Vous êtes sur la page 1sur 4

CCosettaG.

Saba

Cinema di Carmelo Bene

Non si può che stare in "ascolto": il tentativo stesso di "pensare" il cinema


di Carmelo Bene mette in una condizione di anomia, di cortocircuito del
linguaggio, di bianco, di silenzio. Questa "leggibilità" sbiancata
corrisponde al cortocircuito audiovisivo dell’opus di Bene in cui l’ascolto-
visto diviene immagine udita ed equivale al massimo del blow up ottico-
acustico; è come chiudere gli occhi del tutto sulla visibilità dell’immagine. L’immagine si fa ascolto.
Con il cinema ci si trova di fronte alla "macchina attoriale" a venire1. La macchina attoriale è la
voce che attraverso la strumentazione fonica amplificata "si scorpora nell’alone del suono"2: la
risonanza ("voce ascolto") arriva prima del suono ("voce udita"). È il dimettersi di qualsiasi "Io
parlante": "la voce non è il dire, è l’ascolto". Il cinema è il prototipo della macchina attoriale, che è
macchina antilinguaggio. È "cinema" contro il cinema; iconoclasta, irrelato, vocato all’invisibilità
dettata dal doppio movimento della sottrazione-addizione3 dell’immagine. La filmografia stessa di
Bene composta, attualmente, e (forse) definitivamente, da un cortometraggio, Hermitage (1968), e
da cinque lungometraggi, Nostra Signora dei Turchi (1968), Capricci (1969), Don Giovanni (1971),
Salomè (1972) e Un Amleto di meno (1973), manca di alcuni altri cortometraggi, invisibili, forse
perduti.

L’iconoclastia del cinema di Bene è volta contro la "volgarità


dell’immagine" ed investe tutto il cinema: certo underground e (quasi tutto)
l’overground sia "d’autore" che di "consumo"; investe quindi la visibilità
dell’immagine, l’azione. Secondo Carmelo Bene "nessun’azione può
realizzare il suo scopo, se non si smarrisce nell’atto. L’atto, a sua volta,
per compiersi in quanto evento immediato, deve dimenticarsi la finalità
dell’azione. Non solo. Nell’oblio del gesto (...) l’atto sgambetta l’azione,
restando orfano del prorio artefice."4 Gesto che si "s-progetta", che manca
la propria finalità e marca la propria gratuità, vanità. Gesto che abita il corpo-immagine, coinvolge il
set e il linguaggio cinematografico stesso. Carmelo Bene ripensa il proprio cinema con una
rigorosa, eccessiva, autocritica che salva "due, tre sequenze in tutto: Erode che si lascia spellare
vivo (alternato all’autocrocifissione mancata) in Salomè e la pellicola massacrata, calpestata,
bruciata in Nostra Signora (parodia del ricordo)."5 Tuttavia nell’opera cinematografica di Bene si
sente l’immediato: "sensazione, non visione". E come sostiene Deleuze attraverso Valèry la
"sensazione è ciò che si trasmette direttamente, evitando l’espediente o il tedio di una storia da
raccontare" o da rappresentare, comunque fuori dal logos.
Nell’opus di Carmelo Bene il cinema è la teoria-prassi dell’estromissione del
soggetto, della soggettività nel linguaggio e del "linguaggio" tout-court, in film
che filmano se stessi, davvero prossimi a quello che per Bene è il cinema
filmantesi, non filmato di contro all’opera filmata, opera morta, che
"eternoritornante" si ripete. C’è "qualcosa" nelle sue opere filmiche che
radicalmente, tenacemente, si sottrae; "qualcosa" che le fa differire, non le fa
consistere, "qualcosa" in rivolta permanente contro la catena della pellicola,
contro la catena del testo; un antilinguaggio au travail, significanti autonomi,
automatici, eccedenti, discontinui, spezzati, staccati dal significato.
L’oltrepassamento che Bene compie del côté Artaud è radicale, brucia ogni affinità: l’opera stessa
si mette in gioco, mette in gioco la propria autodistruzione. Questo avviene attraverso gli
automatismi del corpo attoriale. L’opera si autocortocircuita, poggia sulle proprie disfunzioni,
scardina il proprio farsi nella ripetizione-differenza senza concetto dove "non è lo stesso a
ritornare, è il divenire che è uguale allo stesso che ritorna": l’opera non può che riavviare un
processo autodistruttivo, che non è mai il medesimo.

L’interesse di Bene per il cinema sembra essere dettato da un’attenzione


tecnico-linguistica in cui implementa un "sapere" che eccede immediatamente
la conoscenza del medium e che da subito prende a "s-progettarlo" proprio
attraverso la tecnologia (tecnologia come risorsa). Tecnologia che egli fa
immediatamente contaminare (nell’etimo "lasciare una impronta tattile") dal
corpo attoriale: Hermitage. Il corpo attoriale di Carmelo Bene è un "corpo
depensato" (s)oggetto euforico-disforico di improvvise, automatiche afasie e
aprassie. È un corpo performatico, cerimoniale, patetico, "ridicolo", distante
dagli automatismi del corpo quotidiano, ordinario del cinema di Andy Warhol.
Corpo performatico che tende all’inorganicità di un corpo cinematico
"impiantandosi" la cinepresa (corps-caméra). Come scrive Gilles Deleuze "dare un corpo, montare
una cinepresa sul corpo acquista" nel cinema di Bene "un altro senso, non si tratta più di seguire e
inseguire il corpo quotidiano, ma di farlo passare attraverso una cerimonia, di introdurlo in una
gabbia di vetro o di cristallo, di imporgli un carnevale, una mascherata che ne fa un corpo
grottesco, ma ne estrae anche un corpo grazioso o glorioso, per giungere infine alla scomparsa del
corpo visibile."6 Il film è la "gabbia di vetro o di cristallo" in cui introdurre il corpo attoriale per farlo
oggetto di un cerimoniale, per oggettivarlo nel cerimoniale. La cerimonia è la parodia feroce,
crudele attraverso cui il corpo performatico muta in corpo cinematico-macchinico, corpo
automatico, inorganico. L’immagine visibile del corpo si (dis)fa (in) immagine orale. Parodia
cerimoniale installata nel corpo stesso, nei gesti anche vocali, "l’aprassia e l’afasia sono due facce
della stessa postura": afasia come "guasto della parola" e aprassia come "sincope del gesto".
Corpo cavo; corpo come cavità orale (os oris "bocca"), voce, respiro. Corps subtil come lo ha
definito Pierre Klossowski.7
Parodia (para-odé), un "parlare-accanto", dispositivo originato dalle
strumentazioni tecnologiche di "doppiaggio" (e poi, a teatro, dal "play
back") in cui si fa sentire la dissociazione delle identità, dei "ruoli" dis-detti.
Tale dissociazione, béance, si apre, smargina le voci (singole o
polifoniche) dall’articolazione labiale in immagine ottica del sonoro, voci
asincrone o doppiate da voci altre, o da rumori e suoni. Parodia come
cerimoniale della "fine delle forme, del linguaggio" e del soggetto. Dal
cinema in poi la strumentazione fonica amplificata è stata "strumento" di
oggettivazione del "soggetto"8. Corpo, cinepresa e montaggio non sono che strumenti del ritmo,
della musicalità dell’immagine. S’interroga Carmelo Bene: "Chissà chi, che cosa, è riuscito in me e
per me a musicare certe posture del corpo, certo reclinare del capo, certa inquadratura inclinata, la
scelta delle luci, degli obiettivi (...)"9. La tecnologia cinematografica attiva il pardosso del
linguaggio, l’essere cioè al contempo "al di qua" e "al di là" della macchina da presa (interfaccia del
corpo attoriale e suo strumento di oggettivazione); contemporaneità che radicalizza il dissidio tra
l’autore e l’attore Carmelo Bene. Se c’è una strategia testuale nell’opera cinematografica di Bene
essa procede proprio attraverso un rigoroso dissidio dell’autore-attore. Si tratta, come sostiene
Piergiorgio Giacchè, della contraddizione tra augere e agere; l’autore-attore Bene "fonde insieme
(e in sé) l’inventare dell’autore e il giocare dell’attore, ovvero un aumentare la posta e un sottrarre
dalla scena che si rincorrono e si smentiscono l’un l’altro."10 E tale dissidio non può non
coinvolgere anche quella virtualità che è lo spettatore (modello o implicito) in uno stesso principio
d’estenuazione, di dépense, di fronte al rifiuto di ogni comunicazione, assente qualsiasi
"negoziazione del senso".

L’opus di Bene consiste anche nella messa in interferenza di "macchine


linguistiche" teatrico - cinematografico - televisivo - letterarie che fungono
da dispositivi di intertestualità. Il carattere intermediale-intertestuale
dell’opus di Bene mette in chiaro come, in un certo senso, il cinema non
inizi con il primo cortometraggio Hermitage (1967), e non finisca col
quinto ed ultimo lungometraggio, Un Amleto di meno (1972), ma riveli un "prima" teatrico e,
soprattutto, un "dopo" in televisione, nel "teatro senza spettacolo" e nella "macchina attoriale", che
non possono essere scissi dall’opera cinematografica. Si tratta di un’intertestualità
"patologicamente" autoriflessiva: è l’opera stessa che si ripiega su di sè. Le citazioni innumerevoli
non significano altro che la perdita irreversibile della fonte, depistaggi deliberati, falsificazioni,
dunque false citazioni e false fonti. La citazione, prelievo e innesto intertestuale, non cerca alcun
riconoscimento, è puro materiale testuale. Le citazioni pittoriche non sono richiami espliciti ad
Ingres, Rubens, Botticelli, Millais etc., ma semplicemente modi di trattare il richiamo culturale
"colto" come se fosse "basso", come una qualsiasi componente dell’opera. Così come, ad
esempio, in Capricci, quando Alice ritrova le vesti, il richiamo al Macbeth di Verdi non fa che
dettare il ritmo del montaggio, asincrono rispetto al resto: "le calze, i veli, le pose, le trame e le
bevute (...) tutto è stecca musicale (...). È il nulla assoluto ascoltato come se fosse musica, il nulla
dell’arte..."11.
Nel "laboratorio" del cinema da Otranto a Roma, all’interno dei set (già
teatrici) disseminati di impedimenti, di oggetti che resistono a qualsiasi
funzione, il corpo s’incidenta, disfandosi in ensamble di "situazioni", di
"doppi", di "tripli"... La parodia, la cerimonia investe il corpo cinematico, lo fa
passare attraverso una contraffazione; contraffazione della dissomiglianza
dell’uguale ("identità") in n varianti. Il corpo è il non-luogo delle ferite che l’io
autolesionista continuamente si procura, ma è la benda ad essere ferita12,
non il corpo, che vocato all’inorganicità della macchina attoriale solo si perde
nella fatica - che nulla gli costa - della dissipazione del sé. Cinema come dépense.

La monografia sull’opera di Carmelo Bene a firma di Cosetta G. Saba è stata pubblicata presso la
Casa Editrice Il Castoro per la collana Il Castoro cinema, n. 195. Il testo, di 143 pagine, è uscito
per la nota collana milanese nel 1999.

http://www.fucine.com/network/fucinemute/core/index.php?url=redir.php?articleid=3

Vous aimerez peut-être aussi