pace. È un lamento, è un
richiamo, ora è un grido, poi solo un sussurro.
“Cosa vuole?”, chiedo cauta, nel tentativo di nascondere il mio terrore.
“Non lo so. È un grido di dolore. Un lamento” (Tokarczuk 2006: 17-18).

Nel romanzo, Ereškigal è chiamata “Altro Lato” o “Signora Altro Lato”. Questo epi-
teto deriva dal conio in circolazione nella realtà romanzesca, una moneta che sul verso ri-
porta l’effige di Anna In e sul recto quella di Ereškigal. Come afferma Nina Szubur, “[Giga
Mass] mi lancia una moneta. L’afferro al volo, si scalda con il mio calore, sopra c’è la sua
effige, il volto di Anna In, In Anna, il suo volto con un centinaio di treccine. L’Altro Lato è
quell’altra, sua sorella” (Tokarczuk 2006: 69). Lo stesso appellativo è usato dal guardiano
Neti, che non sa nulla della realtà del mondo dei vivi, e lo impiega quindi in senso pura-
mente metaforico: “Si potrebbe pensare che siano due lati di una stessa moneta, il recto e
il verso. Quella più luminosa è il recto. E la mia padrona è il verso, la Signora Altro Lato”
(Tokarczuk 2006: 31). Jung (1980) usa proprio le espressioni “altro lato” o “lato oscuro” per
definire l’Ombra, che chiama anche “fratello oscuro”19, e nel romanzo Ereškigal è la “sorella
oscura” contrapposta alla “sorella luminosa”. Quello che Anna In sente è allora il richiamo
della sua Ombra: Ereškigal rappresenta “la componente della personalità che generalmente
ha segno negativo” ( Jung 1979: 191).
Quando Neti comunica a Ereškigal che qualcuno ha bussato alla porta degli inferi,
afferma: “è venuta una persona che afferma di essere tua sorella” (Tokarczuk 2006: 26). In
polacco il termine ‘persona’, attestato nel significato di ‘osoba’ nel Słownik języka polskiego

18
A differenza dell’Ombra, che “coincide con l’inconscio ‘personale’” ( Jung 1980: 276),
animus e anima “vivono e funzionano nei più profondi strati dell’inconscio, in particolare in quel
profondo strato filogenetico da me denominato ‘inconscio collettivo’” ( Jung 1980: 280).
19
Ecco come Jung (1983: 39) descrive l’Ombra: “Esiste in qualche luogo un sinistro, tremen-
do fratello, ossia la nostra antitesi in carne e ossa, legato a noi da vincoli di sangue, che contiene e
accumula malignamente tutto ciò che noi abbiamo cercato di far sparire sotto il tavolo”.
Anna In w grobowcach świata di Olga Tokarczuk 211

(1807-1814) di Linde, è riportato come desueto già nel Słownik języka polskiego (1958-1969)
di Doroszewski, che fornisce come prima accezione quella ironica e scherzosa di ‘persona
che ha grande importanza, generalmente apprezzata, rispettata; dignitario, personalità, fi-
gura’. Dato il linguaggio solenne del personaggio di Neti, è improbabile che usi il termine
‘persona’ in senso ironico, tanto più se consideriamo il terrore che prova alla sola idea di
avvicinarsi alla sua padrona Ereškigal: “Non è piacevole portare notizie alla mia signora.
Non è piacevole stare davanti a lei, è difficile riuscire a tirare fuori la voce. Io, Neti, un
mucchio di ossa tenute assieme da una cordicella di lino, io chiunque, io che racconto,
tremo, quando mi avvicino a lei” (Tokarczuk 2006: 23). È quindi plausibile che Tokarczuk
usi questo termine in riferimento alla psicologia analitica, dove la Persona è una maschera,
“il sistema di adattamento o modo di confrontarci col mondo”, ossia “non ciò che uno è
realmente, bensì ciò che egli e gli altri credono che sia” ( Jung 1980: 120-121). L’uso di una
terminologia connotata pare quindi mirato a instradare il lettore verso una lettura psica-
nalitica del romanzo. Anna In, la Persona come maschera dell’individuo, sente il richiamo
di Ereškigal, la sua Ombra, luogo del rimosso e delle emozioni celate. Prima dell’incontro,
Anna In indossa i me sotto forma di capi di abbigliamento, che rappresentano meccanismi
di difesa messi in atto dall’io cosciente per proteggersi dalla parte istintiva e irrazionale di
sé, ma questi devono essere dismessi affinché il confronto possa avvenire. L’incontro tra le
due sorelle è una raffigurazione concreta di quella che Jung (1985: 126) chiama “battaglia
per la liberazione”: messa di fronte alla sua Ombra in tutta la sua simbolica nudità, la ma-
schera cade e la Persona soccombe. Secondo Jung (1983: 299), infatti, “la dissoluzione della
Persona è condizione indispensabile dell’individuazione”.
A questo punto dobbiamo notare che l’incontro tra Anna In e la sorella avviene in
un’umida caverna il cui pavimento è perennemente coperto da uno strato d’acqua. Secon-
do Jung “l’acqua è il simbolo più corrente dell’inconscio” ( Jung 1980: 17) e “il nostro incon-
scio nasconde un’acqua vivente” ( Jung 1980: 22). L’acqua stagnante, la grotta, la tomba, il
mondo sotterraneo sono anche forme assunte dall’archetipo materno ( Jung 1980: 82-83).
L’infero è allora il ventre della dea, l’utero in cui ogni cosa muore e si rigenera secondo una
visione ciclica del tempo20; non a caso Ereškigal “geme per le doglie partorendo la vita dalla
morte” (Gimbutas 2005: 78). In questo luogo simbolico avviene il “rito di reintegrazione”
( Jung 1980: 38), la ricongiunzione delle diverse componenti della personalità con cui giun-
ge a compimento il processo di individuazione. “La caverna è il luogo della rinascita” ( Jung
1980: 131) e “colui al quale accade d’imbattersi in quella caverna, cioè nella caverna che
ognuno porta dentro di sé, ossia nell’oscurità che si trova dietro la sua coscienza, è coinvol-
to in un processo di trasformazione” ( Jung 1980: 132). L’uscita dall’oltretomba rappresenta

20
Marija Gimbutas (2005: 28) afferma, ad esempio, che “la tomba è anche il luogo sacro da cui
emana una nuova vita. La tomba è il grembo della dea” e, più avanti: “Come nel mondo naturale, in
cui la nuova vita cresce sui resti di quella vecchia, la nascita, secondo gli Antico-europei, era parte di
un ciclo che comprendeva la morte: l’utero della dea, fonte della nascita, è allo stesso modo scaturigine
di morte; in senso simbolico, l’individuo ritornava nel grembo della dea per rinascere” (ibidem: 95).
212 Alessandro Amenta

la nascita di un individuo nuovo, consapevole, completo. Come si evince dal dialogo tra
Nina Szubur e Ninma, Anna In era cosciente di cosa la attendeva negli inferi: per portare
a compimento la sua “visione di risanamento” doveva innanzitutto ricongiungersi con la
sua Ombra:

Niente può esistere infatti senza il suo opposto, perché entrambi erano al principio Uno
e Uno saranno nuovamente alla fine. La coscienza può esistere solo con il costante ri-
conoscimento e rispetto dell’inconscio, così come tutto quello che è vivo deve passare
attraverso varie morti ( Jung 1980: 96).

7. Conclusioni
Frutto della reinterpretazione di uno dei miti più antichi del mondo, il romanzo di
Tokarczuk è un’opera complessa e articolata tanto a livello formale quanto contenutisti-
co. Lo testimoniano l’interpolazione del materiale sumerico con fonti assiro-babilonesi
e greco-romane, l’attualizzazione del racconto in direzione cyberpunk, il ricollocamento
delle linee narrative all’interno dell’economia testuale, la risemantizzazione attuata trami-
te il topos della Grande Madre, il concetto della sorellanza, lo Spannung e la risoluzione
dell’intreccio. Il portato e la valenza del romanzo risultano pienamente comprensibili alla
luce della situazione politico-culturale polacca dell’inizio del xxi secolo. Nella postfazio-
ne al romanzo la scrittrice afferma: “Oggi la discesa della Dea nel mondo sotterraneo può
essere intesa come il desiderio di nascondersi, di restare nell’ombra durante l’inverno della
civiltà per tornare in futuro come ribelle e contestatrice di un ordine patriarcale corrotto e
ingiusto” (Tokarczuk 2006: 214). Dietro questo “inverno della civiltà” non è difficile rav-
visare il clima che ha portato al primo governo Kaczyński (2006-2007), contraddistinto
da un forte inasprimento dei toni e delle posizioni ufficiali su temi quali l’aborto, la fecon-
dazione in vitro, i ruoli di genere, l’educazione sessuale, l’eutanasia, l’istruzione21. Si pensi,
ad esempio, al progetto di legge, non approvato dal Parlamento, per la modifica dell’art. 38
della costituzione (“la Repubblica Polacca garantisce a ogni individuo la difesa giuridica
della vita”) mediante l’introduzione della dicitura “a partire dal concepimento”, che di fatto
avrebbe implicato il divieto assoluto di aborto, o la campagna contro la “propaganda omo-
sessuale” portata avanti dall’allora ministro dell’istruzione Roman Giertych. Il romanzo
di Tokarczuk si inserisce quindi in un clima di backlash antifemminista, termine con cui si
intende “un massiccio contrattacco ai diritti delle donne, un vero e proprio contraccolpo,
un tentativo di annullare quella manciata di sudate vittorie che il movimento femminista
è riuscito a ottenere” (Faludi 1992: 19). In ambito polacco questo ha assunto la forma di

21
Secondo Agnieszka Graff (2008: 61-62) il linguaggio e le chiavi di lettura della realtà so-
cio-politica polacca hanno iniziato a mutare radicalmente intorno al 2003, quando il dibattito pub-
blico è passato dalle discussioni sull’entrata nella ue e sulle trasformazioni del sistema politico alla
questione dei ‘valori cristiani’ messi a rischio, del ‘rinnovamento morale’ e del ritorno dell’immagine
della Polonia come ‘paese in stato d’assedio’, baluardo del cattolicesimo e vittima della storia.
Anna In w grobowcach świata di Olga Tokarczuk 213

un “meccanismo per cui la tensione sociale e l’inquietudine culturale connesse alla tra-
sformazione dell’identità collettiva si riflette quasi di rimbalzo sulle donne” (Graff 2008:
10). Il recupero dell’immagine della dea nel romanzo non è quindi funzionale solo alla
reinterpretazione e alla riappropriazione della tradizione culturale in chiave femminista,
ma, in quanto simbolo e modello, dischiude la possibilità di una resistenza collettiva di
stampo emancipativo e rivendicativo. Inanna / Anna In si presenta allora come emblema
del femminino non addomesticato e dissidente in lotta contro un sistema repressivo e au-
toritario. È anche per questo che critici come Czapliński (2006: 14) hanno affermato che
“se al giorno d’oggi i libri potessero scatenare una rivoluzione, definirei il nuovo romanzo
di Olga Tokarczuk un libro rivoluzionario”.

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Abstract

Alessandro Amenta
Olga Tokarczuk’s Anna In in the Tombs of the World: A Feminist Retelling of the Sumerian Myth of
the Goddess Inanna

Rewriting mythological characters, tales and motifs is a popular strategy used in feminist lit-
erature from the late 20th century. Deconstructing sexist cultural canons, challenging gender nor-
mative narratives, subverting patriarchal values and offering new female perspectives are the main
purposes. Within such a framework, the article analyzes the reinterpretation of the Sumerian myth
of the goddess Inanna made by one of Poland’s most prominent writers. Olga Tokarczuk’s Anna In
in the Tombs of the World employs such strategies as the modernization of the story, now set in a
dystopian, high-tech and futuristic world; the introduction of a few, but significant, changes in the
narrative structure, like the modification of the plot and the insertion of the figure of the Mother
Goddess; the syncretic fusion of themes and topics belonging to different eras and cultures (Sumer-
ian, Assyro-Babylonian, Classical Antiquity) and the redefinition of the psychological meanings
underlying the descent of the goddess into the underworld. Ultimately, the writer carries out a deep
resemantization and refunctionalization of the original Sumerian myth based on a feminist and
Jungian approach. Published in the mid-2000s, the novel should be read as a critical voice in the
context of the antifeminist backlash that took shape at that time in Polish politics and jeopardized
feminist conquests gained to date.

Keywords

Olga Tokarczuk; feminism; mythology; Jung; rewriting; Inanna.


materiali
e discussioni
© 2018 Author(s). Open Access. This article is “Studi Slavistici”, xv, 2018, 1: 219-226
distributed under the terms of the cc by-nc-nd 4.0 doi: 10.13128/Studi_Slavis-22498
Submitted on 2018, January 14th issn 1824-761x (print)
Accepted on 2018, May 22nd Materiali e discussioni issn 1824-7601 (online)

Marcello Garzaniti

Da Roma a Mosca.
Sofia Paleologa e i greci in Russia
fra la fine del medioevo e l’inizio dell’epoca moderna.
A proposito della recente biografia di T. Matasova (Mosca 2016)

A Nina Vasil’evna Sinicyna in memoriam

Nella popolare collana che si pubblica in Russia fin dal tempo degli zar (1890), Žizn’
zamečatel’nych ljudej (Vite di uomini illustri) sono uscite negli ultimi dieci anni le biografie
di due personaggi di origine greca che hanno lasciato una profonda impronta nella storia e
nella cultura russa. La prima, scritta da N. Sinicyna (2008), è dedicata a Massimo il Greco,
monaco atonita che divenne uno dei più importanti scrittori polemisti della Russia del
Cinquecento. La seconda, curata da T. Matasova (2016), narra le vicende di Sofia Paleolo-
ga, andata in sposa nel 1472 al gran principe di Mosca Ivan iii.
Nonostante siano pensati per il grande pubblico questi volumi assumono dignità
scientifica per l’ampia e aggiornata bibliografia di riferimento, per le numerose fonti ci-
tate, anche direttamente dai manoscritti, e infine per lo sforzo di offrire una sintesi spesso
originale di alcuni nodi fondamentali della storia culturale russa. La tematica è di rilievo
notevole anche per lo studio delle relazioni fra la Russia e il nostro paese, dal momento che
entrambi i personaggi hanno lungamente soggiornato in Italia e, pur in modi diversi, si
sono fatti portavoce del rinnovamento culturale e sociale che si stava realizzando all’epoca
dell’Umanesimo e del primo Rinascimento.
Avendo già avuto occasione di esporre, sia pur indirettamente, le mie riflessioni sul-
la biografia di Sinicyna (Garzaniti 2015 e 2017)1, dedicherò queste pagine alla biografia
della principessa bizantina, ultima erede, pur di un ramo cadetto, della casata bizantina
che occupava il trono costantinopolitano alla sua caduta in mano ottomana. Matasova,

1
Al di là dei diversi punti di vista, si deve apprezzare lo sforzo di sintesi delle complesse
problematiche legate sia alla percorso biografico, sia all’opera di Maksim, di cui la studiosa russa re-
centemente scomparsa stava curando la prima edizione scientifica (Maksim Grek 2008-2014). Sus-
sistono, comunque, ancora tante lacune relative per esempio al suo soggiorno in Italia, o alle vicende
legate ai processi e alla reclusione, come pure al drammatico passaggio di poteri da Basilio iii a Ivan
Terribile. Di tutto questo l’autrice era assolutamente consapevole e di conseguenza si mostrava assai
prudente pur proponendo di volta in volta la sua interpretazione. La sua scomparsa interrompe un
lavoro fruttuoso che speriamo possa essere continuato dalle nuove generazioni di studiosi. Le dedi-
chiamo volentieri le presenti riflessioni.

Marcello Garzaniti (University of Florence) – marcello.garzaniti@unifi.it


The author declares that there is no conflict of interest
220 Marcello Garzaniti

studiosa delle relazioni culturali della Russia con l’Occidente all’epoca dell’Umanesimo
e del Rinascimento, ha deciso in primo luogo di dare ampio spazio all’ambiente italiano
e alla presenza dei greci fuoriusciti nel nostro paese, cominciando dal cardinal Bessario-
ne, per poi seguire in modo dettagliato le vicende della principessa bizantina a Mosca, in
stretta relazione con i greci che l’avevano accompagnata nel suo viaggio o che in seguito
avevano raggiunto la Russia.
Ci soffermeremo solo sugli snodi fondamentali della ricostruzione proposta dalla
giovane studiosa, che si è sforzata di avvicinare un vasto pubblico a una tematica appa-
rentemente lontana, mettendo in risalto diversi aspetti della vita quotidiana, a cominciare
dall’alimentazione che caratterizzava l’ambiente mediterraneo e i paesi d’arrivo2, e facendo
riferimento, soprattutto riguardo all’Italia, all’aspetto delle città del tempo, con paralleli (a
volte troppo insistiti), con le impressioni dei viaggiatori russi fra Ottocento e Novecento.
Per descrivere la formazione di Zoe Paleologa, di cui non si conosce nemmeno la pre-
cisa data di nascita – probabilmente fra la fine degli anni quaranta e l’inizio degli anni cin-
quanta del xv sec. –, l’autrice non poteva fare a meno di descrivere le vicende della famiglia
dei Paleologi negli anni della caduta dell’impero, a partire dalle sorti del padre Tommaso
(m. 1465), già despota della Morea, presente giovanissimo al concilio di Firenze e imparen-
tato con i Malatesta di Rimini3. Dopo la fuga dalla Morea (1460) e la tappa a Corfù, dove
lasciò la famiglia, Tommaso raggiunse Ancona e in seguito, sfuggito al contagio della peste,
arrivò a Roma, dove portò in dono le preziose reliquie dell’apostolo Andrea, conservate a
Patrasso, un evento solenne che assunse un determinante valore simbolico per il dialogo fra
oriente e occidente in quel drammatico frangente della storia4.
A Roma Zoe e i suoi fratelli giunsero solo dopo la morte del padre e furono cresciuti
sotto la protezione del cardinal Bessarione, uno dei protagonisti del concilio di Ferrara e
Firenze, che sancì l’unione fra le chiese romana e costantinopolitana. Asceso alla porpora
cardinalizia, Bessarione era divenuto il più importante propugnatore dell’unione, insieme
al metropolita di Kiev e in seguito patriarca di Costantinopoli, Isidoro. Per la ricostruzione
della sua attività, soprattutto quale protettore della diaspora greca in Italia e promotore
dell’eredità culturale bizantina in Italia, la studiosa si sarebbe potuta avvalere dei fonda-
mentali studi di Concetta Bianca (Bianca 1999), che invece non le sono noti.

2
Ci ha fatto piacere in particolare la menzione della versione russa dello studio di uno dei
maggiori esperti dell’alimentazione italiana nel medioevo (Kappati, Montanari, 2006).
3
Per le relazioni con i Malatesta e col cardinal Bessarione si fa riferimento allo studio di S.
Ronchey (Ronchey 2000; traslitterato nella forma Ronki!). Alla medesima studiosa, ampiamente
citata nella biografia, si fa riferimento per l’iconografia di Tommaso che sarebbe stato raffigurato nel
corteo dei magi dell’Adorazione di Benozzo Gozzoli (Ronchey 2009).
4
Matasova ne offre una bella descrizione seguendo le vicende delle reliquie fino alla loro
restituzione all’epoca della recente riconciliazione promossa da Paolo vi e il patriarca Atenagora.
Sul ruolo dell’apostolo Andrea nella tradizione bizantina si sarebbe potuto citare il classico studio
di F. Dvornik (1958).
Da Roma a Mosca 221

Tra le scarne notizie che si conservano sulla principessa Zoe e i suoi fratelli maggiori,
emerge la cura che Bessarione ebbe per la loro educazione, mantenendoli nell’ambiente della
diaspora greca. In particolare la vicenda dell’accordo matrimoniale con il gran principe di
Mosca Ivan iii trova spiegazione nell’ambito della strategia del cardinale greco. La studiosa
russa, seguendo P. Pierling, preferisce focalizzarsi sulle mene del vicentino Giovanni Della
Volpe (Ivan Frjazin), “maestro della zecca” del Cremlino, quasi che l’iniziativa fosse partita
da lui5. Sicuramente più accattivante la storia finisce per mettere in secondo piano il progetto
concepito da Bessarione di unire la casata dei Rjurikidi con la famiglia imperiale dei Paleologi,
sia per offrire un rifugio sicuro alla diaspora greca (di lì a poco Bessarione sarebbe scomparso),
sia e soprattutto nella speranza di coinvolgere la potenza moscovita nella lotta contro gli Ot-
tomani, sempre con l’auspicio di riportare la Chiesa russa nell’alveo dell’obbedienza romana.
Del resto, gran parte degli elementi offerti dalla studiosa rimandano proprio a questo proget-
to, che in qualche modo si congiungeva con gli interessi di alcune casate italiane per i contatti
commerciali con l’Europa settentrionale. Lo dimostra in primo luogo la presenza di Clarissa
Orsini, moglie di Lorenzo il Magnifico, latrice di una ricca dote per la sposa.
Nell’invio di Zoe Paleologa a Mosca si rinnovava in forme diverse il progetto costan-
tinopolitano, che aveva visto elevare Isidoro di Monembasia alla guida della metropolia
russa prima del concilio di Ferrara-Firenze, per salvare ciò che rimaneva dell’Impero Ro-
mano d’Oriente. In questo progetto si manifesta chiaramente il ruolo di alcune famiglie
bizantine che avevano accompagnato Tommaso Paleologo nel suo esilio italiano, a comin-
ciare dalla famiglia dei Tarcanioti, con il suo esponente di spicco Giorgio6, famiglie che
poi seguirono la principessa Zoe a Mosca e assunsero un ruolo fondamentale nelle attività
diplomatiche del gran principato7.
Con grande scrupolo Matasova segue le vicende degli scambi di ambascerie e il lungo
viaggio della Paleologa, figlia del porfirogenito Tommaso, con i suoi accompagnatori greci
e italiani attraverso le terre germaniche e la pericolosa traversata del Baltico fino all’arrivo
a Mosca. Riportando le cronache russe del tempo si mette in particolare rilievo la reazione
negativa del metropolita di Mosca, Filipp, e in generale del clero ortodosso all’arrivo della
delegazione romana, quando si sollevò ancora una volta la questione della presenza della
croce latina, e si descrive la nuova celebrazione del matrimonio. Nella presentazione delle

5
Si sarebbe potuto citare a questo proposito la bella voce su Della Porta di L. Ronchi De
Michelis, che per esempio offre tutt’altra spiegazione dell’assenza dell’anello rituale alla cerimonia
dello sposalizio in Vaticano (Ronchi De Michelis 1990). Non deriverebbe, infatti, dall’estraneità
della tradizione dello scambio anulare nella Russia del tempo, come ipotizza Matasova, ma dalla
necessità, imposta da Mosca, di rendere indispensabile una nuova celebrazione del matrimonio se-
condo il rito ortodosso al Cremlino.
6
Sul personaggio, noto in Russia come Juryj Staryj Trachaniot, cfr. infra.
7
Oltre alla suddetta famiglia la studiosa cita ancora Demetrio Rhaul Kavakis (Dmitrij Ra-
lev o Larev) e Costantino, principe di Teodoro (Mangup), poi diventato monaco col nome di Cas-
siano (Matasova 2016: 116-117). Solo più tardi, nel 1496, sarebbero giunti a Mosca i Lascaris.
222 Marcello Garzaniti

relazioni dell’ortodossia russa con la Chiesa romana non ci sembra del tutto adeguato l’uso
del termine “cattolico” che in genere nella storiografia si usa solamente a partire dall’epo-
ca della riforma luterana8, come pure del termine di “uniti” o “uniati” per designare quei
greci che avevano riconosciuto l’autorità romana nell’ambito delle decisioni del concilio
di Ferrara-Firenze. Né tanto meno ci pare corretto dire che a Roma si richiedesse che Co-
stantinopoli aderisse al modello occidentale (Matasova 2016: 19). A nostro parere all’epoca
di Bessarione siamo ancora in una fase intermedia, che si conclude con il concilio di Trento
e che per l’area slava orientale giunge a uno sbocco definitivo solo con l’Unione di Brest
(1595-1596). In questo periodo non appare difficile passare da un campo all’altro in modo
anche spregiudicato, come nel caso di un personaggio quale Della Porta. Del resto rimane
piuttosto difficile a nostro parere misurare il grado di “latinofilia” (ibidem: 55). Per questo
non dovrebbe affatto stupire, come invece trapela nella biografia, che Zoe, cambiando il
nome in Sofia, sia divenuta, come i suoi accompagnatori, una chiara sostenitrice della tra-
dizione greca, separata da Roma, rinunciando a propugnare quel riconoscimento dell’au-
torità papale che avrebbe desiderato l’ormai defunto Bessarione.
Fra gli aspetti più interessanti della biografia c’è senza dubbio l’ampio panorama che
Matasova offre dell’attività della diaspora greca in Russia, sia nell’ambito delle relazioni di-
plomatiche, sia riguardo alla mediazione della cultura umanistica. Un ruolo fondamentale
assumono, come abbiamo detto, Giorgio e Demetrio Tarcanioti, attivi alla corte napoleta-
na e noti in Russia come Jurij e Dmitrij Trachanioty (ibidem: 117). Di questa attività diplo-
matica dei greci, che si inserirono a pieno titolo nell’aristocrazia moscovita, Matasova met-
te giustamente in evidenza il ruolo giocato nella creazione dell’immagine del principato
moscovita all’estero, focalizzata soprattutto sull’idea di potenza militare e di ricchezza eco-
nomica9, che doveva fare da contrappeso all’immagine di satrapia orientale che cominciava
a propagandare soprattutto la diplomazia polacca e che divenne un leitmotiv all’epoca di
Ivan il Terribile. Rimane in qualche modo in ombra la questione della lotta antiottomana,
che stava così a cuore alla diaspora greca e che spiega i contrasti e le difficoltà che dovettero
incontrare Sofia e il suo entourage nei confronti di una politica estera orientata piuttosto
allo scontro con la potenza polacco-lituana e alle relazioni dirette con le potenze baltiche
mentre si consolidava l’assoggettamento della Repubblica di Novgorod.
Queste relazioni con il mondo occidentale diventano d’importanza strategica nel
momento in cui il gran principato di Mosca era costretto ad acquisire dall’Occidente
nuove tecnologie che consentissero alla Russia di rafforzarsi al suo interno e di giocare
conseguentemente un ruolo internazionale. Questo emerge chiaramente nella parte cen-
trale del volume, anche se il capitolo sesto, intitolato “Il tempo delle cattedrali”, finisce
per mettere di nuovo in una luce riduttiva lo sforzo straordinario di modernizzazione che

8
Per l’accezione del termine all’epoca nelle traduzioni dal latino a Novgorod si legga lo
studio Tomelleri 2016.
9
Si veda in particolare il resoconto della cancelleria di Gian Galeazzo Sforza che trascrive la
testimonianza di Juryj Trachaniot (ibidem: 172-173).
Da Roma a Mosca 223

avvenne soprattutto grazie alle maestranze italiane giunte in seguito alle buone relazioni
diplomatiche con le signorie dell’epoca. Giustamente la studiosa fa risalire all’epoca del
concilio di Firenze la percezione dell’arretramento tecnologico di cui è testimonianza
l’anonimo racconto Viaggio al concilio di Firenze10.
Grazie a recenti studi è possibile ricostruire il ruolo della diaspora greca nella media-
zione della cultura occidentale anche per la diffusione delle nuove tendenze umanistiche11.
Si fa riferimento alla collaborazione con il cosiddetto circolo di Gennadij, sia per la realiz-
zazione della prima bibbia slava, sia per la lotta contro l’eresia condotta sempre dall’arcive-
scovo di Novgorod. La studiosa aggiunge alcune osservazioni sulla mitica biblioteca di Ivan
Terribile, in cui sarebbero confluiti i manoscritti greci giunti a Mosca con Sofia, e alcune
interessati digressioni a cominciare dalla presentazione della versione slava del primo libro
della Geografia di Pomponio Mela, testimonianza degli interessi geografici nella cultura
occidentale di marca umanistica che erano rivolti non solo all’apertura di nuove rotte in
Occidente, ma anche alla conoscenza degli immensi spazi geografici che si aprivano nella
Russia settentrionale e orientale (cfr. Matasova 2014).
La diaspora greca in Russia aveva la forte consapevolezza di rappresentare la più au-
tentica tradizione bizantina sia sul piano dell’esercizio del potere, sia sul piano della fedeltà
alla tradizione religiosa, due fattori che lasciarono profonde tracce in Russia. In questa
prospettiva si spiega la lunga digressione dell’autrice sull’uso del simbolo dell’aquila bici-
pite che finalmente viene messo in relazione con la tradizione dei Paleologi di Mistra, la
sua riflessione sulla forma del nome Russia alla greca con la O (Rossija)12, le osservazioni
sul titolo di velikij gosudar’, o persino il riferimento all’immagine di San Giorgio a cavallo,
simboli e forme che hanno messo profonde radici nell’immaginario collettivo russo.
Gli ultimi anni di Sofia Paleologa sono caratterizzati da vicende che hanno segnato la
Russia sia nelle relazioni internazionali sia al suo interno. Con dovizia di particolari l’autrice
presenta la storia del matrimonio della figlia di Sofia con il gran principe Alessandro, figlio
del re di Polonia Casimiro, quando la principessa ortodossa dovette trasferirsi nella capitale
lituana di tradizione prevalentemente latina, fatto che, invece di creare il presupposto per
una pace duratura, determinò alla fine nuovi attriti fra Mosca e Vilnius. Non meno im-
portante fu lo scontro all’interno dello stesso Cremlino con la principessa Elena, che aveva
sposato il figlio di primo letto del gran principe. Nella lotta per la successione al trono di
Ivan iii sembrò all’inizio spuntarla Dmitrij, figlio di Elena, che, discendente dei principi
moldavi, si riteneva erede degli stessi imperatori romani. Proprio per il nipote Dmitrij Ivan
iii fece approntare la prima incoronazione ufficiale di un gran principe di Mosca, celebrata
secondo il modello romano orientale, nella nuova cattedrale dell’Assunzione del Cremlino,

10
Ci dispiace che la studiosa non abbia fatto riferimento ai nostri studi sull’argomento, in
particolare Garzaniti 2003.
11
Citiamo in particolare il bel volume curato da O.F. Kudrjavcev (Kudrjavcev 2013), che
contiene tra l’altro un saggio di Matasova.
12
Si fa riferimento naturalmente alla monografia Kloss 2012.
224 Marcello Garzaniti

costruita dall’architetto Aristotele Fioravanti13. La sua improvvisa caduta in disgrazia, di cui


si ignorano le reali cause, aprì la strada al figlio di Sofia, Basilio, che pur discendente di fami-
glia imperiale bizantina non sarà mai ufficialmente incoronato.
Questi eventi, come giustamente osserva la studiosa, sono stati oggetto di numerosi
studi che offrono diverse interpretazioni delle circostanze che prepararono l’ascesa di Basi-
lio iii sul trono del padre. Se da una parte Matasova sembra eccessivamente indulgere sulle
reazioni psicologiche della protagonista, come moglie e madre, soprattutto per stornare la
cattiva fama di intrigante e strega avvelenatrice, dall’altra l’autrice sottolinea giustamen-
te l’idea che l’ascesa al trono sia stato nei fatti un trionfo del partito filo-greco alla corte
moscovita. Con Basilio iii si realizza il consolidamento dell’idea di autocrazia bizantina a
Mosca e si apre una nuova pagina della storia russa, nel cui prisma l’autrice si propone di
considerare anche la complessa personalità di Ivan IV. Forse sarebbe stato utile raccordare
meglio le vicende della corte moscovita con le difficili relazioni con lo stato polacco-litua-
no, ma anche con le tensioni con il mondo tataro, all’epoca del conflitto con il khan Ach-
met, quando Vassian Rylo scrisse la sua famosa lettera (1480), e soprattutto sottolineare
maggiormente la questione della diffusione delle eresie provenienti dell’Occidente per le
connessioni con la vicenda della principessa Elena e del figlio Dmitrij. A tutti questi aspetti
viene fatto comunque cenno rimandando a una bibliografia essenziale. Al complesso pano-
rama si aggiunge un’interessante illustrazione dei prodotti della filatura destinati a chiese e
monasteri, in cui rivaleggiarono Sofia ed Elena. Grazie alle immagini presenti nel volume
ne possiamo comprendere la ricca iconografia e simbologia.
Andando ben al di là del singolo personaggio oggetto della biografia, Matasova ha
saputo ricostruire il ruolo della principessa bizantina in Russia alla corte moscovita, dipin-
gendo un panorama complesso, per certi aspetti ancora fatto di luci e ombre, che nei suoi
diversi aspetti, dalla storia politica ed economica alla diffusione dei fermenti umanistici o
religiosi, attende ancora nuove ricerche e sicuramente interessanti scoperte14.

Bibliografia

Bianca 1999: C. Bianca, Da Bisanzio a Roma. Studi sul cardinale Bessarione, Roma
1999.
Dvornik 1958: F. Dvornik, The Idea of Apostolicity in Byzantium and the Legend of the
Apostle Andrew, Washington d.c. 1958 (= Dumbarton Oaks Studies, 4).

13
Per la traduzione italiana del testo si veda Garzaniti 1993. Interessante l’episodo del pos-
sibile acquisto a Venezia di un prezioso collare che avrebbe potuto prendere il posto dei trazionali
barmy, fra le più importanti insegne del potere del gran principe (Matasova 2016: 257-258).
14
Interessante per esempio il riferimento al nuovo documento trovato negli archivi a Ber-
lino, una lettera del fratello Andrea a Sofia (1475), importante testimonianza della continuità dei
rapporti della principessa con i parenti in Italia (Matasova 2016: 284, n. 123).
Da Roma a Mosca 225

Garzaniti 1993: Rito di insediamento al gran principato del principe Dmitrij Ivanovič
nipote del gran principe di Mosca Ivan iii, trad. e note a cura di M.
Garzaniti, in: P. Catalano, V.P. Pašuto (a cura di), L’idea di Roma a
Mosca (xv-xvi sec.). Fonti per la storia del pensiero sociale russo, Roma
1993, pp. 275-305.
Garzaniti 2003: M. Garzaniti, Il viaggio al Concilio di Firenze. La prima testimonianza
di un viaggiatore russo in Occidente, “Itineraria”, 2003, 2, pp. 173-199.
Garzaniti 2015: M. Garzaniti, Michele Trivolis / Massimo il Greco (1470 cir-
ca-1555/1556). Una moderna adesione al vangelo nella tradizione orto-
dossa, “Cristianesimo nella storia”, 2015, 2, pp. 341-366.
Garzaniti 2017: M. Garzaniti, Michel Trivolis / Maxime Le Grec (env. 1470-1555/1556).
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ralli, C. Delaunay, E. Priadko (a cura di), Russia, Oriente slavo e Occi-
dente europeo. Fratture e integrazioni nella storia e nella civiltà lettera-
ria, Firenze 2017, pp. 49-65.
Kappati, Montanari 2006: A. Kappati, M. Montanari, Ital’janskaja kuchnja. Istorija odnoj kul’tu-
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na. Storia di una cultura, Bari 1999).
Kloss 2012: B.M. Kloss, O proischoždenii nazvanija “Rossija”, Moskva 2012 (=
Studia historica. Series minor).
Kudrjavcev 2013: O.F. Kudrjavcev (otv. red.), Evropejskoe Vozrožděnie i russkaja kultura
xv-xvii vv.: kontakty i vzaimnoe vosprijatie, Moskva 2013 (= Kultura
Vozrožděnija).
Maksim Grek 2008-2014: Prepodobnyj Maksim Grek, Sočinenija, otv. red. N.V. Sinicyna, i-ii,
Moskva 2008-2014.
Matasova 2014: T.A. Matasova, Pervaja kniga “Geografii” Pomponija Mely v drevnerus-
skom perevode: o recepcii antičnogo nasledija v russkoj kulture xv-xvi
vv., “Aristej. Vestnik klassičeskoj filologii i antičnoj istorii”, 2014, 9,
pp. 310-362.
Matasova 2016: T. Matasova, Sof ’ja Paleolog, Moskva 2016.
Ronchey 2000: S. Ronchey, Malatesta/Paleologhi. Un’alleanza dinastica per rifonda-
re Bisanzio nel quindicesimo secolo, “Byzantinische Zeitschrift”, xciii,
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Wolf (a cura di), La stella e la porpora. Il corteo di Benozzo e l’enigma
del Virgilio Riccardiano. Atti del Convegno di Studi (Firenze, 17 mag-
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Ronchi De Michelis 1990: L. Ronchi De Michelis, Della Volpe, Giovambattista, in: Dizionario
Biografico degli Italiani, a cura dell’Istituto della Enciclopedia Ita-
liana, xxxviii, Roma 1990, <http://www.treccani.it/enciclopedia/
giovambattista-della-volpe> (04.01.2018).
226 Marcello Garzaniti

Sinicyna 2008: N. Sinicyna, Maksim Grek, Moskva 2008.


Tomelleri 2016: V.S. Tomelleri, Nekotorye zametki o terminologii perevodnych sočine-
nij: slavjanskaja peredača termina “catholicus” v novgorodskich perevo-
dach s latyni, “Rossica Olomucensia”, lv, 2016, 2, pp. 5-42.

Abstract

Marcello Garzaniti
From Rome to Moscow: Sophia Palaiologina and the Greeks in Russia Between the End of the Middle
Ages and the Beginning of the Modern Era. About the Recent Biography of T. Matasova (Moscow 2016)

In the popular series, Žizn’ zamečatel’nych ljudej (Lives of Famous People) was published the
biography of Sophia Palaiologina, a figure who has left a deep mark on Russian history and culture.
The volume, edited by T. Matasova (2016), tells the story of the descendant of the Byzantine impe-
rial family, married in 1472 to the great prince of Moscow Ivan iii. The fascinating reconstruction of
the cultural, social and political context opens up new perspectives for research.

Keywords

Sophia Palaiologina; Ivan iii; Russian history; Russian culture.


© 2018 Author(s). Open Access. This article is “Studi Slavistici”, xv, 2018, 1: 227-241
distributed under the terms of the cc by-nc-nd 4.0 doi: 10.13128/Studi_Slavis-23593
Submitted on 2017, November 15th issn 1824-761x (print)
Accepted on 2018, February 15th Materiali e discussioni issn 1824-7601 (online)

Darko Suvin

Avevamo un classico. Appunti per collocare Predrag Matvejević

Tel qu’en lui-même enfin l’éternité le change


Mallarmé, La Tomba di Edgar Poe

Come posso scrivere del mio amico Predrag Matvejević? Ma è chiaro, scrivendo solo
ciò che effettivamente ricordo, corredato delle mie reazioni ai suoi libri e articoli. Non si
può in nessun modo, forse nemmeno si deve, evitare la prima persona singolare. Occorre
però evitare quello che Krleža (nostro modello comune) ha eccellentemente definito “ioeio”.
Occorre trovare un punto di equilibrio per “ioepredrag”.
Dunque, come intitolare questi appunti? Riflessioni ricordando e leggendo Matvejević
suona pomposo, anche se sarebbe esatto. L’unica cosa sicura è che questo non può essere
un testo concluso: per due ragioni. Per prima cosa, lo conoscevo troppo poco, soprattutto
quando era nel pieno delle forze (force de l’age, direbbe Simone de Beauvoir). Per la verità,
fummo nominati assistenti alla Facoltà di Lettere e Filosofia nello stesso periodo, cioè nel
1959, se la memoria mi assiste, e lo incontrai di certo presto, se non altrove, almeno alle riu-
nioni della cellula di partito della Lega dei Comunisti Jugoslavi a cui entrambi apparteneva-
mo. Tuttavia, lì eravamo entrambi novellini in confronto ad opinion makers come, per citar-
ne alcuni, Mico Prelog e Grgo Gamulin – non a caso, professori ordinari – e non ricordo che
contribuisse assiduamente ai dibattiti di partito (per un quadro dei rapporti di Predrag con
la Lega dei Comunisti si veda il suo Mondo ex). Entrambi eravamo inoltre completamente
assorbiti e occupati dalle cose a cui stavamo lavorando; dedicavamo molto tempo alla tesi di
dottorato, lui a Parigi con il famoso studioso di estetica Etienne Souriau (del cui lavoro mi
sono servito molto anche io facendo lezione a Zagabria in quegli anni sulla drammaturgia).
Direi che nutrivamo l’uno per l’altro sentimenti di amicizia, ma al di fuori della cerchia ri-
stretta di quegli intimi con cui ti incontravi in privato almeno una volta al mese, piuttosto in
una cerchia più estesa. Eravamo della stessa generazione, e credevamo allo stesso modo nella
necessità e nella possibilità di un socialismo dal volto umano, ossia del socialismo autoge-
stionario. Lui pubblicò il suo primo libro, credo, nel 1965 (il saggio ampio Sartre), mentre io
nello stesso periodo ne pubblicai due (Dva vida dramaturgije, esej o teatru, e Od Lukijana do
Lunjika, un’introduzione alla fantascienza) ma ci leggevamo sporadicamente. Da parte mia
questo si interruppe solo quando cominciai a venire a Zagabria una volta l’anno dal Canada,
dunque dopo la pubblicazione di Razgovori s Krležom nel 1969.

* * *

Darko Suvin (McGill University) – dsuvin@gmail.com


The author declares that there is no conflict of interest
228 Darko Suvin

Mi è rimasto vivo nella memoria un incontro nei primi anni ’70, forse nel 1974, quan-
do io, eccezionalmente, tornai ad insegnare per una settimana o due alla Facoltà di Lettere
e Filosofia, al corso postlaurea per studenti esterni (extramurali), più grandi e, penso, per lo
più insegnanti. Dopo una conversazione che non ricordo affatto, accompagnai Predrag (da
qui in poi pm) al parcheggio dell’Università. Mi lamentai con lui di come i miei tentativi
di tornare a Zagabria su chiamata diretta dell’Università – quindi senza concorso – rima-
nessero sterili, il mio ex professore di inglese Rudica Filipović, che all’epoca era preside,
mi disse “Darko, qui questo non funziona, Lei si è americanizzato”. pm mi ascoltò attenta-
mente ed entrando in auto mi sorrise e, nella sua maniera accattivante, che evitava l’offesa,
disse: “Darko, tu sei rimasto infantile”… Aveva ragione, e non la ritengo semplicemente
una caratteristica negativa. I bambini credono nelle favole, non ho molta considerazione
di quelli che non ci hanno mai creduto. Così anche io credevo che se qualcuno aveva fatto
quello che avevo fatto io, forse sarebbe stato utile anche in patria. Certamente, nel corso dei
sei anni all’Università come assistente avevo già conosciuto la fredda corrente sottomarina
dei grandi offesi, come il professor Torbarina, o i sospetti ideologici insinuati sia dai nazio-
nalisti sia da alcuni prassisti (per tramite di Sveta Petrović, fratello di Gajo, con cui condi-
videvo la stanza degli assistenti ma poco altro), che nel 1965-1966 portarono al fallimento
del mio reincarico. Probabilmente, al momento della nostra conversazione ero anche sotto
l’influenza della Nuova sinistra, cioè delle idee del Sessantotto che in Nord America era-
no molto diffuse tra i giovani, anche all’Università McGill; condividevo quegli orizzonti,
malgrado delle riserve: sapevano benissimo contro cosa erano (come la guerra), ma molto
poco a favore di cosa erano. Ad ogni modo, non mi era per niente chiaro come fosse stata
stroncata crudelmente e violentemente la sua variante jugoslava; e credevo ancora che si
sarebbe arrivati relativamente presto a una società giusta nell’ambito della sfrj (acronimo
di Socijalistička Federativna Republika Jugoslavija, Repubblica Socialista Federale di Ju-
goslavia). Il parallelismo con la comunità protocristiana di Palestina che nel primo mezzo
secolo dopo la morte del rabbino Yehoshua credeva nel suo imminente ritorno messianico,
è dolorosamente evidente. Erano infantili? Certamente, ma sono da biasimare?
Più tardi, negli anni ’90 e ancor più nel primo decennio del xxi secolo, quando a
Roma ci vedevamo più spesso e ci leggevamo assiduamente, pm mi diceva: “Darko, noi
lavoriamo nella stessa direzione: tu più sul piano teorico, io su quello pratico”. Non so bene
quanta parte avesse in tale affermazione l’amicizia che trascura o addirittura accoglie le dif-
ferenze: credo che allo shock della caduta del ‘socialismo reale’ nel mondo avessimo reagito
in modo ugualmente intenso ma alquanto diverso. Mi pare che pm credesse che quasi tutta
la politica fosse un errore e uno spreco di tempo, se non un crimine a cui ribellarsi – cosa
che appunto faceva con molti scritti sulle nefandezze delle guerre di secessione jugosla-
ve e sui nuovi mini-governi. Io sono completamente d’accordo sul ribellarsi ma mi piace
pensare che la politica possa anche essere ripensata profondamente (sebbene molto diffi-
cilmente). Forse qui è sufficiente dire che quelle differenze non erano tali da farci smettere
di essere alleati. Anzi, a partire da Il Mondo ex, pm ha lasciato su di me un segno profondo
– perché sono parte di quell’‘ex’, come lui; ciò si vede chiaramente nei miei scritti sull’esilio
Avevamo un classico 229

e sull’emigrazione e nella dedica di un saggio del 1998, in cui lo definisco “utopista dell’ex”,
e in quella di una poesia del 2000 su quel tema, Fudö.
L’ambito o la modalità dell’attività di pm era certamente il mio stesso: scrivere testi
– la krležiana “manciata di caratteri di piombo”, oggi elettronici. Forse sarebbe più esatto
dire che io insisto più sui principi generali mentre lui su casi particolari. I nostri scritti
usano determinati dettagli come testimoni, trampolini ed esempi, ma i miei dettagli erano
particolari letterari e teatrali, ovvero strutture narrative; mentre i suoi sono angoli remoti e
dimenticati di Venezia, o strane tradizioni e ricette sul pane, o vecchi portolani della Gran-
de e Piccola Sirte, o un elenco dei nomi degli scrittori della Croazia che sono ‘etnicamente
impuri’. Perciò era più vicino alla prassi umana tangibile o, diciamo, alla politica quotidia-
na, ma anche più lontano dalla filologia (che segue me come ombra e monito).
Tuttavia, nell’ultima ventina di anni anche io ho applicato alla filologia qualcosa che
chiamo epistemologia politica, applicabile a molte cose – dallo status della scienza, pas-
sando per la narratività fino al fascismo e alla poesia. Così seguo il suo esempio. Ma il mio
ideale rimane che la filologia si possa inserire qui come prassi conoscitiva specifica. Questa
stella ho seguito per una vita intera.

* * *
Il secondo motivo è che nell’emigrazione ho letto troppo poco pm – e anche questo
è il prezzo dell’emigrazione. Ufficialmente dal 1965, ma in pratica dal 1963, non sono stato
alla Facoltà di lettere di Zagabria, bensì negli usa o in malattia o di nuovo negli usa e in
Canada. Venivo a Zagabria alla fine di ogni maggio a trovare i miei genitori e gli amici più
stretti, restavo a stento una settimana e andavo con mia moglie Nena a Mali Lošinj per
nuotare e scrivere; perciò lo incontravo quasi ogni anno ma fugacemente. Quindi, credo nel
1982 quando era negli usa, lo invitai a tenere una lezione di letterature comparate dell’Uni-
versità McGill dove potè parlare in francese; rimase due o tre giorni, e per il freddo gli diedi
anche il mio basco blu scuro, il beret basque (mi tornò allargato, pm aveva la testa grossa).
Quando nel 1994 si spostò da Parigi a Roma, dove ogni primavera andavo almeno per poco
e a volte anche per l’intero semestre, ci vedevamo anche lì. Ma in modo sistematico ho
seguito i suoi libri solo a partire dagli anni ’90, mentre i suoi scritti in generale dal periodo
della nostra frequentazione più assidua dopo il 2001, quando mi trasferii in Italia. Scrivo
dunque di alcune impressioni precedenti e in particolare della frequentazione a Roma fino
al 2008, quando mia moglie Nena e io ci andavamo per una settimana a vedere mostre e a
trovare gli amici. Mi soffermerò inoltre più o meno a lungo su nove suoi libri (in diverse
lingue) che posseggo, quattro dei quali ho comprato, mentre cinque li regalò lui a me e a
Nena, e ho anche una gran quantità di articoli in formato elettronico, pure ricevuti da lui.
Ciò vuol dire che non ho seguito in modo sistematico la parte principale della sua
opera, forse il fulcro della sua passione, ovvero l’impegno per una cultura jugoslava liberta-
ria nel quarto di secolo tra il 1965 e il 1989. Lui mi aveva regalato due libri di quel periodo.
Il primo è Jugoslavenstvo danas (La jugoslavità oggi, 1982), con dedica del 7 giugno 1983, che
230 Darko Suvin

ho sottolineato abbondantemente e con cui mi sono trovato completamente d’accordo.


Quello fu forse il libro che gli portò più fama e critiche nella sfrj. Qui tuttavia solo qual-
che parola su un altro importante libro che ho di quel periodo, Prema novom kulturnom
stvaralaštvu (Verso una nuova creatività culturale).
Cosa di quei dibattiti in parte storicamente non più attuali mi sembra ancora contem-
poraneo? Innanzitutto, la lotta instancabile di pm contro tutti i nazionalismi, e poi l’insisten-
za sull’autonomia di chi crea, ovvero dei letterati e in generale dei lavoratori della cultura nella
sfrj. Mi concentrerò ora su questo secondo punto. Di cosa effettivamente si trattasse, pm lo
riassunse benissimo come “trasformazione del governo nel nome della classe operaia in un
governo della classe operaia”: e la classe operaia è qui non solo quella dei lavoratori industriali
ma quella di tutti noi che viviamo del nostro lavoro e non dello sfruttamento o dell’oppres-
sione degli altri. All’interno di questo orizzonte, l’acquisizione principale di pm è la distin-
zione tra le istituzioni recenti (per esempio i consigli dei lavoratori) e l’“autogestione come
cultura”, che ha i suoi valori e criteri nuovi e che in Jugoslavia era ancora debole. Lo sviluppo
di tale cultura avrebbe dovuto integrare la politica del tempo, le cui “singole istituzioni […]
invece di essere espressione della collettività, nei fatti si sostituiscono all’opinione pubblica”
(Matvejević 1977: 90)1. In questa lingua misurata e un po’ esopica della sfrj degli anni ’70, è
abbastanza chiaro che si tratta delle istituzioni centrali del potere, nei confronti delle quali la
cultura libertaria – che pm usa come concetto ideale e metro di misura – si rapporta come in-
novazione creativa, e ogni suo atto è “per sua natura più o meno deviante (nel senso originario
della parola: devia dalla strada tracciata)”. Ciò dovrebbe e potrebbe alla fine far sì che “lavoro
e creazione… diventino due forme di un’unica autorealizzazione creativa”. Come pm stesso ha
spiegato, in questi scritti – come nel lavoro su Sartre e nella sua tesi di dottorato a Parigi – si
è occupato di “sociologia e teoria della creazione”. Si potrebbero trovare ulteriori definizioni;
ma ho idea che per le sue costanti stilistiche si dovrebbe in realtà creare una nuova definizione
narratologica e una nuova casella (possibilmente aperta).
E nello stesso libro, egli esemplifica quel pensiero scrivendo dei Frammenti del diario
di Krleža:

Niente è più indesiderato nelle file dei compagni di strada politici [l’allusione è al partito
di governo, n.d.A.] di un dissidente impegnato. Niente è più salvifico per lo scrittore del
saper evitare, con la giusta dose di dissidenza, che il suo impegno resti chiuso, ossia che
diventi religioso (Matvejević 1977: 203).

Con tale approccio, pm svela non solo la tradizione cui si rifà (principalmente quella
di Sartre e di Krleža), ma anche quanto fosse chiaro il suo orizzonte: l’‘impegno’ indipen-
dente di sinistra, critico sia verso il nazionalismo piccolo-borghese, sia verso la staticità
del governo ufficiale di partito; svela inoltre che quella posizione era destinata a rimanere
schiacciata tra una classe dirigente oligarchica e i nazionalismi in ascesa.

1
Qui e di seguito, ove non diversamente specificato, la traduzione è mia (mb).
Avevamo un classico 231

Io lo provai sulla mia pelle tra il 1966 e il 1967. Ma sono riuscito a capirlo solo una
buona quarantina d’anni più tardi, scrivendo una ‘radiografia’ della sfrj, Samo jednom se
ljubi (Si ama una volta sola). Ero infantilmente limitato, anche leale, credo.
Quando ho riletto ora questo libro di pm, mi sono chiesto: ma chi ha avuto l’influen-
za maggiore su di lui? Oltre forse a uno o due francesi, è stato evidentemente Krleža. I
saggi e le valutazioni, almeno in questo libro, mi sembrano proprio una reincarnazione di
Krleža nella semantica della sfrj, che Mao avrebbe definito una “contraddizione in seno
al popolo”. La parola ‘semantica’ infastidiva Krleža – guardate le Conversazioni di pm con
lui – ma in realtà è un’espressione neutra innocente per indicare l’uso della lingua specifico
per ciascuno di noi. La semantica di Matvejević in questi saggi della sua fase (per così dire)
intermedia ha lo stesso orizzonte di Krleža: la libertà creativa della cultura tra i popoli jugo-
slavi, la deviazione sia dall’idea imperiale sia dai piccoli nazionalismi. Ma, tralasciando qui
importanti idiosincrasie personali di entrambi, la semantica di pm è, per la sua collocazione
postrivoluzionaria, più cauta e complessa dell’assoluto rifiuto e della negazione krležiani
sia verso lo stato Austro-ungarico e la sua guerra, sia verso la menzogna dominante nel
Regno shs. E in questa sua impresa pm parla ufficialmente ai compagni – solo che loro ora
sono il potere, quindi non c’è la possibilità di un rifiuto totale. In suo luogo, pm procede
a continue manovre dialogiche affinché, nella langue de bois ufficialmente chiusa, si possa
trovare uno spazio di manovra per l’apertura, laddove pm è inevitabilmente marcato dal
retaggio di Marx, Lenin e Gramsci – che pm conosce bene e cita in luoghi strategici, come
un generale che dispiega l’artiglieria pesante.
Tuttavia, mi sembra molto caratteristico di pm che, dove Krleža parla di letteratura
(qua e là con esempi dalla pittura), lui parli di cultura, la quale comprende la letteratura,
ma è non solo più estesa bensì anche diversa per finalità. Come in Krleža, qui si tratta di
liberazione, antropologicamente compresa nella definizione marxiana di umanizzazione;
ma essa riguarda ora tutti i lavoratori – come sono anche gli scrittori – e tutta l’attività cre-
ativa. Se posso definire questa semantica e psicologia ‘kidričista’ (da Boris Kidrič, fondatore
e teorizzatore dei consigli degli operai, che come tale superava di gran lunga il brillante ma
anche stalinianamente rigido organizzatore del Fronte di liberazione popolare Sloveno, dal
1941 al 1945), è una krležanità kidričiana2.
In generale, l’interesse principale di pm, ufficialmente professore di letteratura fran-
cese, che conosceva in maniera eccellente e insegnava con competenza, non era indirizzato
– almeno per quanto sappia io – verso le specificità filologiche della narrativa (la narra-
tologia, il suo spazio-tempo e altri fattori), bensì verso una sua posizione strategica nella
‘cultura’ ovvero verso l’impegno per la liberazione. La poesia del Movimento di resistenza
francese, Sartre e Krleža, o più tardi Andrić e altri di cui scriveva, vengono tutti considerati

2
Si veda il mio saggio Ekonomsko-političke perspektive Borisa Kidriča, “Zarez”, 2011, 308 (28
aprile), pp. 10-11, ora ampliato nel libro Samo jednom se ljubi, <www.rosalux.rs/bhs/samo-jednom-
se-ljubi-drugo-izdanje>. I numeri di pagina tra parentesi in questo scritto si riferiscono al libro.
Ringrazio Nenad Ivić e Boris Buden.
232 Darko Suvin

in funzione di quell’impegno. I suoi libri migliori però cercano alleati strategici per almeno
un minimo di umanità – giacché il socialismo è caduto e con lui anche la speranza di una
cultura come istituzione emancipatrice – nella calda tradizione del Mediterraneo, o nel
volto popolare dell’altrimenti imperiale città di Venezia, o in una invenzione fondamentale
ed emblema di giustizia sociale: il pane nostro quotidiano e per tutti.
Credevo che non ci fossero molti libri di cui non potessi scrivere una breve presenta-
zione e una critica, ma il Breviario mediterraneo di pm mi ha fatto ricredere. Non sono in
grado di riassumerlo, è troppo pieno. Chissà quanti anni Predrag ha impiegato per com-
porlo: venti, trenta, non saprei. Un autore meno caparbio si sarebbe perso d’animo già per
tutto il lavoro preliminare a cui ogni tre pagine lui fa riferimento: le visite di tutte le coste,
i discorsi con pescatori e anacoreti, vecchi portolani e vocabolari sfogliati, interminabi-
li visite in lungo e in largo, viaggi, ricerche, appunti, classificazioni che si riversano nella
scrittura stessa – e tutto ciò accanto al lavoro quotidiano di un professore universitario che
deve insegnare ogni anno letteratura francese moderna alle nuove generazioni che avan-
zano inarrestabili: che energia enorme c’era in quel mostarese russo-croato francesizzato?
Ecco quindi solo alcune osservazioni en passant su questo libro.
Il grande poeta Guillaume Apollinaire amava Jules Verne (che si menziona anche in
questo breviario). Pensando forse a passi come quelli in cui il capitano Nemo e i suoi ospi-
ti prigionieri navigano sotto il mare e ammirano tutta la sua fauna ittica, esclamò: “che
stile, solo nomi!”. È lo stile dell’enciclopedista che vuole trasmettere al lettore un cosmo
densamente popolato. Le migliori enciclopedie non sono alfabetiche, ma tematiche, e la
loro scelta rappresenta l’ideologia di ciascuna enciclopedia. Ma come organizzare questo
enciclopedismo? Per i suoi lettori adolescenti, Verne scelse l’intelaiatura del romanzo d’av-
ventura, mentre pm ciò che Frye, e ancor meglio Bachtin, definiva anatomia. Si tratta di
un genere letterario antico che raccoglie una gran quantità di materiale per trattare appro-
fonditamente un tema, e si preoccupa poco o per nulla dei personaggi fittivi (eccetto del
personaggio implicito del narratore del libro stesso), e insiste piuttosto sul cronotopo, lo
spaziotempo, che quasi allegoricamente diventa il ‘personaggio’ principale o addirittura
l’unico. L’onnisciente Predrag sapeva anche questo: menziona l’anatomia a proposito di
Lawrence Durrell, un espatriato britannico nel Mediterraneo, e inoltre – aggiungo – ad-
detto culturale dell’ambasciata britannica a Belgrado nei primi anni ’50.
La mia tesi è che almeno nel xx secolo a Zagabria esistesse una tendenza sotterranea
ma forte all’enciclopedismo (Krleža, Ivan Supek e tanti altri), che Matvejević sembra condi-
videre, e il titolo Breviario qui è calzante. È la denominazione vecchia di otto secoli del com-
pendio multifunzionale di tutti i generi retorici che servivano a un frate o prete cattolico per
il culto quotidiano: salmi, letture del Vangelo, scritti dei Padri della Chiesa, inni e preghiere
vi si affollavano. Eppure, rispetto alla patristica immensa e cose simili, era un compendio
ridotto (brevis): una piccola enciclopedia tematica, per così dire, come un libro tascabile. pm
però ha rifunzionalizzato questo genere: il suo ‘credo’ è completamente terreno o pagano – i
valori e la varietà del Mediterraneo, quel caldo mare che per lui comincia con l’Adriatico: “Il
Mediterraneo non è un mare di solitudine”. Mi ricorda la tesi di Slamnig degli anni ’60, che
Avevamo un classico 233

mi piaceva, secondo cui la letteratura croata non appartiene né all’Oriente né all’Occidente,


bensì al Sud. E per quanto riguarda la geopolitica pseudo-religiosa, pm prende le distanze
dallo strano errore del suo predecessore probabilmente più importante, Braudel, che poneva
i confini del Mediterraneo dove inizia il “deserto e l’Islam”.
In ogni caso, nel mondo questo libro è considerato il capolavoro di Matvejević, tra-
dotto in più di una ventina di lingue dal Marocco al Giappone, pubblicato in 10 edizioni
sempre più grandi, venduto, si dice, in 300.000 copie. Poichè non c’era più la Jugoslavia,
pm non è potuto diventare il suo secondo premio Nobel...
Traggo un paragone dalla Traviata di Verdi – non va dimenticato che il titolo vuol
dire ‘deviata’ dalla via angusta della concezione della vita e della morale borghesi: come
l’amore nel duetto della ‘traviata’ Violetta e Alfredo, l’opera di pm sarà per i professionisti
croce e delizia. Sarà una croce per i bibliografi, perché lui aggiungeva e cambiava sempre
qualcosa o contaminava il nuovo con il vecchio nelle diverse lingue (e anche nella stessa),
così dovranno barcamenarsi di continuo tra le edizioni jugoslave (in seguito croate), italia-
ne e francesi. Ma sarà una delizia da leggere e cibo spirituale – panis angelicus, per usare una
metafora dell’opera Pane nostro – per tutti noi e per almeno mezza dozzina di tesi di dotto-
rato dettagliate, speriamo presto. Sulla scia del suo Krleža, tra tutti gli scrittori jugoslavi che
conosco, pm è quello che più si è avvicinato all’orizzonte ideale, o chimera, dello scrivere de
omni re scibili; e per tale orizzonte, per la fama internazionale, per le origini ‘etniche’ miste
come per la biografia ricca di viaggi, è affine al vicino Ruđer Bošković (che scrisse non solo
di ottica, astronomia, gravità, meteorologia e trigonometria, ma anche di come restaurare
la cupola di San Pietro, l’edificio della biblioteca di Vienna o i porti di Rimini e Savona).
Certamente un compendio di tutto ciò che è possibile conoscere e comprendere era
impossibile già durante il Rinascimento, quando ci si cimentò semi-ironicamente Pico
della Mirandola, e soprattutto è impossibile dopo la rivoluzione industriale, la massifica-
zione di tutte le società e la conseguente specializzazione delle scienze. Prima di ciò, Tom-
maso d’Aquino può ancora scrivere con discreto successo la Summa theologiae, mentre già
Descartes può solo parlare del metodo (e di ottica e discipline simili). Se ogni ramo del
sapere, dalla filosofia, passando per la tecnica e le scienze molli, come sono quelle sociali,
fino alla matematica, occupa un posto determinato in una mappa immaginaria di tutto lo
scibile umano, allora lo scopo ideale di quel modello topografico è che il discorso di ogni
scienza per la propria sfera di competenza sia concluso: la matematica tratta tutto ciò che
si può sapere sui numeri, la fisica sulle forze, la psicologia sulla psiche umana, e così via.
Peccato che tali delimitazioni istituzionali in realtà non esistono, e le conoscenze storica-
mente più significative nascono quando i confini delle discipline ufficiali vengono infranti
e compaiono all’orizzonte sia nuovi confini sia una conoscenza senza confini: Darwin,
Marx, Freud, Einstein…
Non intendo affatto misurare le opere di noi critici – se così si può dire – umani-
sti (nemmeno quelle dei migliori, quali Erich Auerbach, Walter Benjamin o Raymond
Williams) con questi giganti: le loro intenzioni erano diverse. Ma parlo dell’approccio e
del metodo. In periodi rivoluzionari o, se vogliamo, di crisi dell’umanità, come è il nostro
234 Darko Suvin

dal 1914 in poi, i confini istituzionali esistenti sono catene per le menti migliori. pm non
è affatto il classico romanista né (jugo)slavista, e nemmeno comparatista, sebbene abbia
insegnato periodicamente tutte queste cose e possa essere per queste discipline una sfida
molto utile: come classificare ad esempio i suoi Epistolario dell’altra Europa e Il mondo ex?

* * *
Consiglio ai dottorandi futuri di cominciare dall’autoriflessione di pm. Ad esempio
nell’Epistolario dell’altra Europa:

Alcune delle mie lettere sono scritte come richieste, alcune come preghiere. I
generi del breviario e dell’epistolario sono affini: Breviario mediterraneo ed Epi-
stolario dell’Altra Europa sono stati scritti parallelamente.

Ma ora non ho lo spaziotempo di scrivere di questo importantissimo libro. Il fatto che


nel mondo non sia celebre e tradotto come il Mediterraneo e il Pane va attribuito all’isterico
trionfalismo neoliberale, secondo il quale tutti gli aspetti buoni e cattivi del cosiddetto
comunismo sono oggi irrilevanti. No, non sono irrilevanti: “Coloro che pensano di aver
chiuso definitivamente con il comunismo si sbagliano” (Matvejević 2006b: 38). Oppure:
“Chi non conosce la storia è destinato a ripeterla”, scriveva – credo – Santayana, e la ripete
in varianti che, aggiungo, spesso diventano anche peggiori dell’originale.

* * *
Riciclo: non so se questa parola sia già entrata nella lingua letteraria croata, sebbene
tutti gli ecologisti-ambientalisti la raccomandino. pm era, per forza di cose, un maestro
del riciclo e lo ammetteva apertamente. Molte pagine del libro Verso una nuova creatività
culturale si ritrovano – ampliate, tradotte in francese e fornite di commenti in corsivo – nel
Mondo ex. Lì c’è la sua polemica contro i nazionalismi nella cultura. C’è anche una decina
di pagine sull’autogestione che ho citato parlando del libro precedente. E alla fine il giudi-
zio: “Tuttora… in qualche misura credo ancora nell’autogestione” (il corsivo è di pm).
Mondo ex è invece un libro differente, con uno scopo diverso, che spiega molto bene
al lettore occidentale intrecci e intrighi politici della jugosfera: quei ricicli erano necessari
e utili. Sono diventati parte dell’arsenale di pm.
Occorrerebbe dire molto altro sulle avventure e disavventure esistenziali di pm per ca-
pire il suo lavoro dopo il 1991. Non solo psicologicamente, ma anche materialmente, ossia
finanziariamente, non furono facili. Oltre alla preoccupazione per sé e per la moglie Mira,
all’inizio della vecchiaia, prendeva molto sul serio e si occupava molto della sorella mala-
ta a Spalato, della figlia del suo primo matrimonio a Parigi, etc. Non conosco i dettagli al
riguardo, nelle nostre conversazioni non si faceva cenno a numeri di nessun tipo. Eppure,
oserei supporre che i ricavi di una trentina o più riedizioni del Breviario mediterraneo (pro-
babilmente buoni) come delle numerose lezioni in Europa bastassero a stento a pagare ciò
Avevamo un classico 235

che lui sentiva come solidarietà indispensabile verso i suoi cari, e a volte anche verso semplici
conoscenti in grave difficoltà, in questo periodo di guerre religiose. Il riciclo non nasceva dal
bisogno di guadagno, bensì dal bisogno di spiegare al lettore europeo occidentale cosa stesse
realmente accadendo da noi, ma rispondeva anche alle esigenze di quella condizione. Credo
che essa possa non essere stata irrilevante neanche per l’idea che ebbe negli anni ’90 di scri-
vere di un tema così popolare in tutto il mondo, come era Pane nostro (tranne dove al posto
del pane si usa il riso): due piccioni con una fava. Il trasferimento da Roma a Zagabria, da cui
io ho cercato vivamente di dissuaderlo, fu in gran parte determinato da questa situazione.

* * *
Breviario mediterraneo e L’altra Venezia sono i libri di pm a me più cari. Il secondo è tut-
tavia molto più lirico. Ha preso la sua forma definitiva (come Pane nostro) dopo i settant’anni
dell’autore. È un’opera della vecchiaia, dell’esperienza sedimentata, e di una nostalgia doloro-
sa sebbene discreta e spesso poetica: se qualcuno che non conosce la sua opera mi chiedesse da
dove cominciare, per valutare se abbia senso continuare a leggere, direi “comincia da L’Altra
Venezia”. È un libro di malinconia. Chiaramente legato tematicamente al Breviario mediterra-
neo, scritto prima dei suoi cinquanta anni, all’abbondanza solare di quel libro di pienezza
aggiunge ora dell’ombra, in scala minore. I suoi oggetti e soggetti sono un umile ma robusto
“proletariato [...] di fili d’erba e steli di modesta apparenza e pressoché anonimi”, “orfani vege-
tali” (Matvejević 2006a: 31), o i loro equivalenti nel mondo dei bassorilievi sui muri. Queste
sculture erratiche erano forse originariamente eretiche, in ogni caso sono arte povera, umili sce-
ne popolari e di strada a differenza dei ricchi palazzi e chiese con i quadri dei maestri celebri.
Spesso hanno perso dei pezzi, la loro precarietà è affine alle tombe proprio come l’Arsenale
chiuso e un tempo largamente famoso, e pm non tralascia di menzionare anche le tombe
dei gabbiani (in mare) e quelle dei cani (sulla terraferma). Sono tutte chiare esternazioni e
allegorie dello stato d’animo prevalente: “le modeste erbe guariscono forse dall’ostilità, ma
purtroppo non dall’odio” (ibidem: 35). Sono l’altro volto di una Venezia realistica – io direi
ancora imperiale – in cui regnano “la potenza, l’egemonia e le conquiste, i tesori, i commerci e
lo sfarzo” (ibidem: 49). Quando lessi il libro, feci notare a pm che dal figlio di un popolo che
fu per secoli colonizzato da Venezia e in rivolta contro di essa (gloriosi furono i corsari della
foce della sua Neretva!) mi sarei aspettato che parlasse un po’ di più del prezzo benjaminiano
di quegli sfarzi, per cui ogni monumento di civilizzazione è anche un monumento di barba-
rie. Ma questo libro parla di altro: della Venezia plebea (c’è anche un tentativo di giustificarsi
esplicitamente, che mi sembra insufficiente).
Gran parte del libro parla del crepuscolo che cala e delle ombre che crescono col tra-
montare del sole (in maniera diversa sulle due sponde dell’Adriatico). Il crepuscolo di Ve-
nezia scende sulla laguna. In quel crepuscolo, le ombre sono anche gli spettri di un passato
scomparso – come sapevano gli abitanti di Ragusa, dove ombre significa appunto spettri.
Il crepuscolo a Venezia è testimone della fine di una “[lotta] per una causa persa” (ibidem:
90), tra l’altro caratteristica frequente degli Slavi. La malinconia si aggrappa sempre ad un
236 Darko Suvin

passato migliore, in cui c’era molta speranza: “Il nostro secolo è ormai scaduto, la gene-
razione esaurita” (ibidem: 10), premette l’autore nelle primissime pagine, dove il “nostro
secolo” può essere il xx secolo come può essere anche il tempo della nostra vita, our lifetime,
vale a dire il tempo della sua e della mia generazione. Al professore che insegnava Proust
non sarà certamente sfuggito che lui stesso qui, se non sta andando alla ricerca dell’epoca
perduta di un Mediterraneo solare, allora la sta testimoniando. Ecco la sua conclusione:

Si perdono le parole, spariscono i nomi e i termini, nessuno si prende cura delle piccole
piante che spuntano sui muri, le patere vanno in rovina sgretolandosi sui frontoni delle
case, i giardini accanto ai palazzi sono sempre più esigui, nei loro pozzi c’è più tenebra
che acqua, i crepuscoli sono diventati troppo banali e comuni, i cocci di ceramica diven-
tano rari e introvabili, i relitti delle navi s’infradiciano nel limo, la ruggine corrode e la
patina corrompe, alcuni venti sono spariti o hanno cambiato direzione… (ibidem: 108).

E così ancora per cinque righe. Quale modo migliore di rappresentare lo stato d’animo
del “mondo ex”?
Passi così lirici diventano vera poesia post-baudelairiana in prosa nel breve terzo e ulti-
mo capitolo, “Ombre di città mediterranee”, una sorta di astrazione che collega quest’opera
al Breviario mediterraneo e nello stesso tempo lo completa. Il punto di fuoco si allontana da
Venezia in un anti-zoom per includere 17 città mediterranee; ognuna nel suo rapporto con
l’ombra, se necessario anche lontano dal mare (come Gerusalemme). Ne riporto qui solo due:

Atene risplendeva insieme alla sua ombra. Il crepuscolo si è protratto sotto l’Acropoli.
I viaggiatori arrivavano chiedendosi se fosse davvero quella di una volta. Fra le rovine
scoprivano solo alcune memorie consunte. Il Pireo era senza il faro (ibidem: 119).
A più riprese i barbari assediarono Alessandria d’Egitto, seppellendo fra le sue mura
il suo passato. Dopo aver bruciato i papiri, ne sparpagliarono le tracce. Non si riesce a
leggere le ombre delle lettere consegnate alla cenere (ibidem: 120).

Non intendo analizzare tali esempi antologici, se non per dire che qui l’ombra può
essere letta in maniera particolarmente agevole come spettro – provateci.
Il diciottesimo passo è una lista di altre città, da Palermo a Odessa: “i vostri porti sono
testimoni delle vostre ombre, dei nostri naufragi”3. Chi vuole la chiave dell’allegoria, può
trovarla qui.
Il diciannovesimo e ultimo stabilisce una connessione con i titoli precedenti di pm,
ritornando alla contemporaneità: “Europa, non cercare te stessa nell’ombra del mondo. Il
mondo sei tu. Non dimenticare il mare che ti ha cullato, il Mediterraneo”.

* * *

3
Questa citazione e la successiva sono versioni dei passi citati e non corrispondono alla
traduzione pubblicata in Matvejević 2006a: 123.
Avevamo un classico 237

pm stesso caratterizza di sfuggita il suo ultimo libro, Pane Nostro, come “poetica del
pane”. Dubito che qui pensasse molto ad Aristotele, la cui Poetica tratta sistematicamente
di come si fa e di come appare la tragedia. Questa è una raccolta di tradizioni e di modi, da
Gilgameš all’industrializzazione attuale, in cui si faceva, diffondeva, intendeva, descriveva,
classificava, invocava, elogiava, rimpiangeva e metaforizzava il pane come alimento primo,
l’alimento per eccellenza, il pane nostro quotidiano. Tuttavia, il pane è anche il pasto del-
la plebe, a differenza della carne della classe alta, che nel feudalesimo era l’unica ad avere
diritto a cacciare gli animali, o delle brioches di Maria Antonietta. pm non insiste su ciò,
questo è un libro ecumenico e irenico, vuole conciliare tutte le tradizioni, gnostiche, orto-
dosse e cattoliche, religione e ateismo, le usanze classiche, medievali, arabe e moderne – a
condizione che contribuiscano alla “moltiplicazione del pane” e all’accesso universale ad
esso, dunque che non siano guerresche. È l’orizzonte della longue durée di Braudel, in cui le
odierne sfortune, e più di rado le fortune, sono solo parte di una serie ininterrotta di pra-
tiche. Direi che questa è la variante matvejevićana della storia delle idee, che, come è noto,
insiste sulla continuità e non sulle rotture e sui salti (per me almeno altrettanto importanti)
e pone in secondo piano i contesti sociali e i motori di quelle idee – in questo caso sul pane
– in una determinata epoca. La storia non porta da nessuna parte:
Pane, Pane! È forse l’unico slogan […] che non ha deluso e ingannato coloro che lo han-
no scandito, impegnandosi a realizzarlo, cercando di sconfiggere la miseria e di realizzare
la giustizia.
Il resto è storia, talvolta migliore e più sopportabile, quando al popolo non manca alme-
no il pane quotidiano (Matvejević 2009: 128).

E ambiguamente, alla fine del libro:


Cosa può fare la letteratura affinché il pane sia per tutto e per tutti?
Può solo esprimere preoccupazione e inquietudine…
L’umanità è nata senza pane e senza di esso può scomparire (ibidem: 140).

Pane nostro rimane inoltre focalizzato sulle idee del pane che diventa corpo umano:
“corpo e pane si intendono”; si tratta dunque di una transustanziazione del tutto materia-
listica. In un certo senso, è più difficile scrivere questo che i due libri precedenti, perché sia
il Mediterraneo che Venezia, anche se hanno una lunga storia, si possono visitare ancora
oggi. Anche il pane esiste ancora oggi, ma esso non è una cosa unica, bensì mutevole, non
esiste un modello invariabile che lo definisca, come il prototipo internazionale del metro in
platino a Parigi, a cui tutti gli altri si sono dovuti adeguare. Qui abbiamo ancora una volta
l’anatomia, tanto del tema quanto (e forse anche di più) delle idee sul tema, considerate dal
punto di vista di un umanista di sinistra.
L’umanesimo è sufficiente? Su questo si potrebbe discutere. Anche alla fine del libro,
pm osserva: “All’inizio del terzo millennio nel mondo sono in tanti a morire di fame, so-
prattutto in Asia e in Africa”. In un’intervista al giornale (veramente) di sinistra Il Manifesto
238 Darko Suvin

(7 settembre 2010) aggiunge che gli era stato di stimolo anche l’incontro con degli affamati
in Bosnia al tempo dell’ultima guerra. Ritengo che questo sia il contesto imprescindibile
per comprendere quel testo e il metro per misurarlo. In quell’intervista sottolinea che “esi-
ste sia una sociologia che una sociopolitica del pane. Chi controlla la produzione del pane,
chi ‘regna’ sul pane può influire sul potere, esercitare e mantenere il potere”; esalta inoltre
gli stimoli che ha ricevuto dal libro di Kropotkin La conquista del pane. Menziona anche
lo slogan del movimento operaio “pane e rose” (formulato al tempo del famoso grande
sciopero dei lavoratori tessili a Lawrence, usa, nel 1912 dalla femminista e guida locale del
sindacato militante iww, Rose Schneiderman). Tuttavia, nel Pane nostro quella forma di
rottura sociale e di lotta è quasi assente: pm, come ho già detto, conosceva bene le correnti
principali del marxismo ma, per così dire, a quel microfono aveva tolto l’audio. Consiglie-
rei ad ogni lettore di questo libro di leggere accanto ad esso anche l’opera davvero classica
ed esemplare di Kropotkin (riedita in inglese anche nel 2015). In questa combinazione, il
libro di pm guadagnerebbe in vigore e importanza.
Per concludere in prima persona, come ho cominciato: quando ricevetti questo libro
da Predrag nel 2009, feci una lista di una dozzina di passi che avrei voluto discutere con lui,
e glielo dissi in una delle nostre conversazioni telefoniche. Ciò tuttavia avrebbe richiesto un
incontro di persona, ma non ne abbiamo avuto più il tempo. Condividendo il suo rifiuto per
le guerre, soprattutto nei Balcani, e ricordando il grande interesse di Krleža per lo “Zeleni
kadar”4, i disertori dell’Esercito austroungarico nel 1917-1918, volevo proporgli di includere
nella successiva edizione la canzone popolare croata di quegli anni di guerra e di fame:

Care Karlo i carice Zita


Što ratuješ kada nemaš žita?
(Imperatore Carlo e imperatrice Zita
Che fai la guerra se non hai il grano?)

* * *
In conclusione: questi appunti non sono un giudizio complessivo sulla figura poli-
edrica di Matvejević. Per fortuna, un primo approccio a una cosa del genere, e tra l’altro
ottimo, esiste. Leggete quindi il necrologio di Nenad Ivić su “Novosti” e su internet, La vita
gli andava stretta – lo consiglio caldamente.
Quanto di importante su pm non so o non so come dirlo! Sarebbe importante esami-
nare il suo stile, quella paratassi senza sponde, ma ciò richiede uno studio apposito. Cosa
forse più importante, non ho toccato affatto gli articoli brevi che, almeno in questo ultimo

4
Zeleni Kadar, ‘Quadri verdi’, disertori dell’esercito austroungarico che, durante la Prima
Guerra Mondiale, per le difficili condizioni di guerra e per la scarsa motivazione, si ammutinarono
e scapparono nei boschi. Per la loro numericità, costituirono un fenomeno militarmente e social-
mente rilevante.
Avevamo un classico 239

quarto di secolo, scriveva molto spesso. Ce ne sono dozzine, forse anche centinaia: nessuno
sa quali e quanti siano. A me e a Nena ne diede un paio di dozzine: sui serbi di Croazia,
sull’ortografia, sulle porcherie e i crimini quotidiani. Sono fulminanti, stracolmi di cono-
scenza, inesorabili. Cito dalle belle memorie su Andrić:

È una fortuna che non abbia visto i cetnici miloševićani e karadžićani bombar-
dare Sarajevo e Vukovar, fucilare migliaia di persone a Srebrenica e, in nome
della grande Serbia, ‘ripulire etnicamente’ la Bosnia dai musulmani e dai cro-
ati; gli ustascia distruggere Mostar e il ponte sulla Neretva realizzando così la
tuđmaniana ‘visione storica della Croazia’, gettando senza pietà gli erzegovesi
di altre religioni nei campi di concentramento e cacciando dai vecchi focolari i
serbi della Krajina (Matvejević 2002)..

Della storia della ‘jugosfera’ Matvejević è stato testimone e giudice.


Ma anche più di questo: se non è riuscito a dare forma a una giustizia poetica nella sua
– e mia – generazione sono convinto che darà forma a una giustizia del futuro: guarderemo
quel tempo in gran parte attraverso i suoi occhiali.

* * *
Tuttavia: come dare oggi, guardando indietro e avanti, un primo giudizio sullo scrit-
tore e visionario Matvejević? Non è difficile capire che la sua opera sgorga dall’indigna-
zione di un cittadino (citoyen) consapevole, un’indignazione pregna di erudizione, di un
talento narrativo straordinario, e di afflato lirico. Ma andrei anche oltre.
Ovvero, se un classico è una forza creatrice le cui opere principali resteranno a lungo
nella memoria di generazioni, allora dobbiamo dire: Avevamo un classico (jugoslavo, croato,
bosniaco, della jugosfera, cosmopolita) e non abbiamo saputo apprezzarlo. Né l’impegno de-
viante, né la vastità del mondo che portava dentro di sé.
Tutti i governi in questa regione, dagli anni ’70 ad oggi, sono stati bocciati a quell’esa-
me della cultura. (Prendono la sufficienza Tito, che non si offese per la richiesta di dare le
dimissioni, e Mesić, politico che comprese che scandalo internazionale sarebbe scoppiato
se pm fosse andato in carcere).
Quanto mi sono mancati già negli ultimi due anni – da quando non era in condizio-
ni di lavorare – gli interventi di Predrag sugli avvenimenti contemporanei! Cosa avrebbe
detto lui, ad esempio, degli avvenimenti in Croazia, dei nostri ‘macellai’5, avrebbe con-

5
Nell’originale handžarašima – l’allusione è all’ex-ministro della cultura croato di un paio
di anni fa, di ascendenza bosniaca, che si dichiarò pubblicamente grande ammiratore della cruenta
divisione ss ‘Handžar’, composta da musulmani bosniaci. Il termine handžar denota un lungo col-
tello per sgozzare. Mi sembra doveroso reagire a tali propensioni genocide dell’attuale gruppo al
potere. È poco, ma come intellettuali facciamo quel che possiamo: monitorare.
240 Darko Suvin

tribuito al numero della rivista Gordogan sui clero-fascisti (non sul clero-fascismo, delle
generalizzazioni teoriche non si occupava molto)?
Desidero dunque ora – quando forse ho anche trovato un titolo per questo contributo
– concludere con un breve sguardo in avanti.
L’influenza mondiale di Matvejević, a giudicare sia dai libri pubblicati sia dalla mia
impressione sulla sua notorietà, oggi è certamente maggiore di tutti gli altri scrittori della
‘jugosfera’ messi insieme, di narrativa e di politica – per usare delle categorie che a lui non si
addicono affatto – passati e contemporanei (cito quelli più tradotti: Krleža, Andrić, Tito,
Đilas, Kiš, Ugrešić...).
Sarebbe logico aspettarsi che un’opinione pubblica realmente democratica del Paese
in cui viveva, quindi la Repubblica di Croazia, sostenesse e appoggiasse un’influenza del
genere, anche se quella stessa opinione pubblica in maggioranza non è d’accordo con mol-
ti giudizi e posizioni dell’autore: democrazia vuol dire anche ampia tolleranza. Questo è
diretto soprattutto a quelli a cui piace richiamarsi alla cultura millenaria e cose simili: su,
dimostratela qui e ora! Ma dal caso dei ‘nostri talebani’ e in generale dalle reazioni vergo-
gnose e mancate reazioni della nostra crème de la crème croata, è chiaro che questa si cura
poco o per nulla di Matvejević, se non lo odia attivamente. Ciò allora a sua volta avvalora le
asprissime reazioni di pm come pubblicista.
Almeno ora, dopo la morte, sarebbe tempo di cambiare radicalmente questo atteggia-
mento settario: verso la sua opera, verso la sua vedova e verso la sua figura. È vero che tornò
a Zagabria “a malincuore” (come dice un conoscente in un necrologio6) e che alla fine do-
vette vivere come ‘emigrato interno’, tuttavia Zagabria formò abbondantemente la sua – e
la mia – giovinezza. Chi non conosce Zagabria e la Jugoslavia (in seguito jugosfera) che ha
portato in grembo i suoi scritti, li comprenderà solo in parte, o non li comprenderà affatto.
E oggi: esiste, ad esempio, una bibliografia dell’opera di pm? Io non sono riuscito
a trovarla. Si tengono lezioni su di lui in una qualsiasi delle facoltà croate (ma anche bo-
sniache)? Chi lavora sui suoi testi?7 Qualcuno si sentirà spinto a iniziare – insieme alla sua
erede legittima – a preparare l’edizione della raccolta delle sue Opere? (Potrei continuare).
È infatti così che si fa con i classici.
La patria ha un grande debito verso l’attività creativa di Predrag Matvejević.

(traduzione di Maurizio Balzano)

6
M. Nardelli, A perdere, caro amico, siamo abituati, <www.balcanicaucaso.org/aree/
Balcani/A-perdere-caro-amico-siamo-abituati.-In-ricordo-di-Predrag-Matvejevic-177539>.
7
Nell’incuria generale devo segnalare un lavoro pionieristico, N. Ivić, S. Roić (ur.), Predrag
Matvejević: književnost, kultura, angažman, Zagreb 2003, che purtroppo non ho potuto consultare.
Avevamo un classico 241

Bibliografia

Matvejević 1977: P. Matvejević, Prema novom kulturnom stvaralaštvu, Zagreb 1977.


Matvejević 2002: P. Matvejević, Staze, znakovi, osame, “Sveske Zadužbine Ive Andrića”,
xxi, 2002, 19.
Matvejević 2006a: P. Matvejević, L’Altra Venezia, Milano 2006.
Matvejević 2006b: P. Matvejević, Mondo ex e Tempo del dopo, Milano 2006.
Matvejević 2009: P. Matvejević, Pane nostro, Milano 2009.

Abstract

Darko Suvin
We Had a Classic: Notes for Situating Predrag Matvejević

This article is a series of passages meditating on a lifetime of memories about the recently
deceased Predrag Matvejević, as well as on some of his main writings and themes. Of the books
discussed, the first, Prema novom kulturnom stvaralaštvu – written in 1977 as a plea for a ‘deviant’
Left engagement in the wake of Krleža and Sartre, and for a cultural creativity in tandem with self-
management – represents his polemical writing inside and for sfr Yugoslavia. The other titles are
from his late phase: Breviario mediterraneo, Pane nostro and L’altra Venezia, with some mention
also of Epistolario dell’altra Europa and Il mondo ex. Their examination leads to the conclusion that
Matvejević was not only a privileged witness and judge of Yugoslavia and the succeeding ‘yugo-
sphere’, but also of the ‘exes’ or ‘has-beens’ like him and me left stranded and nostalgic by the fall of
‘real socialism’, the ussr and sfry. If a classic is a creative force whose central works remain in the
memory of generations to come, then we had in Matvejević a classic (Yugoslav, Croatian, Bosnian,
Yugospheric, and cosmopolitan) whom we did not appreciate in time. But a future poetic justice
looking back at his times shall see them largely through his eyes.

Keywords

Predrag Matvejević; Yugoslavia; the world of ex.


recensioni
© 2018 Author(s). Open Access. “Studi Slavistici”, xv, 2018, 1: 245-259
doi: 10.13128/Studi_Slavis-23594
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Recensioni issn 1824-7601 (online)

J.A. Álvarez-Pedrosa Núñez (ed. y coord.), Fuentes para el estudio de la religión eslava
precristiana, Libros Pórtico, Zaragoza 2017, pp. 505.

Questo volume, pubblicato da Libros Pórtico, è il frutto di un lavoro pluriennale nell’ambito


di una serie di progetti dedicati allo studio e alla ricostruzione della religione slava precristiana —
Fuentes de la religión eslava precristiana (bff2003-04440, fino a 2007); Cosmogonía y escatología en
las religiones del Mediterráneo Oriental: semejanzas, diferencias, procesos (hum2006-09403/filo,
fino a 2011); La reconstrucción de la religión eslava precristiana. Los testimonios textuales y compara-
tivos (ffi2010-16220, fino a 2013). Juan Antonio Álvarez-Pedrosa Núñez, professore dell’Università
Complutense di Madrid, ha curato e coordinato un’opera che vuole essere fondamentale per lo stu-
dio della religione slava precristiana, obiettivo per cui Álvarez-Pedrosa ha costituito un gruppo di
lavoro ampio, vario e capace di lavorare con sette lingue diverse.
Fuentes para el estudio de la religión eslava precristiana (d’ora in poi ferep) rappresenta la più
grande e completa antologia di testi con riferimenti a tradizioni, riti e divinità slave. Nel volume
sono raccolti testi prima d’ora inediti insieme ad altri tradotti per la prima volta in una lingua euro-
pea occidentale.
Secondo le parole del curatore, obiettivo di quest’opera non è tanto la ricostruzione della religione
slava precristiana, quanto la raccolta di tutti i testi che la possono documentare; sarà quindi compito
dello specialista valutare i materiali qui forniti in modo critico e ricostruire gli aspetti di questa religione.
Il ferep è suddiviso nelle seguenti sezioni, che servono anche per l’identificazione dei fram-
menti raccolti: 0. Introduzione (p. 7), 1. Testi in greco (p. 33), 2. Testi in latino (p. 61), 3. Testi in slavo
meridionale (p. 219), 4. Testi in slavo orientale (p. 233), 5. Testi in slavo occidentale: ceco medievale
(p. 395), 6. Testi in antico islandese (p. 403), 7. Testi in arabo (p. 413), 8. Testi incerti (p. 427), 9. Bi-
bliografia generale (p. 449) e 10. Indice (p. 497). Nel volume non sono stati inclusi testi in polacco
medievale giacché non vi si sono trovati riferimenti al paganesimo. Si deve considerare tuttavia che
riferimenti al paganesimo in Polonia sono presenti in testi latini raccolti nel libro (ad esempio la
Chronica Polonorum, di Wincenty Kadłubek, vescovo di Cracovia).
Nell’introduzione, scritta dal curatore e coordinatore del volume, si trova una descrizione
molto precisa del libro, con istruzioni fornite al lettore che intenda fare uso di quest’opera. Nello
specifico, Álvarez-Pedrosa spiega nel dettaglio quali sono i criteri scelti per la raccolta dei testi, dal
momento che le testimonianze fornite dalla tradizione popolare e dall’archeologia non sono suffi-
cienti a ricostruire la religione slava precristiana e questi due tipi di fonti devono essere integrati da
testi più o meno contemporanei alla cristianizzazione.

The authors declare that there is no conflict of interest


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-
sco di Pania (v secolo) e il più recente appartiene agli Atti del Concilio dei Cento Capitoli o Stoglav
(xvi secolo). Questo lasso di tempo di undici secoli comprende gli anni fra l’entrata degli slavi nella
storia con la Grande Espansione Slava verso meridione in primo luogo, e il momento in cui l’orto-
dossia russa si autodefinisce con forza (nell’anno 1551).

questa religione, oppure spiegazioni di concetti del medesimo ambito religioso non cristiano, o an-
cora riferimenti a teonimi slavi. Sono state escluse dall’antologia dei testi le menzioni al paganesimo
che non includano informazioni sullo sviluppo o le pratiche religiose. Qualora sussistano dei dubbi
sull’attribuzione di una pratica o di un teonimo alla religione slava, il frammento viene riportato con
esplicita indicazione del carattere insicuro di detta attribuzione.

Ciascuna sezione dedicata ai testi (dalla prima all’ottava) segue l’ordine cronologico degli
stessi, che non sempre può essere stabilito con assoluta precisione. Ai testi sono stati attribuiti i
nomi più frequentemente usati in spagnolo e, in caso di incertezza nella traduzione, viene fornito
anche il titolo originale. Il nome dell’autore viene riportato insieme alla data di composizione
del testo e, seguendo la tradizione, nella forma latinizzata (Helmoldo de Bosau e non Helmold
de Bosau, coerentemente con la tradizione dell’uso spagnolo di nomi latinizzati, quali Procopio
de Cesarea). I testi seguono un preciso formato di numerazione: la prima cifra indica la lingua
in cui è stata redatta la fonte, la seconda corrisponde all’ordine che il testo occupa nel capitolo
corrispondente e sotto queste due cifre si includono, numerati, tutti i frammenti raccolti appar-
tenenti al testo. Per esempio, la Chronica Slavorum di Helmond di Bosau, viene identificata con
le cifre 2.22. La prima cifra indica che si tratta di un testo latino, la seconda fa riferimento alla sua
posizione nell’ordine dei testi latini. Pertanto, i frammenti citati appartenenti alla Chronica sono
numerati così: 2.22.1, 2.22.2, ecc.
Ogni fonte è accompagnata da un’introduzione del traduttore che permette di situare l’opera
e l’autore nello spazio e nel tempo. Siffatte introduzioni non sono presenti nelle precedenti antolo-
gie di questo tipo di testi (V.K. Mansikka, Die Religion der Ostlaven del 1922, o G.H. Meyer, Fontes
Historiae Religiones Slavicae del 1931) e rappresentano un avanzamento nella conoscenza della reli-
gione slava precristiana. All’introduzione segue una bibliografia specifica divisa in tre parti: l’edizio-
ne del testo usata dal traduttore, altre edizioni del testo originale e altre traduzioni, se ne esistono, e
una terza parte di bibliografia complementare di carattere generale sul testo. In più, ogni frammento
ha un ‘contesto’, vale a dire, un breve commento che chiarisce dove appare il frammento nell’insieme
dell’opera e la citazione esatta del frammento, affinché possa essere individuato con facilità.
Alla fine, tutti i testi includono note di tre tipi: note relative a realia, che illustrano realtà storiche
o culturali che potrebbero essere sconosciute al lettore; note sulle citazioni di altre opere o altri autori
citati nel frammento, soprattutto citazioni bibliche, e infine note che fanno riferimento alle varianti
manoscritte fondamentali per la comprensione del testo. Gli eventuali scolii e interpolazioni che pos-
sono essere presenti in un testo sono stati tradotti e vengono inclusi come note a pié di pagina.
Merita inoltre di essere menzionato il fatto che i testi originali sono scritti in diversi alfabeti,
ma, per comodità del lettore, le citazioni letterali in cirillico e in arabo sono state trascritte seguen-
do le norme adottate dalla tradizione scientifica internazionale. Tuttavia, le citazioni in greco sono
mantenute nell’alfabeto originale in quanto si presuppone che il lettore spagnolo colto abbia ancora
la facoltà di leggere il greco.
Studi Slavistici xv/1 (2018) 247

In conclusione, il lavoro di Álvarez-Pedrosa e dei suoi collaboratori è fondamentale per aggior-


nare una parte della slavistica che era stata in parte trascurata da editori e filologi. Il valore del volume
deriva non soltanto dalla decisione di includere testi che non erano mai stati pubblicati né tradotti,
ma anche dal lavoro di edizione e contestualizzazione di ogni frammento e dall’inclusione dei rife-
rimenti ai realia, che consentono di porre i testi nel loro contesto storico e culturale. Senza dubbio
questo volume sarà di supporto al lavoro dei ricercatori che operano nel settore della religione slava
precristiana, in quanto realizzato con molta cura e attenzione, includendo il maggior numero possibi-
le di testi con riferimenti religiosi pagani. Inoltre, la selezione dei testi e degli autori non orienta aprio-
risticamente la ricerca verso una specifica lettura delle fonti, ma consente agli studiosi di interpretare
liberamente ogni passaggio incluso. Infine, il volume avvicina i testi ai lettori, che potranno lavorare
per la prima volta con una loro traduzione in una lingua europea occidentale moderna.

Berta González Saavedra

V.M. Živov, Istorija jazyka russkoj pis’mennosti, i-ii, Moskva 2017, pp. 1285.

È difficile presentare nel breve spazio di una recensione il monumentale lavoro di Viktor
Markovič Živov, summa delle più che trentennali ricerche dedicate dall’Autore alla storia della
lingua russa, pubblicato postumo nel 2017.
Come ricorda Aleksandr Moldovan nella breve prefazione, l’opera ricomprende anche lavori
precedentemente pubblicati – nel vol. i molte pagine provengono dagli Očerki istoričeskoj morfo-
logii russkogo jazyka xvii-xviii vekov (2004), nel vol. ii la 2ª e soprattutto la 3ª parte riprendono il
fondamentale Jazyk i kul’tura v Rossii xviii veka (1996), diversi frammenti risalgono a Razyskanija
v oblasti istorii i predystorii russkoj kul’tury (2002), Iz cerkovnoj istorii vremen Petra Velikogo (2004),
Vostočnoslavjanskoe pravopisanie xi-xii vekov (2006) etc. – ma il tutto è rifuso in una narrazione
nuova, unitaria e affascinante, attraverso cui il lettore è guidato da una ricchissima messe di esempi
accuratamente scelti e ben commentati, frutto evidente della ricca esperienza didattica dell’Autore.
La novità dell’impianto è esplicita già nel titolo: non siamo nell’ambito della ‘istorija russkogo
jazyka’, disciplina propriamente linguistica incentrata sulla grammatica storica della lingua russa
nella sua evoluzione interna, dalla disgregazione dell’indoeuropeo sino ai giorni nostri. Ma non si
tratta nemmeno di una ‘istorija russkogo literaturnogo jazyka’, disciplina dallo statuto ben più contro-
verso, che, avendo per tema la lingua come prodotto culturale (artificiale) – slavo ecclesiastico o ‘lin-
gua letteraria anticorussa’ – tratta il problema del bilinguismo/diglossia che avrebbe caratterizzato
la Rus’ medievale sino alle soglie dell’età moderna. La ‘istorija jazyka russkoj pis’mennosti’ propone
un approccio radicalmente nuovo, che elegge a oggetto della propria descrizione la lingua scritta in
tutte le sue realizzazioni, da quelle più alte e solenni (liturgiche e paraliturgiche) a quelle più sempli-
ci e quotidiane, ricomposte in un quadro eterogeneo ma unitario. La storia della lingua scritta della
Slavia orientale medievale abbraccia quindi per la prima volta in una stessa trattazione la produzione
di carattere dotto (nelle sue realizzazioni linguistiche ‘standard’ e ‘ibrida’), quella giuridica, quella
amministrativa e quella ‘privata’, di carattere pratico e quotidiano (bytovye teksty).
L’opera, suddivisa in due volumi per mera questione di maneggevolezza, si articola in un’in-
troduzione e quattro parti.
248 Recensioni

Nell’introduzione (Vvedenie. Teoretičeskie problemy, pp. 11-75) vengono chiariti i presupposti


teorici, si sbarazza il campo dalle visioni tradizionali della lingua come sistema unitario, si problema-
tizza il rapporto tra parlato e scritto, si affronta la questione della diglossia. È questa, a mio avviso, la
parte che maggiormente farà discutere, e su cui più conviene soffermarsi.
Diversamente da quanto si potrebbe supporre, il § 1, Prostoj jazyk i literaturnyj (standartnyj)
jazyk (pp. 11-20), non riguarda il problema della definizione di ‘lingua letteraria’ (e quindi della sua
possibile esistenza nel medioevo: se ne parlerà oltre, nel § 6), bensì quello della sua unitarietà e omo-
geneità, ovvero l’idea saussuriana della lingua come sistema sincronicamente coerente e omogeneo
(fixed code). Operando un’originale sintesi tra storia della lingua e filosofia del linguaggio, l’Autore
afferma la totale eterogeneità della lingua nella sua esistenza concreta, una eterogeneità frutto sia
della stratificazione diacronica, sia della intrinseca ‘dialogicità’ di ogni atto di parola, che sempre
reca in sé l’eco e l’impronta della ‘parola altrui’ (pp. 14-15). Un famoso passo di Bachtin in cui si
accusano le varie scienze del linguaggio di aver operato una monologica reductio ad unum della plu-
rivocità del reale viene così a fondare una breve storia della ‘eliminazione dell’eterogeneità’ (p. 17):
da Pāṇini a oggi la descrizione e la didattica di qualsiasi lingua, materna o straniera, viva o morta,
passa per l’individuazione di una struttura portante i cui dettagli accessori (l’Autore parla di ‘nucleo
neutrale’ o di ‘tronco’, ai cui rami vengono ‘appese’ le varianti) non fanno sistema e vengono addi-
rittura celati: solo dopo aver introiettato un corretto insieme di regole (la grammatica) il discente
‘scopre’ che esiste anche il dialetto ionico, che Plauto non scrive come Giulio Cesare, che il parlato
ammette costrutti particolari, la cui esistenza mette in crisi la concezione della lingua quale “système
rigoureusement agencé, où tout se tient”.
Questa visione del ‘tronco’, conclude l’Autore, deve essere superata: e il primo passo è una
riconsiderazione del rapporto tra lingua parlata e lingua scritta.
Il § 2, Pis’mennyj jazyk i razgovornyj jazyk (pp. 20-26), si apre infatti con la critica di altri, radi-
cati luoghi comuni: da un lato, l’idea che la lingua scritta rappresenti la mera ‘fissazione grafica’ del
sonoro, ‘secondaria’ rispetto alla realtà linguistica basata su leggi fonetiche. Dall’altro, e all’opposto,
l’idea che la lingua colloquiale rappresenti una ‘semplificazione’ o ‘alterazione’ (corruttela) delle
norme della lingua letteraria (standard), che si identifica con quella della scrittura.
Obiettivo di queste pagine è dimostrare, con una nutrita serie di esempi, come la lingua scritta
– detta anche letteraria (russkij literaturnyj jazyk), standard, colta, coltivata, ‘creatrice di cultura’ – e
la lingua parlata – colloquiale (russkaja razgovornaja reč’), strumento della comunicazione quotidia-
na – costituiscano in realtà due sistemi diversi e relativamente autonomi, dotati di proprie regole,
categorie e costrutti – ben più di quanto non avvenga, si noti per inciso, in lingue quali l’italiano
– e che pertanto debbano essere considerati registri funzionali (di pari legittimità) utilizzati da una
stessa collettività in differenti situazioni comunicative (p. 26).
È evidente, per il lettore non digiuno di storia della lingua russa, il bersaglio finale di questa
argomentazione, che infatti dedica solo un brevissimo cenno al rapporto oralità/scrittura (si rico-
nosce che le culture di oralità primaria possiedono strategie retoriche affini a quelle della scrittu-
ra, basate sulla mnemotecnica, p. 21) e a realizzazioni intermedie quali ad esempio la lingua delle
chat (ricordate nella nota 6, p. 22): se tradizionalmente il dibattito aveva riguardato la possibilità
di applicare categorie moderne (come quella di ‘lingua letteraria’) alla situazione medievale, qui è la
realtà contemporanea a essere analizzata in chiave diglossica o meglio ‘pluriglossica’, come terreno di
incontro, conglomerato, o ‘supersistema’ di diversi registri.
All’idea che non esista una reale differenza tra bilinguismo e (presunto) monolinguismo è de-
dicato il § 3, Jazykovye registry i istorija jazyka (pp. 26-36), dove si argomenta come il parlante abbia
Studi Slavistici xv/1 (2018) 249

sempre a che fare con un’insopprimibile eterogeneità di situazioni comunicative, registri, stili, livel-
li, strategie retoriche, tra cui è costantemente chiamato a scegliere. Questo significa che non esiste di
fatto una grammatica universale, così come non esiste un usus centrale (proprio di una situazione co-
municativa canonica) rispetto al quale i restanti si configurino come periferici. Nella realtà chi parla
e chi scrive costruisce la propria grammatica in base alla propria esperienza orale (‘parli come senti
parlare intorno a te’) o scritta (‘scrivi come si scrive nei testi che leggi’). Ciò determina la sfasatura e
la non interconnessione del mutamento linguistico dei registri e, in particolare, la non dipendenza
dell’evoluzione della lingua scritta da quella, suppostamente più ‘organica’, della lingua parlata.
Questa coesistenza di diverse norme sfugge alla nostra comprensione per diversi motivi: alla
già ricordata, millenaria tradizione di studi ‘monologizzanti’ si somma la forza di unificazione cen-
tripeta degli stati moderni (una lex) nonché la (relativamente recente) mentalità borghese che, at-
tribuendo sempre meno importanza alla nascita e sempre più importanza all’istruzione, assegna
un fondamentale valore sociale alla correttezza linguistica (alla padronanza della norma) facendo
della lingua un ‘capitale simbolico’ (§ 4. Jazykovye registry i problema normy, pp. 36-43). Da questa
‘sordità’ alla plurivocità del reale deriva la difficoltà della linguistica diacronica a spiegare i meccani-
smi del mutamento linguistico, le cui ragioni l’Autore individua nella variativnost’ che accompagna
inevitabilmente la coesistenza di diversi registri (§ 5. Jazykovye registry i ėvoljucija jazyka (pp. 43-50).
Chiarite queste premesse, l’Autore affronta nelle pagine successive i tradizionali nodi della
storia della lingua russa. Nel § 6, Jazykovaja situacija drevnej Rusi (pp. 50-53), viene discussa l’ambi-
guità semantica del termine literaturnyj jazyk: accogliendo la definizione fornitane nelle Tesi di Pra-
ga (dove ‘letteraria’ equivale a ‘standard’ e presuppone polifunzionalità, differenziazione stilistica,
validità universale e codificazione condivisa) l’Autore ribadisce la convinzione che quella di ‘lingua
letteraria’ sia una categoria del tutto inapplicabile alla situazione medievale, ad onta del persistente
uso accademico russo (valgono tra tutti gli esempi di Vinogradov e di Uspenskij). La semantica am-
pia dell’aggettivo permette però l’utilizzo del sintagma ‘literaturnyj jazyk’ anche in questo volume,
dove viene interpretato nella sua accezione ‘etimologica’ (da litterae, literaturnyj) e funziona come
sinonimo di knižnyj (dotta), kul’turnyj, kul’tivirovannyj. Per riferirsi alla situazione che in Russia
verrà a crearsi nel xviii secolo, ovvero alla nascita di una ‘lingua letteraria’ modernamente intesa,
e per evitare fraintendimenti, l’Autore stabilisce di servirsi sistematicamente della formula “litera-
turnyj jazyk novogo tipa” (p. 51).
Gli studiosi che si sono serviti della categoria di ‘lingua letteraria’ con riferimento alla situa-
zione pre-moderna non hanno potuto non rilevare la radicale differenza tra il medioevo e oggi.
Il loro approccio li ha quindi costretti a cercare in un bilinguismo geneticamente fondato (slavo
meridionale vs slavo orientale) la specificità della Rus’, la cui produzione scritta non pare ricon-
ducibile a nessuna norma unitaria, concentrando l’attenzione sulla fonetica e sul lessico. Alle
concezioni opposte ma ugualmente insoddisfacenti di Šachmatov e di Obnorskij ha fatto seguito
la reinterpretazione del materiale linguistico fornita da Uspenskij, e la sua proposta di leggere la
Rus’ medievale in chiave di diglossia (§ 7. Koncepcija diglossii, pp. 53-61). Dopo averne dato una
illustrazione magistrale per chiarezza (e del resto si tratta di una teoria alla cui messa a punto
aveva lui stesso contribuito), l’Autore giunge nel § 8, Priložimost’ koncepcii diglossii k jazykovoj
situacii drevnej Rusi (pp. 61-72), a formulare una nuova concezione: il superamento della diglossia
a favore di una visione globale e integrata dell’intera produzione scrittoria della Rus’ medieva-
le basata non più sul concetto di lingua, bensì su quello di ‘registro’: “lo slavo ecclesiastico e le
parlate slave orientali costituiscono diversi registri in uso nella pratica linguistica di una stessa
collettività (jazykovoj kollektiv). Meglio: lo slavo ecclesiastico e le parlate slave orientali hanno
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fornito il materiale per la formazione dei diversi registri operanti nel medioevo slavo orientale”
(vol. i, pp. 68-69). Abbandonando le tradizionali classificazioni del materiale linguistico basate
sulla morfologia e sul lessico, l’accento viene quindi posto sulla sintassi per proporre un’analisi,
ampia e approfondita, delle ‘strategie sintattiche’ caratteristiche dei diversi registri. Considerata
la totale assenza di una storia della sintassi, è questo uno degli aspetti maggiormente innovativi e
preziosi dell’opera.
Nella traduzione italiana questi ‘registri’, più o meno ibridi, potrebbero essere definiti ‘scrip-
tae’, intendendo per ‘scripta’ (amministrativa o letteraria) “un composto non omogeneo, dinamico
e variabile nel tempo, in cui confluiscono e coesistono elementi di varia origine: (a) la tradizione
locale; (b) tradizioni sovralocali, provenienti dall’area linguistica egemone […] o da altri centri do-
tati di capacità irradiante; (c) tradizione culta” (dalla definizione della Treccani). Il passo succitato
si leggerà dunque così: slavo ecclesiastico e slavo orientale concorrono a formare le diverse scriptae
in uso nella Rus’ medievale.
Alla fine dell’Introduzione viene illustrata la periodizzazione e la struttura dell’opera, che su
questa si basa:

1° periodo. Formazione delle principali scriptae in uso presso gli slavi orientali. Fun-
zionamento della lingua dotta (delle scriptae dotte) nel contesto dell’interazione con la
lingua non dotta (con le scriptae non dotte). Sviluppo dei meccanismi di questa intera-
zione (secoli xi-xiv).
1° sottoperiodo. Inizio della formazione delle principali scriptae (secoli xi-xii).
2° sottoperiodo. Mutamento dei rapporti tra le diverse scriptae come risultato
della dissoluzione dell’unità linguistica slava (secoli xiii-xiv).
2° periodo. Ristrutturazione dei rapporti tra le scriptae come conseguenza della presa
di distanza attuata dalla lingua dotta nei confronti di quella parlata. Sviluppo di un ap-
proccio grammaticale alla lingua dotta (secoli xiv-xvi).
3° periodo. Ridistribuzione funzionale delle diverse scriptae e espansione funzionale
della lingua dotta (secolo xvii).
4° periodo. Nascita della lingua letteraria russa di nuovo tipo (lingua standard). Ela-
borazione dei percorsi di normalizzazione della lingua letteraria e costruzione del suo
sistema di stili (secoli xviii-inizio xix).
5° periodo. Stabilizzazione delle norme della lingua letteraria russa moderna. Costitu-
zione del sistema della lingua orale normalizzata e esclusione dei dialetti e del prostorečie
dalla sfera della comunicazione orale (dall’inizio del xix secolo) (p. 72).

Al periodo più antico (xi-xiv) sono dedicate le prime due parti del libro, la terza copre il se-
condo e il terzo periodo, la quarta e la quinta corrispondono al quarto e al quinto periodo.
Non è qui possibile seguire nei dettagli lo snodarsi della narrazione, che a tratti tocca anche
la situazione linguistica di altre aree della Slavia, quali quella rutena o quella slava meridionale (pp.
900-919, passim), per analizzare le ragioni della comparsa delle lingue ‘semplici’ nei secoli xvi e xvii
e la loro destinazione funzionale.
Studi Slavistici xv/1 (2018) 251

Si può solo invitare chiunque sia interessato alla storia della lingua russa a immergersi nella
lettura di questo fondamentale lavoro, da cui nessuno studioso potrà nel futuro prescindere. E do-
lersi ancora una volta di un destino che non ha voluto permettere all’Autore di vedere questo lavoro
stampato, e gli ha impedito di dedicarsi all’ulteriore sviluppo della propria innovativa ricerca.

Nicoletta Marcialis

L. Banjanin, P. Lazarević Di Giacomo, S. Roić, S. Šeatović (a cura di), Il SoleLuna pres-


so gli slavi meridionali, i-ii, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2017, pp. xv-355 /xv-425.

La raccolta di saggi Il SoleLuna presso gli slavi meridionali raccoglie complessivamente 45 con-
tributi in due volumi sul tema dei due corpi celesti nelle letterature e nelle tradizioni orali degli slavi
del sud. Gli articoli sono in italiano, serbo, croato, bulgaro, macedone, inglese, tedesco e polacco,
tutti con il riassunto in inglese. Ogni volume riporta le schede biobibliografiche sugli autori e l’in-
dice dei nomi. La ricchezza e la varietà dei contributi, insieme all’attenta cura editoriale, fanno di
questa pubblicazione un importante contributo alla slavistica.
Gli approcci al tema del sole e della luna qui presentati appartengono a varie discipline, tutte
basate sull’analisi del testo: filologia e critica letteraria, folcloristica, traduttologia, comparatistica,
storia della scienza. Nel titolo i due motivi sono uniti in un neologismo (il “soleluna”) che suggerisce
la loro simbiosi ma anche il loro contrasto nel pensiero umano. Il tema sembra imporre un certo
binarismo archetipico, caratteristico del pensiero mitico e religioso (i due corpi celesti come simboli
del giorno e della notte, del principio maschile e femminile, del bene e del male), ma tale binarismo
si declina poi in numerose sfumature comprendenti sia l’accezione del sole e della luna come corpi
celesti e fenomeni meteorologici da essi causati, insieme a tutto ciò che significano per l’uomo che li
personifica e li traduce in metafore (un approccio mitologico-poetico, successivamente filosofico),
sia l’accezione cosmologica, al limite tra la letteratura e la scienza, soprattutto negli autori del rina-
scimento e dell’illuminismo.
Nei due volumi i contributi sono disposti secondo l’ordine cronologico dei temi trattati: nel
primo si studiano la poesia orale e le tradizioni popolari, la letteratura del rinascimento, l’illumi-
nismo e il romanticismo; nel secondo la letteratura moderna e contemporanea. Le due copertine
riportano due diversi quadri che rispecchiano il pensiero dell’epoca analizzata. Ad illustrare il primo
volume è la Donna al tramonto del sole (1818) di Caspar David Friedrich, lo stesso pittore del Vian-
dante sul mare di nebbia, che fu realizzato nello stesso anno e che siamo abituati a identificare con
il sublime romantico. La Donna al tramonto è quasi una sua versione al femminile, con una simile
figura umana che prova estasi, meraviglia, timore e orgoglio nel confronto con la natura e nell’intu-
izione di ciò che sta dietro alle parvenze del mondo fisico. L’altro volume riporta invece Il banchetto
di Renè Magritte del 1958: un tramonto estraniato con il sole davanti, invece che dietro gli alberi; un
quadro che fa parte dei suoi giochi di giorno e notte, dentro e fuori, dietro e davanti. Nello sguardo
estraniante di chi lo osserva resta la meraviglia, ma scompare il mito. Il sublime di una volta è ora
sceso dentro la mente umana; non è più mito ma sogno e psiche, immaginazione. Il passaggio dal
primo al secondo volume è così segnato dal disincanto del mondo.
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Il primo volume racconta di un mondo ancora incantato. Si apre con studi etnologici (di Lju-
binko Radenković, Dragana Đurić, Račko Popov, Ana Martinoska, Vesna Petreska) che analizzano
le tradizioni popolari degli slavi del sud riguardanti i due corpi celesti, annotate dal medioevo in poi
e contenenti tracce di antichi culti successivamente adattati al cristianesimo. Sono credenze popo-
lari che traducono la paura dell’ignoto e reintroducono il magico nella quotidianità come memoria
di ciò che sfugge alla ragione; esse, poi, molto probabilmente, servivano a imporre delle regole nella
vita della comunità (i demoni del mezzogiorno, per esempio, che vietano di lavorare nelle ore più
calde della giornata, tengono lontani i bambini dai pericoli, prevengono i furti).
Ciò che è più vicino a questo mondo mitico è la poesia orale, un argomento caro alla slavistica
italiana che qui è trattato nei lavori di Lidija Delić, Ljiljana Pešikan Ljuštanović, Valentina Pitulić
e Slavica Garonja-Radovanac. Nel contributo di Slavica Garonja Radovanac si parte dal libro di
Bachofen sul matriarcato (purtroppo c’è solo un indiretto riferimento a Evel Gasparini) per analiz-
zare la poesia popolare serba, in particolare le liriche e le ballate. Tracce di antichi sistemi religiosi,
lunari e solari, che si manifestano attraverso i motivi dei due corpi celesti in questi esempi letterari,
si utilizzano poi per provare la validità delle stesse tesi di Bachofen. Sebbene questo procedimento
argomentativo circolare sia piuttosto anomalo, esso si giustifica con la sincronicità delle annotazioni
della poesia popolare serba (in epoca romantica) con gli studi di Bachofen, e porta a un’originale
conclusione sulla persistenza dei culti matriarcali nella poesia lirica popolare serba. Quella epica,
supponiamo, resta il regno indiscusso del patriarcato.
Dell’epoca rinascimentale scrivono Amir Kapetanović e Bojan Đorđević (sui motivi del sole
e della luna nella letteratura ragusea), Ines Vodopivec (sui calendari tedeschi del Cinquecento nelle
collezioni slovene) e Ivan Pederin (sulla pirateria croata nell’Adriatico e i suoi riferimenti meteoro-
logici). Il Settecento è analizzato nei testi poetici e scientifici serbi (Dušan Ivanić, Aleksandra Pavlo-
vić) e attraverso gli scritti di Ruđer Bošković e Atanasije Stojković nell’articolo di Persida Lazarević
Di Giacomo, che allarga lo sguardo comparatistico a tutta l’Europa e ci riporta in un mondo in cui
la scienza e la cultura umanistica erano strettamente connesse e creavano quel concetto di eccellenza
degli spiriti fatta di erudizione e cosmopolitismo.
Il primo volume si conclude con il romanticismo nelle rappresentazioni del sole e della luna in
Njegoš (Vesna Vukićević Janković), con lo studio dei libretti croati comparati a quelli italiani (Katja
Radoš Perković) e con un prodotto letterario di intenzioni antiromantiche: la commedia Frlezija
(1898) di Ivan Stojanović analizzata da Ljiljana Banjanin in cui, oltre alla critica del romanticismo
identificato con la luna e la pazzia d’amore, si scopre anche una modernissima consapevolezza poli-
tica dell’Autore.
Ciò che caratterizza i temi trattati nel secondo volume è definito dalle curatrici come “naufra-
gio delle mitologie”. Dopo che le avanguardie hanno ucciso il chiaro di luna, il fuoco del racconto
mitico si ricorda attraverso il linguaggio poetico, oppure in forme nuove del sublime moderno, non
più trascendentale.
Il volume si apre con uno studio traduttologico di Iva Grgić Maroević e Tonko Maroević sulle
difficoltà di traduzione dei concetti di sole e luna nelle personificazioni del linguaggio poetico. La
discussione sul genere e la traduzione parte, naturalmente, dal classico testo di Jakobson (Aspetti
linguistici della traduzione) nel quale, all’interno di un sistema strutturale in cui le lingue sembrano
perfettamente sovrapponibili e traducibili, si stabilisce un’eccezionalità del linguaggio poetico che
sfugge a tali regole per il suo particolare legame tra il contenuto e la forma. Nel linguaggio poetico
il fatto che il sole (in italiano) sia un sostantivo di genere maschile ha un significato che non si può
scindere dal suo significato di corpo celeste; ciò crea difficoltà di traduzione nelle lingue in cui, come
Studi Slavistici xv/1 (2018) 253

per esempio in croato e in serbo, il sole e la luna sono di altri generi grammaticali. L’esempio dei due
corpi celesti mette questa difficoltà in piena luce proprio per la sua caratteristica binaria e archetipi-
ca. Nel lavoro dei due studiosi si analizzano quindi le soluzioni a questo problema nelle traduzioni
di autori classici italiani, francesi, inglesi in croato e in serbo, nelle quali spesso si ricorre al termine
italianizzato luna per ottenere la personificazione femminile.
Della poesia moderna parlano i lavori di Tihomir Brajović, Aleksandra Matić (poesia serba)
ed Elena Daradanova (poesia serba e bulgara). Il lavoro di Jelena V. Vulović è dedicato al romanzo
Jedna ugašena zvezda di Lazar Komarčić. Rosanna Morabito scrive della prosa lirica di Matoš, Ma-
ria Bidovec del motivo del sole nei romanzi di Ivan Cankar. Due lavori, di Sanja Roić e Nicoletta
Cabassi, sono dedicati al poeta Sibe Miličić. La poesia popolare serba torna ad essere analizzata nel
lavoro di Giulia Baselica che allarga l’orizzonte al mondo russo, studiando in chiave comparatistica
le traduzioni della poesia serba ad opera di Anna Achmatova. L’attenzione della studiosa è rivolta
alle traduzioni in sé, ma anche ai loro echi nell’universo poetico di Achmatova.
Due contributi, di Marija Mitrović e Ala Tatarenko, sono dedicati a Ivo Andrić. Tatarenko
mette Andrić in relazione con Miloš Crnjanski, cui è dedicato l’articolo di Slađana Jaćimović. Ma-
rija Mitrović studia le rare apparizioni del sole nell’opera di Andrić, in cui generalmente prevalgono
atmosfere cupe e fosche. La solarità di alcune poesie giovanili è collegabile con i soggiorni dello scrit-
tore sul Mediterraneo. Di particolare importanza in questo studio sono le analisi delle poesie inedite
di Andrić, tratte dal lascito del poeta custodito nell’Archivio sanu. Se nella produzione artistica
di Andrić si possono chiaramente individuare i componimenti nati durante i soggiorni al mare, è
notevole quanto nelle fasi successive il ricordo di questi soggiorni sia ancora fonte di immagini di lu-
minoso splendore, come nei frammenti e nelle prose poetiche (Žena na kamenu, Letovanje na jugu).
Della poesia moderna e contemporanea serba si occupano i lavori di Svetlana Šeatović, Svetla-
na Rajčić Perić, Zorana Opačić, Sanja Paripović Krčmar e Jasmina Jokić. Della prosa bosniaca scrive
Nadija Rebronja, di quella serba Valentina V. Hamović, Slobodan Vladušić, Igor Perišić e Vladisla-
va Gordić Petković. Della prosa lirica della scrittrice croata Andriana Škunca scrive Elisabeth Von
Erdmann. Lo studio di Jovan Ljuštanović è dedicato alla letteratura per l’infanzia, mentre il genere
drammatico – il dramma postmoderno croato e serbo – è oggetto dell’analisi di Jolanta Dziuba.
La linea evolutiva del disincanto che abbiamo indicato come filo conduttore dei due volumi
tocca, a nostro avviso, un momento importante nell’analisi di Vladan Desnica ad opera di Vladimir
Gvozden. Oltre all’aspetto psicologico del sole e del Mediterraneo come elemento inscindibile della
vitalità di questo autore, si sottolinea in questo studio il suo risvolto filosofico ed esistenzialista, in
cui pare giustificato il paragone con Camus.

Natka Badurina

B. Ronchetti, Dalla steppa al cosmo e ritorno. Letteratura e spazio nel Novecento russo,
Lithos Editrice, Roma 2016, pp. 295.

Il volume si compone di tre parti in cui si esplorano: 1. Spazio poetico e geografia delle identità;
2. Sulle ali del Novecento; 3. Aviatori, biplani e cosmonauti. Le parti 2 e 3, dedicate al volo aeronau-
tico e spaziale nella letteratura e cultura russa, devono la propria origine ad un progetto di ricerca
254 Recensioni

coordinato da Caterina Graziadei, i cui risultati hanno trovato espressione inizialmente in una serie
di pubblicazioni su rivista o miscellanea e che qui sono stati profondamente rielaborati dall’Autrice
all’interno di una prospettiva teorica molto articolata e approfondita ed arricchiti con la bella sezio-
ne antologica che costituisce la quarta parte del libro, dal titolo Bagliori d’azzurro, in cui vengono
proposti alcuni dei testi (o loro brani) più rappresentativi analizzati nel volume, molti dei quali
tradotti per la prima volta in italiano dalla studiosa.
Il libro si propone di ricostruire la storia culturale della Russia riflettendo sulla rappresentazio-
ne dello spazio, che dalla dimensione orizzontale, marcata dalla ferrovia (secondo una formulazione
di Mandel’štam in Il francobollo egiziano, 1928), dominante nel xix secolo, assume una traiettoria
verticale nel xx secolo con la conquista dei cieli da parte dei fratelli Wright nel 1903. Si tratta di
una “parabola spaziale, filosofica ed esistenziale che definisce lo spazio pubblico” (p. 16), che inizia
idealmente con le celebrazioni puškiniane del 1880, culminate con l’inaugurazione del monumento
al poeta. Nella prima parte del volume, a partire dall’idea della “leggibilità dei luoghi”, suggerita da
Westphal in Geocritica (2007), e attingendo a strumenti critici di una vasta gamma di discipline, si
esplora il significato delle sculture monumentali collocate in ambienti pubblici, che grazie a ciò sono
“in grado di accogliere in sé e consolidare emozioni condivise e tensioni ideali” (p. 18) e acquistano
un “senso aggiuntivo” per singoli e comunità, diventando “spazio poetico” (p. 18). Nel corso di tutto
l’Ottocento era stato vivace il dibattito sul ruolo culturale, artistico e anche politico di Puškin; la
edificazione del monumento di Mosca e di altri a lui dedicati fu dunque un punto di arrivo e di
consacrazione dell’artista nell’autocoscienza della cultura russa in una prospettiva decisamente let-
teraturocentrica. Le celebrazioni puškiniane marcarono anche un breve intervallo di “disgelo”, come
lo definì Turgenev in una lettera dell’aprile 1880, di “festosa euforia” (p. 26) e furono “un grandioso
atto di autocoscienza nazionale, una nuova era, un punto di svolta” (M.C. Levitt, Russian Literary
Politics and the Pushkin Celebration of 1880, Ithaca 1989, cit. a p. 27), che purtroppo si concluse ben
presto con l’attentato fatale ad Alessandro ii del marzo 1881. Pur attraverso le trasformazioni del
tessuto urbano di Mosca e il mutare della collocazione stessa della statua, dapprima situata all’inizio
del viale Tverskoj nei pressi del campanile del monastero Strastnoj, abbattuto nel 1937, e trasferita
nel 1950 nella posizione attuale nella piazza intitolata al poeta, il monumento di Puškin ha conti-
nuato a rappresentare un ruolo simbolico di grande rilevanza culturale e ideologica. Fu infatti sotto
questa statua che si radunò nel 1966 una piccola folla per protestare contro la condanna di Sinjavskij
e Daniel’, rei di aver pubblicato le loro opere all’estero.
La seconda parte del libro inizia con una riflessione sulla percezione dello spazio e sul suo
nesso con la parola poetica che si avvale di spunti metodologici e teorici tratti da diversi studiosi e
filosofi che hanno trattato la questione, da Panofsky a Starobinski, da Merleau-Ponty a Benjamin.
In questo contesto viene ripreso il paragone tra spazio orizzontale ottocentesco, dominato dalla
ferrovia e dalla forma romanzesca, messo in contrasto con “lo slancio aereo verticale”, di cui sono
emblemi “l’elettricità e la particella (di lingua e di materia)” (p. 39), che contribuiscono a mutare
“gli orientamenti e le cadenze della letteratura novecentesca, trasferendo lungo l’asse verticale la
direzione dello sguardo nella vita quotidiana, nelle ricerche estetiche, nelle riflessioni politiche e nei
quesiti della scienza” (p. 40). Non che la visione dall’alto o a volo d’uccello sia prerogativa esclusiva
della letteratura del Novecento, sin dall’antichità troviamo narrazioni legate al volo, di cui Piero
Boitani traccia un’ampia e affascinante rassegna in un saggio di qualche anno fa: Parole alate. Voli
nella poesia e nella storia da Omero all’11 settembre (2004). Ma è solo all’inizio del xx secolo che la
tecnica aviatoria conosce un progresso, è il caso di dire ‘vertiginoso’, e rapidissimo che nel corso di
pochi anni porta dal primo brevissimo volo dei fratelli Wright (1903) alla trasvolata della Manica di
Studi Slavistici xv/1 (2018) 255

Blériot nel 1909 e alla traversata aerea dell’Oceano Atlantico di Lindbergh nel 1927. L’Autrice, con
dovizia di dati anche tecnici e statistici, ricostruisce i primi anni pionieristici ed entusiasmanti del
volo in Russia con il loro corollario di esibizioni e dimostrazioni aeree pubbliche nelle quali tutti
i sensi, e non solo la vista, erano stimolati a partecipare a questa innovativa esperienza: lo sguardo
seguiva le manovre degli aerei, l’udito percepiva il fragore dei motori, l’olfatto l’odore dell’olio e dei
carburanti, la bocca si riempiva del sapore acre della polvere sollevata dai velivoli (p. 44). Al volo
delle prime donne-pilota, la baronessa Raymonde de Laroche (al secolo Elisa Deroche), la pioniera
del cielo russa Lidija Zvereva e tante altre, è dedicata un’ampia sezione (pp. 46-67), che non manca
di collocare questo fenomeno sullo sfondo delle rivendicazioni sociali e politiche delle donne di
quegli anni. L’ultimo capitoletto della seconda parte ripercorre rapidamente le tappe del pensiero
estetico e artistico alla luce delle scoperte scientifiche del primo Novecento.
Si può dire che l’esposizione di come i successi dell’aeronautica abbiano influenzato l’immagi-
nario letterario russo ‘spicchi il volo’ davvero nella terza parte del libro in cui ci si sofferma su singoli
autori del Novecento russo che hanno trattato il tema del volo. Brjusov, che aveva assistito alle prime
esibizioni aeronautiche nel 1906 a Parigi, dedica numerose liriche al tema del volo, a partire dal mi-
tico Icaro (Dedal i Icar, 1908) e dai primi aviatori Henri Farman e i fratelli Wright (Komu-to, 1908)
per poi celebrare Adolphe Célestin Pégoud, esibitosi a Mosca nel 1914 (Na poletach). Il 1910 fu l’an-
no dell’aviazione in Russia, Aleksandr Blok scrive la lirica Kometa nella quale definisce l’aeroplano
“demonskaja mašina” (p. 88) che induce gli aviatori a sfidare la morte nella loro ansia di conquista
del cielo. Allo stesso anno risale la prima stesura di Aviator che il poeta continua a rielaborare anche
l’anno seguente, forse sotto l’impressione della sciagura aerea dell’ippodromo di Kolomjagi (p. 92).
Interessante questo componimento anche dal punto di vista linguistico per l’uso dei termini tecnici
del nuovo linguaggio aeronautico e per l’uso del vocabolo “letun” nel senso di aviatore. Altri autori
compongono liriche dedicate esplicitamente alla figura dell’aviatore, da Chodasevič a Ėrenburg e
Severjanin; Kazimir Malevič gli dedicò un dipinto (1914). Non può mancare Vasilij Kamenskij che
oltre ad essere aviatore fu poeta autore di “aeroversi” (pp. 96-97, 99, 104).
Lo scoppio della Prima guerra mondiale segna anche l’utilizzo dell’aereo a fini bellici, riflesso
sia nella poesia, ad esempio Brjusov Aėroplany nad Varšavoj del dicembre 1914, che nelle arti figu-
rative, con la serie di litografie di Natal’ja Gončarova dal titolo Mističeskie obrazy vojny, tra le quali
troviamo Angely i aeroplany, dove nel cielo troviamo accanto gli angeli, simboli della concezione
primitiva, organica, del volo, e gli aeroplani, diventati macchine per seminare la morte (pp. 105-106).
L’Autrice si sofferma poi sul proclama di Chlebnikov Truba Marsian del 1916 in cui il budetljanin
proietta in una dimensione cosmica, extraterrestre l’appello ai giovani a ribellarsi alla logica della
generazione dei vecchi che per la loro smania di conquista di nuovi territori li hanno mandati al ma-
cello (pp. 107-108). Si passa poi, dopo la fine della Guerra civile, alla creazione per volere di Trockij
della Flotta Aerea Rossa e al moltiplicarsi di iniziative artistiche ed editoriali dedicate all’aviazione
russa, come una antologia di “avioversi” del 1923, contenente collages di Rodčenko e poesie di giova-
ni autori e poeti già noti come Brjusov, Mandel’štam, Majakovskij. Quest’ultimo, peraltro, attorno
alla metà degli anni Venti dedica numerosi componimenti al tema ‘aereo’ (p. 109). Alla fine di questo
decennio, con la “Prima esposizione universale di progetti e modelli per apparati interplanetari,
meccanismi, dispositivi e materiali storici sulle investigazioni dello spazio”, allestita a Mosca nel de-
cennale della Rivoluzione (p. 112), appare chiaro come la prospettiva del volo sia mutata, spostando
il proprio obiettivo dai cieli alla dimensione dello spazio cosmico. Gli ultimi due capitoletti della
terza parte del libro sono dedicati ad una rassegna di autori che hanno trattato il tema del volo den-
tro e fuori l’urss, citando Bulgakov e il suo Master i Margarita, Marina Cvetaeva Poėma vozducha
256 Recensioni

e Nabokov, Aėroplan, per poi passare alla fascinazione del cosmo nella letteratura e nell’arte russa.
Il’ja Kabakov con il suo Čelovek, uletevšij v kosmos iz svoej komnaty (1985-1988) assorbe “l’energia
collettiva che emana dalla propaganda e la realizza volando verso una sorte ignota” (p. 126), mentre
Viktor Pelevin con il suo romanzo d’esordio Omon Ra, pubblicato proprio alla fine dell’epoca so-
vietica (1991), decostruisce sarcasticamente l’utopia della conquista del cosmo sovietica rivelandone
la natura essenzialmente menzognera e fittizia. Il mancato cosmonauta protagonista del romanzo
scopre infatti di non trovarsi affatto a bordo di una navicella spaziale, bensì in un tunnel sotterraneo
in un vagone della metropolitana. Barbara Ronchetti scorge in questo finale una sorta di rinconci-
liazione tra i principi conflittuali del moto orizzontale del treno e quello verticale dell’aereo/razzo
spaziale: “Il volo resta a terra, privato della sua aura ideale torna ad acquistare valore come esplora-
zione entro se stessi e la propria esistenza adulta [...] Il viaggio ferroviario assume simbolicamente i
tratti di un nuovo decollo verso l’ignoto [...]” (p. 126).
La quarta e ultima parte di cui si compone il volume offre al lettore una scelta antologica di
testi poetici e in prosa che illustrano le diverse rappresentazioni aviatorie del Novecento, seguendo
il percorso tematico e interpretativo proposto dall’Autrice in questo libro. Ritroviamo qui i nomi di
poeti tra cui Blok, Brjusov, Chodasevič, Kamenskij, Chlebnikov e Majakovskij, e di prosatori come
Kuprin e Pelevin a cui viene affiancato un estratto da un importante saggio critico di Aleksandr
Genis Pamjati kosmosa (2006), ironico commiato da alcuni concetti-simbolo della vita sovietica, tra
cui, appunto, il cosmo. Molti dei testi qui antologizzati sono tradotti per la prima volta in italiano.
Le note che corredano le traduzioni non sono affatto marginali; la loro lettura è fonte di numerosi
spunti critici e informazioni molto interessanti e puntuali, per non parlare delle raffinate osserva-
zioni relative alle strategie traduttive seguite dall’Autrice, che spesso mirano a rendere il disegno
ritmico dell’originale, persino cimentandosi con la rima, mantenuta nel caso dei testi di Zinaida
Gippius Zeppelin iii (p. 145), Chlebnikov Tatlin, tajnovidec lopastej (p. 179) e Dmitrij Vedenja-
pin Tam chorošo, gde nas net (p. 211). Nelle traduzioni delle liriche di Kamenskij Uletan (p. 175) e
Vyzov aviatora (p. 181) Barbara Ronchetti si cimenta in un vero e proprio tour de force traduttivo
per rendere il tessuto fonico dei neologismi del primo componimento, rispettandone il numero e
la posizione e il ritmo breve e cadenzato del secondo che si scaglia contro la guerra, vista come “una
vecchia cocotte”.
A questo punto, ci corre l’obbligo di rilevare anche alcuni elementi di debolezza del libro, che
soffre a tratti di una certa sovrabbondanza di riferimenti storici, filosofici, letterari e culturali che
vengono solo accennati o sfiorati, a volte meramente elencati e non approfonditi a sufficienza, salvo
essere ripresi altrove in modo a volte non perfettamente integrato nell’esposizione. Si segnala anche
qualche refuso e una certa incoerenza grafica.
Nonostante queste pecche, facilmente emendabili, rimane il nostro apprezzamento per il ta-
glio interpretativo scelto dall’Autrice, la ricchezza di informazioni fattuali e spunti critici stimolanti
e originali, l’ampiezza degli orizzonti tematici e letterari, la scelta antologica originale e avvincente
della quarta parte. Crediamo che questo volume possa agevolmente incontrare l’interesse anche di
un pubblico di non specialisti che voglia esplorare i cieli della cultura russa del Novecento.

Gabriella Elina Imposti


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J. Křesálková, Italská literatura v Čechách a na Slovensku: bibliografie italských li-


terárních děl přeložených do češtiny a slovenštiny, vydaných od počátku knihtisku do
současnosti, a přeložených netištěných divadelních her a operních libret inscenovaných
od 18. století, Univerzita Karlova, Filozofická fakulta, Praha 2017, pp. 644.

La passione per la compilazione di repertori bibliografici è sempre animata da un non comune


spirito di servizio. Adoperarsi per mettere a disposizione di altri studiosi dati preziosi per appro-
fondire l’indagine nei loro settori d’interesse è compito a volte ingrato, privo forse di immediate
soddisfazioni, ma che resiste nel tempo e ci dà la possibilità di ritrovare trame perdute o di ricostru-
ire l’intreccio di storie altrimenti difficili da raccontare. Jitka Křesálková coltiva da sempre questa
passione e ne dà una preziosa testimonianza con un volume che ci consente di valutare le dimensioni
della diffusione della conoscenza della letteratura italiana in Boemia e Slovacchia e che riprendendo
un percorso iniziato nel 1991 con la pubblicazione di La letteratura italiana in Cecoslovacchia: biblio-
grafia delle opere di autori italiani tradotte in ceco e in slovacco dalla nascita della stampa sino ad oggi
(Guerini Studio, Milano 1991, pp. xii-284), aggiorna quel repertorio a quasi tutto il 2016, con un
incremento che porta dalle 2950 posizioni bibliografiche allora censite alle 9465 attuali.
Sia gli slavisti italiani sia gli italianisti boemi e slovacchi non possono che essere grati all’Au-
trice per questa sua nuova fatica che ha, quindi, radici lontane, per altro corroborate da altri lavori
che pure hanno segnato tappe importanti nell’indefessa volontà di sedimentare quel rapporto tra
l’Italia e le culture slave che è poi parte fondamentale di un’esistenza di studio che si è divisa, o
meglio si dovrebbe dire unita, tra Milano e Praga, ponendosi lo scopo ben preciso di favorire una
maggiore conoscenza del mondo slavo in Italia. Basti citare la cura assieme a Sante Graciotti dell’o-
pera di Goleniščev-Kutuzov, Il Rinascimento italiano e le letterature slave dei secoli 15. e 16. (2 voll.,
a cura di S. Graciotti e J. Kresálková, Vita e Pensiero, Milano 1973), la Bibliografia della slavistica
italiana: 1978-1983 (Associazione italiana degli slavisti, Milano 1983, pp. 92), il saggio bibliografi-
co sulla polonistica italiana nel secondo dopoguerra nel volume di S. Graciotti e K. Żaboklicki,
La polonistica in Italia e l’italianistica in Polonia: 1945-1979 (con saggio bibliografico a cura di J.
Křesálková, Zakład narodowy imienia ossolińskich wydawnictwo Polskiej akademii nauk, Wrocław
et al. 1983, pp. 125) o i due volumi dedicati a Bunin (Ivan Alekseevič Bunin: bibliografija original’nych
knižnych izdanij (1891-1990), sost. J. Kržesálková, Narodni knihovna čr, Praha 2007, pp. 503 e Ivan
Alekseevič Bunin: bibliografija pervych izdanij v gazetach, žurnalach, literaturno-chudožestvennych
al’manachach i sbornikach (1887-1987), sost. J. Kržesálková, sost. ukazatelej M. Ržegaková, Národní
knihovna čr, Praha 2011, 335 p.), per limitarsi ovviamente a segnalare i lavori di carattere bibliogra-
fico, all’interno della vasta produzione scientifica dell’Autrice. A pieno diritto si può oggi affiancare
il nome di Jitka Křesálková a quelli di Arturo Cronia e di Enrico Damiani che della bibliografia
slavistica italiana sono stati i due esponenti di maggior spicco, citando doverosamente anche gli
importanti contributi, quasi necessario contraltare all’opera della Křesálková sul versante italiano, di
Alena Wildová Tosi del 1980 e del 2006 sugli studi italiani sulla Cecoslovacchia (A. Wildová Tosi,
Bibliografia degli studi italiani sulla Cecoslovacchia (1918-1978), Bulzoni, Roma 1980, pp. 318 e A.
Wildová Tosi, Bibliografia delle traduzioni e studi italiani sulla Cecoslovacchia e la Repubblica Ceca,
1978-2003, Bulzoni, Roma 2006, pp. 261).
Bisognerà, quindi, nel rimarcare l’importanza di questa opera, sottolineare con forza come la
bibliografia non debba essere considerata come un’ancella di secondaria importanza di una discipli-
na, bensì come ne sia il necessario corollario. Non a caso anche Ettore Lo Gatto vi si cimentò già a
258 Recensioni

partire nel 1921, in appendice alla sua traduzione di Ideali e realtà della letteratura russa di Kropotkin
e nella sua pioneristica rivista “Russia” non mancarono mai rassegne bibliografiche, quasi a volerne
testimoniare il valore ‘fondante’: l’esistenza di repertori bibliografici dà dignità a una branca del
sapere, consentendole di essere riconosciuta come ‘tale’ nell’arena scientifica.
Nella prefazione al volume Křesálková si sofferma su quali siano stati gli autori che nell’ampio
periodo storico preso in esame risultano essere stati oggetto di maggiore interesse in area boema e
slovacca. Si tratta di un utile excursus che introduce il lettore all’esame dettagliato della bibliografia
che è divisa in due sezioni. Nella prima parte sono riportate le traduzioni in ceco e slovacco di ope-
re letterarie di tutti gli autori reperiti, indistintamente, senza alcuna particolare selezione dovuta a
una loro rilevanza nel panorama letterario italiano. Per altro sono state censite non solo opere in
prosa, poesia e teatro, ma anche saggi, trattati filosofici o religiosi, opere didascaliche o scientifico-
divulgative, scritti per l’infanzia e la gioventù, pubblicistica, romanzi gialli, mentre non è stata presa
in considerazione la letteratura scientifica (medicina, scienza, tecnologia).
Nella seconda parte sono riportate le informazioni sulle traduzioni inedite di opere teatrali e
liriche messe in scena in Boemia e Slovacchia dal Settecento ad oggi nonché sulle versioni ceche di
opere teatrali italiane conservate presso la Biblioteca dell’Istituto del teatro e del Museo Nazionale
di Praga, di cui non si è riuscito a stabilire se siano state mai rappresentate.
Il volume è corredato da una bibliografia di riferimento e da utilissimi supporti anche in tradu-
zione italiana per facilitare la ricerca: l’indice dei traduttori, dei curatori e degli autori di prefazioni
o postfazioni, l’indice in ordine cronologico delle traduzioni, l’elenco dei teatri e delle istituzioni
presenti nel repertorio con delle sigle, la lista delle case editrici e delle collane indicate con abbrevia-
zioni e sigle, la lista delle abbreviazioni e delle parole presenti nei singoli lemmi. A questo proposito
va sottolineato il tentativo di fornire il maggior numero di dati bibliografici possibile per ogni sin-
gola voce a partire dalla data di nascita e eventualmente di morte di ogni autore fino all’indicazione,
se reperita, della tiratura del testo indicizzato. Per altro i criteri dell’edizione sono dettagliatamente
esposti a corredo del volume.
Davanti ai nostri occhi si dispiega così un grande affresco bibliografico che testimonia i se-
colari rapporti tra l’Italia e le terre di Boemia, Moravia e Slovacchia: chi voglia perdersi nella con-
sultazione di queste 9465 citazioni bibliografiche potrà rendersi conto della fortuna non solo dei
classici italiani, ma anche di autori come Umberto Eco, mentre appare molto modesto l’interesse
per l’opera di Andrea Camilleri. Ma sono solo due esempi, per dimostrare che i percorsi di lettura e
di interpretazione dei dati che ci offre questo volume possono essere molteplici. Il lavoro del biblio-
grafo è sempre accompagnato da un lato dalla quasi certezza che qualche dato possa essere sfuggito e
che, quindi, si tratta sempre di un work in progress e dall’altro dalla speranza che quanto viene messo
a disposizione degli studiosi possa suggerire nuovi approfondimenti e nuove strade da percorrere.
Nel recensire il volume pubblicato nel 1991 in cui l’Autrice annunciava la volontà di comple-
tare quel lavoro con altri volumi, Ivan Seidl scrisse: “Quelli che lavorano nel campo dell’italianistica
in Boemia, Moravia e Slovacchia sanno quant’è importante il lavoro che Křesálková si propone di
svolgere. Questo primo volume è un’impresa perfettamente riuscita, e all’autrice vanno indirizzate
le nostre più sincere lodi. Se poi riuscirà a portare a compimento gli altri due volumi progettati,
sarà una vera festa per tutti quanti s’interessano dei rapporti letterari e culturali italo-boemi e italo-
slovacchi” (I. Seidl, La letteratura italiana in Cecoslovacchia. Bibliografia delle opere di autori italiani
tradotte in ceco e in slovacco, a cura di J. Kržesálková, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Mila-
no 1991, pp. 284, in: “Études romanes de Brno”, xxiii, 1993 = “Sborník prací Filozofické fakulty
brněnské univerzity. Řada l. Romanistická”, xlii, 1993, iss. l14, pp. 70). Sono passati molti anni e
Studi Slavistici xv/1 (2018) 259

quel progetto ha subito dei mutamenti, ma resta il fatto che oggi possiamo salutare il compimento
di un lavoro che corona decenni di studi e di ricerche. Dobbiamo essere tutti orgogliosi del lavoro di
Jitka Křesálková: la pubblicazione di Italská literatura v Čechách a na Slovensku è davvero un’occa-
sione di festa e, a pieno titolo, risponde a quell’ideale perseguito con pervicacia da Enrico Damiani
che non smise mai di sperare che la conoscenza delle rispettive culture e letterature potesse avvici-
nare i popoli in maniera indissolubile, allontanando gli spettri delle guerre e degli odi tra le nazioni.
Una speranza che, malgrado tutto, va nutrita e che l’accurata e sapiente attività di bibliografo di Jitka
Křesálková ci aiuta ad alimentare.

Gabriele Mazzitelli
Studi Slavistici
Rivista dell’Associazione Italiana degli Slavisti

F. ROMOLI
Sulle varietà dell’omiletica di Kirill Turovskij: lo Slovo po Pascě 5-27
А. ГРИЩЕНКО
Языковые и литературные контакты восточных славян и евреев в средние века.
Итоги и перспективы изучения 29-60
J. DOTI
Il mito del Demetrio moscovita nell’Italia del Seicento. Dal romanzo di Maiolino Bisaccioni
alle tragedie di Bianco Bianchi e Giuseppe Teodoli 61-86
L. DOVGA, R. KYSELOV
Principles of Quoting the Holy Scriptures in Works by 17th Century Ukrainian Authors:
Approaching the Issue 87-110
A.V. MAIOROV
Schlözer and Karamzin. Struggle for Priority in Studying Russian Chronicles 111-130
А. ШИШКИН
‘Лицо’ – ‘маска’ в культуре Серебряного века. Вяч. Иванов, К. Сомов, Н. Ульянов и другие 131-151
Ч.ДЖ. ДЕ МИКЕЛИС
Двенадцать А. Блока между Россией и Италией 153-164
G. LAROCCA
Il paradigma dell’antico. Lev Pumpjanskij e la classicità 165-182
V. VUKIĆEVIĆ-JANKOVIĆ
Kišov pohod u sjećanje svijeta 183-196
A. AMENTA
Anna In w grobowcach świata di Olga Tokarczuk. Una rilettura femminista del mito
sumerico della dea Inanna 197-216

MATERIALI E DISCUSSIONI
M. GARZANITI
Da Roma a Mosca. Sofia Paleologa e i greci in Russia fra la fine del medioevo e l’inizio
dell’epoca moderna. A proposito della recente biografia di T. Matasova (Mosca 2016) 219-226
D. SUVIN
Avevamo un classico. Appunti per collocare Predrag Matvejević 227-241

Recensioni 245-259

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