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“SOLO” UNO SGUARDO

(da “Arte e Fotografia” di David Campany)


I rapporti tra occhio e macchina fotografica svolgono un ruolo centrale nella fotografia e nel cinema fin dagli anni
'20 del Novecento. Tradizionalmente il vedere e il fotografare sono stati considerati e rappresentati come atto
unitario. Nel periodo compreso fra le due guerre, “Uomo e Macchina” diventano inseparabili, in un approccio
-spesso tutto al maschile- che vede la macchina fotografica come estensione dell'io. Nel corso degli anni '70 e '80,
l'arte rimette in discussione e rielabora il processo del guardare, sia a partire dalle teorie psicoanalitiche della
rappresentazione, sia grazie alla crescente consapevolezza del modo in cui lo sguardo maschile ha strutturato nei
secoli tanto l'arte quanto la cultura di massa. Lo sguardo viene ora spogliato della sua presunta neutralità e svelato
come processo che obbedisce all'organizzazione del potere sociale e del desiderio. Le opere raccolte in questa
sezione esaminano i quattro sguardi della fotografia: quello dell'osservatore nei confronti dell'immagine, quello
della macchina fotografica nei confronti del soggetto, quello del soggetto verso la macchina, quello fra i soggetti.

Michael SNOW
Authorization (Autorizzazione), 1969, National Gallery of Canada, Ottawa
5 stampe polaroid bianco e nero e nastro adesivo su specchio in cornice metallica (54,5 x 44,5 cm)

Sfruttando l'immediatezza della pellicola Polaroid, Snow realizza un autoritratto cumulativo. L'artista fotografa il
proprio riflesso nello specchio, fissa sullo specchio l'istantanea ottenuta e la rifotografa. Il procedimento viene
ripetuto altre tre volte fino ad ottenere quattro immagini disposte a quadrato al centro dello specchio. Snow
nasconde così il riflesso di sé, affidando la propria presenza alle immagini fotografiche. Ne viene infine realizzata
una quinta, contenenti le precedenti quattro e collocata nell'angolo superiore sinistro. L'opera esposta consiste
nello specchio e nelle fotografie fissate su di esso con nastro adesivo. Nella galleria, lo spettatore può vedersi
riflesso solo mettendosi di lato, poiché il punto di vista ideale, in asse rispetto all'opera, è occupato dai ritratti
fotografici dell'autore.
Dieter APPELT
Fleck Auf dem Spiegel (Macchia sullo Specchio), 1978
Stampa alla gelatina bromuro d'argento (20,5 x 25,5 cm)

Le fotografie di Appelt documentano le sue performance, ispirate all' “azionismo viennese”. Per l'artista tedesco
la fotografia è parte integrante di un processo rituale che esamina la superficie dell'immagine e insieme del corpo,
alla ricerca di un livello di significato più profondo.
« Quando Appelt alita sullo specchio, la leggerezza della trasformazione ottica viene comunicata come effetto di
cui non vediamo la causa... E' impossibile non tornare con la memoria all'antica pratica di porre uno specchio
davanti alle labbra della persona ritenuta morta. Ciò che condensa -che produce vapore, possiede una sorta di
energia pneumatica, evanescente nel suo sprigionarsi- è il segno della vita che vi è nascosta.»
- Marx Kozloff,
“The Etherealized Figure and the Dream of Wisdom”, in Adam D. Weinberg (a cura di), Vanishin Presence, 1989

John STEZAKER
The Voyeur (Il Voyeur), 1979
Collage (55, 5 x 78 cm)

Quello qui riprodotto appartiene ad una serie di


collage in cui Stezaker esplora il voyeurismo
intrinseco alla visione cinematografica. In questo
caso l'artista ricorre ad una silhouette nera, in
bilico tra presenza e assenza, per evocare i diversi
atteggiamenti psicologici che contraddistinguono
il “guardare” e il “partecipare”. Il profilo
ostacola la visione o suggerisce piuttosto un punto
di identificazione? E' la figura di uno spettatore
seduto davanti a noi in una sala cinematografica
o appartiene all'inquadratura? Ci rappresenta?
Qui Stezaker riduce il collage alla sua versione
più elementare, innescando tuttavia una serie di
complessi interrogativi sul genere sessuale, sul
ruolo dello spettatore, sul processo di
identificazione.
John HILLIARD
Depression/Jealousy/Aggression (Depressione/Gelosia/Aggressione), 1975
Stampe tipo C con testo Letraset su cartolina (3 pannelli, 51 x 74 cm ciascuno)

Rispetto alla medesima scena, tre diversi punti di fuoco suggeriscono tre diverse interpretazioni narrative: l'ottica
è sufficiente a trasformare la lettura dell'immagine. Qui Hilliard coniuga le convenzioni del fotogramma
cinematografico impiegato a scopo promozionale con quello di un mezzo popolare come il fotoromanzo. L'opera,
inoltre, condivide diversi aspetti con il cinema strutturalista dei tardi anni '60 e degli anni '70, un cinema che
aspirava a porre in primo piano la macchina da presa come strumento solo apparentemente neutro, così da
approfondire il processo mediante il quale l'osservatore arriva a percepire l'immagine come il prodotto di un
apparato tecnico.
Victor BURGIN
Panopticism, da Zoo, 1978
Fotografie in bianco e nero, testo
(Dittico, ciascun pannello 102 x
152 cm)

Gli otto dittici di Zoo riuniscono i


due temi fondamentali affrontati
da Burgin, con un approccio di
ispirazione psicoanalitica, nel
corso degli anni '70: la visione
strutturata attraverso le differenze
sessuali e l'esperienza della città
contemporanea. Nel dittico qui
riprodotto, il titolo e il testo
richiamano i carceri cosiddetti
“panottici”, introdotti nel
diciannovesimo secolo per
consentire ad un singolo
secondino di controllare un gran
numero di detenuti senza farsi
vedere. Secondo Michael Focault,
la “panottica” è una metafora
della moderna organizzazione
sociale, urbana in particolare.
Burgin prende in considerazione
la struttura di un peep show
berlinese, riconoscendovi un
capovolgimento della visione
panottica: al sicuro nell'oscurità
vi è una schiera di voyeur, che
circondano la donna offerta al
loro sguardo su una pedana
rotante. L'immagine è accostata a
quella di un monumento pubblico -
la porta di Brandeburgo di
Berlino- appesa alla parete di
un'abitazione privata.
Cindy SHERMAN
Untitled Film Still No. 4 (Fotogramma cinematografico
senza titolo) 1977, The Museum Of Modern Art, New York
Stampa alla gelatina bromuro d'argento (19 x 24 cm)

Nelle 69 immagini che compongono la serie “Untitled Film


Stills (1977-80” Cindy Sherman si cala nei panni di una serie
di stereotipi femminili tratti dal cinema popolare. I ritratti
sono alternati a scene che citano o evocano inquadrature
cinematografiche e in cui occhiate e sguardi sono rubati
anziché recitati. Sebbene i personaggi della Sherman siano
sempre raffigurati da soli, nella costruzione di queste
immagini vagamente familiari non possiamo non riconoscere
l'impronta dell'organizzazione sociale. Piuttosto che vederselo
offerto, la macchina fotografica sembra osservare il gesto, in
una prospettiva vicina al voyeurismo del pubblico
cinematografico. Cindy Sherman guarda la macchina solo di
rado, preferendo prenderne le distanze nel momento in cui
recita davanti al suo obiettivo.

Cindy SHERMAN
Untitled Film Still No. 74 (Fotogramma cinematografico senza titolo), 1980
Stampa tipo C (61 x 91,5 cm)

Quella riprodotta appartiene ad una serie di immagini realizzate servendosi di un retroproiettore, tecnica pre-
digitale che spesso consente di evitare costose riprese in esterni. A volte, registi come Hitchcock la impiegavano
per trasmettere una sensazione di estraniamento dalla realtà ed enfatizzare lo stato mentale dei protagonisti.
Sebbene questi ritratti di ispirazione cinematografica rielaborino generiche tipologie femminili del cinema e non
specifici personaggi, l'immagine in esame ricorda la Sarah Sherman interpretata da Julie Andrews in “Torn
Curtain” (Il Sipario Strappato, 1966) di Alfred Hitchcock.
Mitra TABRIZIAN e Andy GOLDING Jeff WALL
Lost Frontier (Frontiera Perduta), da The Blues, 1986-87 Picture for Women (Immagine per Donne), 1979,
Fotografia a colori, testo (Un pannello appartenente ad una Centre Georges Pompidou, Parigi
serie di tre trittici, 130 x 180 cm) Lightbox con pellicola (163 x 229 cm)

I tre trittici di “The Blues” affrontano i temi della razza, L'immagine evoca “Le Bar aux Folies Bergère” (Il
del genere e dell'identità. bar delle Folies Bergère, 1881-82) di Manet, dipinto
« Il titolo viene impiegato come metafora della voce dei in cui una donna sta in piedi dietro un bancone,
neri, una voce di resistenza. L'opera ricorre ai codici del rivolta verso di “noi”, gli spettatori. La scena è
manifesto cinematografico come forma popolare, per descritta dal punto di vista di un uomo che vediamo
costruire in ciascuna di queste “storie taciute” un riflesso in uno specchio obliquo alle spalle della
momento critico nella dialettica tra bianchi e neri. Ciò che donna. La macchina fotografica non consente questo
il nero si trova di fronte è la condizione stessa dell'essere tipo di costruzione dell'immagine, eppure Wall
bianco. Ma il blu è, anche, il colore del poliziesco. A colloca il suo occhio automatico al centro della
prescindere dalla situazione in cui si trova -imprigionato, composizione, costringendo l'osservatore ad
sottopagato, bollato come “invasore”- il nero mette in un'impossibile identificazione con un apparato reso
discussione l'identità del bianco. » incorporeo. Diversi dispositivi suggeriscono che si
- Mitra Tabrizian, tratti della fotografia di uno specchio: l'artista, sulla
“Correct Distance”, 1990 destra, aziona lo scatto flessibile della macchina
fotografica, che la donna sembra quasi guardare
attraverso uno specchio: di fronte ai soggetti si
scorge una bassa superficie di legno, dietro, invece,
aste metalliche che di nuovo fanno pensare a
pannelli di specchi. Wall cita i fotografi del passato
che si autoritraevano allo specchio, evocazione
modernista del piano pittorico. In “Picture for
Women”, tuttavia, nulla garantisce la presenza di
uno specchio: l'immagine potrebbe anche essere
stata scattata in maniera “diretta” da una seconda
macchina fotografica, ciò che vediamo potrebbe
addirittura essere stato ottenuto rovesciando il
negativo/pellicola per creare una falsa immagine
riflessa. Quali che siano le nostre ipotesi, l'enigma
di questa immagine stimola una meditazione sia sui
rapporti maschio/femmina, sia sull'ottica della
fotografia.
Barbara KRUGER
Your Gaze Hits the Side of My Face, 1981
(Il tuo sguardo colpisce il profilo del mio volto)
Fotomontaggio stampato come fotografia in
bianco e nero (140 x 104 cm)

Barbara Kruger si serve della parola per


mettere in crisi la nostra posizione di
spettatori. Siamo noi che osserviamo
l'immagine, ma le parole ci interpellano, ci
spingono ad interrogarci sul rapporto che
abbiamo con lo sguardo. In quest'opera, ad
esempio, il “tuo” ed il “mio” dipendono dalla
prospettiva in cui ci poniamo. Attraverso
l'assocazione di immagini “trovate” e testi,
l'artista americana indaga i meccanismi sociali
che in una cultura maschilista strutturano la
visione ed il desiderio.

Katharina SIEVERDING
Nachtmensch, 1982 (Gente di notte)
Fotografie a colori (due pannelli appartenenti
ad una serie, 86 x 61 cm ciascuno)

Questa immagine appartiene ad una serie di


opere in grande formato in cui Katharina
Sieverding si serve del proprio autoritratto
fotografico per indagare la natura spesso
feticista dell'immaginario massmediatico
costruito sul volto femminile. Grazie a una
molteplicità di cosmetici impiegati in
combinazione con diversi tipi di illuminazione,
viraggio e colorazione, le opere svelano i
meccanismi che possono trasformare il volto in
una superficie iconografica. Il processo è
particolarmente evidente nel primo piano
cinematografico, cui il formato di queste
fotografie rimanda. Anziché offrire allo
spettatore un'immagine fissa e di “consumo”,
l'artista presenta una serie di permutazioni in
cui diventa quasi impossibile individuare una
relazione stabile fra volto e maschera, carne
ed immagine.
Thomas RUFF
Portraits (Ritratti), 1986-90, Saatchy Gallery, Londra
Stampe tipo C (210 x 165 cm)

Nel 1980 Ruff inizia a realizzare una serie di ritratti di amici e conoscenti. Da principio si tratta di piccole stampe
24 x 18 cm, con un banale sfondo dal colore uniforme, scelto di volta in volta in base al soggetto. I ritratti, sempre
a mezzo busto, sono generalmente frontali, con l'eccezione di qualche profilo. Nel 1986 l'artista decide di
stamparli nel più grande formato di carta fotografica disponibile, impiegando unicamente uno sfondo neutro
biancastro e una posa standard frontale con lo sguardo del soggetto diretto in macchina. Le immagini ricordano
le fototessere ma qui ad emergere è più l'anonimia che l'identità. Data l'estrema standardizzazione del lavoro,
qualsiasi preferenza per l'una o l'altra immagine può essere dovuta soltanto al volto raffigurato, non certo alla
fotografia. I ritratti qui riprodotti sono stati realizzati tra il 1986 e il 1990 ma la serie è tuttora “in progress”.

Della GRACE
Three Graces (Tre Grazie), 1992
Stampa alla gelatina bromuro d'argento (152,5 x 122 cm)

A partire dal Rinascimento, la scultura e la pittura


europee hanno affrontato e rielaborato la tradizione
classica delle tre Grazie, figure femminili che nell'antica
Grecia incarnavano l'ideale della bellezza e del fascino.
La radicale interpretazione del tema proposto da Della
Grace crea uno scenario in cui i soggetti femminili,
emancipati dalle norme del conformismo sessuale e di
genere, sono in grado di godere del proprio corpo e
oggettivarlo alle proprie condizioni. La composizione
dell'opera coinvolge e allo stesso tempo ignora
l'osservatore attraverso il gioco di sguardi all'interno
dell'immagine e nei confronti della macchina fotografica.
Nan GOLDIN
Self-portrait with Brian, from The Ballad of Sexual Dependency, 1983, New York
(Autoritratto con Brian, da La Ballata della Dipendenza Sessuale)
Stampa cibachrome (40,5 x 51 cm)

“The Ballad of Sexual Dependency” nasce da una serie di slide-show (in continua evoluzione) accompagnate da
una colonna sonora di musica pop, attraverso cui Nan Goldin annota una sorta di diario visivo della propria vita
e di quella dei propri amici e amanti. L'opera è stata presentata per la prima volta in un locale di New York nel
1979 e da allora ha toccato i musei e le gallerie di tutto il mondo. Nel 1986 una selezione di immagini tratte dalla
serie è stata pubblicata in un fortunatissimo volume. “Ballad” è un repertorio di sguardi incerti, titubanti, sia tra i
protagonisti sia tra la macchina fotografica e i soggetti, compreso l'artista stessa. Qui gli occhi non si limitano a
vedere ma sono a loro volta complessi segni visivi che traducono la natura dei rapporti umani nella società
contemporanea.

Richard SAWDON SMITH


Simon, 1997
Platinopia (19 x 15 cm)

Questa immagine è tratta dalla serie “A Photographic Collaboration:


Richard Sawdon Smith & Simon Kennett”, che affronta il tema della
rappresentazione di un individuo sieropositivo. Anziché formulare uno
stile visivo ideale, l'opera si muove tra approcci diversi. Le fotografie che
sfidano le nozioni di “normalità” o “accettabilità” sono spesso viste
come finestre aperte sulla materia trattata, ma non dobbiamo trascurare
il fatto che ci relazioniamo con i corpi attraverso la loro
rappresentazione. Se l'immagine di Simon mette a disagio, ciò dipende dal
modo in cui il soggetto è fotografato, ossia dalla tensione tra uno sguardo
medico scientifico -che osserva, oggettivandolo, un corpo “anormale”- e
la tradizione fotografica del nudo artistico.
Joel Peter WITKIN
Las Meninas, 1987, New Mexico
Stampa alla gelatina bromuro d'argento (50 x 40 cm)

Questa fotografia “costruita” cita il quadro allegorico di Velásquez “Las Meninas” (1656-57) raffigurante la
famiglia del Re di Spagna Filippo IV. Witkin mantiene la complessa composizione spaziale di Velásquez ma
sostituisce ciascun elemento con una versione provocatoria dell'originale. L'artista stesso, che cita anche
l'omaggio di Picasso alla medesima tela, compare al posto del pittore spagnolo, con gli occhi cancellati. Se
l'originale riaffermava la relazione privilegiata tra l'artista e i mecenati di corte, le ambizioni di Witkin non
possono che affidarsi unicamente all'impatto delle immagini.
Hiroshi SUGIMOTO
Union City Drive-In, 1993, Union City
Stampa alla gelatina bromuro d'argento (51 x 61 cm)

Sugimoto fotografa sale cinematografiche e drive-in


da oltre vent'anni, realizzando opere che rovesciano
il rapporto fra immagine fissa e cinema. Qui la
fotografia non è un'istantanea, ma contiene un
intero film, poiché l'esposizione della macchina è
regolata in modo da coprire l'intera durata della
proiezione. Le immagini cinematografiche si
elidono a vicenda lasciando un laconico rettangolo
vuoto che incombe su un pubblico invisibile. Lo
spazio buio antistante è illuminato da luce riflessa
mentre i traccianti conferiscono al cielo una
sensazione di durata. Come in tutte le sue opere,
Sugimoto ricorre alla lentezza dello sguardo
fotografico per riflettere sulla velocità della visione
moderna.

Uta BARTH
Ground No. 30 (Terreno n. 30), 1994
Fotografia a colori su pannello (56 x 46 x 5 cm)

Le immagini di Uta Bath indagano i rapporti


fra la fisiologia della visione, l'immagine
fotografica e le abitudini del nostro sguardo.
Qui il fuoco della macchina fotografica è
spostato a distanza ravvicinata, lasciandoci con
lo “sfondo” indistinto di uno spazio non
identificato. Per l'artista, la visione è
inseparabile dai processi della memoria
attraverso i quali andiamo alla ricerca di sento.
Per quanto ognuno di noi possieda una propria
riserva di mentale di immagini, il nostro è un
immaginario largamente condiviso attraverso
la cultura, come del resto lo è la natura degli
spazi in cui viviamo. Questa consapevolezza
permette alle immagini della Barth di essere
evocative anche quando sembrano privare
l'osservatore di informazioni visive. Dopo aver
scattato questa fotografia, l'artista si è resa
conto di aver subito l'influenza inconscia di
un'immagine a lei nota fin dall'infanzia, un
dipinto (1658-60) di Vermeer in cui una donna
versa del latte da un bricco e di cui “Ground
No. 30” possiede inconsapevolmente le stesse
proporzioni, la stessa struttura e la medesima
illuminazione.
Shirin NESHAT
Senza Titolo, da Fervor, 2000
Stampa alla gelatina bromuro d'argento
(148, 5 x 121 cm)

Le fotografie, i film, i video di Shirin


Neshat affrontano con estrema sensibilità il
tema dei rapporti uomo/donna nelle società
islamiche tradizionali. Quello riprodotto è
un fermoimmagine tratto dall'installazione
per due schermi “Fervor”. L'opera mostra
come la proibizione di un contatto visivo
diretto possa intensificare le emozioni e i
desideri individuali. In questa scena, in cui
uomini e donne sono divisi da una tenda
durante la preghiera, una donna si volta,
con la sensazione che il proprio se ne stia
andando. E' davvero così, e lei lo
raggiungerà fuori, lontano dagli occhi
della società. Lo sguardo femminile ed il
fascino dell'opera fanno emergere
prospettive inedite pur all'interno di una
struttura sociale conservatrice.

Elinor CARUCCI
My Mother and I (Mia madre ed Io), 2000
Stampa tipo C (76 x 101,5 cm)

“Closer” (Più Vicino), da cui questa immagine è tratta, si compone di una serie di immagini private della
famiglia di Elinor Carucci. Ambientata in massima parte fra le mura domestiche, l'opera documenta la vita
quotidiana e incontri fugaci, esplorando i rapporti che si instaurano tra le persone e tra i loro corpi e l'ambiente
circostante. Questi due tipi di intimità sono intessuti da una narrazione cinematografica, disseminata di primi
piani, mentre gli scatti condividono una ben precisa tavolozza di colori, in cui dominano i toni del rosa,
dell'acquamarina, del rosso e del blu scuro. L'approccio di Carucci ai propri soggetti diventa più evidente nel
formato del libro, in cui la lenta accumulazione di particolari e motivi ricostruisce con vivacità l'immagine di un
mondo privato.
Hannah STARKEY
Untitled - May 1997 (Senza Titolo – Maggio 1997), 1997
Stampa tipo C (122 x 152 cm)

Quello di Hannah Starkey è un approccio al quotidiano misurato e poetico. Collocando la macchina fotografica al
confine dello spazio personale del soggetto, l'artista descrive momenti di sogno o di profonda concentrazione,
stati in cui lo sguardo si fa curioso ed aperto. Questo carattere della sua opera è tanto più evidente nelle immagini
di giovani donne, le cui azioni sembrano al tempo stesso consapevoli e istintive, ambivalenza che riecheggia
anche nel naturalismo “costruito” che contraddistingue la fotografia dell'artista.

Wendy MCMURDO
Helen, Backstage, The Glance, 1996
Stampa a colori da negativo (140 x 140 cm)

In questa immagine composta digitalmente, una


bambina incontra magicamente il suo doppio,
combattuta tra scoperta e scetticismo. Tratta da una
serie di opere correlate, questa immagine di Wendy
McMurdo risale all'epoca in cui l'artista
sperimentava, grazie al montaggio digitale, la
ricostruzione di scenari impossibili. La stessa
reazione del soggetto è condivisa dall'osservatore, che
guarda la fotografia come la bambina scruta sé
stessa, chiedendosi se ciò che vede è reale, pur nella
consapevolezza dell'ambientazione -“il dietro le
quinte” di un teatro- e del suo rimando all'artificio.
La scelta di esplorare scenari sospesi tra verità ed
immaginazione attraverso la presenza dei bambini è
particolarmente significativa. I bambini di oggi vivono
il processo di formazione della propria identità in un
mondo nuovo, che li circonda di immagini manipolate
digitalmente.
Jemima STEHLI
Strip * (Spogliarello), 1999-2000
Stampe tipo C (32,5 x 27 cm ciascuna)

Gran parte dell'opera di Jemima Stehli affronta il nudo femminile come forma contemporanea di autoritratto. In
questa galleria fotografica l'artista si interpone tra la macchina fotografica e lo sguardo di diversi artisti e critici
di sesso maschile. Il controllo della situazione, e per estensione del soggetto stesso dell'immagine, è diviso tra
Stehli -che “innesca” la scena- e i suoi modelli, che decidono quando fermare l'immagine usando uno scatto
flessibile.

* (da sinistra a destra, dall'alto in basso: Strip No. 1 -Writer- 1999; Strip No. 3 -Critic- 1999; Strip No. 7 -Writer-
2000; Strip No. 5 -Dealer- 2000; Strip No. 6 -Critic- 2000; Strip No. 4 -Curator- 2000)
Larry SULTAN
Film Set (Set Cinematografico), 1999
Stampa cromogenica (Prima di una serie di stampe,
76 x 101,5 cm ciascuna)

Questa fotografia appartiene ad una serie dedicata


al tema del “lavoro” ed è nata come servizio
fotografico per una rivista. Nonostante il soggetto
(le riprese di un film hard-core), qui Sultan
documenta freddamente l'ambiente in cui alcune
persone si stanno guadagnando da vivere.
L'industria americana del porno è un efficiente
sistema per la produzione di immagini, fondato
sulla ripetizione di una formula e dunque privo di
particolari esigenze di originalità. Per l'occhio di
Sultan, scenografia e sesso suscitano il medesimo
interesse visivo: la macchina fotografica è
collocata al confine tra interesse ed indifferenza,
uno spazio di osservazione privilegiato e al tempo
stesso deludente. L'immagine qui riprodotta si
inserisce nel solco delle opere precedenti come
“Pictures from Home” (Immagini da Casa, 1992),
in cui Sultan concentrava lo sguardo sui piccoli
dettagli dei suburbi americani osservati a distanza
estremamente ravvicinata.

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