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Il genio di Phil Woods

al Clarinetto:
un’analisi essenziale.
di Pierluigi Fantozzi

1
Le incisioni di Phil Woods al clarinetto rappresentano – seppur,
com’è ovvio, secondariamente rispetto alla sua produzione
sassofonistica –un corpus consistente, quand’anche esso sia
distribuito in singole perle nel corso degli anni della sua attività.
Ed infatti la sua esperienza clarinettistica, se non forma una
produzione numericamente ragguardevole, è però una produzione
di grande importanza artistica. Al clarinetto ebbe una propria voce
che è via via mutata negli anni rendendosi originale, così come al sax
si distaccò dalla fitta coltre degli emulatori di Parker.

Due parole sulla formazione clarinettistica di Woods


Woods suonava già il contralto quando decise di accedere alla
Julliard nel 1949 (aveva diciotto anni) per specializzarsi nello studio
del clarinetto. Infatti allora non vi era modo di seguire corsi
specializzati per sassofono, ed egli ebbe modo così di apprendere la
tecnica classica del clarinetto alternando, a suo dire, le nottate in cui
suonava bebop alle giornate dedicate allo studio di Brahms, Mozart
e Stravinskij1.
Nel 1970, anno in cui Woods aveva ormai già raggiunto un grande
successo e una discreta notorietà grazie al sax, Buddy De Franco,
intervistato in Inghilterra da Les Tomkins2, fu informato dallo stesso
giornalista che Phil Woods e Art Pepper avevano preso ad incidere
col clarinetto: allora non dichiarò niente su Pepper, ma riponeva in
Woods grande fiducia artistica.3 Vent’anni più tardi4, nella sua
biografia, De Franco si mostrava entusiasta del modo di suonare di
Woods5, mentre liquidò la produzione clarinettistica di Pepper con
un “Not thrilling” [“per niente entusiasmante”].

Cronologia essenziale della produzione clarinettistica di Woods


precedente al 1981.
La prima incisione al clarinetto che compare nella discografia di Phil
Woods risale al dicembre del 1955, ed è in un disco di Bill Byers –
all’epoca 28enne – che si chiama “The Jazz Workshop”. Byers,
scomparso nel 1996, era6 un virtuoso del trombone ma verrà
piuttosto ricordato come un prolifico arrangiatore (orchestrò, tra le
tante, la musica della cerimonia di apertura delle Olimpiadi dell’84 a

1
Intervista del 2008 rilasciata a Marc Myers per Jazz Wax,
http://www.jazzwax.com/2009/02/interview-phil-woods-part-2.html, consultato il
16/10/2017
2
“Buddy De Franco, talking to Les Tomkins” (An Interview by Les Tomkins in 1970).
3
<< I knew about Art, but I didn’t know Phil was. Good for him—that’s great. If he
starts playing it like he does the alto, I’ll break his fingers! I’m anxious to hear him,
because he’s such a marvellous player. I’m sure anything Phil picks up he plays
great; he’s one of the most prolific jazz players I can think of. >>
4
John Kuehn ,“Buddy De Franco: A Biographical portrait and Discography”, 1993.
5
cfr. sopra
De Franco: <<I’ve heard him play the clarinet and I like it. I think he plays
better clarinet than a lot of clarinet players.>>
6
Robert Mcg. Thomas Jr, New York Times del 4 maggio 1996 , Bill Byers, 69, a
Prolific Musical Arranger for Movies and Shows.

2
Los Angeles) piuttosto che come band leader o solista. Sono
solamente quattro i brani che vedono Woods tra i membri
dell’organico, e solamente nella metà di questi Woods è al
clarinetto.
Gli arrangiamenti di Byers – e si capisce perché egli sia ricordato per
le sue doti compositive – sono eccellenti, lasciano tuttavia poco
spazio ai soli: il solo di Woods in “The Funky Music Box” consta di
appena 4 battute, prima di svanire per lasciare spazio al solo di
basso di Milt Hinton. Questa brevità non ci lascia granché capire di
che pasta fosse fatta allora la voce di Woods al clarinetto, tant’è che
quel poco che si sente proprio in questo brano – complice
probabilmente lo stile soffiato, o forse la celesta che accompagna il
tutto, o la predilezione per il registro medio-grave – assomiglia allo
stile che avrebbe caratterizzato nelle incisioni dell’anno successivo il
pioniere per eccellenza del clarinetto cool, Jimmy Giuffre.
Con questo riferimento non voglio certo supporre che si siano
influenzati vicendevolmente (si trovavano infatti su due coste
opposte e appartenevano a correnti jazzistiche ben diverse),
piuttosto che si siano entrambi accodati al modo in cui si intendeva
il clarinetto e con cui ci si approcciava ad esso negli anni ’50, e
mentre Woods ha sempre prediletto il sassofono raggiungendo
notevoli altri traguardi, è stato Giuffre ad esasperarlo e a farlo
diventare la caratteristica che ha reso il suo stile evidente in mezzo a
mille altri.
In “The Tickler”, Woods ha un intero chorus di 16 battute per “dire
la sua”, e lo fa con un solo fortemente swingato che ricorda,
inevitabilmente, il clarinettismo di Benny Goodman il cui stile a
lungo ha dettato legge su come si facesse il jazz al clarinetto.
Curiosamente, Goodman e Woods si incontreranno nel 1962,
quando Phil Woods lo segue nel suo tour in Russia. A quanto sembra
il rapporto fra i due non era ottimo, a causa delle divergenze
stilistiche e del caratteraccio di Goodman. In un’intervista7 del 1992
lo accusò sostanzialmente di essere stato all’epoca un retrogrado e
narcisista, rimasto al gusto con cui aveva conquistato il mondo
trent’anni prima, che riduceva lo spazio di quei solisti che avevano
ammaliato eccessivamente il pubblico per i suoi gusti.

Non di rado il clarinetto di Woods, in quelle poche volte in cui


comparirà fra i crediti di un album, sarà relegato a ruoli d’orchestra
– come abbiamo visto per The Jazz Workshop – di importanza
marginale, ruoli che forse per il clarinetto erano gli unici possibili in
un’epoca in cui il sax era lo strumento principe del jazz. Il clarinetto
era divenuto all’epoca uno strumento perlopiù caricaturale, si
aggiungeva nelle orchestre per ottenere un colore particolare ed era

7
Steve Voce in Jazz Journal International, “Phil Woods Talks to Steve Voce”,
1996.

3
sintomo di una certa ricercatezza di stile tipico delle big band
dell’epoca.
In un disco registrato nel ’57 dalla Billy Ver Planck Orchestra, “Jazz
For Playgirls”, figura Woods che incide tutte le tracce al sassofono,
eccetto per una, “Winds”, in cui è al clarinetto e si esibisce anche in
un breve assolo brillante e costruito sul registro medio-acuto.
Nel ’61 prende parte all’orchestra che accompagna Anita O’Day nel
disco “All The Sad Young Men”: anche qui il clarinetto fa la sua
apparizione in due sole tracce, in “I Want To Sing A Song”, in veste
di mero accompagnamento, e in “A Woman Alone With The Blues”
in cui Woods ha anche uno spazio per un assolo che è però molto
rarefatto, che consiste in piccole cadenze che si appoggiano su note
lunghe in un crescendo dell’orchestra che raggiunge il climax del
brano e svanisce insieme al solista; un solo che sembra quasi essere
stato scritto apposta per l’occasione, come non di rado dev’essere
accaduto per incisioni pensate per il grande pubblico a cui un assolo
propriamente jazzistico sarebbe risultato alquanto indigesto.

È nel ’62 che Phil Woods ha finalmente l’occasione di incidere un


solo di lunga durata al clarinetto, da vero e proprio protagonista. Al
ritorno dallo storico tour di Benny Goodman nell’URSS, il
compositore ed arrangiatore Al Cohn volle riunire i solisti che
avevano partecipato a quell’esperienza per incidere un album che
rappresentasse un tributo proprio per quell’evento. L’album si
intitolò proprio “Jazz Mission To Moscow” e nella traccia “Midnight
in Moscow”, ripresa in chiave swing di un tema scritto in Russia
sette anni prima, ci possiamo accorgere che Woods aveva tutte le
carte in regola per criticare Goodman: non solo egli padroneggiava
alla perfezione la tecnica del maestro dello swing, ma col suo stile
originale e discorsivo aveva scardinato la fissità dell’improvvisazione
swing caratterizzata prevalentemente da arpeggi e frammenti scalari
che rendono – come sa ogni clarinettista jazz- lo studio di Goodman
così didattico.

Quelli dal ’68 al ’72 sono gli anni che Woods – alcuni speculano che
sia stato per motivi politici, oltre che squisitamente culturali o
musicali8 – trascorre a Parigi, e dà vita alla sua “European Rhythm
Machine”, un gruppo con cui inciderà uno dei suoi album fra i più
sperimentali e divertenti della sua carriera, “Phil Woods and The
European Rhythm Machine” del 1970. Fra sketch comici e timbri –
come quello del flauto, il buffo recorder – non poteva certo mancare
quello del caricaturale clarinetto.

È dagli anni ’80 che Woods dà il suo meglio al clarinetto: è l’epoca in


cui su questo strumento raggiunge una vera e propria originalità

8
http://thejazzspot.tumblr.com/, consultato il 20/10/2017

4
stilistica che sul sax aveva già acquisito da tempo, ne è prova la sua
fama planetaria.
Prima di questi anni egli aveva dato prova della sua indubbia
maestria tecnica, ad esempio superando senza sforzi Goodman nella
creatività dell’improvvisazione swing, ma forse non aveva ancora
sviluppato una propria voce, oppure non aveva avuto né modo né
aveva sentito l’esigenza di farla conoscere al pubblico. Un’assoluta
novità nel linguaggio clarinettistico di Woods è rappresentata da un
brano contenuto nell’album Three For All (1981) – brano inciso in
una formazione del tutto particolare per Woods, il trio che lo vede
affiancato a Red Mitchell e a Tommy Flanagan, storico pianista della
Fitzgerald. Tralasciando il fatto che l’album è davvero un unicum
superbo, nato dal connubio della straordinaria preparazione dei tre,
You’re Me (pag.5) – scritto da Mitchell in occasione di un’incisione in
duo con lo stesso Flanagan – è l’occasione che Phil Woods si è
riservato a lungo per dimostrare la sua originalità clarinettistica. Il
brano, per via di un armonia continuamente caricata di tensioni dal
piano di Flanagan, non trova mai una vera e propria requie: lo stesso
solo di Woods è agitato, pur estremamente chiaro e lineare, e non
fa in tempo a terminare che di nuovo è costretto a riprendere il
tema.

5
6
“Azure” secondo Phil Woods
Nei brani che Woods ha inciso al clarinetto compare per ben tre
volte una composizione di Duke Ellington, Azure. È proprio il brano
che può vantare più incisioni con Phil Woods al clarinetto.
Le prime due versioni risalgono a quel periodo che in precedenza ho
definito il migliore per la sua esperienza clarinettistica, di cui una è
un’incisione in studio del 1984 e l’altra fa parte di un live del 1985,
entrambe eseguite dallo stesso quintetto. La terza versione risale a
esattamente vent’anni più tardi e figura nell’album postumo di
Herbie Mann del 2004. Ci proponiamo adesso di esaminare
l’approccio che Woods ha adottato nell’interpretare un caso del
tutto peculiare del jazz classico.

a. Cos’è “Azure”?
Azure, tra i brani di Ellington, è forse uno fra i più particolari, pur
non essendo uno dei suoi successi più famosi. E’ un brano dalla
melodia estremamente semplice, ma caratterizzato da un’armonia
affatto particolare, toccando in certi punti l’atonalità (o
“politonalità”, se la vogliamo definire con Schoenberg) e che nella
musica (allora) contemporanea ricopriva un ruolo tutt’altro che
marginale.

Ecco qua sopra una trascrizione della prima “A” del brano originale
offerta da Gunther Schuller nel suo “The Swing Era: The
Development of Jazz”9.

Mentre la tromba e il trombone procedono per terze parallele


salendo e poi discendendo per semitoni (che rappresentano il
leitmotiv del brano), il clarinetto si trova un’undicesima al di sotto

9
Gunther Schuller, “The Swing Era, The development of Jazz: 1930-1945”,
Oxford University Press, New York, 1989, p.89

7
della tromba. Nel suo registro di chalumeau10,il clarinetto risalta
moltissimo su tutto l’organico dell’orchestra. La scelta di porre alla
nota più grave proprio il timbro di questo legno è una scelta non da
poco: in questo modo è proprio il clarinetto, con la particolarità
della fisica del suo suono – e cioè che è privo degli armonici pari, ad
avere più armonici udibili rispetto alla tromba e al trombone, e i
meno consonanti. Lascio aperto il dibattito circa il fatto che Ellington
(o chi per lui11) abbia fatto questa scelta di proposito, oppure no;
resta comunque il fatto che il clarinetto spicca in particolar modo in
questo brano.

Non è forse un caso dunque che Phil Woods abbia voluto utilizzare
proprio il suo strumento secondario, e non il sax, per incidere questa
canzone in tutte e tre le occasioni: forse a mo’ di omaggio nei
confronti del genio ellingtoniano, o perché influenzato dal timbro
che rappresenta l’essenza di questo pezzo.

b. Azure in Heaven (1986) e in Integrity (1985)

Negli ultimi giorni del 1984, Woods si trova in studio col suo “New
Quintet”, composto fra gli altri da Tom Harrell al flicorno, Steve
Gilmore al basso, Bill Goodwin alla batteria e da Hal Galper al piano.
In due giorni (28 e 29 dicembre) incidono assieme un disco che è
dedicato proprio al grande Duke, come dimostra a chiare lettere il
titolo “Heaven”, che è il nome di un celebre brano di Ellington,
anch’esso compreso all’interno di questa raccolta in una versione
del quintetto. Vi è poi “Azure”, ma anche “The Duke”, un brano di
Dave Brubeck scritto per onorare l’incredibile contributo di Ellington
al repertorio jazzistico.

Nell’85 esce poi un live dal titolo “Integrity: The New Phil Woods
Quintet Live” in cui si ritrovano alcuni dei brani – fra cui Azure –
contenuti in Heaven. Sebbene sia stato pubblicato dopo
quest’ultimo, Integrity è stato inciso dal vivo ben otto mesi prima, al
Palazzo dei Congressi di Bologna, nell’aprile del 1984.

L’improvvisazione di Woods su Azure, in entrambi i casi è molto


caratteristica; vi è un interplay continuo fra la band e il solista che

10
Il registro di chalumeau è il registro più grave del clarinetto. Prende il nome
dall’omonimo strumento da cui deriva il clarinetto stesso.
11
Gunther Schuller, sempre in “The Swing Era: the Development of Jazz” apre una
questione che, vista la preparazione del commentatore, forse non avrà mai
risoluzione:
“I’m intrigued by the information given in all discographies that ‘Azure’
was arranged by Joe Lippman, for it is as Ellingtonian in style and mood as
anything Duke […] ever created. It seems rather remarkable that an
arranger, no matter how gifted, should be able to adopt Ellington’s
mature style so completely in one single opportunity as guest arranger for
the Ellington orchestra. [...] I have not been able to find confirmation or
denial of Lippman’s involvement in Ellington’s ‘Azure’, and for me it
remains a highly questionable matter.”

8
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10
11
tende a mantenere viva – prevalentemente nelle sezioni “A” – l’aria
onirica che si riscontra anche nell’incisione di Ellington del ’37,
mentre nelle “B” inizia un crescendo sia nella dinamica che
nell’articolazione, che culmina alla fine della sezione o all’inizio e
della successiva e tende a posarsi alla fine della nuova “A”, prima di
riprendere il solo o di lasciare spazio al solo di Tom Harrell.
La differenza principale fra i due assoli consiste soprattutto nella
durata: nella versione di Heaven (p.9) Woods, forse per esigenze
discografiche, esegue un solo chorus di improvvisazione, mentre la
versione di Integrity (pp.10-11) consta di ben due chorus.
Ne risulta che l’assolo di Woods nella versione live di Integrity è
molto più interessante ed ha caratteristiche che lo rendono più
gradevole, poiché Woods ha più tempo – l’abilità certo non gli
mancava – per sviluppare un pensiero musicale coerente e ben
costruito di cui più facilmente si può apprezzare la simmetria. Nasce
infatti da costruzioni melodiche che occupano il registro medio in
una dinamica contenuta, e va a morire in un piano proprio nel
registro medio, mentre il solo di Harrell lo soverchia. C’è poi da dire
che l’incipit sembra far riferimento al solo di Bigard nella versione
originale del ’37, in cui il celebre clarinettista di Ellington prepara il
suo solo con una scala pentatonica ascendente che occupa due
ottave, quindi discende cromaticamente nella battuta seguente per
tornare con una risoluzione al registro grave da cui era partito. Se
osserviamo, Woods costruisce questo solo – seppur su un’armonia
differente – in maniera analoga.
In contrapposizione, la versione dell’album Heaven si apre con un
ostinato che Woods riafferma, in forma flessa secondo l’armonia,
nella battuta seguente; espediente che risulta meno efficace
dell’incipit della versione registrata dal vivo.

Abbiamo già elogiato la versione di Integrity per la sua forma, più


chiara rispetto all’incisione che compare in Heaven. Vogliamo però
adesso dire in cosa consista questa chiarezza, escludendo l’incipit di
cui abbiamo già parlato. La versione in studio dell’84 contiene
pattern ritmici non troppo variegati: tendenzialmente il solo si
articola in sedicesimi rendendo il tutto ritmicamente omologato.
Inizia un crescendo nella “B”, il fraseggio si fa sì più articolato, ma il
climax scandito dai trentaduesimi arriva troppo tardi – seppur con
una scelta melodica molto interessante e da non buttare via – ed il
tempo per suonare è già finito per il clarinetto di Woods.
Invece nella versione live dell’85 appare molto chiaro il momento in
cui il solo inizia a crescere e a prendere carattere: all’inizio del
secondo chorus (battuta 3712) Woods mantiene a lungo un pattern
ritmico ostinato, dando luogo così una polimetria che ha un ruolo
non da poco nell’aumentare la tensione musicale – come già era

12
Il numero delle battute ha solamente valore indicativo per questa ricerca e non
ha nessuna attinenza con la realtà formale del brano.

12
avvenuto a battuta 25. Ci si illude dunque che il nostro orecchio
possa trovar pace quando Woods scioglie questo groviglio ritmico
con una quartina di ottavi (battuta 40) che però finisce
sorprendentemente sul tritono esatto dell’accordo da cui la quartina
ha avuto origine, che è anche la nona bemolle dell’accordo di
dominante successivo. È appena un assaggio della carica di cui si sta
per rivestire il solo, dato che la nota in questione è appena
accennata. Con l’inizio della seconda “B” di solo ha inizio il climax
vero e proprio che ha pace solo con la ripresa della sezione “A” in
cui il solo costruisce l’ultimo II-V (battute 50-51) su degli arpeggi
cilestrini – se mi si passa il riferimento al titolo del brano – che fin da
sempre, dal classicismo mozartiano passando per Benny Goodman,
hanno dimostrato la loro efficacia.

c. “Azure”, vent’anni dopo.

Phil Woods, come già si è detto, inciderà Azure ancora una volta, nel
2003, stavolta a fianco di Herbie Mann – assieme al quale aveva
inciso cinquant’anni prima il disco “Yardbird Suite” – stavolta per
l’album “Beyond Brooklyn” uscito nel 2004, quando Mann era già
morto.
In questo caso il solo di clarinetto (p.14) rientra perfettamente nel
gusto del clarinettismo dell’ultimo Woods: vi è un perfezionismo
estremo delle costruzioni ritmico-melodiche, semplici e pacate,
permesse anche da una padronanza tecnica non indifferente.
Mancano i voli pindarici delle due versioni precedenti: pare come se
Woods avesse da ultimo placato il fuoco del bop che ardeva in lui,
sostituendolo con una calda matrice di poesia semplice e diretta –
della cui esistenza aveva già dato prova nel 2001 con l’album in duo
con Irio de Paula, “Encontro (On Jobim)”, in cui Woods utilizzò
esclusivamente il clarinetto.

13
14
Il clarinetto dell’ultimo Woods, anni 2000

È nelle incisioni risalenti all’inizio del duemila che Woods finalmente


impiega il clarinetto più sovente. Le incisioni più emblematiche del
nuovo stile – intimista e soffiato, in contrapposizione per esempio
agli assoli su You’re Me o sulle Azure degli anni ‘80 – che abbiamo
riscontrato anche nell’ultima incisione a fianco di Herbie Mann sono
due, entrambe in duo: il primo esempio è il già citato Encontro (on
Jobim) (2001) assieme al chitarrista Irio de Paula, da poco
scomparso; il secondo è l’album dello stesso anno inciso in duo
assieme al pianista italiano Franco D’Andrea, Balladeer Supreme
vol.1, che nonostante il titolo è irrimediabilmente orfano di
qualsivoglia vol. 2 o 3.
Ormai lo stile di Woods, analogamente a quanto notato per la Azure
del 2004, ha assunto uno stile decisamente cool: il soffiato, che già
aveva sperimentato in giovinezza, ritorna con prepotenza e non può
fare a meno di ricordare lo stile caratteristico di Giuffre.
Il fraseggio semplice, pacato, sembra ispirato ai sapienti periodi
musicali propri dell’ultimo Baker, seppure in senso lato, grazie
all’espediente del continuo ritardo sul tempo.

– Encontro (on Jobim) (2001) e la sua Corcovado

Questa raccolta rientra nella serie di dischi che Woods incise in


Italia, così come il disco che ha inciso con D’Andrea nello stesso
anno. Il sottotitolo di questo album, non a caso, è The Clarinet
Album, attribuitogli forse a scanso d’equivoci, per avvertire della sua
natura gli sprovveduti ascoltatori che nell’acquistarlo si fossero
aspettati un altro capolavoro di Woods al sassofono, e si fossero
ritrovati con un incisione prettamente clarinettistica. Capolavoro è,
ma è – per l’appunto – tutto merito del suo genio al clarinetto,
incentrato quasi esclusivamente sul repertorio della bossa nova, ad
esclusione di Autumn Leaves che è però riletto in tale stile. Spicca
per eleganza e soluzioni melodiche e ritmiche la versione di
Corcovado qui contenuta (pag. 16).
Il fraseggio pesante, staccato, in perenne ritardo sul tempo si accoda
allo stile rilassato tipico della bossa, e non fa altro che confermare
quanto abbiamo detto sulle scelte stilistiche del clarinettismo che
Woods ha scelto negli ultimi anni della sua carriera.
Da battuta 5613 riscontriamo un escamotage ritmico non nuovo
nella produzione solistica di Woods: un pattern di ¾ si dipana per
quattro misure in un crescendo che rappresenta l’apice della
tensione di questa sua interpretazione. Già in Azure (1985) lo si può
notare, ma letto in questa chiave intima e introspettiva, ne diviene
la versione – per così dire – matura e raffinata.

13
Vedi nota 11

15
16

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