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2017

Odissea nel disastro

di Francesco Federico Pagani


INDICE
0) Prologo
1) Ciclo Ventura
2) Ciclo venturo
3) Tavecchio e la FIGC
4) Barriere in entrata
5) Formare i formatori
6) Scuole calcio e settori giovanili
7) Centri Federali Territoriali
8) Squadre B
9) Troppi stranieri?
10) Ius Soli
11) Mutamenti sociali
12) L'importanza della famiglia
13) Sovraesposizione mediatica
0. Prologo

L'Italia non si è qualificata al Mondiale che si disputerà in Russia nell'estate del 2018.

Un evento storico, con un solo precedente lontano ormai più di mezzo secolo. Escludendo la prima
edizione del 1930, con l'Italia che non si iscrisse per i costi esorbitanti della trasferta in Uruguay,
solo nel 1958 gli Azzurri non erano riusciti a centrare l'accesso al torneo calcistico più importante
del globo.

La mancata partecipazione ad un Mondiale è una notizia quindi tremenda per il nostro paese, sotto
molti punti di vista. Che in questo pamphlet proverò a sviscerare per quanto posso.

Ovviamente il tutto deve essere letto con l'occhio giusto, capendo l'ottica in cui l'ho scritto.

Non si tratta di un voler puntare il dito verso i possibili colpevoli, che è un esercizio di stile e
d'indignazione fine a sé stesso, quanto provare ad aprire (questo vorrei, poi capisco di non essere
nessuno per poterci riuscire) una discussione ad ampio spettro su quella che è oggi la situazione del
calcio italiano e sul come operare per garantirci un futuro migliore di questo triste presente.

Ovviamente partendo dal presupposto che le opinioni qui espresse sono frutto della mia semplice
esperienza, non verità assolute.

Con un però, in tutto ciò.


Sono il primo a pensare che il calcio vada riformato, ma sono altrettanto certo che abbia ragione
Giorgio Chiellini quando dice “in questo momento si deve avere grande equilibrio e grande
pazienza, perché se si vogliono fare tante scelte per cambiare il calcio in un solo giorno credo che
si vada verso la direzione sbagliata”.

Ecco.
No all'indignazione fine a sé stessa che porta ad una caccia alle streghe inutile e futilmente
appagante per “la pancia”, sì ad una ricostruzione ragionata del nostro movimento.
Con equilibrio e pazienza, ma anche incisività e decisione.

1. Ciclo Ventura

Gian Piero Ventura fu designato Commissario Tecnico della Nazionale Italiana il 7 giugno 2016,
entrando ufficialmente in carica il 18 luglio dello stesso anno e debuttando l'1 settembre a Bari
contro la Francia (sconfitta per 3 a 1).

Il mandato dell'ex tecnico del Torino (oltre che di una lunga serie di altre squadre) verteva
fondamentalmente su due macro-obiettivi:
• qualificazione al Mondiale russo;
• inizio di un nuovo ciclo, con l'inserimento di un po' di forze fresche.

Gli Azzurri erano infatti reduci dal biennio Conte. Un'esperienza sicuramente positiva sotto il punto
di vista dei risultati (eliminazione ai quarti di finale, per di più ai rigori, contro i Campioni del
Mondo in carica tedeschi) ma che di fatto non aveva aperto grandi spazi ai giovani. Non aveva
piantato semi per costruire l'Italia del domani.

Fatta salva la presenza del 22enne Federico Bernardeschi, infatti, l'allenatore salentino capace di
aprire l'attuale ciclo di vittorie juventine non aveva convocato giocatori in età da under 21 per la
rassegna continentale del 2016.
Non solo. L'età media della sua formazione-tipo era decisamente alta: prendendo come base un
undici composto da Buffon, Barzagli, Bonucci, Chiellini, Candreva, Parolo, De Rossi, Giaccherini,
Darmian, Eder e Pellè l'età media ammontava a 31,45 anni.

Di fronte ad una situazione del genere era evidente quindi che la nostra Nazionale non potesse
limitarsi a pensare di doversi qualificare al Mondiale, cosa scontata (il porsi l'obiettivo, intendo)
quando ti chiami Italia; ma anche quello di iniziare un processo di rifondazione che potesse
permettere l'ingresso nel gruppo di forze fresche, così da presentarsi due anni più tardi in Russia con
una formazione-tipo che non avesse 33,45 anni di media.

Eppure se andiamo a prendere l'11 schierato da Ventura in Svezia possiamo notare come il portiere,
i tre difensori, i due esterni e due dei centrocampisti fossero nuovamente titolari (per un'età media di
32,75 anni).
Questa invece la situazione degli altri tre:
• interno sinistro ci ha giocato Verratti, assente solo perché infortunato all'Europeo, in luogo
di un Giaccherini ultra-riserva nel club;
• seconda punta ci ha giocato un Immobile comunque già presente (e subentrante) in Francia,
con Eder inserito a partita in corso;
• la prima punta è stata quindi l'unica vera novità della Nazionale di Ventura: quel Belotti che
in diversi avrebbero già voluto vedere almeno convocato all'Europeo, schierato in luogo di
un Pellè abbastanza impresentabile dopo il trasferimento in Cina.

L'obiettivo secondario a stretto giro di posta ma fondamentale per quanto riguarda la


programmazione a medio-lungo termine, quindi, Gian Piero Ventura l'ha fallito in pieno.

In realtà il 2016 aveva fatto emergere un dato che sembrava poter dare speranza in merito al
ringiovanimento Azzurro: come riportato infatti da un articolo di Goal.com1 l'età media dei sette
debuttanti di quell'anno fu di 21,57 anni, la più bassa dal 1988.

In questo senso una mano importante l'ha data sicuramente il lancio di un ancora minorenne
Gianluigi Donnarumma. Ma Jorginho e Sturaro a parte anche Belotti, Bernardeschi, Romagnoli e
Rugani erano ancora in età da “under”.

Purtroppo le presenze a spot non bastano ad aprire un ciclo. Ed ecco che di sette debuttanti in
Svezia ne ha giocato uno solo.

Se ancora non siete convinti della mancata apertura di un nuovo ciclo da parte di mister Ventura vi
do qualche altro dato.

Prendiamo le dodici partite ufficiali giocate nel corso della gestione del mister di Genova ed
andiamo a vedere lo spazio che hanno trovato i più giovani. Cioè coloro i quali, sulla carta, l'ex
allenatore Granata avrebbe dovuto inserire gradualmente per iniziare a svecchiare la nostra
Nazionale potendo arrivare in Russia con una formazione che ricordasse solo in parte quella, già
piuttosto in là con gli anni, schierata da Conte in Francia.

Per farlo prendiamo quindi a riferimento i giocatori nati dal 1994 in poi, ovvero quei ragazzi che il
giorno dell'arrivo di Ventura sulla panca della Nazionale maggiore erano ancora convocabili dalla
nostra under 21, e guardiamo il loro minutaggio nelle dodici partite ufficiali disputate nel corso
delle qualificazioni Mondiali.

1 http://www.goal.com/it/news/4962/nazionali/2016/10/08/28293922/italia-per-giovani-nel-2016-sette-esordienti-under-22-non
In questa tabella, ovviamente, non riporterò tutti i giocatori italiani nati dal 1994 in poi, né tutti
quelli che hanno fatto parte delle nostre Nazionali under. Mi limiterò solo a quelli che sono stati
effettivamente utilizzati dal nostro – ormai ex – C.T.

Giocatore/partita 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 Tot.
Conti 0 0 0 0 0 0 0 49 0 0 0 0 49
Rugani 0 0 0 0 0 0 0 0 45 0 0 0 45
Romagnoli 0 90 90 90 0 0 0 0 0 0 0 0 270
Gagliardini 0 0 0 0 0 0 0 0 75 90 0 0 165
Cristante 0 0 0 0 0 0 0 0 15 0 0 0 15
Pellegrini 0 0 0 0 0 90 0 0 0 0 0 0 90
Bernardeschi 0 0 64 0 0 30 20 3 26 0 0 14 157
Totale 0 90 154 90 0 120 20 52 161 90 0 14 791

Insomma, i giocatori in odore di under 21 (nota bene: da luglio 2017 in poi i classe 94 e 95 non
sono più convocabili nella rappresentativa giovanile, ma solo in quella maggiore!) che hanno
trovato spazio in campo sono stati solo otto per un totale di 791 minuti (fonte dei dati: tabellini
Soccerway).
Una vera miseria.

Così mentre i ragazzi di cui sopra venivano utilizzati col contagocce, altri di spazio in partite
ufficiali non ne hanno proprio trovato. Giocatori come Donnarumma, Caldara, Barreca, Chiesa,
Berardi e perché no Petagna avrebbero potuto mettere quantomeno piede in campo, se non altro
contro avversari morbidi come Israele, Liechtenstein e Macedonia. Ma così non è stato.

Insomma, non solo Ventura non è riuscito a costruire un'impalcatura tecnico-tattica funzionale,
insistendo sul suo 4-2-4 pur di fronte a risultati mediocri e gioco inesistente; non solo non ci ha
portati al Mondiale, chiudendo al secondo posto un girone certo non semplice per poi crollare allo
spareggio contro una Nazionale ampiamente alla portata.
No, a tutto questo Gian Piero Ventura ha unito anche il poco coraggio e la poca volontà di
programmare il futuro Azzurro, non dando il via ad una attesissima e dovutissima rifondazione.

Un esempio su tutti: dopo l'Europeo del 2016 Andrea Barzagli, all'epoca 35enne, chiuse la sua
carriera internazionale.
Essendo però un giocatore ancora discretamente affidabile il nostro ex C.T. pensò bene di spingerlo
a riconsiderare la propria scelta.

Una decisione che volendo potrebbe anche non essere del tutto folle: il 6 ottobre 2016 si giocava
Italia vs. Spagna ed era logico pensare che Ventura volesse avere a disposizione tutto il meglio
possibile per provare a non soccombere contro le Furie Rosse.
Missione compiuta perfettamente, per altro, se è vero che anche grazie all'apporto di Barzagli
strappammo un 1 a 1 in rimonta che ci tenne ancorati agli spagnoli sino alla gara di ritorno.

Però l'idea non poteva e non doveva essere quella di tenere Barzagli titolare per un altro biennio,
arrivando a novembre del 2017 a giocarsi le due partite decisive per l'approdo al Mondiale russo
con il centrale di Fiesole ancora titolare.
Capiamoci: nelle dodici partite ufficiali del “Regno Ventura” il difensore laureatosi, pur da
comprimario, Campione del Mondo nel 2006 è stato in campo per ben 855 minuti, più degli under
21 nel loro complesso; il tutto grazie a ben 10 presenze da titolare, di cui una sola (in casa con la
Macedonia) con sostituzione all'intervallo.
I minuti saltati da Barzagli, per altro, non sono dovuti ad una scelta tecnica, bensì a problemi fisici:
✔ la gara del 14 novembre 2016 contro il Liechtenstein la salta a causa di un infortunio alla
spalla che lo terrà fermo 40 giorni;
✔ nella partita del 6 ottobre 2017 con la Macedonia uscirà all'intervallo a causa di un
risentimento muscolare;
✔ quello stesso stop lo porterà a saltare anche il match disputato tre giorni dopo in Albania.

Insomma, alla gestione Ventura è mancato un po' tutto:


• i risultati, con la non qualificazione Mondiale a sessant'anni dalla prima – e non più unica –
volta;
• il gioco, con la squadra che ha perso un sacco di tempo dietro ad un 4-2-4 insostenibile per
poi non riuscire più a trovare il bandolo della matassa col ritorno al 3-5-2 di contiana
memoria;
• il tentativo di valorizzare i talenti migliori, con quel 4-3-3 mai provato con cui si sarebbe
potuto provare ad esaltare giocatori come Verratti ed Insigne ma anche, alternandoli, Belotti
ed Immobile;
• la personalità, che ci ha portato ad uscire mestamente contro una squadra inferiore;
• il ricambio generazionale, non avendo di fatto non ha lanciato giocatori nuovi (se non
Belotti, già non più under 21 all'arrivo di Ventura).

2. Ciclo venturo

Con la crisi apertasi in FIGC dopo le dimissioni di Tavecchio è plausibile pensare che il nome del
prossimo C.T. della Nazionale italiana non arriverà che tra qualche mese.

L'ormai ex presidente federale, in realtà, pare che avesse fatto una proposta seria ed importante a
Carlo Ancelotti, il quale però avrebbe declinato. E chissà, forse proprio lì si è consumato l'addio del
dirigente nativo di Ponte Lambro: con il nome di un big in tasca cui affidare la Nazionale del
prossimo futuro Tavecchio avrebbe sicuramente riacquisito almeno un minimo di forza mediatica,
magari sufficiente a tenere insieme la maggioranza che lo sosteneva all'interno del consiglio
federale.

In realtà però a me questo giochino tutto imperniato sui nomi interessa poco.
E' logico che spero nel miglior allenatore possibile per la mia Nazionale, ma credo che in primis la
cosa importante sia costruire un progetto solido in cui calarlo, non fare come al solito il contrario (e
ciò cercare un nome che faccia passare in secondo piano la mancanza di un progetto).

Cosa intendo con progetto solido?

Ovviamente trattandosi di Nazionale maggiore non mi interessano tanto le riforme profonde di cui
avrebbe bisogno il calcio italiano (a partire dal settore della formazione) di cui parlerò più avanti.
Questo semplicemente perché i frutti di quelle eventuali trasformazioni li avremmo solo tra diversi
anni, quando nel frattempo il C.T. sarà cambiato.

No, ciò che mi interessa rispetto alla definizione del prossimo C.T. è il progetto strettamente tecnico
in cui sarà essere immerso.
Fossi io il prossimo Presidente federale farei un discorso molto semplice ed ancor più chiaro: se per
questi Mondiali non siamo nemmeno stati capaci di qualificarci e vedendo il livello e le prospettive
di crescita di altre nazionali difficilmente potremo vincere Euro 2020.
Quindi è assolutamente necessario ripartire con una programmazione a lungo raggio, che verta su
un contratto quadriennale al C.T. e che abbia come fine ultimo il risultato ai Mondiali del Qatar, più
che quelli al prossimo Europeo (ovviamente da onorare al meglio).

Dobbiamo guardarci allo specchio ed ammettere a noi stessi che le super formazioni che ci hanno
accompagnato dalla seconda metà degli anni novanta fino alla metà dei duemila (e non solo!) sono
ormai solo un ricordo del passato.

Dobbiamo rassegnarci al fatto che, come dimostrato sopra, il biennio Ventura non ha dato il via ad
un vero e proprio ricambio generazionale, e che con gli addii di Buffon, Barzagli e De Rossi (più
quello possibile di Chiellini, che comunque al prossimo Europeo avrà/avrebbe 36 anni!) la
Nazionale è praticamente da rifondare in toto o quasi.

In questo senso quindi è oggettivamente difficile, anche per il gap di talento che abbiamo rispetto
ad altre compagini, che il prossimo Commissario Tecnico – fossero anche Guardiola, Conte o
Mourinho – possa portarci alla vittoria continentale nel 2020.

Posto che giovani di valore da inserire però ne abbiamo, la cosa più sensata mi sembrerebbe quindi
quella di iniziare a programmare sul lungo termine.

Iniziamo perciò ad inserire con più continuità i vari Bernardeschi, Chiesa, Caldara, Rugani,
Romagnoli, Cristante e Pellegrini (oltre ovviamente a Donnarumma, erede designato di Buffon) e
costruiamo su di loro la Nazionale del futuro.
Non gettandoli nella mischia con la pretesa che siano competitivi da subito (posto poi che senza
pressioni, come all'ultimo Europeo, magari qualcosa di buono esce comunque), ma che lo diventino
nel giro di qualche anno, proprio anche grazie all'esperienza che matureranno in maglia Azzurra.

Perché anche qui, c'è questo da considerare: è vero che non dovrebbe essere la Nazionale a far fare
esperienza ai ragazzi, limitandosi piuttosto a raccogliere i frutti del lavoro fatto nei club.
Ma in un momento in cui il nostro calcio si è inceppato puntare su ragazzi che giocano in squadre di
seconda fascia o che giochicchiano in quelle di prima può aiutarli ad imporsi con più convinzione
anche nei rispettivi club (ovviamente se li si reputa, almeno in prospettiva, giocatori di livello).

Al nome di rilievo usato per gettare fumo negli occhi preferisco quindi nettamente un progetto
concreto e di ampio respiro, con cui provare a dare una prospettiva alla nostra Nazionale, cosa che
di fatto non succede da molto tempo.

In tempi di vacche grasse può avere senso pensare di biennio in biennio.


Oggi forse è necessario impostare un piano quadriennale e provare a ripartire da zero o quasi.

Per quanto riguarda il profilo di allenatore cui affiderei questo compito il top sarebbe un uomo che
abbia voglia di diventare “federale”.
Di fatto il Commissario Tecnico è un lavoro diverso da quello dell'allenatore di club e comprendo
che non sia per tutti.

La Germania con Joachim Löw ha infatti pescato il jolly: un allenatore dalla carriera modesta che
dopo una decina d'anni non esaltanti (un Coppa di Germania il suo traguardo più prestigioso) si è
legato alla federazione vincendo Mondiale e Confederations Cup nell'arco di un triennio,
inframezzandoci anche una semifinale europea.
Proporre dei nomi oggi mi sembra abbastanza superfluo. Progetto e profilo mi sembrano questioni
molto più importanti sulle quali ragionare.

Una cosa però la considererei: come ho detto in relazione alla mancata valorizzazione del talento a
disposizione parlando del biennio Ventura, sembra chiaro che il miglior sistema di gioco possibile
per questa Nazionale sia il 4-3-3.
Ecco, non dico di cercare un C.T. dogmatico che non cambi modulo per nessuna ragione al mondo,
ma uno che quantomeno valuti questa opzione, per non dire che parta da qui, lo gradirei.

3. Tavecchio e la FIGC

Il fallimento Azzurro consumatosi al playoff contro la Svezia non ha prodotto solo l'esonero di Gian
Piero Ventura ma anche le dimissioni – pur non immediate – del Presidente federale Carlo
Tavecchio, eletto una prima volta – col 63,63% – l'11 agosto 2014 (in seguito alle dimissioni di
Giancarlo Abete post fallimento al Mondiale brasiliano) e riconfermato poi – col 54,03% – il 6
marzo 2017.

Molti, sulla scia della classica “caccia alle streghe” che puntualmente facciamo partire nel Belpaese
in seguito ad un fallimento di qualsiasi tipo, ne avrebbero voluto le dimissioni istantanee.
Ma il discorso che mi permetto di fare io è un po' più ampio di così.

La Federazione Italiana Giuoco Calcio, come qualsiasi altro organo elettivo/politico italiano, vive le
classiche logiche di bottega.

Le componenti della FIGC sono sette:


1. la Lega Nazionale Professionisti Serie A;
2. la Lega Nazionale Professionisti B;
3. la Lega Italiana Calcio Professionistico;
4. la Lega Nazionale Dilettanti;
5. l'Associazione Italiana Calciatori;
6. l'Associazione Italiana Allenatori Calcio;
7. l'Associazione Italiana Arbitri.

Ognuna di queste pensa ovviamente in primis a tutelare sé stessa, prima che non alla funzionalità
del sistema nel suo complesso.

Questo porta una conseguenza ovvia, che si riscontra un po' ovunque laddove si faccia politica in
Italia: chi si candida a ruoli apicali deve cercare consenso tra componenti diverse tra loro, provando
a fare sintesi tra posizioni più o meno distanti.

Le “grandi riforme”, però, solitamente provocano più di uno scontento.


Trovare la maggioranza per sostenerle, anche laddove le si voglia implementare davvero, diventa
quindi molto difficile.

Ecco perché personalmente trovo secondario il nome del prossimo presidente federale: che si
ripresenti Tavecchio, che lo diventino Albertini o Abodi (suoi sfidanti rispettivamente nel 2014 e nel
2017) o che l'universo calcio italiano partorisca un altro nome la situazione non cambierebbe un
granché.

Servono infatti idee forti, funzionali ed innovative sorrette da un'ampia e diffusa unità d'intenti, non
un “nome” da dare in pasto a media e pubblico.
Altrimenti, come spesso capita in Italia, si rischia di “cambiare tutto per non cambiare niente”.
Ora che sono saltati i nostri vertici federali, quindi, è bene che le sette componenti del nostro calcio
si mettano tutte attorno ad un tavolo, si rendano conto della gravità della situazione in cui versiamo
e si rimbocchino le maniche per porvi un rimedio, elaborando un progetto politico che porti ad una
reale rifondazione del nostro movimento, ricostruendolo così fin dalle fondamenta.

C'è poi sempre un'opzione terza che potrebbe essere implementata: volendo il CONI potrebbe
decidere di commissariare la Federazione Italia Giuoco Calcio, provando così a bypassare il
passaggio elettivo per calare dall'alto una figura che provi, da – ipotetico – super partes, a portare
avanti un programma di riforma del nostro calcio.

Che, assieme alla nostra politica, deve reagire alla situazione di ambascia in cui versiamo.

Il nome è secondario.
Idee, unità d'intenti ed incisività in un percorso di riforme ampio e strutturale sono invece
determinanti per il nostro futuro: Governo, CONI e tutte le componenti che costituiscono la FIGC si
rimbocchino le maniche ed operino per riportarci al livello che meritiamo.

4. Barriere in entrata

Una delle criticità che riguardano il nostro calcio è relativa al fatto che sia un mondo molto chiuso
in sé stesso.

Se vi guardate in giro potrete notare ad esempio come gli allenatori, ma spesso anche i dirigenti
dell'area tecnica, siano praticamente sempre ex giocatori. Quasi tutti di alto livello.

Il perché è semplice: per fare i corsi di abilitazione al professionismo si devono avere certi
punteggi.
Ed avere giocato ad alto livello permette di accumulare molti punti. Quindi di avere accesso
praticamente indiscriminato ad un qualsiasi corso federale.

Chi invece non ha avuto la fortuna di nascere con le qualità giuste trova molte barriere all'ingresso
di questo mondo.

Cosa che, ad esempio, non succede in Germania. Dove i cosiddetti “laptop trainer” si sono imposti
all'attenzione generale provenendo da un passato calcistico scarso se non proprio nullo.

Abbattere le barriere in entrata significherebbe dare a tutti la possibilità di arrivare ad allenare un


club di alto livello. Senza che il sistema, per auto-tutelarsi, possa tendere ad impedire ad un “non
calciatore” di poterci arrivare.

Restando sull'esempio tedesco, scuola che più di ogni altra ha aperto le porte anche a gente senza
esperienza calcistica, possiamo notare come in Bundesliga siano ben sette gli allenatori attualmente
alla guida di una squadra che non hanno avuto esperienza da giocatori in una massima serie.

Una liberalizzazione dell'accesso alla professione potrebbe non essere male. Pensare che un non-
calciatore non sia in grado di guidare una squadra è qualcosa che proprio la Germania ha smentito
coi fatti.

Le barriere all'ingresso hanno una sola grande conseguenza, oltre all'auto-protezionismo:


impediscono il ricircolo delle idee. Non permettono a gente che ha dedicato tutto la propria vita allo
studio del calcio di provare ad interpretarlo in modo anche innovativo rispetto a chi a calcio ci ha
giocato per anni.
Insomma, il discorso può sembrare populistico ma non lo è: le barriere all'ingresso andrebbero tolte
o perlemone limitate, perché va premiare il merito.

Non mi interessa vedere una Serie A piena di “laptop trainer”, intendiamoci. Vorrei però vedere un
campionato dove per allenare si debba avere delle capacità, più che non un passato da calciatore.

Il problema, però, è che l'Italia anziché abbatterle queste barriere pare continuare a volerne mettere
di nuove.

Un esempio è il corso di match analyst della FIGC, per accedere al quale si deve essere Allenatori
UEFA B.
Possibile che un analista non possa avere una formazione diversa?
Possibile che il miglior analista d'Italia non possa avere un passato sui libri più che sui campi?

Un altro esempio è il corso da osservatore. Tenuto per tre edizioni senza barriere all'entrata, è
diventato oggi un corso riservato, anche in questo caso, agli allenatori UEFA B.

Ma, ripeto, tutto questo protezionismo può fare bene al nostro calcio?

Ci vogliono passione, spirito d'iniziativa, applicazione, volontà. Chi si dimostra competente


dovrebbe poter avere accesso a qualunque corso e dovrebbe poter svolgere qualunque professione.

Va lasciata al mercato del lavoro la scelta tra un ex calciatore ed un nerd calcistico.

5. Formare i formatori

Al discorso sulle barriere in entrata si lega quello sulla formazione dei formatori, ovvero sia degli
allenatori delle scuole calcio in primis, ma anche dei settori giovanili.

E' evidente che per potere svolgere un lavoro di questo tipo, che personalmente terrei ben distinto
da quello dell'allenatore “professionista”, servano competenze specifiche.

L'Italia dovrebbe creare un proprio modello di sviluppo del talento, un po' come fatto in Spagna, e
poi investire paccate di milioni per formare i formatori.

Il mondo è cambiato moltissimo rispetto a quello in cui crebbero le generazioni dei Meazza, dei
Valentino Mazzola, dei Rivera, degli Scirea e dei Totti.
E se cambia il mondo devi essere pronto a cambiare anche tu.

Ci sono nazioni in cui, anche storicamente (tipo l'Olanda, che pure attraversa anch'essa in questo
momento un periodo di crisi), si è creata una “scuola”, un vero e proprio “modello educativo”.
E ci sono paesi come il nostro che, invece, lasciano tutto all'improvvisazione, alla volontà ed
all'impegno del singolo.

Così ci troviamo in una situazione con tante realtà anche di pregio, però totalmente inorganiche.

Il tempo degli oratori pieni da cui uscivano tonnellate di talenti che per anni si svezzavano da soli
tra una buca nel campo ed un tackle diretto sulla tibia sono finiti.

Oggi oltre al mondo si è evoluto anche il calcio e dobbiamo trovare un metodo didattico chiaro e
funzionale per formare i calciatori di domani.
Partendo da un concetto, a mio avviso: formare i formatori significa anche far capir loro quanto ho
detto all'inizio di questo capitoletto, ovvero che fare “l'allenatore professionista” è tutto un altro
lavoro.

Troppo spesso, mi sembra, chi lavora ad un certo livello – soprattutto settore giovanile più che
scuola calcio – lo fa con l'intento chiaro di vincere, mettersi in mostra e “fare carriera”.

Ma non può funzionare così.

Stante il fatto che non c'è niente di male se nell'evoluzione naturale di una persona un formatore può
passare da un'esperienza nella scuola calcio ad una nel settore giovanile per finire poi ad allenare un
club di Serie A, resta evidente che il compito principale di chi lavora coi ragazzi non possa essere
quello di vincere “ad ogni costo” per fare carriera, quanto quello di formare i piccoli/giovani
calciatori con cui ha a che fare.

Chi ragiona altrimenti non sarà mai un buon formatore.


Nemmeno con tutti i titoli e tutta l'esperienza di campo del mondo.

6. Scuole calcio e settori giovanili

Per molti il mantra “ripartiamo dai vivai” è solo un luogo comune vuoto.
Per il sottoscritto è invece l'unica possibile salvezza del calcio italiano.

La società è cambiata e continua ad evolversi, mentre il nostro pallone – e più in generale il nostro
Paese – è invece atavicamente incline ad un conservatorismo strenuo ed alla difesa delle posizioni
acquisite.

Mentre in Francia, Germania, Spagna, Inghilterra, Olanda e Belgio (del Portogallo non saprei dire,
ma sarebbe l'unico paese senza un modello di sviluppo tra quelli al vertice europeo nella produzione
di talenti) esiste una impostazione chiara e definita di vivai e settori giovanili, in Italia sembra tutto
affidato al caso.

Ecco quindi cosa significa ripartire dai vivai: nel Belpaese di realtà importanti a livello giovanile ne
esistono indubbiamente.
Ciò che manca è una visione d'insieme. Un'idea di calcio, una filosofia di gioco che ci permetta di
costruire calciatori che parlino la stessa lingua. Una lingua evoluta ed in linea con la realtà odierna,
possibilmente.

Questo idioma tattico dovrebbe rispondere più o meno direttamente al nome di “Gioco Posizionale”
– che non è lo stile scacchistico, per quanto in alcuni tratti possa quasi richiamarlo – che potremmo
dire essere oggi la forma di gioco più evoluta.

Quel modo di fare calcio nato sul patrimonio di conoscenze del “Calcio Totale” che è stato
sublimato da Pep Guardiola e che oggi sta in qualche modo “dettando la linea” in molti paesi, non a
caso.

Per chi non lo sapesse il “Gioco Posizionale”, semplificando e sintetizzando all'estremo, consiste
nel creare superiorità posizionale, appunto, dietro ad ogni linea di pressione avversaria.
(fonte immagine: blog.wyscout.com)

Proprio su questi concetti di gioco sono stati costruiti i successi del succitato Guardiola e più in
generale del Barcellona così come, di riflesso, quelli della Nazionale spagnola.

Non solo: anche la Germania si è da tempo affidata a principi di gioco simili (vincendoci l'ultimo
Mondiale), così come l'Inghilterra sta coltivando in seno a sé una nuova covata di giovani talenti
cresciuti con una filosofia indubbiamente ispirata alla “nouvelle vague” spagnola, andando un po' a
rimettere in discussione decenni di storia (un giorno scriverò un libro di storia e ne parlerò più
diffusamente, promesso).

Intendiamoci, però: nulla succede per caso e dietro a queste vittorie (che nel caso inglese valgono
per ora solo a livello giovanile, dove hanno però letteralmente dominato in lungo ed in largo nel
corso dell'ultimo anno) c'è un lavoro di più (Spagna) o meno (Inghilterra) anni che ha dato o sta
iniziando a dare i suoi frutti.

“Puntare sui vivai”, quindi, non vuol dire tanto/solo investire più soldi, quanto soprattutto creare
progettualità.

In Olanda le cose iniziarono a mutare nella seconda metà degli anni sessanta, con “l'invenzione” del
“Calcio Totale”2. Su quelle basi infatti venne costruita una filosofia di gioco che farà da fondamento
anche per tutto il lavoro svolto negli anni a seguire a livello di settore giovanile.
Gli Oranje hanno vinto poco come Nazionale maggiore, ma sono indubbiamente stati uno dei più
sublimi esempi di calcio nel corso degli ultimi decenni, con tonnellate di talento sfornate da un
paese che resta comunque relativamente piccolo (17 milioni di abitanti, dati 2016).

In Spagna il seme venne piantato invece nel decennio successivo, con lo sbarco a Barcellona
proprio di due ex allenatori del grande Ajax: Vic Buckingham e Rinus Michels.
Da allora possesso, fraseggio, superiorità posizionale e mentalità rivolta ad un gioco marcatamente
di costruzione iniziarono a permeare la mentalità e gli allenamenti, anche giovanili, dei Blaugrana.
Una filosofia che dalla Catalogna si è irradiata in un po' tutta la Spagna, tanto che se mai vi

2 Vi consiglio di leggere l'articolo pubblicato sul mio blog “Sciabolata Morbida” il 21/09/16 dal titolo “Il Calcio Totale e le sue
regole” per avere un quadro migliore di cosa sia il Calcio Totale
capitasse di guardare tornei internazionali di ragazzini di 11/12 anni (io l'ho fatto più volte e ve lo
consiglio caldamente per farvi un'idea di come stiano le cose) potrete oggi vedere che anche uno
Sporting Gijon “qualsiasi” mette in campo una filosofia di gioco che ricalca molto bene quel juego
de posición che in Spagna è ormai Bibbia.

Più recentemente è toccato invece alla Germania avvicinarsi a questa filosofia.


Dopo la vittoria certo non esaltante in termini di gioco di Euro 96, infatti, i vertici federali tedeschi
hanno optato per rifondare dalla base – guarda caso ciò che serve a noi oggi – il loro calcio.

E qui sta, mi permetto, una differenza culturale marcata tra noi e loro: mentre in Italia la vittoria del
Mondiale 2006 è servita ad illudere qualcuno e a permettere ad altri di nascondere sotto il tappeto la
polvere di un movimento calcistico sempre più involuto, in Germania l'inizio della riedificazione è
coinciso proprio con una vittoria.

Tornando alla ricostruzione tedesca la figura centrale è quella di Egidius Braun, che imposta il
calcio giovanile tedesco sulla base degli Stützpunkte (centri regionali rivolti a ragazzini tra gli 11 ed
i 15 anni) e dei Leistungszentren (centri d'eccellenza destinati ad adolescenti della fascia 15-18
anni), oggi rispettivamente 390 e 54 in tutto il paese.
Da qui transitano ogni anno 22mila ragazzi (sui 600mila visionati), con ben 1.300 osservatori e 29
addetti alla mediazione coi club coinvolti nel progetto.

Un'organizzazione immane che però, come abbiamo visto, produce i propri frutti.

Ed è proprio di questo che abbiamo bisogno, in Italia: un programma di reclutamento e sviluppo del
talento che abbia una sua organicità e che non sia lasciato all'improvvisazione del singolo club,
dilettante o professionista che sia.

Un po' come in Inghilterra, dove solo sei anni fa è stato varato il piano “EPPP”, ovvero “Elite
Player Perfomance Plan”. Un progetto che ha rivoluzionato i concetti di scouting e formazione ed
ha portato a massicci investimenti dei club, innalzamento del livello di coaching (e si torna al punto
precedente: vanno formati i formatori!), ed un piano di valutazione dei giocatori che oltre alle sue
qualità tecnico-tattiche e fisico-atletiche tenga in grossa considerazione anche i parametri
psicologici come motivazione, capacità decisionale, soglia d'attenzione e controllo emotivo.3

Quello che manca in Italia mi sembra essere proprio questo: un progetto chiaro e definito che dia un
imprinting generale a tutto il movimento.

Se questa cosa poteva non essere necessaria qualche decade fa, in cui le “scuole” si imponevano più
che altro come “mode” a seconda dei risultati, oggi mi sembra assolutamente necessaria in un
mondo in cui tutti i movimenti calcistici più avanzati è così che si strutturano.

7. Centri Federali Territoriali

Una grossa mano potrebbero darla, in questo senso, i Centri Federali Territoriali.

Un progetto iniziato sotto la guida della presidenza Tavecchio che sembra ricalcare a grandi linee
almeno parte della struttura organizzativa tedesca.

3 A proposito dell'organizzazione di Spagna, Germania ed Inghilterra leggetevi l'ottimo articolo di Sandro Modeo pubblicato sul
sito del Corriere della sera: http://www.corriere.it/sport/17_novembre_16/spagna-germania-inghilterra-tre-storie-cui-l-italia-
calcio-puo-o-meglio-dovrebbe-ripartire-6d2878dc-cae8-11e7-bd3e-51a6bf213dd1.shtml
Al posto dei loro Stützpunkte, infatti, da noi stanno iniziando a sorgere i primi CFT, poli territoriali
di eccellenza – questo almeno sulla carta – che serviranno alla formazione tecnico-sportiva di
giovani calciatori (e calciatrici, essendo un progetto aperto anche all'universo femminile) di età
compresa tra i 12 ed i 14 anni.

Come dicevo in una recente live fatta sulla mia pagina Facebook, non ho ancora contezza della
bontà o meno di un progetto che andrà comunque valutato nel tempo, però alcuni “ma” posso
comunque già individuarli, prima di andare a spiegare un po' più nello specifico come sia strutturato
il disegno CFT:

• i tedeschi sono “solo” circa 20 milioni in più di noi (+33%), ma anche coi CFT a pieno
regime avranno circa il doppio (+95%) dei centri territoriali rivolti ad una fascia d'età simile;
• mentre in Germania le Stützpunkte si rivolgono ad una fascia di età più ampia che da noi
(11-15 contro i 12-14 dei CFT), con i Leistungszentren i tedeschi si assicurano di seguire ed
addestrare anche la porzione di adolescenti fino alla maggiore età; nel complesso una
copertura molto più ampia rispetto a quanto possiamo garantire noi oggi ai nostri ragazzi;
• il progetto si rivolge solo agli adolescenti tesserati per squadre non professionistiche, e
questa mi sembra probabilmente la falla più importante dell'intero progetto, che sotto altri
aspetti sembra invece un passo avanti deciso rispetto al recente passato;
• arrivano però anche voci, riportate da giornalisti importanti come Pardo in una recente
puntata di “Tutti Convocati” (Radio 24) e non solo, che dicono che alcuni tra i CFT già
aperti sarebbero aperti solo poche ore a settimana; va da sé che il programma è ancora in
fase di implementazione, però un CFT deve essere funzionante a pieno regime dal giorno
stesso in cui apre.

Ma più in generale, cosa prevede questo programma?

L'idea è semplice: c'è la volontà di creare 200 Centri Federali Territoriali per coinvolgere ragazzi e
ragazze cercando di valorizzarne il talento, combattere l'abbandono dell'attività sportiva e
monitorare un numero importante di giocatori nel corso dei prossimi anni.

Ovviamente in tutto ciò, un po' come appunto succede già all'estero, si potrebbe cercare di creare un
processo formativo più omogeneo rispetto alla situazione attuale. Una specie di “scuola” con
indirizzi costruiti però a tavolino e non dalle mode o dalle vittorie di qualche squadra. Non tanto
perché sia sbagliato di per sé cogliere spunto da chi vince, quanto perché ragionare per mode non
permette la programmazione a lungo termine e soprattutto non darà mai un senso di omogeneità,
appunto, al nostro calcio.

Ma passiamo ora a dare un po' di numeri di questo interessante progetto:4

✔ 100: i ragazzi gestiti ogni anno da ogni CFT;


✔ 200: il numero di Centri Federali Territoriali aperti lungo tutto lo Stivale (si va dalla singola
presenza della Valle d'Aosta ai trenta che verranno aperti una volta a pieno regime in
Lombardia);
✔ 200: numero di dirigenti coinvolti;
✔ 1.200: numero di tecnici coinvolti;
✔ 3.500: riunioni ed incontri informativi;
✔ 3.500: numero di giovani calciatrici coinvolte annualmente;
✔ 9.000: il numero di società coinvolte tra attività di base (7.000) e categorie agonistiche
(2.000) in questo progetto;

4 Le slide del programma riguardante i CFT le potete visionare qui: http://www.figc.it/other/SGS/FIGC_CFT_PROGRAMMA.pdf


✔ 10.000: numero di arbitri coinvolti;
✔ 30.000: numero di ore di lavoro totali;
✔ 110.000: numero indicativo di ragazze monitorate nei primi dieci anni;
✔ 150.000: numero di giocatori monitorati ogni stagione;
✔ 840.000: numero indicativo di ragazzi monitorati nei primi dieci anni;

Insomma, sulla carta si tratta di un progetto molto interessante, al netto della già citata debolezza
che consta nell'essere rivolto solo a giocatori tesserati per squadre non professionistiche, rischiando
così di avere una buona omogeneità tra queste società con il perdurare però delle differenze più o
meno marcate dalla Lega Pro in su.

8. Squadre B

Quello delle Squadre B è un punto molto critico, soprattutto per me che vivo a contatto col calcio di
provincia.

Tanto i tifosi quanto i dirigenti delle cosiddette “squadre minori”, ovviamente senza offesa per
nessuno, temono infatti che l'eventuale introduzione – nelle leghe al di sotto della Serie A – di
compagini che siano propaggini dirette dei nostri “top club” possa portare, di fatto, alla sparizione
proprio del “nostro” calcio, quello di provincia.

Posto che ogni realtà fa storia a sé ed indubbiamente i riflessi che le stesse hanno altrove non è detto
si avrebbero anche in Italia, la situazione spagnola sembrerebbe un po' smentire questo timore.

Nella Liga gioca ad esempio, tra le altre, una squadra come l'Eibar, giunta nel massimo campionato
spagnolo nel 2014 e dapprima ripescata in luogo dell'Elche – escluso per debiti – e poi salvatasi sul
campo nelle due stagioni successive, riuscendo anche ad arrivare ai quarti di finale di Copa del Rey
lo scorso anno.

Non solo il calcio di provincia non sembra essere sparito, ma ad oggi la Segunda División consta di
due sole “Squadre B” su 22 club totali: le filial di Barcellona e Siviglia (che per altro si trovano al
quintultimo ed al penultimo posto).

Come se non bastasse a guidare il campionato è l'Huesca, club con base in una città di circa 52mila
abitanti, mentre al secondo posto c'è il Lugo (che non arriva ai 100mila), capace di superare
l'Osasuna (quasi 200mila) nel corso dell'ultima giornata.

Insomma, a giudicare dai risultati che il modello “Squadre B” sta dando in Spagna non sembra
esserci una grande corrosione da parte delle squadre filial ai danni dei club di provincia.

Chiaro comunque che l'eventuale introduzione di questa soluzione andrebbe comunque studiata
bene, onde evitare catastrofi peggiori del problema attuale.
In questo senso bisognerà gestire bene soprattutto l'aspetto economico, onde evitare che le “Squadre
B” possano fare eventualmente da “spugna” sulle già limitate risorse che vengono distribuite oggi
nelle leghe minori.

Personalmente sono un vecchio fautore dell'idea di introdurre anche in Italia questa soluzione, ma
mi rendo ben conto di una cosa: chi pensa che grazie alle Squadre B il nostro calcio possa tornare
automaticamente a marciare è ben lontano dalla verità.
Questo è un sistema che sicuramente implementerei, ma che da solo non servirà a nulla. Il problema
principale del calcio italiano sta infatti nella ridotta capacità di produrre talento, prima ancora di
valorizzarlo.
Poi certo, alcuni risvolti positivi le filial dovrebbero portarli.

Ad esempio i club importanti, che solitamente hanno i talenti maggiori nel proprio settore giovanile,
avrebbero un porto sicuro dove completare lo svezzamento di questi ragazzi, facendoli giocare già
da prima ancora della maggior età in contesti competitivi, possibilmente professionistici.

Non solo: proprio il fatto che i club minori non avrebbero più l'apporto di molti giovani prestiti, con
questi dirottati proprio sulle Squadre B, potrebbe dare nuovo slancio a molti settori giovanili.

Il calcio di un certo livello non va fatto solo al vertice del nostro movimento, ma va ri-implementato
proprio dalla base.
Ogni piccolo club deve tornare a puntare fortemente sui propri ragazzi, senza affidarsi sempre ai
prestiti di giovani cresciuti altrove.

Se tutte le squadre, compresi quelle dilettantistiche, tornassero a formare i giovani con progetti seri
ed una visione del futuro che tenda a valorizzarli una volta in prima squadra il livello del calcio
italiano tornerebbe inevitabilmente a crescere.

Insomma, le “Squadre B” non sono la panacea di tutti i mali come qualcuno pensa, anche perché in
primis i ragazzi vanno formati. E se verranno introdotte, dovranno essere introdotte con raziocinio.

Però è indubbio che potrebbero essere uno choc positivo per tutto il calcio italiano.

9. Troppi stranieri?

La risposta è indubbiamente una: “no”.

Gli stranieri di per sé non possono essere un problema. Anzi, come dimostrato dal periodo di
isolamento del nostro calcio seguito al crack Mondiale del 1966, quando venimmo tristemente
eliminati dalla Corea del Nord, chiudersi al mondo porta ad una demineralizzazione del calcio, che
non si fa più contaminare dalle esperienze altrui. Spesso anche migliori delle nostre.

Gli stranieri di per sé non possono essere un problema perché se sono bravi – e da noi di questi,
negli anni, ne sono passati tanti – alzano il livello del calcio del paese importatore.
Creano più competizione, contribuiscono alla vittoria dei trofei, plasmano un mondo che può
trovare più ricchezza e raccogliere così maggiori entusiasmi.

La risposta è no anche per un altro motivo: negli ultimi anni ci siamo assestati su una percentuale di
stranieri che è circa la metà dei giocatori tesserati in Serie A. Meno di quelli inglesi (che andranno a
giocarsi il Mondiale di Russia e che hanno fatto incetta di trofei a livello giovanile nell'ultimo anno)
e sullo stesso livello dei tedeschi Campioni del Mondo in carica.

La Liga ha invece circa un 10% in meno di stranieri. Una differenza percentuale sicuramente non
trascurabile, ma che comunque non può spiegare da sola, fuori dai populismi, perché il movimento
calcistico italiano stia attraversando una crisi così profonda.
CAMPIONATO NAZIONE % STRANIERI
Premier League Inghilterra 67,20%
Jupiler Pro League Belgio 58,40%
Primeira Liga Portogallo 57,60%
Serie A Italia 53,30%
Bundesliga Germania 52,70%
Süper Lig Turchia 52,30%
Ligue 1 Francia 49,70%
Scottish Premiership Scozia 47,00%
Liga Spagna 42,80%
Eredivisie Olanda 40,60%
Premier Liga Russia 38,90%
Allsvenskan Svezia 33,10%
Prem'er-Liha Ucraina 20,10%

La situazione che emerge da questa tabella (fonte dei dati: Transfermarkt) è quasi paradossale.

La Germania come detto ha meno di un punto percentuale di “autoctoni” più di noi eppure ha vinto
l'ultimo Mondiale e ci ha eliminato all'ultimo Europeo.

Inghilterra, Belgio e Portogallo hanno invece quattordici, cinque e quattro punti percentuali di
stranieri più di noi, eppure sono movimenti più in salute del nostro, che continuano a produrre un
gran numero di talenti cristallini (piccola parentesi: vedremo se gli inglesi, a livello di Nazionale
maggiore, riusciranno a bruciare anche questa nuova grande covata di genio, continuando a non
vincere per qualche altra decade).

Delle nazioni che hanno meno della metà degli stranieri nella propria massima serie solo la Francia
(che ha comunque un sostanziale 50% di gente venuta da fuori, oltre che moltissimi naturalizzati e
francesi di seconda generazione) e Spagna hanno movimenti nazionali di alto livello.
Scozia, Olanda ed Ucraina non giocheranno il Mondiale, la Russia è entrata in una crisi senza fine
che paradossalmente si è acuita con il restringimento delle norme sugli stranieri e la Svezia la
prossima estate non guarderà il Campionato del Mondo in tv solo perché noi ci siamo “suicidati”
nel playoff contro di loro.

Insomma, il “troppi stranieri” è un mantra che non trova riscontro nella realtà.

I movimenti europei più evoluti hanno praticamente tutti una percentuale di forestieri simile se non
superiore alla nostra, eppure godono di uno stato di salute molto migliore.

Chiudere le frontiere quindi, oltre a non essere possibile per questioni legali (la UE non potrebbe
mai permettere che un suo stato membro ponga delle barriere all'entrata basate sulla nazionalità),
difficilmente produrrebbe gli effetti sperati.

Il motivo è semplice: se non torniamo a formare una gran messe di talenti di livello il nostro calcio
non saprà ripartire. Ed il modo per tornare a farlo non è impedire ad uno straniero, tanto più se
dotato, di giocare in Italia, quanto tornare ad investire su scuola calcio e settore giovanile.
Il problema, insomma, non sono gli stranieri di per sé – ovviamente – quanto i “piani aziendali” dei
nostri club.

Servono investimenti importanti ma soprattutto mirati per rimettere in moto una macchina il cui
potenziale (di praticanti e di conoscenze pregresse, oltre che di pura passione) resta immenso.

Con un ma, proprio legato ai “piani industriali” dei nostri club: nel 1995 una sentenza della Corte di
Giustizia dell'Unione Europea provocò uno choc non indifferente a tutto il mondo del calcio
europeo.
L'ormai celeberrima “Sentenza Bosman”, infatti, sancì – in base all'articolo 39 dei Trattati di Roma
del del 1957 – che il sistema era troppo restrittivo, spingendo all'approvazione di una norma che da
allora permette ad un calciatore dell'Unione Europea di trasferirsi gratuitamente alla scadenza del
proprio contratto ad un qualsiasi club di un paese membro.

Conseguenza di ciò fu che le singole leghe non poterono più porre limiti al tesseramento dei
giocatori stranieri, se non quelli provenienti da paesi extra-UE.

Ovviamente questa liberalizzazione nella possibilità di acquisto ampliò notevolmente il “parco


macchine” su cui una società poteva puntare. E, non credo sia un caso, è proprio da dopo quel
periodo che si può notare il calo di qualità e produzione dei nostri vivai.

Un calo che però, lo ripeto per chiarezza, non va imputato “agli stranieri” di per sé, rei
semplicemente di fare il lavoro per cui sono pagati: giocare a calcio; quanto piuttosto, appunto, ai
“piani industriali” di società che hanno avuto un motivo in più per disinteressarsi del proprio settore
giovanile, vedendo aumentata esponenzialmente la possibilità di acquistare altrove (ovviamente
anche in Italia, come era anche prima della Bosman) giocatori già formati.

Si è avuto così un lento digradare della situazione, che è sfociata in un dato impietoso pubblicato
dal CIES ormai quattro anni fa: ad aprile 2013 eravamo infatti l'ultimo campionato europeo (su 31!)
per impiego di giocatori formati in casa.
Con i club spagnoli che impiegavano un giocatore su quattro cresciuto nel proprio settore giovanile,
i francesi che ne impiegavano il 21,1%, gli inglesi il 17,5% ed i tedeschi il 14,7%, noi eravamo
dietro ad ogni altro movimento europeo con un miserrimo 7,8%.

Oggi non siamo più ultimi, “battuti” da turchi, greci, ciprioti ed inglesi (che in quattro anni sono
crollati al 5,7% di CTP in squadra). Però la situazione è se possibile ulteriormente peggiorata.
Come potrete leggere sul sito dello stesso CIES, infatti, attualmente in Serie A solo il 6,4% dei
giocatori è cresciuta nella squadra in cui attualmente milita (-1,4%).

Ed ecco che si torna alla questione “piani industriali”: i nostri club non puntano su scuole calcio e
settori giovanili ma cercano sistematicamente, in Italia ed all'estero, giocatori che siano più pronti
dei loro stessi giovani.

A confermarlo è anche il dato che riguarda l'età media delle nostre squadre.
Sempre il CIES infatti rende noto come solo i campionati turco, cipriota, russo, greco, bulgaro e
polacco vedano un'età media superiore alla nostra, che si attesta sui 27,37 anni.

La vera grande rivoluzione culturale del nostro movimento calcistico passa quindi da qui: da uno
svecchiamento delle nostre squadre con maggior implementazione dei giocatori cresciuti in casa,
non da una chiusura delle frontiere che aumenterebbe sicuramente il numero di azzurrabili
impiegati, ma che non si tradurrebbe in una automatica elevazione della qualità degli stessi, come
dimostrano appunto Spagna, Francia e Germania.
Ma anche la stessa Inghilterra: nel 1995 il 70% dei minuti giocati in Premier League era “occupato”
da calciatori inglesi. Una percentuale che si è più che dimezzata, passando al 32% di oggi.
Eppure i risultati delle Nazionali – maggiori – inglesi non erano eccezionali nemmeno all'epoca...!

10. Ius Soli

Non voglio aprire un dibattito politico che non mi compete, ma concentrarmi sull'integrazione dei
ragazzi nati all'estero o “di seconda generazione” nei vari movimenti sportivi, prendendo a
riferimento i paesi che ospitano i cinque principali campionati europei.

PAESE NUMERO IMMIGRATI % SU POP. TOTALE


Germania 9.845.244 11,90%
Regno Unito 7.824.000 10,18%
Francia 7.439.000 8,98%
Spagna 6.466.605 13,87%
Italia 5.026.153 8,30%

So che sembrerà strano in relazione agli strali che sentiamo ogni giorno da media e politici, ma
secondo l'ultimo rapporto dell'International Migration and Development disponibile l'Italia è il
paese con la più bassa popolazione migrante tra “i magnifici 5”, con una percentuale molto inferiore
alla Spagna, discretamente più bassa di Germania e Regno Unito e vicina solo a quella della
Francia, che però esattamente come gli altri paesi ha conosciuto il fenomeno migratorio massivo
molti decenni prima di noi, così che molti francesi, inglesi, tedeschi e spagnoli di oggi sono
comunque figli (quando non già nipoti) di persone immigrate nel paese.

Insomma, oltre a non essere un problema lo straniero in sé, in molti casi finisce con l'essere una
risorsa. Almeno dal punto di vista calcistico.

Pensate all'ampio utilizzo di tedeschi, francesi, inglesi ma anche belgi o olandesi di seconda (o
terza, o più) generazione che le varie nazionali hanno fatto negli ultimi anni.

Gente come Klose, Zidane, Ince (primo capitano di colore nella storia dei Three Lions), Lukaku e
Rijkaard danno o hanno dato un contributo importante al calcio delle rispettive nazioni “di
adozione”.

In Italia la situazione tende all'assurdo, invece: un ragazzo nato e cresciuto in Italia, calcisticamente
formatosi tra oratori, scuole calcio di paese e settori giovanili più o meno importanti non può vestire
l'Azzurro fino ai 18 anni, limite temporale minimo per poter richiedere il passaporto.

Ecco, la rinascita del calcio italiano passa anche da una migliore integrazione degli stranieri e degli
italiani di seconda generazione all'interno del nostro sistema. Un'integrazione che va quindi
ovviamente favorita da una legislazione ad hoc.

Piaccia o meno (e noi siamo un paese che ha vinto tre dei suoi quattro Mondiali con almeno un
oriundo in rosa, è utile ricordarlo) il mondo è in continua evoluzione ed il binomio
progresso+globalizzazione ha portato ad una realtà in cui la gente si sposta con sempre maggiore
velocità e frequenza.
Da questo punto di vista, paradossalmente, ha meno senso una nazionale di oriundi (ragazzi nati in
paesi diversi che ottengono il passaporto grazie alle origini di genitori o nonni) che non una
nazionale di italiani di seconda generazione (nati qui da genitori stranieri): i primi sono prodotti
calcistici di altri movimenti, i secondi vengono invece formati dal nostro movimento calcistico.

Uno snellimento della procedura e soprattutto dei tempi di attesa per ottenere la cittadinanza mi
sembra doveroso, ancor prima che utile al nostro calcio (ed al nostro sport più in generale).

11. Mutamenti sociali

Nel corso dei decenni il nostro Paese è cambiato completamente.

Cent'anni fa eravamo immersi in una guerra di trincea che ci logorò.

La generazione dei nostri nonni poi visse quella che è forse la più grande tragedia nella storia
dell'uomo, poco prima della metà del secolo scorso.

Ne uscimmo a pezzi, ma ci rimboccammo le maniche e ripartimmo più forti di prima.

Forse però nel tempo qualcosa l'abbiamo perso. Certi valori, una certa fame.

Le nuove generazioni (in cui ci metto anche la mia perché non voglio fare un discorso populista del
tipo “i giovani d'oggi non sono come eravamo noi”) crescono nella bambagia e sono abituate ad
avere tutto. Sono convinte di poter arrivare ovunque, di poter fare qualunque cose.

Mia nonna paterna andava a scuola a piedi fino a Varese, che dista circa quindici chilometri dal
nostro paesino. Era piena seconda guerra mondiale e di treni ne passavano forse uno al giorno.

Era un mondo completamente diverso che ti forgiava in maniera completamente diversa.

Servirebbe una analisi sociologica per approfondire questo discorso ed io non ne ho le competenze,
ma la sensazione che – in generale ovviamente, quindi fatti salvo i casi particolari – a noi manchi la
fame di chi ci ha preceduto resta forte.

Una fame che si traduceva in campo in squadre non solo dotate tecnicamente (perché il talento è
altra cosa e comunque non penso il gruppo nazionale odierno ne sia sprovvisto) ma soprattutto di
grande personalità.

Forse proprio il fatto che a noi tutto fosse concesso, il fatto che la nostra sia stata la generazione che
probabilmente più di tutte è cresciuta nel mito della “crescita perpetua”, non ci ha permesso di
forgiarci il carattere come invece prima di noi hanno saputo fare le generazioni che ci hanno
preceduto.

Inoltre mi sembra che l'Italia inizi ad avere un forte problema educativo.

La scuola sta perdendo il suo ruolo di centralità, forse anche perché sta finendo l'illusione del
“laureati e potrai fare ciò che vorrai”. La crisi ha dimostrato tutti i limiti del nostro sistema
produttivo e del nostro mondo del lavoro, causando probabilmente sfiducia nei confronti
dell'istruzione in molta parte della nostra società.
Come se non bastasse la sensazione che ho osservando il mondo dal mio angolino è che anche le
famiglie stesse stiano riducendo il loro impatto educativo. Un po' perché sempre più ridotte, un po'
perché sempre più divise (quando ero piccolino io non credo di avere avuto compagni delle
elementari figli di coppie separate, per dire... oggi credo sia la norma), un po' perché siamo tutti
sempre più individualisti e portati a pensare più a noi stessi che non ai nostri vicini, anche prossimi.

Forse è solo sconforto, ma credo che in questo paese non ci sia solo il calcio da rifondare, ma un po'
tutto. In primis il nostro sistema educativo.

Un sistema che, tra l'altro, fondamentalmente ignora la questione “sport a scuola”, baluardo di altri
paesi oggi più avanzati del nostro.

Non dico che le nostre università debbano iniziare ad offrire borse di studio agli atleti più meritevoli
(ma non dico nemmeno non ci si debba arrivare...!), però credo sia evidente che sia strettamente
necessario dare all'attività fisica nella scuola un ruolo molto più centrale di quanto non abbia oggi.

Un ruolo che sia compartecipe nella formazione a trecentosessanta gradi della persona e che
contribuisca all'emersione del talento, però. Non che, come capitava alle medie da me, con la
complicità dei genitori metà della classe sia puntualmente esonerata perché senza voglia di fare
nulla o che, come capitò poi alle superiori, la palestra vada divisa in più classi per mancanza di
strutture.

Purtroppo questo paese ha pecche ataviche che si trascina dietro da decenni e che per decenni i
risultati positivi del calcio (e non solo) hanno contribuito a coprire.

Il tempo però cambia le cose e gli altri paesi, giustamente, corrono veloci. Oggi la competizione è
infinitamente maggiore che in passato e non possiamo più aspettare.

Dobbiamo ripensare l'impianto educativo della nostra società nel suo complesso e, dentro ad esso,
innestare un ruolo più importante dello sport, che sia trampolino di lancio per chi ha talento e buona
norma “igienica” di vita per chi sportivo non lo diventerà mai ma non per questo è bene che se ne
stia tutto il giorno seduto in panciolle.

12. L'importanza della famiglia

Collegandoci a quanto appena detto, nello sviluppo di un calciatore un ruolo assolutamente centrale,
almeno al pari dei “formatori” che si incontrano sul proprio cammino, l'ha anche la famiglia.

Una famiglia che deve essere presente ma non pressante, calorosa ma rispettosa, formatrice
dell'uomo e non del calciatore (andate a guardarvi le partite dei ragazzini e sentitevi quando genitori
per lo più digiuni di calcio “vero” passeranno la partita a dare consigli, anche contrastanti con quelli
dell'allenatore, ai propri figli...), focalizzata sugli obiettivi a lungo termine e non accecata dalla
possibilità di fare soldi facili.

Nel corso della mia pur breve esperienza nel mondo del calcio ne ho viste e sentite tante e mi sono
accorto che, come per qualsiasi altra cosa, il ruolo della famiglia è davvero centrale.

Questo perché i ragazzi che vogliono diventare calciatori si trovano a crescere spesso molto
velocemente, dovendo affrontare pressioni enormi fin da piccoli ed avendo davanti prospettive di
fama e ricchezza che andrebbero sapute gestire con intelligenza.
Spesso invece ci si trova davanti a famiglie le quali pensano che vestire una maglia importante a 14
anni sia un punto di arrivo, quando invece è quello di partenza.
Famiglie che vogliono speculare sui propri figli e quindi contrattano per loro, anche in tenerissima
età, il punto di approdo in una fase importante come quella di formazione pensando più ai soldi che
possono intascarsi subito, che non al bene a medio-lungo termine della propria prole.

La famiglia è fondamentale perché deve educare il ragazzo a distinguere ciò che è meglio per lui,
facendogli comprendere che a 16 anni il punto non è quanto guadagni, ma che prospettive di
carriera ti puoi costruire.

La famiglia è fondamentale perché ad un certo livello le pressioni su ragazzi anche giovanissimi


sono enormi e questi ragazzi vanno accompagnati per mano, quando invece spesso i primi a
pressarli, soggiogati dalle possibilità future di guadagno, sono proprio i genitori.

Io non so come funzionino le famiglie in Spagna, Francia o Germania e non saprei dire se ci siano
differenze rilevanti in questo senso, però so le tante cose che ho visto coi miei occhi e ne conosco
molte altre che mi sono state raccontate da chi in questo momento del calcio (giovanile in
particolare) ci sta da più di me, ed onestamente credo che una parte del nostro problema sia anche
questo. Culturale.

Io non sono genitore e non mi posso permettere di giudicare nessuno, ma un paio di consigli a chi lo
è ed è convinto di avere un figlio di prospettiva vorrei darli: coltivate il talento dei vostri figli,
anziché provare a sfruttarlo; ricordatevi che il vostro ruolo è quello di educatori, non di formatori
calcistici e che il mister è quello seduto in panchina, non voi che state sulle tribunette e che dovreste
limitarvi solo ad incitare i ragazzi5.

13. Sovraesposizione mediatica

Un problema che il calcio odierno, rispetto a quello che fu, porta con sé è la grande esposizione
mediatica che investe un calciatore quando arriva ad un certo livello.

Pensate a Gigio Donnarumma: esordisce sedicenne in Serie A e dimostra di avere un talento


importante, che potrebbe anche renderlo uno dei migliori portieri al mondo della sua generazione.
Chiunque parla di lui, ancor più oggi che con i social network non sono più solo i media a farlo.

E' chiaro che le pressioni che un ragazzo di talento ha addosso oggi sono infinitamente superiori a
quelle che a 18 anni avrà potuto avere uno dei tanti nostri campioni del passato.

Certo, mi si risponderà, queste pressioni esistono anche all'estero.


Ed è verissimo, come è verissimo che di talenti se ne bruciano anche lì.

Forse però va pure valutata l'entità di queste pressioni e di questa esposizione mediatica. Ed in
questo senso ben sappiamo che l'Italia ha pochi rivali al mondo: da noi il calcio è vissuto in maniera
spasmodica, sotto molti punti di vista sicuramente eccessiva.

Ovviamente non sto dicendo che dovremmo chiudere i social e limitare la libertà di stampa
sperando che i nostri talenti si sentano meno pressione addosso, ma che forse – e mi ricollego ai due
punti precedenti – serve un insieme di fattori per aiutarli a confrontarsi e reggere questa pressione.

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5 Questo concetto è stato concretizzato recentemente benissimo in radio da Daniele Adani: “...quando portate vostro figlio ad
allenarsi poi c'è da tirarsi via dai coglioni, senza stare dietro alla rete a dire all'allenatore cosa fare...”

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