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S A M I Z D AT 7

© DeriveApprodi srl
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I edizione: gennaio 2012

DeriveApprodi srl
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00198 Roma
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ISBN 978-88-6548-039-7
s ulla pelle
viva
il primo sciopero autorganizzato
dei braccianti immigrati in Italia

testi di:
Brigate di solidarietà attiva, Gianluca Nigro,
Mimmo Perrotta, Devi Sacchetto, Yvan Sagnet
Introduzione

Nell’estate del 2011 le campagne del basso Salento so-


no state scenario del più importante e lungo sciopero
auto-organizzato di braccianti stranieri, tutti africani,
impiegati nel settore agricolo. Nel cuore dell’estate sa-
lentina tra spiagge, concerti e notti tarantolate, alcune
centinaia di braccianti occupati nella raccolta delle an-
gurie e del pomodoro sotto la sferza del sistema del ca-
poralato «etnico» e di un padronato italiano poco pro-
penso alla meccanizzazione hanno incrociato le brac-
cia e preso la parola direttamente. Questo volume
ricostruisce le dinamiche che hanno determinato pri-
ma e sostenuto poi allo sciopero. Si tratta di un’espe-
rienza che ha costituito per alcune settimane un vero e
proprio laboratorio politico.
L’area della Masseria Boncuri a Nardò è adibita al-
l’accoglienza dei lavoratori stagionali, tutti originari dal-
l’Africa settentrionale e sub-sahariana. I lavoratori mi-
granti presenti in parte seguono la stagionalità delle col-
ture agricole del Mezzogiorno, in parte sono stati
espulsi dalle fabbriche del Settentrione e in parte sono
lavoratori generici che cercano qui di guadagnare qual-
che soldo. Essi costituiscono una forza lavoro mobile

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sottoposta a un forte livello di emarginazione sociale e
sfruttamento del lavoro legato alla loro maggiore ricat-
tabilità. Il modello portato avanti a Boncuri nasce in
contrapposizione alla forme più diffuse di accoglienza
caritatevole. Per le associazioni che hanno gestito la
Masseria, la onlus pugliese Finis Terrae e le Brigate di
solidarietà attiva, l’accoglienza è uno strumento per
sensibilizzare i lavoratori migranti in merito all’emer-
sione del lavoro nero e per attivare processi di emanci-
pazione ed auto-organizzazione dal basso. In questo
senso fin dal 2010 è stata organizzata dalle due associa-
zioni la campagna «Ingaggiami. Contro il lavoro nero».
I saggi qui presentati esaminano lo sciopero da diver-
si punti di vista. Si tratta di analisi proposte da chi ha vis-
suto direttamente la Masseria Boncuri e i giorni dello
sciopero e che cercano di contestualizzare la protesta dei
lavoratori nel più ampio ed articolato intreccio tra i temi
dell’immigrazione e quelli dello sfruttamento del lavoro.
Nelle analisi e nelle narrazioni che seguiranno, da quel-
la della ricerca sociologica al vissuto personale di un
bracciante portavoce dello sciopero, il tema del lavoro as-
sume una centralità inedita, divenendo vera e propria
chiave di lettura per la comprensione del fenomeno.
Mimmo Perrotta e Devi Sacchetto analizzano il fe-
nomeno dello sciopero sottolineando l’eccezionalità di
riuscire a essere presenti, seppur in modo discontinuo,
durante l’evento, cioè proprio mentre il fenomeno og-
getto dello studio si sta verificando. Questo essere pre-
senti sul campo, la raccolta di materiale in «presa diret-
ta», influisce ovviamente sulla formulazione della ri-
cerca stessa. Le interviste ai lavoratori durante lo
sciopero aiutano a ricostruire i percorsi di lavoro e di vi-
ta a partire dai paesi di origine fino alle diverse articola-

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zioni dei processi migratori e della loro adesione alla so-
spensione del lavoro.
Il saggio di Yvan Sagnet, il giovane camerunense
divenuto nell’arco di poche ore il leader naturale della
lotta dei braccianti, rende evidenti le dinamiche di tra-
sformazione della propria soggettività prodotte da un
evento sottoposto ai riflettori dei media, dei sindacati e
più in generale delle istituzioni. L’esperienza di Sagnet
è importante perché segnala come sia possibile rico-
struire forme di lotta che travalicano la divisione «etni-
ca» basata su fittizie comunità di migranti, sebbene
queste stesse dinamiche comunitarie siano continua-
mente riproposte.
Il tema più ampio della migrazione legato a quello
dello sfruttamento del lavoro nero non solo della popola-
zione africana, ma della complessa categoria «migran-
te» presente in Italia viene affrontato da Gianluca Nigro,
operatore di Finis Terrae e responsabile legale del campo
della Masseria Boncuri. Egli ritiene che le analisi com-
piute negli ultimi quindici anni sul tema della migrazio-
ne hanno per lo più visto l’elemento del lavoro nero co-
me un aspetto secondario determinato dall’assenza di
un’adeguata regolarizzazione dello status giuridico degli
stranieri in Italia. Nigro cerca di rovesciare la retorica
mostrando come la legislazione relativa all’immigrazio-
ne non sia altro che uno degli elementi fondamentali
della gestione del mercato del lavoro. In questo senso la
Masseria Boncuri con il suo campo «aperto» rappresen-
ta un terreno nuovo e di sperimentazione in cui il feno-
meno sul quale si agisce va assunto con tutte le contrad-
dizioni che questo comporta.
L’agire pratico dentro queste contraddizioni e le dif-
ficoltà nel riuscire a rendere comprensibile all’esterno il

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significato profondo di cosa significhi «agire sul feno-
meno a partire dal fenomeno» sono il centro dell’ultimo
saggio frutto di un lavoro collettivo delle Brigate di soli-
darietà attiva. Nell’articolo si alternano analisi e testi-
monianze dirette dei circa centoventi volontari-militan-
ti che durante i tre mesi di apertura del campo si sono
alternati nella gestione della Masseria.
Lo sciopero dei braccianti di Nardò rappresenta un
momento importante nella storia del movimento ope-
raio in Italia dal punto di vista sia delle pratiche sia del-
l’analisi. Forse è proprio a partire da chi in una difficile
fase economica e politica riesce a riprendere diretta-
mente la parola e a imporre una lotta durissima che oc-
corre puntare lo sguardo.

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«Un piccolo sentimento di vittoria»
Note sullo sciopero di Nardò

Mimmo Perrotta, Devi Sacchetto

Oggi se Nardò è nella storia è grazie a noi e noi possiamo fare in


modo che le persone sappiano questo. Adesso non sappiamo co-
me fare per mangiare, ci siamo sacrificati, ma lo stesso sacrificio
che abbiamo fatto possiamo farlo ancora.
Sidiki, burkinabé

Introduzione

È raro che un ricercatore si trovi nel luogo di un evento


mentre questo accade. Anche quei ricercatori sociali –
e non sono molti in Italia – abituati ad «andare sul
campo», cioè a servirsi di metodologie come l’intervi-
sta, l’osservazione, l’inchiesta etnografica, e a incontra-
re di persona gli «oggetti» delle loro ricerche, solita-
mente osservano le routine giornaliere, i contesti «nor-
mali» di vita quotidiana, oppure ricostruiscono a
posteriori eventi importanti, attraverso le testimonian-
ze e i racconti raccolti.
In questo caso, abbiamo potuto assistere allo sciope-
ro di Nardò fin dall’inizio, sebbene non vivessimo all’in-
terno del campo. Come sociologi, conduciamo ricerche
sui flussi migratori, sul lavoro degli stranieri in Italia,
anche in agricoltura, sulle lotte che vedono protagonisti

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i migranti. L’esperienza di accoglienza e di lavoro con i
braccianti stranieri condotta alla Masseria Boncuri ci è
da subito sembrata interessante e avevamo già visitato il
centro nel 2010. Quest’anno, insieme ad alcuni degli at-
tivisti di Finis Terrae e delle Brigate di solidarietà attiva
impegnati nella gestione del campo, ci apprestavamo a
condurre una serie di interviste con i migranti. Nei gior-
ni precedenti lo sciopero avevamo già avuto un collo-
quio con un agronomo locale, che ci aveva indicato al-
cune caratteristiche dell’organizzazione produttiva del-
l’agricoltura neretina, segnalandoci un cambiamento
nella struttura proprietaria a favore di commercianti.
Non casualmente, quindi, nel giorno in cui lo sciope-
ro inizia, sabato 30 luglio 2011, siamo alla Masseria per
raccogliere alcune storie di vita dei migranti presenti nel
campo. Gli eventi ci mettono però di fronte a una realtà
che si evolve in fretta e che sentiamo l’esigenza di raccon-
tare in presa diretta1. Nei giorni successivi, torneremo so-
vente alla Masseria per assistere alle assemblee, per in-
tervistare i migranti, in particolare quanti con più forza si
spendono per lo sciopero, per scambiare opinioni con i
volontari-militanti italiani, oppure, più semplicemente,
per girare nel campo, consapevoli di essere comunque
una presenza «estranea»: conosciuti, ma né migranti né
volontari né giornalisti né membri del sindacato. Al con-
tempo, manterremo durante quelle settimane un occhio
attento a quanto si muove negli altri territori dell’Italia
meridionale nei quali contemporaneamente si svolge la
raccolta del pomodoro, in particolare nel foggiano e nel

1. Per alcuni degli articoli si rimanda al sito: http://lavoromigrante.splin-


der.com. Per una prima analisi, M. Perrotta e D. Sacchetto, «Lo sciopero
dei braccianti di Nardò», in Lo straniero, 136, ottobre 2011, pp. 19-25.

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Nord della Basilicata, e nei quali ai braccianti impegnati
arriva l’eco di quanto accade a Nardò.
Nel nostro contributo a questo volume ci proponia-
mo tre obiettivi: in primo luogo, cercheremo di inserire
quanto accaduto a Nardò nel più ampio contesto dell’I-
talia meridionale, tratteggiando brevemente la storia e
le caratteristiche dell’impiego di lavoratori migranti
nell’agricoltura del Mezzogiorno. In secondo luogo, uti-
lizzando i dati fornitici dagli operatori della Masseria
Boncuri e le interviste da noi realizzate, descriveremo le
esperienze di lavoro e di vita dei lavoratori migranti che
erano presenti nel campo, oltre che le motivazioni che li
hanno spinti a intraprendere questa lotta. In terzo luo-
go, rielaborando quanto da noi osservato e ascoltato nel-
le assemblee serali a Boncuri, nelle tante discussioni in-
formali con i migranti e in alcune interviste ai leader
dello sciopero, ne ripercorreremo alcune fasi salienti,
cercando di rievocare il clima di quei giorni, le rivendi-
cazioni, le speranze, le delusioni, ma anche la crescita e
i mutamenti che i giorni di lotta hanno prodotto nel ba-
gaglio di esperienze di questi lavoratori. In conclusio-
ne, metteremo in luce come lo sciopero di Nardò possa
costituire un momento di trasformazione della situa-
zione dei braccianti stranieri impiegati in agricoltura e,
più in generale, del settore agricolo del Mezzogiorno e
dei lavoratori migranti in Italia.

1. La «normale» irregolarità dell’agricoltura


meridionale

L’impiego di lavoratori stranieri nelle campagne del


Mezzogiorno è un fenomeno rilevante: iniziato negli
anni settanta in Sicilia, con immigrati prevalentemente

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tunisini, si è progressivamente esteso durante gli anni
ottanta a molte altre aree. Dapprima immigrati magh-
rebini, poi provenienti dall’Africa sub-sahariana, quin-
di, soprattutto nel corso degli anni 2000, dall’Europa
orientale, hanno popolato i campi dell’Italia meridiona-
le. La loro presenza man mano più numerosa ha per-
messo alle imprese agricole di scegliere il tipo di mano-
dopera più confacente alle loro necessità e di sopperire
alla minore propensione degli «autoctoni» a svolgere
mansioni faticose e a basso salario. Le pressioni della
concorrenza internazionale e i bassi prezzi dei prodotti
che commercianti e strutture della grande distribuzio-
ne organizzata pagano agli agricoltori si sono riversate
così sulla composizione della manodopera e sulle con-
dizioni salariali e di lavoro.
Secondo l’Istituto nazionale di economia agraria2,
nel 2007 hanno trovato impiego nell’agricoltura meri-
dionale circa 50.000 lavoratori stranieri, sebbene si
tratti di stime che andrebbero probabilmente corrette al
rialzo. Il rapporto dell’Inea mostra come, pur in presen-
za di realtà in cui il lavoro migrante si va stabilizzando,
la stagionalità e l’irregolarità restano caratteristiche do-
minanti dell’impiego degli stranieri nell’agricoltura del
Mezzogiorno: quasi il 90% è occupato stagionalmente
(a fronte di una media italiana del 73%); il 57% lavora in
operazioni di raccolta (contro il 35% nel centro-nord); il
63% ha un rapporto di lavoro irregolare (con punte del
95% nel foggiano e in Calabria); il 77% percepisce una
retribuzione inferiore a quella stabilita dai contratti col-
lettivi di lavoro.
D’altro canto, va sottolineato come il lavoro migrante
2. Inea, Gli immigrati nell’agricoltura italiana, a cura di M. Cicerchia e P.
Pallara, Roma 2009.

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nell’agricoltura del Sud Italia non rappresenti una realtà
omogenea. In alcune aree i lavoratori stranieri trovano
impiego soprattutto nei periodi delle «grandi raccolte»:
il pomodoro da industria nel foggiano e nell’alta Basili-
cata da luglio a ottobre, gli agrumi nella Piana di Gioia
Tauro in inverno, le patate nel siracusano in giugno, la
vendemmia e la raccolta delle olive in molte regioni. In
altri territori, invece, si è sviluppata una ricca agricoltura
in serra, che offre occasioni di lavoro per quasi tutto l’an-
no, come nella Piana del Sele o nel ragusano.
Le diverse nazionalità di migranti coinvolte adotta-
no traiettorie migratorie differenti e trovano impieghi e
condizioni di alloggio diversificate. Come vedremo an-
che in merito alla composizione dei lavoratori presenti
a Nardò, mentre molti dei migranti provenienti dall’A-
frica occidentale (ad esempio i burkinabé, gli ivoriani e
i ghanesi) si spostano in maniera circolare tra Campa-
nia, Puglia, Basilicata e Calabria seguendo le stagioni di
raccolta3, i maghrebini cercano di insediarsi più stabil-
mente in alcune aree, come è il caso dei marocchini nel-
la Piana del Sele e dei tunisini in Sicilia4.
Le condizioni giuridiche di questi lavoratori sono dif-
ferenziate: vi sono migranti neocomunitari, che posso-
no essere assunti al pari degli italiani, migranti non co-
munitari con permesso di soggiorno per motivi di lavo-
ro, di studio o di ricongiungimento familiare, migranti
entrati in Italia grazie ai decreti flusso per lavoro stagio-
nale, richiedenti asilo e infine migranti privi di permes-

3. Cfr. ad esempio Medici senza frontiere, I frutti dell’ipocrisia. Storie di chi


l’agricoltura la fa. Di nascosto, Sinnos, Roma 2005.
4. Cfr. A. Botte, Mannaggia la miserìa. Storie di braccianti stranieri e capo-
rali nella Piana del Sele, Roma, Ediesse, 2009; P. Saitta e A. Sbraccia, La-
voro, identità e segregazione a Mazara del Vallo, Cespi, Roma 2003.

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so di soggiorno. Va tuttavia sottolineato come l’irregola-
rità – del soggiorno e del contratto di lavoro – sia fre-
quentissima, come mostrano le stime Inea. Un’irregola-
rità «abituale» e diffusa nel settore agricolo del Mezzo-
giorno dove tassi elevati di lavoro nero sono riscontrabili
anche per i lavoratori italiani, ma connessa altresì, per i
migranti non comunitari, all’attuale legislazione sul-
l’immigrazione, che rende spesso impossibile la regola-
rizzazione dei lavoratori. Lo stesso strumento delle quo-
te d’ingresso per lavoro stagionale è stato negli anni scor-
si spesso inadeguato a coprire il fabbisogno di
manodopera, oltre ad essere foriero di imbrogli ai danni
dei migranti. L’irregolarità appare strutturalmente ne-
cessaria affinché molte aziende agricole possano «resta-
re sul mercato»: se in altri paesi europei, come la Francia
e la Germania, l’abbassamento del costo del lavoro è fa-
vorito dall’utilizzo di permessi di soggiorno e contratti
stagionali5, nel Sud Italia anche questi strumenti legali
vengono meno e il disciplinamento della manodopera
migrante è garantito dal lavoro nero o grigio e dall’as-
sunzione informale di migranti spesso senza documen-
ti, oltre che dalla mediazione assicurata dai caporali.
Negli anni scorsi, molti migranti impiegati in agri-
coltura individuavano la prospettiva di un migliora-
mento delle proprie condizioni di vita e di lavoro nell’u-
scita da questo settore economico e da queste regioni:
dopo anni di lavoro irregolare e senza permesso di sog-
giorno, una volta ottenuta una regolarizzazione, soven-
te attraverso una delle periodiche «sanatorie», essi si

5. Cfr. S. Potot, «La précarité sous toutes ses formes: concurrence entre
travailleurs étrangers dans l’agriculture française», in A. Morice e S. Po-
tot (coord.), De l’ouvrier sans-papiers au travailleur détaché: les migrants
dans la «modernisation» du salariat, Karthala, Paris 2010, pp. 201-224.

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spostavano in altre zone d’Italia o d’Europa per lavorare
nelle costruzioni o nell’industria. Questa possibilità di
«fuga», cioè di progressiva sistemazione, si è negli ulti-
mi anni fortemente ridotta, sia perché ormai dal 2002
non viene varato dal governo italiano un provvedimen-
to di regolarizzazione, fatta eccezione per la «sanatoria
delle badanti» del 2009 – una regolarizzazione che si è
peraltro rivelata una «truffa» per molti migranti –, sia
perché la sopraggiunta crisi economica ha di fatto ridot-
to le possibilità di impiego nell’Italia centro-settentrio-
nale e ha anzi costretto molti migranti a tornare sui pro-
pri passi e quindi cercare lavoro, di nuovo, nell’agricol-
tura meridionale.
La crisi economica e le politiche governative trasfor-
mano di fatto molte aree rurali del Sud Italia in luoghi
di confinamento sia di molti dei migranti arrivati negli
ultimi anni dall’Africa, compresi quanti sono giunti nel
corso del 2011, provenienti dalla Tunisia o fuggiti dal
conflitto libico, sia di quanti hanno perso un impiego in
altre zone d’Italia. Questa situazione acuisce le contrad-
dizioni sociali ed economiche in un settore economico
e in aree geografiche già molto fragili. Lo sciopero di
Nardò ha mostrato appieno queste contraddizioni.
Nel Salento, e in particolare nella zona di Nardò, i la-
voratori agricoli migranti sono impiegati dai primi anni
novanta soprattutto nella raccolta delle angurie e, in mi-
sura minore, dei pomodori6, nei mesi di luglio e agosto.

6. La Puglia è, assieme all’Emilia Romagna, la regione italiana nella qua-


le viene prodotta la maggiore quantità di pomodoro da industria: nel
2008, su un totale italiano di 89.376 ettari e 4.949.846 tonnellate pro-
dotte, in Puglia sono stati coltivati 25.350 ettari, per una produzione di
1.616.750 tonnellate e in Emilia Romagna 22.799 ettari, per una produ-
zione di 1.359.949 tonnellate (cfr. Istituto Nazionale di Economia Agra-
ria, Annuario dell’agricoltura italiana, Napoli, Esi, 2008). La zona pugliese

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Proprio la presenza dei migranti ha rappresentato uno
dei fattori che hanno consentito alla coltivazione delle
angurie di crescere in maniera importante nel corso de-
gli anni novanta7. Per anni, l’attività di raccolta è stata
monopolizzata da migranti provenienti dalla Tunisia e
da altri paesi del Maghreb – molti dei quali risiedono
piuttosto stabilmente in altre regioni del Mezzogiorno,
soprattutto in Sicilia –, ai quali si sono aggiunti più re-
centemente braccianti originari dell’Africa orientale e
occidentale, impegnati nei mesi restanti in altre campa-
gne di raccolta. Nardò costituisce un momento «mino-
re» delle campagne di raccolta delle regioni del Sud, in
quanto occupa alcune centinaia di lavoratori, a fronte
delle migliaia richiamate dal pomodoro nel foggiano o
dagli agrumi nella Piana di Gioia Tauro. Va rilevato co-
me in quest’area non si siano verificate forme di sosti-
tuzione della manodopera osservate in altri contesti ita-
liani ed europei, dove migranti esteuropei sono suben-
trati ad africani in alcune nicchie di lavoro in
agricoltura8. Nonostante a Nardò e in alcune cittadine
limitrofe i rumeni costituiscano la nazionalità straniera
che conta il maggior numero di residenti, fino ad ora i

di maggiore produzione è però di gran lunga la pianura della Capitanata,


in provincia di Foggia. Per la trasformazione, i produttori della zona di
Nardò possono contare su due industrie conserviere situate in provincia
di Brindisi, anche se buona parte del pomodoro prodotto in Puglia viene
trasformato in Campania.
7. Nel 2011 nella zona di Nardò gli ettari coltivati ad angurie sono circa
2.000. Secondo le informazioni raccolte vi sarebbero sei-sette grandi
aziende, che lavorano diverse centinaia di ettari ciascuna e che talvolta
subappaltano le attività di raccolta, mentre le aziende di minori dimen-
sioni sarebbero un centinaio.
8. Per la Calabria si veda ad esempio A. De Bonis, «Processi di sostituzio-
ne degli immigrati di diversa origine nel mercato del lavoro agricolo», in
G. Sivini (a cura di), Le migrazioni tra ordine imperiale e soggettività, Rubet-
tino, Soveria Mannelli (Cz) 2005, pp. 157-178.

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raccoglitori di angurie e pomodori non vengono reclu-
tati tra gli stranieri già presenti, ma essi giungono da al-
tre zone d’Italia appositamente per la raccolta. Forse lo
sciopero di Nardò può rappresentare il momento di
svolta anche per quest’area.
L’Inea stima che nel 2006 i braccianti agricoli non
comunitari occupati in provincia di Lecce fossero
3.300, il 91% dei quali con impiego stagionale e il 79%
con contratti di lavoro «informali»; in effetti, nel corso
degli anni, gli operai agricoli stranieri titolari di contrat-
ti di lavoro a tempo determinato e indeterminato in pro-
vincia non sono mai stati più di un centinaio9. A fronte
di questi numeri, il decreto flussi del 2011 – emanato
con forte ritardo il 17 febbraio 2011 – ha previsto 1.000
arrivi stagionali nel leccese. Tuttavia, la raccolta delle
angurie e del pomodoro nella zona di Nardò ha visto
impiegati pochi di questi stagionali: la gran parte dei
braccianti non proveniva dal proprio paese d’origine,
bensì era già presente in altre zone d’Italia.
Come in tutto il Mezzogiorno, una delle questioni più
drammatiche vissute dai migranti occupati in agricoltu-
ra riguarda le condizioni abitative. Secondo Lotteria e
Perrone, nel corso degli anni novanta i maghrebini im-
piegati nella raccolta delle angurie trovavano ripari di for-
tuna in edifici abbandonati, in garage e casolari sparsi
nelle campagne, oppure all’aperto, in un uliveto sulla
strada provinciale Gallipoli-Lecce o addirittura nelle stra-
de del centro storico di Nardò. Nel 1996 aveva scarsa for-
tuna un primo tentativo di realizzare nei pressi di Nardò

9. Inea, Gli immigrati nell’agricoltura italiana, op. cit. Va sottolineato co-


me, nel corso del 2010, grazie alla campagna «Ingaggiami contro il lavo-
ro nero» sostenuta dall’Associazione Finis Terrae e dalle Bsa, solo nell’a-
rea di Nardò siano stati aperti circa 170 fogli d’ingaggio.

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un Centro di Accoglienza destinato a migranti regolari e
gestito da operatori Caritas in accordo con le ammini-
strazioni provinciale e comunale. Miglior esito ha avuto
invece un’esperienza di accoglienza gestita da un sacer-
dote della vicina Collemeto, durata per circa dieci anni10.
A lungo, dunque, a Nardò come in altre zone del Sud Ita-
lia, i migranti hanno sperimentato tre tipi di abitazioni: il
«ghetto», cioè una grossa concentrazione di migranti in
edifici abbandonati o in baraccopoli; una presenza più
dispersa nei casolari abbandonati nelle campagne; il cen-
tro di accoglienza, gestito in maniera più o meno «chiu-
sa» e «militarizzata». Uno dei motori dello sciopero è sta-
to costituito, come vedremo, proprio dall’aver sperimen-
tato una nuova forma di centro di accoglienza «aperto».

2. Presenze africane alla Masseria Boncuri

Per comprendere cosa ha reso possibile lo sciopero


di Nardò, un primo ordine di riflessioni riguarda la
composizione sociale dei migranti ospitati nel centro di
accoglienza della Masseria Boncuri. L’analisi che segue
si basa sui dati relativi ai migranti registrati, sia nel 2011
sia nel 2010, dalle associazioni che hanno gestito il
campo, su alcune discussioni con i volontari e sulle in-
terviste da noi realizzate nei giorni dello sciopero.

10. K. Lotteria e M. Perrone, «Migranti e lavoro agricolo: la raccolta delle


angurie nel Salento», in Transiti e approdi. Studi e ricerche sull’universo mi-
gratorio nel Salento, a cura di L. Perrone, Milano, Angeli, 2007, pp. 85-110.
L’articolo contiene anche una descrizione dei luoghi di contrattazione del
lavoro e dell’organizzazione del caporalato, nonché il racconto di un epi-
sodio nel quale un bracciante tunisino, dopo essersi ribellato alle imposi-
zioni del caporale, era stato da questi accoltellato in pubblico, nell’area di
un distributore di benzina dove si svolgeva usualmente il reclutamento
della manodopera.

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Nell’arco dei due mesi e mezzo di apertura, i mi-
granti passati dal campo, tutti maschi e provenienti dal
continente africano, sono stati probabilmente 7-800,
con punte di 500 nei momenti di massima affluenza,
sebbene i posti messi a disposizione dall’amministra-
zione comunale fossero poco più di 200. Gli operatori
di Finis Terrae e delle Bsa ne hanno censiti 372, un nu-
mero analogo a quello del 2010, quando ne erano stati
contati 400. La registrazione per i migranti era facolta-
tiva e mirava a ottenere un posto in tenda e una brandi-
na, o almeno a essere collocati nella lista d’attesa. La
priorità nell’assegnazione era riservata a quanti dispo-
nevano di un ingaggio regolare: le associazioni avevano
infatti l’obiettivo di stimolare i braccianti a chiedere un
contratto al datore di lavoro e di favorire la fuoriuscita
dall’illegalità. Il «censimento» è quindi largamente in-
completo, sia perché il database non è compilato in tut-
te le sue parti sia perché una parte di chi era al campo
non passava a registrarsi negli uffici sia, infine, perché
la presenza alla Masseria variava quasi quotidianamen-
te. Una parte dei tunisini, ad esempio, ha lasciato Nardò
dopo aver capito che per la raccolta delle angurie non ci
sarebbe più stata possibilità di lavoro.
Molti dei migranti privi di permesso di soggiorno,
inoltre, non sono stati censiti, poiché la convenzione
per la gestione del campo era riferita solo a persone che
avessero una qualche forma di presenza regolare in Ita-
lia. È però possibile stimare che, come nel 2010, abbia-
no trovato ospitalità circa 40-50 migranti senza docu-
menti. Infine, nella Masseria era presente un’altra ven-
tina di persone, tra cui un paio di donne, che gestivano i
«ristorantini» ricavati da baracche costruite nel retro
della struttura.

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Il database ci permette di avere un quadro delle pre-
senze. Tra le nazionalità presenti al campo nel 2011, in
modo non troppo dissimile rispetto all’anno precedente,
tunisini, sudanesi e ghanesi contano per quasi il 70%
della popolazione censita (contro circa il 63% nel 2010).
In ordine di consistenza troviamo poi: ivoriani, algerini,
burkinabé, che sono tra coloro che più si sono spesi nel-
lo sciopero, e quindi maliani, marocchini, liberiani, ni-
geriani, nigerini, togolesi, somali, eritrei, senegalesi, ca-
merunensi, beninesi, ciadiani e congolesi. Gli abitanti
della Masseria sono nel pieno dell’età lavorativa: circa il
90% delle persone presenti ha tra i 18 e i 40 anni. Il
gruppo più anziano è quello dei tunisini, mentre i suda-
nesi presenti si dividono tra trentenni e quarantenni. I
più giovani sono sicuramente i ghanesi, che per la mag-
gior parte sono sotto i 30 anni.
I migranti tunisini sono stati tra i primi ad arrivare
alla Masseria e hanno occupato la maggior parte dei po-
sti in tenda: essi fino alla prima decade di luglio costi-
tuivano circa la metà dei migranti nel campo. Successi-
vamente con la sostanziale chiusura della raccolta delle
angurie, in cui i tunisini sono «specializzati», il quadro
è mutato. La raccolta dei pomodori è qui infatti appan-
naggio prevalentemente di sudanesi che, a partire dalla
metà di luglio, sono arrivati in forze. Di fronte alle scar-
se possibilità di reperire un posto in tenda, molti suda-
nesi, e in generale quanti sono arrivati a partire dalla
metà di luglio, hanno optato per tendine singole o ba-
racche di fortuna, senza passare per il vincolo della regi-
strazione. Verso la fine di agosto la proporzione fra tu-
nisini e sudanesi era pressoché invertita: i sudanesi era-
no circa il 40% del campo, i tunisini meno del 15%.
Una parte relativamente consistente di tunisini è ar-

20
rivata in Italia nel corso del 2011, dopo la caduta di Ben
Alì, e conta su un permesso per motivi umanitari. Allo
stesso tempo la quasi totalità dei sudanesi dispone di
un permesso come «protezione sussidiaria» oppure ha
ottenuto l’asilo politico. La terza nazionalità più consi-
stente, quella dei ghanesi, è invece presente in Italia
con una maggiore eterogeneità di permessi: lavoro sub-
ordinato, motivi umanitari, protezione sussidiaria.
Complessivamente il campo nel 2011 è caratterizzato
da una sorta di semplificazione e concentrazione nella
tipologia dei permessi di soggiorno: una maggioranza
(54%), in decisa crescita rispetto all’anno precedente
(42%), dispone di un permesso collocabile all’interno
dell’area della protezione (motivi umanitari, protezione
sussidiaria, richiedenti asilo), mentre in lieve incre-
mento (36% nel 2011 contro il 33% del 2010) sono colo-
ro che godono di un permesso per lavoro subordinato:
metà di questi sono tunisini, a cui si aggiungono quasi
tutti gli algerini presenti, una parte dei burkinabé e dei
ghanesi. A chi è in possesso di un permesso per lavoro
subordinato può essere affiancato chi dispone di una
carta di soggiorno (4% nel 2011, solo l’1% nel 2010): si
tratta prevalentemente di tunisini tra i 30 e i 40 anni. I
rimanenti sono in attesa di rinnovo, dispongono di un
permesso per assistenza minore o per motivi familiari
oppure svolgono attività come lavoratore autonomo.
Due migranti censiti, infine, dispongono del permesso
per motivi di studio.
Dunque, tra i presenti al campo vi sono da un lato
migranti in fuga dai conflitti bellici (in particolare da
quelli che hanno caratterizzato il Sudan, la Costa D’A-
vorio e più recentemente la Libia) o alla ricerca di una
nuova mobilità dopo gli anni di forte controllo delle mi-

21
grazioni (come nel caso della Tunisia); dall’altro lato mi-
granti presenti da più tempo in Italia, seppur con traiet-
torie differenti. Chi proveniva dalla Libia era spesso oc-
cupato, almeno fino all’inizio del conflitto, nelle costru-
zioni o in altre attività come operaio generico, mentre i
tunisini arrivati recentemente svolgevano attività sal-
tuarie, spesso collegate al turismo. Tra quanti invece
avevano già precedenti esperienze lavorative in Italia
possiamo distinguere tre categorie: tunisini occupati in
modo semi-regolare per diversi mesi all’anno nell’agri-
coltura siciliana, per i quali Nardò rappresenta un’occa-
sione per arrotondare il salario annuale; africani sub-
sahariani che seguono i cicli delle raccolte nelle regioni
meridionali (Foggia, Palazzo San Gervasio, Rosarno,
Castelvolturno) e che integrano talvolta il lavoro in agri-
coltura con altre mansioni nell’industria, in edilizia e
nella logistica; infine, migranti di diverse nazionalità
colpiti dalla recente crisi economica e che erano occu-
pati nell’Italia centro-settentrionale, spesso in mansio-
ni generiche nell’industria, nell’edilizia e nei servizi. Se
una parte di questi lavoratori è stata importante nel so-
stenere lo sciopero poiché essi già avevano esperienze
di scioperi e lotte, altri erano profondamente disillusi e
ritenevano che la situazione di marginalità dei migran-
ti in Italia fosse difficilmente modificabile.

3. Storie di vita e di migrazione

Come abbiamo visto, una delle figure più diffuse al-


l’interno del campo è quella di tunisini con alle spalle
un passato relativamente lungo in Italia. Una parte di
questi lavora per nove, dieci mesi all’anno nelle campa-
gne siciliane e si sposta in altre aree per guadagnare

22
qualche soldo in più. Yassine, come altri, è alla prima
esperienza nell’agricoltura pugliese ed è venuto a Nar-
dò guidato dal passaparola dei suoi connazionali.

Vengo dalla Tunisia e sono sei anni che lavoro in agricoltura, pe-
rò in Sicilia, a Ispica, provincia di Ragusa… In Sicilia lavoro dieci
mesi in un anno… raccolgo tutte le verdure: carciofi, pomodori,
pomodorini, zucchine, carote, angurie…. ho una casa mia affitta-
ta… è da sei anni che sono qua, sono stato cinque anni da clande-
stino, senza documenti. Ho iniziato nel 2009, ho fatto i docu-
menti, ho fatto un po’ di soldi, la patente, la macchina… sono di-
ventato un po’ bene diciamo, lì [in Sicilia] c’è una donna che vive
con me da quattro anni.

I tunisini occupati in Sicilia, in particolare nel ragu-


sano, ritengono che le condizioni di lavoro a Nardò siano
ben peggiori rispetto a quelle a cui sono abituati. Yassine
compara una serie di elementi che ritiene importanti nel
definire la situazione lavorativa: il contratto di lavoro, il
salario orario, il caporalato, che in Sicilia, contrariamen-
te a Nardò, sarebbe assente, sebbene funzioni ancora
l’ingaggio in piazza a giornata, l’addruvamentu:

È la prima volta che vengo in questa zona, a Nardò. C’è una gran-
de differenza. In Sicilia è meglio, lavoriamo con le regole, con il
contratto, sono ingaggiato: otto ore di lavoro, 42,50 euro. Qua,
non c’è né lavoro, né l’ingaggio. Non c’è proprio niente… I capo-
rali ci sono da tutte le parti, però [in Sicilia] i soldi te li paga diret-
tamente la ditta, con la busta paga. Qua tu lavori, non la vedi pro-
prio la proprietà, sono i caporali che ti portano al lavoro e ti paga-
no. Tu non sai niente del prezzo per esempio dei pomodorini,
dell’anguria, niente.

23
Una delle molle della loro adesione allo sciopero è
proprio questa: la delusione per i mancati guadagni ot-
tenuti nella campagna delle angurie e la consapevolez-
za, maturata durante l’esperienza siciliana, che è possi-
bile ottenere condizioni salariali migliori in agricoltura.

È due mesi che sono qua e ho lavorato tre giorni… Ho guadagna-


to 135 euro, nelle angurie. Ero venuto per le angurie, non per i po-
modorini… perché i pomodori è un lavoro più pesante e troppo
schifoso. Troppo schifoso… E fai tutta questa giornata e poi torni
qua [alla Masseria] e fai la doccia con l’acqua fredda, e dormi fuo-
ri sotto la tenda, ci sono gente che dormono fuori. Per esempio io
dormo fuori, non c’ho neanche dove dormire… Avevo sentito [da
altri tunisini in Sicilia] che qua si guadagna qualcosa in più e sic-
come sono sei anni che non ritorno in Tunisia ho pensato che
guadagno qualcosa in più, così vado quest’anno in Tunisia. Inve-
ce, non ho guadagnato niente proprio, [anzi] ho portato un po’ di
soldi, già li ho mangiati. Ora sto aspettando almeno qualche sol-
do per il biglietto per tornare in Sicilia, e basta. Perché qua non ho
potuto fare niente.

Anche Tarek è un tunisino che lavora in Sicilia. La


sua storia è più articolata di quella di Yassine: in Italia
dal 1995, egli può contare su alcune esperienze in altre
aree italiane. Anche lui è occupato per vari mesi all’an-
no nell’agricoltura sicula e per la prima volta quest’anno
ha deciso di venire a Nardò.

Il mio mestiere è lavorare in agricoltura. Dal 1995 che sto qua in


Italia, ho il permesso di soggiorno dal 1998. Abito in Sicilia, giù a
Marsala. Faccio l’agricoltura: fragole, pomodori, tutte quelle cose
lì. A Marsala è meglio secondo me, troppo meglio. Perché non ci
sono ’sti cazzo di caporali, quelli sono ladri. In Sicilia lavori diret-

24
tamente con il proprietario, ti danno la tua busta paga e sto bene
là… Vabbé, la gente se ne va nella piazza e quando uno ha biso-
gno, se ne va a prendere gli operai… Là lavoro da settembre fino a
giugno. Nove mesi di lavoro… Si guadagna più o meno 30, 35 eu-
ro al giorno… Sono in regola 102 giorni all’anno e da giugno a set-
tembre vado a casa… Purtroppo quest’anno è troppo brutto, per
quello sono qua… Ho fatto un po’ di tempo a Udine, ho fatto la
spazzatura, poi sono tornato giù in Sicilia, ho fatto pure il tufo…
Il muratore, ho fatto tre anni, poi sempre in agricoltura in Sicilia.

Tarek individua con lucidità uno dei motivi delle


pessime condizioni di lavoro e dei bassi salari in agri-
coltura: la concorrenza tra lavoratori, sia di differenti
nazionalità (i rumeni che avrebbero «ammazzato la
piazza»), sia di quelli di più recente arrivo in Italia e re-
gistra un abbassamento, negli anni, del cottimo pagato
per ogni cassone di pomodoro. Diversamente dalla re-
torica corrente egli inoltre mostra un forte senso di
comprensione rispetto a chi lavora per un salario più
basso, individuando piuttosto nel datore di lavoro colui
che sa approfittare di situazioni di debolezza altrui.

Ma l’Italia, che ti posso dire: siamo nella merda, ma veramente.


Perché non si può tirare avanti qua in Italia. Con 30 euro tu fai no-
ve ore di lavoro… io non posso dire per colpa di qualcuno di un al-
tro paese… può darsi che pure loro hanno bisogno, i rumeni, op-
pure quelli che hanno ammazzato la piazza veramente… A Marsa-
la, Trapani, a Ragusa. Lavorano pure notte e giorno… A Marsala ci
sono pure quelli che lavorano per 20 euro, quelli che lavorano a 15
euro e quest’anno mi sa che la gente che è appena arrivata, quelle
ventimila persone che sono state a Lampedusa, hanno lavorato
pure a 5 euro al giorno… Hanno rovinato… vabbé ma loro pure han-
no bisogno perché uno non sa dove deve andare per mangiare, no? La

25
gente [i datori di lavoro] ne approfitta di quella gente, li ammazza-
no perché fanno finta che quelli non sanno lavorare e «devi impa-
rare…». Loro non hanno nessuna scelta… A Foggia ho lavorato nel
1997, ero senza documenti quell’anno lì, ho fatto al cassone
14.000 lire, che sarebbero 7 euro adesso… siamo adesso a 4 euro
al cassone perciò figurati… è peggiorata troppo, troppo.

Tra i più convinti sostenitori dello sciopero c’è Has-


san, 26 anni, uno dei molti sudanesi presenti nel cam-
po. Basso di statura, piuttosto magro, ha un bel sorriso
e continua a smanettare su un laptop dell’ufficio della
Masseria sulla versione araba di Facebook. Arrivato in
Italia da alcuni anni, ha già lavorato in varie regioni, ma
prevalentemente nell’agricoltura meridionale seguen-
do le diverse raccolte.

Sono arrivato a Lampedusa nel 2009. Sono partito dal Sudan sei
anni fa e sono rimasto quattro anni a lavorare in Libia, facevo il
muratore, anche il saldatore in una fabbrica piccola… Quando
sono arrivato in Italia non ho lavorato per quattro, cinque mesi.
Poi ho lavorato in Sicilia, in agricoltura. Fragole, 42 euro [al gior-
no]… con il contratto. Avevo il permesso normale… Dopo la Sici-
lia sono andato a Roma, dove lavoravo in una fabbrica piccola,
quelle che fanno il kebab. Qua a Nardò è il primo anno che vengo,
che lavoro per il pomodoro… Ho lavorato a Palazzo due settima-
ne l’anno scorso, ma meglio qua. È diverso. Qua il cassone quat-
tro euro, a Palazzo tre euro e cinquanta. Anche là c’è il capo nero
[caporale africano], sono sudanesi…… Quando finisco questo la-
voro io prima vado a Foggia, Palazzo, poi torno a Caltanisetta.
Abito lì con altri tre ragazzi sudanesi… Non sono ancora tornato
in Sudan, non ho soldi. I soldi li mando a tutta la famiglia… 500
euro, quando si può.

26
Hassan descrive il lavoro nella raccolta del pomodoro
e l’attività dei caporali, puntando l’attenzione sull’assen-
za di contratti regolari, sui bassi salari, sui lunghi orari di
lavoro, sugli intensi ritmi e sul controllo dei caporali.

Qua ci sono capi neri che ti prendono [a lavorare] in campagna, un


altro caporale grande è tunisino… prende [gestisce la raccolta in]
tutte le campagne, le terre lui… Questo sciopero, il lavoro nero, è
questo il problema, perché qui non c’è il contratto, senza busta pa-
ga, senza niente. A noi questo non va bene, prima quattro, adesso
tre euro e cinquanta, noi sentiamo che non va bene niente… Sono
arrivato il dieci di luglio qui a Nardò, ho lavorato una settimana.
Ho guadagnato 400 euro… Lavori dieci, anche quindici ore… dalle
cinque di mattina fino alle sei di sera…La pausa, dieci minuti, e ba-
sta… il capo nero controlla il lavoro, che vai veloce… La squadra nel
pomodoro è mista, sudanesi, ghanesi, anche dalla Tunisia… Tante
persone, anche 50-70. Ti portano con il furgone, anche con la mac-
china piccola. [Bisogna pagare] tre euro alla macchina [per il tra-
sporto]… [Bisogna pagare] il panino, l’acqua, tutto il mangiare.

Daniel è invece ghanese. Come molti altri migranti


provenienti dall’Africa occidentale è arrivato a Lampe-
dusa dopo aver attraversato il deserto ed essersi fermato
molti mesi in Libia. Egli rappresenta bene il lavoratore
generico che si sposta sulla base delle opportunità e del-
le sue necessità. Privo di permesso di soggiorno, Daniel
non lavora solo in agricoltura e si definisce innanzitutto
come muratore. Dopo aver vissuto i drammatici giorni
di gennaio 2010 a Rosarno, si è spostato nel Salento, do-
ve per alcuni mesi ha lavorato per Tecnova, un’impresa
che installava pannelli fotovoltaici in Puglia, salita all’o-
nore delle cronache per alcune truffe nei confronti del-
la forza lavoro all’inizio del 2011.

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Ho 27 anni. Nel 2006 sono arrivato in Libia attraverso Niger, Ni-
geria, Ciad e nel 2008 sono arrivato a Lampedusa dalla Libia; da
Lampedusa sono stato portato a Brindisi, a Restinco, un campo
di detenzione. Sei mesi. In Italia ho sempre lavorato in agricoltu-
ra, ma il mio lavoro è muratore. Ho lavorato a Napoli, Afragola e a
Rosarno; ero là [a Rosarno] nel 2009 in un posto veramente diffi-
cile, in una vecchia fabbrica che era collassata. Si guadagnavano
22 euro e 50 e pagavo 3,5 euro il trasporto. Lavoravamo dalle sei
del mattino alle sei di sera… Ho lavorato a Rosarno tre mesi e do-
po la polizia ha preso le persone e le ha portate al campo di Croto-
ne, di Bari e in altri campi. Io sono stato portato a Crotone e da lì
sono venuto a Lecce e adesso vivo a Lecce. Ho lavorato tre mesi
con Tecnova, senza documenti, niente… Con Tecnova si lavorava
dalle 7-8 del mattino alle 10 della sera… il salario era 1.000 euro al
mese, dipendeva dal mese.

Nell’intervista a Daniel emerge con forza la questio-


ne del permesso di soggiorno: i lavoratori non comuni-
tari che ne sono privi sono costretti ad accettare, in agri-
coltura come in altri settori economici, condizioni di la-
voro e di salario penose e sono ostaggio della
benevolenza dei datori di lavoro.

Vivo in una casa con nigeriani, ghanesi, senegalesi, camerunen-


si, albanesi, romeni. Alcuni hanno i documenti, altri no… [Ma]
tutti lavorano in nero… Il problema sono i documenti. Gli africa-
ni che arrivano in Europa non hanno i documenti… sono venuto
qui a Nardò perché non avevo da mangiare e non avevo un lavo-
ro… Ero già venuto l’anno scorso per due mesi per i pomodori,
avevo lavorato un mese e una settimana, avevo guadagnato 900
euro. Quest’anno ho lavorato quasi nove giorni, ma non mi han-
no pagato. Ho lavorato con i pomodori piccoli, che dicevano era-
no otto euro a cassone… Il caporale era tunisino. Tu qui hai biso-

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gno dei documenti [del permesso di soggiorno], così un mio ami-
co mi ha fatto una fotocopia di un documento che ho dato al tuni-
sino. Se non hai i documenti non lavori… La protesta è positiva
perché il lavoro è duro e il cassone è pagato troppo poco… Dopo
andrò a Foggia e a Palazzo. Lì è lo stesso che qua.

Moussa, 31 anni, proveniente dalla Guinea Conakry,


nell’Africa occidentale, racconta una storia simile a
quella di Daniel: dopo un anno in Libia, dove ha lavora-
to in edilizia, è arrivato a Lampedusa nel 2008:

Ho fatto tre giorni in mezzo al mare, hanno mandato due navi


per prenderci, di notte; io per salire sulla nave mi sono rotto tutti
e due i piedi. Mi hanno preso dentro un elicottero e mandato a
Palermo, dove ho fatto l’operazione… mi hanno operato due vol-
te. Mi hanno messo i ferri e adesso ho bisogno di togliere questi
ferri, ma non ho i documenti.

Come Daniel, anche Moussa non ha il permesso di


soggiorno, perché la richiesta di ottenere lo status di ri-
fugiato politico non ha avuto buon esito. Egli è passato
per alcuni dei tanti centri di accoglienza e detenzione
per migranti e, come Daniel, si sposta in vari luoghi del-
l’Italia meridionale alla ricerca di qualche giornata di la-
voro: era a Nardò anche l’anno scorso, poi è tornato in
Sicilia, è passato per Rosarno.

Io ho tanti problemi, adesso il mio permesso di soggiorno è sca-


duto perché loro me lo avevano fatto di sei mesi, ma non è possi-
bile rinnovarlo… l’ho rinnovato quattro volte… l’anno scorso sono
venuto qui per fare questo lavoro di pomodori… ci pagavano
quattro euro all’ora… Dopo questo, non c’è nessun lavoro…Sono
ritornato a Catania e a Gela, ma non c’è lavoro, hai capito? Nes-

29
sun lavoro. C’è solo questo lavoro di pomodori, hai capito? L’an-
no scorso ho lavorato a Rosarno nelle arance, ma anche là proble-
mi… Questi caporali, io non posso dire niente perché loro voglio-
no il permesso di soggiorno in originale, ma il mio è scaduto e io
non posso guadagnare altro lavoro.

Moussa e Daniel sono due dei tanti migranti che, pri-


vi di permesso di soggiorno o in attesa dello status di ri-
fugiato politico, non possono far altro che rimanere nel-
le regioni del Sud Italia, cercando di sfuggire a un even-
tuale rimpatrio e al contempo di inseguire un impiego,
naturalmente in nero, laddove c’è richiesta, seguendo
per questo le campagne di raccolta nelle varie aree.
Come abbiamo visto, alcuni dei migranti accolti
nel campo della Masseria Boncuri arrivano invece da
città del Nord Italia, dove hanno fatto esperienze di la-
voro in altri settori produttivi. Fouad, 44 anni, tunisi-
no, è uno di loro. La sua storia migratoria è lunga: arri-
vato in Italia nel 1988 per la prima volta e ottenuto un
permesso di soggiorno due anni dopo, lavora nel fog-
giano, quindi si sposta a Rimini e poi a Belluno, dove
rimane per undici anni. Qui lavora in una fabbrica di
materiali nautici e in seguito per la Zanussi, ma poi
perde il lavoro e usufruisce per qualche tempo della
cassa integrazione. Per lui venire a Nardò comporta
tornare indietro di vent’anni. Come tanti suoi conna-
zionali, è arrivato a Nardò sperando di poter guada-
gnare una discreta somma grazie alla raccolta delle an-
gurie, ma anche lui ha subito una grossa delusione:
Sono venuto qua per lavorare un po’, siccome ogni giorno fai un
mazzo di culo, hai visto come lavorano sulle angurie, non è faci-
le. Solo i cani lavorano così. È pesante, pesantissimo. Un’anguria
di trenta chili la butti sopra il camion, non è facile, però lavoria-

30
mo. E si guadagna diciamo 80, 90, 100 euro [al giorno], dipende.
Uno magari lavora per venti giorni e guadagna 2.000 euro. Io so-
no venuto solo per quello, per questi 2.000 euro… e invece mi
trovo già in debito, mi trovo comunque in una situazione di mer-
da…. avevo sentito i miei amici che c’è un po’ di lavoro qua e là…
sono venuti l’anno scorso che hanno lavorato un po’, quest’anno
è andata male, malissimo.

Nel seguito dell’intervista, Fouad esprime molta rab-


bia nei confronti dei caporali, una forte adesione allo
sciopero in corso e l’obiettivo di ottenere risultati con-
creti nell’immediato.

E adesso stavamo cercando di lavorare il pomodoro… E spero che


loro lo prendono ’sto coglione qua [un caporale], mi fa molta rab-
bia, per quello lotto con tutta la mia forza con il ragazzo là [Yvan Sa-
gnet], con altri contro ’sto sistema, perché sono andato a lavorare
anche io, ho fatto 12 cassoni che a quattro euro fanno 48 euro, con
il pacchetto di sigarette saranno 44 euro, il trasporto non lo pago a
loro perché ho la macchina, magari quattro euro di benzina e… un
panino che costa tre euro e un’aranciata che costa quattro euro alla
fine mi sono trovato con 36 euro… e magari il caporale ha guada-
gnato 264 euro per quattro, sono più di 1.000 euro… Cos’ha lui più
di me, per guadagnare 1.000 euro e io guadagno 36 euro, che io ho
lavorato. Solo perché lui prende al cassone, ché ci sono anche co-
glioni e merdacce, scusami il termine, italiani che danno a lui a
sette euro al cassone e lui dà agli schiavi come me a quattro euro,
che lui non fa un cazzo, non tocca neanche un pomodoro. Infatti
mi sono incazzato con lui e ho detto «ci parliamo dopo»!

Le parole di Fouad ci portano nell’atmosfera calda


dei giorni dello sciopero, che proveremo a rievocare più
diffusamente nel prossimo paragrafo.

31
4. «Se non si lotta non otteniamo niente»

La sera del 30 luglio, giorno di inizio dello sciopero,


alla Masseria Boncuri si svolge la prima assemblea.
Yvan Sagnet, uno studente di ingegneria di origine ca-
merunense, giunto a Nardò per sostenersi negli studi
universitari, è tra i braccianti che, al mattino, avevano
rifiutato di lavorare alle condizioni imposte dal capora-
le, dando inizio alla protesta. Con un vecchio megafono
in mano egli apre l’assemblea con queste parole, cer-
cando di gettare le basi del più importante sciopero au-
to-organizzato dai braccianti stranieri in Italia:

Con l’accordo di tutti non lavoriamo per 3,5 euro i pomodori


grandi e 7 euro per i pomodori piccoli. Abbiamo deciso di fissare
con l’accordo di tutti un prezzo unico per i pomodori piccoli e
[uno per] quelli grandi: il prezzo dei pomodori grandi a 6 euro al
cassone, per i piccoli pomodori 10 euro. Intanto domani nessuno
va a lavorare. Domani ci alziamo tutti alle quattro e nessuno va a
lavorare fino a che il prezzo del cassone non si è stabilizzato e fi-
no a che il problema del contratto si è risolto. Domani alle quattro
del mattino ci alziamo tutti per dire alla gente che vuole andare a
lavorare che non si va a lavorare, per impedire che la gente vada a
lavorare. Siete d’accordo?

L’atmosfera nel campo è tesa, le telecamere e le altre


presenze esterne provocano una certa agitazione nei
migranti, tanto in coloro che partecipano all’assemblea
quanto in quelli che non aderiscono. Una tensione
pronta a esplodere: i migranti che prendono la parola ri-
vendicano con forza la rottura di una gerarchia lavorati-
va che li vede estremamente penalizzati.
Il prezzo al cassone, cioè il sistema salariale, e la sti-

32
pula di contratti di lavoro «veri», cioè il sistema contrat-
tuale, sono gli elementi centrali della protesta che com-
pattano inizialmente i migranti. Quasi immediatamen-
te, a queste si aggiungono la questione dei capi neri – co-
sì i migranti chiamano i caporali africani –, cioè
l’organizzazione del lavoro, e l’apertura di un ufficio di
collocamento nel campo, vale a dire la gestione del mer-
cato del lavoro. La lotta dei migranti quindi si impone
fin dai primi giorni per un’articolazione complessa che
abbraccia le condizioni generali del lavoro. Un elemento
problematico resta, come vedremo, la rivendicazione
dell’incremento del cottimo, un sistema di retribuzione
illegale ma che, nelle mansioni in cui sono impegnati
questi braccianti, è generalizzato: gli scioperanti, alme-
no inizialmente, non chiedono di ricevere una paga ora-
ria, ma che il prezzo del cassone aumenti.
Lo sciopero non tocca invece le questioni relative al-
le condizioni abitative, cioè la dimensione della ripro-
duzione. Non che le lamentele rispetto alla situazione
della tendopoli non vi siano, ma esse rimangono soven-
te sullo sfondo: la morte improvvisa, sembra per arresto
cardiaco dopo una doccia gelata, di un migrante tunisi-
no subito dopo l’inizio dello sciopero non produrrà par-
ticolari rimostranze, mentre è alla chiusura del campo
che la tensione salirà poiché i migranti si troveranno co-
stretti a reperire un’altra sistemazione.
A pochi giorni dall’inizio dello sciopero, un incontro
informale ci permette di iniziare a raccogliere del mate-
riale importante su quanto sta accadendo. Al colloquio
partecipano sette, otto persone di nazionalità diversa. I
burkinabé sembrano quelli più risoluti. Uno dei motivi
della loro determinazione nell’aderire allo sciopero ri-
siede, ci pare, nel fatto che essi trovano giornate di lavo-

33
ro con più difficoltà rispetto a migranti di altre naziona-
lità. In un mercato del lavoro controllato dai caporali,
infatti, i lavoratori più «fortunati» sono coloro che han-
no qualche rapporto (di parentela, di amicizia, di gene-
rica connazionalità) con uno o più capi neri e quindi so-
no più spesso da questi reclutati; a Nardò non vi sono –
contrariamente ad altre zone del Sud Italia, come nel
Nord della Basilicata – caporali burkinabé, ma per lo
più tunisini, sudanesi e ghanesi. I burkinabé si trovano
quindi in condizioni materiali peggiori rispetto a mi-
granti di altre nazionalità e sviluppano un’avversione
maggiore nei confronti dei caporali e della loro gestione
del mercato del lavoro.
Tra i partecipanti a questo incontro, alcuni sono da
poco giunti in Italia dalla Libia, dove hanno sperimen-
tato condizioni di lavoro anche peggiori, ma che hanno
inteso in fretta la possibilità di reclamare un insieme di
diritti stabiliti dalla legislazione italiana. La discussione
si focalizza innanzitutto sul salario, sull’organizzazione
del lavoro e quindi sui caporali e sui contratti di lavoro.
Nella raccolta del pomodoro le condizioni di lavoro so-
no penose, si lavora fianco a fianco seguendo ognuno la
sua fila. Quanti hanno già lavorato in Africa in agricol-
tura notano la differenza nell’estrema velocità dell’ese-
cuzione delle mansioni, mentre coloro con esperienze
pregresse in agricoltura in altre aree italiane esprimono
la sensazione che Nardò si collochi in una situazione la-
vorativa intermedia tra il ragusano e il napoletano da un
lato, che sembrano le situazioni «migliori», e il foggia-
no, il nord barese e l’alta Lucania, dove le condizioni sa-
rebbero ancora più penalizzanti. Il sistema del capora-
lato, spiegano questi migranti, è diffuso più in Puglia e
in alcune aree della Campania, rispetto a Rosarno e alla

34
Sicilia. «Ogni posto ha i suoi capi neri», afferma Yayi,
beninese, riferendosi alle esperienze di Nardò, Foggia e
Palazzo San Gervasio.
Il congolese Laurent, come altri migranti presenti, ha
esperienze nel settore industriale nell’Italia settentriona-
le, che ha lasciato a causa della crisi; le sue conoscenze
sono preziose per l’articolazione dello sciopero e riman-
gono un punto di vista importante, quando sbotta: «Qui
non è Africa, io non ho mai sentito questa cosa ‘non si
può fare il contratto a nessuno’… non si può andare avan-
ti così in Italia, io ho lavorato a Como, Milano, Lecco, mai
visto questa cosa e qui l’ho vista». All’incontro di tanto in
tanto si aggiungono altre persone; la discussione si sof-
ferma quindi sullo sciopero, sul blocco delle strade intor-
no alla Masseria attuato da una trentina di migranti per
evitare che i caporali raccolgano la loro forza lavoro. Jean-
Claude, burkinabé, sottolinea l’importanza della lotta ri-
spetto alle generazioni future, sebbene sia consapevole
delle difficoltà connesse alle «aziende che vogliono da
tanti anni che questo sistema perduri, perché loro guada-
gnano». Nella Masseria serpeggia qualche malumore
perché una parte dei migranti, ancora minoritaria, vor-
rebbe riprendere il lavoro. Gli scioperanti sono consape-
voli anche del fatto che la loro azione sta scardinando gli
equilibri locali. La presenza continua delle forze dell’or-
dine nel campo e nei dintorni, così come l’arrivo dei mez-
zi di comunicazione di massa, sono segnali di come l’at-
tenzione verso la loro lotta si stia diffondendo.
Come abbiamo visto, le precarie condizioni di vita al-
la Masseria sono oggetto di un interesse minore rispetto
ai temi legati al lavoro. Diversamente da altre aree dell’I-
talia meridionale, i migranti coabitano in un’area delimi-
tata: se questo è fonte talvolta di tensioni, quest’anno ha

35
invece messo i braccianti in una condizione di aggrega-
zione e di forza: «ci troviamo, ci parliamo. È molto più fa-
cile», racconta Alaeldin, sudanese. Se il sistema del capo-
ralato trae linfa vitale dall’isolamento fisico, sociale e po-
litico della manodopera, la Masseria Boncuri, gestita da
volontari e militanti solidali con i migranti, rompe que-
sta segregazione e permette di costruire un luogo di so-
cializzazione, scambio e sostegno. Come in altre occasio-
ni, il ghetto può produrre anche relazioni sociali aggre-
ganti. D’altra parte, Tarek, tunisino, riconosce come
proprio l’unità tra lavoratori di differenti nazionalità sta
contribuendo alla riuscita dello sciopero e traccia un filo
diretto tra la rivoluzione tunisina e la lotta di cui è prota-
gonista a Nardò. La sua visione non si ferma all’imme-
diato, ma cerca di guardare lontano.

Spero che ce la faremo, dobbiamo continuare fino in fondo… Io


voglio sapere magari quanto vale, qual è il prezzo del cassone. Al-
meno devi sapere quello che stai mangiando, stai fregando il mio
sangue. O i nostri paesani, che sono i caporali, o magari voi che
siete i proprietari di qualche zona… io sto facendo la manifestazio-
ne, magari per gli amici miei l’anno prossimo… è la prima volta [che
faccio sciopero] perché ho trovato magari della gente brava, che
mi dà una mano per fare queste cose… Quelli che siamo noi, gli
africani qua, non so… c’è qualcuno di tunisini, però là siamo la
maggior parte ghanesi, sudanesi c’è qualcuno… abbiamo parlato
della Tunisia autonomamente che abbiamo mandato là fuori
ogni dittatura [ride]… e quasi come abbiamo fatto uscire fuori [il
dittatore] possiamo fare pure altre cose qua, è il nostro diritto.

Uno degli effetti più interessanti «prodotti» dallo


sciopero è la rottura degli schemi «interetnici»: i porta-
voce sono stati scelti «per lingua», perché possono co-

36
municare con parti importanti dei migranti nel campo,
e non per gruppo nazionale. Non a caso Yvan, il leader, è
un camerunense, una nazionalità sostanzialmente as-
sente nel campo, ed è riconosciuto come portavoce non
solo per le sue capacità personali, ma anche perché può
rappresentare meglio di altri le diverse componenti pre-
senti al campo e attive nella mobilitazione.
La sera del 2 agosto una nuova assemblea auto-orga-
nizzata viene introdotta, in presenza di giornalisti e te-
lecamere, da Yvan Sagnet, che cerca di spiegare le ragio-
ni dello sciopero e la necessità di continuarlo.

Resisteremo fino alla fine… è una lotta difficile, però vi assicuro


che vinceremo… Abbiamo il nostro potere, siamo una forza, do-
vete voi stessi capire che siamo una forza tutti uniti, non dobbia-
mo mollare. So che è difficile questo messaggio perché la mag-
gior parte di voi siete venuti qua per lavorare. Lo sappiamo tutti
che manifestare è difficile, però tutto quello che c’è di bello in
questo mondo si è ottenuto manifestando. So che sono belle pa-
role, alcuni di voi se ne fregano niente, però sono importanti.
Quindi iniziamo tutti, tutti che subiscono le pressioni esterne, di
questi… di queste mani… di continuare la resistenza… Vi lascio
quest’ultimo appello: a tutti quelli che vi hanno chiesto domani
di andare a lavorare, a qualunque prezzo, e di continuare a subire
questo lavoro sporco e far parte di questo sistema sporco, di dire
a loro che voi avete capito il loro sistema sporco. Che voi siete de-
gli uomini. Che voi siete una forza. Che voi avete un’intelligenza.
Che non è più l’epoca della schiavitù. Che volete avere i vostri di-
ritti. Che tutti voi volete avere un contratto vero, come tutti i lavo-
ratori del mondo. Perché tutti quelli che lavorano non sono
schiavi. Che volete avere uno stipendio della giusta misura, pro-
porzionale al rendimento che voi fate sul lavoro. Che volete esse-
re trattati come tutti i lavoratori, che voi non volete più lavorare

37
con uno stipendio così basso… Che questo sistema è finito da og-
gi, avete aperto gli occhi, e che siete coscienti di quello che fanno,
che si arricchiscono dietro di voi, vi prendono come gli animali,
quindi… dite loro che avete capito, tutto quello che succede. E che
a partire da oggi noi vogliamo trattare direttamente con le azien-
de, questo è il messaggio che lasciamo ai rappresentanti della
stampa, dei giornalisti che sono qua… Avere i contratti veri, che ci
danno una busta paga e i contributi. A dire che quando arrivere-
mo, quando saremo alla disoccupazione, di avere anche… di po-
tere toccare, di avere i contributi… della disoccupazione, quindi
insomma vogliamo essere trattati come i lavoratori normali…
Questo è il nostro scopo. Questa è la nostra lotta. È per quello che
siamo riuniti stasera. Per non subire più questo sistema falso,
che abbiamo subito da tanti anni. Quindi domani non vogliamo
vedere nessuno andare a lavorare, qualunque sia la mansione.
Mandiamo ancora il messaggio a queste persone: noi siamo de-
cisi a resistere. Vi ringraziamo, grazie mille. [Applausi].

Dopo pochi minuti Yvan Sagnet chiede di nuovo la


parola. È visibilmente emozionato, ma sente l’esigenza
di condividere con i presenti, e soprattutto di denuncia-
re davanti alle telecamere, le minacce rivoltegli da alcu-
ni caporali:

Delle persone mi hanno minacciato di morte, hanno detto che


stasera la mia vita è in pericolo. Io non ho paura di loro, conti-
nuerò a lottare, quindi quelli che vogliono uccidermi, io gli man-
do un messaggio, a tutte quelle persone, a tutte queste forze invi-
sibili che sono nascoste dietro, che io ho Dio con me, ho la mia fe-
de con me e la mia forza con me, io non scapperò davanti a questa
lotta che è giusta, quindi continuerò anche domani, dopodomani
fino a che questa situazione si stabilisce, a lottare, quindi questo
era il messaggio che volevo lanciare a loro.

38
Dall’inizio dello sciopero Antonella Cazzato, funzio-
naria sindacale della Flai-Cgil, è costantemente presen-
te al campo e si riunisce spesso con i migranti più de-
terminati. Le associazioni Finis Terrae e Bsa – che attra-
verso sia la gestione della Masseria sia la campagna
«Ingaggiami. Contro il lavoro nero» hanno dato un con-
tributo decisivo affinché i migranti potessero trovare lo
spazio politico per iniziare la lotta – scelgono invece di
tenere un basso profilo e lasciare che i migranti auto-ge-
stiscano e auto-organizzino la mobilitazione, sostenen-
doli attraverso una «cassa di resistenza».
Dopo una settimana dall’inizio dello sciopero, assi-
stiamo a una delle tante discussioni informali organiz-
zate dalla Flai-Cgil, che mira a una soluzione istituzio-
nale con l’intervento della Prefettura e delle ammini-
strazioni locali e regionale. I temi proposti sono
l’individuazione delle aziende che si affidano ai capora-
li e la definizione dei punti qualificanti dell’incontro che
si avrà di lì a qualche giorno con il Prefetto di Lecce.
Molti tra i migranti presenti, invece, ritengono sia im-
portante bloccare subito i caporali e sono inoltre inte-
ressati ad arginare il numero di quanti hanno ripreso ad
andare al lavoro. Non mancano migranti che esprimo-
no una chiara sfiducia nei confronti dell’azione dell’or-
ganizzazione sindacale. Habib, tunisino, afferma:

Sono loro [il sindacato] che hanno lasciato le cose così… La nostra
manifestazione è cominciata da noi, soltanto da noi, siamo noi
che ci siamo auto-organizzati… abbiamo visto i sindacati soltanto
quando abbiamo fatto questa manifestazione generale, per il
momento nessun appoggio. Noi chiediamo l’appoggio della gen-
te… noi vogliamo essere trattati come tutti i lavoratori, con i con-
tratti, con i contributi.

39
La situazione nel campo intanto comincia a peggio-
rare, perché la mancanza di lavoro si ripercuote sulle
disponibilità economiche: un numero relativamente
elevato di migranti dispone solo dei magri guadagni in-
cassati giorno dopo giorno, anche perché i risparmi
vengono inviati nel paese di origine. Il mancato introito
di Nardò incide quindi immediatamente sulle loro ca-
pacità di riproduzione. D’altra parte, iniziano ad affio-
rare altre questioni, come quelle relative ai permessi di
soggiorno in scadenza e quindi alla mobilità, poiché
molti necessitano di ritornare nel luogo di residenza
per il rinnovo.
La scarsa speranza riposta da molti migranti nella ri-
soluzione istituzionale è connessa alla sfiducia che essi
hanno nelle istituzioni e nello Stato, da cui hanno avuto
finora solo guai. Tuttavia, essi sembrano stretti dentro
un percorso dal quale non riescono a uscire: da un lato
le difficoltà economiche e l’assenza di qualsiasi inter-
vento da parte del padronato, dall’altro l’unico sindacato
che li appoggia cerca una soluzione «dall’alto», annun-
ciando anche possibili aiuti economici. Antonella Caz-
zato durante questo incontro informale afferma:

Le amministrazioni territoriali, ma anche la Regione possono


prelevare delle risorse dai propri bilanci, quelle destinate ai servi-
zi sociali… si chiamano contributi assistenziali straordinari… E
quindi è una cosa che si può tranquillamente fare. La Regione ri-
spetto ad una convenzione può porre il problema con le Ferrovie
dello stato… voglio dire, prevedere un trasporto straordinario.

Yvan Sagnet, contrariamente ad altri suoi compagni


di lotta, ripone molte speranze nell’incontro presso la
Prefettura:

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Diciamo che le cose vanno crescendo, non nel modo in cui c’a-
spettavamo, ma vanno crescendo… già ieri abbiamo avuto un in-
contro con il Prefetto, roba che non è facile, che non succede tutti
i giorni. E questo è stato un punto di vittoria e… ha convocato un
incontro per questo lunedì 8 [agosto] con tutte le aziende e tutti i
datori di lavoro. Noi lavoratori e le associazioni sindacali e le altre
istituzioni per decidere, per parlare dei nostri punti e prendere
qualche decisione se è possibile… E noi andremo lì lunedì con i
nostri punti e siamo decisi ed ottenere già qualche fatto… come
tutti i lavoratori, vogliamo avere i nostri diritti… e poi vogliamo
estendere anche la nostra lotta a tutte le zone, alla Puglia, anche se
possibile nel sud Italia di parlare di questo fenomeno di sfrutta-
mento e di discriminazione del lavoratore, soprattutto immigrato.

Intanto, i quattro-cinque migranti più in vista ven-


gono ospitati all’interno della Masseria e non più nelle
tende con gli altri, per garantire loro maggiore sicurez-
za. Questa separazione fisica tra i portavoce e gli altri
migranti, per proteggere i primi dalle minacce dei capo-
rali, si trasforma in un elemento di indebolimento poi-
ché la separatezza insinua dubbi, fa parlare di privilegi.
I migranti continuano a chiedere un aumento del
cottimo, cioè del prezzo a cassone. Moussa, guineano,
ritiene che la principale ragione per scioperare sia pro-
prio contrastare il costante abbassamento, nel corso
degli anni, dei salari a cottimo corrisposti ai braccianti:

Questa protesta è giusta, perché noi siamo qui a lavorare con po-
chi soldi… ogni anno loro fanno un euro in meno, perché le pri-
me persone che sono venute qui nel 2009 il cassone [di pomodo-
rini] era a nove euro, l’anno scorso otto euro, quest’anno sette eu-
ro, forse l’anno futuro due euro, quindi noi restiamo qui senza
lavorare… ogni anno sempre… peggio.

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Grazie alla loro forza fisica, questi braccianti spera-
no di ottenere, riempiendo un gran numero di cassoni
di pomodoro, una paga giornaliera superiore a quella
prevista dal contratto provinciale: nel breve tempo della
raccolta essi cercano di massimizzare lo sforzo. In real-
tà, il cottimo conviene al padronato, che ha la certezza
del costo del lavoro per la raccolta, mentre per il lavora-
tore significa soprattutto un aumento dei ritmi di lavoro
e spesso una dilatazione della giornata lavorativa, ma
certo non un aumento del salario complessivo. Non a
caso il cottimo prevede un elevato turnover della forza
lavoro, che solitamente è piuttosto giovane. Come tanti
altri, Yassine, tunisino, in modo contradditorio reclama
un incremento del cottimo e un «vero» contratto di la-
voro, che però prevede il salario orario:

Questo sciopero lo abbiamo fatto per alzare un po’ il prezzo [il sa-
lario a cottimo]… Almeno usciamo per una cosa buona, almeno
si alza il prezzo. Si fa il contratto e si alza il prezzo, e si fanno que-
ste due cose… quando ti scadono i documenti, lo sai per gli extra-
comunitari, di più gli arabi, ci vuole il contratto di lavoro per cam-
biare il permesso di soggiorno.

Va rilevato come nei giorni dello sciopero una posta


in gioco importante, dal punto di vista simbolico e ma-
teriale, riguardi il calcolo dei «guadagni» dei caporali.
Sono Antonella Cazzato e Antonio Gagliardo della Flai-
Cgil11 ad affermare, forse per primi, che le aziende del
pomodoro pagherebbero al caporale dai 12 ai 15 euro
per ogni cassone da 300 chili raccolto dai braccianti,

11. Cfr. A. Cazzato e A. Gagliardi, Il caporalato delle angurie, «Il tacco d’Ita-
lia, quotidiano ondine del Salento», 30 giugno 2011, http://www.iltacco-
ditalia.info/sito/index-a.asp?id=17370.

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laddove a questi ultimi il caporale darebbe soltanto 3 o 4
euro a cassone, oltre a detrarre le spese per il trasporto,
il cibo e le bevande. Queste cifre si diffondono in fretta
tra i lavoratori in lotta e fanno parlare i mass media di
«schiavitù». A partire dalle nostre diverse esperienze di
ricerca anche in altre aree di raccolta, ci pare che, reali-
sticamente, il guadagno dei caporali sia nettamente in-
feriore, sebbene queste considerazioni non tolgano
nulla alla gravità dell’azione dei caporali. Ci pare diffici-
le che le aziende agricole possano permettersi tariffe co-
sì elevate a fronte di un prodotto, i pomodori, venduto ai
conservifici a pochi centesimi al chilo. Le imprese, così
come il caporale, basano le loro tariffe sul costo delle
forme alternative di raccolta del prodotto: se in questa
zona la raccolta meccanizzata, praticata spesso da terzi-
sti, è praticamente assente, poche centinaia di chilome-
tri più a Nord, nel foggiano o in Basilicata, arriva a co-
stare non più di 5-6 euro a cassone: a questi prezzi, e in
condizioni meteorologiche e del terreno «normali», a
un’impresa converrebbe di gran lunga ingaggiare un
contoterzista dotato di una macchina raccoglitrice di
pomodori piuttosto che una squadra di braccianti con la
mediazione di un caporale.
Il 5 agosto intervistiamo nuovamente Yvan Sagnet.
La sua preoccupazione principale è il ritorno al lavoro di
circa un centinaio di persone, che inizia a indebolire lo
sciopero. D’altra parte, i blocchi stradali dissuasivi non
vengono più effettuati dagli scioperanti, mentre i capo-
rali dopo un momento di sbandamento hanno ripreso il
controllo della situazione.

Vengono i caporali alla mattina… senza paura vengono qua. Pri-


ma si nascondevano, ora che si sono messi regolari, loro sanno

43
che [possono subire solo] un’azione amministrativa, quindi non
hanno più paura. Gli hanno dato una forza incredibile. Perché al-
l’inizio pensavano che questa campagna li fermerà invece… è sol-
tanto delle multe che ricevono… Tu ricevi una multa di 40, 50 eu-
ro… [ma] guadagni quasi 20.000, 25.000 euro alla fine della sta-
gione… vengono qua in tutta libertà, si vantano anche, dicendo
che non serve a niente: «vedete che le forze dell’ordine non rie-
scono a… fermarci quindi venite, venite a lavorare, ci sono soldi».
Tutte queste cose qui. Non si nascondono più.

Sagnet si sofferma poi su come sono cambiati i rap-


porti sociali e la stessa atmosfera all’interno del campo.
La presa di parola diretta ha permesso di sviluppare for-
me di soggettività che si esprimono anche su elementi
che travalicano l’oggetto della mobilitazione. Lo stesso
Yvan Sagnet, che nei mesi precedenti aveva partecipato a
Torino alle proteste studentesche contro la legge Gelmi-
ni, si sente profondamente trasformato dallo sciopero:

Non ho mai vissuto nella mia vita… una campagna mediatica,


essere chiamato dai giornalisti, come il fatto che ieri sono anda-
to a Lecce, c’erano più giornalisti che volevano parlare con me e
i miei compagni, sì. C’è una campagna mediatica, una tensione
mediatica. Quella è una forma di motivazione, di continuare a
lottare per quello che è giusto, è un’esperienza in più, delle cose,
di certe situazioni, la vita, è una forma di motivazione, di dire.
Diciamo di premio dell’azione che è stata fatta in una giusta ma-
niera… Improvvisamente mi sono trovato a trattare con la Cgil,
improvvisamente sono venuti qua e abbiamo parlato… tutti as-
sieme con gli altri gruppi, con le Brigate che qua… e con il Pre-
fetto è una cosa… che mi è piaciuta molto e straordinaria… La
popolazione che ci mandano da mangiare, che ci sostiene qua,
volevo ringraziare veramente tutti… il loro supporto… [Nel cam-

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po] è cambiata l’atmosfera… Dal punto di vista relazionale c’è il
conflitto perpetuo d’idee, tra i lavoratori: quelli che sostengono
lo sciopero e quelli che non lo sostengono. E organizziamo le as-
semblee quotidiane per spiegare alla gente lo scopo dello scio-
pero, lo scopo delle azioni che stiamo facendo… c’è più comuni-
cazione. Prima ognuno faceva quello che voleva, andava a lavo-
rare, poi tornava e dormiva. Non si sapeva nemmeno cosa
succedeva nel campo. Da quando è iniziato lo sciopero, c’è più
non diciamo unità, però c’è più comunicazione.

I riflettori puntati sul campo di Nardò, tuttavia, ini-


ziano a erodere la compattezza degli scioperanti.
Fouad, tunisino, è assai critico rispetto a questa presen-
za e ritiene che essa venga strumentalizzata dall’orga-
nizzazione sindacale e da alcune persone nel Campo:

Il nostro obiettivo di questa manifestazione è di trovare il lavoro,


non di fare pubblicità… non mi piace mettermi in mostra, non
me ne frega un cazzo. Io voglio solo lavorare, non voglio altro. In-
vece questa manifestazione contro il sistema del lavoro è diven-
tata più pubblicità, è diventata interesse per l’associazione tizia,
l’associazione caio, Cgil non so cosa… Non sono mai stato iscritto
a un sindacato… [lo sciopero] è una cosa nuova. Ma non per [otte-
nere] il risultato per l’anno prossimo, chissà se muori stasera… Ci so-
no minacce contro di noi, contro di me contro quel ragazzo [Yvan
Sagnet]… e hanno detto «dovete stare attenti». Non me ne frega
delle minacce… Sono convinto di questa cosa e vado avanti… se
uno mangia il sudore di un altro, Dio non lo perdona. Adesso la gen-
te non pensa a Dio, crede ai soldi più di Dio, più di qualsiasi al-
tro… C’è stato un appoggio di questi ragazzi qua, come si chia-
mano…[Finis Terrae e Bsa]. Hanno fatto bene, hanno aiutato pe-
rò non bastano loro, non possono dare lo stipendio e non
possono neanche trovare il lavoro.

45
Nel frattempo emergono altre tensioni che, rimaste
sopite nei primi giorni, iniziano a riemergere grazie al-
l’azione disgregante che i caporali portano avanti per re-
cuperare un «controllo» sui rispettivi connazionali.
Sempre il 5 agosto Yvan Sagnet racconta:

Ci sono tensioni tra nazionalità: per esempio, la maggior parte


dei lavoratori qua è di origine sudanese e sono loro che detengo-
no, insieme ai tunisini, il più gran numero di caporali… Quindi
questa comunità si sente un po’ tradita da noi, gli organizzatori
dello sciopero. Dicendo che noi l’abbiamo fatto apposta per to-
gliergli questo business, quindi questa ha generato più tensio-
ne… Poi i tunisini si lamentano nello stesso modo.

Gli incontri istituzionali non sembrano sortire gli ef-


fetti sperati da molti dei migranti in lotta perché non mo-
dificano, nei fatti, la situazione. Le liste di prenotazione
aperte all’ufficio del lavoro di Nardò dopo l’incontro in
Regione iniziano a funzionare, ma non sembrano in gra-
do di scardinare l’organizzazione complessiva del lavoro,
anche perché la raccolta del pomodoro nel neretino si av-
via verso la conclusione. Dopo i due incontri istituziona-
li, l’11 agosto conversiamo ancora con Yvan Sagnet, che
esprime una forte delusione. Il fattore tempo non ha gio-
cato a favore dei migranti e l’avvicinarsi della fine della
raccolta implica la dispersione di questa manodopera in
altre aree e la perdita della forza accumulata.

All’inizio volevamo il nuovo salario, no? Poi abbiamo pensato che


potevamo ottenere di più, che effettivamente la lotta era partita
sulla sola rivendicazione, quella di alzare il prezzo del cassone,
non di abolire il sistema del caporalato. Poi ci siamo sentiti un po’
più forti con lo sciopero, con l’attenzione che i media hanno avu-

46
to nei nostri confronti e quello ci ha un po’ illuso, pensando di es-
sere più forti, di ottenere qualcosa in più, di abolire i caporali; e
poi adesso ci rendiamo conto che non è così facile… C’è un senti-
mento di amarezza perché visto tutto quello che abbiamo dato,
come cuore, abbiamo dato tutta una parte di noi a questa batta-
glia, pensavamo che il risultato doveva essere visto da subito però
non è successo nulla. E questo ci dà quell’amarezza… alcuni un
po’ lo scoraggiamento, ed è quello che viviamo oggi… però sap-
piamo dall’altra parte che le vittorie sono difficili da ottenere e
che bisogna sempre continuare a lottare. Perché se non si lotta
non otteniamo niente… E dall’altra parte c’è un piccolo sentimento
di vittoria, nella misura in cui abbiamo diciamo ottenuto qualco-
sa, qualcosa si è mosso comunque sul piano politico. Abbiamo
visto le istituzioni muoversi su questa cosa… e poi la stampa ne
ha parlato e dopo comunque qualcosa si è mosso, nonostante il
fatto che nessuno dei lavoratori ne approfitta direttamente.

Sagnet ritiene che la lotta abbia comunque fatto


emergere nei migranti coinvolti una maggiore consa-
pevolezza delle proprie capacità. La sua analisi è lucida:
egli è consapevole di quanto sia difficile per lavoratori
migranti, che «hanno fame» e sono abituati a pensare
esclusivamente «al presente», porsi in una prospettiva
di lotta che abbia degli effetti «dopodomani». Tuttavia, è
importante aver dimostrato che «si può scioperare», an-
che se «non abbiamo vinto».

Conosciamo le nostre forze… sappiamo che anche noi possiamo


un po’ fare… giocarsela alla pari con loro [le imprese] su questo
piano… e però c’è una parte di noi lavoratori… che ha fame che
non hanno mai fatto lotta… Siamo una classe di lavoratori un po’
deboli. Diciamo la classe più debole, su queste cose… è una classe
di lavoratori che pensa subito al presente, che non pensa al futuro, al-

47
la lotta di dopodomani… pensa a subito e andare a fare una lotta di-
rettamente con le aziende è difficile, loro non capiscono questa
cosa. Quindi è un po’ la difficoltà nostra… Abbiamo dimostrato
che si può scioperare, però non abbiamo vinto… quelli che hanno
fatto l’esperienza qua diranno ai loro colleghi di Foggia che «ho
perso tutta la settimana a scioperare qua e non ho ottenuto nulla.
Io sono arrivato qua per lavorare…». Questo è un fattore psicolo-
gico per scoraggiare gli altri a scioperare… a condurre la lotta…
Più della metà qui dentro ti diranno che lo sciopero non è servito
a nulla, che il sistema è un sistema che esiste da tanti anni e non
è questo sciopero che potrà far cambiare le cose e… ti diranno che
loro sono i migranti neri, quindi non c’è attenzione verso di loro.
Non si mettono più dalla parte del lavoratore normale, come un
lavoratore italiano, come un lavoratore africano… un lavoratore
insomma. Fanno la distinzione adesso… dicono che dato che so-
no migranti, e siccome l’Italia è un paese in cui la differenza è
marginalizzata, quindi loro dicono che dato che sono migranti i
risultati non potevano essere diversi.

A questo punto dello sciopero, sembra concludere


Yvan Sagnet, si può riporre speranza quasi esclusiva-
mente nell’azione istituzionale, per ottenere un Decre-
to legge contro il caporalato e per individuare meccani-
smi per «convincere» le aziende ad assumere i propri
operai dalle liste del Centro per l’impiego. In questo
senso, le sue parole esprimono una speranza nell’azio-
ne che sta conducendo la Cgil.

Dall’altra parte c’è chi pensa che bisogna giocarsela politicamente,


andando fino a Roma, fino a diciamo… sotto Palazzo Chigi, cioè
cercare di ottenere direttamente qualcosa di tangibile, soprattutto
questo decreto legge contro il caporalato finché diventi reato… e
anche quella battaglia lì è difficile secondo me… La Cgil per il mo-

48
mento sta cercando di individuare le diverse aziende per costrin-
gerli ad andare a prendere i lavoratori che sono iscritti al Centro
per l’impiego e anche mettendo… facendo le minacce con le prove
che alcuni lavoratori hanno… gli hanno dato… Ed è quello e… spe-
riamo che produca un effetto anche sapendo che è difficile.

D’altro canto, e siamo ormai all’11 agosto, lo sciopero


sembra avviarsi verso una conclusione. Il numero di
scioperanti è diminuito ancora, mentre le fila dei cru-
miri si sono ingrossate:

Adesso… più della metà dei lavoratori… vanno a lavorare… quasi


200… Alcuni caporali hanno fatto aumentare il prezzo del casso-
ne, alcuni mantengono lo stesso prezzo di prima. A volte altri
scendono… Siamo in una cinquantina quelli che scioperano… Il
nodo duro che è convinto che quello che facciamo è necessario.
Gli altri scioperano perché oramai non hanno trovato lavoro, non
perché sono convinti di scioperare perché già i caporali li cono-
scono e non li vogliono assumere. Sono andati a fare le domande
dai caporali e i caporali hanno detto: «noi sappiamo che avete fat-
to sciopero».

Nei giorni seguenti si acuiscono le tensioni, i sospet-


ti, le accuse tra gli stessi scioperanti; Yvan Sagnet lascia il
campo di Nardò per qualche giorno. Nonostante alcuni
risultati importanti siano stati raggiunti – in particolare
il decreto del governo che, il 13 agosto, rende il caporala-
to un reato penale – nella Masseria sembra che tutto con-
tinui come prima, che il potere dei caporali sia intatto. La
sensazione di molti dei migranti in sciopero è quella di
una sconfitta e questo esaspera gli animi. Buona parte
dei pomodori di Nardò è già stata raccolta e molti brac-
cianti si spostano in altri territori, soprattutto nel foggia-

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no e nel Nord della Basilicata. Ma gli effetti dello sciope-
ro condotto dai migranti continuano a farsi sentire.

5. Cosa cambia dopo lo sciopero di Nardò?

Le condizioni di vita e di lavoro dei migranti nell’a-


gricoltura del Mezzogiorno d’Italia costituiscono un fe-
nomeno noto almeno dal 1989, quando fu denunciato
davanti alle telecamere della televisione pubblica da
Jerry Essan Masslo, attivista sudafricano fuggito dal re-
gime dell’apartheid e impiegato nelle campagne di Villa
Literno, nel casertano. Pochi giorni dopo quella denun-
cia, Masslo venne assassinato, apparentemente duran-
te un tentativo di rapina operato da alcuni balordi. L’im-
pressione nell’opinione pubblica italiana fu grande, i
braccianti africani del casertano organizzarono una
giornata di sciopero e il movimento antirazzista diede
una risposta importante a quei fatti. Nello stesso anno,
Michele Placido girò il film Pummarò, che raccontava
l’esperienza dei raccoglitori africani di pomodoro in
Campania.
Da allora, la presenza di braccianti immigrati nel
Mezzogiorno è enormemente aumentata – e si sono di-
versificate le nazionalità straniere interessate – ma le
drammatiche condizioni in cui essi vivono e lavorano
sono rimaste analoghe. Le leggi nazionali sull’immigra-
zione che si sono succedute hanno contribuito a inde-
bolire la posizione dei migranti e disseminato la peni-
sola di centri di detenzione; il mercato del lavoro in agri-
coltura ha subito ulteriori liberalizzazioni; le
amministrazioni locali poco hanno fatto per l’acco-
glienza dei braccianti stagionali nei vari territori e, an-
che nei casi in cui sono stati allestiti Centri di accoglien-

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za, a trarne maggiore vantaggio sono state spesso le as-
sociazioni che li hanno gestiti, piuttosto che i migranti
in essi ospitati.
È a partire dalla metà degli anni 2000 che sembra
farsi più attento lo sguardo dei media e dell’opinione
pubblica sul fenomeno e si intravede una certa conflit-
tualità da parte dei braccianti impiegati nel settore. So-
no il lavoro sul campo e un’inchiesta pubblicata dall’ong
Medici senza frontiere12 a denunciare con forza la situa-
zione dei braccianti immigrati, soprattutto africani.
Nell’autunno 2006 uno dei più importanti settimanali
italiani dedica un’inchiesta ai raccoglitori del pomodoro
nel foggiano13. Il principale sindacato italiano, la Cgil,
organizza una manifestazione di protesta a Foggia, il 21
ottobre dello stesso anno. Alla manifestazione parteci-
pano anche alcuni braccianti marocchini del ghetto di
San Nicola Varco, nella Piana del Sele, che avevano scio-
perato e manifestato a Salerno poche settimane prima,
il 25 settembre, sostenuti dalla locale Flai-Cgil guidata
da Anselmo Botte14. La giunta regionale pugliese, pre-
sieduta da Nichi Vendola, approva in ottobre una legge,
la più avanzata in Italia, che intende favorire l’emersio-
ne del lavoro nero in agricoltura, fissando il principio
secondo cui possono attingere ai fondi comunitari, na-
zionali e regionali, solo gli imprenditori agricoli che di-
mostrano di applicare i contratti collettivi del settore. In
realtà, l’applicazione della legge si arena sulla mancata
definizione degli «indici di congruità», cioè del rappor-
to tra ettari coltivati e numero di giornate lavorative ne-

12. MSF, I frutti dell’ipocrisia, cit.


13. F. Gatti, Io schiavo in Puglia, «L’espresso», 7 settembre 2006.
14. A. Botte, Mannaggia la miserìa, cit.

51
cessarie. L’azione della Regione si concentrerà così su
altre misure, come l’apertura, in provincia di Foggia, di
«alberghi diffusi» per i braccianti15.
Negli anni successivi diventano più frequenti le
manifestazioni di protesta dei migranti impiegati in
agricoltura, soprattutto africani: nel dicembre 2008 i
braccianti impegnati nella raccolta degli agrumi insce-
nano una manifestazione a Rosarno; nel gennaio 2010
sempre a Rosarno scoppia la rabbiosa rivolta degli stes-
si africani dopo l’ennesimo atto di violenza subito; l’8
ottobre 2010, con il sostegno della rete di attivisti del
centro sociale ex-Canapificio di Caserta, viene organiz-
zato uno «sciopero delle rotonde» a Castelvolturno e
nei comuni limitrofi, dove già nel settembre del 2008
si era registrata la protesta seguita all’uccisione di sei
africani da parte di un gruppo di fuoco camorrista. E
non va dimenticato il lavoro dell’Assemblea dei lavora-
tori africani di Rosarno a Roma, che ha espresso le ri-
vendicazioni di molti dei «reduci» dalla rivolta del pae-
se calabro del 2010.
In questi anni altre inchieste e documentari16 raccon-
tano lo sfruttamento in agricoltura; la Direzione distret-
tuale antimafia di Bari esegue estese indagini che porta-
no al primo processo contro un’organizzazione transna-
zionale di caporali (polacchi, ucraini, algerini) attiva tra

15. Cfr. C. Sunna (a cura di), La lotta al lavoro nero nell’esperienza legislativa
e amministrativa della Regione Puglia, Cacucci, Bari 2008; G. De Vito (a
cura di), Tutti giù per terre. Il lavoro in campagna. Ingaggio grigio e fabbriche
di clandestinità, Levante, Bari 2009.
16. Tra i documentari segnaliamo Sangue verde (2010) del regista Andrea
Segre. Scarsa è invece l’attenzione finora dedicata a questo tema dalle
scienze sociali italiane; in parte ovvierà a questa lacuna il volume La glo-
balizzazione nelle campagne curato da C. Colloca e A. Corrado (in corso di
pubblicazione).

52
la Polonia e il foggiano, arrivando nel febbraio 2008 alla
condanna in primo grado di molti dei caporali indagati
per «riduzione e mantenimento in schiavitù»17; com-
missioni internazionali sui diritti umani visitano i luo-
ghi più a rischio; la Flai-Cgil continua a dedicare atten-
zione al fenomeno, ad esempio con la campagna «Oro
rosso. Dal reality alla realtà. La raccolta del pomodoro
nella pianura della Capitanata», realizzata nell’agosto
2009, o con la campagna «Stop al caporalato». E, tutta-
via, poco pare cambiare nelle campagne meridionali do-
po quelle che restano spesso semplici denunce e non si
trasformano in mobilitazioni reali e durature che affron-
tino alla radice le questioni in gioco. Solo associazioni e
organizzazioni locali, in alcuni territori, seguono e assi-
stono con continuità i migranti, spesso senza che vi sia
un coordinamento (anzi talvolta in aperta sfiducia) con
le organizzazioni sindacali. Anche in Puglia, regione
guidata dalla «giunta più a sinistra d’Italia», i rapporti di
forza sembrano sfavorevoli ai braccianti immigrati.
In questo quadro, ci sembra che lo sciopero di Nardò
possa avere nei prossimi mesi effetti più duraturi. Anzi-
tutto, si è trattato di uno sciopero davvero auto-organiz-
zato da migranti impiegati in agricoltura, che hanno
preso la parola autonomamente, dimostrando, soprat-
tutto a se stessi, che «si può fare», il che ha accresciuto
la consapevolezza della loro forza politica. In secondo
luogo, abbiamo assistito a un «vero» sciopero, teso cioè
a migliorare le condizioni di lavoro nell’immediato: i
braccianti affermavano di non voler tornare a lavorare
finché le loro richieste non fossero state riconosciute.

17. Cfr. A. Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle
campagne del Sud, Mondadori, Milano 2008.

53
In terzo luogo, la mobilitazione, almeno in una prima
fase, ha travalicato le differenze nazionali e ha visto im-
pegnati migranti provenienti dal Maghreb, dall’Africa
occidentale, dall’Africa orientale, e che parlavano lingue
diverse, laddove questi gruppi sono solitamente separa-
ti e in concorrenza tra loro sul mercato del lavoro agri-
colo. In quarto luogo, la lotta al caporalato ha mostrato
di poter mettere in crisi il sistema di mediazione tra la-
voratori e aziende, che sovente trae la propria forza dai
rapporti «comunitari» (di parentela, di amicizia, di con-
nazionalità, di rispetto) che i caporali costruiscono con
le proprie squadre di braccianti, mascherando i rappor-
ti di sfruttamento.
Infine, anche se l’esito dello sciopero ha deluso molti
dei migranti più impegnati, esso ha prodotto alcuni im-
portanti mutamenti legislativi: anzitutto, un decreto go-
vernativo ha reso il caporalato un reato penale; in secon-
do luogo, la Regione Puglia si è impegnata ad attivare nei
Centri per l’impiego delle liste di prenotazione per il re-
clutamento della manodopera in agricoltura e ad incen-
tivare le aziende ad assumere attraverso queste liste. Co-
me sempre, questi mutamenti normativi non basteran-
no a cambiare nella sostanza le condizioni di lavoro dei
braccianti; tuttavia, essi potranno contribuire a rendere
più forti quanti, tra loro, cercheranno di ricominciare a
mobilitarsi nelle prossime stagioni di raccolta.
Certo, ci sono molte incertezze ed è necessario porsi
alcuni interrogativi in merito a cosa potrà accadere nei
prossimi mesi. Sarà difficile per i migranti e per i grup-
pi che li appoggiano organizzare e sostenere scioperi e
mobilitazioni efficaci in territori di raccolta molto più
estesi e che coinvolgono una quantità di lavoratori ben
più consistente, come il foggiano o la Piana di Gioia

54
Tauro; territori, peraltro, nei quali sono presenti in gran
numero anche braccianti provenienti dall’Europa
orientale, rispetto ai quali non c’è solo la questione di
come coinvolgerli in eventuali mobilitazioni, ma anche
quella di evitare possibili conflitti tra differenti naziona-
lità. Inoltre, qualora i braccianti ripresentino richieste
come quelle che hanno portato allo sciopero di Nardò,
c’è da aspettarsi il sorgere di conflitti sociali importanti
nelle campagne del Sud Italia: proteste che potrebbero
assumere la forma dello sciopero e della richiesta di una
legittimità politica, come a Nardò, ma anche quella del-
lo scoppio violento di rabbia tra migranti e parte della
popolazione locale, come a Rosarno nel gennaio 2010.
Bisognerà allora capire come reagiranno gli agricoltori
– magari optando, ove possibile, per una maggiore
meccanizzazione delle attività di raccolta –, le forze del-
l’ordine, le istituzioni locali e se avrà successo il tentati-
vo di creare nelle città italiane reti di sostegno ai brac-
cianti, facendo leva, ad esempio, sui gruppi del «consu-
mo critico», che nei mesi successivi allo sciopero hanno
mostrato particolare attenzione agli eventi salentini.
L’esperienza di Nardò segnala un momento impor-
tante sia per la costruzione di forme auto-organizzate di
lotta, sia per il superamento di tensioni tra le diverse na-
zionalità sia infine per la solidarietà espressa dai lavora-
tori italiani. L’auspicio è che questa mobilitazione sia in
grado di far cambiare il vento nei rapporti di forza, non
solo in agricoltura.

55
Tutte le cose belle
si ottengono lottando

Yvan Sagnet

Introduzione

La mia attrazione per l’Italia è iniziata nel 1990 in occa-


sione dei campionati mondiali di calcio a cui il mio pae-
se, il Camerun, prendeva parte: è lì che ho cominciato a
interessarmi della storia, della politica, dell’arte e dell’al-
ta moda italiana. Il miracolo italiano e la figura di Enri-
co Mattei, la Divina Commedia di Dante Alighieri, ma
anche le collezioni di Versace, Ferré e Gucci. Ricordo
che nelle discussioni con i miei amici sui paesi in cui
emigrare alcuni sognavano gli Stati Uniti, altri la Fran-
cia, altri l’Inghilterra e la Germania. Io ero tra i pochi ad
ambire all’Italia. Come dissi a mio padre: «il mio primo
paese all’estero sarà l’Italia», in particolare Torino, per-
ché lì giocava Roberto Baggio. È nell’agosto del 2007
che atterro a Torino e mi iscrivo al Politecnico per stu-
diare: mi sembrava di aver esaudito un sogno. Pur delu-
so dalla città grigia e fredda, sono comunque riuscito a
inserirmi. Il mio primo lavoro come cassiere in un su-
permercato l’ho trovato tramite un’agenzia interinale al-
la quale avevo lasciato il mio curriculum. L’agenzia mi
chiama descrivendomi il tipo di lavoro e chiedendomi

56
le disponibilità: firmo un contratto part-time giornalie-
ro o settimanale.
Quest’anno, a causa della crisi economica che ha col-
pito Torino, come molte altre aree italiane, e per l’esi-
genza di reperire ulteriore denaro per potermi pagare le
tasse universitarie, mi ritrovo, su consiglio di un amico,
in Puglia, in particolare a Nardò, paesino di quasi
30.000 abitanti nel Salento vicino a Lecce, per la raccol-
ta delle angurie e dei pomodori. È proprio lì che scopro
il caporalato: non avevo mai sentito, fino ad allora, par-
lare di caporale, quella persona che svolge la funzione
di intermediario tra le aziende e i lavoratori.

1. Un altro mondo, un’altra Africa, un’altra Italia

Sono arrivato a Nardò il 10 luglio 2011 nella Masse-


ria Boncuri, un centro di accoglienza che il Comune ha
messo a disposizione per alloggiare gratuitamente i la-
voratori. Un inferno per me. Era come essere ritornati
in Africa, anzi peggio: l’alloggio nelle tende, cinquecen-
to persone di diverse culture originarie dall’Africa sub-
sahariana e magrebina (in particolare tunisini e suda-
nesi, i più numerosi, e poi ghanesi, burkinabe, maliani,
egiziani, algerini, ivoriani, togolesi e nigeriani) che par-
lano lingue diverse, dal francese all’arabo passando per
l’inglese e diversi dialetti africani. Tutto intorno sporci-
zia e rifiuti abbandonati.
Il primo giorno ho dormito all’aria aperta, per terra,
perché non c’erano più posti disponibili in tenda. Ero
tra gli ultimi arrivati, per far la doccia dovevo fare la co-
da. Mangiavamo nei «ristoranti» dentro la Masseria ge-
stiti quasi tutti dai caporali o dai loro amici; non c’era un
menù, il piatto era unico e tradizionale, sudanese o tu-

57
nisino, a seconda del ristorante. Si mangiava con le ma-
ni, in gruppi di quattro o sei persone per risparmiare
sul prezzo. Le cose positive che ho notato erano la luce e
l’acqua gratuiti forniti dal Comune di Nardò. Tra di noi
c’erano persone che non cercavano lavoro nei campi,
ma che erano lì per fare affari, è così che si trovavano
parrucchieri, meccanici, commercianti, prostituite, che
qui avevano trovato il loro spazio economico. La Masse-
ria Boncuri con i suoi lavoratori stagionali era un altro
mondo, un’altra Africa, un’altra Italia.
Avrei voluto subito tornare a casa, a Torino, dove ero
in possesso di una borsa di studio che mi garantiva una
stanza e da mangiare gratuitamente in mensa; in breve
condizioni di vita migliori e totalmente diverse, ma quel-
lo che mi manteneva lì era la voglia di guadagnarmi i sol-
di per il pagamento delle tasse universitarie. Dopo tre
giorni di attesa del lavoro vedo un caporale arrivare nella
Masseria, una persona imponente, grassa, alta di statu-
ra, di origine sudanese. Tutti si avvicinavano per lasciar-
gli i documenti originali (carta d’identità, permesso di
soggiorno, codice fiscale) per un eventuale ingaggio;
una pratica che ho trovato inusuale, quella di richiedere
documenti originali invece delle fotocopie. Poi, alcuni
amici mi hanno presentato ad altri caporali tutti ovvia-
mente stranieri, in particolari tunisini specializzati nella
raccolta delle angurie; oppure sudanesi, ghanesi e nige-
riani per la raccolta dei pomodori. Le modalità erano le
stesse, come se ci fosse un tacito accordo tra loro; un’or-
ganizzazione estesa, quella dei caporali. Sembrano qua-
si agenzie interinali o cooperative mobili, ma con prati-
che schiaviste. Dopo una settima di lunga trattativa tra il
mio amico sudanese – che mi aveva parlato del lavoro – e
il suo connazionale caporale, il mio «vero-falso» contrat-

58
to di lavoro era pronto, anche se non ho potuto tenerlo:
dopo avermelo mostrato il mio caporale se lo tiene, men-
tre mi restituisce i documenti. Devo ritenermi fortunato
perché i documenti di alcuni miei compagni sono stati
smarriti nelle mani dei caporali; nessuno protestava per-
ché i caporali promettevano di ritrovarli e gli immigrati
avevano paura di non essere più ingaggiati. I lavoratori
di origini tunisine lavoravano con caporali tunisini,
mentre gli appartenenti alle altre comunità lavoravano
con i caporali sudanesi, come nel mio caso. C’era un rap-
porto di forza, una concorrenza tra le due principali co-
munità, cioè sudanesi e tunisini, che si disputavano la
gestione del lavoro e in parte anche del campo.
L’organizzazione lavorativa è la stessa per la raccolta
sia dei pomodori sia delle angurie. La gestione del tra-
sporto è completamente a carico dei caporali, o meglio
dei lavoratori. I caporali entrano nella Masseria con i lo-
ro furgoncini verso le tre di notte per trasportare i lavo-
ratori nei diversi campi di raccolta. Alcuni caporali par-
cheggiano i loro pullmini dentro la masseria e affidano
la guida ad alcuni braccianti che dormono con noi den-
tro il campo. Altri caporali invece dormono in albergo
nella zona di Nardò o nei casolari abbandonati che si
trovano intorno alla Masseria. Ogni lavoratore è costret-
to a pagare cinque euro di trasporto al caporale per una
distanza che varia tra i due e i quattro chilometri: un la-
voratore non può usare un altro mezzo di trasporto per
raggiungere il luogo di lavoro, pena il licenziamento. I
caporali procedono all’appello prima di salire nelle mac-
chine e nei furgoni per spegnere in anticipo le velleità di
tutti quelli che vorrebbero lavorare.
Quando arriviamo nei campi è il caporale che orga-
nizza il lavoro: ogni lavoratore ha «diritto» a tre file di

59
piante di pomodori che sono lunghe ciascuna circa 500
metri; egli deve strappare le piante dalla terra prima di
scuoterle nei cassoni, portati dai camion delle aziende.
Andiamo a lavorare così presto, prima che il sole si alzi,
perché il lavoro è molto faticoso e richiede aria fresca.
La seconda parte del lavoro consiste nel riempire i cas-
soni di pomodori sapendo che un cassone vuoto pesa
circa 70 chili e pieno raggiunge circa 450 chili. I capora-
li mettono in campo forti pressioni psicologiche in ter-
mini di velocità perché l’azienda vuole caricare il ca-
mion nel più breve tempo possibile.
La paga di un lavoratore è calcolata a cassone, cioè a
cottimo: il caporale paga il lavoratore tre euro e cin-
quanta per ogni cassone. È ovvio che un lavoratore per
incrementare il suo guadagno dovrebbe riempire più
cassoni possibile. Il numero medio di cassoni riempiti
da un singolo lavoratore è stimato a circa sette, quindi
un lavoratore guadagna in media 24,50 euro, a cui biso-
gna sottrarre i cinque euro di trasporto e i tre euro e cin-
quanta del panino che il caporale ci costringe a pagare.
Mediamente ogni lavoratore ottiene un guadagno com-
plessivo giornaliero di circa sedici euro, mentre i guada-
gni dei caporali sono avvolti nel mistero.

2. Antefatti

Non potrò mai dimenticare il mio primo giorno di la-


voro, anche perché diversamente da molti miei colleghi
non avevo alcuna esperienza del lavoro in agricoltura.
Quando i camion arrivano con i cassoni da caricare, l’au-
tista li sistema in un posto in cui ognuno li raccoglie. Già
solo per portare un cassone vuoto verso il posto assegna-
tomi dal caporale per raccogliere i pomodori, sono in dif-

60
ficoltà. Quando inizio a caricare, mentre sto ancora al
mio primo cassone i miei colleghi più vicini sono già a tre
cassoni pieni. Psicologicamente e fisicamente sono
esausto. Quando cerco il mio settimo cassone scopro che
sono finiti, e così riesco a riempirne solo sei in una gior-
nata iniziata alle tre di notte e finita verso le sei di sera.
Guadagno 21 euro da cui occorre togliere il trasporto e il
panino: rimango con dodici euro e cinquanta. Vorrei tor-
nare subito a Torino, ma mi trattiene la sfida al mio colle-
ga che quel giorno aveva riempito diciassette cassoni.
Le pressioni psicologiche da parte del caporale sono
molte: ci chiede di essere veloci, mettendoci in concor-
renza, per non parlare della stanchezza, delle malattie
generate dal lavoro. Ogni giorno almeno una cinquanti-
na di lavoratori andava dal medico che l’Asl aveva avuto
la gentilezza di metterci a disposizione dentro la Masse-
ria. Sempre meglio che rivolgersi al caporale perché
quando a un lavoratore capita di ammalarsi mentre la-
vora, il caporale gli chiede dieci euro per accompagnar-
lo all’ospedale e lui è costretto ad accettare perché non
conosce neppure l’indirizzo del luogo in cui sta lavoran-
do e non potrebbe chiamare il pronto soccorso. A causa
del sole e delle temperature tra i 40 e i 45 gradi e delle
condizioni in cui lavorano, i braccianti soffrono di mal
di testa, di stomaco, di schiena, ma anche di febbri, do-
lori alle spalle, alle mani e ai piedi, rovinati perché lavo-
rano senza guanti e senza scarpe anti-infortunistica.
Quando tornavamo alla Masseria dopo il lavoro l’incubo
continuava perché occorreva mettersi in coda per la
doccia, mentre i litigi e le risse erano frequenti, alzando
le tensioni sociali.
Una decina di giorni prima dell’inizio dello sciopero
era nata una protesta da parte dei lavoratori originari

61
dell’Africa sub-sahariana, in particolare dei sudanesi,
convinti che la parte «nera» del campo fosse discrimi-
nata rispetto a quella «bianca», ossia quella magrebina.
Questo era in parte dovuto dalla presenza di due media-
tori culturali di origine nord-africana, mentre non c’era
alcun mediatore sub-sahariano. Sapremo solo in segui-
to che non si trattava di una scelta voluta da parte delle
associazioni, ma che è semplicemente molto complica-
to trovare mediatori culturali sub-sahariani.
L’atteggiamento delle comunità nord-africane, in
particolare di quella tunisina, era quello di sentirsi pa-
droni del campo, forse anche perché specializzati da an-
ni nella raccolta delle angurie, attività molto più remu-
nerativa rispetto alla raccolta dei pomodori. Essi si per-
cepivano come lavoratori più capaci e quindi
consideravano di livello inferiore il lavoro svolto dai la-
voratori sub-sahariani. Anche questo ha influito nell’a-
limentare la protesta dei sudanesi che reclamavano un
mediatore «nero» che portasse avanti le loro istanze e
necessità all’interno della Masseria. È in questa fase che
vengo scelto come rappresentante, forse perché già da
qualche giorno mi ero esposto discutendo con i miei
compagni di politica e di diritti dei lavoratori, incorag-
giato dallo striscione calato da Finis Terrae e Brigate di
solidarietà attiva dal terrazzo della Masseria che recita-
va: «Ingaggiami. Contro il lavoro nero». Uno striscione
che non piaceva a chi lavorava senza documenti, ma che
ci permetteva di discutere sulla figura dei caporali, ma
anche contro i dittatori africani.
Mi ha profondamente colpito essere accolto da una
comunità diversa dalla mia, nonostante il nazionalismo
molto forte delle dinamiche sociali del campo. Sono sta-
to scelto senza distinzione di origine. Ho notato subito

62
la differenza tra la parte «nera» e quella «bianca» del
campo: gli africani sub-sahariani sembravano più pre-
parati psicologicamente a soffrire e più disposti alla ri-
bellione, rispetto ai magrebini. Forse perché essi si sen-
tivano meno integrati, nonostante fossero numerica-
mente superiori. A partire da queste discussioni si è
sviluppata la mia relazione non solo con i sudanesi ma
anche con i burkinabé, i ghanesi e successivamente, e
comunque prima dello sciopero, anche con i magrebini.

3. La scintilla della protesta

Il giorno dello sciopero, sabato 30 luglio, c’erano più


di dodici gruppi di lavoratori mandati a lavorare nei
campi di raccolta delle angurie e dei pomodori. La com-
posizione del gruppo con cui lavoravo e che raccoglieva
i pomodori era composta da 28 sudanesi, 11 ghanesi, 5
burkinabé e 1 camerunese, io. D’altra parte, ero l’unico
camerunense in tutta la Masseria. Nel mio gruppo già il
primo giorno mi ricordo della discussione che ebbi con
il caporale che mi aveva rimproverato di non aver lavo-
rato adeguatamente, cioè di non aver raccolto i pomo-
dori caduti per terra. Quello fu un momento particolare
perché si creò un elemento psicologico nuovo che diede
la forza ad alcuni miei compagni di discutere anche lo-
ro con il caporale, molto esigente e aggressivo, che si fa-
ceva chiamare M., di nazionalità sudanese. Durante le
pause con i colleghi non sudanesi si criticavano le prati-
che e i metodi di questo caporale; i braccianti sudanesi
non prendevano parte alle discussioni per paura e in
parte per «rispetto» di M., che veniva considerato da
molti come il capo della comunità, nonostante si ren-
dessero conto di quanto ingiusto fosse il suo comporta-

63
mento. In seguito una buona parte di lavoratori sudane-
si iniziarono a partecipare alle discussioni e a prendere
coraggio rivendicando singolarmente i propri diritti e
pretendendo maggiore rispetto dal caporale.
Il primo giorno dello sciopero era la mia quinta gior-
nata di lavoro e si percepiva una sorta di nuova unità tra
di noi che, finalmente, non era legata alla nazionalità.
Anche nel campo si respirava una tensione condivisa
pronta a esplodere. I lavoratori avevano cominciato a
parlare delle condizioni di lavoro e M. iniziava a temer-
mi forse perché ero uno studente universitario ed ero ri-
conosciuto, anche per questo, come punto di riferimen-
to tra i lavoratori.
Sabato 30 luglio c’era un datore di lavoro italiano nei
campi: egli chiese a M. di farci raccogliere solo i pomo-
dori migliori, un’ulteriore operazione di selezione che
avrebbe rallentato enormemente il nostro lavoro e di-
minuito la nostra paga. M. voleva fare bella figura e mo-
strare al suo capo italiano come governava il suo gruppo
di lavoratori. Si avvicinò a un mio collega ghanese e gli
disse che stava lavorando male, minacciandolo di cac-
ciarlo dal campo. Il ragazzo ghanese non si lasciò inti-
midire e lo accusò di privilegiare i sudanesi; la discus-
sione continuò finché io e un altro lavoratore di origine
ghanese ci avvicinammo per cercare di mediare, chie-
dendo a M. di alzare il prezzo del cassone da tre e cin-
quanta a sei euro. Quel faticoso lavoro di selezione do-
veva essere pagato in modo adeguato. M. si rifiutò, ma
noi insistemmo, forti del fatto che tutti gli altri brac-
cianti che fino a quel momento non erano intervenuti si
erano fermati e uniti alla protesta. A quel punto le no-
stre differenze nazionali si dissolsero e anche i sudane-
si si unirono alla contrattazione. Davanti all’ostinazione

64
del caporale abbandonammo tutti insieme il campo e
tornammo alla Masseria.
Di solito a quell’ora della giornata il campo è quasi
deserto perché la maggior parte dei lavoratori sono nei
campi; in effetti c’erano solo quanti non avevano trova-
to occupazione. Spiegammo a loro e ai volontari delle
associazioni Brigate di solidarietà attiva e Finis Terrae
che si occupano della gestione e dei servizi dentro il
campo perché eravamo tornati così presto e insieme
agli altri migranti andammo a fare il primo blocco stra-
dale sulla provinciale Nardò-Lecce; eravamo una trenti-
na. Le forze dell’ordine, intervenute quasi subito, ci
consigliarono di non continuare a bloccare la strada
perché era contro la legge. Così ritornammo all’interno
della Masseria e due ore dopo facemmo la nostra prima
riunione tra il commissario di polizia di Nardò, la Cgil e
le associazioni Finis Terrae e Bsa, che sostenevano le
nostre rivendicazioni. La sera, dopo che i nostri colleghi
erano tornati dai campi, abbiamo fatto la nostra prima
assemblea auto-convocata sotto gli occhi dei media
spiegando perché scioperavamo e quali erano le nostre
rivendicazioni: volevamo i contratti regolari, la fine del
caporalato, contatti diretti tra aziende e lavoratori, l’a-
pertura di un centro per l’impiego dentro la masseria,
un aumento del salario, più medici, miglioramento del-
l’accoglienza e delle condizioni di vita dentro il campo.
Eravamo pronti a non ritornare al lavoro fino a quando
le nostre rivendicazioni non fossero state accolte.
Quella sera la «parola d’ordine» era che nessuno do-
veva andare a lavorare; per assicurarci che tutti rispet-
tassero la decisione e per agire in anticipo sui caporali ci
siamo svegliati un’ora prima della partenza abituale dei
lavoratori, verso le due di notte, per fare i picchetti in

65
tutti i punti d’ingresso e uscita della Masseria. È stato
un successo totale. Di solito a quell’ora ci sono un sacco
di persone che si preparano per andare a lavorare e i fur-
goncini dei caporali riscaldano i motori per trasportare i
lavoratori, ma quel giorno quasi il 90% di loro dormiva
ancora e i pulmini dei caporali erano fermi. Solo verso
l’alba qualche persona e alcuni veicoli si avvicinarono,
ma con fermezza ricordammo e spiegammo loro la ne-
cessità di scioperare. Eravamo determinati e abbiamo
evitato le risse e gli scontri; anche se non sono mancate
ingiurie e minacce da parte di caporali arrabbiati di per-
dere una giornata di lavoro. Non volevamo correre il ri-
schio che lo sciopero si impantanasse in una descrizio-
ne mediatica di scontri tra stranieri, una strumentaliz-
zazione che siamo riusciti a evitare. Volevamo che la
gente sapesse che il nostro sciopero era una rivendica-
zione sociale, volevamo essere considerati come lavora-
tori che meritano tutti i diritti: un contratto regolare,
l’indennità di disoccupazione, gli strumenti di lavoro
come i guanti, le scarpe anti-infortunistica.
Le difficoltà culturali e linguistiche erano molte,
non era facile trasmettere il messaggio ad altri colleghi.
C’erano quelli che parlavano francese come i burkina-
bé, gli ivoriani, i togolesi, i beninesi; altri parlavano l’in-
glese come i ghanesi, i nigeriani, gli etiopi, i somali; al-
tri parlavano l’arabo, come i sudanesi, i tunisini, i ma-
rocchini, gli egiziani, gli algerini. Abbiamo pensato di
creare una «direzione» composta da membri di ogni co-
munità, e così si è creato un gruppo di tre tunisini, due
sudanesi, due burkinabé, un ghanese e io. Andavamo a
trasmettere i messaggi alla nostra comunità linguistica,
facevamo le assemblee ogni sera con l’obbiettivo di dis-
cutere con i lavoratori la situazione e per cercare di te-

66
nere duro fino a quando le aziende non fossero venute a
farci contratti regolari e non avessero smesso di farci la-
vorare con i caporali.
I primi due giorni furono un successo: il 95% di la-
voratori scioperavano. Si trattava del primo grande
sciopero auto-organizzato a livello bracciantile in agri-
coltura dai lavoratori stranieri, dato che le altre prote-
ste si limitavano ai piccoli imprenditori agricoli. E noi
eravamo orgogliosi di quanto stavamo facendo. Tanti
giornalisti cominciavano ad affluire, sia quelli della
stampa sia quelli della tv che facevano riprese. E poi ri-
cercatori, sindacati, forze dell’ordine, autorità politi-
che e persone comuni che volevano saperne di più sul-
lo sciopero e che venivano da tutte le parti del paese.
Così dopo due giorni abbiamo ottenuto un incontro
con il Prefetto di Lecce, con l’obbiettivo di organizzare
un tavolo con la parte datoriale per poter esporre a tut-
ti le nostre richieste, cosa che abbiamo ottenuto la set-
timana successiva. Intanto i caporali hanno iniziato
sia ad alzare i prezzi dei cassoni da tre e cinquanta a
quattro euro sia ad assumere regolarmente i lavorato-
ri. Su ordine delle aziende i caporali dicevano ai lavo-
ratori che nel caso in cui ci fossero stati dei controlli
nei campi, essi avrebbero dovuto dire di essere pagati
all’ora e non a cottimo poiché esso è vietato dal contrat-
to provinciale. Inoltre, abbiamo notato la presenza di
alcuni datori di lavoro della zona che volevano assu-
mere le persone direttamente, rispettando le normati-
ve italiane senza passare per i caporali. Questo non è
durato a lungo perché i caporali hanno cominciato ad
organizzarsi rispetto alla nuova situazione.

67
4. Lo sciopero tra autorganizzazione e istituzioni

La costruzione dello sciopero è stata determinata da


un forte sentimento di condivisione: ogni lavoratore si
informava quotidianamente di cosa succedeva, in mo-
do attivo, e io mi sono trovato non solo a diffondere le
informazioni, ma anche a rassicurarli. La presenza di
tante persone esterne al loro ambiente, non solo li rassi-
curava che le cose stavano proseguendo nella giusta di-
rezione, ma produceva anche uno spazio per il loro ri-
conoscimento come lavoratori con dei diritti. Quando
la Cgil o le Bsa e Finis Terrae mi chiedevano delle cose
che coinvolgevano i lavoratori, tutti mi ascoltavano at-
tentamente e facevano delle domande importanti quali
ad esempio: cosa hanno deciso le istituzioni oggi rispet-
to al nostro futuro? Lo sciopero continua? Cosa voglio-
no i giornalisti?
Durante le molte riunioni che con gli altri portavo-
ce facevamo fino a tarda notte negli uffici della Masse-
ria, magari prima di una manifestazione o prima di re-
carci ai tavoli istituzionali, scrivendo cartelli e striscio-
ni con le nostre rivendicazioni insieme ai volontari, gli
obbiettivi per cui lottavamo erano: avere un contatto di-
retto con le aziende, la fine del caporalato, l’aumento
del prezzo del cassone. Queste richieste miravano a
migliorare le condizioni di vita e di lavoro non solo no-
stre, ma di tutti i braccianti. Il rapporto con i volontari è
stato molto importante perché durante lo sciopero sa-
pevamo di poter contare sul loro appoggio. La presenza
di molte volontarie delle Bsa era particolarmente ap-
prezzata e, diversamente da come si potrebbe pensare,
non ci sono mai stati problemi sebbene il campo fosse
popolato esclusivamente da migranti maschi. L’atteg-

68
giamento era di reciproco rispetto e collaborazione.
Una delle nostre figure di riferimento era sicuramente
Valeria Sallustio di Finis Terrae, che si prendeva sem-
pre a cuore i bisogni dei lavoratori, con attenzione e de-
licatezza; proprio per questo moltissimi ospiti del cam-
po si confidavano con lei. La presenza della Cgil, e in
particolare di Antonella Cazzato, era un fattore psicolo-
gicamente molto importante: il riconoscimento del no-
stro sciopero da parte del sindacato indicava che le isti-
tuzioni si sarebbero mosse e che ci avrebbero ascoltato.
La presenza di Antonella era percepita come sinonimo
di risoluzione dei problemi più disparati. Le aspettati-
ve erano elevatissime.
Nonostante le difficoltà con uno sforzo collettivo
nostro e dei volontari siamo riusciti a conservare la co-
esione sociale tra i diversi gruppi comunitari nel cam-
po. Mantenere salde le nostre posizioni e sentire la so-
lidarietà degli altri lavoratori, ha creato un forte ele-
mento di resistenza, anche da parte dei lavoratori
irregolari che speravano di vedere normalizzata la loro
situazione. Per me è stato difficile fare da ponte tra la-
voratori e il mondo esterno; certo non ero da solo, ma
ho sentito forti pressioni e responsabilità sulla mia
persona. In generale cercavo di mantenere buoni rap-
porti con tutte le comunità del campo, anche se duran-
te le assemblee non sono mancate accese discussioni.
Qualcuno in modo cinico mi canzonava, chiedendomi
perché mi impegnassi tanto.
Lo sciopero ha generato una forma di unità tra i la-
voratori nonostante le difficoltà culturali e linguistiche.
Esso era percepito come una forma di liberazione ri-
spetto a questo sistema di sfruttamento. Per questo ini-
zialmente vi erano molte aspettative e un diffuso otti-

69
mismo soprattutto nei primi giorni, quando dentro la
Masseria si viveva un momento di eccitazione. Quando
andavamo a manifestare con la Cgil e le associazioni al-
la prefettura di Lecce o in Regione a Bari quello che mi
emozionava è che all’interno dell’automobile o del pull-
man tutti cantavano, un canto di gioia, di speranza, di li-
bertà. Era straordinario, eravamo tutti uniti ed eravamo
ottimisti, sicuri di ottenere risultati concreti e nono-
stante i risultati tardassero ad arrivare, la nostra convin-
zione superava la delusione del momento.

5. Complicanze e disgregazione

Dopo qualche giorno ad alta tensione e di successo


però, le cose hanno cominciato a complicarsi. I lavora-
tori hanno iniziato a scoraggiarsi e a lamentarsi del fat-
to che la protesta non serviva. A loro interessavano i
soldi e non la protesta, perché ritenevano che quelle
«sono cose politiche» e i politici da tanti anni se ne fre-
gavano di loro. Poi c’era la fame che si faceva sentire,
dato che non lavoravano. Così le associazioni Finis Ter-
rae e Bsa hanno lanciato una cassa di resistenza per i
lavoratori in sciopero per comprare beni di prima ne-
cessità, un segnale di solidarietà a chi portava avanti la
protesta. Ma a lungo andare anche il fattore cibo non è
bastato a convincere una parte dei lavoratori a conti-
nuare lo sciopero; essi affermavano che: «non siamo
qui per mangiare, ma per lavorare». Un’ulteriore cate-
goria problematica era quella dei lavoratori senza per-
messo di soggiorno che non partecipavano allo sciope-
ro per timore di rimanere esclusi quando la situazione
si sarebbe normalizzata.
Dopo una decina di giorni sono cominciati a venire a

70
galla vari problemi. Innanzitutto si sono riaffacciati i
conflitti intercomunitari che erano stati sopiti, in parti-
colare tra sudanesi e tunisini; questi ultimi accusavano i
primi di aver rubato loro il mercato del lavoro, mentre i
sudanesi insinuavano che i tunisini fossero coccolati
dalle associazioni di volontariato, visto che occupavano
molti posti in tenda, e si lamentavano di essere discri-
minati nella distribuzione dell’acqua, nell’accoglienza e
nell’accesso allo sportello sanitario. I tunisini dalla pelle
quasi bianca, come gli italiani, sarebbero stati quindi fa-
voriti dai volontari delle associazioni, mentre i sudanesi
ne subivano il razzismo. D’altra parte, per i sudanesi lo
sciopero era ulteriormente svantaggioso perché essi po-
tevano contare su caporali che «gestivano» una parte
consistente della raccolta del pomodoro. Un’altra com-
ponente di lavoratori che ha giocato a sfavore dello scio-
pero era quella di chi era appena arrivato in Italia e aveva
trovato condizioni di vita ben peggiori di quelle che im-
maginava; una parte di questi era propenso a ritornare
nel paese di origine solo dopo però aver guadagnato un
po’ di denaro per il viaggio e magari per iniziare un pic-
colo business. A questi bastavano 600-700 euro e non
gli importava certo di scioperare. D’altro canto, quella
parte di lavoratori immigrati da più tempo presenti in
Italia affermava di conoscere bene la situazione e ritene-
va che la presenza della Lega Nord e una normativa co-
me la legge Bossi-Fini fossero sufficienti a definire l’Ita-
lia un paese ostile agli immigrati. Essi sostenevano che
le condizioni di sfruttamento e di lavoro in nero sono
presenti da tanti anni e che sono ben conosciute da tutti
a partire dalle forze dell’ordine che chiudono gli occhi,
dagli ispettori del lavoro che non eseguono adeguati
controlli o sono corrotti, dalle istituzioni regionali che

71
stanno dalla parte delle aziende poiché queste dispon-
gono del potere economico e politico e finanziano le lo-
ro campagne elettorali. In breve, essi affermavano che i
lavoratori immigrati erano considerati elementi margi-
nali di un sistema corrotto che li sfruttava a piacimento.
Progressivamente stava crescendo una guerra tra
poveri sulla quale i caporali buttavano quotidianamente
benzina. In effetti un fattore che ha avuto un ruolo cen-
trale nel creare una frattura tra gli scioperanti sono stati
i caporali, che cercavano di manipolare i lavoratori, con-
trapponendo scioperanti e non scioperanti. Essi minac-
ciavano i lavoratori, in particolare il nucleo duro degli
scioperanti e utilizzavano l’arma del denaro per com-
prare la coscienza degli altri. La loro impunità costituiva
un forte freno per molti lavoratori, convinti che i capo-
rali fossero sostanzialmente «coperti» dalle aziende.
Le difficoltà materiali hanno contribuito a dividere i
lavoratori nonostante il cibo distribuito durante lo scio-
pero, mentre la gestione della cassa di resistenza è stata
molto complicata. I caporali hanno cercato in tutti i mo-
di di dividere i lavoratori insinuando sospetti o minac-
ciandoci direttamente. Però sono stato contento che sia
stato l’aspetto materiale piuttosto che quelli organizza-
tivo e rivendicativo a creare problemi. Questo significa
che comunque condividevamo le stesse idee e voleva-
mo ottenere le stesse cose. Lo sciopero ha sviluppato tra
i lavoratori il coraggio di denunciare i caporali, un’azio-
ne questa che non succedeva da molto tempo. Soprat-
tutto credo sia importante rilevare come, quando anda-
vano a denunciare i caporali, i lavoratori mostravano un
sentimento di rabbia verso questi che evidentemente si
era accumulato dentro di loro e che aspettava il mo-
mento migliore per affiorare.

72
Il fattore tempo ha giocato contro gli scioperanti per-
ché non è semplice tenere uno sciopero a lungo: i lavo-
ratori migranti avevano il bisogno imperativo di guada-
gnare denaro, mentre le istituzioni hanno risposto in
modo assai lento alle nostre richieste. L’unità e la perse-
veranza del nucleo duro degli scioperanti, cioè di quan-
ti avevano la sensibilità politica e che hanno resistito al-
la manipolazione, sono riuscite a ottenere che il capora-
lato diventasse un reato penale, che vi siano liste di
prenotazione presso il centro per l’impiego, che il tra-
sporto venga garantito dal Comune e che la Regione
emani una direttiva sui cosiddetti indici di congruità.
Essere riusciti a rendere reato penale il caporalato ci
rende fieri di quello che abbiamo fatto, non solo per noi
ma per tutti i braccianti, che siano italiani o immigrati.
La presenza di giornalisti e televisioni è stata da un
lato importante e accolta con entusiasmo poiché ci dava
il modo di raccontare la nostra battaglia all’esterno, ma
dall’altro lato ha reso più difficile mantenere gli equili-
bri sociali dentro il campo. Non tutti amavano infatti es-
sere ripresi e si sentivano invasi in quello che riteneva-
no uno spazio privato nonostante le precarie condizioni
abitative. La stampa ha dovuto mostrare un’altra faccia
degli «extracomunitari», non più dipinti come delin-
quenti o truffatori, ma come lavoratori. Questo aspetto
ha sicuramente aiutato a motivare i lavoratori e a pre-
miarli nella loro lotta per la rivendicazione dei loro di-
ritti. La nostra presenza al festival «La notte della Taran-
ta» è stato un altro elemento che ha permesso di dare
più visibilità alla lotta, così come il concerto «NO CAP»,
contro il caporalato, organizzato per sostenere lo scio-
pero, è servito in particolare per sensibilizzare i cittadi-
ni di tutto il neretino.

73
5. Conclusioni

Nonostante le difficoltà affrontate lo sciopero di


Nardò segna un punto importante per tutti i lavoratori
stranieri e italiani nella battaglia contro lo sfruttamento
e il lavoro nero. L’atteggiamento di molte aziende che
continuano a servirsi dei caporali i quali a loro volta ci
sfruttano mostra chiaramente come questa lotta sia an-
cora lunga e complicata. Noi siamo consapevoli che
l’applicazione del decreto legge sul reato penale del ca-
poralato sarà difficile da applicare, perché individuare il
singolo caporale e dimostrare che egli ha commesso un
reato non è facile. Ma siamo altrettanto determinati a
proseguire questa lotta: i veri e principali responsabili
in questa battaglia non sono i caporali, ma le aziende e
soprattutto la grande distribuzione che determina i
prezzi alle stesse imprese, che scaricano sui braccianti,
gli ultimi nella catena, le loro difficoltà. Il percorso è
quindi lungo e la lotta per la legalità e l’ottenimento dei
nostri diritti sarà dura, ma ci proveremo. Durante la no-
stra lotta abbiamo notato la differenza tra la manifesta-
zione e lo sciopero: manifestare serve a sensibilizzare
un pubblico più o meno ampio od ottenere un incontro
tra i diversi attori in gioco. Contemporaneamente però
io credo debba essere usata l’arma dello sciopero, per-
ché questa lotta si vincerà nei campi di raccolta: blocca-
re le produzioni, organizzando presidi permanenti fin
quando queste aziende non sottoscriveranno contratti
regolari e contribuiranno alle spese di accoglienza, ren-
deranno sicuri i luoghi di lavoro. Lo strumento del boi-
cottaggio di tutti i prodotti che arrivano dallo sfrutta-
mento dei lavoratori e non rispettano i diritti del lavoro
potrebbe poi rivelarsi importante.

74
Questa lotta passa anche per la sensibilizzazione dei
lavoratori stessi in quanto ogni lavoratore migrante met-
te in campo comportamenti e considerazioni basati sul-
la sua situazione di emarginazione sociale. Occorrereb-
be quindi avviare, come si è fatto a Nardò, una campagna
intensiva di sensibilizzazione verso questi soggetti al fi-
ne di renderli consapevoli dei diritti di cui sono titolari e
che è possibile lottare, come un sol uomo, contro questo
sistema. Subiremo delle minacce da parte dei caporali.
Le province di Foggia, Potenza, Brindisi sono diverse da
Nardò in termini di grandezza e di complessità, quindi
avremo bisogno di mezzi di trasporto, di cibo per gli
scioperanti, di medici, avvocati, uffici e strutture. Noi
pensiamo di portare la stessa mobilitazione di Nardò nel
resto della Puglia, ma anche in Calabria a Rosarno, in
Campania a Castel Volturno e in tutti quei luoghi in cui è
diffusa la pratica dello sfruttamento della manodopera
bracciantile.
Siamo tutti cittadini dello stesso paese e abbiamo
analoghi obbiettivi: i nostri diritti e il nostro benessere.
Le aziende dovranno capire che la loro forza è costituita
dai lavoratori e che esse non potranno fare a meno di re-
golarizzarli. È il momento di porre fine a questi cento-
cinquant’anni di caporalato in Italia.

75
Lavori in corso
Pratiche e idee per la liberazione
del lavoro migrante

Gianluca Nigro

1. Come nasce l’esperienza di Nardò

Nel 2008 l’associazione Finis Terrae, a seguito di un mo-


nitoraggio sui lavoratori migranti impiegati nell’agricol-
tura pugliese, giunge a Nardò e, presa visione delle pes-
sime condizioni di lavoro, propone al Comune di inter-
venire per realizzare un primissimo intervento, che
vedrà la luce solo nella fase finale della raccolta del po-
modoro e dell’anguria. L’accoglienza, realizzata sempre
all’interno della Masseria Boncuri, nella zona industria-
le di Nardò, viene organizzata per cinquanta lavoratori.
Dalla prima relazione depositata al Comune di Nardò
emerge che il fabbisogno di manodopera anche nel
2008 si aggira intorno alle 400 unità. Lo scoglio mag-
giore è lo status giuridico dei lavoratori: la quasi totalità
infatti è senza documenti. Da questa prima esperienza
di accoglienza nasce una riflessione da parte dell’asso-
ciazione circa le possibilità di modifica di un quadro,
quello del lavoro migrante in agricoltura, che vedrà,
sempre in stretta collaborazione con il Comune di Nar-
dò, lo svilupparsi di una esperienza atipica nel panora-
ma italiano. D’altra parte la Puglia è una regione che è si-

76
curamente un laboratorio per i lavoratori migranti: dal-
l’arrivo degli albanesi nel 1991 alla realizzazione e diffu-
sione sul territorio di centri di detenzione e per richie-
denti asilo.
L’associazione Finis Terrae interviene in modo co-
stante da più di un decennio sulla questione migrato-
ria tenendo insieme l’intreccio fra lavoro migrante in
agricoltura e percorso migratorio, che è riconducibile
all’idea mirabilmente sintetizzata da Abdelmalek Sa-
yad che l’immigrazione è «un fatto sociale totale»18. In
quest’ottica abbiamo iniziato a intravedere, secondo
uno schema progressivo, in ogni intervento la bozza di
quello successivo, giungendo così ad occuparci di que-
stioni, come la tutela del lavoro, apparentemente mol-
to lontane dal punto di partenza, ma come vedremo
più avanti strettamente collegate se non addirittura in-
dissolubili da esso.
L’intervento alla Masseria Boncuri di Nardò è il ten-
tativo di ricomporre un puzzle articolato di azioni che
l’associazione ha svolto nel corso dei dieci anni prece-
denti. Non si tratta della sommatoria delle esperienze
passate, quanto piuttosto della presa d’atto dell’insie-
me delle necessità dei migranti, dentro un quadro nor-
mativo altamente repressivo, per quanto inefficace,
che spesso elude i più fondamentali diritti. All’interno
di questa cornice Finis Terrae, insieme agli enti locali,
e a partire dal 2010 in collaborazione con le Bsa ed il
Tribunale dei Diritti del Malato di Nardò, ha provato a
intervenire su una questione, quella del lavoro, spesso
elusa anche dal movimento antirazzista. L’intervento
mira quindi a una sorta di «sindacalizzazione» dei la-

18. A. Sayad, La doppia assenza, Cortina, Milano, 2002.

77
voratori migranti all’interno però di un percorso che
tiene in considerazione la dimensione sociale del lavo-
ro migrante.
Uno dei primi interventi di Finis Terrae nel 2002
era stato nella zona del foggiano a ridosso e dentro il
campo di Borgo Mezzanone, luogo di smistamento di
migranti in arrivo sulle coste pugliesi ed in altre zone
del paese. Seguendo le tracce e l’evoluzione dei percorsi
«sociali» dei migranti in arrivo in quel centro, come nei
centri del leccese e del brindisino, si è diffusa la consa-
pevolezza che l’aspetto eluso da queste azioni rimaneva
sempre il lavoro. I migranti, privi di sostegno e in as-
senza di vere e proprie politiche dell’accoglienza, finiva-
no per rimpinguare le fila del lavoro nero, in specie nel
settore agricolo. Il sistema dei centri (Cie, Cara, Cai), in-
fatti, ha costituito il serbatoio di manodopera straniera
proprio nei luoghi ad alta concentrazione di attività
agricola. Non è difficile scorgere, ad esempio, come nel
Mezzogiorno i luoghi ad alta concentrazione di mano-
dopera straniera, quindi di sfruttamento e caporalato,
siano sovrapponibili alla geografia dei centri per mi-
granti diffusi sul territorio. Naturalmente il fenomeno
si è espanso, ma questi luoghi continuano ad essere
produttori di manodopera occupata irregolarmente. La
recente gestione dell’emergenza nord-africana, tra gen-
naio e agosto 2011, sembra rientrare esattamente nella
medesima logica.
Alla fine del 2009, dopo la chiusura del campo del-
la Masseria Boncuri, abbiamo compreso che l’inter-
vento a tutela dei lavoratori stranieri in agricoltura in
quell’area o cercava di cogliere i diversi elementi del fe-
nomeno o poteva dirsi inefficace. Da qui Finis Terrae,
attraverso anche una dettagliata relazione tecnica al

78
Comune di Nardò, particolarmente sensibile alla te-
matica, si è proposto il passaggio alla dimensione di
«campo», cioè di allestire uno spazio con delle tende e
di disporre di servizi essenziali per una accoglienza
che toccasse i vari elementi dell’esperienza migratoria,
compresa l’attivazione di un ambulatorio medico al-
l’interno dei locali della Masseria, grazie all’ausilio del-
la locale Asl.
In questa seconda fase dell’esperienza della Masseria
Boncuri si è aperto un nuovo modello di intervento che,
oltre ad essere originale sul piano delle pratiche, ha pro-
vato anche a rompere dei nodi culturali e teorici dell’agi-
re sociale e politico. Oltre alla collaborazione delle istitu-
zioni, partner insostituibili in interventi di questa porta-
ta, è stato chiesto il sostegno delle Brigate di solidarietà
attiva, una delle associazioni più «inclassificabili» del
panorama sociale italiano. L’esperienza pregressa delle
Bsa nella tutela dei terremotati di L’Aquila era, infatti, la
garanzia della capacità di intervenire anche a Nardò, co-
me in Abruzzo, evitando forme organizzative del campo
gerarchiche e paramilitari.

2. La Masseria Boncuri:
«Ingaggiami. Contro il lavoro nero»

Dal giugno 2010, grazie all’apporto delle diverse


istituzioni locali (Prefettura di Lecce, Comune di Nar-
dò, Asl di Lecce, Provincia di Lecce e forze dell’ordine),
si è arrivati, non senza difficoltà, ad aprire il campo del-
la Masseria Boncuri di Nardò, istituzionalmente defi-
nito come Progetto A.M.I.C.I., ma ribattezzato infor-
malmente campo Giuseppe Di Vittorio; un riferimen-
to ideale che incarnasse allo stesso tempo l’umiltà dei

79
costumi da un lato e la convinzione della necessità di
trasformazione dall’altro. In accordo con tutti i sogget-
ti si è promosso, anche per segnare una rottura cultu-
rale con le esperienze pregresse, un meccanismo di
scambio fra i lavoratori ed il campo: si offre accoglien-
za in cambio di un percorso di emersione dal lavoro ne-
ro, da affrontare ovviamente in modo volontario. Al la-
voratore migrante che giungeva a Boncuri, oltre alla re-
golarità del soggiorno, veniva richiesta la regolarità
della posizione lavorativa, che in agricoltura viene de-
codificata con l’ingaggio, cioè l’apertura di una posizio-
ne amministrativa, che tuttavia non corrisponde anco-
ra a un contratto. L’efficacia di questa esperienza è con-
nessa, inoltre, alla stretta collaborazione istituzionale
ed in particolare all’impegno profuso dalla Prefettura
di Lecce nel lavoro di rete e, soprattutto nel 2010, atti-
vare controlli frequenti nelle aziende della zona. Tale
collaborazione, invece, è stata molto più debole nella
stagione 2011, mostrando come l’uso ideologico del te-
ma della crisi da parte delle istituzioni abbia ridotto
l’incisività della lotta al lavoro nero.
Questo meccanismo, unito al lancio della campagna
«Ingaggiami. Contro il lavoro nero», che utilizzava ma-
gliette e strumenti informativi ha prodotto nel 2010 l’e-
mersione di circa 200 lavoratori, su una platea com-
plessiva di 400, a fronte della decina degli anni prece-
denti. Questa prima esperienza, apprezzata anche a
livello nazionale, ha avuto il plauso di organizzazioni
internazionali come l’Unhcr (Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i Rifugiati). Come in passato rimane-
va largamente assente, nonostante i numerosi tentativi
di interlocuzione da parte delle istituzioni, il mondo
dell’impresa agricola. Un’assenza non casuale che con-

80
tinua a produrre pesanti conseguenze sull’organizza-
zione stessa del campo e sulla risposta allo sfruttamen-
to del lavoro nero e che ha reso manifesta anche agli os-
servatori più distratti la polarizzazione delle posizioni:
di là l’impresa, di qui la forza lavoro.
Nell’autunno del 2010 la Giunta Comunale di Nardò
entra in crisi e sono convocate elezioni anticipate, tenute
nella primavera del 2011. Il commissario Prefettizio, in
accordo con la Prefettura di Lecce, poco tempo prima
delle nuove elezioni promuove un bando per la gestione
del centro di Masseria Boncuri che prevede la gestione di
tutti i servizi per una capienza massima di 400 lavorato-
ri. La cifra messa a Bando corrisponde a 19.500 euro con
eventuale ribasso. Finis Terrae partecipa al bando e si ag-
giudica la gestione per la modesta cifra di 18.500 euro. È
del tutto evidente che l’intenzione di Finis Terrae e delle
Bsa non è tanto quella di vincere un «appalto», quanto di
continuare a promuovere un’esperienza che ha certa-
mente introdotto degli elementi di novità e aperto una
partita importante nella lotta allo sfruttamento dei lavo-
ratori migranti e al caporalato. Il tema del finanziamen-
to del campo è stato, a sproposito, trattato dal sistema dei
media in modo leggero e privo di approfondimento. Nel
momento in cui scriviamo non si sono ancora ricevuti i
rimborsi dei soldi del bando 2011, mentre le due associa-
zioni hanno speso per la gestione complessiva del cam-
po quasi il doppio del denaro previsto dal bando. Per es-
sere precisi si sono spesi, in proprio e non rendicontabi-
li nel budget del bando previsto dal Comune, ulteriori
17.000 euro, di cui 3.000 in capo a Finis Terrae e 14.000
in capo alle Bsa. Tali somme sono il frutto di attività di
autofinanziamento delle stesse associazioni e in larghis-
sima misura di sottoscrizioni degli aderenti alle associa-

81
zioni stesse, oltre che di contributi volontari erogati alle
Bsa dalla chiesa Valdese provenienti dai fondi dell’otto
per mille. In molti casi, i media che si sono interessati al-
lo sciopero hanno diffuso cifre esorbitanti in capo agli
enti locali. In realtà la gran parte della spesa per la ge-
stione del campo è stata effettuata dal Comune di Nardò,
mentre la Provincia di Lecce ha partecipato finanziaria-
mente in modo esiguo. La Regione Puglia, invece, a suo
tempo mise a disposizione i fondi, attraverso un bando,
per la ristrutturazione della Masseria Boncuri. Tuttavia
la quasi totalità delle risorse messe a disposizione dagli
enti locali per gli interventi strutturali sulla Masseria e
sull’area annessa erano vincolate dal patto di stabilità a
cui questi enti sono costretti da leggi statali.
Il campo si è aperto il 20 giugno 2011 fra mille diffi-
coltà. Fra le più importanti vi era l’insufficiente dotazio-
ne di tende e brandine per il numero elevato di ospiti, il
modo di erogazione dell’acqua potabile ai lavoratori e
l’acqua delle docce che era quasi permanentemente
fredda. Dal punto di vista della raccolta, durante la sta-
gione le aziende produttrici di angurie hanno dichiara-
to lo stato di crisi a causa dell’abbassamento dei prezzi
derivante dalla concorrenza dei produttori di altri paesi
europei e africani. A questo fenomeno è corrisposta
una decisa diminuzione di manodopera impiegata, a
fronte di presenze sul territorio che risentivano di feno-
meni esogeni al «normale» arrivo di braccianti sul terri-
torio, come i flussi di migranti tunisini e di altri fuggiti
dal conflitto bellico, da poco usciti dal centro di Mandu-
ria, distante solo una trentina di chilometri da Nardò.
Il 30 di luglio, a seguito di una contrattazione fra un
gruppo di lavoratori e un caporale, un gruppo di lavora-
tori migranti abbandona i campi e, dopo un blocco stra-

82
dale e la prima assemblea dei lavoratori, proclama lo
sciopero modificando molti aspetti dell’immagine co-
struita negli ultimi venti anni sui migranti. Lo sciopero
protrattosi per quasi due settimane ha modificato, inol-
tre, gli assetti culturali di associazioni e sindacati sul te-
ma del lavoro migrante. Se lo sciopero ha avuto un’eco
piuttosto ampia sui media locali, nazionali ed europei,
poco si è analizzato il percorso che lo ha sostenuto e le
contraddizioni che esso ha aperto. Da questo punto di
vista crediamo che per comprendere fino in fondo l’e-
sperienza della Masseria Boncuri a Nardò sia necessa-
rio confrontarla con le altre realtà come Foggia, Rosar-
no, Cerignola dove vivono i lavoratori braccianti in agri-
coltura. Sono questi i luoghi dove è maggiore la
presenza di lavoratori e minore, se non addirittura ine-
sistente, l’accoglienza e i servizi ai braccianti stranieri.

3. Una teoria antica e una pratica à la page:


il mutualismo

3.1 Il rovesciamento del modello


Finis Terrae e le Brigate di solidarietà attiva sono una
Onlus e una Associazione di promozione sociale. Agli
occhi degli addetti ai lavori si possono rappresentare co-
me parte integrante del cosiddetto Terzo settore. Una
dizione, quella di Terzo settore, che a entrambe rimane
stretta forse perché, per un lungo periodo, con questa
definizione si è voluto intendere uno status giuridico
che definiva una miscela di cittadinanza attiva e di vo-
lontariato. Oggi ci pare che, nonostante la debolezza in-
trinseca di queste due caratteristiche, esse siano fonda-
mentalmente disattese. Nel Terzo settore si trova, infat-
ti, l’intreccio fra imprenditoria minore, sovente

83
giudicata «di seconda categoria», e il parastato. In que-
sto senso la nostra collocazione giuridica è fuorviante
rispetto alle pratiche perseguite: la professionalità non
è declinata nel senso di diventare professionisti. Ogni
intervento messo in campo cercando di mantenere un
rapporto fra pari ha una sua temporalità: estinto il biso-
gno finisce anche l’intervento. Da questo punto di vista,
pur nel rispetto di chi opera con altri modelli, riteniamo
che l’elemento della carità sia fuorviante nella definizio-
ne di queste pratiche.
In queste pratiche si producono, ovviamente, molte
contraddizioni: la dizione di privato sociale, ad esempio,
spesso viene declinata più sul livello del privato che su
quello del sociale; l’idea che dietro ogni intervento di
questa natura vi sia sempre l’elemento economico per i
soggetti che lo realizzano; il rischio di sostituirsi al pub-
blico in settori di intervento che necessitano, invece, di
una attenzione specifica da parte dello stato e delle sue
articolazioni. Questi elementi producono, molto spesso,
due sentimenti distinti e contrastanti fra loro, ma non
meno fuorvianti sul piano dell’approccio culturale: da
un lato si può essere interpretati come gli speculatori sui
bisogni altrui, dall’altro, come quelli sempre buoni per-
ché, appunto, fanno la carità. Da entrambi questi ap-
procci cerchiamo di tenerci a debita distanza.
Piuttosto quanto si è tentato di mettere in campo so-
no sperimentazioni che si propongono come obiettivo
finale la modifica del senso comune e delle modalità di
intendere i rapporti sociali. Nell’intervenire nel conte-
sto specifico della Masseria Boncuri di Nardò si è strut-
turato un progetto fra le due associazioni che contem-
plasse alcuni tratti culturali: il recupero e la riattualizza-
zione di forme di mutualismo. A partire dal 2010, quasi

84
ogni decisione che riguardasse il campo è stata presa in
forma assembleare ed orizzontale, evitando rapporti
gerarchici. Si è cercato così di introdurre anche fra gli
stessi braccianti, seppur di diverse nazionalità, forme di
solidarietà a partire dalla condizione che essi vivevano.
Durante il nostro peregrinare per campagne ci siamo
resi conto che nessuna delle agenzie sociali classiche si
era occupata di questo fenomeno a partire dall’ottica di
chi la condizione di bracciante la vive sulla propria pel-
le. Solo di recente, ad esempio, le organizzazioni sinda-
cali stanno provando ad intervenire su questo terreno.
Sia nell’organizzazione del campo sia nelle relazioni
fra operatori, volontari e lavoratori abbiamo provato a
invertire il modello. Nell’organizzazione del campo il
rovesciamento si connotava rispetto all’impianto pro-
dotto dalla legge Bossi-Fini, cioè prima si offriva l’acco-
glienza e poi si strutturava il percorso di emersione dal
lavoro nero, attraverso la richiesta dell’ingaggio. La legi-
slazione italiana, invece, richiede almeno formalmente
che l’ingresso in Italia avvenga solo dopo aver firmato
un regolare contratto di lavoro. Quanto ai rapporti fra i
lavoratori e le persone che, a vario titolo, partecipavano
al progetto l’impostazione non è mai stata caritatevole,
ma orientata ad un mutuo aiuto e a introdurre elementi
che consentissero l’autonomizzazione delle persone ri-
spetto, ad esempio, all’accesso ai servizi del territorio.
Nelle stagioni del 2010 e del 2011, abbiamo verifica-
to che una parte relativamente consistente dei lavorato-
ri in arrivo a Nardò era stata espulsa dalle fabbriche del
Nord a causa della crisi. Questo ci ha posto davanti a un
fenomeno che, altrove, avevamo già descritto19, ma con

19. G. Nigro, Il neocafone all’inferno postmoderno. Precari e sovrapproduzio-

85
il quale non avevamo fatto i conti operativi. Come ab-
biamo visto, la scarsa sensibilità dei soggetti sociali
(partiti, sindacati, istituzioni e anche associazionismo
classico) rispetto a questi fenomeni ci ha indotto a im-
maginare di ricercare nel passato alcune delle modalità
con le quali dovevamo agire, sebbene nella nostra espe-
rienza pregressa non vi fossero tracce di queste attività
di tutela dei diritti dei lavoratori. Le organizzazioni sin-
dacali più per inadeguatezza culturale che per volontà
non sembrano avere ancora sviluppato una dimensio-
ne d’insieme delle forme di sfruttamento della mano-
dopera migrante e delle sue intrinseche specificità. In
ogni caso, a prescindere dalle responsabilità, purtroppo
non ci si è accorti di due mercati del lavoro distinti e di-
stanti, comunque paralleli, sempre in conflitto fra loro:
quello degli italiani e quello degli stranieri.
Come mette in luce Pino Ferraris «La mutualità è
espressione di un associazionismo orientato a fronteg-
giare i problemi emergenti nella sfera della riproduzio-
ne più che quelli che si generano nella produzione, es-
sa produce un’associazione per, più che un’associazio-
nismo contro… Essa non tende a rivendicare un
obiettivo quanto piuttosto a praticare l’obiettivo. Lo spi-
rito di cooperazione e le pratiche di autogestione fun-
zionano da contrappeso alle culture del conflitto e alle
pratiche di delega che prevalgono nelle associazioni
contro»20. Tuttavia, nel caso di Nardò la mutualità è ser-
vita anche ad alimentare, in forme indirette, la conflit-
tualità nella produzione, dimostrando che nella crisi

ne, in G. De Vito (a cura di), Tutti giù per terre. Il lavoro in campagna.Ingag-
gio grigio e fabbriche di clandestinità, Levante, Bari 2009, pp. 59-65.
20. Pino Ferraris, Nuovo mutualismo come democrazia radicale, «Progetto
Lavoro», n. 4/2011.

86
delle organizzazioni sociali e politiche possono aprirsi-
spazi di agibilità.

3.2 La cassa di resistenza


Fin dall’inizio dello sciopero i volontari colgono im-
mediatamente che la sua «specificità» ha delle conse-
guenze sulle persone che lo agiscono, cioè sui migranti,
completamente differenti rispetto a uno sciopero di
operai o lavoratori italiani. I lavoratori migranti possie-
dono reti sociali rarefatte che possano sostenerli nei
momenti di massima difficoltà. Per un lavoratore mi-
grante in agricoltura una giornata di sciopero significa
oggettivamente un’auto-espulsione dal ciclo produttivo
e la mancanza, quasi immediata, di risorse per il suo so-
stentamento. A Nardò questo meccanismo ha portato
alla veloce decisione di lanciare una «cassa di resisten-
za» tenendo sempre presente l’orizzonte del mutuali-
smo. Gli scarsi mezzi mediatici a disposizione (reti in-
formatiche e relazioni sociali delle associazioni) per-
mettono di lanciare la raccolta di cibo e di denaro.
Le difficoltà che nascono dalla creazione di una «cas-
sa di resistenza» sono però altrettanto immediate e non
prive di conseguenze per la gestione del campo: l’idea
che l’aiuto, peraltro modesto, sia orientato principal-
mente a chi ha sostenuto lo sciopero non è condivisa da
una parte dei migranti. In questo senso non è da di-
menticare che una parte consistente dei lavoratori pre-
senti al campo aveva già risentito della ridotta capacità
delle aziende di assorbire il normale carico di manodo-
pera, a causa dalla dichiarazione dello stato di crisi della
produzione di angurie.
Sulla vicenda della «cassa di resistenza» ha poi in-
fluito la campagna diffamante, volta a insinuare dubbi

87
sulla reale entità delle risorse raccolte, messa in atto da
alcuni soggetti, esterni al campo. In effetti, per qualche
giorno, si verifica uno straordinario processo di solida-
rietà nei confronti dei lavoratori: a più riprese molti cit-
tadini di Nardò si recano al campo con buste piene di ci-
bo e di generi di prima necessità che distribuiamo alla
sera ai migranti scesi in sciopero. Intanto iniziano ad
arrivare anche i primi, esigui, contributi in denaro. La
presa di parola diretta dei migranti ha contribuito a co-
struire atteggiamenti di affetto nella popolazione locale
e anche nelle organizzazioni sociali, sebbene più sul
piano simbolico che su quello materiale. D’altra parte,
le risorse monetarie che affluiscono nella «cassa di resi-
stenza» ci mostrano come la larga condivisione dello
sciopero va di pari passo con le limitate disponibilità
economiche di chi manda dieci, venti euro per volta.
L’attivazione della «cassa di resistenza» sconta un li-
mite proprio nel rapporto con i lavoratori migrante: i
circa 2000 euro raccolti che sono stati destinati a chi lo
sciopero lo aveva sostenuto hanno creato non poche dif-
ficoltà nel ristabilire, cosa che poi è avvenuta con la qua-
si totalità dei lavoratori, un clima disteso. Nelle sue con-
traddizioni l’esperienza della «cassa di resistenza» ha
aperto una serie di questioni che rimangono ancora sul
piatto: chi si occupa e come della tutela dei migranti, in
quanto lavoratori in un contesto che, come vedremo più
avanti, non è canonico? Come si può contrastare in ma-
niera efficace la subalternità dei migranti nel lavoro pri-
ma ancora che sul campo dei diritti di cittadinanza?
Per noi rimane l’obiettivo di «creare le condizioni per-
ché le persone delle classi subalterne diventino capaci di
sollevarsi e di camminare sulle proprie gambe: questa
antica missione del mutuo soccorso torna oggi a far parte

88
dell’azione per la libertà e la giustizia sociale»21. In questo
senso siamo associazioni, ma non siamo Terzo settore.

4. Autonomia e relazione: l’esperienza di Nardò


come paradigma di rapporto fra politico e sociale

La storia della Masseria Boncuri a Nardò dal 2008 al


2011 è segnata da un confronto molto serrato fra il livel-
lo associativo e quello istituzionale. Tuttavia in questo
confronto l’autonomia reciproca, pur nel rispetto degli
accordi e delle convenzioni, è il tratto distintivo di que-
sta lunga collaborazione orientata al confronto. Si tratta
di una modalità diversa da quella più usuale, quando il
mondo del sociale diventa collaterale a quello politico,
producendo nei fatti una subalternità che nuoce, in ulti-
ma analisi, agli eventuali soggetti che dovrebbero esse-
re i referenti ultimi degli interventi. La logica economi-
ca produce quasi sempre questo collateralismo. Uno
dei tratti problematici, infatti, della logica dei piani di
zona, previsti dalla normativa vigente sui servizi sociali,
è che la gran parte del sociale è piegato alle esigenze di
questa o quella amministrazione, eludendo il fatto che
gli interventi sono finalizzati alle persone che esprimo-
no un bisogno. A Nardò, pur con due diverse ammini-
strazioni, tutto questo non è avvenuto. L’interlocuzione
fra istituzioni e associazioni è stata priva di condiziona-
menti e, quando è occorso, si è messo in campo anche
un confronto stringente, come nel caso delle posizioni
quasi giustificative del fenomeno del sottosalario, pro-
dotto dalla crisi, assunte dal Sindaco nei confronti delle

21. Ferraris, cit. Per maggiori approfondimenti sulla rinascita del mutua-
lismo si veda Pino Ferraris, Ieri e domani, Edizioni dell’Asino, Roma 2011.

89
aziende. Forse questo reciproco riconoscimento basato
sui contenuti è stato uno degli elementi fondamentali
perché la sperimentazione di Boncuri prendesse corpo.
L’intreccio fra politico e sociale è avvenuto, per scel-
ta, dentro la dimensione culturale ed organizzativa del-
le stesse associazioni presenti alla Masseria Boncuri.
Questa scelta nasce da una riflessione che tiene dentro
di sé la crisi sia delle organizzazioni politiche (partiti e
sindacati) sia dei modelli di organizzazioni sociali (as-
sociazioni, Terzo settore). I campi del politico e del so-
ciale oggi devono rimescolarsi ed essere più interdipen-
denti poiché la condizione dei migranti è legata a dop-
pio filo alla politica. La condizione dei braccianti
stranieri e il loro grado di sfruttamento dipendono in
buona misura dalla politica. Di contro, oggi, partiti e
sindacati non sarebbero in grado di affrontare in pro-
prio un intervento risolutivo di questi problemi. In que-
sto senso l’esperienza alla Masseria Boncuri contiene in
sé un ampio intervento politico, nonostante non fosse
questo l’obiettivo di Ft e Bsa che giungono da percorsi
differenti a sviluppare un intervento fuori dallo sche-
matismo tradizionale. Potremmo dire che oggi il socia-
le si deve «politicizzare» e la politica si deve «socializza-
re». Solo così possiamo superare alcuni scogli nel riatti-
vare la società. Come nota Pino Ferraris: «È nella crisi di
questo paradigma che riemerge il mutualismo con le
sue pratiche di solidarietà per la sua volontà di costruire
un presente non rinviando tutto al futuro, il suo sforzo
di crescita delle capacità di realizzare in proprio, infine
il suo rifiuto della passività assistita»22.
Nardò ci ha insegnato che l’auto-organizzazione è

22. Ferraris, Nuovo mutualismo…, cit.

90
una forma di agire contemporaneamente il sociale e il
politico per provare a rompere i vizi di entrambi. Senza
lo sciopero la lotta ai caporali e il varo di una legge che
rende il caporalato un reato penale non sarebbero state
possibili. Tirare per la giacchetta questa o quella inizia-
tiva è dannoso: non ne emergono le contraddizioni più
stringenti, utili a comprendere davvero in profondità i
fenomeni e a stabilire delle azioni che possano produr-
re una trasformazione dell’esistente. Dalla pratica del
mutualismo rinasce anche la possibilità di costruire al-
leanze sociali trasversali alle appartenenze nazionali, in
grado di prendere in carico la questione dell’uguaglian-
za e della precarietà in Italia ed in Europa.

5. Il caporalato degli stranieri: uno scempio lungo


venti anni. Masseria Boncuri un tentativo di risposta

Il fenomeno del caporalato rientra in una delle nu-


merose forme dell’organizzazione del lavoro nero diffu-
se in Italia23. Il caporalato rivolto agli stranieri nasce nei
primissimi anni Novanta, e si fonda sull’intreccio fra
una concezione «premoderna» del lavoro e l’esposizio-
ne agli effetti di precarizzazione del lavoro prodotti dal-
la globalizzazione. Il mercato del lavoro è sostanzial-
mente il precipitato delle norme che regolano l’ingresso
e la permanenza dei cittadini non comunitari nel siste-
ma Schengen. In Italia l’impianto normativo delle leggi
sull’immigrazione segna e condiziona la possibilità di
essere regolari sul livello sia della cittadinanza sia del la-
voro. Per effetto di tale impianto normativo si sono for-

23. Sul tema mi permetto di rimandare a G. Nigro, Il cafone del villaggio


globale, in Milena Rizzo (a cura di), L’agricoltura pugliese fra occupazione ir-
regolare e immigrazione, Manni editori, Lecce 2011.

91
mate in Italia delle zone franche di lavoro nero in agri-
coltura, proprio in corrispondenza dei centri governati-
vi che avevano la funzione di gestire i flussi migratori.
In queste zone, anche come retaggio di pratiche lavo-
rative già presenti, si è sviluppato il caporalato rivolto
agli stranieri. Il caporalato migrante si basa su due ele-
menti fondamentali: l’illegalità del soggiorno e l’assenza
di controlli sulla regolarità dei contratti o degli ingaggi
nei luoghi di lavoro. Se questi due aspetti sono gli ele-
menti normativi su quali si fonda il caporalato agli stra-
nieri, vi è un tratto fenomenologico particolarmente du-
ro a farvi da corollario. Nelle citate zone franche il brac-
ciante straniero vive in una condizione di invisibilità,
poiché lo spazio di vita e quello di lavoro spesso si so-
vrappongono e il mancato contatto con i centri urbani e
la sua forte dipendenza materiale dal caporale è un ele-
mento centrale del rapporto di sfruttamento. Un brac-
ciante che vive nel «ghetto» di Rignano Garganico, in
provincia di Foggia, luogo molto isolato dal centro abita-
to dove dimorano numerosi lavoratori, per accedere a un
ambulatorio medico o per soddisfare qualsiasi altro bi-
sogno, così come per trovare lavoro, è costretto a rivol-
gersi al caporale. Questa dipendenza dal caporale è stret-
tamente legata alla condizione di ricattabilità del lavora-
tore e al fatto che il lavoratore straniero è «esterno» allo
spazio pubblico, che non riconosce la sua funzione né
sociale né lavorativa. Egli non ha particolari legami con il
territorio, anzi si può dire che il territorio in molti casi lo
respinge, pur traendo beneficio dalla sua presenza.
Il fatto che il caporale sia un migrante implica che
l’intero sistema d’impresa che si appoggia a queste mo-
dalità organizzative ha sviluppato particolare attenzio-
ne a due elementi su cui poi strutturare la propria attivi-

92
tà di messa al lavoro della manodopera: l’evoluzione
delle norme che regolano l’immigrazione e la disponi-
bilità massiccia di lavoratori in quelle condizioni di ri-
cattabilità. In molte inchieste giornalistiche si sono
messe in evidenza le pessime condizioni di vita e di al-
loggio dei braccianti stranieri in Italia. In pochi casi, tut-
tavia, è stato sottolineato come queste situazioni rap-
presentano la condizione generale e non l’eccezione. È
a partire da situazioni di isolamento fisico e sociale che
i caporali possono imporre una sorta di tassa di cinque
euro per accompagnare i braccianti sul posto di lavoro
oppure un euro e mezzo per una bottiglia d’acqua men-
tre questi sono sui campi.
Fra il caporalato italiano e straniero esistono delle
analogie, ma quello straniero ha una sua ferinità e mal-
vagità che trascende quanto abbiamo conosciuto nelle
campagne italiane prima dell’inizio del processo migra-
torio: lo sfruttamento dei braccianti stranieri è rafforzato
dal loro essere estranei ai luoghi e alla cultura dei luoghi
dove esso prende forma. L’esperienza della Masseria
Boncuri è stata quindi costruita a partire proprio da que-
sti elementi, cioè rendere visibile la condizione di brac-
ciante e di organizzare, con le scarse risorse a disposizio-
ne, i servizi essenziali che potessero intaccare, almeno
sul livello delle condizioni di vita, la stretta dei caporali.
Per agire, invece, sul livello del lavoro abbiamo costruito
la campagna «Ingaggiami. Contro il lavoro nero».
Il nostro intervento è quindi partito mettendo nelle
condizioni le istituzioni di conoscere il fenomeno per
«costringere» le stesse a prendere atto delle proprie re-
sponsabilità rispetto ai fenomeni di degrado e sfrutta-
mento lavorativo. Dentro questa logica abbiamo lavora-
to per disporre dei servizi pubblici nel campo, come

93
l’ambulatorio medico della Asl. Gli altri servizi quali la
tutela legale, i corsi di lingua e il tentativo di emersione
dal lavoro nero miravano a rompere l’isolamento e a co-
struire spazi di tutela e di autonomia che incrinassero la
sudditanza al caporale. In questo senso non è casuale il
fatto che lo sciopero sia avvenuto a Nardò. Lì per un mi-
grante incontrare al campo un volontario o un delegato
dell’ente locale, o parlare di ingaggio, era sicuramente
molto più semplice e probabile che altrove.

6. Il migrante lavoratore: questo sconosciuto

La debolezza dei migranti nel mercato del lavoro in


Europa, ed in particolare in Italia, è connessa a un siste-
ma normativo, sia europeo sia italiano, che strategica-
mente cerca di renderli subalterni, oltre che alle diverse
concezioni del lavoro, in particolare fra lavoratori africa-
ni ed europei. Il concetto di esternalità proposto da Yann
Moulier Boutang, specifica nel dettaglio quali sono le
strategie degli stati più industrializzati per regolare la
forza lavoro migrante. Egli sostiene infatti che «I mi-
granti internazionali appartengono ad un mercato del
lavoro che abbiamo chiamato mercato esogeno. Ne con-
segue una specificità giuridica e istituzionale: si tratta di
una convenzione di cui occorre rendere ragione. Dalla
scomparsa del libretto di lavoro, il lavoratore salariato
non è soggetto ad alcuna autorizzazione di lavoro e sog-
giorno. Nello stato nazione, questa non è la situazione
del lavoratore straniero»24. In questo senso anche le poli-
tiche governative dei flussi migratori italiani non si dis-

24. Y. Moulier Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato, Manifestolibri,


Roma, 2002, p. 13.

94
costano da questa logica. Da molti anni sosteniamo che
le leggi che regolano l’immigrazione in Italia si possono
definire leggi sul mercato del lavoro. In esse è contenuta
la filosofia del rapporto fra mercato del lavoro e popola-
zione migrante. Di fatto l’idea del contratto di soggiorno
e, prima ancora, dell’ingresso col meccanismo dello
sponsor, sono strumenti normativi che regolano e ren-
dono il lavoratore migrante subalterno e dipendente dal-
la sua condizione giuridica di «ospite». La strategia mes-
sa in atto dai vari governi, a partire dai primi ani novanta,
prevede e si sostanzia con una massiccia opera di clan-
destinizzazione, funzionale a rendere disponibile e ri-
cattabile il lavoratore straniero che giunge in Italia. In
agricoltura il processo di sostituzione della manodopera
italiana a favore di quella straniera è iniziato da circa ven-
ti anni e, fuori dai contesti ufficiali, ha prodotto un siste-
ma che oggi si riproduce con buona pace delle istituzio-
ni, e con l’avallo, forse anche involontario, di partiti e sin-
dacati, che non hanno saputo leggere ed agire questa
trasformazione in modo adeguato.
Collateralmente a questo processo è necessario
comprendere anche come le differenti pratiche lavora-
tive dei migranti presenti nelle campagne italiane agi-
scano la loro influenza. Come ha notato Fabio Viti:
«una nozione di lavoro tutta incentrata sulla forma sto-
rica del lavoro salariato e sui suoi correlati – il valore la-
voro, il mercato del lavoro, il lavoro alienato – non corri-
sponderebbe, se non molto parzialmente, all’ampiezza
delle modalità di esercizio delle attività produttive ri-
scontrabili oggi in Africa»25. In questo senso l’adatta-
mento sul piano della condizione lavorativa proposta

25. F. Viti, Lavoro e apprendistato in Africa Occidentale, in S. Vignato (a cu-

95
dal mondo agricolo italiano, e del Mezzogiorno in parti-
colare, ai lavoratori stranieri si interseca bene con la
condizione di provenienza. La diffusione del lavoro tra-
dizionale e comunitario in molte delle zone rurali del-
l’Africa occidentale può aiutare a comprendere come
mai alcuni dei lavoratori stranieri siano disposti ad ac-
cettare quelle condizioni di lavoro anche in Europa. La
continuità spazio-temporale fra vita e lavoro costituisce
l’elemento caratterizzante del lavoro comunitario e tra-
dizionale in Africa occidentale26. Questo tipo di cultura
contiene in sé anche la collocazione sociale, o meglio il
lavoro che un uomo svolge è figlio dello status sociale
che si ritrova alla nascita: non è il lavoro a determinare
lo status della persona, ma è la persona che svolge il la-
voro in base al suo status. Certamente questa caratteri-
stica non è estensibile a tutti i casi, tuttavia il fatto che
una quota importante di lavoratori stranieri nell’agri-
coltura italiana provenga da zone dove è diffuso questo
tipo di approccio può aiutarci a comprendere l’elevato li-
vello di sopportazione di condizioni lavorative forte-
mente penalizzanti. Come abbiamo verificato a Nardò e
in altri luoghi ad alta presenza di lavoro migrante in
agricoltura e di caporalato è importante inoltre conside-
rare che spesso molti caporali vivono volontariamente
negli stessi casolari abbandonati, senza energia elettri-
ca ed acqua corrente, nonostante siano nelle condizioni
economiche per permettersi un alloggio ed una vita più
dignitosa. Questo aspetto può essere riconducibile an-
che alla costruzione di una credibilità personale rispet-
to agli altri lavoratori e ad avere un maggior controllo

ra di), Soggetti al lavoro. Un’etnografia della vita nel mondo globalizzato,


Utet, Torino 2010, pp. 63-92.
26. Ibidem.

96
sulle persone alle proprie «dipendenze». Tuttavia le
condizioni di vita nei casolari abbandonati e nei ghetti
nelle campagne non sarebbero sopportabili se non den-
tro un quadro di condizioni di lavoro ri-conosciute.
Questa differente impostazione ha offerto il fianco all’o-
pera di precarizzazione del lavoro messa in campo a
partire dalla seconda metà degli anni novanta e agevola-
to lo smantellamento delle garanzie conquistate dai si-
stemi socialdemocratici europei a partire dal secondo
dopoguerra fino alla fine degli anni settanta.
Il corollario di elementi discorsivi legati alla sicurezza
e a sfondo razzista è a nostro avviso funzionale alla ripro-
duzione del modello economico basato sulla subalterni-
tà dei lavoratori migranti. La centralità della sicurezza
nelle politiche governative, che non a caso viene utilizza-
ta in modo bipartisan esattamente dalla metà degli anni
novanta, crea il substrato propagandistico per giustifica-
re le scelte sui provvedimenti che determinano le politi-
che sul mercato del lavoro. La condizione di sospensione
giuridica, o meglio di sottomissione a un sottosistema
giuridico, fa dei migranti stessi una classe in sé. Seppur il
concetto di classe è oggi considerato desueto, nella fatti-
specie si può ritenere applicabile il concetto di «classe in
sé e non ancora classe per sé», dove la percezione di esse-
re una classe da parte dei migranti è disgiunta dalla per-
cezione di sé che hanno i migranti stessi. Tuttavia essi,
come spiega Abdelmalek Sayad, vivono in una sorta di
limbo dove si costruisce lo spazio di ricattabilità.
In questo senso l’esperienza di Nardò rompe molti
schemi. Innanzitutto riporta la condizione dei brac-
cianti alla visibilità, riproponendo il richiamo ad una
volontà di essere lavoratori salariati. È importante, a tal
proposito, ricordare che le richieste degli scioperanti

97
contenevano, fra l’altro, la volontà di eliminare il capo-
rale per avere rapporti diretti con le aziende. Come ab-
biamo visto, infatti, l’informalità delle relazioni di lavo-
ro li poneva in una condizione di lavoro comunitario,
non afferente agli standard normativi europei. Oltre a
questo vi è la rottura, seppur incompleta, con la condi-
zione di limbo poiché i progetti migratori dei lavoratori
sono molto differenti fra loro e la dipendenza con i pae-
si d’origine in molti casi è fortissima.
L’esperienza dello sciopero della Masseria Boncuri a
Nardò ha riproposto un vecchio problema: il rapporto
fra lavoro dipendente in agricoltura e piccola impresa
agricola. Nell’esprimere solidarietà, molti addetti ai la-
vori e una parte dell’opinione pubblica si sono chiesti e
hanno posto la questione della sostenibilità economica
del sistema produttivo agricolo. In molti hanno utiliz-
zato il tema della crisi come sfondo giustificativo delle
condizioni materiali e salariali dei lavoratori agricoli
stranieri. A riguardare un po’ di letteratura sul tema fa
specie ritrovare diverse analogie con le discussioni del-
la sinistra italiana del primo dopoguerra. In particolare
le somiglianze riguardano la differente condizione tra
piccoli proprietari e braccianti27 e lo scontro fra essi. Og-
gi, come allora, il mantenimento nella condizione di ri-
catto dei braccianti è uno dei terreni che ha prodotto la
precarizzazione e lo sfruttamento del lavoro nero. Per
quanto riguarda i lavoratori migranti stranieri in agri-
coltura il loro mancato riconoscimento in quanto sala-
riati, e quindi come categoria sottoposta a tutele, e il lo-
ro inserimento nella logica del lavoro «accessorio», ha

27. Per un approfondimento si veda la ricostruzione di G. Gramegna, Brac-


cianti e popolo in Puglia. Cronache di un protagonista, De Donato, Bari 1976.

98
avuto come effetto che i sindacati e gli enti di difesa dei
lavoratori avessero come referenti quasi esclusivi i pic-
coli proprietari terrieri. Questo, in particolare nell’Italia
meridionale, nonostante una tendenza generale di ri-
torno al latifondo in nuove forme, si è prodotto anche
grazie alla estrema parcellizzazione delle proprietà. Da
questo punto di vista l’esperienza di Nardò segna un
punto importante: dopo tanti anni un gruppo di brac-
cianti, ancorché stranieri, rende visibile a tutti che i
braccianti esistono ancora.

7. Uno sciopero, molti scioperi

Il più lungo e importante sciopero di braccianti stra-


nieri in Italia nasce dentro un contesto in cui il capora-
lato è radicato da circa trenta anni. Numerose sono sta-
te le letture dell’evento: quello vissuto e partecipato dai
lavoratori; quello visto dai sindacati; quello interpretato
dalla popolazione locale; quello rappresentato dai me-
dia e infine lo sciopero visto dall’interno delle associa-
zioni che sostenevano i lavoratori. Queste interpreta-
zioni in molti casi non corrispondono l’una con l’altra.
Sulla base della nostra esperienza diretta con i lavo-
ratori fin dal primissimo blocco stradale, abbiamo deci-
so che lo sciopero sarebbe stato quello dei lavoratori,
non il nostro. In questo senso abbiamo accompagnato i
lavoratori nelle loro istanze, anche quando alle tre del
mattino decidevano di presidiare gli ingressi alla Mas-
seria Boncuri di Nardò per evitare che i caporali vi fa-
cessero ingresso. È lì che abbiamo capito che ogni cate-
goria indotta, oltre ad essere una forma di strumentaliz-
zazione, sarebbe stata inefficace ed avrebbe risucchiato
l’importanza di una vicenda di questa portata. Per que-

99
sto non abbiamo voluto «spingere» gli scioperanti ver-
so questa o quella scelta. Chi lo ha fatto oggi risente del-
le conseguenze di dover fornire delle risposte che non è
in grado di dare.
Le altre interpretazioni, per quanto costruite anche
in buona fede, non hanno consentito di comprendere la
complessità di una situazione che ancora oggi non ha
terminato di dispiegare i suoi effetti. Nel caso dei media,
ad esempio, che pure generalmente hanno reso un gran
servizio facendo emergere la questione, essi hanno ri-
cercato i leader ed hanno provato ad inseguire la logica
dello scoop, dimenticando le dinamiche dello sciopero e
non cogliendo le forze determinanti che lo hanno soste-
nuto. Molte delle narrazioni costruite, infatti, non corri-
spondono alla realtà, e hanno intaccato quel processo di
protagonismo messo in atto dai lavoratori migranti.
Nelle contraddizioni prodotte dallo sciopero vi è an-
che il fatto che alcuni dei protagonisti sono rimasti isola-
ti dal mondo agricolo che, in ultima analisi, è l’unico che
riesce a fornirgli un reddito; essi in assenza di vere tute-
le e sostegno vivono oggi in una condizione di paura e di-
sagio. Lo sciopero visto e analizzato dai soggetti esterni
al campo ha comunque rappresentato l’apertura di un
ampio spazio di dibattito e la possibilità di conoscere un
mondo parallelo del tutto sconosciuto alla pubblica opi-
nione. Oggi, per noi, l’obiettivo è di costruire un’ampia
rete di intervento in questo settore che possa rafforzare
ciò da cui siamo partiti quando abbiamo pensato di rea-
lizzare l’esperienza di Boncuri: la lotta all’isolamento so-
ciale e fisico dei lavoratori migranti e l’attivazione di pra-
tiche che abbiano come effetto che ognuno dei soggetti
coinvolti faccia al meglio quanto che gli spetta per ruolo
e competenze. Fino ad oggi questo non è avvenuto.

100
Masseria Boncuri:
sciopero e contraddizioni

Brigate di solidarietà attiva


(a cura di Maria Desiderio e Nives Sacchi)

Questo capitolo è frutto della scrittura collettiva di di-


versi volontari che hanno partecipato alla gestione del
campo di Nardò. Alcuni facevano già parte delle Bsa, al-
tri hanno voluto contribuire al progetto pur provenendo
da esperienze e realtà differenti. L’apparente collage di
impressioni e stili narrativi diversi nasce dalla volontà
di rendere la complessità dell’intervento attraverso l’ete-
rogeneità dei punti di vista che l’hanno attraversato.

1. Zona industriale, provinciale per Lecce. Arrivare


al campo, oltrepassare un confine

Uliveti, terra rossa, capannoni e benzinai; campi di


angurie e pomodori, biciclette sbilenche sul ciglio della
strada, un vento che sa di Africa. Masseria Boncuri, ten-
de blu nel piazzale di fronte, su uno striscione di cinque
metri la scritta:«Ingaggiami contro il lavoro nero». Afri-
cani di ogni nazionalità popolano il campo di accoglien-
za per braccianti, chi cammina lungo la strada portando
un’anguria, chi riempie una bottiglia dalla cisterna del-
l’acqua potabile, chi trascina un materasso cercando

101
l’ombra degli alberi. Un impatto surreale, la sensazione
di varcare i confini di un microcosmo, un piccolo para-
digma di marginalità e compromesso, di essere cata-
pultati dentro una realtà parallela – a pochi chilometri
dalle più belle spiagge pugliesi gremite di turisti – fatta
di pantaloni sporchi di terra, mani rovinate dal lavoro,
sguardi di attesa.

Braccianti stranieri, tunisini, marocchini, sudanesi,


costretti a vivere in condizioni di estrema emarginazio-
ne sociale, sottoposti a un capillare sfruttamento sedi-
mentato da ormai vent’anni. La maggior parte di loro
conosce questo posto grazie al passaparola tra amici e
parenti: «a Nardò c’è lavoro». Ma non tutti sanno davve-
ro cosa li aspetta una volta arrivati. Scoprono in fretta
che prima di lavorare dovranno aspettare a lungo, cono-
scere i capisquadra, attendere l’arrivo dei furgoncini dei
caporali. Scoprono che dovranno essere loro a pagare i
caporali, per essere portati dalla Masseria nei campi e
per mangiare, per bere. Scoprono che non ci sono posti
letto per tutti dentro quelle tende blu, che dovranno fare
la doccia con l’acqua fredda e che per mangiare, la sera,
dovranno indebitarsi con i connazionali che gestiscono
le cucine.

Vivere, vedere con i propri occhi giorno dopo giorno


cosa voglia dire essere un bracciante straniero in Italia
crea fratture interne, mette in crisi il senso comune, ob-
bliga a riscrivere l’equilibrio di ogni singolo «volonta-
rio» che si divide tra turni di gestione del campo ed
emergenze. La violenza delle condizioni di vita dei mi-
granti e l’essere lì, immersi in una comunità così lonta-
na, tra polvere, tende, giacigli di fortuna, imprevisti,

102
troppo spesso disperata rassegnazione per un destino
che semplicemente si accetta perché non si ha scelta, fa
vacillare il senso di giustizia.

I militanti che si alternano di settimana in settimana


arrivano al campo e si trovano in una condizione di im-
mersione, ventiquattro ore su ventiquattro, dentro un
fenomeno complesso, difficile da vivere e ancora più
difficile da raccontare, da portare fuori dalla Masseria,
da testimoniare nelle proprie realtà di appartenenza.
Vivere Nardò vuol dire sospendere la propria concezio-
ne di tempo, vuol dire adattarsi ad un tempo altro, fatto
di lunghe attese alternate ad ore frenetiche e piene di
imprevisti. Ma Nardò non rappresenta solo Nardò, si
configura come paradigma e specchio di un sistema più
ampio sia dal punto di vista della produzione e distribu-
zione delocalizzata dell’agricoltura italiana, sia rispetto
allo sfruttamento e alla precarietà del lavoro nel conte-
sto generale della crisi economica globale.

Si arriva e si parte cambiati. Si arriva con il proprio


bagaglio di esperienze, di libri letti, con la personale
concezione di militanza e volontariato. Si riparte con il
caos dentro, ma con la consapevolezza che la logica del-
la militanza «ordinaria» è stata stravolta e messa in di-
scussione. Si arriva con un’idea vaga di quello che sarà e
si riparte sapendo che quelli vissuti non sono stati gior-
ni di volontariato ma di pratiche politiche, i cui risultati
visibili non saranno immediati. Nel mezzo, si lavora
nella speranza di poter fare la differenza, sapendo di
contribuire individualmente ad un progetto collettivo
complesso, articolato, sperimentale e difficile.

103
2. Scardinare l’antirazzismo etico: accoglienza
per lavoratori stagionali

L’impatto con la dimensione della miseria e dello sfruttamento è


forte, negli occhi di questi uomini la sofferenza è come sospesa
in una condizione asfittica, l’impressione è quella di uno scatto
che rimane immobile tra domanda di dignità e cronicità della
condizione. Il sud Italia è la trincea, è il punto più esposto ai bom-
bardamenti della crisi di una vasta zona euro-mediterranea. Le
macerie prodotte dall’aggressione neoliberista degli ultimi venti
anni qui sono più visibili perché le fondamenta dello stato socia-
le, dei servizi e della cultura e pratica diffusa dei diritti sono sem-
pre state più fragili. Lo spettro ampio che descrive la cosiddetta
zona grigia che sta tra lavoro atipico, parasubordinato e lavoro
nero qui assume le sembianze mostruose della schiavitù più fe-
roce, non è esagerato affermare che la condizione di un braccian-
te pugliese coevo di Giuseppe Di Vittorio fosse nettamente mi-
gliore della condizione dei braccianti migranti. Sono sceso a Nar-
dò con la convinzione di poter costruire un pezzo di società
migliore a partire da azioni pratiche, credo che l’alternativa ad
una società malata non possano essere solo declinate, ma vadano
agite nel quotidiano.
(Oscar Monaco, Bsa Perugia)

L’idea di un campo di accoglienza per lavoratori sta-


gionali stranieri, in cui portare avanti il tentativo scivo-
loso di emersione del lavoro nero, trova la sua origine
nell’approcciarsi al tema della migrazione partendo dal
lavoro. Il lavoro diventa il nodo nevralgico, teorico e pra-
tico di un mondo sommerso, con le sue leggi non scrit-
te sociali ed economiche, che costringe a rimettere in
discussione i propri punti fermi, le proprie convinzio-
ni. A partire dall’interpretazione della legge Bossi-Fini

104
come una normativa organica sul lavoro – che di fatto
istituisce il reato di disoccupazione – e non tanto una
legge sulle politiche migratorie, la costruzione di un in-
tervento pratico che coniughi accoglienza degna ed
emersione del lavoro nero porta ad inserirsi alla base
delle contraddizioni del fenomeno stesso, superando la
concezione dei migranti come categoria di per sé biso-
gnosa di assistenza. Proprio a causa dell’istituzionaliz-
zazione del legame tra permesso di soggiorno e contrat-
to di lavoro, pensare un intervento pratico concreto sul
tema dell’immigrazione costringe a ragionare sul piano
del lavoro prima che su quello del diritto di cittadinan-
za. Così facendo l’intervento alla Masseria Boncuri si le-
ga alle lotte degli operai in cassa integrazione, aspetti di-
versi di uno stesso contesto generale di sfruttamento ed
emarginazione sociale dentro cui attivare pratiche di
autorganizzazione dal basso.

Nardò, Gennaio 2010. Ha inizio una sfida durissima: accettia-


mo come Bsa la collaborazione con Finis Terrae, ha inizio la
campagna «Ingaggiami contro il lavoro nero». Nessuno di noi
ha avuto mai il dubbio di tirarsi indietro. Tante preoccupazioni,
molta consapevolezza di aver dato inizio ad un progetto più
grande di noi, ma sulla paura di non essere all’altezza ha vinto
l’incoscienza dell’entusiasmo di chi non ha voglia di arrendersi,
di chi ci crede veramente. Nessuno di noi poteva immaginare
cosa si sarebbe riusciti a fare; si ipotizzavano collaborazioni, si
contavano mezzi, competenze e disponibilità; si ascoltavano i
racconti dei compagni del luogo, si supponevano ostacoli; si
parlava dei rischi che avremmo corso, di sfruttamento e di gran-
de distribuzione, di lavoro nero e di diritti, di Libertà e di bagni
da costruire, materiali da reperire e di una coscienza di classe da
far emergere, fianco a fianco… Ogni giorno abbiamo costruito

105
un pezzetto di questo progetto, ogni giorno abbiamo fatto un
passo avanti per l’unica lotta possibile contro il lavoro nero e lo
sfruttamento nel nostro Paese.
(Maddalena Benanchi, Bsa Toscana)

In netta contrapposizione non solo organizzativa


ma anche strutturale con le tradizionali forme di acco-
glienza più o meno istituzionali, prima di tutto quello
della Masseria Boncuri è un «campo aperto». Altre
strutture, che prevedono una netta delimitazione degli
spazi interni ed esterni, funzionale alla regolamenta-
zione degli accessi, stabiliscono in questo modo un cri-
terio di demarcazione tra aventi e non aventi diritto e si
costituiscono come servizio specifico rivolto ad un seg-
mento isolato di potenziali utenti. Così facendo si pre-
determinano categorie, alimentando la disgregazione
del fenomeno migratorio in fasce o aree che risultano
meglio gestibili e controllabili ma che restano scollate
tra loro entro un quadro complessivo frammentato e
schizofrenico. Intorno ai confini non delineati della
Masseria Boncuri il cielo non è tagliato a metà dal filo
spinato, non ci sono stanzoni adibiti a mensa in cui ven-
gono somministrati pasti preconfezionati e asettici,
nessuno controlla le entrate e le uscite, al campo entra-
no ed escono persone libere. Questo crea contraddizio-
ni, confusione, aggregazione, autorganizzazione.
Le cucine autogestite dai migranti dietro la masseria
sono in parte il modo per ricreare comunità, un luogo
dove la propria cultura di appartenenza trova spazio, si
inserisce nella condizione caleidoscopica della commi-
stione culturale e allo stesso tempo sono il simbolo di
cosa voglia dire agire sul fenomeno dall’interno del fe-
nomeno stesso. All’autogestione delle cucine è legata le

106
ricerca delle giornate di lavoro, i caporali le controllano,
quasi mai direttamente, per farlo si servono degli «affa-
risti del cibo», uno dei tanti tasselli che si aggiunge al
capillare meccanismo attraverso il quale il sistema del
caporalato agisce. Le cucine sono anche scenario di di-
namiche sociali, legate alle diverse culture, sono il filo
sottile di equilibri tra gruppi di migranti, divisi spesso
per nazionalità o religione. Sono anche punti di contat-
to con l’esterno, sono i luoghi di ritrovo dove oltre al ci-
bo si condividono informazioni (seguitissimi erano i te-
legiornali in lingua araba).
Il legame tra cibo-lavoro-sfruttamento è lì, in eviden-
te contraddizione con lo striscione che troneggia all’in-
gresso di Boncuri «Ingaggiami contro il lavoro nero».
Eppure questa contraddizione ci permetteva di capire di-
namiche che altrimenti sarebbero rimaste incomprensi-
bili, comprendere l’ampiezza e l’articolazione del feno-
meno ha significato assumere il concetto stesso di con-
traddizione. La scelta di non recintare lo spazio
circostante la masseria e di non effettuare controlli all’in-
gresso nasce anche per includere il più possibile le dina-
miche sulle quali cercavamo di intervenire, oltre che dal
tentativo di evitare di definire criteri di privilegio per l’u-
sufrutto dei servizi presenti, che rimangono così a dispo-
sizione di tutti, ma anche dall’esigenza di predisporre
spazi congeniali all’autorganizzazione e all’autogestione
del campo, limitando il più possibile meccanismi di con-
trollo e regolamentazione passivizzanti e impositivi.
La volontà di essere altro da un campo comunemen-
te inteso, ha inevitabilmente comportato l’assunzione
di contraddizioni interne e difficoltà di gestione, dovute
anzitutto all’eterogeneità culturale, religiosa e sociale
del gruppo di braccianti presenti. Spesso le tende veni-

107
vano occupate da squadre già consolidate di sei lavora-
tori della stessa nazionalità; molte altre invece, sovraf-
follate, erano occupate da gruppi misti improvvisati e
meno organizzati. Nonostante l’accoglienza fosse rivol-
ta ai lavoratori, al campo stazionavano anche migranti
disoccupati – quest’anno più dell’anno scorso, effetto
diretto della crisi economica. Così, tra i braccianti vi era-
no stagionali con esperienza, lavoratori di altri settori
che si reinventavano operai agricoli, richiedenti asilo,
tunisini col permesso umanitario provenienti dal vici-
no campo di Manduria. Quale commistione di aspetta-
tive, obiettivi e condizioni si creava dentro un mosaico
del genere? Accadeva che il bracciante abituato ad altri
contesti nel sud Italia fosse sorpreso e grato dei servizi,
seppur limitati, di cui poteva usufruire a Boncuri, men-
tre chi si approcciava per la prima volta ad una situazio-
ne del genere, incredulo e ferito dalle condizioni in cui
si trovava a vivere e lavorare, trovasse in noi la contro-
parte di sfogo a cui rivolgere la propria rabbia e indigna-
zione. Oppure, accadeva che chi era arrivato da poco in
Italia, la mente ancora intrisa di immagini paradisiache
del fantomatico benessere occidentale, si aggirasse dis-
orientato nel campo senza trovarvi senso. Altri, prove-
nienti dalle fabbriche in crisi del nord, venuti al campo
convinti di trovare lavoro, riuscivano a dar forma alla
propria frustrazione confrontandosi con noi su contrat-
ti e disoccupazione, con una consapevolezza più lucida
che assumerà un ruolo significativo e fondamentale du-
rante lo sciopero. Infine differenze occupazionali im-
portanti si registravano in base alla nazionalità di prove-
nienza: da un lato i braccianti tunisini e nordafricani
maggiormente impiegati nella raccolta delle angurie
(attività più redditizia ma in grave crisi e con poche ri-

108
chieste), dall’altro lato braccianti sub-sahariani in attesa
della raccolta dei pomodori, che offriva più posti di lavo-
ro ma anche maggior sfruttamento e salari più bassi.

Scendendo a Nardò già dal pullman vedevo campi di pomodori


con in mezzo i braccianti e dall’altra parte della strada distese di
pannelli solari. Quando al campo poi ho saputo che quelle stesse
braccia che sollevavano i cassoni dei pomodori avevano piantato
i pannelli, quell’immagine iniziale mi è sembrata la sintesi per-
fetta del sistema Vendola, di quel green capitalism che dà una
mano di bianco allo sfruttamento mediante forme retoriche vuo-
te. (…) Il punto di forza del progetto è stato l’essere fisicamente al
centro della mobilitazione; la creazione del campo ha creato
quella possibilità di ricomposizione e di unificazione di cui si
sente la mancanza in tanti altri posti (dalle fabbriche, alle scuole,
etc.) e che ha portato allo sciopero.
(Claudio Ceruti, centro sociale Pacì Paciana Bergamo)

Dentro la complessità di un contesto del genere, le


pratiche diventano il modo di costruire un linguaggio
politico nuovo e in perenne evoluzione, che si scontra
con un quotidiano totalizzante. Quasi non si trova il
tempo per l’empatia, per le conflittuali emozioni che at-
traversano un luogo che è anche un non luogo, in cui
convergono esperienze eterogenee. Si investe di re-
sponsabilità il concetto stesso di solidarietà, attiva, poi-
ché volta ad attivare processi di autocoscienza ed eman-
cipazione. Così a Boncuri non ci si limita a fornire ser-
vizi ma ci si occupa di diritti, si fa politica a partire dalla
materialità dei bisogni fondamentali delle fasce più de-
boli, a partire dall’esserci fisicamente, sul campo, den-
tro un’emergenza che negli anni ha assunto un caratte-
re ordinario, quasi «normale», in cui invece si vuole av-

109
viare un processo di trasformazione radicale. Se è la
condizione che fa l’uomo, allora per quanto difficile
quella condizione deve essere esteriorizzata, resa co-
sciente e spogliata dal buonismo caritatevole di chi
compatisce e supplisce senza comprendere quanto
questo possa essere dannoso.

Ho sempre osservato i vari progetti che normalmente vengono


fatti nei vari territori da altre realtà partecipandone attivamente,
ma mi sono sempre reso conto che oltre all’assistenzialismo so-
ciale non si è mai andati. Preferirei chiamare «costruzione reale
di cambiamento tra pari» le attività delle Bsa dal momento che il
nostro punto di forza è il voler cambiare le cose in maniera intel-
ligente e partecipata, questo spiega perché negli interventi che
fanno le Bsa la partecipazione esterna di altre realtà di movimen-
to è massiccia. Proporzioniamo le problematiche dello sfrutta-
mento sul lavoro e del declassamento dei diritti a noi stessi in
maniera da comprendere ed esprimere le risoluzioni politiche in
condizioni di partecipazione auto-organizzata.
(Giuseppe Grimolizzi, Bsa Abruzzo)

Siamo scesi al campo con le nostre forze, mettendo


insieme i frutti di pratiche di autofinanziamento e rac-
colte di materiali attivate a Nardò e nei territori delle
singole BSA, strumenti di un’autorganizzazione che è
prima di tutto interna alla struttura stessa delle BSA e
che si rifletteva di conseguenza nella gestione logistica
del campo. I mezzi a disposizione sono tuttavia limitati
rispetto alla drammatica complessità del contesto in cui
ci siamo trovati ad operare, a partire dalla disponibilità
di posti letto di gran lunga insufficiente rispetto alla ri-
chiesta, che rende difficoltoso affrontare la situazione
di sovraffollamento del campo.

110
Un giorno ero di turno all’ufficio accoglienza ed entra un ragazzo
africano. «Mi hanno detto che qui assicurate una branda e un po-
sto in tenda se vi consegno una copia del mio permesso e della let-
tera d’ingaggio, è vero?» chiede il giovane africano. «È vero, ma
purtroppo per il momento siamo al completo, abbiamo più perso-
ne di quelle che potrebbe ospitare il campo», gli rispondo con un
sorriso amaro. «Ci hanno promesso altre tende, se vuoi aspettare
qualche giorno magari qualcosa si potrà fare, che ne dici?» ag-
giungo. «Siete poco preparati» afferma il giovane, «se lo avessi sa-
puto prima di venire, mi sarei organizzato diversamente» mi dice
uscendo dal piccolo ufficio portando con sé i propri documenti.
Sono rimasto di sasso, ma la cosa mi ha fatto riflettere non poco.
Tanto per cominciare, il campo c’è e i braccianti sanno dove anda-
re per chiedere aiuto. Il posto in tenda per 280 persone era garan-
tito, le docce, i servizi igienici, l’ambulatorio, l’acqua potabile, la
scuola di italiano e persino la moschea servivano concretamente
tutti i 500 presenti. Per non parlare dei vari aiuti, trasporti agli
ospedali, consulenze di tipo legale, amministrativo, sociale e
quando serve traduzioni e mediazioni culturali. Insomma, rispet-
to al nulla degli anni passati qualcosa si è mosso e si sta muoven-
do nella giusta direzione. Allora perché quel giovane non apprez-
zava lo sforzo di tanti volontari che lavorano per dare un minimo
di sollievo a lui e ai suoi compagni? Potrebbe essere che siamo tut-
ti abituati a vedere subito le cose negative e quindi pretendere la
perfezione sempre dagli altri? O forse perché c’erano cose che si
potevano fare diversamente perché il campo funzionasse meglio?
Non credo di poter dare una risposta, forse è un po’ tutte e due le
ipotesi. Questo episodio mi ha insegnato che tutto dipende da
quale punto si guardano le cose. Basta mettersi nei panni degli al-
tri per vederle da altre prospettive. Nulla è scontato.
(Alaa Nasser, Bsa Pavia)

Un progetto di emancipazione e autorganizzazione

111
dei braccianti dal nostro punto di vista si pone l’obietti-
vo a lungo termine di rendersi in futuro non più neces-
sari. Partendo dal presupposto che la questione dell’ac-
coglienza perderebbe di rilevanza se il salario previsto
dal contratto provinciale fosse adeguatamente corrispo-
sto, a fronte dell’inottemperanza da parte delle aziende
e del conseguente disagio sociale fortissimo, il coinvol-
gimento delle istituzioni locali consentiva di uscire an-
cora una volta dalla logica dell’ente di assistenza privato
che non incide sul problema in un’ottica trasformativa.
L’ambulatorio medico rappresenta un esempio concre-
to in questo senso: da un lato un servizio pubblico che si
adegua alla specificità della richiesta territoriale con l’i-
stallazione di un presidio dell’Asl direttamente dentro
la Masseria; dall’altro lato le nostre attività di accompa-
gnamento in ospedale e avvio delle pratiche per libretti
e tessere sanitarie, che facilitano l’accesso al servizio sa-
nitario nazionale garantito per legge. I mezzi disponibi-
li di Comune, Provincia e Regione, pur rappresentando
un importante punto di partenza, si sono rivelati limita-
ti (mancanza di acqua calda nelle docce, disponibilità ri-
dotta di posti letto, difficoltà di accesso allo stesso am-
bulatorio medico per via di lunghissime liste d’attesa).
Conseguenti tensioni interne al campo andavano a fo-
mentare una guerra tra poveri già fortemente in atto
rendendo il nostro intervento complesso e faticoso.

Ho pensato da subito che bisognava essere il più umile possibile


realizzando costantemente attimo per attimo quello che succe-
deva, per poi proporre delle risposte-risoluzioni responsabili,
utilizzando tutto il bagaglio appreso negli anni di attivismo so-
ciale e politico.
(Giuseppe Grimolizzi, Bsa Abruzzo)

112
Agire sul fenomeno partendo dal fenomeno, nel ca-
so della Masseria Boncuri comporta immergere le pro-
prie pratiche in un contesto materiale specifico, signifi-
ca mettere a disposizione la militanza di ogni singolo
individuo che pur mantenendo la propria individualità
si scioglie in un agire collettivo. Un agire condiviso che
partendo dalla stessa chiave di lettura, costruisce un
percorso politico e allo stesso tempo lo decostruisce,
per costruirlo di nuovo, giorno dopo giorno, mettendo
costantemente in relazione i principi ispiratori alla base
dell’essere presenti sul campo e nel campo, con la mu-
tevole e sfaccettata contingenza del reale. Cercare di ap-
plicare categorie politiche pure in un contesto così pro-
fondamente sporcato di materialità, porterebbe ad un
inevitabile scollamento dalla realtà stessa che si cerca di
cambiare. Il tentativo di sperimentare un linguaggio
nuovo porta a vivere contraddizioni interne; il contesto,
lo sfondo socio-economico in cui ci si trova ad operare,
incide a volte determinando le modalità di azione nella
gestione dei fenomeni. Calarsi in questa materialità
piena di sfumature, a volte così difficili da cogliere, ridà
senso alla politica. La decostruzione e la ricostruzione
costante del quotidiano diventa così duplice: interna a
chi si mette in discussione in prima persona e lo fa
agendo da singolo in una collettività alla quale il suo agi-
re appartiene; esterna verso le comunità con cui ci si re-
laziona, i braccianti che a loro volta rispondono alle pro-
prie comunità di appartenenza.

La mia prima impressione quando sono arrivato al campo è stata


che regnasse la completa disorganizzazione. Un impatto iniziale
che poi ho messo in parte in discussione, quando ho capito co-
m’era la realtà, ho capito che c’era un livello di imprevedibilità

113
quotidiana che rendeva difficile l’organizzazione. Era una disor-
ganizzazione connaturata al tipo di realtà. L’altro aspetto che mi
ha colpito era la dimensione fortemente umana: per chi non si
occupa costantemente di immigrazione c’è l’impatto di avere a
che fare con la vita delle persone nei loro aspetti più crudi e mate-
riali, cosa che solitamente non hai. In ultimo la situazione forte-
mente contraddittoria nell’accezione più pura della parola: la
condizione sociale drammatica determinava esplosioni di irra-
zionalità, rabbia e sopraffazione fortissima, così come a volte si
verificavano episodi di forte umanità, solidarietà, intelligenza.
Alternanze che rappresentavano due estremi.
(Francesco Purpura, centro sociale Z.A.M. Milano)

Singole isole fatte di persone che convivono, condi-


videndo gli stessi spazi, le stesse condizioni di sfrutta-
mento e di indigenza, creano inevitabilmente una co-
munità più allargata, una «società» in scala ridotta. So-
cietà fantasma, messa fuori, esclusa ed emarginata
dall’ordinaria società civile poiché considerata meno
avente diritto. L’equilibrio precario nel mantenere pace
sociale e conflitto sociale è la cornice delle pratiche svi-
luppate alla Masseria Boncuri. L’essere considerati stra-
nieri dagli stranieri in una dualità complessa di senti-
menti e rivendicazioni, la diffidenza che il tuo essere
cittadino italiano, occidentale e di conseguenza privile-
giato, suscita in chi vive costantemente in una condizio-
ne di emarginazione ed esclusione, è forse la contraddi-
zione più profonda e totalizzante che si vive e al tempo
stesso è la difficoltà che maggiormente stimola l’azione,
la propulsione volta al cambiamento.

Essere di nuovo presente al Campo dopo aver conosciuto le di-


namiche di una degna accoglienza e aver lavorato per la costru-

114
zione di uno stato di consapevolezza dei braccianti ha significa-
to per me una forte spinta motivazionale… rara in questo mo-
mento sociale e storico; l’unica in grado di stimolare un lavoro di
aggregazione tra compagni e lavoratori sfruttati. Nessuno dei
volontari della Brigata ha una vita senza precarietà, senza il pro-
blema di fare i conti alla fine del mese. Se centinaia di volontari
decidono di spendere il loro tempo al fianco di migranti sfrutta-
ti, mal pagati, e in fine lasciati senza la possibilità di lavarsi e dis-
setarsi, è perché credono non solo nella sbandierata Solidarietà,
ma piuttosto in una lotta di classe che deve tornare a ripartire dal
basso, dagli ultimi della scala sociale del nostro Paese. La pre-
senza di tanti volontari mossi dalle stesse motivazioni di eman-
cipazione dei migranti lavoratori, significa creare una rete di
unione e di scambio nelle lotte tra pari. La dimostrazione che in
un Paese fortemente in difficoltà si riesca comunque a creare
momenti di forte mobilitazione come alla Masseria, è una delle
azioni cardini che consente di pensare e di credere che la crisi si
può combattere anche così. Forse, solo così.
(Anna Maria Sambuci, Bsa Tuscia)

3. La crisi delle angurie, il tempo dell’attesa

La stagione si è aperta con la crisi delle angurie la


cui raccolta è quella che maggiormente occupa gli sta-
gionali nel territorio di Nardò, oltre a quella dei pomo-
dori che inizia a luglio. Le aziende hanno protestato a
gran voce chiedendo fondi all’Unione europea: la con-
correnza di Spagna e Grecia, unita ad una ipotetica
paura del batterio killer, ha messo quest’anno fuori
gioco le aziende italiane assoggettate ai prezzi del
mercato internazionale. Quanto la crisi fosse reale o
almeno in parte costruita è sicuramente un piano d’a-
nalisi scivoloso, sta di fatto che le angurie per la gran

115
parte sono rimaste a marcire nei campi, sta di fatto che
la maggior parte dei lavoratori migranti tunisini pre-
senti alla masseria Boncuri sono rimasti disoccupati.
Si è parlato poco di loro, tuttavia, ponendo invece l’ac-
cento sulle difficoltà dei produttori e sulla crisi econo-
mica, al punto di arrivare ad un’interrogazione parla-
mentare – la prima – per «scongiurare una ulteriore
penalizzazione del comparto agricolo salentino e Pu-
gliese». Quei duemila ettari di angurie che rischiava-
no di esser lasciate a marcire nei campi, dal nostro
punto di vista equivalevano prima di tutto a cinquanta-
mila giornate lavorative perdute, ossia a centinaia di
braccianti che sarebbero rimasti senza lavoro e ad im-
portanti ripercussioni sia sul versante del disagio so-
ciale sia rispetto all’incremento della ricattabilità e del-
lo sfruttamento del lavoro nero.
La disoccupazione ha infatti causato una serie di
problematiche che si sono intersecate tra di loro. In pri-
mo luogo la crisi ha alimentato fortemente il fenomeno
del caporalato rendendolo più feroce: soprattutto in un
primo momento, i braccianti trovavano molta più diffi-
coltà a chiedere i contratti rispetto all’anno precedente;
inoltre la diminuita richiesta di impiego, a fronte di una
eguale se non maggiore disponibilità di forza lavoro, ha
prodotto un ulteriore abbassamento dei salari e una
sempre minore tutela dei diritti dei lavoratori, con un
incremento di utilizzo di lavoro sommerso. Allo stesso
tempo un quadro del genere ha reso più complesso il la-
voro di emersione che ci eravamo proposti all’interno
della «Campagna Ingaggiami»: lanciare una campagna
simile in un momento in cui l’attenzione pubblica è
concentrata sulla crisi sarebbe risultato quantomeno
anacronistico se non inutile dal punto di vista della sen-

116
sibilizzazione sui diritti dei lavoratori, data la condizio-
ne di disoccupazione maggiormente diffusa.

Data la crisi e la conseguente assenza di lavoro mi sono molto


preoccupato; c’era agitazione, serpeggiava malcontento, molta
gente stazionava senza prospettiva nel campo… Il tutto lasciava
presagire una difficile gestione rispetto allo scorso anno.
(Gennaro Loffredo Bsa Lazio)

Questa crisi locale andava poi ad aggiungere peso a


quella nazionale, già evidente anche Nardò: molti dei
lavoratori presenti alla masseria venivano dalle fabbri-
che del nord, anch’esse in crisi, rendendo così maggior-
mente eterogenea la composizione sociale dei braccian-
ti e implementando la domanda di impiego dentro una
generale diminuzione di offerta.

A Boncuri, quest’anno in particolare, il tempo sembra dilatarsi in


una gigantesca bolla di difficoltà di convivenza e infinita attesa,
sopravvivenza e attesa, fame e attesa, raramente lavoro, ma poco
e per pochi. Le angurie marciscono nei campi e i migranti non
hanno soldi né per mangiare né per andarsene altrove. Le strut-
ture e i servizi del campo sono fortemente inadeguati rispetto al-
le necessità e ai numeri, ma il Comune non ha soldi, la Provincia
non ha altre tende da mettere a disposizione. I caporali hanno
iniziato a fare ingaggi falsi: con quello di un bracciante regolare
ne fanno lavorare altri dieci irregolari, a 3,50 euro l’ora, ma nei
campi non ci sono controlli. Ci sentiamo isolati, impotenti, ri-
succhiati dentro il vortice di imprevisti quotidiani, dalla rissa
sanguinolenta per il furto di una bicicletta ai passaggi rocambo-
leschi per riuscire a prenotare una Tac dopo un infortunio sul la-
voro. I problemi organizzativi, i soldi che non bastano mai, la
tensione tra i migranti, il difficile dialogo con le istituzioni, ogni

117
giorno ci sentiamo in bilico tra l’idea di un progetto dirompente e
innovativo e le continue complicazioni che ne minano le possibi-
lità di realizzazione.
(appunti dal campo)

Le barriere linguistiche, la sproporzione di numeri


tra militanti e braccianti, le incombenze pratiche e il po-
co tempo disponibile hanno reso complicata la possibi-
lità di comunicazione al campo e di aprire spazi di con-
divisione e confronto per riuscire a dare un senso politi-
co ad una pratica assistenziale. Le assemblee plenarie
davano spazio quasi esclusivamente a discussioni ri-
guardo le carenze dei servizi e le condizioni disagiate di
vita, poco per ragionamenti più ampi sul senso politico
del nostro stare lì, sugli obiettivi dell’intervento e sulle
prospettive del campo. Spazi di condivisione in questo
senso si sono creati a livelli più intimi durante le lezioni
a scuola o in piccoli gruppi, durante il giro serale delle
tende, mentre distribuivamo i volantini o le bottiglie
dell’acqua, durante la pulizia del campo. Se da un lato
dunque, proprio attraverso le pratiche di gestione quoti-
diana del campo riuscivamo a intessere relazioni con i
braccianti, dall’altro capitava spesso di incontrare diffi-
denza da parte loro. Come spiegare ad un campo di 400
braccianti immigrati che la nostra accoglienza vuole es-
sere funzionale all’aggregazione e alla presa di coscien-
za da parte loro in quanto categoria lavorativa avente dei
diritti? Come fargli capire perché fossimo lì, senza esse-
re pagati, senza perseguire scopi o interessi altri? Come
comunicare l’importanza dell’autogestione degli spazi
di tutti, la presa in carico degli stessi come assunzione
di responsabilità collettiva, dentro un quadro comples-
sivo di «guerra tra poveri» e difficoltà relazionali? Come

118
elevare l’intervento sull’accoglienza a ragionamento po-
litico sul lavoro, parlando di diritti e di ricatto, dentro un
tessuto di disgregazione sociale, emarginazione, indi-
genza e disagio portati allo stremo? Tutto questo, nella
sua estrema complessità, è ciò che significa per noi sta-
re dentro i conflitti assumendone e vivendone le con-
traddizioni.

Spingere una comunità eterogenea come quella dei braccianti


stagionali, e non solo, a concepire la sola mera possibilità di otte-
nere rispetto dei propri diritti, come lavoratori, come dipendenti
e in primo luogo come essere umani, si è manifestata già come
una prima difficoltà. Sottolineare, in secondo luogo, che il primo
passo verso una condizione diversa sta nel sapere rispettare il
campo stesso, andare oltre le differenze etniche, i pregiudizi che
per un tendenza umana intercorrono continuamente tra sogget-
ti di culture diverse, soprattutto se impiantate in un territorio
estraneo, in una cultura estraneo anni luce dalla propria. Gestire
Nardò per quanto mi riguarda è riuscire a creare una collabora-
zione, che possa portare ad una autorganizzazione definitiva.
Vuol dire far capire che è l’unione, la coesione di un gruppo che
porta all’adempimento di un obiettivo comune.
(Luca de Cicco, Bsa Tuscia)

Ci saranno stati cinquanta gradi, non un filo di vento, l’aria a Bon-


curi era pesante, gonfia di umidità, ti faceva camminare con la
sensazione di portare una colonna sopra la testa…. Il ventilatore
dentro il piccolo ufficio girava quasi a vuoto, dalle finestre entra-
vano lame di luce chiarissima, quasi da far strizzare gli occhi. Sa-
ranno state le 17.30, cercando di respirare il meno possibile, sor-
seggiando il bollente e speziato the sudanese (che avrebbe dovu-
to evitarci il collasso) compilavamo schede di accoglienza. Il
campo era al limite delle sue possibilità, ci saranno state 400-450

119
persone, non avevamo più posti già da giorni, le persone che arri-
vavano in cerca di lavoro, piene di aspettative, si sarebbero scon-
trate con il sovraffollamento del campo, con la crisi delle angurie,
con la sospensione temporale di una comunità in stallo. Alto,
giovane, un paio di jeans e una maglietta a righe bianche e verdi,
occhiali dalla montatura leggera, un borsone a tracolla…in uffi-
cio entra Ysmail, un ragazzo togolese. Ci racconta in un fluido e
melodico francese un po’ della sua storia: è uno studente di
Scienze politiche, ha una moglie e una figlia di tre mesi che an-
cora non ha mai visto, ha lasciato la sua casa, la sua famiglia in
cerca di una possibilità in più…Fin a questo punto, tutto nella
norma: di storie così nel mosaico della Masseria ne avevamo sen-
tite a decine… ha bisogno di lavorare, gli hanno detto che a Nardò
forse c’è lavoro, ci chiede un posto in tenda. «Ci dispiace tanto ma
siamo pieni, non abbiamo più posti». Gli spieghiamo la partico-
larità del campo, il fatto che sia principalmente un campo per la-
voratori ma che i servizi presenti (sportello medico, sportello le-
gale, la scuola di italiano) sono per tutti…. Ysmail ci ascolta in si-
lenzio e alla fine del nostro discorso impacciato, ci regala un
sorriso disarmante e dice: «Ho capito le vostre regole, questo po-
sto funziona come se fosse una famiglia, sono onorato di rispet-
tare le regole di questa famiglia». E poi ci chiede: «ma oltre alla
scuola almeno c’è una biblioteca?».
Una biblioteca? Se ci avesse preso a schiaffi sarebbe stato meglio,
siamo rimaste lì, con la sorpresa negli occhi, ci veniva voglia di
chiedergli «ma cosa ci fai tu in un posto così?». Ysmail rimarrà a
Nardò fino alla fine della stagione, sarà uno dei promotori dei
rappresentanti dello sciopero, in neanche due mesi imparerà l’i-
taliano in modo sorprendente, sarà uno degli allievi più entusia-
sti e ricettivi che metteranno piede nella nostra «aula da campo».
E nonostante le difficoltà che dovrà affrontare, continuerà a sor-
ridere…
(appunti dal campo)

120
L’esperienza della scuola è stata tra le più significati-
ve all’interno del progetto. A partire dalla conoscenza
della lingua si costruisce la possibilità di ridurre la con-
dizione di emarginazione sociale, acquisendo gli stru-
menti basilari per poter comunicare, orientarsi, cono-
scere il contesto sociale e culturale dentro cui si vive e si
lavora. Data la discontinuità di frequentazione dovuta
al lavoro e al carattere temporaneo del progetto, le lezio-
ni sono state organizzate intorno a temi concreti che
potessero avere riscontro diretto nella vita quotidiana
degli studenti. Questo ci ha permesso di creare uno spa-
zio di ragionamento collettivo sulle condizioni di vita e
di lavoro, un terreno utile per il confronto tra le diverse
esperienze soggettive dei braccianti che potesse favori-
re, attraverso il dialogo e la condivisione dei vissuti per-
sonali, la costruzione di un’identità di gruppo.
Imparare parole semplici come i nomi degli ortaggi
ha significato, oltre che ricostruire i diversi tragitti per-
corsi dai braccianti tra una raccolta e l’altra, di territorio
in territorio, rendersi conto di quanto scollamento ci
fosse tra il lavoro fisicamente esercitato, in molti casi da
anni, nelle campagne, e la consapevolezza e padronan-
za dell’«arte» del lavoro stesso: è capitato che braccianti
provenienti da esperienze di lavoro a Rosarno non co-
noscessero la parola «arancia» nonostante ne avessero
raccolte a quintali o che non conoscessero il significato
di parole come «caporale», «imprenditore», «commer-
ciante» nonostante avessero sempre lavorato con capis-
quadra connazionali per conto dei proprietari terrieri o
vedessero tutti i giorni le angurie che raccoglievano ve-
nir caricate sui tir e trasportate altrove. Dare un nome
alle cose ha dunque permesso di muovere piccoli passi
verso l’autoconsapevolezza di sé in quanto categoria la-

121
vorativa e anello di un complesso e articolato sistema di
produzione e distribuzione.

Abbiamo cercato di ricostruire l’attività della scuola nello stesso


modo in cui la svolgiamo durante l’anno sul nostro territorio:
l’obbiettivo è la trasmissione di nozioni base di italiano, a livello
grammaticale e lessicale, prendendo spunto dalla situazione e
dalle condizioni di vita dei braccianti stessi, creando uno spazio
protetto di informazione, socializzazione e presa di coscienza. La
classe si è strutturata sul dialogo e sul confronto coi lavoratori,
creando una comunità condivisa: abbiamo avuto occasione di
parlare ogni sera insieme ai braccianti della crisi delle angurie,
dello sciopero e della legge anti-caporalato… I discorsi che si fa-
cevano di sera in classe, durante il giorno successivo facevano il
giro delle tende, così ogni giorno gli studenti si rinnovavano.
Giorno dopo giorno i volti son diventati nomi, le parole son di-
ventate storie. E si andava al di là dell’orario canonico della scuo-
la per salutarsi e parlare insieme.
In questo modo il nostro ruolo all’interno del campo si è potuto
chiarire attraverso le pratiche: conoscendoci più da vicino è au-
mentata anche la fiducia reciproca in un clima più disteso. Sicu-
ramente parlerò dell’esperienza della Masseria agli studenti della
scuola di italiano del mio territorio, cercando di stabilire un cana-
le di solidarietà tra migranti.
(Marta Ursella, Bsa Bergamo)

4. Lo sciopero autorganizzato dei braccianti


migranti

30 luglio 2011, ore 6:00. Un esercito senza generali


irrompe alla Masseria. Una quarantina di braccianti
camminano compatti gridando, gesticolando, bloccano
la strada, protestano. È l’inizio del più importante e lun-

122
go sciopero auto-organizzato di lavoratori stagionali
migranti in Italia. In principio è il caos, un caos teso e
meraviglioso, al centro di tutta quella indignata confu-
sione non ci sono le poche brandine o l’acqua fredda,
ma lo sfruttamento dei caporali, la rivendicazione diret-
ta, la presa di coscienza attiva della propria condizione
di sfruttamento: «Siamo lavoratori e come lavoratori vo-
gliamo essere rispettati». Siamo, al plurale: le comunità
diventano collettività.
Ore 8:00. Assemblea spontanea, assemblea allarga-
ta: quei quaranta lavoratori che dal campo erano partiti
abbandonando il lavoro, dopo l’ennesimo rifiuto di un
aumento salariale da parte dei caporali a fronte di un’ul-
teriore lavoro richiesto, si aprono a tutti i migranti pre-
senti alla Masseria. Quella che si svolge sotto i nostri oc-
chi non è un’assemblea di migranti, quella è un’assem-
blea di lavoratori che stanno alzando la testa. La
democraticità con cui l’assemblea si è costituita coinvol-
gendo tutte le nazionalità presenti al campo e le modali-
tà con cui da quella prima assemblea sono stati scelti i
portavoce dei lavoratori (uno per nazionalità) ha segna-
to profondamente l’origine della protesta. Intorno al
megafono di Yvan, tra la folla di braccianti in cerchio, il
tunisino che ha lavorato pochi giorni con le angurie sta
a fianco del burkinabé appena tornato dal campo di po-
modori. In mano tengono il volantino della Campagna
«Ingaggiami», come a confermare che quel moto di ri-
bellione a lungo covato e oggi improvvisamente esploso
non si ferma alla pura reazione di pancia ma si costrui-
sce intorno a quei diritti che sono lì, scritti nero su bian-
co, che gli spettano e che è ora di pretendere. Davanti ai
nostri occhi increduli partono le prime richieste.
Rispetto del contratto provinciale

123
Contratti veri
Aumento del pagamento a cottimo
Eliminazione della figura del caporale
Contatto diretto con le aziende
Ufficio per l’impiego dentro la masseria
Controlli nel campi

Queste le rivendicazioni, esplicitate con lucidità e


convinzione. Yvan le scrive su un foglio, intorno un vo-
ciare scomposto ma coeso. Lo sciopero è stato il ricono-
scersi tra loro dei migranti come lavoratori, è stata una
forte presa di consapevolezza che va ben al di là dei ri-
sultati ottenuti e degli errori commessi. La spontaneità
e l’autorganizzazione della protesta è il punto cardine
che li muove, i braccianti si riuniscono a gruppetti, si
parlano, si confrontano, prendono decisioni insieme.
1 agosto 2011, ore 2.30. I braccianti in sciopero si po-
sizionano nei punti della Masseria dove i lavoratori pas-
sano per raggiungere i campi o i camioncini dei capora-
li. Cercano di allargare lo sciopero, cercano di convince-
re gli altri, quelli che alla protesta ancora non hanno
aderito, a rimanere in Masseria. Lo fanno in modo ani-
mato ma pacifico, si sforzano di esprimere le ragioni, le
motivazioni, le rivendicazioni, si chiamano fratelli, li
trattengono per le maniche, li rincorrono per non farli
salire su i furgoncini, per non perderli nel buio delle
campagne… e ci riescono, lo sciopero funziona, prende
forma, si allarga ancora. E così per giorni tutte le matti-
ne alla stessa ora sono sempre di più i braccianti che
fanno i blocchi.
Quella che si respira è un’aria diversa, più tesa e den-
sa di aspettative. Il campo è diverso. La crisi delle angu-
rie ha lasciato spazio allo sfruttamento dei pomodori,

124
inferocito dalle paghe sempre più basse e dai contratti
che non arrivano mai. La staticità disperata della disoc-
cupazione sembra all’improvviso spazzata via dall’ener-
gia della ribellione; alla rassegnazione e alla frustrazio-
ne di essere bloccati senza lavoro e senza prospettive,
fuggiti dalla crisi per trovare un’altra crisi, si sostituisce
improvvisamente la rabbia e gli occhi fermi di chi rico-
nosce il proprio sfruttamento e decide di non accettarlo
più. Un obiettivo comune unisce i braccianti del campo
restituendo loro un senso comunitario più forte, smor-
zando le differenze e creando uno spazio nuovo di con-
divisione. Un risultato che ci eravamo prefissati senza
tuttavia poterlo direttamente concretizzare: essere soli-
dali stimolando l’emancipazione, senza sostituirsi ma
tentando di creare un terreno fervido per la presa di
consapevolezza, significava avere l’obiettivo che nasces-
se qualcosa di nuovo e spontaneo senza però metterlo
in moto noi stessi.

Non era un progetto di intervento politico astratto tipo «campa-


gna tematica». Aveva le sue fondamenta sulla dimensione mate-
riale di intervento, per cui le persone che lavoravano erano riferi-
menti credibili da parte dei migranti: sei lì a pulire la merda con
loro, sei lì con loro. Se fosse stata una campagna mediatica o di
sensibilizzazione sarebbe stato meno forte. E non era esclusiva-
mente un progetto di solidarietà ma un progetto politico sul lavo-
ro nero, cosa che creava quello che di solito i progetti solidarietà
non fanno, cioè mettere in moto altro da sé.
(Francesco Purpura, centro sociale Z.A.M. Milano)

Osservare partecipando a questo movimento di co-


struzione e di autocoscienza ridefiniva il nostro ruolo
dopo lo sciopero in modo difficilmente spiegabile e ri-

125
assumibile. La difficoltà dell’esserci e allo stesso tempo
la necessità di fare un passo indietro per lasciare spazio
allo sviluppo di una collettività in lotta, ancora tutta da
costruire, ci è piombata addosso con una violenza che
non ci aspettavamo. Alla normale gestione del quotidia-
no si aggiunge un vortice nuovo che ci trascina in nuove
contraddizioni, in nuove immersioni, sempre più arti-
colate e difficili da attraversare. La spaccatura più evi-
dente: come trovare le pratiche adeguate per riuscire a
sostenere lo sciopero senza rischiare di influenzare
l’autorganizzazione nascente dei braccianti? Il linguag-
gio si complica, si articola, tutto il vivere Boncuri si am-
plifica, ora l’immersione è tale da farci sentire apparte-
nenti a quella terra polverosa come se non fossimo mai
stati altrove.
Ascoltare. Durante le prime ore abbiamo ascoltato,
abbiamo partecipato silenziosi cercando di intravedere
la forma di quella protesta, le interminabili e spesso
concitate riunioni dei lavoratori, che discutevano, si ar-
rabbiavano, cercavano di mantenere il filo – quello dello
sfruttamento, dei caporali, delle aziende – costruivano e
decostruivano anche loro tra di loro esattamente come
facevamo noi, si mettevano in discussione, ci metteva-
no in discussione, forse stavano capendo tra le tante co-
se il motivo che ci aveva spinto fin laggiù da tutta Italia.

«Li facciamo anche noi i blocchi la mattina alle 2.30, perché non
esiste che guardiamo e basta, che solidarietà è stare a guardare
una lotta altrui?». Assemblea di gestione nostra, interna, con una
notte in bianco alle spalle (una delle tante) discutiamo reduci dal-
l’entusiasmo iniziale delle prime ore di sciopero. I braccianti
hanno deciso di fare i blocchi la mattina per convincere le perso-
ne a non lavorare, a scioperare con loro. E noi? Ci domandiamo

126
cosa sia giusto fare. «Ma io singolo volontario, se pur spinto dalle
più nobili motivazioni, che diritto ho di andare da un ragazzo su-
danese (magari mio coetaneo) e dirgli di scioperare perché quel-
lo non è lavoro ma sfruttamento estremo? Sarebbe come sosti-
tuirsi, prendere parola al posto di…». Lo sciopero è stato sponta-
neo e così deve rimanere la sua prosecuzione. Possiamo esserci,
fisicamente, perché li appoggiamo e siamo con loro, ma dobbia-
mo trovare il modo per supportarli e sostenerli lasciando la ge-
stione in mano loro. Se metti in moto un processo di emancipa-
zione poi devi anche saperlo riconoscere e lasciarlo andare. Sei lì
con loro e per loro, se ti chiedono aiuto tu ci sei sempre ad ogni
ora, condividi le tensioni e l’entusiasmo. Lo sciopero costruisce e
destabilizza, a volte si ha la duplice sensazione che quello che si
sta vivendo è talmente forte da essere fragilissimo, quando ci si
ferma manca il respiro.
(appunti dal campo)

Il nostro è stato un ruolo di sostegno e mai di condu-


zione, non avremmo mai potuto rivendicare come no-
stro qualcosa che auspicavamo partisse da loro. Così si
creava una nuova sinergia, fatta di turni di vigilanza
mentre i braccianti facevano i picchetti, di bombolette e
striscioni per il primo presidio in Prefettura, di un blog,
che loro stessi ci hanno chiesto di aprire per potersi co-
municare al mondo esterno. Quando abbiamo capito
che rifiutarsi di andare a lavorare significava per i mi-
granti trovarsi a contare quanti spaghetti gli rimaneva-
no per la cena, abbiamo deciso di attivare una cassa di
resistenza appellandoci alla solidarietà di tutti i soggetti
e le realtà fuori dalla masseria, in modo da poter orga-
nizzare raccolte alimentari e distribuzioni di cibo in
supporto allo sciopero. La relazione dentro la protesta
tra braccianti e BSA era dunque intrecciata in modo

127
biunivoco: alzando la testa hanno rianimato il senso po-
litico del nostro agire, e l’hanno fatto lì e non altrove, ri-
conoscendo in noi e nel campo uno spazio di tutela e le-
gittimazione.

L’esperienza a Nardò mi ha insegnato l’importanza di non sosti-


tuirsi agli altri, al fine che ognuno prenda coscienza di sé e della
propria situazione. La solidarietà «non etica» vale a dire: sono ac-
canto a te, ma non per questo ti tratto da bisognoso di assistenza.
Ecco, l’assistenzialismo non era proprio previsto nel nostro pro-
getto. Possiamo provvedere delle basi per l’emancipazione, per la
rivendicazione di diritti, per la richiesta di maggiore visibilità.
Ma non sarà mai la Bsa a farlo, saranno i soggetti con i quali stia-
mo collaborando, in questo caso i braccianti presenti in masse-
ria. Credo che questo spirito sia stato espresso nella sua forma
più ampia durante lo sciopero.
(Elena Di Cesare, BSA Lazio)

Non è un caso che la protesta non sia stata violenta.


Non è un caso che sia avvenuta in un campo «aperto»
nel quale il confronto costante con il fenomeno del ca-
poralato e le pratiche messe in atto per combatterlo av-
venissero dall’interno, partendo dal basso, con la consa-
pevolezza della complessità del fenomeno stesso. Gli
scoppi di rabbia che animano rivolte efferate come
quella di Rosarno nel 2010 o quella di Bari, che avveni-
va a poche centinaia di chilometri dal campo di Nardò
proprio durante lo sciopero, sono segni evidenti di un’e-
sasperazione che arriva al punto di non poter più essere
subita in silenzio, reazioni irrazionali del tutto fisiologi-
che dentro un contesto disumano e feroce. Trovare sul
territorio una struttura che riduce l’isolamento e mo-
stra segnali concreti della volontà di cambiamento con-

128
sente di dare il giusto valore a quella rabbia converten-
dola in conflitto costruttivo.

Avevano i volantini della campagna «Ingaggiami» stamattina, è


lì che hanno visto il salario previsto dal contratto provinciale, è al-
la scuola di italiano, è parlando con noi tra le tende o in ufficio o
pulendo il campo che hanno trovato uno spazio di confronto.
Questo posto ha funzionato, ha funzionato l’idea che la possibili-
tà di aggregazione stimola la libertà di confrontarsi, organizzar-
si, in questo caso di ribellarsi e rivendicare i propri diritti.
(appunti dal campo)

La costruzione dello sciopero, in tutte le sue declina-


zioni, è stata pacifica e basata sul dialogo. Tantissime le
pratiche messe in atto dagli scioperanti per convincere
gli altri lavoratori ad aderire alla protesta, e con diverse
caratteristiche operative, segno di una profonda com-
prensione del fenomeno. Chi ha scelto di non sciopera-
re non è stato additato come traditore della causa: in un
tale contesto «sperimentale» che ripropone dinamiche
sociali di inclusione ed esclusione la capacità di media-
zione tra diverse posizioni ha raggiunto livelli altissimi
di democraticità e rispetto. L’essere accomunati dei
braccianti, al di là delle diverse origini nazionali, da una
cesura trasversale che in egual maniera li esclude dalla
«società civile» ha reso radicale la presa di consapevo-
lezza verificatasi. La partecipazione alla protesta ha avu-
to come fulcro il tema del lavoro, i migranti si sono rico-
nosciuti tra loro come lavoratori, le diverse nazionalità
di provenienza non determinavano più divisioni.
Ma il campo si è trasformato non solo nelle sue di-
namiche interne. Quei confini immaginari che lo sepa-
ravano dal resto del mondo sono improvvisamente crol-

129
lati. La Masseria si apre, su giornali e televisioni si parla
dello sciopero, il resto del paese improvvisamente si ac-
corge che nelle campagne del sud si lavora in nero e in
condizioni di estremo sfruttamento. Boncuri è diventa-
ta all’improvviso terreno di giornalisti, fotografi, mili-
tanti di vario genere, associazioni, semplici curiosi, po-
litici, sindacalisti. Non ci sono più confini, gli equilibri
precari del campo si sgretolano sotto i nostri occhi met-
tendo in moto reazioni a catena. Quello che fino a quel
momento era fuori, entra prepotentemente nella ge-
stione ordinaria del campo.
Se da un lato la curiosità di svariati soggetti esterni
rappresentava un effetto positivo di rottura della nor-
malità e invisibilità del fenomeno, dall’altro andava ad
aggiungere elementi di ulteriore destabilizzazione al
già complicato e delicato equilibrio del campo. Lo stu-
pore di chi da esterno mette piede in Masseria e si ac-
corge che i lavoratori stagionali sono costretti a vivere in
condizioni di indigenza e ricattabilità, rende facile pun-
tare il dito, facilmente si grida allo scandalo e alla dis-
umanità di quel campo. Diritti per tutti, letti per tutti,
frontiere per nessuno. Ma la protesta dei lavoratori do-
v’è finita in tutto questo rivendicare uguaglianza diffu-
sa? Un continuo rivendicare e criticare senza chiedersi
se forse non sia un caso che lo sciopero sia partito dai
braccianti di Nardò e non da quelli del foggiano. Senza
chiedersi se forse quel campo con tutti i suoi limiti e
contraddizioni inevitabili non sia qualcosa da protegge-
re e migliorare invece che da attaccare.
La nostra priorità era sostenere la protesta cercando
il modo di portare le rivendicazioni dei braccianti all’at-
tenzione delle strutture istituzionali di competenza,
dal sindacato alla Prefettura, oltre che dell’opinione

130
pubblica tramite i mezzi di informazione più dispara-
ti. Ma troppo spesso i media e le realtà istituzionali
concentravano l’attenzione sulle condizioni di vita pre-
carie dei migranti al campo, al punto di arrivare alla se-
conda interrogazione parlamentare sulle condizioni
igieniche della Masseria. Le immagini dello sciopero
corrono rimbalzando da giornali a Tg, tutti si affanna-
no alla ricerca della notizia più succulenta e possibil-
mente melodrammatica. Nella perversa logica degli
ascolti e della risonanza si fa fatica a mantenere il pun-
to fermo su i diritti.
Ovviamente dentro un contesto di indigenza e di-
sperazione del genere, fare leva sul disagio sociale den-
tro cui i braccianti vivono significava andare a toccare
un tasto fortemente sentito e vissuto ogni giorno da lo-
ro stessi sulla propria pelle, alimentando sentimenti di
rabbia che seppur comprensibili rischiavano di non tro-
vare un canale di sfogo.

La forma che hanno preso questi dieci giorni di militanza vera-


mente in frontiera sono le Brigate di solidarietà attiva, cuore e
braccia dell’esperienza. Compagni da tutta Italia, incazzati ma
umili, l’unica combinazione possibile di sentimenti per portare
avanti quel lavoro laggiù. Sportello sanitario, sportello legale,
accompagnamenti in ospedale, pulizia campo, campagna con-
tro il lavoro nero e per l’ingaggio (il contratto). A tutto questo nel
periodo della mia permanenza in quella polveriera sociale sem-
pre pronta ad esplodere in rissa si è aggiunto un evento storico.
Il primo sciopero di braccianti migranti autorganizzati in Italia,
durato ben tredici giorni (moltissimo, fatti i conti di quanto a lo-
ro «costi», in tutti i sensi, un solo giorno di lavoro mancato), due
incontri-presidio sotto la prefettura di Lecce, un incontro in Re-
gione a Bari. Giornali, tv locali, nazionali. Qualche risultato,

131
senz’altro un meraviglioso, sorprendente inizio di una lotta du-
rissima, tutta ancora da combattere e vincere. Questo ha anche
però voluto dire il doppio, il triplo dello sforzo: assemblee dei
migranti, assemblee interne, comunicati, ronde notturne di
protezione (tutto il «gruppo dirigente» dei migranti minacciato
di morte), ronde di «controllo-supporto» dei picchetti e dei bloc-
chi stradali, una marea di giornalisti da gestire, i presidi, la cas-
sa di resistenza alimentare da organizzare e mettere in pratica.
Bioritmi a puttane, notti in bianco e pasti saltati, tutto sempre
fatto di gusto. Non era facile farsi trovare pronti, in tutto questo.
Farlo funzionare. Non cedere per primi. Fisicamente, psicologi-
camente, sono stati giorni duri. Che hanno dato grandi frutti
certo, dentro e fuori di noi, ma duri.
(Dario Clemente, Bsa Cinisello Balsamo)

A reggere il fulcro delle contraddizioni del campo


in quei giorni c’era soprattutto il gruppo dei «rappre-
sentanti». Su di loro si concentrava la massima esposi-
zione e visibilità, da parte del resto del campo innanzi-
tutto, che li guardava chiamare le assemblee aggiran-
dosi tra le tende col megafono, partecipare alle nostre
riunioni per capire insieme come costruire la vertenza
politica, organizzare la distribuzione dei beni alimen-
tari per gli scioperanti, raccontare ai giornalisti le ra-
gioni della protesta. In quei giorni molti braccianti ci
chiedevano di essere accompagnati al Commissariato
per denunciare i caporali. Nonostante lo facessero in
molti, le conseguenze immediate e dirette si riversava-
no principalmente sui portavoce, che in più occasioni
hanno ricevuto minacce di morte e intimidazioni. Era-
no i più esposti. Dall’invisibilità che fino a pochi giorni
prima li riguardava esattamente come tutti gli altri,
erano stati catapultati d’un tratto nell’improvvisato e

132
difficile ruolo di leadership. Un camerunense, tre tuni-
sini, due togolesi, un sudanese e un ghanese alla guida
di un campo di oltre 400 migranti. Dallo sciopero in
poi sono diventati il nostro tramite per il campo, in vir-
tù della loro rappresentanza «etnica» e sociale, e a loro
in particolare andavano i nostri pensieri di preoccupa-
zione, sostegno, tutela. Dopo le minacce, abbiamo de-
ciso di proporre loro di dormire nei locali della masse-
ria, tra l’ufficio e l’ambulatorio medico. Una scelta det-
tata dalla paura che dopo aver acceso la protesta ne
dovessero subire le conseguenze peggiori. Una scelta
che però ha segnato un confine fisico tra i rappresen-
tanti e il resto del campo.

5. Quando l’auto-organizzazione
si scontra con il vuoto della politica

Metti in moto un processo di emancipazione, lo fai


calandoti nella difficoltà delle pratiche, lo fai come
gruppo e non come singolo, lo fai perché sei convinto
che la forza potenziale dei lavoratori sfruttati sia qualco-
sa di forte e dirompente, lo fai anche animato dalla con-
vinzione che il sistema possa e debba essere cambiato
partendo dal basso, dagli ultimi della scala sociale, da
chi addirittura è fuori dalla scala sociale perché non ri-
conosciuto. Poi ci si scontra con il vuoto delle istituzio-
ni, ci si scontra con chi non centra il punto, ci si rende
conto che la rivendicazione dei lavoratori di Boncuri è
molto più scomoda di quanto si pensasse: le rivendica-
zioni sulle condizioni di sfruttamento ricollocano vio-
lentemente al centro della discussione e dell’opinione
pubblica il tema del lavoro.
La vaghezza delle risposte ottenute ai tavoli istituzio-

133
nali, la latitanza delle aziende, il vuoto legislativo che
non prevedeva il reato di caporalato, portano quasi a
pensare che le forze in causa avrebbero preferito una ri-
volta violenta, un fenomeno più ingovernabile. Avreb-
bero preferito un rigurgito incontrollato ed irrazionale
magari riversato sulla cittadinanza neretina, così da po-
terlo reprimere, soffocare, controllare, normalizzare.
Invece no, lo sciopero è pacifico, la rabbia e le frustra-
zioni chiedono di avere voce, di essere ascoltate da chi
di dovere. Ma allora chi è il nemico da combattere, il ca-
porale o chi se ne serve? Entrambi sicuramente, ma
combattere il caporale è funzionale a chiamare in causa
le aziende, i datori di lavoro. Sullo sfondo, una politica
complice e succube delle leggi di mercato annaspa in
evidente difficoltà.
Al di là di Nardò, prima della Masseria e della sua ge-
stione sperimentale, ci sono le migliaia di lavoratori che
vivono nei casolari, dispersi tra le campagne del sud, in
condizioni disumane. Senza nessuna possibilità di ve-
dersi riconosciuti come lavoratori aventi diritti. Ci si
chiede dove siano state la politica, le forze sindacali e le
istituzioni negli ultimi vent’anni. Ci si chiede se al di là
del potere mediatico che tutto vede e tutto distorce ci sia
qualcosa oltre il vuoto. La delusione per gli scarsi risul-
tati ottenuti ma soprattutto la frustrazione per avere in
mano rivendicazioni molto precise e puntuali che sten-
tano a trovare risposte reali e concrete, si riversa nella vi-
ta del campo con un velocissimo effetto domino. Ten-
sioni, stanchezza, fame, la sensazione di essere presi in
giro, la diffidenza e il sospetto crepano il gruppo dello
sciopero, lo rendono più vulnerabile meno coeso. Ci
sentiamo tutti sotto assedio, il quotidiano ci sfugge di
mano, ci sfugge di mano il nostro essere lì.

134
La realtà socio-economica che i migranti sono costretti a vivere in
un paese che nega quotidianamente diritti fondamentali e biso-
gni personali ribadisce ancora una volta come lo Stato e le realtà
istituzionali, ritengano tali soggetti privi di alcuna importanza,
se non esclusivamente in termini di mano d’opera a basso costo.
Il sistema capitalistico continua a sopravvivere basandosi sullo
sfruttamento di quelle classi, tra cui rientrano i migranti, che og-
gi sono costretti a vendersi per qualche euro al giorno per soprav-
vivere. Lo sciopero in un contesto come quello di Nardò mette in
piena mostra il predominio del capitalismo e la complicità delle
istituzioni politiche su cui esso si fonda, ma dall’altro lato, per
fortuna, rende il futuro non poi così buio. Difatti dovremmo tut-
ti prendere esempio dallo sciopero dei braccianti migranti di
Nardò, così come dalle rivolte arabe di quest’anno. L’autorganiz-
zazione dal basso che solo uno sciopero autoconvocato sa rende-
re così tangibile e reale, dovrebbe essere la base da cui ripartire
per un nuovo ordine sociale ed economico realmente gestito dai
veri protagonisti. Noi.
(Claudio Ferrante, associazione Africa Insieme Pisa)

La violenza c’è stata, è stata la violenza di un sistema


economico e politico colluso, è stata la violenza di strut-
ture che si muovono su un piano mediatico e non sulla
realtà quotidiana, la violenza delle rivendicazioni del
singolo individuo a discapito della collettività, uno con-
tro tutti, tutti contro uno, tutti contro tutti.

Credo che, se si vuol fare lo sforzo di comprendere una realtà ed


ambire ad aver una buona presa su di essa, non si possa omettere
di tener conto anche di questi, assai problematici, aspetti. Pre-
messo che non sono tra quelli che possono affermare di sapere
cosa sia la mafia, ritengo però di essermi fatto un’idea di quelli
che possono essere definiti rapporti mafiosi. Questa distinzione

135
mi permette, del resto, di non dare direttamente del mafioso a
nessuno dei soggetti di cui sto parlando, pur avendo maturato la
convinzione che siano invece definibili come mafiosi i rapporti
che tra di loro tali soggetti intrattengono. Credo che rapporti ma-
fiosi possano scorgersi nel sonnolento lasciar fare da parte delle
istituzioni nel permettere alle aziende presenti sul territorio di
perpetuare l’avvilente sistema del capolarato come strumento
preponderante di reclutamento della manovalanza bracciantile.
Tale strumento, di fatto, relega i lavoratori nella posizione di non-
soggetti: rendendoli privi di qualsiasi rilevanza giuridica, li con-
danna ad una dimensione di non-esistenza, condizione dalla
quale non è dato pretendere niente che non sia quanto concesso
da varie provvidenze, siano esse istituzionali o di concorrenza.
Ho avvertito come mafioso l’atteggiamento impaurito e colpevol-
mente debole delle forze dell’ordine, pronti a scappare lasciando-
ci soli ad affrontare situazioni ad alto rischio ed assai prudenti
nel lasciare che – in particolare – la notizia di una nuova legge
con cui il capolarato andava a costituire reato penale venisse dif-
fusa. Rapporti mafiosi possono riconoscersi infine, purtroppo,
anche nel modus operandi di un certo sindacato, anch’egli son-
nolento e disinteressato verso le condizioni lavorative, le rivendi-
cazioni e le lotte dei braccianti, almeno fino a quando la prospet-
tiva di un tornaconto – in termini di visibilità mediatica – non ne
ha determinato, a giochi fatti, l’improvviso ma non troppo ina-
spettato risveglio: ciò che costituisce, come ho sopra affermato,
giusto il contrario di ciò che con il nostro intervento ci siamo pro-
posti di fare, ossia l’offrire forza, sostegno e strumenti d’analisi
atti a sostenere una lotta che è stata – e tale deve rimanere – la lot-
ta dei braccianti per l’emancipazione dalla loro condizione di non
esistenza, attraverso il riconoscimento dei propri diritti in quan-
to lavoratori.
(Andrea Ciacci, Bsa Toscana)

136
Il post-sciopero, la gestione del reflusso, lo scivola-
mento e l’appiattimento inevitabile sulla condizione
materiale sempre più difficile da sopportare, ora più di
prima proprio perché era ormai consolidata la consape-
volezza di quanto dipendesse da un meccanismo più
ampio e complesso, ci ha schiacciati tutti, volontari e
braccianti, in una condizione generale di fortissima
tensione. La voglia che quasi era un bisogno fisico dei
migranti di lasciare Boncuri, di recarsi altrove, è ormai
evidente, si respira, si vive in ogni gesto, in ogni scoppio
di rabbia improvvisa.
Ancora una volta la tensione si riversa soprattutto
sul gruppo dei portavoce, gli otto nomi usciti dalla pri-
ma assemblea spontanea di Boncuri, le stesse persone
che hanno partecipato ai tavoli. Molti di loro hanno de-
nunciato i caporali (e molti hanno seguito il loro esem-
pio), molti di loro sono stati minacciati, poiché identifi-
cati come responsabili dello sciopero. Rappresentavano
le rivendicazioni dei lavoratori in virtù di un’iniziale fi-
ducia che ora vacilla perché i risultati stentano ad arri-
vare. L’attenzione mediatica e politica li ha risucchiati in
una rincorsa alla visibilità che se pur necessaria ha crea-
to scollamento tra loro e il resto del campo. Gli altri
braccianti non si fidano più, serpeggia la convinzione,
alimentata anche da malelingue esterne, che quegli ot-
to «privilegiati» ci guadagnassero qualcosa, che addirit-
tura venissero pagati. Il dubbio e il sospetto, calati in
una dimensione che si regge su equilibri così labili, si
diffondono come un gas nocivo. La condizione materia-
le viene aggravata, amplificata, esasperata al punto da
identificare in quelli che dall’assemblea erano stati scel-
ti una sorta di nemico.
Il problema sta tutto lì: rappresentare non vuol dire

137
«prendere il posto di», ma deve essere un elemento di
facilitazione che ha senso se quella stessa comunità,
quella stessa collettività di singoli che portano avanti in-
sieme una battaglia tortuosa e difficile si fa motore atti-
vo della protesta considerandosi come blocco unico di
un rivendicare collettivo. Il meccanismo di delega inve-
ce inevitabilmente porta ad assumere su di sé la respon-
sabilità collettiva, nel bene e nel male, fino a trovarsi ad
un certo punto a dover rispondere ingiustamente delle
mancanze e degli errori della politica istituzionale.
Così quando ai portavoce viene detto che da uno dei
primi tavoli sarebbe uscita la possibilità di chiedere il
permesso di soggiorno per i clandestini del campo, in
buona fede hanno deciso di adibire momentaneamente
l’ufficio accoglienza per la compilazione di liste di pos-
sibili candidati. Le false illusioni create da enti esterni al
campo si sono dunque riversate all’interno per mano
dei rappresentanti, additati come «sbirri» e promotori
di un altrui inganno. Lo stesso è accaduto per le liste di
prenotazione dell’ufficio di collocamento: la promessa
di sensibilizzazione delle aziende ad accedere alle liste
per l’assunzione diretta dei braccianti, sbandierata dal
sindacato come risultato formidabile di una lotta vitto-
riosa, non ha fatto che produrre ulteriori abbagli e con-
seguenti tensioni, di nuovo scoppiate dentro la Masse-
ria contro i portavoce che organizzavano le compilazio-
ni. «Se scriviamo i nostri nomi su quella lista troviamo
lavoro? Le aziende ci contatteranno direttamente senza
passare per il capo-nero?». Erano queste le domane che
rimbalzavano di bocca in bocca durante le interminabi-
li e animate code per mettere il proprio nome in quelle
liste da portare al centro per l’impiego. E più che do-
mande erano fiduciose certezze.

138
Il vuoto legislativo pesa enormemente, pesa enor-
memente l’assenza delle aziende ai tavoli istituzionali,
pesa enormemente l’immobilità di un intero sistema
economico in cui lo sfruttamento dei lavoratori attra-
verso il sistema del caporalato è parte fondante.

Il mondo fuori, amministrazioni, forze politiche e sindacali, ci


sono, ma spesso non riescono a comprendere la complessità di
cosa voglia dire agire in un contesto profondamente diverso da
quelli a cui si è abituati. Le parole e le buone intenzioni (quando
ci sono) non bastano, è necessaria una profonda umiltà e atten-
zione, per capire realmente cosa voglia dire, nel caso dello scio-
pero dei braccianti di Nardò, autonomia. Autonomia vuol dire
nascita e presa di coscienza, vuol dire inizio di un percorso che ha
bisogno di tempo per prendere forma e per maturare, vuol dire
fare un passo in avanti e due indietro. Non si sta parlando dei la-
voratori di una fabbrica per i quali lo sciopero fa parte di un lin-
guaggio che rientra nella dimensione del concetto stesso di lavo-
ro. I braccianti della Masseria hanno in pochi giorni portato
avanti un processo di emancipazione e presa di coscienza che ri-
chiede per consolidarsi molto più tempo e forse molti più errori
ed inciampi.
Il campo sembra ferito, crepato, nuove disgregazioni si sovrap-
pongono e si mischiano, le giornate si fanno più dolorose. La
mancanza si acuisce, alla Masseria si soffoca, ma questa volta
non per il caldo… i giorni della mobilitazione sembrano lontani
anni luce…ma la traccia rimane, c’è, si fa largo faticosamente tra
polvere e partenze di fine stagione.
(appunti dal campo)

Sabato 13 agosto 2011, il governo vara un decreto


d’urgenza (n138) nel quale introduce all’articolo 12 il
reato di «intermediazione illecita e sfruttamento del la-

139
voro». Quando lentamente la notizia si sparge nel cam-
po, assistiamo ad un momento quasi di stordimento,
non tutti ci credono, facciamo fatica a spiegare che in
parte è stato l’effetto dello sciopero ad influire, accele-
rando i tempi istituzionali di una proposta di legge vec-
chia di quasi dieci anni, che fino a quel momento era ri-
masta lettera morta. Questo ovviamente non basta, è un
riconoscimento che fa sperare nella possibilità di non
rendere vane tutte le denunce fatte dai braccianti, met-
tendo a rischio la propria incolumità, ma certo non ri-
solve il problema. Di fatto i caporali tornano ad essere
presenti e si muovono indisturbati.
Nel vortice di frustrazione e scoraggiamento genera-
le, la raccolta fondi della cassa di resistenza aveva dato i
suoi buoni frutti. Come distribuire quei soldi, con che
criterio? In parte sono stati utilizzati per acquistare ge-
neri alimentari per sostenere gli scioperanti, in parte per
delle tendine da assegnare ai migranti che dormivano
dentro alcune baracche di amianto, che il Comune in-
tendeva smantellare. Ma ne restavano altri. Era ormai fi-
ne agosto, la tensione era alta, molti sarebbero partiti per
andare a cercare lavoro altrove, ma non potevano per-
mettersi di comprare i biglietti del treno. Il fondo della
cassa non sarebbe stato sufficiente per tutti. I tentativi di
coinvolgere le istituzioni per raccogliere altri fondi e pa-
gare loro i biglietti non vanno a buon fine. E così dopo
risse, sospetti, accuse, riusciamo ad individuare una
ventina di braccianti, primi protagonisti dello sciopero,
che ancora si trovano in masseria, tra cui dividere i soldi
che restavano. Proprio loro che si erano così esposti du-
rante la protesta, alla fine dello sciopero non avevano più
potuto lavorare: colpevoli di aver agitato le acque, ora
non potevano godersi i frutti che la mobilitazione aveva

140
portato. Perché anche se dai tavoli istituzionali uscivano
pochi risultati concreti, di fatto dopo qualche giorno in
cui i pomodori non venivano raccolti, i caporali avevano
aumentato i salari e molti braccianti erano tornati a lavo-
rare. Incrociando le braccia in modo compatto si era così
ristabilito un minimo potere contrattuale, seppur nell’o-
rizzonte sommerso del lavoro, che ridava ai lavoratori la
dignità dell’autodeterminazione.

L’autorganizzazione dello sciopero ha messo in moto un proces-


so indipendente che non dipende più da noi. I lavoratori non pa-
gati si organizzano tra di loro: chiamano i carabinieri, sequestra-
no le chiavi del camioncino del caporale che per giorni, ogni mat-
tina, li ha trasportati nei campi di pomodori sotto l’implacabile
sole del sud. Alla fine dopo ore di concitazione riescono a farsi
pagare e tu ti trovi lì nel pieno della contraddizione, perché quel-
le persone il contratto non ce l’hanno, ma hanno assunto ed in-
troiettato la consapevolezza che come lavoratori hanno dei dirit-
ti, hanno capito che ci sono dei responsabili, hanno capito di po-
ter pretendere, hanno capito anche che la condizione che vivono
può essere cambiata solo da loro…e insieme hanno agito come
un corpo solo con molte teste e molte braccia.
No, non è semplice vivere il compromesso, ci si sente perenne-
mente inadeguati, si riscrive la propria concezione di vittoria e
sconfitta. Semplicemente si vive quello di cui altri parlano, ci si
sporca le mani e lo si fa tutto sommato con orgoglio.
(appunti dal campo)

6. La forza del progetto oltre Nardò

I braccianti migranti di Nardò hanno incrociato le braccia, contro


lo sfruttamento, contro il lavoro nero, chiedendo un salario de-
gno e condizioni di lavoro dignitose e adeguate. Non possiamo

141
che appoggiare questa lotta, chiedendo a tutti di solidarizzare e
unirsi intorno a questi coraggiosi migranti, che stanno rivendi-
cando pacificamente i propri diritti…
Comunicato Rete Immigrati Autorganizzati di Milano,
4 agosto 2011

I delegati Fiom della Fincantieri di Ancona esprimono profonda


solidarietà alla lotta in corso dei lavoratori di Nardò. Sosteniamo
con grande forza e convinzione chi si sta battendo per un giusto
salario e delle condizioni di lavoro dignitose. Siamo convinti che
la nostra lotta per la salvaguardia del posto di lavoro e le vostre ri-
vendicazioni nascano dalla medesima necessità di riconoscere la
giusta importanza alla condizione umana che va riportata al cen-
tro della discussione. Non riteniamo né tollerabile né degno di
una società civile che la crisi della finanza e delle banche venga
scaricata tutta completamente sul lavoro a vantaggio di chi, inve-
ce, con la crisi si sta arricchendo sempre di più: contro questo,
tutti insieme dobbiamo costruire l’alternativa unificando, da
nord a sud e anche nel resto del mondo le lotte del lavoro.
Comunicato Fiom Fincantieri di Ancona, 7 agosto 2011

Lo sciopero dei braccianti ci ha ricordato ancora una


volta quanto sia importante la solidarietà tra diverse
realtà in lotta. Oltre alle donazioni per la cassa di resi-
stenza, moltissimi sono stati i comunicati in sostegno
alla protesta di Nardò, arrivati da decine di comitati,
gruppi e associazioni sparsi in tutta Italia. Un segnale
che va nella direzione di quella ricomposizione delle
lotte e del tessuto sociale di cui tanto avremmo bisogno,
in questo momento di crisi soprattutto, per ridare forza
e vigore al movimento che si batte per costruire un’al-
ternativa concreta al sistema.

142
Prima di partecipare all’esperienza di Nardò e nonostante un cer-
to grado di consapevolezza, ero convinto che la causa dello sface-
lo in cui viviamo fosse colpa del consumismo e la mercificazione
di tutto e quindi risolvibile facendo qualche acquisto responsabi-
le ed utile. Non è così, è il sistema intero che va scardinato e mes-
so fortemente in discussione. Quel sistema basato sullo sfrutta-
mento, sulla negazione dei diritti, sulla privazione della dignità
umana, sulla competitività e sullo schiacciamento sempre verso
il basso delle classi più deboli. Credo che un’altra visione del no-
stro modo di vivere debba emergere con forza e determinazione.
Un altro modo di fare comunità, di fare politica, di fare gruppo.
Una cultura diversa da quella dominante. Quella cultura del più
bello, del sempre giovane, del più forte e del più furbo. So che ri-
schio di essere banale elencando cose risapute ma l’esperienza
delle Brigate ha dimostrato che un altro modo esiste e funziona.
La lotta che hanno intrapreso i braccianti di Nardò quest’estate,
grazie sopratutto all’intervento delle brigate, non era solo contro
lo sfruttamento. Era contro un sistema criminale, perché si affi-
dava a pratiche mafiose. Contro un sistema ingiusto perché ne-
gava il diritto ad un salario equo. Contro un sistema crudele per-
ché poche multinazionali controllano l’intero mercato ortofrutti-
colo imponendo i loro prezzi a tutti. Una lotta che sotto certi
punti di vista ha pagato e ha fatto sì che i braccianti potessero ot-
tenere pochi ma fondamentali diritti. Registro infine una sorta di
filo rosso che collega tutto, perché lottare per i diritti dei brac-
cianti ad un salario equo e vita dignitosa significa difendere i di-
ritti di tutti.
(Alaa Nasser, Bsa Pavia)

A Boncuri quest’anno ci sono stati due campi, ma


forse anche molti di più: il purgatorio di sussistenza e il
fragore della lotta, e in entrambi hanno inciso le dinami-
che economiche nazionali e globali. La crisi è stata prota-

143
gonista, ha determinato situazioni e commistioni, in
qualche modo ha creato connessioni tra lavoratori, in
contesti diversi, che egualmente vedono il proprio lavo-
ro non riconosciuto come tale. Il mondo a sé della Mas-
seria si è spinto oltre il confine dell’emarginazione, i
braccianti si sono spinti oltre e l’hanno fatto anche grazie
alla presenza di migranti portati nei campi dalla crisi del-
le fabbriche, che hanno consegnato a Nardò una consa-
pevolezza maggiore e sicuramente hanno permesso di
accelerare il processo di emancipazione di tutti.
Durante lo sciopero si cercava di far conoscere all’e-
sterno della Masseria le rivendicazioni dei lavoratori, a
partire dai braccianti sì, ma con la speranza di essere
simbolo di tutte quelle braccia che, in contesti diversi,
vivono dentro la dimensione frustrante di ricattabilità
della propria condizione lavorativa. In molti ritengono
che nell’era della globalizzazione non ha più senso par-
lare di classi sociali, che le classi sociali non esistono
più, che lo stereotipo degli operai e dei braccianti in
sciopero appartengono a un immaginario collettivo che
mal si adatta al «capitalismo immateriale». Sicuramen-
te i cambiamenti storici, politici economici e sociali ci
sono stati, non si tratta di riproporre schemi e teorie
senza un’adeguata contestualizzazione temporale.
Quello che però forse sfugge è il dato meramente mate-
riale in cui viviamo: il lavoro coatto c’e ancora, importa
se siano italiani, africani, asiatici? La globalizzazione ha
reso le classi sociali semplicemente più elastiche, ne ha
prodotte di nuove, ma certo non le ha eliminate. I co-
municati di solidarietà per la lotta dei braccianti di Nar-
dò hanno lasciato la traccia tangibile di quanto trasver-
sale sia lo sfruttamento dei lavoratori.
Il termine previsto per la chiusura del campo è il 31 di agosto, di

144
braccianti ne sono rimasti pochi, moltissimi partono alla fine del
Ramadan; alla Masseria c’è aria di perdita, di baracche e cucine
dismesse, di camioncini carichi. Si smontano le dinamiche co-
struite in quella terra polverosa, tra divani sfondati e sedie di pla-
stica abbandonate, si consumano le ultime giornate della stagio-
ne. La chiusura viene fatta gradualmente e in modo elastico, per
qualche giorno oltre il termine previsto dal progetto si manten-
gono attivi bagni chimici, acqua e luce. Alcuni braccianti lavora-
no ancora forse sono una cinquantina scarsa. Si parla di «sgom-
bero» il sindacato accusa il comune di Nardò ed implicitamente
noi volontari di voler cacciare i migranti. Le tensioni accumulate
nel corso di quei tre mesi di contraddizioni vissute in nome del
cambiamento dal basso, resistono si insinuano e ci esplodono
nuovamente tra le mani al punto da assistere increduli ad alcuni
migranti che in un video ci accusano di razzismo. Il paradosso è
talmente potente da farci rabbrividire nonostante il caldo africa-
no. Ancora una volta il potere della macchina mediatica schiaccia
e distorce la realtà. Ancora una volta ci troviamo nel mezzo, ci tro-
viamo a dichiarare quello che per noi è ovvio e lampante ossia la
responsabilità delle aziende nel provvedere economicamente al-
l’alloggio dei braccianti; ci rendiamo conto che il tema dell’acco-
glienza è stato sì lo strumento che ci ha permesso di agire sul fe-
nomeno dal suo interno, ma è stato anche scenario di incom-
prensioni, fraintendimenti e strumentalizzazioni. Far capire che
in nessun modo siamo dipendenza amministrativa, che non ab-
biamo preso soldi e che le insufficienze strutturali della Masseria
non dipendono da noi è difficilissimo. Altro paradosso: il comu-
ne di Nardò contribuisce con una quota di trenta euro a persona
al pagamento dei biglietti per chi deve recarsi a Foggia o a Palaz-
zo San Gervasio, facendosi in qualche modo carico della forte di-
soccupazione della stagione delle angurie e degli effetti dello
sciopero. I soldi dei biglietti verranno sottratti alle politiche so-
ciali, alle fasce più deboli quindi della popolazione neretina. Le

145
aziende continuano ad essere gli strozzini invisibili di questa
guerra tra poveri.

Probabilmente il prossimo anno la masseria Boncuri


sarà adibita ad altro, probabilmente sarà utilizzata come
un campo di accoglienza diffusa dei migranti e si perde-
rà il perno sul lavoro, dunque l’intera cornice di senso del
nostro progetto. Ma questo forse è il più grande risultato
che si poteva ottenere, perché significa che ha funziona-
to, che il campo ha scosso equilibri grigi: scoprendo rela-
zioni tra la politica e le aziende, ha messo in crisi un pic-
colo pezzo di sistema, inceppando (forse per poco) l’in-
granaggio di un sistema macroscopico e transnazionale
che certo non investe solo l’Italia.
Quello che resta è che dopo le mille difficoltà, le ten-
sioni, le incomprensioni e le frustrazioni, i lavoratori di
Boncuri sono andati via – in molti sono tornati al nord,
molti altri hanno seguito le raccolte nel foggiano e a Pa-
lazzo San Gervasio – portandosi appresso la consapevo-
lezza di poter scegliere anche quando la scelta sembra
impossibile. Ripartono con la forza del potere collettivo
di un corpo sociale che si è riconosciuto ed è in grado di
lottare per modificare la propria condizione. Ognuno
dei braccianti di Nardò se lo vorrà avrà la possibilità di re-
plicare altrove e con altri con una consapevolezza nuova.

Nardò, agosto 2011. La Masseria Boncuri oggi è anche un punto


di partenza, è il simbolo di una classe sociale (quella dei brac-
cianti migranti) che ha alzato la testa, occhi che guardano altri oc-
chi con la consapevolezza della merda che stanno vivendo e con
in mano uno strumento forte – «mettere in moto altro da sé» – ed
una dignità che ora si sa come difendere, forti dei propri mezzi.
Una dignità pronta a combattere per i propri diritti, una dignità

146
che ha in sé la difficilissima, ma non più impossibile, soluzione.
(Maddalena Benanchi, Bsa Toscana)

La sfida, oltre Nardò, sta nel cercare di rendere repli-


cabile altrove l’esperienza della Masseria Boncuri e nel
declinare in altri territori la campagna «Ingaggiami
contro il lavoro nero» intessendo relazioni con i lavora-
tori e creando una rete di realtà autonome ed eteroge-
nee che lavorino insieme nella stessa direzione. A parti-
re dalle pratiche, riteniamo essenziale ricomporre set-
tori apparentemente distanti – braccianti agricoli (ma
non solo), piccoli produttori, precari della grande distri-
buzione – per difendere il diritto ad un lavoro dignitoso
attraverso l’auto-organizzazione dal basso, declinando
così una politica altra, solidale e concreta.

147
Cronologia
Lo sciopero e le sue dinamiche

Gennaio-giugno 2011
Nel corso dell’anno sono tre gli avvenimenti che aiutano a
comprendere lo sciopero, sebbene non si tratti in senso stretto
di momenti o eventi preparatori: lo sbarco in Sicilia di tunisini
e altri africani da gennaio 2011; la lotta dei lavoratori migranti
contro Tecnova, azienda del fotovoltaico; la pessima annata
delle angurie a Nardò, per cui pochi lavoratori alloggiati alla
Masseria riescono a trovare impiego nella raccolta di questi
frutti, che precede temporalmente quella dei pomodori.
Da gennaio iniziano ad arrivare prima a Lampedusa e poi nei
vari centri di accoglienza e detenzione di tutto il Sud Italia di-
verse migliaia di tunisini prima e di altri africani in fuga dal
conflitto bellico in Libia successivamente. Per quanto riguar-
da la Puglia, essi vengono sistemati a Manduria, poco lontano
da Nardò, e a Bari-Palese. Numerose altre piccole sistemazio-
ni poi accolgono altri richiedenti asilo in tutta la regione.
Nell’aprile 2011 la Procura della repubblica di Lecce arresta
una decina di persone – soci, amministratori e capocantiere
della società Tecnova – con l’accusa di associazione per delin-
quere finalizzata alla riduzione e al mantenimento in schiavi-
tù, estorsione, favoreggiamento della condizione di clandesti-
nità di lavoratori non-Ue e truffa aggravata ai danni dello Sta-

148
to. La Tecnova è un’impresa che opera nel settore del fotovol-
taico e installa pannelli solari nelle campagne salentine. La
denuncia dei migranti, iniziata a gennaio 2011, era poi sfocia-
ta in uno sciopero della fame e nell’occupazione delle strade
del centro di Lecce. Impossibile per le forze dell’ordine e la
magistratura non intervenire. In questo caso è l’Ugl a soste-
nere le ragioni dei migranti.

Lunedì 20 giugno 2011


Come l’anno precedente, presso la Masseria Boncuri, a pochi
chilometri dal centro di Nardò (Lecce), apre il centro di acco-
glienza. Qui in 25 grandi tende, altri «igloo» personali oppure
all’aperto alloggiano per poco più di due mesi i braccianti oc-
cupati nell’agricoltura dell’area circostante. La Masseria Bon-
curi è gestita, attraverso un accordo con il Comune di Nardò e
la Provincia di Lecce, dall’associazione Finis Terrae e dalle
Brigate di solidarietà attiva (Bsa). Come nel 2010, le due asso-
ciazioni, oltre a soddisfare alcuni dei bisogni quotidiani dei
migranti, sostengono la campagna «Ingaggiami. Contro il la-
voro nero» e distribuiscono volantini informativi in varie lin-
gue (italiano, inglese, francese e arabo). Nella Masseria i mi-
granti possono usufruire dei servizi di base: acqua potabile,
docce, water chimici, corrente elettrica, presenza di un medi-
co dell’Asl locale dalle 17 alle 22, assistenza legale. Il cibo vie-
ne preparato, per 3-4 euro a pasto, da altri migranti che si de-
dicano esclusivamente a questa attività in baracche collocate
nell’area della masseria e dotate di tavoli, sedie e televisore.
Un centinaio di volontari delle Bsa, provenienti da tutta Italia,
si alternano settimanalmente nella gestione del campo. I 350-
400 migranti, provenienti da diversi paesi africani, lavorano
in agricoltura prevalentemente nella raccolta delle angurie e
dei pomodori.

149
Sabato 2 luglio 2011
Nelle campagne di Castellaneta e di Ginosa, nel tarantino, po-
co lontano da Nardò, vengono arrestate 17 persone italiane e
rumene che minacciavano e sfruttavano soprattutto lavoratri-
ci rumene, costringendole anche a favori sessuali. Un centi-
naio di donne rumene sarebbero state costrette a lavorare nei
campi in condizioni degradanti, minacciate da connazionali
e caporali italiani e costrette a sottostare a richieste sessuali.

Lunedì 18 luglio 2011


Le associazioni Finis Terrae e Brigate di solidarietà attiva, che
gestiscono il centro di accoglienza per braccianti agricoli alla
masseria Boncuri, promuovono la campagna «Ingaggiami
contro il lavoro nero». Durante il lancio della campagna (fatto
tra la fine della raccolta delle angurie e l’inizio di quella dei po-
modori) si parlerà di crisi ma anche di quanto proprio la crisi
renda il lavoro nero e lo sfruttamento più feroci, aumentando
la ricattabilità dei lavoratori. L’iniziativa raccoglie un ampio
risalto negli organi di stampa.

Venerdì 22 luglio 2011


L’associazione Finis Terrae deposita una dettagliata relazione
al Prefetto di Lecce e al Sindaco di Nardò nella quale si espon-
gono i problemi relativi al campo, dalla ridotta quantità di
mezzi a disposizione per l’accoglienza alla presenza dei capo-
rali. Si sottolinea, inoltre, l’importanza di un coordinamento
istituzionale. Si chiede un incontro urgente con tutte le istitu-
zioni preposte. L’incontro avrà luogo il 22 Settembre, a campo
già chiuso.

Fine luglio 2011


La raccolta delle angurie, la coltura più redditizia in quest’area,
è andata male, in parte a causa della concorrenza di prodotti

150
greci e turchi a basso costo. Circa il 60-70% delle angurie non
è stato raccolto e i migranti hanno lavorato poche giornate. Le
proteste degli agricoltori che chiedevano aiuti economici ave-
vano già raggiunto le prime pagine dei giornali nella seconda
metà di luglio.

Sabato 30 luglio 2011


Alle 6 del mattino un gruppo di una trentina di migranti si
rifiuta di svolgere un’ulteriore mansione richiesta da un ca-
porale, migrante anch’esso, di selezione dei pomodori sui
campi per un medesimo salario: 3,50 euro per cassone di cir-
ca 300 chili. Dopo una veloce riunione con altri migranti ri-
masti nel campo si decide per il blocco della vicina strada sta-
tale, che dura però poco a causa dell’immeditato intervento
della polizia. La protesta si conclude con la convocazione di
un’assemblea nella Masseria per il sabato sera autoconvoca-
ta dai braccianti.
Poco prima dell’assemblea, giunge al campo un caporale tu-
nisino con altri tre giovani migranti. Questi per mezz’ora con-
versa con alcuni migranti e salda qualche arretrato. All’as-
semblea auto-gestita dai migranti si decide per lo sciopero e si
reclamano: aumenti del cottimo, abolizione del sistema del
caporalato, «veri» contratti di lavoro, apertura di un ufficio di
collocamento nel campo. I migranti eleggono quattro porta-
voce sulla base delle principali lingue parlate nel campo: ara-
bo, francese, inglese, kwa (ghanese).

Domenica 31 luglio 2011


Verso le tre del mattino vi sono i primi blocchi stradali, portati
avanti da circa 30-40 migranti per evitare che i caporali possa-
no raccogliere i lavoratori. Le strade intorno alla Masseria ven-
gono rese impraticabili mettendo sassi in mezzo alla strada.
Al mattino la Masseria è concentrata sul caso del migrante tu-

151
nisino di 34 anni ospite del campo che viene trovato morto
nella sua tenda. Si saprà in seguito che la causa del decesso è
imputabile a una polmonite virale (se ne registrano circa
quattri caso l’anno).

Lunedì 1 agosto 2011


Lo sciopero continua, mentre da Bari arriva la notizia della ma-
nifestazione dei rifugiati e richiedenti asilo del Cara di Bari.
Anche i giornali nazionali cominciano a interessarsi dello
sciopero. La segretaria nazionale della Flai-Cgil Stefania Crogi
in un comunicato stampa afferma: «Centinaia di lavoratori
immigrati hanno deciso di protestare ieri nelle campagne di
Nardò chiedendo di essere retribuiti in maniera più equa e
pretendendo diritti e tutele. Centinaia di lavoratori senegalesi,
maghrebini, sud africani [sic] hanno deciso di scioperare e di
non andare a raccogliere i pomodori nei campi» (www.flai.it).
Alla sera si tiene una nuova assemblea auto-gestita dove si ri-
badisce l’intenzione di continuare a scioperare e portare avan-
ti il blocco notturno contro i caporali. Yvan Sagnet, emerso co-
me principale leader e portavoce degli scioperanti, rende pub-
bliche le minacce ricevute dai caporali. Solo una quindicina di
braccianti è al lavoro.

Martedì 2 agosto 2011


I lavoratori in sciopero attendono che il Prefetto di Lecce ac-
colga la richiesta, sostenuta anche dall’assessore regionale al
welfare, Elena Gentile, di convocazione di un tavolo con i rap-
presentanti dei datori di lavoro. La solidarietà intanto inizia
ad arrivare, individuale e collettiva, in particolare in aiuti ali-
mentari. Le Bsa distribuiscono un piccolo sacchetto di cibo,
rimarcando che si tratta della solidarietà a lavoratori in lotta,
non di mera elemosina. Alla sera una assemblea decide di
continuare la mobilitazione.

152
Mercoledì 3 agosto 2011
Durante il blocco notturno, i migranti in sciopero hanno pro-
vato a bloccare un furgone di un caporale e le forze dell’ordine
hanno fermato il pulmino, ma il caporale è riuscito a fuggire.
Molti caporali adesso non si fanno vedere al campo, ma qual-
cuno che cerca di portare i lavoratori a raccogliere i pomodori
rimane. D’altra parte gli scioperanti hanno scelto un profilo as-
solutamente moderato contro i crumiri, quanto radicale nella
loro lotta.
Il numero di quanti lavorano è basso, ma qualcuno è stato tra-
sportato fin qui dai caporali dal foggiano per lavorare, mentre
ad altri è stato suggerito di dormire fuori dalla Masseria. Il vo-
lume dei prodotti conferiti nella pesa pubblica di Nardò è co-
munque dimezzato rispetto all’anno scorso.
L’onorevole Teresa Bellanova (Pd) presenta un’interrogazione
parlamentare in merito ai fatti della Masseria. In particolare
si sofferma sulla mancanza di servizi adeguati forniti nel
Campo, quali l’acqua calda.
Continuano le minacce, anche di morte, nei confronti dei
principali promotori dello sciopero. Nuove denunce vengono
depositate presso il commissariato di polizia e la stazione dei
carabinieri di Nardò. Si chiede al Prefetto la convocazione di
un tavolo per affrontare la questione.
L’associazione Finis Terrae e le Bsa lanciano una cassa di resi-
stenza per aiutare i migranti in sciopero.

Giovedì 4 agosto 2011


Dopo il consueto blocco notturno, al mattino un centinaio di
migranti effettua un sit-in davanti alla Prefettura di Lecce per
l’apertura di un tavolo negoziale, anche grazie al sostegno del-
la Flai-Cgil locale. Uno degli striscioni firmato dai braccianti
di Nardò recita: «Contro lo sfruttamento e la discriminazione
dei lavoratori». Una delegazione di lavoratori viene ricevuta

153
dal viceprefetto vicario, presente anche l’assessore alle attività
produttive della provincia di Lecce, Salvatore Perrone, che
convoca un tavolo in prefettura per lunedì 8 agosto. Lavorato-
ri e imprese dovrebbero confrontarsi alla presenza di associa-
zioni sindacali e padronali.
Il presidente del gruppo consiliare Sel della Regione Puglia,
Michele Losappio, chiede alla giunta regionale di intervenire
nella vertenza dei braccianti.
Alla sera una nuova assemblea auto-gestita, in presenza delle
telecamere della televisione, conferma la volontà della mag-
gior parte dei migranti presenti nella Masseria di continuare
lo sciopero. Intanto viene aperto un blog (http://braccianti-
boncuri.wordpress.com/) per comunicare la lotta.

Venerdì 5 agosto 2011


Continuano i blocchi notturni dissuasivi, ma il numero di mi-
granti al lavoro comincia a crescere. Il Raggruppamento ope-
rativo speciale (Ros) dei carabinieri del comando provinciale
di Lecce indaga nella zona di Nardò per il reato di «riduzione
in schiavitù» sotto la supervisione di Cataldo Motta che dirige
la Direzione distrettuale antimafia di Lecce.
Nel campo in questi giorni sono presenti le forze dell’ordine
per monitore la situazione; arrivano inoltre giornalisti e tele-
camere; Presa diretta, Report, televisioni locali quali TeleNor-
ba, il Tg3, giornalisti della carta stampata, oltre a qualche sin-
dacalista e a meri curiosi, magari in vacanza nelle spiagge del
Salento.
Alla sera si svolgono lunghe discussioni tra i lavoratori, con
qualche momento di tensione. Una parte dei migranti è infa-
stidita dalla eccessiva attenzione mediatica, altri vorrebbero
estendere la protesta alle altre aree di raccolta: Foggia, Palaz-
zo San Gervasio. Anche la Flai-Cgil regionale sembra inten-
zionata a mobilitarsi per le prossime raccolte.

154
Sabato 6 agosto 2011
I blocchi dissuasivi non vengono più effettuati. Circa un cen-
tinaio di migranti, sui quasi quattrocento presenti, è ritornato
al lavoro. L’azione di padroni e caporali sembra dare i frutti
sperati: ingaggio di crumiri provenienti anche dalla provincia
di Foggia; suggerimenti da parte dei caporali per alimentare
conflitti tra scioperanti di diverse nazionalità; minacce dirette
e indirette ai protagonisti più in vista.
Alcuni caporali hanno regolarizzato la posizione contrattuale
dei lavoratori e alzato il prezzo del cassone fino a 6 euro. Ma
in altri casi i caporali vogliono «far pagare cara» la protesta ai
migranti con un ulteriore abbassamento del prezzo del cotti-
mo. Una parte dei migranti si rifiuta di tornare a lavorare a
quelle condizioni. La regolarizzazione contrattuale penalizza
le poche decine di persone senza documenti, alcune delle
quali lavorano però sotto falso nome. I caporali, che restano
sostanzialmente impuniti – incorrono in una semplice san-
zione amministrativa di circa 40-50 euro -, ricominciano a
farsi vedere alla Masseria.
Al mattino alcuni lavoratori della Fiom-Cgil incontrano i brac-
cianti in sciopero. Nel pomeriggio si svolge un’assemblea di
realtà antirazziste per discutere anche delle prossime raccolte.
L’assemblea è affollata da almeno cinquanta persone – cariche
anche di cibo e sostegno concreto agli scioperanti – venute da
tutta la Puglia, ma anche dalla Basilicata, dalla Calabria, da Bo-
logna e altre città del Nord. Qualcuno ricorda con forza ai lavo-
ratori di Nardò che questo è un evento storico: è la prima volta
che braccianti stranieri impegnati in agricoltura decidono di
scioperare in modo auto-organizzato per rivendicare diritti le-
gati al lavoro e per spezzare il sistema del caporalato. L’assem-
blea mette in luce diverse sensibilità: le Reti antirazziste pu-
gliesi sostengono la necessità di organizzare nelle prossime
settimane a Bari una manifestazione regionale, allargata ad al-

155
tre realtà del Sud Italia, che parli non solo dello sciopero di
Nardò, ma anche di quanto sta avvenendo al Cara di Bari e ai
migranti «ospitati» a Manduria; altri discutono invece di come
aiutare i migranti a dare seguito allo sciopero o ad altri tipi di
mobilitazione nei territori delle prossime raccolte, a Foggia, a
Palazzo San Gervasio, a Rosarno.

Domenica 7 agosto 2011


Il procuratore Cataldo Motta capo della Direzione distrettua-
le antimafia di Lecce rilascia un’intervista sulle pagine locali
di «Repubblica» (p. V) in cui esclude la presenza della crimi-
nalità organizzata salentina dietro alla gestione della raccol-
ta agricola, difende gli organi deputati ai controlli sul lavoro
in quanto dispongono di capacità limitate, mentre afferma:
«Penso piuttosto che anche i sindacati abbiano le loro re-
sponsabilità, perché prima di essere difensori di altri inte-
ressi, dovrebbero essere i controllori delle modalità di lavo-
ro. Di recente su Nardò c’è stato un intervento sindacale ma
ho la sensazione che sia stato fatto in ritardo, a fuochi spara-
ti». Di fronte alle denunce portate avanti autonomamente
dai migranti nei casi di Nardò e dei parchi del fotovoltaico
nella primavera del 2011, Cataldo afferma: «Gli immigrati
negli ultimi mesi ci hanno dato una grande lezione di civiltà,
dimostrando che non bisogna avere paura di denunciare e
che quando la denuncia diventa corale si stempera ogni ri-
schio… Dovremmo imparare ad avere coraggio, prendere
esempio da chi lo ha avuto pur essendo in una condizione di
grande debolezza».
Alla Masseria la giornata passa lenta, in attesa dell’incontro in
Prefettura dell’indomani. Il numero di migranti che sono tor-
nati al lavoro rimane stabile, mentre continua la solidarietà. Al-
la sera una nuova assemblea auto-organizzata rilancia lo scio-
pero e chiede anche a chi ha ripreso il lavoro di sospenderlo.

156
Lunedì 8 agosto 2011
All’incontro in Prefettura a Lecce partecipano: una delegazio-
ne di braccianti, alcune associazioni datoriali, la Flai-Cgil, la
Regione Puglia, la Provincia di Lecce, il Comune di Nardò, l’as-
sociazione Finis Terrae e le Bsa. Gli accordi, che non vengono
però sottoscritti né dai migranti in sciopero né dall’associazio-
ne Finis Terrae né dalle Bsa, riguardano: l’istituzione di liste di
prenotazione per i lavoratori immigrati stagionali a livello spe-
rimentale presso il Centro per l’impiego di Nardò, dalle quali le
aziende dovrebbero scegliere la forza lavoro; il trasporto dalla
masseria fino ai campi, garantito gratuitamente dal Comune
di Nardò, per quanti saranno scelti dalle aziende dalle liste di
prenotazione; la convocazione delle associazioni datoriali, at-
traverso l’Agea, l’ente regionale che gestisce i contributi euro-
pei, per orientarle all’utilizzo delle liste di prenotazione; infine
la costruzione di una Commissione provinciale tripartita per
l’agricoltura. La delusione dei migranti è forte e si decide di ri-
manere di fronte alla Prefettura per un sit-in a oltranza. La pro-
testa porta subito a un altro appuntamento in Regione per l’in-
domani. Intanto una delle associazioni datoriali, la Cia, riven-
dica la propria assenza all’incontro in quanto essa «non
rappresenta e né intende rappresentare presunti agricoltori,
per lo più mediatori e commercianti che utilizzano in modo
selvaggio i caporali e praticano lo schiavismo».
In mattinata gli assessori regionali alle Politiche agricole Da-
rio Stefàno e al welfare-lavoro Elena Gentile effettuano un so-
pralluogo nella Masseria per capire i motivi della protesta.
Alla sera Nabil Salameh del gruppo musicale Radiodervish,
dal palco di Nardò dove sta tenendo un concerto, testimonia
la propria vicinanza ai braccianti in lotta.
Una nuova assemblea auto-organizzata alla sera alla Masse-
ria discute gli scarsi risultati ottenuti e rilancia per un’ampia
partecipazione di migranti a Bari presso la Regione per l’in-

157
domani. Il numero di migranti ritornato al lavoro sale, ma la
protesta ha ancora una presa piuttosto ampia nella Masseria.
Gli scioperanti vogliono andare fino in fondo.

Martedì 9 agosto 2011


Alle 15 l’incontro presso l’assessorato alle Politiche agricole
della Regione Puglia a Bari, a cui partecipano associazioni da-
toriali, i tre sindacati confederali, alcuni assessori regionali,
Bsa e Finis Terrae e una rappresentanza dei lavoratori in scio-
pero, conferma gli accordi siglati alla Prefettura di Lecce il
giorno precedente. Vengono stanziati dei fondi per il miglio-
ramento delle condizioni di vita nella Masseria e la Regione si
impegna a cercare di collegare i finanziamenti regionali all’a-
gricoltura con maggiori controlli sul lavoro.

Mercoledì 10 agosto 2011


Nella Masseria si respira un’aria di delusione e un sentimen-
to di amarezza. I migranti cominciano a iscriversi alle liste
aperte al centro di collocamento di Nardò, ma i datori di lavo-
ro non sono obbligati a reclutare da tale lista. Una parte sem-
pre più consistente decide di tornare al lavoro sia perché la
lotta sta diventando economicamente insostenibile, sia su
pressioni dei caporali.

Giovedì 11 agosto 2011


È un giorno ad alta tensione. Si cerca di capire quali sono le
prossime mosse, ma i migranti comprendono che gli spazi di
manovra sono ormai assai ristretti. Nella notte Yvan Sagnet
lascia la Masseria dopo una accesa discussione con un grup-
po di scioperanti. Lo sciopero è sostanzialmente finito, sebbe-
ne alcune decine di persone rivendichino ancora la loro
astensione dal lavoro.

158
Sabato 13 agosto 2011
La situazione alla Masseria rimane tesa e la chiusura è antici-
pata di una decina di giorni. Il sindaco di Nardò in visita pro-
mette una certa attenzione ai bisogni dei migranti, in partico-
lare a quanti necessitano di andarsene e sono senza un soldo.
Il governo vara un decreto d’urgenza (n. 138) nel quale intro-
duce all’articolo 12 il reato di «intermediazione illecita e sfrut-
tamento del lavoro»: per i braccianti di Nardò è un riconosci-
mento della lotta. I caporali però continuano indisturbati a
muoversi dentro e fuori il campo, nonostante la decina di de-
nunce che gli stessi migranti hanno risolutamente presenta-
to in questi giorni alle forze dell’ordine.
Nel frattempo un’impresa assume regolarmente una decina
di lavoratori dalle liste di prenotazione, applicando la tariffa
oraria di 5,92 euro e mettendo a disposizione dei lavoratori
un piccolo alloggio.
Nella stessa giornata, alcuni membri delle Bsa e una delega-
zione dei migranti in sciopero partecipano a Palazzo San Ger-
vasio (PZ) a un’assemblea che riunisce varie realtà associative
che si occupano del lavoro dei migranti in agricoltura in vari
territori dell’Italia meridionale (Osservatorio Migranti Basili-
cata, Osservatorio Migranti Africalabria Rosarno, EquoSud,
Assemblea dei lavoratori africani di Rosarno a Roma), ma an-
che associazioni contadine, osservatori sulle migrazioni, cen-
tri sociali, e una rappresentanza della Cgil. L’assemblea si po-
ne l’obiettivo di costruire una rete tra queste realtà per dare
maggiore forza alle lotte dei migranti in agricoltura, per con-
nettere le mobilitazioni nei vari territori e per costruire una
lotta contro la Grande distribuzione organizzata. Una secon-
da assemblea di questo coordinamento si terrà a Castelvoltur-
no (Caserta) l’11 settembre; la rete parteciperà con un proprio
spezzone alla manifestazione di Roma del 15 ottobre e il 16 ot-
tobre terrà una terza assemblea nazionale, aperta anche ad as-

159
sociazioni contadine e gruppi di acquisto solidale del centro-
nord Italia.

Mercoledì 17 agosto 2011


Altri otto lavoratori vengono assunti da due medie aziende
che lavorano ortaggi. Queste assunzioni non avvengono però
attraverso la lista di prenotazione.

Giovedì 18 agosto 2011


Prima del concerto al Parco Gondar di Gallipoli, il cantante
Caparezza incontra un gruppo di lavoratori migranti e gli atti-
visti della Masseria Boncuri. Poi, a sostegno della campagna
nazionale «Ingaggiami. Contro il lavoro nero», indossa, per
tutto il concerto, la t-shirt con impresso lo slogan.

Sabato 20 agosto
Dal palco della festa «LiberaGrecìa» di Zollino (Lecce) prima
dell’inizio del concerto della Banda Bassotti un giovane tuni-
sino racconta la lotta dei braccianti migranti.
Intanto si decide di prorogare senza clamori la chiusura del
campo della Masseria poiché vi sono ancora molti migranti.
Gli aiuti per il trasporto dei migranti fino alle loro destinazio-
ni offerti dal sindaco non vengono forniti e tra gli immigrati
cresce la tensione.
Contemporaneamente, alla Masseria Boncuri diventano visi-
bili gli effetti della capacità di auto-organizzazione cresciuta
durante lo sciopero. Alcuni braccianti, non pagati per il loro
lavoro, sequestrano le chiavi del camioncino di un caporale e,
una volta bloccato, chiamano i carabinieri. Le forze dell’ordi-
ne prendono in consegna il caporale e lo costringono a pagare
i braccianti. Il pagamento avviene negli uffici della Masseria
alla presenza dei volontari, su esplicita richiesta dei braccian-
ti. La contraddizione è evidente: i carabinieri non informano i

160
lavoratori del loro diritto a denunciare il caporale; saranno i
volontari a farlo, mentre costringono il caporale a pagare tutti
allo stesso modo.

Mercoledì 24 agosto 2011


Yvan Sagnet ritorna alla Masseria e cerca di ricostituire il
gruppo iniziale dello sciopero per provare ad estenderlo nelle
prossime raccolte.
A Nardò si svolge un concerto organizzato dal Comune, dalla
Flai-Cgil e da alcune associazioni e artisti pugliesi dal titolo
«NO CAP – Artisti pugliesi contro lavoro nero e caporalato» a
cui partecipano Eltdown, Mentaly Doof, Aban, Laїoung, San-
tu Pietru cu tutte le chiai, Tonino Zurlo, Eugenio Bennato e
Mohammed Ezzaime El Alaoui, Sonia Totaro, Ezio Lambia-
se. I proventi del concerto andranno a favore dei migranti in
sciopero. Il 13 ottobre, presso la sede Flai-Cgil di Roma, in una
conferenza stampa verrà presentato il Cd-Dvd «NO CAP – Ar-
tisti contro il lavoro nero e il caporalato».

Giovedì 25 agosto 2011


A Bari si tiene la manifestazione regionale antirazzista (contro
il razzismo, le discriminazioni e la precarietà) che era stata lan-
ciata il 6 agosto alla Masseria. Al corteo partecipano circa 500
persone. Negli slogan e negli interventi vi è un forte sostegno ai
braccianti di Nardò e alle loro rivendicazioni, contro il capora-
lato ed il lavoro nero, per assunzioni regolari, salari equi e il ri-
spetto del contratto collettivo nazionale di lavoro. Un gruppo di
una cinquantina di migranti di Nardò partecipa all’iniziativa.

Venerdì 26 agosto 2011


Una delegazione degli scioperanti si reca nel «ghetto» di Ri-
gnano Garganico (una baraccopoli abitata da centinaia di
braccianti stagionali africani) nel foggiano per un’assemblea.

161
Buona l’accoglienza, sebbene la situazione sia molto più com-
plicata e dispersa rispetto alla Masseria Boncuri.

Sabato 27 agosto 2011


A Melpignano al grande concerto finale della Notte della Ta-
ranta molti musicisti e tecnici indossano magliette con l’ade-
sivo «No Cap. Artisti pugliesi contro il caporalato». Alle
22.40, di fronte ai 100 mila presenti, Yvan Sagnet, il giovane
camerunense leader dello sciopero, insieme ad altri tre brac-
cianti, sale sul palco e lancia un messaggio di denuncia con-
tro lo sfruttamento dei braccianti. Il discorso di Yvan Sagnet è
seguito con grande attenzione dal pubblico dei «tarantolati».
L’edizione 2011 della Notte della Taranta è dedicata alla me-
moria di Uccio Aloisi, una delle voci storiche della pizzica sa-
lentina, scomparso nell’ottobre scorso. Aloisi, da giovane,
aveva partecipato, come bracciante, all’occupazione delle ter-
re dell’Arneo.
L’ex presidente del consiglio Massimo D’Alema, attualmente
deputato del Pd, chiede di incontrare una delegazione degli
scioperanti di Boncuri. In seguito, secondo la cronaca del sito
«20 centesimi», D’Alema visita il banchetto di sostegno alla
lotta dei migranti allestito dalla Flai-Cgil di Lecce e lascia «un
contributo, comunicando anche il suo indirizzo mail per rice-
vere una testimonianza scritta sui fatti di Boncuri. E promet-
terà di occuparsene» (www.20centesimi.it).

Mercoledì 31 agosto 2011


Il campo dovrebbe ufficialmente chiudere, ma circa 150 mi-
granti sono ancora alloggiati. I braccianti non hanno soldi per
andarsene; il Comune di Nardò offre 30 euro a testa.
La Flai-Cgil della Puglia scrive una lettera aperta a Nichi Ven-
dola per prorogare il servizio di accoglienza presso il campo
della Masseria Boncuri e completare gli accordi sottoscritti

162
qualche settimana prima. Anche Teresa Bellanova, deputata
del Pd, scrive a Vendola chiedendo un impegno più incisivo
per affrontare l’anno prossimo le questioni legate alla presen-
za della manodopera immigrata.
Ft e Bsa nel giorno della chiusura del campo chiedono che l’e-
ventuale prolungamento delle attività del campo sia a carico
delle aziende per rompere lo schema «spese pubbliche, profitto
privato» (www.controlacrisi.org/notizia/Lavoro/2011/9/1/
15420-DALLA-MASSERIA-BONCURI:-E%27-ORA-CHE-LE-
AZIENDE-AGRICOLE/)

Giovedì 1 settembre 2011


Il sito di informazione «20 centesimi» pubblica un video in
cui alcuni lavoratori accusano di razzismo i volontari dell’as-
sociazione Finis Terrae e delle Bsa. Già il primo di agosto era
palese il disprezzo che «20 centesimi» aveva rispetto al lavoro
svolto dai volontari: «La masseria Boncuri, a Nardò, ad oggi, è
poco più di uno slum, di una bidonville… La nostra visita allo
slum di Boncuri viene interrotta con discrezione da qualche
volontario che ci avvisa che gli immigrati non vogliono essere
fotografati. In realtà molti ci invitano a fotografare, più che lo-
ro, il campo. Poi i volontari ci spiegano quello che fanno. O
che provano a fare in questo disastro dell’accoglienza che è
Boncuri».
In un comunicato stampa Ft e Bsa chiedono al Prefetto di
convocare le aziende che utilizzano lavoratori stranieri per or-
ganizzare un’accoglienza a carico delle aziende stesse.

Venerdì 2 Settembre
In un comunicato stampa Ft e Bsa invitano tutti i soggetti socia-
li a prendere posizione sulla questione del coinvolgimento del-
le aziende nell’accoglienza, poiché le stesse beneficiano del la-
voro svolto dai braccianti stranieri. Si denuncia la lobby delle

163
aziende ed il probabile intreccio con la politica (www.controla-
crisi.org/notizia/Lavoro/2011/9/2/15446-MASSERIA-BON-
CURI:-BSA/FT-CHIESTO-INTERVENTO-PREFETTO-PER/)

Sabato 3 Settembre
Un caporale tunisino minaccia di morte la Presidente di Finis
Terrae e il coordinatore del progetto di Boncuri. Ft denuncia
l’accaduto e convoca per il giorno 5 Settembre una conferenza
stampa alla Masseria Boncuri.

Martedì 6 settembre 2011


Il campo della Masseria Boncuri chiude. I pochi migranti ri-
masti se ne vanno.

Mercoledì 7 settembre 2011


L’assessore regionale Elena Gentile dichiara che verranno at-
tivate liste di prenotazione per il reclutamento della manodo-
pera in agricoltura nei Centri per l’impiego di tutte le provin-
ce pugliesi. Per le aziende che assumeranno i lavoratori attra-
verso le liste di prenotazione sono previsti degli incentivi.

Giovedì 22 Settembre
Alla Prefettura di Lecce si svolge una riunione per analizzare la
situazione; il tavolo di discussione è convocato dalla neo pre-
fetto Giuliana Perrotta. Il tavolo ha luogo grazie alla relazione
di Ft di luglio. Al tavolo è presente il procuratore della Repub-
blica Cataldo Motta, oltre a Finis Terrae e alle rappresentanze
datoriali e sindacali, insieme a tutti i rappresentanti degli orga-
ni di Pubblica sicurezza (Carabinieri, Polizia, Guardia di Fi-
nanza). Il tavolo istituisce una conferenza provinciale perma-
nente sul tema. Al momento non è più stato riconvocato.

164
Gli autori

Bsa (Brigate di solidarietà attiva): federazione di associazioni


dislocate sul territorio nazionale. Nascono nel 2009 dal ter-
remoto dell’Aquila. Hanno gestito il campo di Tempera per la
popolazione abruzzese (in contrapposizione per principi
ispiratori a quelli della protezione civile). Nei diversi territo-
ri di appartenenza portano avanti progetti di auto organizza-
zione dal basso ad ampio raggio dal sostegno delle lotte dei
lavoratori disoccupati o in cassa integrazione nelle fabbriche
(come la Frattini e l’Eutelia) all’accoglienza dei tunisini e del-
le popolazioni subshariane richiedenti asilo (Marzo 2011). La
gestione della Masserie Boncuri e la campagna «INGAG-
GIAMI CONTRO IL LAVORO NERO» è uno dei progetti na-
zionali sviluppati negli ultimi due anni.

Gianluca Nigro: operatore sociale. È membro dell’associa-


zione Finis Terrae Onlus. Responsabile del Progetto
A.M.I.C.I della Masseria Boncuri di Nardò dal 2010. Ha pub-
blicato alcuni saggi sul lavoro migrante in agricoltura e sul
diritto d’asilo in Italia. Da circa quindici anni si occupa di in-
terventi sul tema dell’immigrazione.

Mimmo Perrotta: è docente a contratto di Comunicazione


interculturale e Sociologia dell’organizzazione presso l’Uni-
versità di Bergamo. E’ autore del volume Vite in cantiere. Mi-
grazione e lavoro dei rumeni in Italia (Il Mulino, 2011).

Devi Sacchetto: è ricercatore di Sociologia del lavoro presso


la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova. Tra i
suoi lavori recenti, Ai margini dell’Ue. Spostamenti e insedia-
menti a Oriente (a cura di, Carocci 2011), Fabbriche galleggian-
ti. Solitudine e sfruttamento dei nuovi marinai (Jaca Book
2009), il volume curato con Massimiliano Tomba, La lunga
accumulazione originaria. Politica  e lavoro nel mercato mon-
diale (ombre corte, 2008).

Yvan Pierr Jean Sagnet: È nato il 4 aprile del 1985 a Douala


(Camerun). Nell’agosto 2008 arriva in Italia e si iscrive al po-
litecnico di Torino per studiare Ingegneria delle Telecomuni-
cazioni. Per sostenere le spese delle tasse universitarie cer-
cherà lavoro nelle campagne pugliesi, sarà uno dei portavoce
durante lo sciopero alla Masseria Boncuri nell’agosto 2011.

166
Indice

Introduzione 5

Mimmo Perrotta, Devi Sacchetto


«Un piccolo sentimento di vittoria». Note
sullo sciopero di Nardò 9

Yvan Sagnet
Tutte le cose belle si ottengono lottando 56

Gianluca Nigro
Lavori in corso. Pratiche e idee
per la liberazione del lavoro migrante 76

Brigate di Solidarietà attiva


Masseria Boncuri: sciopero e contraddizioni 101

Cronologia: lo sciopero e le sue dinamiche 148


finito di stampare nel mese di gennaio 2012
presso la tipografia Iacobelli
per conto delle edizioni DeriveApprodi

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