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macaulay

donne
stima
durkheim

eguaglianza
brennan e pettit

58
2017/1

FrancoAngeli
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I quadrimestre 2017 – Finito di stampare nel mese di agosto 2017


SOMMARIO

CONNESSIONI DI GENERE

7 Thomas Casadei
Il pensiero delle donne

11 Orsetta Giolo
Sulla libertà delle donne

22 Marisa Iannucci
Aysha Abdurrahman
L’esegesi coranica al femminile in epoca moderna

34 Giuseppina Bagnato
Le donne nella tradizione protestante
Sarah e Angelina Grimké

43 Serena Vantin
Prospettive di genere
L’educazione da attività filantropica a diritto universale

56 Alberto Pirni
‘Connessioni di destino’
Cura, interdipendenza, convivialismo

A DUE VOCI

73 Un realismo di genere?
Interventi di Thomas Casadei e Maria Laura Lanzillo
su Ampliare lo sguardo di Anna Loretoni
ARCHIVIO

89 Catherine Macaulay
Eguaglianza tra i sessi e universalità della morale
a cura di Serena Vantin

TEORIA SOCIALE

99 Geoffrey Brennan e Philip Pettit


L’economia nascosta della stima

124 Gabriella D’Ambrosio


I debiti di Durkheim verso Rousseau

135 Salvatore Muscolino


La ‘normatività’ tra etica e metafisica

NOTE DI LETTURA

151 Erving Goffman, Rappresentazioni di genere (Elisa Rossi);


Vera Tripodi, Filosofie di genere. Differenza sessuale e
ingiustizie sociali (Silvia Ferrari); Orsetta Giolo e Maria
Giulia Bernardini (a cura di), Critiche di genere (Patrick
Leech); Adriana Valerio, Donne e Chiesa: una storia di
genere (Chiara Tortora); Gennaro Sasso, Su Machiavelli.
Ultimi scritti (Mattia Di Pierro)

167 ABSTRACT E AUTORI


Si tratta della
prospettiva di un aiuto
concreto tra persone
diverse, che non esclude il
conflitto ma non svaluta
il potenziale della
cooperazione che risiede in
ognuno.

Il pensiero delle donne

Alla base dell’assai articolata elaborazione dei cosiddetti gender stu-


dies – anche nel contesto italiano1, seppure in forme ancora lasciate alla
libera iniziativa di alcuni gruppi di studiose e di qualche studioso – non vi
è solo una metodologia di analisi2 ma anche una pratica teorica. Que-
st’ultima consiste, come cercano di mettere a fuoco i contributi raccolti nel
fascicolo, nel tentativo di un mutamento significativo di orientamento,
ossia nella definizione di una nuova ‘mappa concettuale’ che rimoduli in
inedite forme consolidati rapporti di diseguaglianza, discriminazione,
oppressione, dominio e metta anche a disposizione dell’analisi teorica e
sociale elementi, relazioni, connessioni prima invisibili o scarsamente
indagati.
Il complesso di ricerche e di riflessioni che va sotto il nome di ‘pensiero
delle donne’, sovente generato da concrete esperienze di rivendicazione di
diritti, di impegno pubblico, di mobilitazione politica, ha infatti non solo
prodotto conoscenze importanti e trasformazioni sociali ma anche posto
interrogativi cruciali ai saperi costituiti, al diritto vigente, all’organiz-
zazione socio-istituzionale e alle strutture di potere. Interrogativi, questi,
che hanno sfidato abitudini, prassi consolidate, cornici di riferimento e, più
in generale, visioni del mondo e della società, del diritto e della politica,
dell’etica. Particolarmente intensa è stata negli ultimi anni la discussione
su che cosa significhi ‘genere’ e di conseguenza ‘approccio di genere’3, su
quali siano le relazioni che intercorrono tra genere ed educazione, tra


1
A differenza infatti di quanto succede in altri paesi, soprattutto di area anglosassone e nordica, dove i
corsi di Gender studies sono stati istituzionalizzati tra gli anni sessanta e settanta del Novecento, in
Italia gli studi di genere non costituiscono per lo più discipline a sé stanti ma sono inseriti all’interno di
altre discipline o si sviluppano come seminari o moduli all’interno di corsi ufficiali, affidati quindi
all’iniziativa di singoli docenti senza alcuna istituzionalizzazione. Cfr. sul punto anche S. Chemotti, a
cura di, Donne: oggetto e soggetto di studio. La situazione degli Women’s Studies nelle università
italiane, Il Poligrafo, Padova 2009; A. Sturabotti, Gender studies: terza via tra il contagio diffuso e il
femminismo istituzionale, in M.G. Bernardini, O. Giolo, a cura di, Critiche di genere. Percorsi su
norme, corpi e identità nel pensiero femminista, Aracne, Roma 2015, pp. 181-208.
2
P. Persano, S. Rodeschini, Studi di genere e storia del pensiero politico. Dalla revisione del canone
al femminismo come metodo, “Storia del pensiero politico”, 2014/2, pp. 311-324.
3
S. Pezzini, Gender, “Nuova informazione bibliografica”, 2014/3, pp. 489-515.

La società degli individui, n. 58, anno XX, 2017/1 ISSN 1590-7031, ISSNe 1972-5752

genere e diritti, tra genere e religioni. Si tratta di quesiti che conducono a


una più ampia visione – dai contorni filosofico-politici ma pure etico-pra-
tici – del femminismo e delle sue articolazioni (i cosiddetti ‘femminismi’4),
come ha ben mostrato il volume di Anna Loretoni, Ampliare lo sguardo.
Genere e teoria politica (Donzelli, Roma 2014) discusso in un’apposita
sezione ‘A due voci’. Lo sguardo può essere ampliato volgendo al passato
la direzione dell’analisi, per esempio alle radici dell’abolizionismo – che
trova nelle rivendicazioni suffragiste un perno fondamentale eppure troppo
spesso trascurato (come mostra Orsetta Giolo) – oppure nel lungo per-
corso che da una rigida educazione, volta alla sottomissione e subordina-
zione delle donne, ha portato al diritto all’istruzione come veicolo fon-
damentale di emancipazione e parità (questione indagata da Serena
Vantin).
La trasmissione dei saperi e il loro modo di incidere nelle relazioni tra i
sessi ha avuto un ruolo-chiave anche nella storia delle religioni: scavare in
questa direzione – lo suggeriscono nei loro articoli Marisa Iannucci e
Giuseppina Bagnato – può portare alla luce figure lasciate ai margini per
il portato dirompente del loro pensiero come Aysha Abdurrahman e le
sorelle Sarah e Angelina Grimké. Ciò vale per la tradizione islamica come
per quella del protestantesimo, oltre che – lo mostrano bene gli studi svolti
negli ultimi anni da Adriana Valerio – per la cultura cristiano- cattolica. Il
nesso tra istruzione e religione è, del resto, un nodo che merita di essere
riesaminato, anche tramite figure che hanno rappresentato momenti si-
gnificativi di discontinuità nel lungo tracciato verso l’acquisizione di un
«altro sguardo sul mondo e sulla società» come Catharine Macaulay
(1731-1791), la quale, nel secondo Settecento, sostenne l’uguaglianza on-
tologica degli esseri umani (uomini e donne) e l’universalità dei sentimenti
religiosi e morali.
Una ricerca condotta seguendo il filo delle connessioni, anziché quello
a lungo predominante delle dicotomie e delle separazioni, porta anche a
scorgere inedite possibilità per il presente: in tal senso possono essere lette
le correlazioni – puntualmente messe a fuoco da Alberto Pirni – tra l’etica
della cura scaturita dal più recente pensiero femminista (da Carol Gilligan
a Virginia Held, da Eva Kittay a Joan Tronto) e la prospettiva del con-
vivialismo che in epoca globale mira, per così dire, a «rimettere al mondo
il mondo» a partire da pratiche di fiducia, di relazione, di mutualismo.


4
Per una ricognizione in merito alle ‘ondate’ del femminismo e alle molteplici ispirazioni che
animano il dibattito in materia rinvio a A. Cavarero, F. Restaino, Le filosofie femministe. Due secoli di
battaglie teoriche e pratiche, Mondadori, Milano 2002. Si veda, inoltre, il recente C. Arruzza, L.
Cirillo, Storia delle storie del femminismo, Porto Alegre, Roma 2017.

Quelli indicati sono solo alcuni dei percorsi possibili, ma paiono poter
suggerire nuove rotte per il pensiero e per l’azione di coloro che, rico-
noscendo quanto siano ancora robusti gli stereotipi e i pregiudizi di genere
a partire fin dalla primissima educazione, nella famiglia, nella scuola, nei
media, nei mondi del lavoro, nella sfera pubblica e politica, intendano
contrastare le ingiustizie sociali legate alla differenza sessuale5.
Se quello contro la donna è il «più antico pregiudizio»6, assai antica è
anche la tradizione della critica, con le sue molteplici forme.

(th. c.)*


5
Cfr. V. Tripodi, Filosofie di genere. Differenza sessuale e ingiustizie sociali, Carocci, Roma 2015.
Cfr. anche M.G. Turri, a cura di, Manifesto per un nuovo femminismo, Mimesis, Milano 2013; A.
Cagnolati, S. Rossetti, a cura di, Donne e potere. Paradossi e ambiguità di una difficile relazione,
Aracne, Roma 2014.
6
P. Ercolani, Contro le donne. Storia e critica del più antico pregiudizio, Marsilio, Venezia 2016.
*
Data di presentazione: 3 febbraio 2017; data di accettazione: 4 aprile 2017. Affiliazione: Università di
Modena e Reggio Emilia; indirizzo email: thomas.casadei@unimore.it.

9
Catharine Macaulay
Sulla libertà delle donne*
Orsetta Giolo

ABSTRACT: The affirmation of the rights in the 1776 and 1789 Declarations favoured the
emergence of two important issues, which fuelled and animated the public and legal debate
of the following years and became, in turn, claims of capital importance for the construction
of the upcoming societies and political communities: the abolition of slavery and the end of
women’s upheaval. In both cases, the central knot was the recognition of the fundamental
rights’ ownership (starting with those of liberty) for both slaves and women. Nevertheless,
although born together, the two claims of liberty were ‘separated at birth’ for ‘gender rea-
sons’.
KEYWORDS: Freedom of women, human rights, slavery, oppression, emancipation.

Introduzione

All’origine, l’affermazione dei diritti nelle Dichiarazioni del 1776 e del


1789 portò con sé l’affacciarsi di due grandi questioni, che alimentarono e
animarono il dibattito pubblico e giuridico degli anni successivi e che si
trasformarono a loro volta ben presto in due importantissime – fondamenta-
li per la costruzione delle società e delle comunità politiche a venire – ri-
vendicazioni: l’abolizione della schiavitù1 e la fine dell’asservimento delle
donne2. In entrambi i casi, il nodo centrale venne ad individuarsi ovviamen-
te nell’attribuzione (agli schiavi e alle donne) della titolarità dei diritti fon-
damentali, a partire dai diritti di libertà.
Sono numerose le testimonianze relative al fatto che tali battaglie mora-
li, politiche, ideologiche e teoriche vennero condotte spesso contempora-
neamente da persone che si esponevano su tutti e due i fronti: chi si dichia-

* Ringrazio vivamente Maria Giulia Bernardini, Thomas Casadei, Alessandra Facchi, Olivia Guaraldo
e Milli Virgilio per i preziosi consigli e per aver letto, commentato e criticato questo saggio nelle sue
precedenti versioni. Data di presentazione: 10 ottobre 2016; data di accettazione: 19 gennaio 2017. Affi-
liazione: Università di Ferrara; indirizzo email: orsetta.giolo@unife.it.
1
Sulla nascita del movimento abolizionista si veda, di recente, Th. Casadei, Il rovescio dei diritti
umani. Razza, discriminazione, schiavitù, DeriveApprodi, Milano 2016, p. 73 e ss.
2
Sull’avvio del dibattito in tema di diritti delle donne rinvio per tutti a A. Facchi, Breve storia dei
diritti umani. Dai diritti dell’uomo ai diritti delle donne, il Mulino, Bologna 2013, p. 62 e ss.

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rava a favore dell’una spesso appoggiava anche l’altra e viceversa. Basti
ricordare, tra le pioniere dei diritti delle donne, Olympe de Gouges3, le so-
relle Grimké4, le femministe di Seneca Falls5, Emmeline Pankhurst6 e così
via.
L’intreccio tra i due dibattiti e le due battaglie traeva origine, necessa-
riamente, dall’evidenza resa tale proprio dalle Dichiarazioni dei diritti, gra-
zie alle quali per la prima volta nella storia si affermava il principio
dell’eguaglianza tra gli esseri umani e risultava di conseguenza lampante il
fatto che vi fossero, all’epoca, due grandi categorie di esclusi dai diritti: gli
schiavi e le donne7.
Nei confronti di entrambe queste ‘classi’ di soggetti, dunque, la rivendi-
cazione che veniva condotta riguardava in primo luogo il riconoscimento
della libertà8, intesa quest’ultima come una condizione, uno status da attri-

3
Suo è il dramma teatrale di Zamore e Mirza, cfr. O. De Gouges, L’esclavage des Noirs ou L’heureux
naufrage (1792), L’Harmattan, Paris 2014.
4
In merito al loro contributo si veda in particolare S.M. Grimké, Poco meno degli angeli. Lettere
sull’eguaglianza dei sessi, a cura di Th. Casadei, Castelvecchi, Roma 2016. Rinvio anche al contributo
di Giuseppina Bagnato contenuto in questo numero.
5
Si veda ad esempio la biografia di Lucretia Mott, la quale, come le altre promotrici della Convention
di Seneca Falls, era molto attiva nel movimento abolizionista. Cfr. in proposito il noto testo di S.G.
McMillen, Seneca Falls and the origins of the Women’s Rights Movement, Oxford University Press,
New York 2008.
6
Molto interessante è quanto scrive Emmeline Pankhurst a proposito della propria infanzia e
dell’attivismo abolizionista dei suoi genitori, al contempo sostenitori del diritto di voto alle donne:
«Piccola com’ero – non potevo avere più di cinque anni – conoscevo perfettamente il significato delle
parole schiavitù ed emancipazione. Fin dall’infanzia ero stata abituata ad ascoltare discussioni pro o
contro la schiavitù e la Guerra Civile americana. […] Molti di quelli che formavano il circolo di amici
della nostra famiglia si opponevano alla schiavitù, e mio padre, Robert Goulden, fu sempre abolizionista
davvero ardente», cfr. E. Pankhurst, La mia storia, Castelvecchi, Roma 2015, p. 9.
7
Sull’affermazione dei principi di libertà ed eguaglianza nelle Dichiarazioni di fine Settecento rinvio,
per tutti, a N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, p. 89 e ss. Ovviamente, non solamente
queste due ‘classi’ di persone (gli schiavi e le donne) erano escluse realmente dai diritti: nei decenni e
secoli successivi, grazie alle riflessioni promosse dalle teorie critiche del diritto e della politica, è risul-
tato altrettanto evidente il fatto che il diritto funzionasse in modo discriminatorio nei confronti delle
persone non corrispondenti al ‘modello’ del soggetto politico e giuridico (cristiano, eterosessuale, nor-
modotato, benestante, bianco, stanziale) implicitamente presupposto dalle dichiarazioni dei diritti. Sul
punto mi permetto di rinviare a M.G. Bernardini e O. Giolo, Il ‘parametro mobile’. Note sul rapporto
tra eguaglianza e differenza, “Filosofia politica”, 2014/3, pp. 505-522.
8
In tema di ‘libertà’, la letteratura è, ovviamente, sterminata. In questa sede la parola ‘libertà’ è utiliz-
zata nel suo significato ‘originario’, come ricorda Mauro Barberis: «[i]l significato originario e archeti-
po di libertà – quello al quale, attraverso causali […] si connettono tutti gli altri – è dunque quello di
libertà come status», cfr. M. Barberis, Libertà, il Mulino, Bologna 1999, p. 22. Cfr. anche E. Diciotti,
Limiti ragionevoli delle libertà: un quadro concettuale, “Ragion Pratica”, 20, 2003, pp. 111-148, p. 112
e ss. È utile ricordare quanto sottolinea Barberis a proposito del fatto che «l’opposizione libero/schiavo,
nata nell’ambito domestico, si dislochi in quello politico» successivamente (Libertà, cit., p. 41): una
simile dinamica appartiene anche alla storia della discriminazione delle donne, tanto che la critica fem-
minista riconosce, notoriamente, nello spazio domestico il luogo originario dell’oppressione.

12
buire a tutte le persone e non solamente ad alcune, proprio in ragione del
principio di eguaglianza9.
Il riconoscimento dei diritti di libertà, in entrambi i casi, costituì anche
nei secoli successivi dunque il passaggio indispensabile per giungere al-
l’emancipazione sia per gli schiavi, sia per le donne.
Vale la pena sottolineare, a tal riguardo, il fatto che l’utilizzo del termi-
ne emancipazione e nella letteratura abolizionista e in quella femminista
rinviava alla condizione iniziale ‘condivisa’ dagli schiavi e dalle donne:
una condizione di soggezione (individuale) e oppressione (collettiva) al
dominio proprietario e maschile10. Tuttavia, quali categorie della soggezio-
ne/oppressione, quella della schiavitù riguardava indistintamente uomini e
donne, mentre ovviamente quella delle donne riguardava esclusivamente le
persone di sesso femminile. Questa differenza risulterà poi fondamentale e
condurrà ad esiti molto diversi per le due rivendicazioni ‘originarie’ della
libertà: sorte congiuntamente, ma ben presto ‘separate alla nascita’ per
‘questioni di genere’.

Libertà e schiavitù: due destini per due generi

Quale sviluppo abbia conosciuto la rivendicazione dell’abolizione della


schiavitù è cosa nota11. In breve tempo, numerosi Stati adottarono leggi ad
hoc che proibirono la riduzione in schiavitù e, affianco al riconoscimento
giuridico di tale divieto, si impose un cambiamento culturale importantis-
simo, che trasformò la questione stessa della riduzione in schiavitù in un
tabù giuridico, etico e politico.
Infatti, nonostante il sopravvivere a lungo di molte pratiche segregazio-
niste – che continuarono a essere autorizzate e legittimate nei confronti dei
neri, ma anche degli ebrei, dei rom, delle persone con disabilità, degli omo-
sessuali e così via – il tabù della schiavitù è andato via via imponendosi
quale limite ultimo alla libertà (giuridica) individuale. Inoltre, il divieto as-

9
M. Barberis, Libertà, cit., p. 22. Sull’intreccio tra patrimonio, schiavitù e gestione patriarcale
dell’ambito familiare e domestico è interessante il rinvio agli istituti del diritto romano della mancipatio
e della emancipatio: cfr. A. Manfredini, Istituzioni di diritto romano, Giappichelli, Torino 2001, p. 42 e
ss.
10
Cfr. D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 19 e
ss. Cfr. anche quanto sostenuto a tal proposito da Carole Pateman nel suo The Sexual Contract, Stanford
University Press, Stanford 1998.
11
Anche in questo caso, la letteratura italiana e internazionale è molto ampia. A titolo esemplificativo,
si veda, per una ricognizione in merito, M. Fioravanti, Il lato oscuro del moderno. Diritti dell’uomo,
schiavitù ed emancipazione tra storia e storiografia, “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giu-
ridico moderno”, 42, 2013, pp. 9-41; cfr. inoltre Th. Casadei e S. Mattarelli, Il senso della Repubblica.
Schiavitù, Franco Angeli, Milano 2009.

13
soluto di riduzione in schiavitù si è tradotto notoriamente anche in una ne-
gazione della possibilità di autoridursi in schiavitù: tanto che, relativamente
alla possibilità di scegliere di divenire schiavi, nonostante la corrente radi-
cale liberale antipaternalista riproponga ciclicamente tale questione12, in
nessun paese si è giunti ad una rimessa in discussione di un simile divieto.
Anzi, al contrario, negli ultimi decenni l’attenzione è stata giustamente po-
sta sulle «nuove schiavitù»13, determinate dalle trasformazioni per lo più
economiche che hanno investito vaste aree del mondo.
Di conseguenza, ponendo fine alla schiavitù, in generale si è ridimen-
sionata di molto anche l’ampiezza della posizione giuridica soggettiva del
«potere»14, intesa in quanto «dominio»15: essa può esercitarsi oggi fino a
quel limite invalicabile superato il quale si acquisirebbe la disponibilità
piena di un’altra persona16. Allo stesso modo, anche la condizione indivi-
duale della «soggezione»17 incontra oggi il medesimo limite, superato il
quale si tradurrebbe, appunto, in mera schiavitù.
Invece, la rivendicazione dei diritti delle donne, nonché l’emancipazione
delle stesse dalla condizione di asservimento – anche questa è storia nota –

12
Su paternalismo e antipaternalismo nel dibattito italiano, rinvio, per una ricognizione, a E. Diciotti,
Preferenze, autonomia e paternalismo, “Ragion Pratica”, 24, 2005, pp. 99-118 e a G. Maniaci, Proibi-
zionismo e antipaternalismo giuridico, “Ragion Pratica”, 2014/1, pp. 205-232.
13
Sulle ‘nuove schiavitù’ rinvio al testo fondamentale di K. Bales, I nuovi schiavi, Feltrinelli, Milano
2002. Cfr. per il dibattito italiano, in particolare, E. Santoro, La regolamentazione dell’immigrazione
come questione sociale: dalla cittadinanza inclusiva al neoschiavismo, in E. Santoro, a cura di, Diritto
come questione sociale, Giappichelli, Torino 2010; B. Casalini, Migrazioni femminili, controllo dei con-
fini e nuove schiavitù, “Ragion Pratica”, 35, 2010, pp. 455-468; Th. Casadei, La schiavitù dei contem-
poranei, “Ragion Pratica”, 2010/2, pp. 333-344.
14
Recuperando i ‘concetti giuridici’ di Wesley Hohfeld, potremmo infatti qualificare la posizione giu-
ridica del soggetto che rendeva schiavi come ‘potere’. Tanto più che lo stesso Hofheld precisa che per
‘potere’ occorre intendere la capacità di incidere nella sfera giuridica altrui, cioè di ‘disporre’ qualcosa
per altri: esattamente ciò che avveniva nel rapporto padrone-schiavo, essendo l’ultimo nella disponibili-
tà giuridica del primo. Cfr. W.N. Hohfeld, Concetti giuridici fondamentali (1923), Einaudi, Torino
1969, p. 17 e ss.
15
Il linguaggio giuridico e la teoria del diritto non sembrano ancora aver colto quanto suggerito in am-
bito filosofico-politico, e in tempi diversi, da Max Weber e da Hannah Arendt sulla distinzione tra pote-
re e dominio, con particolare riferimento alle condizioni soggettive. Cfr. M. Weber, Economia e società.
Dominio, Donzelli, Roma 2012, p. 18 e ss. e H. Arendt, Sulla violenza, Guanda, Parma 1996, p. 39 e ss.
16
Può essere utile ricordare, a titolo esemplificativo, la «definizione giuridica internazionale di schiavi-
tù» del 1926, ad opera della Società delle Nazioni, secondo la quale la schiavitù è «lo stato o la condi-
zione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi»; sul
punto si veda Th. Casadei, Bioetica, diritto, politica: corpo e forme della schiavitù, in Th. Casadei e S.
Mattarelli, a cura di, Il senso della Repubblica. Schiavitù, cit., pp. 67- 89, p. 74.
17
La qualificazione della condizione della persona ridotta in schiavitù rinvia alla situazione corrispon-
dente al potere, ovvero alla «soggezione», la quale meglio delle altre posizioni soggettive ‘sfavorevoli’
(«non pretesa» e «dovere») sembra dare espressione alla effettiva condizione dello schiavo. Sulla «sog-
gezione» cfr. ancora W.N. Hohfeld, Concetti giuridici fondamentali, cit., p. 17 e ss.

14
ha conosciuto uno sviluppo completamente diverso rispetto a quello che ha
condotto all’abolizione della schiavitù.
In primo luogo, è interessante sottolineare l’utilizzo diffuso in letteratu-
ra, sin dalle origini, del termine ‘asservimento’ con riferimento alla condi-
zione delle donne18. Il ricorso a questo termine, infatti, permetteva di indi-
care la soggezione di tutte le donne, senza distinzione tra coloro le quali si
trovavano formalmente in condizione di ‘schiavitù’ o di ‘libertà’, sottoli-
neando così il fatto che, indipendentemente dalle due situazioni, le donne
erano comunque ‘asservite’. Nei confronti delle donne formalmente libere,
dunque, il termine ‘libertà’ assumeva un significato profondamente diverso
da quello proprio del termine riferito al soggetto maschile. Di ‘donne libe-
re’, di fatto, non ne esistevano alla fine del Settecento: dunque, tutte erano
‘asservite’. Ragion per cui vi sarebbe stata in realtà nel passato una sovrap-
posizione per tutte le donne tra la condizione di schiava e quella di asservi-
ta, differenziabili, all’analisi dei fatti e del dato giuridico, solamente per al-
cune ‘sfumature’ (variabili nei tempi, nei modi e nei luoghi) e relative prin-
cipalmente ai metodi utilizzati per mantenere le donne non schiave in una
condizione di asservimento19.
Significativo a tal proposito è quanto sostenuto da John Stuart Mill, se-
condo il quale la principale peculiarità del dominio sulle donne, rispetto a
quello sugli schiavi (e dunque delle donne schiave), concerneva la ‘volonta-
rietà’ dell’asservimento20. Secondo Mill, infatti, il dominio maschile non si
fondava esclusivamente sulla forza, ma sull’accettazione volontaria: «gli
uomini non vogliono solamente l’obbedienza delle donne; vogliono anche i
loro sentimenti. Tutti gli uomini, eccetto i più brutali, desiderano avere, nel-

18
I concetti di ‘servitù’ e ‘schiavitù’ sono del resto ‘semanticamente contigui’: «la traducibilità dei
termini di servitù e schiavitù è largamente attestata, sia sotto il profilo giuridico, dove i confini fra le
due fattispecie sono stati spesso labili, sia nella tradizione del pensiero politico […]. Più rilevante è la
contiguità semantica di servitù e schiavitù quando i termini sono usati in chiave analitico-descrittiva. In
questo caso “servitù”, non appena si vada al di là dell’accezione stretta in cui si designa l’istituto feuda-
le del servaggio, sta in genere per una particolare condizione di dipendenza: particolare in quanto asso-
luta, e assoluta in quanto tale da intaccare a livelli profondi l’autonomia di una persona o di una colletti-
vità. È a questo livello che servitù (servitude) e schiavitù (esclavage) possono valere come sinonimi»,
cfr. G. Paoletti, Servi volontari o schiavi contenti? Il problema della servitù volontaria da la Boétie a
Berlin, “Ragion pratica”, 35, dicembre 2010, pp. 393-408, in part. pp. 395-398.
19
Se, infatti, la ‘proprietà di sé’ può essere ritenuta un criterio utile al fine di distinguere tra la servitù e
la schiavitù (in quanto generalmente presente nella prima e sempre assente nella seconda), a ben vedere
tale criterio distintivo sembra non funzionare proprio in riferimento alla condizione delle donne nel
momento in cui, abolita la schiavitù, e dunque (tutte) divenute proprietarie di loro stesse, le donne sono
rimaste comunque nella disponibilità di chi continuava a possederle (termine del resto utilizzato anche
con un significato sessuale che mirava propriamente ad affermare il possesso del corpo femminile) in
quanto soggetto maschile (di volta in volta: padre, fratello, marito, figlio e così via).
20
J.S. Mill, L’asservimento delle donne (1869), in J.S. Mill, H. Taylor, Sull’eguaglianza e l’emanci-
pazione femminile, Einaudi, Torino 2001, pp. 69-205, p. 87.

15
la donna che è loro legata più da vicino, non una schiava forzata, ma una
schiava consenziente; non una semplice schiava, ma una favorita»21.
In secondo luogo, le rivendicazioni dei diritti delle donne non hanno ot-
tenuto alcun risultato per più di un secolo: molto tempo dopo l’abolizione
della schiavitù, infatti, c’è stato il primo riconoscimento di un diritto fon-
damentale, il diritto di voto, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del No-
vecento22. E solo dalla metà del Novecento l’accesso delle donne ai diritti
ha conosciuto uno sviluppo vero e proprio, grazie a tutte le riforme giuridi-
che che nei diversi paesi, in tempi differenti, sono state promosse e quindi
adottate23.
Questa diversa ‘tabella di marcia’ delle rivendicazioni ha fatto sì, di
conseguenza, che liberati tutti e tutte dalla schiavitù, in realtà ‘tutte’ rima-
nessero ancora a lungo ‘asservite/schiave’, in quanto tutte ‘originariamente’
private di libertà e di diritti fondamentali.
Potremmo allora giungere a sostenere che l’abolizione della schiavitù
non ha riguardato affatto tutte le persone, ma solamente tutti gli esseri
umani di sesso maschile, mentre le donne sono state mantenute per molto
tempo in una condizione giuridica non qualificata apertamente come schia-
vitù, ma, di fatto, rientrante nella casistica della schiavitù: non solamente in
ragione dell’assenza totale di libertà e dunque di diritti, ma soprattutto alla
luce della «soggezione» che ha caratterizzato a lungo la loro condizione
giuridica, con la conseguente specificità tipica dell’asservimento del corpo

21
J.S. Mill, L’asservimento delle donne, cit., pp. 89-90. Mill continua affermando che: «I padroni di
tutti gli schiavi si affidano, per mantenere l’obbedienza, alla paura; la paura che loro stessi incutono,
oppure una paura di tipo religioso. I padroni delle donne vogliono più della semplice obbedienza e im-
piegano tutta la forza dell’educazione per perseguire il loro scopo. Tutte le donne vengono educate fin
dai primissimi anni a credere che il loro carattere ideale sia opposto a quello degli uomini; non volontà
autonoma o governo di sé attraverso l’autocontrollo, ma sottomissione e arrendevolezza al controllo
degli altri» (ivi, p. 90). Si veda quanto scrive Antonella Besussi a proposito della peculiarità del «domi-
nio patriarcale», il quale consiste nel «sentimentalizzare l’obbedienza delle donne, confondendo effica-
cemente l’aspetto coercitivo e l’aspetto consensuale della loro subordinazione, allo scopo di configurare
quella che si può chiamare una ‘schiavitù volontaria’», cfr. A. Besussi, La libertà di andarsene. Auto-
nomia delle donne e patriarcato, “Ragion pratica”, 23, dicembre 2004, p. 436.
22
Come è noto, il diritto di voto è stato concesso alle donne in tempi diversi: se le prime donne am-
messe al voto hanno potuto esercitare il loro diritto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento
(come rispettivamente in Nuova Zelanda e in Inghilterra e Danimarca) in altri casi il suffragio femmini-
le è stato introdotto dopo la seconda guerra mondiale (ad esempio in Italia) o addirittura negli anni set-
tanta (come in Svizzera); in alcuni Stati ancora oggi le donne non votano o votano limitatamente al li-
vello amministrativo (basti ricordare il caso dell’Arabia Saudita).
23
Infatti, solamente nel corso della seconda metà del Novecento in molti Stati viene avviata un’im-
ponente opera di riforma dei sistemi giuridici per dare attuazione al principio dell’eguaglianza tra i ses-
si: sul punto rinvio ancora a A. Facchi, Breve storia dei diritti umani. Dai diritti dell’uomo ai diritti
delle donne, cit., p. 133 e ss.

16
delle donne consistente nell’essere «nella disponibilità di» soggetti di sesso
maschile24.
L’obiezione immediata a questa breve ricostruzione potrebbe riguardare
il fatto che, in verità, non solamente le donne, abolita la schiavitù, rimasero
a lungo in una condizione di soggezione giuridica e politica: gli afroameri-
cani, gli ebrei, gli omosessuali, le persone con disabilità sono solo alcune
delle classi di soggetti che continuarono a vivere in una condizione di limi-
tazione dei diritti. Tuttavia è facile notare il fatto che le donne, rispetto a
queste altre categorie di persone, o meglio trasversalmente a queste catego-
rie, abolita la schiavitù, rimasero per molto tempo in una condizione non di
limitazione, ma di totale assenza di libertà e diritti fondamentali. Quindi,
nonostante la permanenza di alcune – drammatiche e rilevantissime – prati-
che segregazioniste e discriminatorie, l’abolizione della schiavitù sembra
aver riguardato originariamente e in via esclusiva tutti gli uomini, senza in-
cludere le donne.
E questo difetto originario dell’abolizione della schiavitù sembra costi-
tuire, ancora oggi, una sorta di ‘peccato originale’ degli attuali assetti etici,
politici e giuridici, nel momento in cui essi si scoprono incapaci di ricono-
scere appieno la libertà delle donne, e dunque di attribuire loro piena sog-
gettività giuridica e politica, nonché di eliminare qualsivoglia discrimina-
zione che reiteri, ora come allora, la ‘soggezione’ delle donne e dei loro
corpi al potere (maschile) altrui.

La (lentissima) emancipazione: retoriche neo-liberali e prati-


che (sessuate) schiavistiche

L’uscita dalla condizione di schiavitù, dunque, è stata per le donne lenta


e progressiva, non solamente sul piano fattuale, ma sul piano prettamente
filosofico-politico e teorico-giuridico, poiché lentamente e progressivamen-
te la soggettività giuridica e politica delle donne ha preso forma e consi-
stenza.
Per questa ragione numerose domande si possono porre inevitabilmente
ancora oggi: quando allora le donne si sono liberate dalla schiavitù? O,
meglio: le donne si sono davvero emancipate dalla schiavitù? O, piuttosto,
le donne sono libere?

24
Si veda ad esempio quanto evidenziato da Maria Virgilio nel saggio dedicato all’analisi della figura
femminile nel Codice Rocco, il codice penale italiano: la donna era/è rappresentata come ‘oggetto’ nella
disponibilità del marito e come persona soggetta all’altrui autorità, cfr. M. Virgilio, La donna nel Codi-
ce Rocco, in T. Pitch, a cura di, Diritto e rovescio. Studi sulle donne e il controllo sociale, ESI, Napoli
1987, pp. 39-75, in particolare p. 45.

17
Riecheggia in simili interrogativi la domanda posta da Catharine Mac-
kinnon («le donne sono umane?»25) e l’assonanza sembra tutt’altro che ir-
ragionevole, dato che la schiavitù stessa ha rinvenuto eticamente e politi-
camente legittimazione proprio nell’affermazione dell’esistenza di diverse
gerarchie dell’umano26. Allora, nel contesto attuale, la questione più rile-
vante sembra riguardare l’analisi dello statuto odierno della libertà delle
donne a fronte della conquistata titolarità dei diritti fondamentali, al fine di
comprendere le ragioni della permanenza, latente o palese, di pratiche e
ambiti (politici e giuridici in primo luogo) che mantengono o ribadiscono il
potere di disposizione maschile sulle donne e sui loro corpi.
Vi sono, infatti, norme, prassi e istituzioni che ancora oggi sono manife-
stazione di quel potere originario di disposizione? Esistono regole, istituti
giuridici e pratiche che ancora derivano dall’antica condizione di asservi-
mento?
Simili domande risultano ancor più significative se si ricorda che l’abo-
lizione della schiavitù ha determinato l’illegittimità delle pratiche schiaviste
e l’imporsi di una costante attenzione nei confronti della riemersione di
forme e modalità para-schiavistiche o neo-schiavistiche. Emblematici sono
a tal riguardo i temi della tratta e del traffico di persone, che, in letteratura e
dal punto di vista giuridico (legislativo e giurisprudenziale), non faticano ad
essere avvicinati al problema della schiavitù e delle sue continue e possibili
nuove manifestazioni27.
Tuttavia, ciò non è parimenti avvenuto nei confronti delle donne. Le
pratiche schiavistiche tipicamente pensate per le donne – pratiche di matri-
ce sessista, dunque pratiche sessiste – sopravvissero a lungo all’abolizione
della schiavitù: dalle case chiuse ai matrimoni forzati, ai delitti d’onore, al
controllo della sessualità e così via. Solo in tempi molto più recenti, a parti-
re dalla seconda metà del Novecento in particolare, e sicuramente dopo la
conquista dei diritti fondamentali, simili pratiche sessuate al maschile sono
state progressivamente eliminate, grazie, inevitabilmente, al cambiamento
culturale che la presenza delle donne sulla scena pubblica ha portato con sé.

25
Cfr. la raccolta di saggi di Catharine A. MacKinnon, a cura di A. Besussi e di A. Facchi, C. MacKin-
non, Le donne sono umane?, Laterza, Roma-Bari 2012.
26
«È possibile affermare, allora, che la schiavitù possa essere individuata in ogni caso in cui si cerca di
convertire la teoria del dominio in un’“ontologia della dipendenza”; gli esseri umani vengono gerar-
chizzati mediante uno schema rigidamente binario: sono forti e deboli, liberi o servi, puri o impuri, per
natura oppure in seguito a procedimenti di naturalizzazione», cfr. Th. Casadei, Il rovescio dei diritti
umani, cit., p. 80. Cfr. anche P.G. Solinas, a cura di, La dipendenza. Antropologia delle relazioni di
dominio, Argo, Lecce 2005.
27
La letteratura sul tema è molto ampia, cfr. a titolo esemplificativo S. Forlati, a cura di, La lotta alla
tratta di esseri umani fra dimensione internazionale e ordinamento interno, Jovene, Napoli 2013.

18
L’abolizione di molte norme sessiste e l’introduzione del divieto di al-
cune pratiche sessiste sono state ottenute dunque molto lentamente: del re-
sto la condanna della violenza contro le donne, che corrisponde all’ori-
ginario potere di disposizione totale del corpo – della vita, dell’integrità e
della morte – delle donne stesse, è divenuta oggetto di una convenzione in-
ternazionale solamente nel 201128.
Questa innegabile lentezza e gli improvvisi arretramenti che i diritti del-
le donne continuano a conoscere e ad affrontare possono dunque essere in-
tesi non quali accidenti, o contraccolpi, temporanei, bensì quali evidenti se-
gnali della precarietà e della parzialità che gravano ancora oggi sulla libertà
delle donne. Tali ritardi e difficoltà sembrano insomma rappresentare
l’esito o lo strascico inevitabili di quello status originario di asservimento,
oggi mal identificato, se non misconosciuto.
Ora, riposizionando al centro della riflessione giuridica e politica il tema
della libertà delle donne, quale status (e non solamente in quanto elenco di
diritti), potremmo percepire con più chiarezza come il percorso di emanci-
pazione delle donne (dalla servitù, dalla soggezione, dall’oppressione) non
sia ancora concluso. Da tale diversa prospettiva potremmo riflettere in mo-
do rinnovato attorno alle molte pratiche schiavistiche sessuate che soprav-
vivono e che mantengono le donne in una latente, appunto misconosciuta
ma costante, condizione di asservimento/schiavitù.
Potremmo inoltre riconoscere il doppio inganno che attualmente regge il
persistere di simili pratiche.
Il primo inganno riguarda il fatto che non tutte le donne si trovano oggi
in una condizione di asservimento, ma solamente quelle che vivono in una
condizione di soggezione a causa delle pratiche sessiste, talvolta giuridica-
mente sancite o tollerate, che ancora subiscono. Infatti, grazie al percorso
(comunque parziale) di emancipazione condotto finora, grazie alle riforme
del diritto e al riconoscimento dei diritti, e all’ingresso nel mondo della po-
litica e del lavoro, l’oppressione è vissuta dalle donne in modo profonda-
mento differenziato. La diversificazione delle esperienze esistenziali, che
attualmente sono molto meno «seriali» rispetto a un tempo29, trae ovvia-
mente la sua origine da dinamiche complesse che hanno a che fare con le
variabili culturali, religiose, economiche, ideologiche – solo per nominarne
alcune – che caratterizzano i diversi contesti sociali. Questa distinzione tra
le condizioni vissute dalle donne risulta efficacissima sul piano retorico e

28
Cfr. P. Parolari, La violenza contro le donne come questione (trans)culturale. Osservazioni sulla
Convenzione di Istanbul, “Diritto e Questioni pubbliche”, 14, 2014, pp. 859-890.
29
Sulla serialità eterodesignata della vita delle donne si veda, tra gli altri, D. Morondo Taramundi,
Emancipazione e libertà femminile nel tempo del post-femminismo, in O. Giolo e L. Re, a cura di, La
soggettività politica delle donne. Proposte per un lessico critico, Aracne, Roma 2014.

19
politico30, poiché impedisce a molte di riconoscersi come soggetti non pie-
namente emancipati e veicola l’impressione che, in realtà, le donne sia
oramai tutte libere e emancipate.
Il secondo inganno invece concerne l’utilizzabilità dell’argomento tipi-
camente liberale della ‘scelta’, divenuto, come già evidenziato, totalmente
inutile in tema di schiavitù − dato che nessuno oggi può scegliere di ridurre
se stesso in una simile condizione − ma ancora potentissimo in tema di pra-
tiche sessiste, tanto da reggere un nuovo approccio in tema di diritti delle
donne, il cosiddetto choice feminism31. Come è noto, secondo questa cor-
rente dovrebbe essere concessa libertà di scelta ad ogni donna nel decidere
cosa sia lecito o meno per sé e per il proprio corpo, senza ingerenze di ma-
trice paternalistica da parte del diritto e della politica32. In quest’ottica,
dunque, più scegliamo liberamente, più saremmo libere; e possiamo sce-
gliere di tutto, anche di subire o esercitare pratiche di (originaria) matrice
schiavistica.
Invece, a mio avviso, il ricorso all’argomento della scelta esplicita in
modo inequivocabile l’esistenza di quella ‘separazione’ avvenuta origina-
riamente tra le due rivendicazioni della libertà, degli schiavi e delle donne.
Se infatti nel caso della schiavitù esso è divenuto del tutto inservibile e non
arriva a giustificare l’autoriduzione in schiavitù, nel caso delle donne esso
continua a permettere di rilegittimare, ciclicamente, le pratiche schiavisti-
che di matrice sessuata, vanificando le pretese di emancipazione.
Così, per un verso, finiscono per non essere percepite più come schia-
vizzanti pratiche un tempo imposte sistematicamente a tutte le donne ai fini
del loro asservimento (come ad esempio il controllo della sessualità e della
riproduzione, la servitù domestica e così via) solamente perché ora riguar-
dano alcune donne (ma ancora molte per la verità33). Per altro verso, la re-

30
Sul punto mi permetto di rinviare a O. Giolo, Il giusfemminismo e il dilemma del confronto tra le
culture, in Th. Casadei, a cura di, Donne, diritto, diritti. Prospettive del giusfemminismo, Giappichelli,
Torino, 2015.
31
Per una ricognizione del dibattito sul tema si veda in particolare B. Casalini, Rappresentazioni della
femminilità, post femminismo e sessismo, “Iride”, 62, 2011, pp. 43-60.
32
Per una lettura critica del cosiddetto choice feminism si vedano i saggi contenuti nel numero 8, 1
(2010), di “Perspectives on Politics”: J. Kirkpatrick, Introduction: selling out? Solidarity and choice in
the American Feminist Movement, Symposiusm: women’s choices and the future of feminism, pp. 241-
245; L.J. Marso, Feminism’s quest for common sesires, pp. 263-269; M. Ferguson, Choice feminism and
the fear of politics, pp. 247-253, C. Snyder-Hall, Third-wave feminism and the defense of ‘Choice’, pp.
255-261; N. Hirshmann, Choosing betrayal, pp. 271-278.
33
Per una panoramica sulla condizione delle donne a livello globale è interessante consultare il report
annuale redatto da UN-Women, in www2.unwomen.org//media/annual%20report/attachments/sec-
tions/library/un-women-annual-report-2015-2016-en.pdf?v=1&d=20160629T203016; cfr. anche il Glo-
bal gender gap report, annualmente compilato dal World Economic Forum, in report-
s.weforum.org/global-gender-gap-report-2016/the-global-gender-gap-report-2016/.

20
torica della libera scelta sembra paradossalmente palesare l’insostenibilità
giuridica di simili pratiche proprio alla luce dei principi di libertà ed egua-
glianza: esse finiscono quindi per essere ritenute legittime solamente nel
momento in cui vengono demandate all’ambito ‘privato’ delle scelte indi-
viduali34, legate alle concezioni del benessere e del piacere, e non della giu-
stizia35.
Da qui discende del resto la quotidiana qualificazione di molte pratiche
sessiste come «questioni morali»36, e non per quello che realmente sono:
questioni di libertà e di potere, pertanto legate non ad una concezione del
bene o dell’etica, ma piuttosto a originarie distribuzioni del potere di di-
sporre del corpo altrui, in ragione di una ‘originaria’ condizione di sogge-
zione imposta alle donne. Mai elaborata fino in fondo. E dunque non anco-
ra superata del tutto.

34
Come è noto, l’argomento della libera scelta individuale ritorna tipicamente in tema di prostituzione
e di maternità surrogata. Cfr. sul punto, a titolo esemplificativo, D. Danna, I paradossi della prostitu-
zione, “Polis”, 2001/1, pp. 5-11; e, di recente, S. Pozzolo, Nuove tecnologie riproduttive: fra liberazione
e nuove forme di patriarcato, “Diritto e questioni pubbliche”, 2016, pp. 53-65, in particolare p. 58 e ss.
35
L. Gianformaggio, Soggettività politica delle donne: strategie contro, in L. Gianformaggio, Filosofia
e critica del diritto, Giappichelli, Torino 1995, p. 171.
36
Cfr. C. MacKinnon, Le donne sono umane?, cit., p. 43 e ss.

21
Aysha Abdurrahman
L’esegesi coranica al femminile in epoca moderna*

Marisa Iannucci

ABSTRACT: The interpretation in a gender perspective of the Shari’a texts is a central issue
for feminine and feminist theology in Islam. The roots of a ‘feminist ijtihad’ are in the first
women’s rights movements that developed in the Arab countries at the end of the nineteenth
century. They were closely related to the arabic nationalism and Colonial and post colonial
dynamics. Aisha Abdurrahman (Bint Shati, 1913-1998) was a forerunner of Arab and
Muslim feminism. His literary tafsir’s work laid the foundation for a historical interpretation
of the Koran. Her modern literary approach did not break with classical exegesis, but its
new perspective had a great influence on the feminist exegesis of the twentieth century. The
article highlights the life and study path of Bint Shati and the characteristics of his method,
considering the important influences on the contemporary feminist ijthad.
KEYWORDS: Islamic feminism, Aysha Abderrahman, Gender Jihad

Una lettura femminista del Corano e della Sunna


È possibile una lettura femminista del Corano e della Sunna, una teolo-
gia femminile e femminista che risponda alle tante problematiche che ri-
guardano la condizione femminile nei paesi di cultura musulmana? La que-
stione è centrale per il femminismo musulmano attuale, ma è questo un di-
battito che ha luogo da almeno due secoli, ovvero da quando nel mondo
arabo sconvolto dall’incontro – e dallo scontro – con l’Europa, si è aperta la
questione più ampia della modernità1, in cui la condizione femminile ren-
deva più evidente la distanza con l’Occidente e la supposta arretratezza de-
gli arabi. I primi movimenti per i diritti delle donne dichiaratamente fem-
ministi si sono sviluppati nei paesi arabi alla fine dell’Ottocento, in un per-
corso strettamente connesso allo sviluppo del nazionalismo e alle dinami-
che coloniali e post coloniali. A partire dal Vicino Oriente e poi nel Magh-
reb, le donne – cristiane e musulmane – hanno infranto secoli di invisibilità
sociale, talora di vera e propria segregazione, attraverso la partecipazione

*
Data di presentazione: 30 settembre 2016; data di accettazione: 29 ottobre 2016. Indirizzo email:
marisa.iannucci@libero.it.
1
O meglio di ciò che allora si intendeva con questo termine, attualmente superato.

La società degli individui, n. 58, anno XX, 2017/1 ISSN 1590-7031, ISSNe 1972-5752
alle lotte di liberazione. Negli anni quaranta del XX secolo nacquero le pri-
me organizzazioni femminili, impegnate soprattutto nella lotta all’analfa-
betismo e per il diritto all’istruzione delle donne. L’istruzione era il primo
obiettivo per emancipazione femminile, e già dal 1888 in Egitto era stata
fondata la Società per l’istruzione delle donne, con l’obiettivo di sensibiliz-
zare l’opinione pubblica su questo tema.
Il rinnovamento culturale della Nahda cercava una soluzione per la mo-
dernizzazione delle società arabe e islamiche. Il riformismo coinvolse tutto
il pensiero islamico, politico e teologico, interrogandosi prima di tutto sul
rapporto con il Thurath − il patrimonio culturale islamico − e con la Sha-
ri’a (Corano e Sunna) e le sue interpretazioni alla luce della nuova epoca
che si era aperta davanti agli arabi. Se l’attuale movimento femminista mu-
sulmano denominato Gender Jihad2 è un fenomeno piuttosto recente che
riguarda gli ultimi tre decenni, diverse correnti femministe già nel secolo
scorso hanno agito nel mondo arabo. Come accadde − e ancora oggi − in
Occidente, c’è stata una pluralità di percorsi che ha caratterizzato il pensie-
ro femminista arabo fin dalle origini, e nonostante sia stato spesso conside-
rato come una propaggine del movimento occidentale, ciò non è esatto.
Seppure le influenze e gli stimoli europei sono stati importanti e profondi, e
decisiva l’esperienza del colonialismo, è noto che la battaglia per l’egua-
glianza tra i generi ha radici antiche e profonde nella regione MENA e ha
sviluppato caratteristiche autoctone. È possibile distinguere almeno tre ca-
tegorie generali. Un femminismo laico − filo occidentale e talora anche
spiccatamente antireligioso − da Huda Sharaawi a Nawal as-Sadawi; una
scuola con caratteristiche autoctone che ingloba tematiche religiose, antici-
pata da Fatima Mernissi (1940-2015), che pur non definendosi femminista
ha trattato con qualche decennio di anticipo tutti i temi sviluppati in segui-
to. Infine movimenti musulmani, anch’essi differenziati, a carattere islami-
sta (Zaynab al-Ghazali, famosa attivista egiziana e anch’ella autrice di un
tafsir, ovvero un commentario del Corano) e di tipo liberale e progressive,
dei nostri giorni e riconducibile all’americana Amina Wadud, alle Sisters in
Islam in Malesia e ai vari gruppi attivi nei paesi a maggioranza musulmana
e nei luoghi della diaspora in Occidente. In realtà gli intrecci tra queste cor-
renti sono frequenti.
Tutte queste figure di studiose e attiviste hanno affrontato prima dei
gruppi femministi organizzati questioni chiave che sono ancora alla base
dell’attuale gender jihad, una realtà importante seppure ancora elitaria, che
2
In proposito sia consentito rinviare a M. Iannucci, Gender Jihad. Storia, testi e interpretazioni dei
femminismi musulmani, Il Ponte vecchio, Cesena, 2013. Cfr., inoltre, M. Badran, M. Cooke, Opening
the gates. A century of feminist writing, Indiana University Press, Bloomington 1990; M. Badran, Islam-
ic feminism: what’s in a Name?, “Al-Ahram”, Gennaio 2002.

23
rispecchia il mondo musulmano odierno, transnazionale, diasporico e plura-
le.
Si può dire che il seme del femminismo sia stato gettato molto prima
durante gli anni di lotta indipendentista da personaggi chiave soprattutto in
Egitto: teoriche e attiviste con percorsi diversi tra loro, come Malak Hifni
Nasif, Huda Sha’arawi, Zaynab al Ghazali e ‘Aisha Abdurahman (sulla
quale ci soffermeremo in queste pagine). Queste donne hanno costruito il
femminismo musulmano che conosciamo oggi perché hanno riconosciuto il
problema della decurtazione dei diritti delle donne nel loro paese non nella
Shari’a (termine che indica le fonti dell’Islam e non la giurisprudenza) ma
nella sua interpretazione, data dal potere religioso maschile e nel patriarcato
che dominava la loro società. Le loro priorità allora – come oggi, in buona
parte del mondo – erano il diritto delle donne all’istruzione e alla partecipa-
zione alla vita pubblica, di cui la questione del velo (si tratta del velo inte-
grale) era un aspetto della drammatica questione del confinamento della
donna tra le mura domestiche. E ancora la poligamia e il divorzio, ovvero le
discriminazioni nel diritto di famiglia, e la scarsità di mezzi economici del-
le donne.
A ben vedere la vita pubblica sembra essere stata la meta più facile. Ot-
tenuta infatti − fin da allora − la partecipazione in molti campi, della politi-
ca, della cultura, delle professioni, attualmente vi sono ancora questioni
aperte. Innanzitutto l’equità nei rapporti di genere nella famiglia e nelle
comunità, insomma nella sfera privata e delle relazioni sociali, dove un no-
do sono le norme giuridiche che regolano lo statuto personale, spesso di-
scriminatorie in virtù di tradizioni culturali sessiste rafforzate dall’in-
fluenza della Shari’a interpretata in modo patriarcale3. Una questione inve-
ce non altrettanto urgente ma simbolicamente importante è quella dell’ima-
mato femminile (il ruolo di guida nella preghiera collettiva) realizzabile se-
condo la Shari’a ma verso il quale le comunità non sono ancora cultural-
mente preparate. A riguardo sono in corso esperienze isolate ma significati-
ve in alcune moschee dell’Europa e degli Stati Uniti e alcune di lungo pe-
riodo tra le comunità asiatiche soprattutto in Cina.

Bint Shati

Aisha Abdurrahman (nota come Bint Shati, 1913-1998) è stata un’anti-


cipatrice del femminismo arabo e musulmano, sia come teorica sia come
attivista. Studiosa di letteratura araba e delle scienze islamiche, fu la prima

3
Un esempio a questo proposito è la riforma del 2004 del Codice di Famiglia marocchino (Mudaw-
wana).

24
donna a tenere una conferenza nella prestigiosa università del Cairo Al
Azh’ar ed ebbe prestigiosi riconoscimenti nei paesi arabi aprendo la strada
alla presenza femminile in importanti istituzioni accademiche. Ha condotto
campagne importanti per il diritto all’istruzione femminile, l’eguaglianza
tra i sessi, e l’approccio scientifico al Corano. Ha lasciato un’enorme quan-
tità di opere, di cui circa quaranta libri sulla storia e il pensiero islamico,
ma anche saggi di critica letteraria, una dozzina di romanzi, antologie di
racconti e centinaia di articoli sulle colonne dei più importanti quotidiani
che rivelano un’ottica di genere innovativa4. La storia della sua vita è
esemplare per capire il percorso di una donna dell’epoca che voleva farsi
spazio in settori tradizionalmente maschili, come la cultura e le scienze re-
ligiose5.
Nacque a Damietta, nel delta del Nilo, da una famiglia di religiosi, do-
centi di Al Azhar di cui il nonno fu rettore. Mentre ad Alessandria e al Cai-
ro dopo la prima guerra mondiale nasceva il movimento femminista laico,
con la fondazione nel 1923 dell’UFE (Unione Femminista Egiziana) di Hu-
da Al Shaarawi, Aisha è cresciuta in un ambiente conservatore, lontano dai
fermenti cittadini, che le dava però una solida istruzione religiosa. Già in
tenera età era hafida − conosceva tutto il Corano a memoria − e dopo avere
frequentato la scuola coranica ricevette a casa l’istruzione primaria e secon-
daria. Suo padre, ha raccontato, apparteneva a una generazione che «…Non
amava le donne, ed era contrario a fare uscire le ragazze di casa per fre-
quentare la scuola». Tuttavia Aysha intraprese uno sciopero della fame per
opporsi alla decisione di suo padre. Con l’aiuto del nonno materno, lo
Sheikh Ibrahim Ad-Damhuji, anch’egli studioso Azharita, e della madre
riuscì infine a ottenerne il consenso e iniziò il suo percorso di studi a domi-
cilio. Acquisì i primi diplomi per corrispondenza, tra i quali, nel 1929, la
prima qualifica di insegnante assegnata ad una donna dall’Università di Al-
Azhar, che avrebbe permesso alle donne di entrare nel suo campus solo 35
anni dopo. All’età di 21 anni iniziò a frequentare l’Università Re Fuad (poi
Università del Cairo), dove studiò storia islamica e letteratura araba, e dove
ottenne un master nel 1941 e nel 1951 il dottorato in scienze e letteratura
islamiche. Lo studio della lingua araba classica durato più di un ventennio,
fu incoraggiato dal suo professore – che in seguito divenne suo marito − il
4
Si vedano, in particolare, A. Abdurrahman (Bint Shati), Al-i’jaz al-Bayani Li’l-qur’an wa masa’il
Nafi ‘ibn al-Azraq, Dar al ma’arifa, Cairo 1971; Al-Tafsir al-Bayani li al-Qur’an al-Karim, Dar al
Ma’aarif, Cairo 1997.
5
Si vedano, in proposito, S. Sahiron, An examination of Bint ash-Shati’s method of interpreting the
Qur’an, Indonesian Academic Society, 1999; R. Roded, Bint al-Shati’s wives of the prophet: feminist or
feminine?, “British Journal of Middle Eastern Studies”, 33, 2006/1, pp. 51-66; M.F. Hatem, Aysha Ab-
durrahman: un unlikely heroin. A post colonial reading of her life and some of her biography of women
in the prophetic household, “Journal of Middle East Women’s Studies”, 7, 2011

25
filosofo Amin Al Khuli, e costituì la base della sua attività esegetica. Do-
cente di Scienze Coraniche e Lingua e letteratura araba nelle università di
molti paesi arabi (in Marocco, Egitto, Sudan, Libano, Algeria, negli Emirati
Arabi e Arabia saudita), dove aprì la strada ad altre accademiche, ha dato
un importante contributo per la metodologia dell’interpretazione del testo
Coranico che avrebbe avuto grandi sviluppi in seguito. In Marocco, dove ha
insegnato all’università per un ventennio, ha contribuito alla formazione di
generazioni di studiosi e pensatori provenienti da tutto il mondo arabo. Non
fu facile per Aysha affrontare la società egiziana, che rifiutava la presenza e
la parola pubblica delle donne. Il suo primo articolo, pubblicato su un gior-
nale locale nel 1935, affrontava il disagio sociale dei contadini egiziani, e
mise in difficoltà la sua famiglia. Ma suo nonno la sostenne ancora e la in-
coraggiò a pubblicare due altri articoli sulla rivista “Al-Nahda al-Ni-
sa’iyyah” (Il Rinascimento delle donne) sotto lo pseudonimo di Bint Shati
(la figlia della spiaggia) in onore della sua città natale sul delta del Damiet-
ta, dove il ramo orientale del Nilo si apre al Mediterraneo. Usò questo
pseudonimo per il resto della sua vita, inizialmente per proteggere la sua
famiglia dalle critiche che la sua attività pubblica e i suoi scritti generavano
nella società del tempo. Mentre studiava all’università, ebbe la direzione di
“Al-Nahda al-Nisa’iyyah” e nel 1937 iniziò a scrivere per il più antico e
tuttora molto noto quotidiano arabo del Medio Oriente, “Al-Ahram”. A
ventiquattro anni, neolaureata, entrò stabilmente a far parte della sua famo-
sa redazione in cui era l’unica donna, assunta dall’editore Antoine al-
Gamil. In pochi anni diventò una delle firme più note e amate del quotidia-
no, e la sua penna fu una delle poche a resistere alla censura di Nasser.
Quando il governo del generale nazionalizzò la stampa, vietando a chiun-
que di avere più di un incarico, scelse il posto che aveva occupato dal 1962
come professore di studi arabi e islamici alla Ain Shams University del
Cairo. Grazie all’amicizia di N. Mohammed Haikal, il direttore di “Al-
Ahram”, riuscì a mantenere la sua firma di editorialista per il giornale, su
cui scrisse fino alla morte. ‘Aysha Abdurrahman ha sfidato con la sua inne-
gabile autorevolezza scientifica il mondo patriarcale in cui viveva, fece del-
la competenza la sua forza. In passato diversi uomini che avevano toccato
gli stessi temi erano stati accusati di blasfemia. Gli editori e gli autori te-
mevano la sua penna tagliente, che ha attaccato il nepotismo, la corruzione
del paese e si è scontrata pubblicamente con il pensiero sessista e reaziona-
rio del suo tempo.
Alle lotte femminili egiziane Bint Shati partecipò facendo un cammino
personale, non si unì ufficialmente a gruppi femministi e non partecipò mai
ai loro cortei. Eppure la sua scrittura e le conferenze a sostegno del-
l’uguaglianza tra i sessi hanno illuminato molte giovani attiviste egiziane,

26
sostenendole nel loro impegno6. Inizialmente c’era una concordanza con il
primo movimento di Huda Al Shaarawi, ma nel corso della sua vita maturò
posizioni più articolate, sottolineando una maggiore complessità che a suo
avviso la questione femminile poneva nella società araba. Nelle sue ultime
interviste si è espresse in maniera molto critica a proposito del femminismo
storico egiziano, accusandolo di «…Avere sprecato le sue energie in una
guerra contro l’altro sesso». Pur indossando il velo, non si adoperò per
convincere le donne a fare altrettanto, sostenendo sempre il diritto di libera
scelta dell’individuo. Affrontò con determinazione e coraggio temi proble-
matici per il suo tempo, come l’inferiorità naturale delle donne rispetto agli
uomini, sostenuta da una parte del clero musulmano in virtù dell’in-
terpretazione di un versetto coranico che ancora oggi è analizzato dalle
femministe musulmane7. I suoi studi teologici hanno supportato questi ar-
gomenti e aperto una strada alle studiose delle generazioni successive: le
sue biografie delle donne nella vita del Profeta scritte negli anni cinquanta e
sessanta ne sono un esempio. Ha condotto diverse campagne per la difesa
del diritto all’educazione femminile, affrontando la questione da un punto
di vista musulmano, e confrontandosi con diversi intellettuali e studiosi del
suo tempo, tutti uomini, in dibattiti anche aspri come quello con l’intel-
lettuale Mahmud Abbas Al-’Aqqad. Per confutare le accuse da lui rivolte-
gli, Abdurrahman scrisse diversi articoli, e dopo un’accesa discussione sul-
la stampa, che durò alcuni mesi coinvolgendo l’opinione pubblica, concluse
con questa frase: «Ogni uomo ha una madre», a marcare l’irragionevolezza
della misoginia e del rifiuto della figura femminile insito nella cultura pa-
triarcale araba del tempo. Bint Shati sentiva, anche in virtù della sua espe-
rienza personale, la responsabilità di affrontare la questione dell’istruzione
femminile e la riteneva la base per la formazione delle generazioni future
nella società musulmana. Di conseguenza, ha cercato attraverso i suoi scrit-
ti di tracciare il carattere della donna musulmana, e ha ribadito l’importanza
del ruolo delle donne nella società dal punto di vista islamico, religioso e
culturale. Come fece la sua contemporanea Soheir al-Qalamawy, che vide
in Sheherazade, l’eroina delle Mille e una notte, un modello per le donne
arabe perché vinse la lotta rieducando piuttosto che combattendo la virilità
violenta del maschio-re, Abdurrahman ha colto diversi tratti di donne dalle
opere classiche della letteratura islamica, su cui ha scritto diversi saggi cri-
tici. Lo studio delle opere classiche in profondità le ha dato la possibilità di
analizzare la condizione femminile contemporanea, e portare avanti il suo

6
M. Badran, The feminist vision in the writing of three turn of the century Egyptian women, “Bulletin
British Society for Middle Eastern Studies”, 1988.
7
Si tratta del versetto IV, 33.

27
messaggio femminista attraverso modelli di uguaglianza e di ruolo tratti
dalla storia islamica, oltre che dalla religione.
All’università del Cairo Bint Shati fece parte del gruppo di accademici
riformisti riuniti intorno ad Amin al-Khuli, che si concentrò sull’esegesi del
Corano (tafsir) in chiave letteraria. Il Tafsir del Novecento è stato caratte-
rizzato anche da questo tipo di approccio, non del tutto nuovo ma riscoperto
e sviluppato da Mohammed ‘Abduh, che curò la prima edizione critica del
Dala’il al I’jaz e del I’jaz al Qur’an, due opere del grammatico e retore
Abd al Qahir al-Jurjani. Secondo Mohammed ‘Abduh era necessario un
metodo scientifico per lo studio del Corano e ciò comportava innanzitutto
− trattandosi di un testo − conoscere profondamente la lingua e la letteratu-
ra araba prima di intraprendere qualsiasi attività esegetica. L’importanza
data all’aspetto letterario dell’esegesi fu il principale contributo di ‘Abduh
alla scuola letteraria che si sviluppò poi con Amin al-Khuli, Aysha Abdur-
rahman e altri tra cui Shukri Ayyad e Muhammad Ahmad Khalafallah. Tra
le molte opere di Aysha c’è anche un commentario del Corano che segue il
metodo sviluppato nella loro scuola, chiamato tafsir al-adabi (tafsir lettera-
rio) sviluppando concetti in parte introdotti da ‘Abduh, in parte già presenti
nella tradizione delle scienze coraniche e della grammatica araba. L’in-
fluenza di ‘Abduh in particolare si individua nell’attenzione all’impatto psi-
cologico del testo, che è stato elaborato con grande attenzione al contesto,
ma in modo diverso da ciò che prevede il metodo dell’asbab an-nuzul (la
scienza coranica che studia le cause, le circostanze in cui è ‘scesa’ la rive-
lazione). Si tratta infatti di analizzare non solo le circostanze concrete ma il
contesto storico e culturale dei primi destinatari della rivelazione, per com-
prendere cosa significassero quelle precise parole nel loro ambiente, al fine
di valutarne l’impatto. Questi studiosi erano convinti che le finalità (maqa-
sid) del testo potessero essere indagate solo con una comprensione profon-
da del suo stile e del significato, vale a dire il più vicino possibile al modo
in cui era stato compreso dai primi arabi. Per questo lo studio letterario do-
veva precedere ogni altra indagine del Corano, giuridica, sociale e politica.
Si tratta della distinzione tra testo (an-nass) e ciò che lo circonda (ma hawl
an-nass), indagando quest’ultimo aspetto. Ciò comporta, in primo luogo, lo
studio del mondo in cui il Corano fu rivelato, in particolare la cultura, la
storia politica e sociale degli antichi arabi fino al momento della rivelazio-
ne, e la formazione storica del Corano − soprattutto la cronologia dei ver-
setti e delle Sure − le circostanze della sua rivelazione e la storia della sua
compilazione e recensione, in cui vengono in aiuto le scienze coraniche
classiche. Le conoscenze denti dallo studio del contesto storico del Corano
forniscono le basi per la successiva indagine ermeneutica del testo (Nasr
Hamid Abu Zayd). Nell’introduzione alla terza edizione del suo commenta-

28
rio coranico la studiosa ha spiegato il suo metodo di interpretazione del Co-
rano, che procede indagando il significato di una parola o un’espressione
coranica dalla sua prima connotazione, che viene poi analizzata nel conte-
sto immediato del versetto e della Sura in esame e in quello più ampio di
tutto il Corano, esaminando tutte le occasioni in cui il termine ricorre nel
testo. I commentatori classici ci dice, nella loro opera riflettono la loro per-
sonalità e mentalità, ma anche le consuetudini, la visione del mondo del lo-
ro ambiente e ciascuno in una porzione di un mondo islamico vastissimo,
che si estende dalla Cina e l’India fino al Marocco e all’Andalusia, diversi-
ficato dal punto di vista politico etnico e culturale ma anche dottrinale. Il
metodo letterario consentirebbe a suo avviso una maggiore obiettività ri-
spetto a queste variabili. Nonostante ciò nel commentario di Aysha Abdur-
rahman il riferimento all’esegesi classica è costante e lei stessa scrive che
l’esercizio di esegesi moderna del Corano continua a beneficiare dei com-
mentari del passato. Comunque questo riconoscimento non le ha impedito
di compiere un’analisi critica, che spesso rivela l’inadeguatezza di quegli
sforzi al fine di una comprensione contemporanea del testo sacro. Al con-
trario, la lettura viene rinvigorita dal ‘dialogo’ con la tradizione del tafsir,
per cui si ripercorrono le interpretazioni classiche accettando ciò che è te-
stualmente e contestualmente sostenibile, richiamando l’attenzione sulla
incoerenza o arbitrarietà di ciò che pare essere respinto dal testo. La pro-
fonda conoscenza delle scienze islamiche tradizionali e dell’esegesi fu mol-
to importante anche per il riconoscimento degli studiosi contemporanei,
elemento non trascurabile dal momento che era una delle prime donne ara-
be nel mondo accademico delle scienze islamiche, e anche in questo fu una
figura di avanguardia.

Dal tafsir letterario all’ijtihad (interpretazione) femminista

Anche se l’approccio letterario moderno non ruppe con l’esegesi classi-


ca, la sua nuova prospettiva ha avuto una grande influenza per l’esegesi
femminista del Novecento, che ha dovuto affrontare e decostruire interpre-
tazioni sessiste di alcuni versetti coranici anche servendosi di strumenti lin-
guistici. Attualmente le teologhe musulmane femministe lavorano esami-
nando un versetto o parte di esso che nell’esegesi classica è letto in modo
da legittimare maltrattamenti e discriminazioni verso le donne, proponendo
il tafsir di quei sapienti più propensi a letture paritarie e soprattutto proce-
dendo all’ interpretazione dei significati dal punto di vista linguistico, poi-
ché come sappiamo il Corano è un testo dal carattere polisemico e nella

29
lingua araba coranica8 una radice – e una parola − può avere molti e diversi
significati. Inoltre viene considerato il versetto in questione in relazione
non solo al contesto coranico ma anche alla Sunna sullo stesso argomento.
È condiviso che il Corano non può essere interpretato estrapolando versetti
dal loro contesto e ignorando il resto della rivelazione sul loro argomento9,
poiché ciò porterebbe a degli errori di comprensione.
Inoltre si chiede ausilio all’interpretazione che ne ha dato la Sunna più
autorevole, e alla conoscenza delle circostanze della rivelazione, in base al-
la già citata disciplina di assbab annuzul.
Si può portare ad esempio il versetto 34 della Sura IV An-nisa’ (Le Don-
ne), nell’ultima parte. Questo versetto è stato ed è oggi oggetto di discus-
sione, in base soprattutto all’espressione daraba, che è stata interpretata
nell’esegesi classica con il significato di ‘battere’, per cui darebbe l’indica-
zione di picchiare le donne. Lo troviamo tradotto con questo significato in
molte lingue, compreso tutte le traduzioni italiane disponibili attualmente.
Amina Wadud10, e altre teologhe femministe nei loro studi hanno contesta-
to questa traduzione, che autorizzerebbe o addirittura prescriverebbe agli
uomini le percosse in caso di contrasto con le mogli. La radice araba dara-
ba da cui idribûhunna di Corano IV, 34 si presta a varie interpretazioni, ed
è presente nel Corano più volte con significati diversi e anche contraddito-
ri, come allontanarsi, coprire, camminare, accompagnare, lasciare, cambia-
re11.
Il contributo femminile alle scienze islamiche non è nuovo, anzi la pre-
senza di donne esegete risale al primo Islam, alla figura di Aysha, moglie
del Profeta che era una sapiente della Sunna e del Corano e riferimento per
i giuristi dell’epoca. Pur diminuendo notevolmente dopo l’epoca dei primi
quattro califfi, il coinvolgimento delle donne nella giurisprudenza islamica
(‘ilm al fiqh) non è scomparso, ed è ricordato da diversi studiosi nei libri di
storia di scienze islamiche, che annoverano le molte docenti dei grandi giu-
risti che hanno fatto scuola. La condizione femminile, come affermano le
teologhe musulmane femministe, pur vedendo possibilità di miglioramento
con la rivelazione del Corano, è presto tornata a essere drammatica, fin

8
La ‘lingua araba purissima’ in cui è stato rivelato il Corano, divenuta poi l’arabo cosiddetto classico.
9
Un esempio efficace sono i versetti che ne abrogano altri e quei versetti che hanno rivelato norme in
stadi diversi, ad esempio la proibizione del vino, che fu graduale. L’interpretazione è guidata da regole e
discipline specifiche, come la scienza coranica dell’abrogazione, ‘ilm annashkh.
10
Amina Wadud, Il Corano e la donna: rileggere il testo sacro da una prospettiva di genere (1999),
Effatà, Cantalupa 2011.
11
Il Vocabolario arabo italiano di Traini (ISIAO) riporta alla radice daraba cinque pagine di significati
tra cui: battere, colpire, coprire (nel senso di avere rapporti sessuali), applicare o imporre qualcosa a
qualcuno, muoversi, vagare, girovagare, percorrere un luogo ecc.

30
dall’espansione islamica nell’impero persiano, di cui i musulmani adottaro-
no usi e costumi, ad esempio quello dell’harem. Il problema ha le sue radici
nella cultura fortemente patriarcale che prima e dopo l’Islam ha dominato
le popolazioni arabe e poi asiatiche e ha prevalso nonostante contraddizioni
spesso evidenti con il messaggio coranico. Non sono mancati i confronti in
merito nella storia islamica, e anche se la questione non si è posta in
un’ottica femminista ha un suo significato studiare le tante posizioni prese
da sapienti del passato su questioni inerenti eredità testimonianza, divorzio,
magistratura e imamato delle donne per capire che la questione è più ampia
di quella posta in epoca moderna. D’altra parte se ancora oggi molte donne
musulmane impegnate per i diritti umani e in particolare per l’empo-
werment femminile sono riluttanti a definirsi femministe, è dovuto al fatto
che c’è in questo termine tutto il peso della sua storia, ovvero un retaggio
coloniale e una visione eurocentrica della questione, mentre si è consapevo-
li che sui concetti islamici andrebbe più efficacemente applicata una termi-
nologia originale e precisa.
Il continuo processo di ijtihad (interpretazione) e tajdid (rinnovamento)
per posizionare il Corano − divino e assoluto − nella dimensione del relati-
vo e del presente che viviamo richiede una profonda conoscenza delle
scienze islamiche e dei contesti sociali e politici dei singoli paesi in cui la
giurisprudenza prende forma. In epoca contemporanea l’acculturazione del-
le donne e il revival religioso degli anni ottanta e novanta del XIX secolo
hanno fatto sì che sempre più donne si siano dedicate agli studi di Shari’a e
all’insegnamento universitario di queste discipline. La lettura al femminile
delle fonti islamiche (Corano e Sunna ma anche produzione esegetica) fan-
no parte di un processo in corso nel mondo musulmano, che ha raggiunto
un buon grado di consapevolezza sulla condizione femminile e le violazioni
dei diritti delle donne nelle società a maggioranza musulmana e che coin-
volge anche gli uomini12. Resta evidente la separazione − anche politica −
dei due ambiti, islamista e secolare in quanto se nel primo si preferisce re-
stare nell’ambito dei diritti umani e utilizzare concetti di equità, di coerenza
con gli obiettivi della Shari’a (maqasid al-Shari’a), in ambito laico il fem-
minismo può essere il quadro di riferimento senza particolari problemi
identitari di posizionamento. Tra questi due mondi il gender jihad è una
novità perché rivendica un’autonomia di approccio alle fonti. Una figura
precorritrice è senz’altro Fatima Mernissi che ha messo in dubbio la veridi-
cità di alcuni hadith − narrati nella raccolta di al-Bukhari e accettati come

12
La presenza di maschi femministi è una peculiarità del femminismo musulmano. Abdennur Prado ad
esempio, filosofo musulmano spagnolo, è tra i fondatori del Congresso Internazionale del femminismo
musulmano che si tiene ogni due anni a Barcellona.

31
autentici − per la loro palese misoginia e l’incongruenza in questo senso
con il messaggio coranico e il resto della tradizione profetica. Il suo lavoro
è stato attaccato da molti studiosi islamici, anche se Mernissi non si è mai
definita femminista, ma per la sua metodologia, ovvero l’ijtihad (interpre-
tazione) indipendente, che nella storia islamica si è sempre rivelato neces-
sario per aprire nuove prospettive nei momenti di grande cambiamento so-
ciale e culturale. Le teoriche del gender jihad riescono ad utilizzare gli
strumenti delle scienze islamiche – rifiutati dagli studiosi laici e occidentali
come non scientifici − e ad aggiungere al concetto di testo, introdotto da
Aysha Abdurrahman, quello di rivelazione. Inoltre riescono a muoversi −
grazie anche alla componente occidentale e al carattere globale del movi-
mento − con minore carico emotivo nel confronto con il femminismo occi-
dentale e le sue categorie − a partire da genere e patriarcato − termini che
ancora una volta riflettono la loro storia e sono rifiutati da gran parte della
sapienza islamica tradizionale. Ciò pare essenziale per la comprensione di
processi profondi di formazione della società e dei rapporti di dominio che
hanno influenzato anche l’interpretazione della religione islamica e la cul-
tura religiosa dei paesi musulmani13.

13
Su questi aspetti, cfr. E. McLarney, The Islamic public sphere and the discipline of Adab, “Interna-
tional Journal of Middle East Studies”, 43, 2011, pp. 429-449.

32
Sarah Moore Grimké
Le donne nella tradizione protestante
Sarah e Angelina Grimké*

Giuseppina Bagnato

ABSTRACT: This paper establishes a link between the Grimké sisters’ thought, set in the Pro-
testant tradition, and other figures’ view, able to provide a deep and original analysis about
the relationship between the sexes, with reference to the Bible’s interpretation – such as
Katharine Zell. The paper aims also at showing the relevance of those views, even in the
present days.
KEYWORDS: Grimké sisters, Katharine Zell, sisterhood, Bible, equality of sexes

Premessa
L’Associazione Generale1 dice che “quando una donna assume il posto e il ruo-
lo dell’uomo come riformatrice pubblica, non sembra più necessario che noi la cu-
riamo e la proteggiamo; ci mettiamo in autodifesa contro di lei e il suo carattere di-
venta innaturale”2.

La pubblicazione italiana delle Lettere sull’eguaglianza dei sessi di Sa-


rah Moore Grimké (1792-1873) dovrebbe fornire a un pubblico più vasto
gli strumenti per sviluppare oggi una riflessione competente nel quadro de-
gli studi di genere e del percorso storico per l’acquisizione dei diritti. Riat-
tivare la memoria non è un dato scontato specie ai nostri giorni, quando su
ambedue le coste dell’Oceano Atlantico settentrionale ci si interroga su co-
me si possa giungere a una legislazione egualitaria estesa a nuovi ‘richie-
denti’. In questa discussione, stranamente, ci si dimentica dei percorsi e
delle vittorie già realizzate. Di certo una ‘selezione della memoria’ per al-
cuni è più proficua.

 
* A Mario Miegge e Gabriella Rossetti, profeti e compagni di vita aldilà del tempo. Articolo presentato
il 28 febbraio 2017, accettato il 24 marzo 2017. Affiliazione: Chiesa Evangelica Valdese; indirizzo
email: gbagnato@chiesavaldese.org.
1
Si tratta dell’Associazione Generale dei ministri congregazionalisti del Massachusetts.
2
  S.M. Grimké, Poco meno degli angeli. Lettere sull’uguaglianza dei sessi, a cura di Th. Casadei, con
una nota bibliografica di S. Vantin, Castelvecchi, Roma 2016, p. 36. 

La società degli individui, n. 58, anno XX, 2017/1 ISSN 1590-7031, ISSNe 1972-5752 
 

Le epistole

L’epistolario di Sarah Moore Grimké restituisce al problema dei ‘diritti’


lo spazio per l’analisi oggettiva: esso pone la distanza storica e si rende ar-
tefice del collegamento fra le generazioni. L’epistolario colloca la nostra
storia nel percorso costruito e costituito di generazioni precedenti, non es-
sendo sussidiario allo studio ma già di per sé storia. Una storia che impone
a noi lo sforzo dell’identificazione. Questa lettura critica è accentuata dagli
aspetti linguistici. La lettera ha un destinatario: il lettore e la lettrice con cui
entra in comunicazione e nel contempo, ne veicola cultura e ragionamento.
Essa dà forma a concetti e percorsi che ignoravamo e ci induce a ragionare
sulla ciclicità dell’esperienza. Ne è una prova la vita delle sorelle Grimké,
Angelina e Sarah, descritta non da biografi, ma attraverso la pubblicazione
delle loro opere quale appassionato percorso di lotta per i diritti. Due donne
sulla cui biografia molti loro contemporanei avrebbero voluto tacere ma
che oggi riaffiora con irruenza grazie a una produzione personale vasta e
intensa. Impegnate sotto un profilo sia intellettuale che pratico nell’educa-
zione della loro società, animate da una grande fede evangelica, furono
attive nel soccorso e nell’assistenza, nell’istruzione e in dibattiti in difesa
dei diritti. La domanda che suscita il loro contributo nel lettore e nella
lettrice di oggi è: furono davvero innovatrici senza precedenti?

Vocazione storica

Ebbene la risposta sembra essere netta: «No», e ne è la prova l’evidenza


a cui ci richiama questo carteggio e, nello specifico, la lettera qui pubbli-
cata con il titolo L’intelligenza della donna3. Sarah Moore Grimké cita au-
tori e fonti restituendo a chi legge un’antichissima genealogia di donne che,
a partire da Ipazia di Alessandria, passando per Vittoria Colonna per
arrivare a Harriet Martineau, testimoniarono, a discapito dei luoghi comuni
del patriarcato storico, le proprie competenze e la qualità dei loro studi nel
campo del diritto, della teologia e della filosofia, per il rinnovamento delle
arti e della politica. Rimane fra l’inchiostro di Sarah quell’umorismo pro-
prio di chi è abituato a dibattere con interlocutori diversi per pensiero e
capacità di ragionamento, che la porta alla costatazione di come già prima
di lei, donne più illustri siano state fatte tacere e di quanto l’educazione
possa divenire strumento di crescita o arma (con la negazione del diritto
allo studio) per mantenere il pregiudizio e l’ignoranza.

 
3
Ibidem, pp. 41-48.

  35
 

Questo – scrive – mi ricorda un’osservazione fatta da mio fratello, Thomas S.


Grimké, che parlando dell’importanza che le donne siano ben istruite, diceva che
“gli uomini colti non producono mai donne colte, ma le donne colte producono
uomini colti”. Credo che questa opinione sia corretta, perché se la ricchezza di
intelligenza nascosta fra le donne fosse pienamente sviluppata e migliorata, esse
gioverebbero nel comunicare ai loro figli tutto il loro sapere e li ispirerebbero con
il desiderio di bere alla sorgente della letteratura4.

Che fine hanno fatto nella storia queste pioniere dell’educazione, rifor-
matrici e ideatrici di un mondo migliore e più giusto? Sono state vittime
della ‘selezione della memoria’: perché il silenzio riduce a una non esisten-
za che viene rafforzata nel quotidiano da un non riconoscimento di diritti.
“Uno schiavo” dice il codice civile della Louisiana, “è qualcuno che è nel
potere del padrone a cui appartiene. Non può possedere nulla né comprare alcuna
cosa, a parte ciò che deve appartenere al suo padrone”. Non vorrei affatto sostenere
che la condizione delle donne libere possa essere paragonata a quella degli schiavi
in termini di sofferenza e degrado; eppure credo che le leggi che privano le donne
sposate dei loro diritti e privilegi, tendono a diminuire la loro stima di sé come es-
seri morali e responsabili e il fatto di essere rese inferiori ai loro mariti attraverso la
legge civile ha un effetto degradante e demoralizzante su di esse, insegnando loro
praticamente la lezione fatale di guardare all’uomo per averne la protezione e l’in-
dulgenza5.

La storia dimostra di esser soggetta ciclicamente a dei black-out operati


chirurgicamente sulla coscienza. Al contrario, la fede biblica rimanda al
concetto di riappropriazione della memoria, di vocazione e profezia nella
coscienza storica6. L’esempio più eclatante si trova nel libro dell’Esodo al
capitolo 3 (7-10) ed è relativo alla vocazione di Mosè:

Il Signore disse: “Ho visto, ho visto l’afflizione del mio popolo che è in Egitto
e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese
in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel
luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei. E
ora, ecco, le grida dei figli d’Israele sono giunte a me; e ho anche visto l’oppres-

 
4
Ibidem, pp. 44-45.
5
Ibidem, p. 66.
6
Per uno studio su questo argomento si veda M. Miegge, Profezia e coscienza storica, “I Castelli di
Yale”, Facoltà di Lettere e Filosofia di Ferrara, VIII, 2005/2006, pp. 61-72, consultabile anche online a
www.unife.it/letterefilosofia/filosofia/rivista-i-castelli-di-yale/castelli-yale-anno-viii-2005-2006/profe-
zia-e-coscienza-storica.pdf/view.

36  
 

sione con cui gli Egiziani li fanno soffrire. Or dunque va’; io ti mando dal faraone
perché tu faccia uscire dall’Egitto il mio popolo, i figli d’Israele”.

Secondo questa visione, Iddio suscita e rivolge vocazione al singolo e al


popolo. È nei momenti più bui che si riaccende la protesta e ricomincia lo
studio. Qui si fa spazio la scoperta di una legge di diritto soffocata ma pre-
esistente. Questa attualità della chiamata e della vocazione è il cardine del-
l’etica protestante in cui le sorelle Grimké si radicano profondamente.
Guardando al contenuto delle lettere di Sarah si riallaccia il legame con il
passato; una trama di fili antichi scorre a ritroso nel tempo in avanti e
all’indietro. Giungiamo così ai primi anni del ‘500, in un’Europa in cui
inizia a far eco la protesta di un monaco agostiniano a Wittenberg,
Germania. Le sorelle Grimké dimostrano di conoscere bene Martin Luther
e le sue opere, e non solo quelle.

Nemo profeta in patria

Le Grimké, nate nella Chiesa Episcopale e passate poi dalla Chiesa Pre-
sbiteriana, approdano infine alla Società degli amici, non ritenendo che una
chiesa che le privasse di diritti in quanto donne fosse autenticamente evan-
gelica. Quasi in apertura del suo Il Ministero delle donne, Sarah puntua-
lizza:
Sono consapevole di dovermi porre in contrasto con i pregiudizi dell’educazio-
ne e del costume sia nel proprio che nell’altro sesso, come pure con le tradizioni
degli uomini che sono insegnate come se fossero comandamenti di Dio.
Sento di non proporre alcun punto di vista settario, perché sebbene fra i quac-
cheri, i metodisti e i cristiani le donne siano ammesse a predicare la buona novella
della pace e della salvezza; eppure non sono a conoscenza di alcun gruppo reli-
gioso che s’attenga alla dottrina scritturale della perfetta eguaglianza fra l’uomo e
la donna, che è il principio fondamentale della mia argomentazione a favore del
ministero delle donne7.

E ancora:
Che le donne siano chiamate all’ufficio profetico credo sia universalmente am-
messo. Miriam, Deborah e Culda erano profetesse […] e se i ministri cristiani, co-
me lo intendo io, sono i successori dei profeti e non dei preti, allora certamente le
donne sono ora chiamate all’ufficio esattamente come gli uomini8.

 
7
Ibidem, pp. 81-83.
8
Ibidem, p. 85.

  37
 

Nelle sue argomentazioni Sarah farà riferimento più volte all’epistola di


Paolo ai Galati (fatta propria dai vari riformatori europei per sostenere la
validità del sacerdozio universale9), in cui l’apostolo scrive: «Non c’è qui
né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né
femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù» (3, 28).
Un discorso che non appiattisce le differenze cancellandole, ma che le
pone in risalto e le riconcilia in una visione unitaria, attribuendole al di-
segno di un Dio che per scelta si è avvicinato il più possibile all’umanità
proprio per dimostrare (nel percorso etico e spirituale del Cristo) la sua vo-
lontà di essere presente in tutte queste diversità. Questa citazione apre a un
concetto di diversità che cancella la paura e la rivaluta in chiave di fra-
tellanza e sorellanza umana.

Spesso ci si chiede in modo trionfante: perché se gli uomini e le donne fossero


uguali, nella Bibbia le donne non spiccano così come gli uomini? Non intendo
indicare un’unica ragione, ma ritengo che una causa si possa facilmente trovare nel
fatto che dai giorni di Eva fino al presente lo scopo dell’uomo è stato schiacciarla.
Egli ha ottenuto questo risultato in vari modi: a volte con la forza bruta, a volte
subordinandola alle sue peggiori passioni, a volte trattandola come una bambola, e,
mentre escludeva la mente di lei dalla luce della conoscenza, ne adornava il corpo
con gingilli e fronzoli che egli disprezzava per sé stesso, così cercando di renderla
simile a un sepolcro bianco. È veramente degno di stupore che una donna possa
elevarsi sopra la pressione di circostanze che si combinano per schiacciarla. Solo
una chiamata di Jehovah stesso può darle la forza di farlo, divenendo una
predicatrice di giustizia. E quando la voce di Dio penetra nei profondi recessi del
suo cuore e le comanda di andare e gridare agli orecchi del popolo, ella è pronta a
esclamare: “Ahimè, Signore Dio, ecco io non posso parlare perché sono una don-
na”10. Ho conosciuto donne in diverse società religiose che hanno provato il sen-
timento del profeta. […] Mi rallegro che noi siamo state oppresse piuttosto che op-
pressori.11 Dio ha preparato così il suo popolo per la liberazione dalla schiavitù
esteriore; e spero che i nostri dolori ci abbiano preparate ad adempiere i nostri alti e
santi doveri, pubblici oppure privati con umiltà e mitezza12.

 
9
Un’affermazione «secondo la quale tutti i cristiani sono sacerdoti in virtù del battesimo. Lutero
emancipava i laici dalla subordinazione al clero e li rendeva protagonisti della vita cristiana nella
dimensione pubblica» (P. Ricca, Lutero e il Luteranesimo http://www.treccani.it/enciclopedia/lutero-e-
il-luteranesimo_(Enciclopedia-dei-ragazzi)/).
10
C’è qui un voluto parallelismo con Geremia 1, 4-8.
11
Qui fa eco la teologia biblica paolina e l’immagine del Servo sofferente (il Cristo quale esempio di
umiltà e mansuetudine nella prova) dei Vangeli. Ne è un esempio il discorso di Paolo nella seconda
lettera alla comunità di Corinto, per cui cfr. II Corinzi 4, 1-10 (Nuova Versione Riveduta).
12
S.M. Grimké, op. cit., pp. 86-87.

38  
 

A partire da questa lettura operata a vari livelli nella stessa Riforma, as-
sume carattere di intollerabilità per i movimenti evangelici di cui le Grimké
sono protagoniste l’incoerenza e la distanza rispetto a ciò che era da tutti
convenzionalmente accettato: la schiavitù13. Mentre i primi evangelisti e
predicatori protestanti giunti nel Nuovo mondo (metodisti, battisti ecc.)
avevano parlato al ‘nuovo Israele’ (gli schiavi africani) del Cristo quale
‘nuovo Mosè’ e del presente che vivevano come un breve tempo di attesa
della liberazione, ora le varie Chiese costituitesi imponevano loro l’accet-
tazione di una condizione impartita attraverso un uso letteralistico del testo
biblico.
Le sorelle Grimké sanno leggere le parole di Dio e le parole umane e
collocarle nell’ottica della predicazione del Regno (di Dio) e dei regni (co-
loniali). Guardano all’Europa d’Oltreoceano, conoscono il contemporaneo
John Newton14 ma sanno che «nessuno è profeta in patria» (Luca 4, 24;
Matteo 13, 57; Marco 6, 4; Giovanni 4, 44).

Una, due… tante Grimké

La storia sembrerebbe suggerire uno scenario già visto: una riforma par-
tita dal basso, ispirata alla giustizia e alla libertà quali presupposti di un’u-
manità creata uguale per diritti e diversa nelle sue espressioni. Nel quadro
del pensiero di riforma di Sarah Moore Grimké, bisogna rieducare il popolo
cristiano attingendo all’esperienza del passato e all’attualità della chiamata.
Elementi, questi, presenti nel discorso di un’altra donna. Era il 1524 e a
Strasburgo giungevano notizie funeste riguardo l’editto di Worms contro
Lutero e i suoi seguaci15. Attorno alle sue mura si ammassavano profughi
ed esuli. A Kensingen, in Brisgovia, un pastore era stato costretto dalle
autorità a lasciare la città. Centocinquanta uomini della sua parrocchia
avevano deciso di scortarlo fin fuori le mura. Ma al loro ritorno, le truppe
 
13
Il 9 maggio 1837 le sorelle Grimké partecipano alla “Anti-Slavery Convention of American Women”
di New York, ove sono presenti centosettantacinque donne provenienti da dieci Stati diversi e le dele-
gazioni di venti gruppi anti-schiavisti femminili. È la prima volta nella storia che donne provenienti da
un’area geografica così vasta si incontrano con l’obiettivo comune di promuovere la causa antischia-
vista fra le donne. Mary S. Parker verrà eletta presidente e oltre alle Grimké un ruolo di primo piano
avranno Lucrezia Mott e Lydia Child. Presenti: donne afroamericane, mogli e figlie dei proprietari di
schiavi e donne di bassa estrazione sociale.
14
Citato nell’epistolario di Sarah M. Grimké (op. cit., p. 90), John Henry Newton fu capitano inglese di
una nave negriera, passato alla storia per la sua conversione alla causa anti-schiavista. In memoria del
momento della sua conversione Newton scriverà Amazing Grace, il più celebre dei numerosi inni da lui
composti.
15
Emanato da Carlo V su proposta del nunzio G. Aleandro il 25 maggio 1521, dopo la dieta, e retro-
datato all’8 dello stesso mese. Con esso Lutero veniva condannato come eretico e posto al bando e ve-
nivano vietate la lettura e la diffusione delle sue opere, condannate al rogo.

  39
 

austriache avevano preso possesso della città e così, in fuga e braccati, si


erano visti costretti ad abbandonare moglie e figli e a mettersi in marcia
verso la ‘città rifugio. Dopo il loro arrivo si sparse ovunque la voce che a
Strasburgo una donna di fede accudiva più di cento esuli. Quella donna
scrisse una lettera alle mogli rimaste a Kensingen, divenuta poi un opuscolo
stampato e diffuso. Essa si apriva con le parole: «Alle consorelle in Cristo».
Un discorso profondamente evangelico, forte di una visione lucida
sull’esistenza umana e la solidarietà nella sorellanza. Come nell’epistolario
di Sarah Grimké, l’invito è al perdono nella persecuzione con un uso
specifico del linguaggio inclusivo. La fede rendeva la prova personale certa
di esser superata. Vi leggiamo:

“Se abbiamo costanza nella prova con Lui altresì regneremo” (II Timoteo 2, 1).
Se fossi stata prescelta per soffrire come voi, mi riterrei più felice di tutti i magi-
strati di Strasburgo in giorno di fiera, con le collane a catene d’oro. Ricordate la
Parola del Signore nel profeta Isaia 54, 8: “In un accesso d'ira, ti ho per un mo-
mento nascosto la mia faccia, ma con un amore eterno io avrò pietà di te”. “Una
donna può forse dimenticare il bimbo che allatta, smettere di avere pietà del frutto
delle sue viscere? Anche se le madri dimenticassero, non io dimenticherò te”.
(Isaia 49, 15). Non sono parole d’oro? La fede non è fede se non è messa alla pro-
va. “Beati quelli che fanno cordoglio”. “Pregate dunque per quelli che vi persegui-
tano, affinché siate perfette16 com’è perfetto il Padre vostro celeste” (Matteo 5, 4,
44, 48).

Autrice di questa lettera è Katharina Schutz, passata alla storia come


Katharina Zell, moglie del pastore Matthäus Zell, il primo ex prete a spo-
sarsi nella storia del movimento della Riforma. Katharina lavorava senza
sosta: scriveva testi di alto livello per confutare le tesi dei suoi più agguer-
riti avversari, lavorava nel volontariato, conciliava prassi e studio, educa-
zione e fede e restò al fianco di Matthäus nonostante la morte prematura dei
loro due bambini. Si definiva un «frammento della costola di quell’uomo
benedetto che risponde al nome di Matthäus Zell» e lui, che le riconosceva
almeno due delle sue costole, la definiva «Mein Helfer» (la mia aiutante).
In questo sottile gioco di battute c’è una lettura ‘altra’ del matrimonio. Non
più quell’interpretazione che legge il racconto di Genesi 2 quale fonda-
mento biblico per la subordinazione della donna all’uomo, ma la ragione
della propria complementarietà e completezza. È quanto si evince dalla
trattazione di Sarah Grimké. Sebbene le sue analisi esegetiche tendano a
sottolineare le qualità accantonate del primo racconto di Genesi 1, 27 («Dio
 
16
Corsivo mio, a evidenziare la modifica dell’originale biblico, al maschile. Il brano è contenuto in
R.H. Baiton, Le donne della Riforma, vol. I, Claudiana, Torino 1992, p. 101.

40  
 

creò l’essere umano a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò


maschio e femmina»), l’autrice si vede costretta a ritornare sempre sul-
l’interpretazione del secondo. In L’eguaglianza originaria della donna,
scrive:
non si trattava di dare all’uomo una creatura meramente capace di amare, di
obbedire e di riverirlo, perché tutti gli animali avrebbero potuto farlo e lo facevano.
Si trattava di dargli una compagna in tutti i sensi uguale a lui; qualcuno che fosse
come lui un soggetto libero, dotato di intelletto e immortalità […]. Se non fosse
stato così come avrebbe potuto costituire un aiuto adatto a lui? Mi riferisco a qual-
cosa che si applica non solo alle parti che entrano nel contratto di matrimonio, ma a
tutti gli uomini e le donne, perché io credo che Dio abbia designato la donna come
aiuto adatto all’uomo in ogni sua opera buona e perfetta17.

Così come avvenne per Angelina Grimké quando incontrò il suo futuro
sposo e compagno di lotte, Theodore Dwight Weld, «Katharina Schütz was
convinced that she was called to marry Matthew Zell as an expression of
her faith in God and her love for others»18.
Nel settembre 1520 viene stampata, probabilmente a Strasburgo, l’Apo-
logia di Katharina Schütz per il maestro Matthäus Zell, suo marito, pastore
e servo della Parola di Dio a Strasburgo, a causa delle grandi bugie inven-
tate su di lui. Nello scritto si legge:

quanto poi a picchiarmi, mio marito e io non abbiamo mai avuto neppure un
quarto d’ora di litigio. Non potremmo avere un onore più grande che quello di mo-
rire, rinnegati dagli uomini, su due croci, l’uno accanto all’altra per rivolgerci pa-
role di conforto a vicenda. […] Voi mi ricordate che l’apostolo Paolo ha ordinato
alle donne di tacere in chiesa; io vorrei ricordarvi la parola dello stesso apostolo
che in Cristo non c’è più né uomo né donna (Galati 3, 28) e la profezia di Gioele
“Spanderò il mio spirito sopra ogni carne e i tuoi figli e le tue figlie profetiz-
zeranno” (Gioele 2, 28)19. Non pretendo di essere Giovanni Battista che rimprovera
i farisei, né Nathan che riprende Davide, semmai aspiro soltanto a essere l’asina di
Balaam che critica aspramente il suo padrone20.

 
17
S.M. Grimké, op. cit., pp. 22-23.
18
E.A. McKee, Katharina Schütz Zell. The Life and Thought of a Sixteenth-Century Reformer,
“Studies in Medieval and Reformation Thought”, 1999, pp. 48-49.
19
Testi ripresi nella trattazione del Ministero delle donne di Sarah M. Grimké.
20
Citato in J.C. Füsslin, Beyträge zur Erläuterung der Kirchen-Reformations-Geschichte des
Schweitzerlandes, Theil 5, Zürich 1753, pp. 200 e 302.

  41
 

Sorellanze

È dunque evidente che ci troviamo di fronte a percorsi comuni in uno


slancio di riforma che travalica la storia e la fa convergere nella necessità di
produrre un cambiamento. Queste donne dimostrarono di avere competenze
esegetiche e sociologiche, rivendicarono il loro ruolo e i loro diritti nella
hgstoria e proseguirono nelle loro battaglie in un contesto che le vedrebbe
ancora oggi innovatrici. In Lettera pastorale dell’Associazione Generale,
Sarah Grimké scrive:
I doveri e i ruoli propri delle donne sono chiaramente definiti dal Nuovo Te-
stamento. Questi poteri non sono invadenti o privati, ma sono fonte di un potere
straordinario. Quando la mite, dipendente, gentile influenza della donna è eser-
citata pienamente sulla rigidità delle opinioni maschili, la società ne sente gli effetti
in mille modi21.

Per questo, e molti altri motivi, le lettere di Sarah Grimké meritano di


essere riscoperte, studiate e trasmesse. In esse vengono affrontate proble-
maticità non ancora risolte: dall’uso del corpo della donna, alla violenza fi-
sica ed economica; il problema della creazione di una coscienza di diritto
nelle donne; il carattere servile delle religioni rispetto alle letture patriarcali
dei testi biblici; la corruzione del termine «ministro» e il non riconoscimen-
to della dignità delle donne.
Bellissimo il saluto con cui chiude ogni sua lettera («Tua nei vincoli
della femminilità»), che solo una volta nell’epistolario è integrato dal-
l’autrice con un’immagine di palese solidarietà alla causa antischiavista22 e
all’attestazione di fede di Lutero a Worms nel 1521:

Qui mi attesto. Dio ci ha creati eguali; egli ci ha creato soggetti liberi; egli è il
nostro datore delle Leggi, il nostro Re e il nostro Giudice, e a lui solo la donna è
legata in soggezione, e a lui solo rende conto per l’uso dei talenti che il Padre del
cielo le ha affidato. Uno è il suo maestro invero Cristo.
Tua per gli oppressi, nei vincoli della femminilità23.

 
21
S.M. Grimké, op. cit., p. 31.
22
Si veda, in proposito, Th. Casadei, Sarah Moore Grimké: le radici bibliche dell’argomentazione
femminista, in op. cit., pp. 8-12.
23
Ibidem, pp. 26-27.

42  
Prospettive di genere
L’educazione da attività filantropica a diritto universale*

Serena Vantin

ABSTRACT: This paper focuses on the political, juridical and social impact of education,
looking at the English case as a relevant example. A process will be emphasized, gradually
removing education from the philanthropic and charitable sphere, and giving it new
‘meanings’, such as that of ‘social duty’ and, then, that of a ‘legal right’. During this
process, Wollstonecraft’s and Mill’s approaches are considered as fundamental, with
reference also to the gender perspective, in understanding educational development as a
necessary element for the human flourishing.
KEYWORDS: education, Wollstonecraft, Mill, gender

La questione educativa e il suo significato giuridico, politico e sociale

L’attuale sistema di educazione universale fondato sulla legittima prete-


sa di un diritto umano all’istruzione1 ha radici profonde e complesse. Ri-
percorrerne le tappe evolutive è un’operazione intellettuale certamente utile
per comprendere appieno i meccanismi di funzionamento della società e
per guardare al contesto presente con spessore storico. In questa sede si
cercherà di offrire una panoramica sui principali momenti evolutivi di tale
percorso, guardando allo scenario inglese come emblematico case and lea-
ding study in materia.
In particolare, com’è noto, l’Inghilterra fu il primo paese a sperimentare
in misura massiccia gli effetti delle molteplici trasformazioni economiche,

*
Data di presentazione: 3 febbraio 2017; data di accettazione: 4 aprile 2017. Affiliazione: Università
di Pisa; indirizzo email: serena.vantin@sp.unipi.it.
1
Si veda, a titolo d’esempio, la giurisprudenza recente della Corte Europea del Diritti Umani: Catan
and Others v. Moldova and Russia [GC], 43370/04, 8252/05, 18454/06; Eğitim ve Bilim Emekçileri
Sendikasi v. Turkey, 20641/05. Cfr. anche l’Handbook on European Law relating to the Rights of the
Child, in part. pp. 141-149: www.echr.coe.int/Documents/Handbook_rights_child_ENG.PDF;
l’Handbook on European non-discrimination law and its update including the Manual on the anti-
discrimination legal framework and referral mechanism in Azerbaijan, in part. pp. 55-57:
www.echr.coe.int/Documents/Handbook_non_discri_law_ENG_for_AZE.pdf. Nel contesto globale,
cfr. il report di UNESCO (www.unesco.org/new/en/right2education) al seguente link: unes-
doc.unesco.org/images/0021/002127/212715e.pdf.

La società degli individui, n. 58, anno XX, 2017/1 ISSN 1590-7031, ISSNe 1972-5752
politiche, sociali e culturali provocate dalla Rivoluzione industriale, rappre-
sentando di fatto un modello di modernizzazione per l’Europa2.
Mentre l’organizzazione pre-moderna collassava, la reazione allo scop-
pio della Rivoluzione francese, e la riflessione parlamentare e pubblica che
ne scaturì nei primi anni Novanta del diciottesimo secolo, costituirono un
ulteriore potente fattore di accelerazione del processo di ricerca di soluzioni
– prima filosofiche, poi politiche e infine legislative e giuridiche – vòlte a
ridefinire le relazioni sociali e, in un’ultima istanza, a stabilire un nuovo
ordine, in cui alcune dinamiche pregresse iniziarono a vacillare anche nei
rapporti tra i sessi.
La questione educativa ebbe un ruolo chiave in questo processo. In pri-
mo luogo, perché una domanda di inclusione sempre più ampia, all’interno
del sistema di istruzione vigente, veniva perorata dalle classi sociali di nuo-
va formazione. In secondo luogo, perché il sistema educativo pre-moderno
si rivelò inadeguato alle nuove esigenze e alle trasformazioni tecnologiche
e scientifiche in corso, e molti riformatori si preoccuparono di ripensarlo.
Per quello che concerne il primo aspetto, come è stato notato, il sermone
di Joseph Butler del 17403 offre una significativa interpretazione del mutato
rapporto tra ‘ricchi e poveri’: se prima entrambi vivevano all’interno della
medesima organizzazione familiare, «i secondi come servi dei primi», rico-
noscendosi, sulla base di un contatto personale, come reciprocamente ne-
cessari, i processi di industrializzazione e urbanizzazione venivano a creare
nuove forme di interazioni umane4.

2
Cfr. M. Ripoli, Il cambiamento possibile. Politica e società in Inghilterra tra Sette e Ottocento,
ECIG, Genova 1995, p. 10. In un’ampia letteratura, si vedano, su questi temi: D. Defoe, Fare l’elemo-
sina non è carità, dare lavoro ai poveri è un danno per la nazione (1704), a cura di V. Accatatis, Feltri-
nelli, Milano 1982; H. Fielding, An enquiry to the causes of the late increase of robbers (1751), AMS,
New York 1975; J. Bentham, A view of the Hard Labour Bill (1778), in J. Bowring, a cura di, The
Works of Jeremy Bentham, 11 voll., Tait, Edinburgh 1838-1843, vol. 4, pp. 1-36. Per alcune analisi di
contesto: D. Marshall, The English poor in the Eighteeth Century. A study in social and administrative
history (1926), Longmans, London 1962; J.A. Passmore, The malleability of man in Eighteenth Century
thought, in E.R. Wasserman, a cura di, Aspects of Eighteenth Century, John Hopkins, London 1965;
J.M. Beattie, Crimes and the Courts in England 1660-1800, Princeton University Press, New York
1986. Più in generale, per una disamina del diritto inglese, dalla formazione del Common Law al XIX
secolo, si vedano: A. Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età contempora-
nea, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 205-220, 371-387 e M. Godfrey, a cura di, Law and authority in Bri-
tish Legal History, 1200-1900, Cambridge University Press, Cambridge 2016.
3
J. Butler, Secondo sermone (1740), citato in F. Baroncelli, Tra Locke e Smith. Alcune immagini del
rapporto con il ‘povero’, “Studi settecenteschi”, 2, 1981, pp. 135-171 e in M. Ripoli, Il cambiamento
possibile, cit., p. 10.
4
Come osserverà Tocqueville nel 1856, «l’Inghilterra era il solo paese in cui si fosse non alterato ma
veramente abbattuto il sistema di casta. I nobili e i non nobili vi si occupavano insieme degli stessi affa-
ri, seguivano le stesse professioni e, cosa ben più significativa, si sposavano tra loro», cfr. A. de Toc-
queville, L’antico regime e la rivoluzione (1856), a cura di G. Candeloro, BUR, Milano 1989, p. 127.

44
Relativamente al secondo aspetto, nel corso dei successivi paragrafi si
darà conto di alcune proposte di riforma che furono formulate nel solco di
quelle che paiono tre linee direttrici: in un primo momento, nuovi strumenti
educativi vennero realizzati e promossi nell’ambito dei movimenti di stam-
po filantropico e caritatevole (§2); in un secondo momento, intellettuali e
riformatori produssero proposte di impatto più propriamente ‘politico’,
guardando all’educazione come a un ‘dovere sociale’ (§3); infine, il sistema
educativo venne implementato su scala nazionale attraverso interventi legi-
slativi che aprirono la via alla nascita di un ‘diritto universale’ all’istruzione
(§4).

L’educazione come attività filantropica e caritatevole

L’Inghilterra del diciottesimo secolo non conosceva un sistema scolasti-


co unitario e coerente. Dal 1698 la Society for Promoting Christian Know-
ledge (SPCK), sostenuta dalla Church of England, rappresentava l’istitu-
zione più strutturata e affidabile nella gestione del variegato complesso di
istituti caritatevoli (charity schools) che offrivano ai bambini della classe
lavoratrice l’opportunità di imparare a leggere e di essere nutriti e vestiti.
Scopo primario dell’educazione impartita sotto l’egida della SPCK era la
trasmissione dei principi religiosi del catechismo, insegnati a memoria. Ai
maschi venivano insegnati anche i rudimenti della scrittura e dell’aritmetica
(le «tre R»5), mentre le bambine imparavano a cucire e a eseguire altre fac-
cende domestiche. Un testo molto diffuso nelle charity schools era il tratta-
to devozionale The whole duty of man (1658)6.
A partire da un’intuizione del reverendo scozzese Griffith Jones7, dal
1730 alcune scuole furono rese itineranti (circulating schools), affinché gli
insegnamenti del catechismo potessero raggiungere anche le aree rurali in
cui mancava una struttura scolastica vera e propria. Tali «mushroom
schools» offrivano corsi di durata variabile – generalmente dai tre ai sei
mesi –, ed erano rivolte sia a bambini e ragazzi sia ai «poor adults»8 che
avessero voluto imparare a leggere la Bibbia.
Per gli studenti più abbienti esistevano le private common schools (la
versione femminile erano dame schools), che tuttavia fornivano general-
mente un’educazione molto rudimentale, anche a causa della bassa prepa-

5
L’espressione inglese con cui si indicano le abilità educative di base: reading, writing, arithmetic.
6
Cfr. J. Kamm, Hope deferred. Girl’s education in English History, Methuen & Co., London 1965, p.
84.
7
Ibidem.
8
Ibidem.

45
razione degli insegnanti. Il sistema più efficace rimaneva il tutoraggio do-
mestico privato9.
Dall’altro estremo della piramide sociale, a partire dal 1722 una terribile
alternativa iniziò a diffondersi nelle parrocchie più industrializzate: le
work-houses schools, istituti di raccolta più che di formazione, rivolti a
bambini-lavoratori altrimenti destinati a una morte di stenti nelle strade10.
Nella seconda metà del secolo, si aggiunsero le industrial schools, le Sun-
day schools e le evening schools, che combinavano la necessità di un’edu-
cazione basilare sulle «tre R» con l’esigenza di guadagnare un salario, sep-
pur minimo11.
Dal momento che le condizioni di vita dei bambini di questi istituti
«preoccupavano per il loro potenziale sovversivo della tranquillità sociale
ma rappresentavano una sfida per i benefattori»12, nacque un vero e proprio
movimento filantropico impegnato sul fronte della questione educativa. Al
suo interno il contributo delle bluestocking si rivelò fondamentale13.
Uno studio edito da Patricia Demers e Gorgon Moyles alcuni anni fa14
cita, in particolare, l’operato di Hannah More, Sarah Trimmer, Anna Letitia
Barbauld, Mary Martha Sherwood, Lucy Leman Rede, Susan Bogert War-
ner.
More (1745-1833) e Trimmer (1741-1810) furono probabilmente, tra
tutte, le esponenti più attive e più note15. In linea con lo spirito dell’epoca,
le due filantrope sostennero – con scritti e azioni – l’idea che l’educazione
9
Non va dimenticata l’importanza che ebbero le pubblicazioni ‘economiche’ a stampa per la circola-
zione dei libri. Nel 1745, il vescovo di Bristol Dr. Joseph Butler affermò che «i libri sono una benedi-
zione che dovremmo consentire ai poveri di poter condividere con noi» (citato in ibidem, p. 85).
10
Ibidem, p. 88.
11
Per un approfondimento, si veda ibidem, pp. 90-97.
12
Ibidem, p. 83. Si pensi alle descrizioni contenute, qualche decennio più tardi, nei romanzi sociali di
Charles Dickens (Oliver Twist, 1839; A Christmas Carol, 1843; David Copperfield, 1850; Hard Times,
1854).
13
Cfr. ibidem, pp. 102-111. Per approfondire, J. Robinson, Bluestockings. The remarkable story of the
first women to fight for an education, Penguin Books, London 2009; B.J. Whitehead, a cura di, Wom-
en’s education in Early Modern Europe. A History, 1500-1800, Garland Publishing, New York-London
1999; S.H. Myers, The Bluestocking Circle, Clarendon Press, Oxford 1990. Più indietro nel tempo, cfr.
D. Gardiner, English girlhood at school. A study of women’s education through twelve centuries, Ox-
ford University Press, London 1929; A. Wallas, Before Bluestockings, G. Allen & Unwin, London
1929. Per una panoramica più ampia: J. Innes, L’éducation nationale dans les îles Britanniques, 1765-
1815. Variations britanniques et irlandaises sur un thème européen, “Annales. Historie, Science Socia-
les”, 5, 2010, pp. 1087-1116. In lingua italiana si veda A. Lirosi, Libere di sapere. Il diritto delle donne
all’istruzione dal Cinquecento al mondo contemporaneo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015.
14
P. Demers, G. Moyles, a cura di, From instruction to delight. An anthology of Children’s Literature
to 1850, Oxford University Press, Toronto 1982.
15
La notorietà di More, in particolare, era tale che c’è chi non esita a definirla «la donna inglese più
influente dell’era romantica»: A.K. Mellor, Mothers of the nation. Women’s political writing in Eng-
land, 1780-1830, Indiana University Press, Bloomington 2002, p. 13.

46
debba mirare essenzialmente a impartire valori morali16, appoggiando una
visione estremamente tradizionale quanto alla necessità di mantenere diffe-
renziata l’istruzione maschile da quella femminile, alla luce della limitata
capacità razionale delle donne17.
Dal punto di vista dell’istruzione delle bambine, gli ideali delle bluesto-
ckings paiono generalmente compatibili con l’affermazione di Adam Smith
contenuta in The Wealth of Nations (1776):

le ragazze devono essere istruite in base a ciò che i loro genitori e tutori reputi-
no necessario insegnare loro, null’altro. [Ma, dal momento che] non esiste un si-
stema istituzionale dedicato all’educazione delle donne […], non c’è nulla di inuti-
le, assurdo o fantasioso nell’immaginare un corso pubblico (common course) dedi-
cato alla loro educazione, che miri a renderle adatte a divenire padrone (mistresses)
di una famiglia e a comportarsi adeguatamente quando lo siano divenute18.

La riforma dell’educazione come ‘dovere sociale’

Come accennato, sul finire del diciottesimo secolo la questione educati-


va assunse un significato «politico»19. Tra i conservatori emerse il fenome-
no del vulgar conservatism20, inaugurato dalle campagne della Association
for Preserving Liberty and Property against Republicans and Levellers
(APLP, 1792-1793) di John Reeves (1752-1829), che puntarono a sperimen-
tare vere e proprie attività educative popolari, a partire dall’idea che l’ade-
sione delle masse fosse necessaria per garantire la conservazione sociale.
Tra i radicali, ebbero grande fortuna le formulazioni pratiche e teoriche
di Thomas Day (1748-1789), educatore rousseauiano e autore di Standford

16
Un’idea che rimanda alla filosofia antica: si vedano le riflessioni sul Menone di Platone e sull’Etica
Nicomachea di Aristotele in S.M. Cahn, a cura di, Classic and Contemporary Readings in the Philoso-
phy of Education, The McGraw-Hill Companies, New York 1997, pp. 3 e 110. Si tratta di un tema ac-
cennato anche nel saggio di B. Casalini, Femminismo suffragista bianco e razzismo negli Stati Uniti
d’America, “Storia e Politica”, 2017/1. Si veda anche C. Brooke, E. Frazer, a cura di, Ideas of educa-
tion: philosophy and politics from Plato to Dewey, Routledge, London 2013.
17
Nelle Structures on the modern system of female education (1799), in particolare, More attaccò Mary
Wollstonecraft mostrandosi sprezzante verso «la donna che si vanta del proprio ingegno» e cerca di
rivendicare «i diritti delle donne»: si veda M. Wollstonecraft, Il manifesto femminista. Per la rivendica-
zione dei diritti della donna scritto e pubblicato per la prima volta nel 1792, con un saggio introduttivo
di M. Kramnick, Edizioni Elle, Roma 1977, p. 41.
18
Citato in J. Kamm, Hope deferred, cit., p. 119.
19
Cfr. B. Simn, Studies in the history of education, 1780-1870, Lawrence & Wishart, London 1960, p.
63.
20
Cfr. M. Philp, Vulgar Conservatism, 1792-3, “English Historical Review”, 110, 1995, pp. 42-69 e J.
Mori, Languages of loyalism: patriotism, nationhood and the state in 1790s, “English Historical Re-
view”, 118, 2003, pp. 33-58.

47
and Merton (1783-1789); le sperimentazioni pedagogiche di Joseph Priest-
ley (1733-1804)21 e – in misura minore – di William Godwin (1756-
1836)22; nonché, qualche anno più tardi, l’opera di Robert Owen (1771-
1858)23. Da un punto di vista più strettamente scientifico, notevole circola-
zione ebbero i lavori di Erasmus Darwin (1731-1802), di Henrich Pestaloz-
zi (1746-1827) e, in tema di istruzione femminile, di Fénelon (1651-
1715)24. Un approccio pedagogico destinato ad avere largo seguito, quello
delle monitoring schools, fu inaugurato da Bell (1753-1832) e Lancaster
(1778-1838)25.
L’utilitarismo fornì, tuttavia, la riflessione più strutturata e significativa.
Chrestomathia, l’opera che Jeremy Bentham (1748-1842) pubblicò nel
1816-17, è un compendio della filosofia dell’autore applicata alla questione
educativa26.
Nel testo si apprende che il sapere deve essere organizzato «in a tabular
form: an “encyclopedic table”»27 secondo un principio di ordine logico, ov-
vero di priorità. I criteri di utilità e di semplicità orientano la scelta dei
maestri: dopo l’insegnamento delle «tre R», dovranno passare alle scienze
descrittive (mineralogia, botanica, zoologia); per poi procedere con la mec-
canica, la chimica e la fisica; e concludere con le scienze della «school of
technology» (attività mineraria, misurazione, architettura ecc.). Ad un se-
condo grado di studi sono demandati gli insegnamenti di storia, geografia,
lingue straniere; seguiti dagli studi sulla salute e il benessere del corpo, e
infine dalla matematica.
Bentham, dunque, elimina dal piano di studi gli insegnamenti umanistici
e classici, prediligendo una conoscenza tecnico-scientifica in grado di rea-
lizzare l’utile della società. In questo senso, l’istruzione è un dovere che si
colora di una precisa connotazione sociale.
Seguendo la lezione psicologica di David Hartley, inoltre, Bentham at-
tribuisce grande rilievo al metodo d’insegnamento. A titolo d’esempio, so-
stiene che le conoscenze degli allievi debbano essere testate continuamente,
affinché l’insegnante possa assicurarsi che i concetti siano stati interiorizza-
ti profondamente e non vengano meramente memorizzati.

21
B. Simn, Studies in the history of education, 1780-1870, cit., pp. 25-26.
22
Ibidem, pp. 44-45.
23
Ibidem, p. 193; cfr. anche J. Kamm, Hope deferred, cit., p. 155.
24
B. Simn, Studies in the history of education, 1780-1870, cit., pp. 124-128 e J. Kamm, Hope deferred,
cit., p. 120.
25
Ibidem, pp. 152-155.
26
Cfr. E.S. Itzkin Bentham’s Chrestomathia: utilitarian legacy to English Education, “Journal of the
History of Ideas”, 1978/2, pp. 303-316.
27
B. Simn, Studies in the history of education, 1780-1870, cit., p. 79.

48
Le Chrestomatic schools si basano sui medesimi principi che regolano
la società: la competizione individuale è il principale incentivo al lavoro;
mentre saranno adottati come criteri pedagogici il «comparative proficiency
principle», il «place capturing principle», il «distraction prevention princi-
ple», il «tabula exhibition principle»28. Disciplina e auto-disciplina sono
fondamentali per il mantenimento dell’ordine, ma le punizioni devono esse-
re una misura eccezionale e, in ogni caso, quelle corporali vanno abolite.
Sebbene scuole crestomatiche non siano mai state propriamente realiz-
zate, la Hazelwood School di Birmingham fu dichiaratamente ispirata ai
principi benthamiani. Pioniera di diverse sperimentazioni pedagogiche,
questa adottò, in particolare, il sistema della «accumulation of penal
marks», ovvero un metodo ‘a punteggio’ in cui gli studenti guadagnavano e
perdevano ‘punti’ sulla base del lavoro e del comportamento buono o de-
precabile29.
Anche James Mill (1773-1836) dedicò attenzione al tema della riforma
educativa, contribuendo a portare la questione all’ordine del giorno del-
l’agenda politica30. Due anni prima di esprimere il suo plauso all’ambizioso
progetto intrapreso per fornire alla classe media un’istruzione adeguata – la
fondazione della University of London –, Mill osservava che:

le classi inferiori sono gli strumenti della classe [dei mercanti, dei manifatturie-
ri, dei meccanici, dei chimici, degli artisti, di coloro che scoprono nuove arti e co-
loro che perfezionano le vecchie]; [questi ultimi] sono considerati i governanti dei
primi. Tuttavia, sebbene talvolta sembrino davvero dettare regole alle classi infe-
riori, più spesso sono loro a essere completamente sotto il controllo di quelli. […]
Un’adeguata istruzione delle classi inferiori è pertanto della maggiore importanza
per il benessere dello stato31.

Quali fossero i metodi e le tecniche educative reputate «adeguate» da


Mill, ci è mostrato dall’opera autobiografia del figlio più famoso da lui
istruito. Nei primi tre capitolo dell’Autobiography, John Stuart ripercorre
con eccezionale lucidità le tappe del sistema educativo paterno, iniziato con
l’apprendimento del greco all’età di tre anni, e proseguito mediante
un’imponente mole di letture e disquisizioni socratiche sull’aritmetica, il

28
Ibidem, p. 81. Per un inquadramento più ampio sui principi che regolano il rapporto tra giurisdizione
e legislazione in Bentham, cfr., da ultimo, F. Ferraro, Il giudice utilitarista. Flessibilità e tutela delle
aspettative nel pensiero di Jeremy Bentham, ETS, Pisa 2011.
29
Per tutta la durata della giornata, una campana scandiva la successione delle diverse attività. Vi erano
duecentocinquanta squilli in un giorno: ogni momento era definito, cronometrato, occupato, cfr. ibidem,
pp. 82-83.
30
Ibidem, p. 75.
31
Ibidem, p. 78.

49
latino, la storia, la poesia, l’algebra, la scienza sperimentale, la logica,
l’economia politica32. «La mia» afferma tuttavia l’autore «non è stata
un’educazione di accumulo. Mio padre non mi ha mai permesso di far de-
generare i miei studi in un mero esercizio di memoria»33.
Pur non risparmiando qualche critica34 alla funzionalità del modello,
John Stuart riconosce inoltre la novità assoluta del suo «essere cresciuto
senza convinzioni religiose»35:

sono tra le pochissime persone in questo paese», afferma, «non ad aver rifiutato
ma piuttosto a non aver mai avuto credenze religiose: sono cresciuto con un atteg-
giamento sprezzante verso di esse. Guardavo alla religione moderna esattamente
come guardavo alle religioni antiche, come a qualcosa che non mi riguardava36.

L’educazione come diritto, indipendentemente dal sesso

Avendo sperimentato in prima persona l’istruzione utilitarista, e aven-


done conosciuti i pregi e i difetti, John Stuart Mill seppe raffinare lo stru-
mento dando lo slancio verso un nuovo modello educativo. Sebbene non ci
siano prove certe del collegamento causale37, alcuni studi mettono in luce la
vicinanza delle sue posizioni con quelle di Mary Wollstonecraft (1759-
1797)38 – peraltro a sua volta profondamente influenzata dalla lettura delle
lettere di Catharine Macaulay (1731-1791).
In particolare, in un recente studio, Eileen Hunt Botting sostiene che sia
la «teologia razionale» di Wollstonecraft sia l’«utilitarismo liberale» di Mill
identificano l’educazione come un diritto umano basilare e prioritario, ri-
volto specificamente – ma non esclusivamente – ai bambini e alle bambine,

32
Il «last stage of education, and first of self-education» riguardò invece gli insegnamenti di storia re-
cente, diritto romano, filosofia politica, etica del diritto (turining-point per la vita dell’autore fu la lettu-
ra dell’opera di Dumont, Traité de législation): cfr. J.S. Mill, Autobiography, Oxford University Press,
London-Oxford 1971, pp. 40-41.
33
Ibidem, p. 20.
34
«He kept me, with extreme vigilance, out of the way of hearing myself praised. […] I did not esti-
mate myself at all» (ibidem, pp. 20-21); «The deficiencies in my education were principally in the
things which boys learn from being turned out to shift for themselves, and from being brought together
in large numbers. […] I was inexpert in anything requiring manual dexterity […]. The education which
my father gave me, was in itself much more fitted for training me to know than to do» (ibidem, pp. 22-
23).
35
Ibidem, p. 25.
36
Ibidem, pp. 27-28.
37
Cfr. l’Introduzione di F. Ruggieri in M. Wollstonecraft, I diritti delle donne, Editori Riuniti, Roma,
1977, p. 12.
38
In particolare, E. Hunt Botting, Wollstonecraft, Mill and women’s human rights, Yale University
Press, New Haven-London 2016, citato anche oltre.

50
indipendentemente dal sesso39. Si tratta, com’è ovvio, di un diritto che pre-
suppone il godimento di un nucleo ristretto di altri diritti umani basilari
(quali il diritto al nutrimento e alla sicurezza) ma dotato di obiettivi morali
e politici più alti di queste «bare necessities for survival»40.
Se la teorizzazione di un vero e proprio ‘diritto’ universale all’istruzione
nei termini del dibattito contemporaneo sembra un poco fuorviante, almeno
in Wollstonecraft, pare più convincente l’idea che, in linea con l’etica ari-
stotelica, i due autori abbiano saputo vedere nell’educazione uno strumento
umano fondamentale per la realizzazione dell’eudaimonia, la vita buona e
virtuosa: un obiettivo, quest’ultimo, che viene posto ‘democraticamente’
alla portata di tutti e di tutte41. Si tratta, dunque, di una soluzione più politi-
ca che giuridica ma che comunque apre la strada alla formulazione che di-
venterà canonica in epoca contemporanea42.
Non va dimenticato che Wollstonecraft fu la prima donna a proporre un
piano sistematico di educazione primaria nazionale completamente a carico
dello stato43. Adottò, analogamente a quanto avrebbe fatto Mill in seguito,
un approccio olistico e universale, secondo cui l’educazione è rivolta alla
mente quanto al corpo e al carattere in generale; nonché un atteggiamento
individualistico fondato sul dovere, primo tra tutti quello della propria auto-
formazione e auto-disciplina; e, infine, un certo grado di «ottimismo psico-
logico»44 nella misura in cui l’intera visione riposa sulla fiducia nella per-
fettibilità umana.
La riflessione di Wollstonecraft, prima, e di Mill, poi, registrò e incor-
porò l’urgenza storica di ridisegnare l’apparato scolastico secondo le muta-
te necessità contingenti. In un certo senso, riuscì anche ad anticipare i risul-
tati legislativi che furono in seguito raggiunti.

39
E. Hunt Botting, Wollstonecraft, Mill and women’s human rights, cit., p. 116. Il pensiero di Wollsto-
necraft sembra a tratti spingersi fino a intuire il divieto di discriminazione sulla base del genere (oltre
che del sesso). Com’è noto, la stessa Wollstonecraft e lo stesso Mill furono accusati di essere, rispetti-
vamente, una «manly woman» e un «womanly man»: cfr. ibidem, p. 128.
40
Ibidem, pp. 116-117, dove si legge anche: «As Mill powerfully put it in On liberty, it was a “moral
crime” that women and children were not guaranteed a “right” to “education” in his supposedly ad-
vanced country, because not only “food” but also “instruction and training for [the] mind” were neces-
sary for individual well-being».
41
Una visione che si pone contro l’interpretazione burkeana del libro IV della Politica. Secondo Burke,
com’è noto, «a perfect democracy is the most shameless thing in the world», cfr. E. Burke, Reflections
on the Revolution in France (1790), Penguin Books, London 1970, p. 191.
42
Cfr., in lingua italiana, N. Daniele, Istituzioni di diritto scolastico, Simone, Napoli 1981; M. Cocco-
ni, Il diritto europeo dell’istruzione: oltre l’integrazione dei mercati, Giuffrè, Milano 2006. Nel contes-
to internazionale, cfr. D. Haag The right to education: what kind of management? A study prepared for
the International Bureau of Education, UNESCO, Paris 1982.
43
E. Hunt Botting, Wollstonecraft, Mill and women’s human rights, cit., p. 140.
44
Ibidem, p. 142.

51
Infatti, mediante l’operato di una serie di commissioni e tramite diversi
atti parlamentari45, si giunse, progressivamente, a una riformulazione
dell’intero universo educativo. Fu introdotta prima l’istruzione elementare,
poi la secondaria. Parallelamente venne riformato il sistema universitario46
e fu introdotta la technical education. L’Education Act del 1870 tentò per la
prima volta di coordinare questi diversi ‘mondi’ secondo un piano unitario.
L’Elementary School Code del 1904 ratificava l’esigenza di arricchire il
programma di studi con insegnamenti di lingua e letteratura inglese, storia,
geografia, musica, educazione fisica e igiene, nonché con lavoro manuale
per i ragazzi e attività domestiche per le ragazze.
La piena uguaglianza di genere nel sistema scolastico venne realizzata
mediante un processo più lento, le cui più profonde implicazioni sostanziali
restano ancora tra le priorità delle policy governative47.

Considerazioni conclusive

Oggi voci isolate come quella della giovane pakistana Malala, insignita
del premio Nobel per la pace nel 2014, ci ricordano che nel mondo con-
temporaneo quello all’educazione è un diritto umano universale48.
Come ben dimostra il wording della Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo del 1948 – in cui l’’educazione’ è richiamata otto volte – essa
non è soltanto concepita come un diritto sociale autonomo (art. 26) ma è
altresì nominata nel Preambolo, a riconoscimento della sua pervasiva fun-
zione di empowerment rispetto agli altri diritti umani.

45
Cfr. J. Kamm, Hope deferred, cit., pp. 152-244; B. Simn, Studies in the history of education, 1780-
1870, cit., pp. 277-368.
46
Cfr. ivi, pp. 281-298. Per un inquadramento più ampio, cfr. C. Driver, The exploding university,
Hodder and Stoughton, London-Sydney 1971.
47
La prima università britannica a consentire alle donne un piano di studi paritario a quello maschile fu
la University College di Londra, nel 1878. Nel 1880 si laurearono le prime quattro donne del Regno
Unito. Oxford e Cambridge rimasero inaccessibili alle donne più a lungo: il primo college di Oxford ad
ammettere un’istruzione paritaria fu il Nuffield College nel 1937; il primo college misto a Cambridge fu
il Darwin, sin dalla sua fondazione nel 1964. Il Churchill, il Clare e il King’s College furono i primi
college maschili ad ammettere studentesse, dal 1972. L’ultimo ‘single-sex college’ di Oxford, il St. Hil-
da’s, è divenuto misto soltanto nel 2008. Alcuni Permanent Private Halls sono ancor oggi rivolti soltan-
to agli uomini. A Cambridge invece restano oggi solo tre college ‘single-sex’ (tutti femminili):
il Murray Edwards (New Hall), il Newnham e il Lucy Cavendish. Per quanto riguarda le policy più re-
centi in tema di educazione paritaria si veda l’Equality Act and Schools del 2010: https://www.gov.uk/-
government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/315587/Equality_Act_Advice_Final.pdf .
48
Cfr. Malala Yousafzai con Christina Lamb, Io sono Malala. La mia battaglia per la libertà e
l’istruzione delle donne, con una nuova prefazione dell’autrice e un’intervista inedita, Garzanti, Milano
2013.

52
In questo contributo si è seguito il processo evolutivo esemplificato dal
caso inglese, che conobbe un graduale passaggio da una visione che confi-
nava la questione educativa nell’ambito delle attività filantropiche e carita-
tevoli, sino a un approccio che le attribuiva una portata via via più ampia:
prima come ‘dovere sociale’ poi come ‘diritto’ legalmente riconosciuto. Un
nodo essenziale delle posizioni intellettuali che si sono qui brevemente ri-
proposte è quello teorizzato sia da Wollstonecraft sia da Mill, secondo cui
lo sviluppo educativo è un elemento imprescindibile per il flourishing uma-
no.
Adottando una distinzione formulata da Alan Ryan, esistono due signi-
ficati dell’espressione ‘educazione’: uno più stretto, narrow, che corrispon-
de a ‘istruzione’; e uno più ampio, wide, che implica una ricerca tipicamen-
te umana volta al perseguimento della vita libera e virtuosa49. Come evi-
denziato da Amartya Sen, «c’è qualcosa di molto appealing nell’idea che
ogni persona, ovunque nel mondo, indipendentemente dalla propria cittadi-
nanza, dalla residenza, o razza, classe, casta o comunità, possegga alcuni
diritti di base che gli altri devono rispettare»50, ed è ben nota la sua argo-
mentazione a favore dell’inclusione dei diritti socio-economici nell’ambito
dei diritti umani, tra cui spicca il diritto all’educazione nel suo significato
wide51.
L’approccio di Sen, condiviso da Martha Nussbaum, e molto influente
nel panorama delle odierne teorie dei diritti umani52, risulta in qualche mi-
sura compatibile con l’argomento contenuto nelle formulazioni normative
ufficiali a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Si tratta,
in ultima istanza, di un’idea già abbozzata, come si è visto, nelle teorizza-
zioni di Wollstonecraft e di Mill53, ovvero di un ragionamento fondato su

49
Cfr. E. Hunt Botting, Wollstonecraft, Mill, and women’s human rights, cit., p. 119. Si veda anche A.
Ryan, J.S. Mill on education, “Oxford Review of Education”, 5, 2011, pp. 653-667.
50
Ibidem, p. 355.
51
A. Sen, The idea of justice, Penguin Books, London 2009, pp. 379-385. Cfr. anche M. Nussbaum,
Creating capabilities. The human development approach, Harvard University Press, Cambridge (MA)
2011; ID., Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino,
Bologna 2013.
52
Cfr. F. Biondo, Benessere, giustizia e diritti umani nel pensiero di Amartya Sen, Giappichelli, Torino
2003; S.F. Magni, Etica delle capacità. La filosofia pratica di Sen e Nussbaum, Il Mulino, Bologna
2006.
53
Sull’influenza di Wollstonecraft e Mill su Sen si veda: A. Sen, Reason, freedom and well-being,
“Utilitas”, 1, 2006, pp. 80-96. L’articolo fu scritto in risposta alle posizioni di autori come Mozaffar
Qizilbash (Capability, happiness and adaptation in Sen and J.S. Mill, “Utilitas”, 2006/1, pp. 20-32) o
Robert Sugden (What we desire, what we have reason to desire, whatever we might desire: Mill and Sen
on the value of opportunity, “Utilitas”, 2006/1, pp. 33-51), che individuarono corrispondenze molto
profonde tra Sen e Mill. L’autore rispose alle accuse confermando con «orgoglio» di «dovere moltissi-
mo al pensiero di Mill» (p. 81). Tra i suoi «intellectual instigators» Sen annoverò anche «Adam Smith
(particularly for his investigation of rationality and of capability), Mary Wollstonecraft (in particular,

53
una prospettiva educativa intesa quale processo permanente in grado di da-
re corpo e spessore alle diverse capacità umane. Un approccio, infine, anco-
ra troppo poco diffuso nelle varie latitudini del mondo, dove il genere,
spesso, sembra ancora fare la differenza54.

for her exposition of human rights in general and of the importance of women’s rights in particular),
[…] Karl Marx (notably for teaching us that the most terrible inequalities may be hidden behind an illu-
sion of normality and justice), and – coming to our own times – Kenneth Arrow (for, among other
things, his pioneering development of axiomatic social choice theory which serves as the methodologi-
cal foundation for a substantial part of my own intellectual efforts)». Un altro testo che mette a confron-
to il pensiero di Sen con quello di Wollstonecraft e di Mill è S. Bergers, Why women hug their chains:
Wollstonecraft and adaptive preferences, “Utilitas”, 2011/1, pp. 72-87, in part. pp. 83-85.
54
Cfr., tra gli altri, i dossier di EACEA, Save the Children, UNICEF, ai seguenti link: ea-
cea.ec.europa.eu/education/eurydice/documents/thematic_reports/120IT.pdf; images.savethechildren.it-
/IT/f/img_pubblicazioni/img97_b.pdf; www.unicef.it/doc/225/le-barriere-allistruzione-delle-bambine.-
htm.

54
Angelina Emily Grimké
‘Connessioni di destino’
Cura, interdipendenza, convivialismo*

Alberto Pirni

ABSTRACT: The essay focuses on the concept of interdependence. First, it frames the concept
within the Convivialist Manifesto. It consequently explores the development of such a
concept within the ethics of care perspective, to which the same Manifesto explicitly refers.
The essay puts then in dialogue both theoretical contexts, by identifying a methodical
approach towards some connections of destiny, namely towards unavoidable challenges of
interdependence for the intercultural and global age.
KEYWORDS: interdependence, ethics of care, Convivialist Manifesto, global age

‘Connessioni di destino’: un primo inquadramento


In che senso potremmo dire che il nostro tempo è necessitato ad elabora-
re, comprendere ed esplorare ‘connessioni di destino’ che uniscono l’in-
tero genere umano in forme del tutto inedite rispetto al passato? Secondo
un primo e preliminare inquadramento, l’ammontare della posta in gioco ci
è divenuto familiare almeno a partire dall’ondata di studi rientranti all’in-
terno dell’etichetta ‘globalizzazione’. È per lo più noto l’elenco di questioni
sistemiche che tali studi hanno analiticamente sondato: dalla difficoltà di
offrire un paradigma economico in grado di colmare le più abissali disugua-
glianze ancora operanti tra diverse aree del pianeta alla crescente problema-
ticità dell’utilizzo delle risorse ambientali in forme intergenerazionalmente
responsabili, dalla necessità di contemplare e gestire la sostenibilità di on-
date migratorie e di confronti interculturali in grado di scompaginare i tes-
suti giuridico-sociali esistenti all’obiettivo affanno della tradizionale teoria
e pragmatica politica nell’offrire una proposta di ‘governance’ trasversal-
mente condivisa di tali fenomeni, solo per ricordarne sommariamente alcu-
ne.
Per altro, se ci si volesse soffermare solo su quest’ultimo punto,
l’esclusiva radicalità delle sfide che il presente pone di fronte a noi sembra
invitare a tentare altre strade, al di là di riprese ‘a freddo’ di vie istituziona-
*
Data di presentazione: 10 dicembre 2016; data di accettazione: 26 gennaio 2017. Affiliazione: Scuo-
la Superiore “Sant’Anna” di Pisa; indirizzo email: a.pirni@santannapisa.it.

La società degli individui, n. 58, anno XX, 2017/1 ISSN 1590-7031, ISSNe 1972-5752
lizzanti, ovvero di più o meno artificiose domestic analogies tra un imma-
ginario di Stato moderno e un simulacro di Stato globale di là da venire
(dall’essere auspicato?).
Tuttavia, per nostra fortuna, reale o apparente, il catalogo della contem-
poraneità sembra offrire più di una proposta di comprensione del nostro
tempo e più di un tentativo di affrontarne le sfide. Tra queste, si vorrebbe in
questa sede analizzare criticamente la proposta teorica articolata nel Mani-
festo convivialista, che innanzitutto ha il pregio di porre con interculturale
icasticità il profilo delle sfide presenti e di proporre un metodo di lavoro
comune per affrontarle a livello globale, incentrato sulla consapevolezza
della vulnerabilità e dell’interdipendenza dell’umano. Rispetto a questo in-
sieme tematico, si intende quindi esplicitare alcune ‘connessioni di genere’,
che soggiacciono alla proposta convivialista, con particolare riferimento
alla dimensione della cura, che contribuisce ad arricchire significativamen-
te la prospettiva metodica di accesso e confronto con molte di tali sfide.

La proposta analitica e metodica del Manifesto convivialista


Il Manifesto convivialista costituisce il risultato maturo di un percorso di
ricerca di un ampio gruppo di intellettuali e docenti universitari, pubblicato
in forma di volume nel 2013, in Francia1. Tale esercizio di confronto vir-
tuosamente interdisciplinare si deve ad Allain Caillé, che ha raccolto intor-
no alla “Revue du MAUSS” un gruppo di intellettuali e docenti universitari
che desideravano variamente proseguire la linea di ricerca di Marcel
Mauss, ovvero il cosiddetto «paradigma del dono»2.
Ma cosa è il Manifesto e cosa contiene? Innanzitutto, il suo intento di
fondo: le autrici e gli autori di tale innovativo scritto ritengono di aver colto
un bisogno fondamentale dell’umano: il bisogno di pensare – per usare una
famosa formula – che «un altro mondo è possibile», ovvero il bisogno di

1
Manifeste convivialiste. Déclaration d’interdépendance, Le Bord de l’eau, Lormont 2013. L’agile
volume ha avuto da subito un grande successo internazionale e può ora essere letto in ben tredici lingue.
Per quanto riguarda l’edizione italiana, il Manifesto convivialista è uscito quale primo numero della
“Piccola Boulé – Collana di Filosofia e Scienze umane”: Manifesto convivialista. Dichiarazione
d’interdipendenza, prefazione di G. Lingua e A. Pirni, postfazione di F. Fistetti, ETS, Pisa 2014.
2
Il riferimento va qui a M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società ar-
caiche, in ID., Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965. Non è questo il contesto
per approfondire questo tema. Forse più interessante è ricordare che il cognome dell’antropologo e so-
ciologo francese sia stato utilizzato da Caillé come acronimo del Movimento Anti-Utilitarista nelle
Scienze Sociali (MAUSS). Intorno al Manifesto Convivialista si è per altro costruito un portale internet,
che è rapidamente diventato un vero e proprio movimento d’opinione (www.lesconvivialistes.org).

57
avere la forza teorica e argomentativa per opporsi ad un ordine di cose, a li-
vello mondiale, che da molti punti di vista appare ingiusto3.
Sul piano della struttura interna, il Manifesto si presenta come un testo
tanto agile quanto articolato nel suo insieme.
Dopo un’ampia introduzione, volta a identificare le minacce del presen-
te ma anche le promesse di miglioramento che l’oggi contiene.
Segue poi un primo capitolo, volto a identificare quella che gli autori
chiamano «La sfida centrale», ovvero «la madre di tutte le minacce»:

come gestire la rivalità e la violenza tra esseri umani? Come indurli a coopera-
re, per svilupparsi e dare ciascuno il meglio di sé, pur consentendo loro di contrap-
porsi senza massacrarsi? Come opporsi all’accumulazione di un potere, ormai illi-
mitato e potenzialmente autodistruttivo, sugli uomini e sulla natura?4

Il secondo capitolo si concentra sulle «quattro più una questioni di ba-


se», ovvero su quattro temi sui quali può trovarsi facile condivisione, anche
a livello interculturale, più una quinta, sulla quale ci si può spesso dividere
piuttosto che unire (si tratta della questione religiosa e dell’ammissione cir-
ca la sua rilevanza o meno).
Il capitolo terzo è il più denso sul piano concettuale e definitorio: viene
qui precisato il concetto di convivialismo e i quattro principi che dovrebbe-
ro sostenerlo.
Il quarto capitolo costituisce una esplicitazione delle quattro questioni di
base, fornendo allo scopo considerazioni morali, politiche, ecologiche ed
economiche. Infine, il quinto capitolo intende prospettare una realizzazione
concreta dell’insieme tematico proposto e si pone il tema del che fare?, ov-
vero della necessità di pensare una rottura e una transizione possibile verso
un altro ordine mondiale.

Tra potere e felicità, tra desiderio e paura. Calandosi più direttamente nel
testo, emerge fin da subito l’avvertimen-to di un destino ancipite per
l’uomo contemporaneo, che si concreta in una doppia contrapposizione. In-
nanzitutto, in quella tra potere e felicità: da un lato, l’umanità non ha mai
disposto di così tante risorse materiali e competenze tecnico-scientifiche. È
quindi ricca e potente come non è mai stata. Che tale stato di cose implichi
la felicità, però, non è esito provato da nessun dato di evidenza empirica.

3
Manifesto convivialista, cit., p. 12.
4
Ibidem, p. 20.

58
Lo stesso avvertimento si delinea nella reazione a tale stato di cose, pla-
smando una seconda contrapposizione, questa volta tra desiderio e paura:
si tratta del fortissimo e variamente espresso desiderio di proseguire con il
cammino di potenza e di controllo dell’umanità su se stessa e sull’intero
pianeta, ma, al tempo stesso, della crescente paura di perdere il controllo e
che quanto creato si rivolga contro di noi con una forza non più contrastabi-
le.
Se si dovessero idealmente unire le due dicotomie, si potrebbe condivi-
dere l’affermazione della «paura di non avere abbastanza potere», ovvero di
non riuscire a mantenere un perdurante controllo sul nostro destino colletti-
vo, guidata dalla percezione di vettori di negatività che appaiono non con-
trastati da paralleli vettori di sviluppo positivi. Le due dinamiche («incre-
mento del potere» e «incremento della paura»), rischiano insomma di non
incontrarsi e di non potersi neutralizzare a vicenda, perpetuando così la si-
tuazione esistente.

«Come contrapporsi senza massacrarsi?» Giunge per questa via sul terreno
argomentativo quella che viene definita «la madre di tutte le minacce», ov-
vero: «come contrapporsi senza massacrarsi?» Torna qui il problema del
potere, ma questa volta accompagnato al bisogno della cooperazione, che
dà così vita ad una terza dicotomia: appunto quella tra potere e coopera-
zione.
Esistono risposte storicamente consolidate a questa minaccia, insieme
ad altre, contemporanee, che stanno acquisendo un ruolo rilevante: dai vari
movimenti di difesa dei diritti dell’uomo e della donna, del cittadino, del
lavoratore, del disoccupato, dei bambini alle cooperative di produzione o di
consumo, dal commercio equo alle monete parallele, dall’economia del
contributo digitale (come Linux o Wikipedia) alla decrescita e al post-
sviluppo, dai movimenti come Slow food, Slow town, Slow science, all’eco-
logia politica e alla radical democracy, fino ad arrivare agli Indignados,
Occupy Wall Street o alle teorie del care.
Tutti questi tentativi hanno al fondo un humus comune? È rispondendo a
questa domanda che emerge una prima definizione di convivialismo:
«un’arte di vivere insieme (con-vivere) che valorizzi la relazione e la coo-
perazione e permetta di contrapporsi senza massacrarsi, prendendosi cura
degli altri e della natura»5. Il convivialismo si scopre così all’intreccio di
due bisogni antropologicamente fondamentali: quello al riconoscimento
della propria individualità e quello di concordia.

5
Ibidem, p. 22.

59
Quattro questioni di fondo: verso la cura. Si giunge in questo modo alla
delineazione di quattro questioni trasversali ad ogni possibile teoria e di
impatto planetario.

La questione morale: che cosa è permesso agli individui sperare e cosa si devo-
no proibire? – La questione politica: quali sono le comunità politiche legittime? –
La questione ecologica: che cosa ci è permesso prendere dalla natura e cosa dob-
biamo darle in cambio? – La questione economica: per restare in accordo con le
risposte date alle questioni morale, politica ed ecologica, quale quantità di ricchez-
za ci è lecito produrre, e in che modo?6

Si tratta di una formulazione consapevolmente generica, al fine di chia-


mare a raccolta su un nucleo problematico condivisibile il maggior numero
di specialismi disciplinari e teorici. Il passo per altro prosegue individuando
un punto che orienta le quattro questioni di base verso una, unificante ma
per nulla tranquillizzante, nel suo porsi in concomitanza della nostra ‘epo-
cale’ povertà di pensiero: si tratta dell’«incapacità di riformulare l’ideale
democratico» – che resta il solo accettabile, in quanto il solo contemplante
una gestione dell’opposizione e del conflitto comunque pacifica. Tale ri-
formulazione si avrebbe solo spezzando una duplice strutturazione, ovvero
il doppio postulato che regola «il pensiero politico ordinario». Si tratta del
postulato del «primato assoluto dei problemi economici su tutti gli altri» e,
insieme, del «postulato della dovizia senza limiti delle risorse naturali (o
dei loro sostituti tecnici)»7.
È esattamente in questo contesto che, tra le altre, inizia ad identificarsi
una possibile proposta di contrasto a questa dinamica e, al tempo stesso, di
uscita dalla stessa empasse che la teoria politica tradizionale non sembra
saper diversamente gestire. Si tratta, appunto, della proposta incentrata
sull’idea del care, del prendersi cura.

Una pista è quella di stabilire che il benessere di tutti richieda la costruzione di


una società del care e lo sviluppo di politiche pubbliche che valorizzino sia il lavo-
ro per l’altro che coloro che praticano l’assistenza. Il care, la cura, la sollecitudine
– alle quali le donne per prime sono state storicamente assegnate – sono il proble-
ma principale degli esseri umani, perché sono la manifestazione più evidente del
fatto che nessuno si fa da solo e che noi tutti siamo dipendenti gli uni dagli altri. Il
care e il dono sono la concreta e immediata traduzione in atti dell’interdipendenza
generale del genere umano8.

6
Ibidem, p. 25.
7
Ibidem, p. 27.
8
Ibidem, p. 32.

60
Ripensare ‘connessioni di genere’: l’orizzonte di significato del care

Il riferimento esplicito al care – quindi alla correlativa ethics of care o


care ethics – giunge nel contesto del Manifesto convivialista un poco im-
provvisamente, ma certo non inaspettatamente, considerando la declinazio-
ne argomentativa che esso sviluppa9. Tale riferimento offre per altro l’op-
portunità di compiere una piccola digressione, volta a meglio inquadrare il
riferimento teorico in questa sede solo alluso.

L’avvio del dibattito: Gilligan e Noddings. Il riferimento al care rimanda


ad una modalità esclusiva di relazionarsi agli altri, pensata originariamente
sul modello dell’attenzione che la figura materna dedica al proprio bambi-
no. Si tratta di una peculiare modalità di attenzione all’altro, del prendersi
carico della persona che ci è accanto, ponendosi in ascolto e nella disponi-
bilità di supportare i suoi bisogni nella forma migliore possibile, appunto,
as mothering persons, per seguire l’espressione di Virginia Held10.
L’elaborazione dell’etica della cura si deve al lavoro di un gruppo di
teoriche femministe e alle loro ricerche, per la massima parte pubblicate a
partire dagli anni ottanta del secolo scorso ovvero, innanzitutto, a Carol
Gilligan e Nel Noddings11.
Essa nasce come opposizione nei confronti della teoria dello sviluppo
morale di Kohlberg, nel quadro di una più generale critica dell’indivi-
dualismo liberale e di ampliamento del dibattito sull’influentissima opera di
John Rawls, A theory of justice12.
Secondo una prima approssimazione ormai consolidata, l’etica della cu-
ra individuerebbe il proprio scopo unificante nel soddisfare bisogni concreti

9
Si è innanzitutto soffermata su questo tema Elena Pulcini, offrendone una preziosa visione
‘dall’interno’, essendo lei stessa una dei due co-autori italiani del Manifesto medesimo, accanto a Fran-
cesco Fistetti. Cfr., dunque, in primo luogo: E. Pulcini, Care et convivialisme. Un commentaire du Ma-
nifeste convivialiste, “Revue du Mauss”, 43, 2014/1, pp. 41-43.
10
Il riferimento è qui a V. Held, Feminist morality. Transforming culture, society and oolitics, Univer-
sity of Chicago Press, Chicago 1993. A sua volta, Held attinge questa peculiare indicazione teorica da
S. Ruddick, Maternal thinking. Towards a politics of peace, Beacon Press, Boston 1989.
11
Per un inquadramento complessivo del pensiero femminista (e dell’etica della cura in tale contesto)
cfr. F. Restaino, Il pensiero femminista. Una storia possibile, in F. Restaino, A. Cavarero, a cura di, Le
filosofie femministe, Paravia, Torino 1999, pp. 11-110; W. Kymlicka, Introduzione alla filosofia politica
contemporanea, Feltrinelli, Milano 1996, spec. cap. 6. Tra i più recenti approfondimenti specifici: B.
Casalini, L’etica della cura e il pensiero femminista: tra dipendenza e autonomia, in Th. Casadei, a cura
di, Donne, diritto, diritti. Prospettive del giusfemminismo, Giappichelli, Torino 2015, pp. 171-192.
12
V. Held, Ethics of care, in D. Copp, a cura di, Oxford handbook of ethical theory, Oxford University
Press, Oxford 2006, pp. 537-566, p. 542 e ss.

61
di individui in contesti specifici e in maniere responsabili13. Si tratta quindi
di una proposta che mira all’effettività della risposta morale e pragmatica
alla richiesta di cura, inquadrando tale risposta in relazione a spazi e tempi
definiti e secondo modalità alla portata del soggetto erogatore di cura (e del
suo correlativo ed esplicito impegno in tal senso).
Provando a ripercorrerne la stratificazione teorica, alla meritoria tesi di
laurea di Carol Gilligan si deve innanzitutto lo sviluppo di una rilevante cri-
tica a Lawrence Kohlberg, all’epoca suo mentore. Come è noto, Kohlberg
ipotizza sei livelli raccolti in tre fasi complessive di sviluppo morale. Egli,
sulla scia di Piaget, connotò sul piano psicologico-evolutivo la sua teoria,
attribuendo all’infanzia la fase pre-convenzionale, all’adolescenza quella
convenzionale, all’età adulta quella post-convenzionale, riguardante lo svi-
luppo di un modello morale individuale basato sui principi universali e
astratti di uguaglianza e reciprocità14. Secondo Kohlberg, le donne si ferma-
vano sostanzialmente alla seconda fase, avendo maggiore difficoltà a svi-
luppare regole e principi universali.
La critica di Gilligan parte esattamente da qui. La giovane studiosa
obiettò innanzitutto che lo studio sperimentale era viziato fin dalla scelta
del campione (prevalentemente maschile); inoltre, esso sarebbe stato biased
dalla focalizzazione su un unico modello di moralità, fondato sull’esclusiva
valorizzazione di doveri astratti e obblighi, ad avviso dell’autrice decisa-
mente ascrivibile ad una modalità di matrice solo maschile. Infine, sul pia-
no logico-argomentativo (ovvero su quello che Apel e Habermas, entrambi
fini lettori di Kohlberg, direbbero «della contraddizione performativa»)
l’obiezione potrebbe essere riassunta in questi termini: se i principi indivi-
duati come universali di fatto lo sono solo per uomini e non sono raggiun-
ti/raggiungibili per le donne, non possono essere rubricati come realmente
universali. Parte da qui la necessità di descrivere l’universo morale in a dif-
ferent voice, per riprendere il titolo del suo celebre volume15.
Il punto teorico dal quale ha preso avvio l’elaborazione teorica che si sa-
rebbe riconosciuta nell’etica della cura parte dunque da un’esigenza di

13
Per un inquadramento complessivo e insieme analitico, rinvio a: S. Brotto, Etica della cura. Una
introduzione, Orthotes, Napoli 2013; A. Papa, L’identità esposta. La cura come questione filosofica,
Vita e Pensiero, Milano 2014.
14
Il testo di riferimento è il lavoro di L. Kohlberg, The development of modes of thinking and choices
in years 10 to 16, Ph.D. Dissertation, University of Chicago, Chicago 1958.
15
C. Gilligan, In a different voice. Psychological theory and women’s development, Harvard Universi-
ty Press, Cambridge 1982; il volume è stato tradotto con il titolo: Con voce di donna. Etica e formazio-
ne della personalità, Feltrinelli, Milano 1987. Cfr. anche l’importante lavoro di J.C. Tronto, Confini
morali. Un argomento politico per l’etica della cura (1993), Diabasis, Reggio Emilia 2006.

62
maggiore comprensività, ovvero dalla necessità di «ampliare lo sguardo»16
rispetto ad un modo di impostare l’agenda della vita pubblica – ma anche la
definizione dei ruoli e delle dimensioni del privato – che ha storicamente
privilegiato il punto di vista maschile.
È questa stessa preoccupazione a guidare la riflessione di un’altra prota-
gonista del dibattito, Nel Noddings. Attenta lettrice di Gilligan, Noddings
ha cercato di elaborare uno dei più caratterizzanti «valori aggiunti» del ca-
ring, ovvero la capacità di gestire il confronto e il conflitto in forme tenden-
ti a ridurre le degenerazioni oppositive17.
Ciò, come facilmente intuibile, si pone del tutto in linea con il già ricor-
dato pensiero ricorrente di MAUSS: dare risposta alla domanda su come gli
esseri umani siano in grado di «opporsi senza massacrarsi», ovvero di con-
frontarsi, mantenendo le reciproche differenze, senza per questo arrivare ad
annientarsi. Tale risultato, secondo l’autrice, potrebbe essere un esito della
preferenza della modalità deliberativa face-to-face che la cura incentiva in
modo esclusivo.
A Noddings si deve anche l’elaborazione di una serie di articolazioni in-
terne al lessico della cura, da quella di prestatore individuale di cura (one-
caring) al destinatario della cura stessa (cared-for), ossia la distinzione tra
azioni – pragmatiche – ed effettivi servizi di cura (caring for) e le intenzio-
ni – teoretiche – di cura (caring about). Ad ella si deve però anche un tenta-
tivo di limitare l’orizzonte della cura: proprio in forza della modalità face-
to-face, non si può curare/prendersi cura di tutti, bensì solo di chi può entra-
re in una relazione reciproca con noi, secondo cerchi concentrici di socia-
lizzazione, al fondo ben delimitati e certo non infiniti18.

L’affermazione dell’ethics of care e l’ampliamento teorico-politico: Held e


Tronto. Pur partendo dallo stesso humus, è parzialmente differente l’esito al
quale perviene la riflessione di Virginia Held, alla quale si deve anche una
significativa attività di impulso alle ricerche sul tema19. Volendo proporre
una schematica collocazione del suo pensiero, si potrebbe sostenere che

16
Il riferimento va qui allo studio di A. Loretoni, Ampliare lo sguardo. Genere e teoria politica, Don-
zelli, Roma 2014. Cfr., anche, ID., Individualismo, autonomia e conformismo nello spazio pubblico.
Teoria politica e studi di genere, in A. Pirni, M. Sghirinzetti, a cura di, Dovere e responsabilità, oltre
l’individualismo, “Lessico di Etica Pubblica”, 5, 2014/2, pp. 19-42.
17
N. Noddings, Caring. A feminist approach to ethics and moral education, University of California
Press, Berkeley 1984.
18
È questa tesi sostenuta anche in N. Noddings, Starting at home. Caring and social policy, University
of California Press, Berkeley 2002.
19
V. Held, a cura di, Justice and care. Essential readings in feminist ethics, Westview Press, Boudler
1995.

63
Held prende avvio esattamente laddove Noddings si ferma. In primo luogo,
ella ritiene infatti che l’universo del caring sia un ottimo veicolo per criti-
care alcuni eccessi formalistici e spersonalizzanti tipici delle teorie liberali
della giustizia. Le relazioni sociali possono modularsi differentemente
quando sono sviluppate da, ovvero incorporano il punto di vista di persone
materne e ciò va nella direzione di personalizzare la relazione, orientandola
a determinare il consenso sul principio di giustizia chiamato in causa in uno
specifico contesto di discussione.
La cura diviene così compiutamente ethics of care, secondo un’espres-
sione in questo modo consolidata20, ed essa va pertanto pensata come codi-
ce morale e normativo di relazionalità da porre in atto oltre la sfera del-
l’amicizia e della famiglia, potendosi applicare a specifici ambiti di socia-
lizzazione (come il mondo del lavoro o delle cure propriamente mediche),
ma anche l’organizzazione della società, il farsi della (migliore) vita politi-
ca, fino a immaginare che l’etica della cura possa divenire veicolo per ri-
pensare ed affrontare, secondo un differente profilo, questioni e sfide glo-
bali.
È per altro collocabile sulla stessa linea anche l’influente riflessione di
Joan Tronto, che rafforza in maniera ancora più icastica il legame tra etica
della cura e teoria politica21. L’autrice considera anzi esplicitamente «peri-
coloso», ossia controproducente rispetto alla stessa «causa della donna» vo-
ler mantenere la traduzione pratica dei temi dell’inizio o fine vita, ossia del-
la vulnerabilità nell’esclusivo alveo delle attività e preoccupazioni materne
e femminili: ciò esonererebbe implicitamente «l’altra metà del cielo» dal
prendersene carico, e sortirebbe al fondo una sorta di autosegregazione del-
la donna22. Per scongiurare tale esito, bisogna ad avviso di Tronto identifi-
care e smascherare l’illegittimità di almeno tre «confini morali».
Il primo è quello tra morale e politica. Non pare infatti sostenibile una
rigida cesura tra cosa è ritenuto importante essere e fare, da una parte, e
come allocare risorse, mantenere l’ordine e come risolvere i conflitti rispet-
to a questi due temi, dall’altra. In realtà, tale distinzione e confine si deve

20
A lei si deve infatti la prima voce a tale tema dedicata, che ne sancisce appunto la formalizzazione
all’interno del quadro delle discipline morali: V. Held, Ethics of care, cit. Di peculiare rilevanza il suo
lavoro più sistematico: ID., The ethics of care. Personal, political, global, Oxford University Press, Ox-
ford 2006.
21
Ciò avviene in forma esplicita almeno da J.C. Tronto, C. Cohen, K. Jones, a cura di, Women tran-
sforming politics. An alternative reader, New York University Press, New York 1997. Cfr. anche J.
Tronto, Cura e politica democratica, “La società degli individui”, 38, 2010/2, pp. 34-42; ID., Caring
democracy. Markets, equality, and justice, New York University Press, New York 2013.
22
Per un più ampio inquadramento all’interno dell’alveo tematico dell’etica della cura rimando a A.
Grompi, Vulnerabilità come conditio umana. Alcune considerazioni a partire dall’approccio dell’etica
della cura, “Rivista elettronica della Società Italiana di Filosofia Politica”, 2016 (eprints.sifp.it/397/).

64
esclusivamente all’etica moderna, che i pensatori contemporanei hanno ra-
dicalizzato, teorizzando sia il primato della morale sulla politica, sia il con-
trario. L’etica della cura supporta, ad avviso di Tronto, l’uscita da tale im-
passe, teorizzando un’ideale riconnessione di morale e politica nella deter-
minazione di un complessivo ideale di vita buona.
Il secondo confine riguarda il punto di vista morale, che, almeno da
Kant in avanti, presuppone l’assunzione, da parte di ogni teoria – quindi di
ogni agente – morale, di un atteggiamento disinteressato e non coinvolto
nel singolo contesto di azione o valutazione. Tale atteggiamento colloche-
rebbe la morale al di fuori della sfera delle emozioni e dei sentimenti, man-
tenendola esclusivamente entro la sfera della ragione. Ciò implica un ulte-
riore confine, ovvero un allontanamento della teoria morale dalla pratica
comune che l’etica della cura può contribuire a ripensare e a decostruire
criticamente.
L’ultimo confine è quello tra vita pubblica e vita privata. Le donne – il
loro ruolo e la loro possibile influenza – sarebbero state storicamente ‘con-
segnate’ all’interno della seconda dimensione vitale. Il mantenimento di ta-
le ulteriore ‘confine’, ha di fatto limitato fino ad escludere un loro ruolo
pubblico e la possibilità di modificare stilemi di parte (maschile) che nel
contesto della vita pubblica continuano a rimanere, in forme per lo più au-
to-riproducentesi a prescindere dal contesto concreto.
A partire da questa assunzione di consapevolezza, Tronto teorizza non
l’abolizione di tali confini, quanto piuttosto la loro ricomprensione critica a
partire da una ‘connessione’ dei medesimi alla prospettiva di genere, per un
verso, alla dimensione della cura, per l’altro. Sotto questo profilo, ad esem-
pio, sono significative le sue parole volte a decostruire «una falsa dicoto-
mia», quale quella tra cura e giustizia.
In relazione – ma distinguendosi – da teoriche femministe che hanno so-
stenuto l’incompletezza di ogni teoria della cura a meno che essa non sia
inserita in una teoria della giustizia23, Tronto sostiene piuttosto che ogni
teoria della giustizia che non sia integrata da una teoria della cura è incom-
pleta. Ella elabora questo convincimento sulla scorta di un argomento di
Susan Moller Okin, che non trova legittimata la presupposizione di recipro-
co disinteresse nel quale vivrebbero gli individui nella posizione originaria
rawlsiana, ritenendo anzi che la stessa potrebbe essere totalmente compati-
bile anche con una relazionalità di ognuno con ogni altro24.

23
Cfr. B. Houston, Caring and exploitation, “Hypatia”, V, 1990/1, pp. 115-119; C. Calhoun, Justice,
care, gender bias, “The Journal of Philosophy”, LXXXV, 1988/9, pp. 451-463.
24
S.M. Okin, Le donne e la giustizia. La famiglia come problema politico (1989), Dedalo, Bari 1990.

65
Tronto completa idealmente tale argomento, sostenendo che non vi sono
ragioni per pensare alla giustizia al di fuori dell’orizzonte della cura, ossia
della percezione e pragmatica dell’interdipendenza tra individui che conno-
ta l’esistere in quanto esseri umani25.
È a questo intero ambito di riflessione – e specificamente alle propaggi-
ni più recenti, che tendono a ricondurre la cura alla teoria politica e
all’interdipendenza tra esseri umani che sta alla base di ogni teoria della
giustizia che ambisca ad un qualche titolo di universalità – che pare possi-
bile ricostruire un alveo comune tra etica della cura e convivialismo. Se ne
vorrebbe, in ciò che segue, provare a tratteggiare alcune linee.

Il care nel contesto del Manifesto convivialista

La cura e l’etica della cura continuano dunque a costituire un orizzonte


di rilevante novità sul piano della teoria morale e politica contemporanea.
L’orizzonte tematico qui solo rapidamente riassunto, ma che rimanda ad un
dibattito ancora compiutamente in corso, si ritiene restituisca la percezione
di un insieme problematico sicuramente ampio e potenzialmente in grado di
interloquire con molteplici ambiti teorici26.
Il Manifesto sul convivialismo si propone dunque come un ideale inter-
locutore di tale paradigma, accomunando care e dono nella focalizzazione
della cifra dell’interdipendenza tra i componenti del genere umano e di
questi ultimi con l’ambiente che ne ospita la vita27. La proposta di tale ac-
comunante parallelismo contribuisce tuttavia a rinnovare una questione
molto dibattuta all’interno della prospettiva del dono, alla quale anche la

25
J.C. Tronto, Confini morali, cit., p. 186 e ss. Tronto si avvicina qui alla posizione di D. Bubeck, Ca-
re, gender and justice, Oxford University Press, Oxford 1995, p. 11 e ss. Più sfumata risulta la posizio-
ne di Held, che prospetta la migliore integrazione tra cura e giustizia nella reciproca distinzione e asse-
gnando ad ognuno priorità a seconda del contesto. Ciò però vale in linea di principio. Nei casi di ‘ur-
genza morale’, il contributo offerto dall’ethics of care giunge sempre a integrare l’effettività di una de-
terminazione di giustizia, cfr. V. Held, Ethics of care, cit., pp. 548-549 e ID., Rights and the presump-
tion of care, in M. Friedman, L. May, K. Parsons, J. Stiff, a cura di, Rights and reasons: essays in honor
of Carl Wellmar, Kluwer, Dordrecht 2000, pp. 65-78). Per una discussione critica delle proposte di
Tronto si veda: L’etica della cura: le tesi di Joan Tronto, “Notizie di Politeia”, 3, 2007, pp. 173-206
(con contributi di J. Tronto, Th. Casadei, A. Grompi, S.F. Magni, P. Cicognani); B. Casalini, Joan
Tronto: la care ethic come etica pubblica, in B. Casalini, L. Cini, Giustizia, uguaglianza, differenza.
Una guida alla lettura della filosofia politica contemporanea, Firenze University Press, Firenze 2012,
pp. 178-183.
26
Si sofferma sui più recenti sviluppi del dibattito, con particolare riferimento alla discussione circa la
potenziale ambiguità, restrittività o elitarietà che connoterebbe alcune traduzioni pragmatiche dell’im-
pianto normativo dell’etica della cura, lo studio di S. Brotto, Etica della cura, cit., pp. 81-90 e 139-144.
27
«Il care e il dono sono la concreta e immediata traduzione in atti dell’interdipendenza generale del
genere umano», cfr. Manifesto sul convivialismo, cit., p. 32.

66
cura non può preventivamente sottrarsi. Alludo qui al tema della reciproci-
tà, pensato ora non più tra soggetti donanti ma, diremmo, tra soggetti cu-
ranti, ossia erogatori e destinatari di relazioni di cura.
Introduce nuova materia di riflessione su questo specifico versante un
recente confronto intercorso tra Alain Caillé e Francesco Fistetti sulla so-
cietà conviviale28. In tale contesto, Fistetti invita Caillé a ripensare il nesso
tra convivialismo e paradigma del dono, e lo propone proprio lungo la linea
di affiancamento di quest’ultimo alla teoria del care, seguendo quanto ori-
ginariamente proposto da Elena Pulcini29. In un recente intervento, Pulcini
cerca di ridefinire l’idea di dono (e, correlativamente, di cura) al di fuori
dell’orizzonte di simmetria e reciprocità30. Si tratta di assumere un princi-
pio di realismo e di evidenza fenomenologica, che fa emergere un’obiettiva
difficoltà di chiedere entrambi i requisiti, specie se la dimensione della cura
e del dono si distanziano dal rapporto interpersonale e face-to-face, per as-
surgere a principio ispiratore di condotta politica. Ancora più contro-
effettuale appare la ricerca di simmetria in situazioni di emergenza globale,
nei quali una parte dona in o si prende cura di una situazione (magari post-
bellica, o di emergenza ambientale) senza che sia possibile immaginare una
reale reciprocità, spesso neppure in orizzonte diacronico.
In quel contesto, replicando a Pulcini e riprendendo la linea maussiana,
Caillé ribadiva le esigenze di simmetria e reciprocità del dono, al fine di
evitare l’auto-sacrificio del donatore e lo ‘schiacciamento’ del ricevente il
dono, che lo condannerebbe alla consapevolezza della propria impotenza o
debolezza, morale e materiale31. Nel nuovo contesto di discussione egli ri-
formula il punto in senso comprensivo, limitando l’idea maussiana ad una
«reciprocità semplice» che andrebbe integrata attraverso l’idea di un «dono
allargato»32.

28
Merita di essere ricordato che Francesco Fistetti è un altro protagonista del dibattito sul conviviali-
smo, avendo anche avuto ruolo attivo quale co-autore del Manifesto, e contribuendo alla riflessione teo-
rica in merito nel contesto internazionale ed italiano specificamente. Tra i suoi lavori, possono qui esse-
re menzionati almeno: F. Fistetti, La svolta culturale dell’Occidente. Dall’etica del riconoscimento al
paradigma del dono, Morlacchi, Perugia 2010; P. Chanial, F. Fistetti, Homo donator. Come nasce il
legame sociale, il Melangolo, Genova 2011; F. Fistetti, Convivialità. Una filosofia per il XXI secolo, il
Melangolo, Genova 2017.
29
F. Fistetti, U.M. Olivieri, a cura di, Verso una società conviviale. Una discussione con Alain Caillé
sul Manifesto convivialista, ETS, Pisa 2016, p. 32 e ss.
30
E. Pulcini, Quelques questions du convivialisme, “Revue du MAUSS”, 43, 2014/1, pp. 253-257.
L’autrice sviluppa tale idea, all’interno di una più ampia comprensione delle sfide dell’età presente, in
ID., La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp.
187-291.
31
A. Caillé, Quelques réponses à…, “Revue du MAUSS”, 43, 2014/1, pp. 269-275.
32
F. Fistetti, A. Caillé, Il convivialismo: che cos’è? Una conversazione di Francesco Fistetti con Alain
Caillé, in F. Fistetti, U.M. Oliveri, a cura di, Verso una società conviviale, cit., pp. 5-38, p. 33 e ss.

67
Giunge a supportare tale convincimento la rilettura delle pagine che il
sociologo Alvin Gouldner, dopo essersi dedicato alla norma di reciprocità,
raccoglie nel saggio dal titolo The importance of something for nothing:
dove vi sono situazioni di dissimmetria troppo marcata tra donatore e rice-
vente il dono (donatario), non può e non deve esserci reciprocità33. Ciò,
estensivamente, vale per qualsiasi potenziale donatore che si trovi al riparo
da (macroscopiche) debolezze e vulnerabilità. In questi casi, si giunge a un
limite moralmente invalicabile alla reciprocità. Tale limite arresta dunque
l’istanza universalistica e auto-rigenerantesi del dono e della cura? La ri-
sposta (negativa) a tale domanda Caillé la motiva proponendo l’idea di un
dono allargato.

Da quest’impasse si esce ragionando in termini di dono allargato, analogamente


a ciò che fa Lévi-Strauss quando distingue tra scambio semplice e scambio genera-
lizzato, per come è tipico tra le donne. Nel dono come nello scambio generalizzato,
A dà a B che dà a C, che dà a D, che dà ad A. Di conseguenza, […] colui/colei che
prodiga il care, non appare come un donatore unilaterale, asimmetrico, ma come
un donatore che ha ricevuto e riceverà a sua volta da parte di un altro34.

Ci si confronta qui con un approccio pressoché speculare, una sorta di


vero e proprio ‘contro-circuito’ rispetto a quello della irresponsabilità pri-
vilegiata, seguendo la categoria elaborata da Tronto35. Tale categoria è uti-
lizzata dall’autrice per descrivere il fenomeno che permette a chi occupa le
posizioni più avvantaggiate all’interno di una società di ricevere migliore
soddisfazione ai bisogni di cura per sé e per il proprio ambito ristretto di
affettività, possiamo immaginare, acquistando care-services, ossia delegan-
do ad altri o, preferibilmente, ad altre, il lavoro diretto di care-giving, evi-
tando così la responsabilità di impegnarsi in prima persona nella cura.
In questo modo si arriva a una situazione del tutto polarizzata: da un lato
si prospetta un carattere di donatività concreta ma, per così dire, senza con-
fini, ovvero che presuppone l’allargamento meta-contestuale della relazione
di cura e il valore progressivamente incrementale dell’atto iniziale, susci-

33
Ad esempio, nella relazione dei genitori con i propri figli, ossia di adulti sani con anziani invalidi
non ha senso attendersi piena (spesso anche solo parziale) reciprocità. Cfr. A.W. Gouldner, Per la so-
ciologia. Rinnovo e critica della sociologia dei nostri tempi, Liguori, Napoli 1977.
34
F. Fistetti, A. Caillé, Il convivialismo: che cos’è?, cit., p. 34. Caillé riprende il medesimo tema in
Anti-utilitarismo e paradigma del dono. Le scienze sociali in questione (2014), a cura di F. Fistetti,
Diogene Edizioni, Campobasso 2016, in part. pp. 3-32.
35
L’elaborazione di questo punto si origina quale ideale prolungamento della riflessione sul secondo
dei quattro elementi di un’etica della cura: interessarsi a, prendersi cura di – che appunto abilita la re-
sponsabilità della cura –, prestare cura, ricevere cura. Cfr. J.C. Tronto, Confini morali, cit., pp. 150-
152; pp. 155-164.

68
tando ‘esternalità morali’ a saldo positivo; dall’altro si assiste ad una mone-
tarizzazione completa del rapporto di cura, che di fatto ne riduce fino a nul-
lificare il valore morale, quando esso – al di là di ovvie esigenze di compe-
tenza tecnica spesso non gestibili in prima persona – si profila come com-
pleta delega, fino all’esautorazione da responsabilità personale. Mentre il
secondo legame non genera diffusione di relazionalità – nello specifico
senso del «dono allargato» –, il primo ne è indefettibile propagatore. E ciò,
si badi, tende anche a battere in breccia ogni possibile egoismo, che al fon-
do non fa che confermare, amplificandolo, il nostro orizzonte e destino di
esseri vulnerabili36.
Caillé insiste e precisa questo tema anche nel più recente Critica del-
l’uomo economico37. Qui, e precisamente nel capitolo intitolato «Al di là
dell’interesse», l’autore, nuovamente sulla scorta del maussiano Saggio sul
dono, delinea quattro poli «del dono e dell’azione»: l’obbligo, contrapposto
alla libertà, e l’interesse (per sé), contrapposto ad una sorta di ricompren-
sione empatica dell’interesse per altri, ossia a ciò che egli qualifica come
aimance38.
Inserendo tale neologismo, Caillé intende appunto uscire dalla dinamica
riduttiva dell’interesse come matrice antropologica abbinata all’homo eco-
nomicus, per muoversi piuttosto verso l’edificazione di un modello di homo
convivialis. In tal modo, mentre dal lato dell’interesse di sé si collocherà
«la conservazione di sé e il desiderio di sopravvivenza», come pure la riva-
lità e l’indifferenza verso gli altri, il calcolo strumentale e il conflitto, dal
lato dell’aimance si colloca «l’amicizia, la philia, […], l’amore», come pu-
re la caritas, la solidarietà, la fiducia, e così via.
In seguito, ritornando esplicitamente sul tema, diverrà più esplicito il pa-
rallelismo tra tale termine e quello di empatia, per come elaborato da Adam
Smith, ma soprattutto diverrà chiara l’idea della fondamentalità costitutiva
dell’umano che Caillé intende rilevare per l’aimance. L’autore propone
dunque in questi termini quella che abbiamo in avvio qualificato come
‘connessione di destino’ dell’umanità, che resta qui legata all’indicazione
di vulnerabilità e correlativa interdipendenza di cui dono e cura sono sim-
boli.
Conclusivamente, nei termini complessivi qui discussi, la proposta con-
vivialista si profila come un messaggio che non rinuncia all’utopia e, so-

36
Sul tema, tra i contributi più recenti, cfr. F. Ciaramelli, La cultura dell’egoismo e la sfida del convi-
vialismo, in F. Fistetti, U.M. Oliveri, a cura di, Verso una società conviviale, cit., pp. 45-64; J.M. André,
Da un’antropologia della solitudine a un’etica della cura, “Teoria”, XXXVI, 2016/2, pp. 71-88.
37
A. Caillé, Critica dell’uomo economico. Per una teoria anti-utilitarista dell’azione, trad. e cura di F.
Fistetti, il Melangolo, Genova 2009.
38
Ibidem, pp. 58-61.

69
prattutto, non rinuncia alla speranza di un diverso mondo e socialità possi-
bile. Si tratta della prospettiva di un aiuto concreto tra persone diverse, che
non esclude il conflitto e la necessità di percorrere proprie strade ma che
non svaluta il potenziale della cooperazione che risiede in ogni uomo, spes-
so troppo misconosciuto dalla teoria politica ed economica.
Si colloca esattamente a questo punto, a mio avviso, il principale tema
di interesse del Manifesto convivialista: una proposta teorica in grado di of-
frire una nuova e contemporanea risemantizzazione al concetto di cura, in
termini trans-contestuali e intergenerazionali. È questa una tipologia di cu-
ra che sta ad ognuno di noi provare a porre in atto, con la consapevolezza
dell’insufficienza del livello interpersonale, della sola vicinanza face-to-
face, della capacità di ascolto e rispetto esercitato tra pochi. Essa apre inve-
ce il suo orizzonte alla più ampia dimensione sociale, nella quale soltanto
può trovare senso una proposta di riconfigurazione della cura che certo non
dimentica la sua origine teorica nell’ambito della riflessione femminista e
di genere. In questo modo, ossia prendendo su di sé l’onere di una migliore
spiegazione della connessione di destino per l’uomo, ovvero della cura co-
me interdipendenza, il convivialismo si propone non solo di rendere più
sopportabile la sfida della quotidianità individuale, ma di rendere forse non
già preliminarmente destinata alla sconfitta la promessa della sopravviven-
za dell’umano nel suo insieme.

70
Dunque la cittadinanza
va pensata come spazio
delle connessioni,
del riconoscimento e
anche della cura come di-
mensione costitutiva.
Un realismo di genere?

TRAIETTORIE PER UN FEMMINISMO di genere è assunta da Loretoni co-


INTERSEZIONALE me «presupposto metodologico»
per affrontare alcune fondamentali
Thomas Casadei categorie della politica: autonomia,
cittadinanza, diritti, soggettività e
Il volume di Anna Loretoni offre spazio pubblico.
un esempio paradigmatico di come I profili epistemologici del proget-
si possa praticare una filosofia to sono accuratamente delineati nel
politica ispirata da un approccio primo capitolo del volume, in cui
polare anziché dicotomico, e di vengono precisati gli strumenti
quanto questa scelta possa essere adottati e la molteplicità degli indi-
feconda nel contesto del dibattito su rizzi da cui essi sono trattati, con la
diverse sfide del presente. precisa intenzione di non identifi-
Mentre la dicotomia funziona con carsi in «alcuna etichetta».
logica binaria e impone sempre una L’elaborazione di Loretoni inten-
alternativa dove tertium non datur, de collocarsi nel campo di quella
ossia non ammette sfu- che Pierre Bourdieu defi-
mature o passaggi da nisce come «lotta cogni-
una delle due possibilità Anna Loretoni, tiva sul senso delle cose
all’altra, l’opposizione Ampliare lo sguardo. del mondo e in partico-
polare consente sfuma- Genere e teoria politica, lare delle realtà sessuali».
Donzelli, Roma 2014,
ture intermedie di pas- Ciò che infatti determina
pp. XIV-192, € 30
saggio e posizioni ‘me- l’accondiscendenza delle
diane’ tra i due estremi. donne al dominio ma-
Se l’autrice aveva del resto già of- schile è un processo pervasivo di
ferto buona prova di questa possibi- educazione che ha a lungo compor-
lità nei suoi studi sulle forme della tato una forma di assoggettamento
guerra giusta, tertium fra le prospet- come «abdicazione di ogni volon-
tive del pacifismo e del realismo tà», un sistema culturale e simboli-
politico, con quest’opera mostra co- co al quale è stato assai (e ancora in
me un tale approccio possa essere parte è) difficile sottrarsi. «La forza
adottato anche con riferimento ai dell’ordine che da siffatto dominio
dilemmi che, a partire dal genere, deriva si misura in base alla consta-
ruotano attorno alla relazione tra tazione che esso non deve giustifi-
differenza ed eguaglianza. La teoria carsi, proprio perché si impone co-

La società degli individui, n. 58, anno XX, 2017/1 ISSN 1590-7031, ISSNe 1972-5752
me neutro, naturale e perciò ine- punto di snodo è che la teoria
vitabile», ossia come specifica mo- femminista, secondo Loretoni, non
dalità di violenza simbolica. Si trat- può fermarsi all’opera di
ta di una forma di «violenza mite» «decomposizione» del quadro
che si istituisce attraverso l’ade- d’insieme, ma da qui deve far
sione che chi è dominato non può muovere la sua «ricomposizione»,
non accordare al dominante allor- misurando la sua efficacia nel
ché, «per pensare quella relazione, mettere in atto la trasformazione
ha a disposizione solo gli strumenti della realtà.
concettuali che ha in comune con Quello che ne scaturisce è una
lui, cosicché gli schemi per valutare forma di realismo forte, un reali-
e valutarsi sono l’effetto di quella smo di genere che non teme di mi-
divisione, gerarchizzazione, classi- surarsi con le strutture politiche e
ficazione» che produce il prodotto giuridico-istituzionali, oltre a quelle
della dominazione. culturali, economiche e sociali.
Per scardinare tale struttura di re- Adottando una «visione propul-
lazioni – imperniata nella dimen- siva del diritto», Loretoni sviluppa
sione oscura e impenetrabile degli la sua analisi a vari livelli: dallo
habitus – Loretoni ricorre ad una Stato nazionale – e dalle tensioni
peculiare concezione del realismo, insite nella «cittadinanza dimezza-
anche in questo caso ricorrendo, sul ta» che lo ha a lungo caratterizzato
piano metodologico, alle potenzia- – la sua riflessione si allarga allo
lità di un approccio polare che situa spazio europeo fino ad arrivare al
tale specifica forma di realismo tra contesto internazionale. Infatti, per
il classico realismo politico e le «cartografare» «sia le costanti della
istanze della critica decostruttiva. struttura del dominio, la gerarchia
Attingendo in questo caso alla al vertice della quale sta la legge del
riflessione di Catharine MacKin- Padre», che connota il patriarcato,
non, Loretoni differenzia la sua pro- «sia i meccanismi attraverso i quali
spettiva dal realismo politico in essa si riproduce in forme inedite»,
quanto, pur condividendone la cau- è necessario che l’ambito del pen-
tela metodologica volta ad una di- siero e della proposta femminista si
sincantata analisi della realtà e delle ampli e vada verso le reti globali,
sue ambivalenze, non ne condivide transnazionali e sovranazionali, tan-
il fondamentale discredito nei con- to nell’analisi dei problemi quanto
fronti di ogni ipotesi normativa in nella formulazione delle soluzioni».
grado di modificare la realtà stessa. Le soluzioni, come si vedrà qui di
D’altro canto, l’approccio dell’au- seguito, si muovono, superando
trice intende differenziarsi anche «false separazioni», nella direzione
dal decostruzionismo, del quale pu- di inedite configurazioni che vengo-
re ritiene decisiva la forza nel di- no illustrate, attraverso una ricchis-
svelare pregiudizi e occultamenti: il sima rete di rimandi, nei diversi ca-

74
pitoli che compongono il libro; esse ce linguistica meglio in grado di
possono essere descritte con espres- mostrare l’onnipervasività del pote-
sioni significative come «individua- re e del dominio sulle coscienze».
lismo relazionale» (cap. II), «citta- Tale «via mediana» pare essere sta-
dinanza multilevel” (cap. III), «uni- ta sperimentata proprio dalle donne
versalismo contestualizzato» (cap. «che hanno saputo allentare, e in al-
IV), «soggettività plurime e interse- cuni casi rescindere, i legami con
zionali» (cap. V). quelle comunità in cui venivano
Nel secondo capitolo dell’opera, identificate, creando al tempo stesso
Loretoni rileva, con dovizia di rife- inediti percorsi individuali, ma an-
rimenti alla letteratura internazio- che nuovi legami con comunità
nale degli ultimi decenni, come «u- elettive».
na delle sfide più interessanti che Ad una siffatta teoria antropolo-
gli studi di genere hanno posto alla gica si connette una peculiare con-
tradizione liberale concerne l’inter- cezione della cura che, sulla scorta
pretazione di cosa sia l’individuo e delle riflessioni di Eva Kittay e
di quanto siano rilevanti le relazioni soprattutto di Joan Tronto, viene ri-
intersoggettive e sociali, tanto nella declinata in senso politico. Si ge-
costituzione dell’identità individua- nera così la possibilità di integrare
le quanto nel modo di abitare in- ciò che a lungo è stato separato in
sieme lo spazio pubblico della po- guise di coppie contrapposte e an-
litica». tinomiche, secondo la logica di tipo
Recuperando le elaborazioni di binario dello ‘stereotipo epistemo-
Virginia Held, Axel Honneth, Nan- logico’: cura e giustizia ma anche
cy Fraser, Charles Taylor e Amar- sensibilità ai contesti e autonomia
tya Sen, Loretoni argomenta come individuale, nonché, come si vedrà
sia possibile elaborare un’«interpre- più avanti, particolarismo e univer-
tazione dell’individuo in chiave re- salismo.
lazionale». Tale proposta rappre- Insieme agli studi di genere, le
senta – sempre entro un approccio teorie critiche del riconoscimento,
polare – una possibile «mediana» l’etica della cura, ma anche gli studi
rispetto a tre approcci: «l’individua- sulla disabilità, «aiutano dunque a
lismo astratto di origine liberale, metterci in guardia da un certo mo-
che vede nella presenza dell’altro dello di individualismo, che si è raf-
un rischio all’accrescersi della pro- forzato grazie alla rimozione della
pria autonomia»; «gli eccessi del relazione di dipendenza e tramite il
comunitarismo olistico che rischia misconoscimento dei legami che si
di risucchiare quell’esperienza di li- stabiliscono fra gli esseri umani».
bertà in un abbraccio mortale»; Su tale rimozione si è costruita an-
«l’ipotesi di un soggetto postmoder- che la forma classica della cittadi-
no che fluttua tra una declinazione e nanza, che Loretoni prende in esa-
l’altra, alla ricerca della performan- me e decostruisce nel corso del ter-

75
zo capitolo del volume. La prospet- pensi alla Carta di Nizza del 2000 o
tiva di genere affrontando il con- alla Convenzione di Istanbul del
cetto di cittadinanza «ne ha messo 2011) e globale (a cominciare dalla
in luce il carattere dilemmatico, o Conferenza di Pechino del 1995).
aporetico, o ambivalente, mettendo L’esito è una sorta di ‘cittadinanza
in discussione l’interpretazione per- multilevel’, ove spazio privato e
lopiù accreditata, fondata troppo spazio pubblico sono strettamente
semplicisticamente sull’ipotesi di interconnessi come hanno
una progressiva inclusione». suggerito, in anni recenti, gli
Richiamando le riflessioni critiche approcci ispirati al gender
di Maria Luisa Boccia, nonché mainstreaming e volti alla piena
quelle di Carole Pateman e Susan parità tra donne e uomini.
Moller Okin, Loretoni rileva come A quest’altezza del ragionamento
anche «nel pensiero politico recente viene a collocarsi un’altra peculiare
la maggior parte delle teorizzazioni forma di mediazione che l’autrice,
continui ad evitare il tema, eminen- ricollegandosi alle diverse riflessio-
temente politico, della dimensione ni critiche in tema di diritti umani
dello spazio privato». Come per il maturate negli ultimi decenni, pro-
concetto di autonomia individuale, pone nel corso del quarto capitolo
«ragionare nei termini di una com- in tema di universalismo. Spingen-
piuta cittadinanza di genere signi- dosi «oltre un universalismo astrat-
fica riflettere anche sulle forme di to ed etnocentrico», ella approda
dipendenza di cui è piena la vita as- all’idea di un «universalismo conte-
sociata e da cui dipende la vita indi- stualizzato» che si basa su una par-
viduale». Non si può dunque im- ticolare concezione dei diritti uma-
maginare la cittadinanza come spa- ni: accantonando la tesi di una loro
zio separato da ciò che viene col- fondazione naturale, essi sono con-
locato nello spazio impolitico del cepiti come «risposta e protezione a
privato: essa va pensata come spa- ingiustizie, oppressioni, discrimina-
zio delle connessioni, del riconosci- zioni, non solo su base individuale,
mento e anche della cura come di- ma anche collettiva e statuale». Pro-
mensione costitutiva. Questioni ri- prio tale caratteristica «fornisce ai
maste a lungo sullo sfondo – come diritti umani un’origine di tipo “po-
la violenza domestica, le molestie litico”, universale e insieme nego-
sessuali, le discriminazioni nei luo- ziabile e contestualizzabile». Si trat-
ghi di lavoro – divengono rilevanti ta di una forma di universalismo
entro gli spazi di public reasoning che assume molteplici declinazioni:
sulla cittadinanza e le sue confi- esso può essere inteso, con Norber-
gurazioni e questo all’interno di una to Bobbio, «come processo»; capa-
discussione che tende a superare i ce di farsi «plurale», mediante «la
confini degli Stati nazionali per lettura incrociata dei contenuti delle
aprirsi alla dimensione europea (si diverse culture, analizzate l’una con

76
i concetti dell’altra, come ha spie- di Che cos’è la politica? «rivela
gato Raimon Panikkar; di divenire molti punti di interesse per chi in-
«strategico», nell’accezione di Ga- tenda declinare una visione della
yatry Chakravorty Spivak: «se l’u- polis che si affranchi sia dalla con-
niversalismo è un saper procedere flittualità estrema che nega ogni co-
insieme agli altri che marciano di- munanza tra gli individui, sia dalla
versamente […], ogni contesto do- più rassicurante interpretazione che
vrebbe essere messo in grado di allo stare insieme attribuisce un va-
proporre agli altri un proprio discor- lore, nella misura in cui questo è
so sui diritti umani, capace di ope- finalizzato alla creazione di un bene
rare una fertilizzazione cross-cul- comune in cui tutti e tutte dovreb-
tures». bero riconoscersi». L’accento posto
Alla luce di quanto osservato sin da Hannah Arendt e dal femmini-
qui, si può addivenire, come è il- smo che abbraccia l’idea di un rea-
lustrato nel quinto capitolo dell’o- lismo di genere «sul darsi di una
pera, ad inedite articolazioni anche pluralità fondata sulla differenza fa
dello spazio pubblico e delle sog- scaturire la possibilità per gli esseri
gettività che lo abitano. Le lotte umani di vivere uno spazio comune
delle donne consentono di consta- senza addossarsi vicendevolmente,
tare la funzione produttiva delle ri- uno spazio in cui l’affermazione
vendicazioni. Il sentimento dell’in- della propria libertà non è mai di-
giustizia è infatti in grado di scate- sgiunta dalla presa in carico della
nare una dinamica rivendicativa presenza degli (e in un certo senso
che, attraverso la partecipazione at- dalla distanza con) gli altri». La
tiva al cambiamento sociale da par- proposta che scaturisce da questo
te dei gruppi marginalizzati – come approccio sensibile alla pluralità e
ha efficacemente argomentato Iris alle molteplici forme di differenza è
Marion Young – abilita «a ridefi- quella di un ‘femminismo interse-
nire i principi consolidati di giu- zionale’. La sua attenzione si con-
stizia e ingiustizia nei contesti spe- centra – lo suggerisce per prima una
cifici, producendo rinnovate forme esponente del femminismo nero e
di titolarità e di cittadinanza capaci della Critical Race Theory come
di disinnescare i dispositivi esclu- Kimberly Crenshaw – su «incroci»
denti e stigmatizzanti» e, dunque, di e «intersezioni fra assi di potere»
ridefinire arendtianamente, all’inse- creati dall’intreccio di elementi co-
gna della pluralità, le dimensioni me razza, classe, cultura, religione.
dello spazio pubblico. Il richiamo Come queste relazioni interagiscano
arendtiano consente a Loretoni di nei diversi contesti e concorrano a
mettere alla prova un’ulteriore pra- definire la condizione di inegua-
tica all’insegna della polarità. L’in- glianza, discriminazione, oppressio-
terpretazione della politica e dello ne, diviene questione rilevante e de-
spazio pubblico offerta dall’autrice cisiva.

77
Elizabeth Cady Stanton alla prima Conferenza per i diritti delle donne,
Seneca Falls (NY), 19 luglio 1848
Non si tratta, anche in questo ca- ste quanto da quelle populiste che le
so, di mettere in contrapposizione sfidano radicalmente. Ma cittadi-
approcci distinti, come all’interno nanza, identità, cultura, diritti pos-
del binarismo, quanto piuttosto di sono essere ancora considerati con-
praticare una «politica dell’attra- cetti politici, strumenti ermeneutici
versamento» che sappia decostruire capaci cioè di comprendere il pre-
e rielaborare strategie a più livelli: a sente, di significarlo e anche di
partire dalle esperienze specifiche orientarne politicamente le trasfor-
dei diversi contesti sino alla dimen- mazioni?
sione transnazionale e globale, en- Di fronte al disordine dei nostri
tro una dimensione di interrelazione tempi, nell’ambito del dibattito filo-
e connessione ben rappresentata dal sofico-politico occidentale si assiste
neologismo «intermestic politics», per lo più a una discussione che
che supera la dicotomia a lungo verte sull’esaurimento di un intero
consolidata tra domestic e interna- apparato categoriale, quello della
tional politics. È su questa base che modernità. Discussione certo non
si può definire il compito degli wo- nuova per la filosofia politica, se ri-
men’s studies nel presente: imba- pensiamo a tutto il pensiero della
stire una riflessione trasversale, crisi che segna i primi decenni del
cross-border, «atta a decostruire e Novecento, o al dibattito sulla post-
smascherare gli impianti dominan- modernità innescato dall’uscita nel
ti» e a supportare, costruttivamente, 1979 del lavoro di Jean-François
una cittadinanza pluralista e demo- Lyotard su La condizione postmo-
cratica, capace di mandare effetti- derna, ma che l’accelerazione spa-
vamente in frantumi le antiche cor- zio-temporale impressa dall’avven-
nici, ovvero le strutture del domi- to della globalizzazione e le radicali
nio, senza correre il rischio di ri- trasformazioni e riconfigurazioni
produrle. che lo spazio politico sta subendo a
partire dal 1989 e poi ancora di più
dopo l’11 settembre 2001, ripropo-
PENSARE IL PRESENTE ne nella diagnosi con una forza pari,
ATTRAVERSO IL PRISMA DEL GENERE però, all’afasia che accompagna la
prognosi. Il nostro presente ci ri-
Maria Laura Lanzillo flette senza possibilità di illusioni la
crisi in cui versano sia lo Stato de-
Cittadinanza, identità, cultura, mocratico di diritto sia le sue pro-
diritti: sono tutte parole che costel- messe di libertà e uguaglianza. Fi-
lano il nostro lessico politico quoti- glie e figli del Novecento, della
diano, al centro del dibattito pubbli- teoria critica e del decostruzioni-
co, rivendicate in ugual modo da smo, siamo tutte e tutti sufficiente-
destra e da sinistra, tanto dalle forze mente disincantati per essere consa-
politiche che si proclamano riformi- pevoli che questa crisi e quel fal-

79
limento sono uno dei possibili esiti analisi ‘scientifiche’ e quelle solu-
delle aporie che fin dall’origine zioni ai problemi che il loro statuto
inquietano il paradigma della sta- epistemologico promette (o promet-
tualità democratica. Penso, per teva). Le politiche sociali attuali si
esempio, al rapporto contraddittorio trovano infatti ad affrontare sfide
fra universale e particolare che at- globali suscitate da fenomeni i cui
traversa tutte le categorie del Mo- sviluppi futuri appaiono difficil-
derno, all’immaginazione di una mente prevedibili e soprattutto in-
precisa antropologia politica che compatibili con i tempi della scelta
non riconosce le differenze (sociali, politica e degli strumenti a sua di-
religiose, etniche o di genere) che sposizione. Da qui un senso di in-
sottostanno alla costruzione statuale soddisfazione, di mancanza, di ina-
e alle sue istituzioni politiche e so- deguatezza dei dispositivi ermeneu-
ciali, allo squilibrio fra capitale e tici a nostra disposizione per com-
lavoro su cui si regge l’intero pa- prendere e agire nel presente.
radigma dell’uguaglianza liberale, e A questa sfida prova coraggiosa-
la lista potrebbe essere allungata mente a offrire una risposta, assu-
senza difficoltà. mendosene tutto il rischio, il lavoro
Se le diverse analisi e le diverse di Anna Loretoni, Ampliare lo
narrazioni del nostro presente disor- sguardo. Genere e teoria politica,
dinato che sono state fornite in que- in cui l’autrice mette al centro della
sti ultimi anni (dalla «società del ri- propria indagine il genere. Genere è
schio» alla «società liquida», dalla peròinteso non come una posizione
«post-democrazia» alla «controde- alternativa al mainstream della teo-
mocrazia»), pur cogliendo aspetti ria politica, ma come un presuppo-
importanti della novità della nostra sto metodologico, un modo diverso
contemporaneità – che la conferma- di affrontare l’interrogazione sulla
no se non altro come l’epoca del politica, non limitandosi ad allar-
lungo addio al Moderno – non rie- garne la prospettiva nel tentativo di
scono ad offrirsi ancora con quella superarne l’afasia che stringe, ma
capacità di critica e progettualità al mobilitando la teoria stessa, che di-
tempo stesso che la modernità rac- venta allora nelle intenzioni di Lo-
chiude come nucleo più forte, tutta- retoni «capace di guadagnare sem-
via hanno il merito di sottolineare la pre ulteriori angoli di visuale, nuovi
necessità, oserei dire l’urgenza, del- punti di vista e nuove inclusioni».
l’interrogazione sul presente. Non è Parlo di interrogazione, perché a
un caso allora se si assiste proprio mio giudizio siamo di fronte a un
in questi anni di crisi a un rinnovato libro che è al tempo stesso un libro
interesse per la filosofia, nel mo- di filosofia e un libro di filosofia
mento in cui le scienze sociali, poli- politica.
tiche ed economiche sembrano se- Perché un libro di filosofia. La
gnare il passo nell’offrire quelle questione dello sguardo, il vedere, è

80
il senso centrale della filosofia oc- come presume la tradizione occi-
cidentale fin dalle origini. Non a dentale nel tentativo di occultare
caso la parola «idea» ha la propria tramite una presunta naturalità uno
radice nella radice greca id- che è dei tanti atti di violenza epistemica
riconducibile al verbo greco orao, sessuata denunciati da Bourdieu nel
«vedo». Per via molto generale, suo Il dominio maschile, ma è lo
possiamo affermare che l’idea si sguardo di genere, dunque conno-
configura come una rappresentazio- tato, determinato, che si configura
ne mentale che l’occhio della ragio- non come contemplazione fissa, ma
ne vede e su cui riflette. Proprio per come movimento: che parte da un
questo l’idea è uno dei termini chia- punto situato, il genere appunto, e
ve e più dibattuti e discussi del di- da lì si allarga. E nell’allargarsi non
battito filosofico, da Democrito alla rimane puro e isolato, ma incontra e
filosofia novecentesca. interroga altri sguardi, si intreccia
Loretoni accetta la sfida teoretica con questi, entra in relazione, sta
del pensiero occidentale, accentan- nel mondo e incrocia gli sguardi
do il campo aperto della discussione delle donne e degli uomini che il
filosofica e scendendo sul terreno mondo abitano e nel mondo vivono,
del vedere, come dichiara fin dal ti- ampliando in tal modo anche i
tolo: ampliare lo sguardo. Ma lo confini in cui letture stereotipate e
sguardo filosofico non viene assun- ideologiche della differenza di ge-
to – ed è già nelle prime pagine che nere vorrebbero rinchiuderlo ridu-
si palesa la diversa modalità episte- cendolo a un alter ego uguale e
mologica su cui ponevo l’accento contrario del patriarcato e del fallo-
più sopra – alla stregua dello sguar- logocentrismo.
do filosofico così come ce lo ha tra- Non per caso il riferimento meto-
mandato la tradizione, vale a dire dologico, fin dal primo capitolo del
come uno sguardo presunto neutro e volume, è alla Feminist Standpoint
neutrale e che come tale sta in alto e Theory di Susan Harding, posizione
osserva dall’esterno (è questa la po- epistemologica da cui muove la cri-
sizione implicita che veicolano tica alla pretesa oggettività del pen-
espressioni ormai di senso comune siero e del fare filosofia. Lo sguardo
come «gli occhi della mente», o tut- di genere muove allora da un pre-
te quelle teorie filosofiche che da ciso punto che costituisce il «privi-
Platone a Hegel e oltre riconoscono legio epistemico», come lo defini-
la contemplazione dell’idea come sce Loretoni, delle donne. Le donne
un’ascensione, o costruiscono l’i- nella tradizione occidentale sono
dentificazione tutta teoretica fra in state rappresentate dallo sguardo
sé e per sé). Lo sguardo di cui par- maschile non come soggetti univer-
lano le pagine di Loretoni è uno sali, dunque non in alto dove sta per
differente, perché non è uno definizione l’universale, ma sempre
sguardo naturalmente asessuato, situate in una collocazione partico-

81
lare, un punto diverso, da cui però, ce perpetua, ma anche di Che cos’è
ed ecco che si manifesta il privi- l’illuminismo?, che insegna che la
legio, proprio per la sua partico- critica non è solo una metodologia
larità si vede il non visto, che per filosofica, ma anche, forse soprat-
esempio assume la forma della rela- tutto, una pratica politica.
zione di dominio e discriminazione, Con tale consapevolezza, affron-
il rovescio dell’universalismo prete- tate le questioni metodologiche nel
so neutro e neutrale. Da questa pro- primo capitolo, Loretoni ci conduce
spettiva metodologica le donne nella sua indagine filosofica attra-
mettono in crisi lo schema teoretico verso un’attenta e dettagliatissima
classico, perché divengono outsi- ricostruzione delle diverse teorie di
ders within, posizione ossimorica, genere prodotte negli ultimi decenni
in e out al tempo stesso, che «signi- e del paziente lavoro di decostru-
fica poter osservare le cose da più zione, smontaggio dei concetti fon-
punti di vista, producendo un diffe- damentali della modernità politica
rente modo di conoscere il mondo, che la teoria politica di genere (pra-
un nuovo realismo». Un realismo ticata da Joan Scott a Iris Marion
che Loretoni definisce «forte» pro- Young, da Carole Pateman a Carol
prio a indicare che la riflessione di Gilligan, da Luce Irigaray a Gayatri
genere non fugge dalla città e dalle Chakravorty Spivak, da Catharine
sue contraddizioni per rifugiarsi in MacKinnon a Martha Nussbaum, da
un mondo di rappresentazioni e im- Susan Moller Okin a Seyla Benha-
magini, ma nella città sta. bib ecc.) ha prodotto. Con l’aiuto di
E arrivo a rispondere al mio se- questo bagaglio metodologico e di
condo perché. Perché un libro di fi- pratica filosofica Loretoni si misura
losofia politica. Perché quello di nel prosieguo della propria indagine
Loretoni è un lavoro che discute con uno dei concetti chiave del pen-
tutte le questioni proprie del discor- siero liberale, l’autonomia del sog-
so filosofico-politico: la questione getto, a cui contrappone la riflessio-
dell’ordine, dello spazio pubblico, ne sul soggetto a partire dalla sua
dell’individuo e dei suoi diritti, del- dipendenza, dalla sua disabilità, dal
la giustizia, del riconoscimento, suo bisogno di cura.
dell’uguaglianza e della differenza, Il punto di vista del genere per-
della distinzione pubblico/privato, mette poi di affrontare da un’altra
della cittadinanza, della democra- visuale anche la questione della cit-
zia, tutti temi propri della filosofia tadinanza per mostrare che la nar-
politica da Platone a John Rawls, da razione tradizionale sulla costru-
Aristotele a Habermas. Con un au- zione della cittadinanza moderna
tore che costantemente accompagna come processo di inclusione politi-
l’autrice nel suo muoversi, nel suo ca e sociale progressiva secondo lo
ampliare, che è Kant, e direi so- schema classico teorizzato da Tho-
prattutto il Kant ‘politico’, della Pa- mas Marshall, non racconta la citta-

82
dinanza delle donne che arrivano ai ritti stessi. A questa altezza Loreto-
diritti di cittadinanza attraverso un ni fa reagire la proposta di Gayatri
differente percorso, non lineare, ma Spivak di un «universalismo stra-
complesso e contraddittorio, che fa tegico», la convinzione cioè che
sì che il tardivo riconoscimento dei «l’universalismo in definitiva è un
diritti politici alle donne segni anco- processo e non un dato acquisibile
ra oggi profondamente la cittadi- una volta per tutte», un percorso del
nanza femminile in gran parte delle quale «semplicemente non possia-
democrazie occidentali. Loretoni ri- mo fare a meno».
corda che porre il tema di una piena Da ultimo, l’autrice si confronta
cittadinanza in ottica di genere non con le diverse forme della soggetti-
significa limitarsi a porre una que- vità e con i modelli dello spazio
stione di pari opportunità, le cui po- pubblico. In queste pagine ampio
litiche peraltro, come quelle di af- spazio è dato alle questioni solle-
firmative actions, recano spesso vate dal dibattito sul multiculturali-
un’impronta patriarcale, né rivendi- smo, la cultura e la laicità, che ha
care solo un accrescimento di em- visto protagoniste anche le voci di
powerment femminile, ma si tratta molte filosofe: da Okin a Benhabib,
ancora una volta di ampliare lo da Phillips a Young e Braidotti. An-
sguardo così da poter vedere un che in questo caso l’assunzione del
«mutamento del piano complessivo punto di vista del genere permette
– materiale e immateriale – dei si- di vedere in modo differente e più
stemi democratici». ampio quello che il dibattito multi-
Un altro dei punti su cui si con- culturale alla Taylor o alla Kymli-
centra lo sguardo di genere è l’uni- cka non riesce a vedere. Sotto que-
versalismo dei diritti, guardato però sto profilo, la fruttuosa connessione
non come un tutto monolitico, ma fra cultura e prisma del genere con-
nei suoi diversi contesti (in questo sente a Okin, nel suo famoso in-
senso Loretoni parla di «universali- tervento Is Multiculturalism bad for
smo contestualizzato»), così da af- women?, di decostruire il concetto
frontare la questione dei diritti a di cultura al fine di svelarlo ben di-
partire dal loro rovescio, per veder- verso da quel bene primario so-
ne le discriminazioni che nel rove- stanziale e naturalistico, come in-
scio stanno, gli spazi di oppressio- vece lo raccontano i teorici del mul-
ne. Un movimento che però non ha ticulturalismo. Se certamente «la
il solo fine di criticare in quanto tale cultura è il mezzo con cui gli indivi-
il paradigma dei diritti una volta dui conferiscono significato al loro
svelatane l’implicita matrice pa- mondo, alla loro appartenenza e alle
triarcale, ma che è capace ancora loro identità. […] essa è anche il
una volta di ampliare lo sguardo, di tramite principale per riaffermare le
spostarsi per ripensare e ripraticare gerarchie sociali e i meccanismi di
il potenziale emancipatorio dei di- oppressione e di discriminazione».

83
E tuttavia la denuncia di Okin delle sia di evitare quella dimensione
trappole che si celano dietro la olistica che assumono le culture e i
rivendicazione delle culture corre a gruppi nella narrazione del multi-
sua volta il rischio di cadere in una culturalismo, ma per certi versi an-
nuova impasse molto simile a quell- che nelle critiche che Okin e Ben-
la che affligge certe teorie multi- habib rivolgono proprio al multicul-
culturali, e cioè di limitare il pro- turalismo.
prio sguardo a quello della donna Nel proprio ampliare lo sguardo
bianca e occidentale, di non sapersi Loretoni incrocia, nelle pagine con-
sottrarre alla gabbia dell’orientali- clusive del suo lavoro, quello di Ro-
smo, che da secoli, come ci ha inse- si Braidotti, di cui rilegge uno dei
gnato Edward Said, offusca lo saggi a mio giudizio più penetranti
sguardo dell’uomo (e spesso anche della filosofa olandese, pubblicato
della donna) europeo e occidentale. nel 2002 e dedicato ai temi del ge-
Ancora una volta, nella lettura di nere, dell’identità e del multicultu-
Loretoni è il prisma del genere che ralismo, nelle cui pagine Braidotti
ci può aiutare a uscire da questa aveva messo in guardia dal rischio
gabbia. Per esempio assumendo la di ciò che definiva «Fortezza Eu-
lente della politica della differenza ropa» e dal razzismo come esito del
proposta da Young, che reinterpreta multiculturalismo interpretato come
la differenza, a partire dalla diffe- una nuova forma di segregazione
renza delle donne, come specificità, politica, sociale, culturale.
ne fa una caratteristica e non una Mi sembra che proprio in queste
stigmatizzazione, che permette at- pagine finali emerga con significa-
traverso le proprie rivendicazioni di tiva evidenza che cosa significa uti-
relativizzare la cultura dominante, lizzare il prisma del genere, o, per
che diventa così una cultura fra le riprendere un’espressione di Han-
altre. Riprendendo Young, Loretoni nah Arendt, «pensare il presente».
propone un’idea del gruppo come A volere guardare, la crisi che oggi
gruppo collettivo, che «consente di ci appare in tutta la sua gravità c’era
pensare le donne come gruppo so- già tutta, solo che abbiamo chiuso
ciale la cui concettualizzazione però gli occhi, non abbiamo voluto ‘am-
è in grado di evitare il rischio di pliare lo sguardo’. Attraverso la
ipostatizzare un’identità femminile lente del genere, Braidotti invece in
comune a tutte, perché a tale gruppo quelle pagine proponeva, in oppo-
non vanno attribuiti un set di ele- sizione alla «Fortezza Europa» o al-
menti comuni che ogni componente la «Fortezza Occidente», un’idea e
deve possedere». Questo permette una pratica dell’Europa diversa, ca-
di pensare e relazionarsi con le don- pace di porsi come periferia e non
ne come con un’unità sì, ma un’uni- come centro, situata e collocata fra
tà mutevole, un collettivo sia capa- altre periferie, capace cioè di diven-
ce di andare oltre l’individualismo, tare uno spazio di relazioni incar-

84
nate e praticate, e perciò realmente al tempo stesso anche lo spazio del
uno spazio includente e multicultu- margine (il luogo dello spazio poli-
rale o interculturale. tico dove tradizionalmente stanno le
Come abbiamo visto, molti sono i donne) che da spazio di privazione
concetti e le questioni che Loretoni diventa vantaggio epistemico, am-
affronta nelle sue pagine, ma ho po- bito privilegiato. Un vantaggio ef-
sto l’accento su alcuni di essi in fettivo che permette a Loretoni di
particolare, perché mi permettono assumere la situazione reale delle
di esemplificare con chiarezza che donne reali come punto di interro-
cosa l’autrice intenda quando di- gazione e smontaggio dell’apparato
chiara all’inizio della propria in- categoriale della politica occiden-
dagine che assumerà il genere come tale. L’utilizzo del prisma del ge-
prisma, più che come lente, perché nere offre infatti il vantaggio di leg-
l’intento non è tanto vedere la realtà gere la realtà in maniera più com-
nei dettagli, come fa una lente, ma plessa e di comprendere come que-
mostrare «la realtà in quanto dimen- sta sia fatta anche di sovrapposi-
sione intimamente sfaccettata». Se zione di discriminazioni. Il genere
la realtà che passa attraverso il pri- mette al centro delle analisi delle
sma risulta sfaccettata, altrettanto lo scienze sociali l’importanza tanto
sguardo filosofico che incontra la dei fattori immateriali e simbolici
realtà attraverso il prisma del gene- quanto dei fattori materiali ed eco-
re si sfaccetta e se ne vedono i di- nomici nella costruzione delle dise-
versi colori e le diverse movenze guaglianze. Certo, Loretoni lo ri-
che lo compongono. corda fin dall’inizio, non è l’unico
La proposta teorica forte e ra- punto di vista con cui si deve leg-
dicale che anima le pagine di Am- gere la realtà, perché siamo con-
pliare lo sguardo è in definitiva sapevoli della necessità di utilizzare
quella di assumere il genere non co- prismi molteplici per leggere il no-
me concetto né tanto meno come stro presente. Ma assumere la mo-
essenza (e Loretoni è sempre consa- dalità critica e decostruttiva che lo
pevole dell’altissimo rischio filoso- sguardo di genere permette facen-
fico e politico al tempo stesso che si dola reagire in maniera intersezio-
cela dietro l’uso che di questo ter- nale con gli altri concetti propri
mine viene fatto certamente nel di- degli studi sull’appartenenza e l’i-
scorso pubblico ma spesso anche dentità (classe, razza, religione), ci
nel dibattito filosofico e nelle scien- permette di comprendere con più
ze sociali), ma come categoria cri- profondità la complessità della po-
tica e decostruttiva, che ha una por- sizione delle donne, e da qui la
tata «rivoluzionaria» perché per- condizione sociale del nostro tem-
mette di vedere dal margine qual- po.
cosa che chi sta al centro non riesce Dalle pagine di Loretoni emerge
a vedere, e che dunque rivoluziona in definitiva un fare filosofia dif-

85
ferente, inteso cioè come riflessione Arendt la necessità, per la teoria po-
sul presente, sul qui e ora, in oppo- litica, di stare nel presente, nel
sizione a una lunga tradizione di ri- mondo, nella vita, e di porsi in rela-
flessione filosofica che, come ha zione con il mondo e chi lo abita,
denunciato Hannah Arendt, fugge così che il ‘prendersene cura’ oltre
dalla realtà, dalla città, dal dionisia- che una pratica diventi una modali-
co, dalla vita, dalle sue relazioni e tà di pensiero. «Rimettere al mondo
dalla sua capacità di novità, e si ri- il mondo» è probabilmente uno dei
fugia nella vita teoretica delle idee, compiti più urgenti a cui la filosofia
nel sogno di un ordine politico da e la filosofia politica non possono
costruire sulla base della pura ra- più sottrarsi. Il libro di Loretoni è
gione. Loretoni riprende proprio da un primo passo in questa direzione.

86
L’idea di una differenza
sostanziale tra i sessi
della specie umana è
prevalsa, salvo pochissime
eccezioni, sin dall’alba dei
tempi. L’orgoglio di un
sesso e l’ignoranza e la
vanità dell’altro hanno
supportato questa opinione.
Eguaglianza tra i sessi e universalità della morale

Catharine Macaulay
a cura di Serena Vantin

In un saggio del 1998, John G.A. Pocock ha affermato che Catharine


Macaulay (1731-1791) è una sorta di «Hannah Arendt del diciottesimo se-
colo, ovvero una donna completamente impegnata a promuovere l’ideale
antico della cittadinanza attiva, e tuttavia completamente disinteressata al-
la sua preponderante mascolinità»1.
All’interno dell’ampia produzione letteraria dell’autrice, tuttavia, è
possibile individuare numerosi ragionamenti a sostegno dell’uguaglianza
ontologica degli esseri umani (uomini e donne) e dell’universalità dei sen-
timenti religiosi e morali.
A titolo d’esempio, si propone di seguito la traduzione di alcuni brani
tratti dalle Letters on Education with Observations on Religions and Meta-
physical Subjects: in particolare dalla Lettera XXII della Parte 1, dal titolo
Sull’assenza di differenze sostanziali tra i sessi, e dalla Lettera XII della
Parte 3, intitolata Sull’universalità dei sentimenti religiosi tra gli Antichi2.
In queste pagine Macaulay utilizza l’espediente dell’epistolario – appli-
cando uno stile discorsivo che sarà sviluppato di lì a poco anche da Sarah
Moore Grimké3 – per proporre brevi argomentazioni su temi filosofici assai
dibattuti all’interno del discorso pubblico e politico in Inghilterra «all’om-
bra della Rivoluzione francese» 4.

1
J.G.A. Pocock, Catharine Macaulay: Patriot Historian, in H.L. Smith, a cura di, Women Writers and
the Early Modern British Political Tradition, Cambridge University Press, Cambridge 1998, pp. 243-
258, qui p. 251.
2
C. Macaulay, Letters on Education. With Observations on Religious and Metaphysical Subjects
(1790), Cambridge University Press, Cambridge, 2014.
3
Cfr. S.M. Grimké, Poco meno degli angeli. Lettere sull’uguaglianza dei sessi, a cura di Th. Casadei,
con una nota bibliografica di S. Vantin, Castelvecchi, Roma 2016. A tal proposito, sia consentito
rinviare al mio I «segreti di Blackstone» rivelati. Abolizionismo, riforma dell'educazione e suffragio
femminile in Sarah Moore Grimké (1792-1873), “Percorsi storici”, 3, 2016, accessibile all’URL
http://www.percorsistorici.it/numeri/26-numeri-rivista/numero-4/162-serena-vantin-i-segreti-di-
blackstone.html.
4
Cfr. M. Philp, Reforming Ideas in Britain: Politics and Language in the Shadow of the French Revo-
lution 1789-1815, Cambridge University Press, Cambridge 2013.

La società degli individui, n. 58, anno XX, 2017/1 ISSN 1590-7031, ISSNe 1972-5752
In particolare, la prima lettera proposta affronta il problema dell’egua-
glianza morale tra i sessi, indagando le cause (in primis circostanziali ed
educative) degli apparenti limiti delle donne; la seconda lettera ripercorre
invece le ‘tappe’ dell’evoluzione religiosa e morale a partire dall’antichità,
qualificando la precedente questione come fondativa rispetto alla stessa
natura ‘umana’.
Per Macaulay, infatti, la giustizia e la virtù – attributi di un Dio magna-
nimo e «non capriccioso»5 – si esprimono pienamente soltanto quando con-
fluiscono in una ‘devozione terrena’ rivolta al bene comune: è questo, dun-
que, un concetto politico che si traduce in un imperativo etico egalitario di
natura premiale, non privativa, dove l’inclusione della soggettività giu-
ridica e politica femminile, pur non ancora teorizzata compiutamente, ri-
sulta significativamente presupposta.
(s. v.)

5
L’aggettivo «capriccioso» è utilizzato in questo contesto dalla stessa Macaulay; cfr. le sue Obser-
vations on a Pamphlet Entitled Thoughts on the Present Discontents, Edward and Charles Dilly,
London 1770, p. 8.

90
SULL’ASSENZA DI DIFFERENZE SOSTANZIALI TRA I SESSI

Cara Ortensia,
guardando alle dinamiche della vita sociale è possibile osservare una
grande differenza tra i due sessi, e questa ha prodotto un’ampia mole di fal-
sa speculazione attorno alle qualità naturali della mente femminile.
Sebbene le dottrine delle idee innate e dell’affetto innato siano state in
larga misura esplorate dagli studiosi, sono poche le persone che vi adegua-
no conseguentemente il loro modo di pensare, soprattutto quando si tratta di
materie astratte in cui ci si prefigge di raggiungere, attraverso una lunga ca-
tena di deduzioni, una conclusione che pare assai distante dalle premesse.
Trascorrerà molto tempo prima che la moltitudine rinunci alle opinioni
che è abituata a guardare con rispetto; e conosco molte persone che sono
disposte a seguire il corso di un ragionamento di buon grado soltanto finché
non si accorgono che questo tende a ribaltare un qualche pregiudizio conso-
lidato. A quel punto esse preferiranno battere in ritirata, oppure iniziare una
diatriba in cui chi sostiene la verità, per quanto rimanga imbattuto sul piano
del ragionamento discorsivo, viene indotto al silenzio dalla sola fatica di
dover ribadire le proprie posizioni senza sosta.
È precisamente per questa ragione che l’idea di una differenza sostan-
ziale tra i sessi della specie umana è prevalsa, salvo pochissime eccezioni,
sin dall’alba dei tempi. L’orgoglio di un sesso e l’ignoranza e la vanità del-
l’altro hanno supportato questa opinione, che tuttavia un’attenta osserva-
zione della Natura, e un’argomentazione più accurata, dimostrerebbero er-
rata.
È opportuno riconoscere che le virtù maschili, per quanto mescolate a
una varietà di errori e vizi, hanno creato un’immagine dell’eccellenza ma-
schile più audace e più consistente rispetto a quella comunemente riservata
alla natura femminile. Pertanto quando ci complimentiamo con una mente
femminile particolarmente brillante, la chiamiamo mascolina. Pope6 ha af-
fermato elegantemente che una donna perfetta non è che un uomo più dol-
ce.
Tuttavia, se consideriamo che non può che esserci una sola regola di ec-
cellenza morale per tutti gli esseri fatti della stessa materia, organizzati se-
condo gli stessi costumi, e soggetti alle medesime leggi di Natura, dovrem-
mo concordare con il signor Pope, o piuttosto ribaltare l’affermazione so-
stenendo che un uomo perfetto non è che una donna formata da uno stam-
po più grezzo.
6
Alexander Pope (1688-1744), uno tra i maggiori poeti britannici, è stato il primo a tradurre Omero in
inglese.

91
La differenza che attualmente sussiste tra i sessi è troppo vantaggiosa
per gli uomini per poterla considerare un mero accidente, dal momento che
qualunque circostanza accidentale può essere corretta dalla saggezza. Per-
suasi dall’orgoglio, gli uomini preferiscono rinunciare ai vantaggi che de-
riverebbero dall’accettazione della perfettibilità delle loro compagne, piut-
tosto che accettare che la Natura sia stata equa nella distribuzione dei suoi
favori. Ti sto parlando, Ortensia, dei sentimenti degli uomini, ma potrai no-
tare quanto essi siano prontamente supportati anche dalle donne. E non per
umiltà – te lo assicuro – ma per preservare quelle vanità in cui le donne ri-
pongono tutte le loro speranze. Tu falle soffrire nell’idolatrare i loro corpi,
falle sprecare le loro vite a inseguire sciocchezze, o indulgere nella gratifi-
cazione delle passioni più vili, e loro seguiranno di tutto cuore la sentenza
che le condanna al degrado.
Tra i più strenui difensori della differenza sostanziale tra i sessi, Rous-
seau è il più rilevante, sia per l’ardore dei sentimenti che caratterizzano tutti
i suoi scritti, sia per l’eloquenza delle sue composizioni: eppure mai l’entu-
siasmo e l’amore del paradosso – i peggiori nemici della disquisizione fi-
losofica – appaiono più chiaramente che nella sua definizione di tale dif-
ferenza.
Egli stabilisce l’ipotesi che la Natura abbia inteso soggiogare un sesso a
vantaggio dell’altro e che, di conseguenza, debba esserci un’inferiorità di
intelletto nella parte soggiogata; ma, dal momento che l’uomo è un essere
molto imperfetto, e capace di trasformarsi in un tiranno capriccioso, la Na-
tura, alla ricerca di una maggiore eguaglianza, conferì alla donna tutte quel-
le grazie attraenti e quelle capacità di insinuazione che le sono tipiche, per
tentare di riequilibrare la scala di valore.
Dunque la Natura futilmente rinuncia ai suoi propositi e assoggetta la
propria prerogativa a un’influenza in grado di produrre confusione e disor-
dine nel sistema delle relazioni umane. Rousseau riconosce quest’obiezione
e cerca di aggirarla creando un individuo morale dall’unione dei due sessi
che, per contraddizione e assurdo, supera ogni dilemma metafisico mai co-
struito nelle scuole. In sostanza, Rousseau non parla né di ragione né di
buon senso ma di orgoglio e sensualità, e riduce l’uomo di genio a un pe-
dante licenzioso.
Tuttavia, qualunque sia il saggio scopo che la Provvidenza ha posto in
un tale ordine di cose, è certo che sembra siano sempre esistiti alcuni gradi
di inferiorità tra i sessi per quanto concerne la forza fisica. Tale vantaggio,
nella barbarie dell’umanità, è stato sfruttato sino al punto di distruggere tut-
ti i diritti naturali del genere femminile e a ridurlo in uno stato di schiavitù
abietta.

92
Non ho intenzione di addentrarmi nella descrizione degli eventi che so-
no accaduti in Europa per migliorare la condizione delle donne, dal mo-
mento che non voglio descriverti una storia delle donne. Intendo sempli-
cemente ricercare le origini delle loro debolezze e vizi peculiari, che – lo
credo fermamente – sono cagionati esclusivamente dalle circostanze e dal-
l’educazione.
La saggia e giusta Provvidenza non aveva intenzione di rendere la con-
dizione di schiavitù una legge inalterabile per il genere femminile. Le don-
ne hanno guardato al loro proprio interesse tanto quanto il sesso maschile e
loro stesse si sono adagiate nella propria tirannia sopra altre donne; tali
sono la loro collocazione nell’ordine mondano e la loro influenza naturale
sulla mente maschile che, se circostanze ed educazione fossero sviluppate
correttamente, non potrebbero fare altro che addurre innumerevoli benefici
al loro onore e alla loro felicità.
In ogni caso, finché non arriverà il momento in cui le donne si compor-
teranno in maniera saggia, continueremo a divertirci nel deridere le loro
follie.
Le circostanze e l’educazione impartita alle donne, cara Ortensia, sono
esattamente ciò che corrompe e debilita i poteri del corpo e della mente. Il
loro sistema nervoso viene compromesso già nella più tenera infanzia a
causa di una falsa idea di bellezza e delicatezza; ma la cosa peggiore è che
questa compromissione ha conseguenze ancora più dannose per la mente e
per la condotta morale.
Tale situazione, infatti, non produce soltanto il deterioramento del corpo
femminile: per le donne l’educazione morale è, se possibile, persino più as-
surda di quella fisica. I principi e la natura della virtù, che già ai ragazzi
non vengono insegnati adeguatamente, per le ragazze sono un vero e pro-
prio mistero. Vien detto loro, semplicemente, di astenersi da quei vizi che
sono contrari alla loro felicità personale se vogliono evitare di essere trat-
tate come criminali da Dio e dagli uomini, ma non viene insegnato loro
nulla di quegli aspetti più nobili della rettitudine, di ciò che eleva il nostro
essere e che ci rende sia innocui sia utili, o al limite ciò viene insegnato
loro in un modo che è destinato a non lasciare traccia adeguata nella loro
mente.
Sto descrivendo una verità così auto-evidente che il tema dell’educa-
zione femminile è da sempre un argomento classico nei discorsi sulla mo-
rale, eppure nessuno scrittore illustre ha mai stabilito un sistema di regole
appropriato per proporne una riforma.
Dal momento che ci crogioliamo ancora nell’assurda idea dell’eccel-
lenza sessuale, un progetto educativo univoco per entrambi i sessi sembra
sovvertire la nostra idea di perfezione. Addison ha giustamente criticato la

93
prassi di crescere una fanciulla senza alcuna nozione sullo scopo della pro-
pria formazione, se non quello di rendersi attraente per un marito e di
sacrificare le proprie qualità naturali per l’acquisizione remissiva delle
grazie che le competono.
Forse non tutti i genitori e gli educatori agiscono nel modo che Addison
ha indicato, ma certamente il più alto onore di una donna è costituito dal-
l’essere ammirata da un uomo e, dal momento che ciò è considerato come il
suo summum bonum, e dal momento che la bellezza delle donne è il prin-
cipale desideratum degli uomini, la Vanità e la sua compagna Invidia cor-
rompono ogni qualità femminile, naturale o acquisita.
Tu stessa, cara Ortensia, non puoi negare che queste qualità, in uno stato
di ignoranza, cagionano egualmente tutti quei vizi e quelle debolezze che
sono considerati peculiari del genere femminile e che in passato hanno fatto
sì che le donne non fossero considerate degne di cultura. In tempi recenti
quei vizi e quelle debolezze sono stati addirittura censurati e ridicolizzati
dagli intellettuali di tutti i tipi, dal filosofo dal pensiero profondo7 sino
all’uomo elegante per modi e galanteria, che tuttavia talvolta si distingue
per qualità non certamente superiori a quelle che egli stesso disprezza nelle
donne.
Non posso illustrare meglio la verità delle mie osservazioni se non
richiamando l’immagine descritta dall’educato gentiluomo Chesterfield 8.
«Le donne», dice Sua Signoria, «sono soltanto bambini troppo cresciuti. Si
divertono a spettegolare, talvolta con una certa verve. Ma non ho mai cono-
sciuto nella mia vita una donna che sapesse ragionare in maniera solida o
che fosse davvero dotata di buon senso, o in grado di ragionare e agire in
maniera conseguente per più di ventiquattr’ore. Un uomo assennato con le
donne si diverte soltanto, gioca con loro, ci scherza, ci chiacchiera, come
farebbe con un bambino, ma non può certo pensare di consultarsi con una
donna o di fare affidamento su di lei per questioni serie».

SULL’UNIVERSALITÀ DEI SENTIMENTI RELIGIOSI TRA GLI ANTICHI

Cara Ortensia,
alla luce del patrimonio di conoscenze accumulato dal sentimento uma-
no nei primi stadi dell’umanità, risulta che la nostra specie ha sempre uni-

7
Probabile riferimento a Rousseau.
8
Lord Chesterfield (1694-1773), ovvero Philip Dormer Stanhope, quarto conte di Chesterfield, fu un
politico inglese.

94
versalmente conosciuto una certa dipendenza da un essere, o da più esseri,
dotati di poteri e capacità superiori.
Le diverse società in cui le specie si distinguono hanno prodotto dif-
ferenti opinioni relativamente alle caratteristiche ascritte a tali divinità, al
grado, alla natura del potere che la fede accorda loro, o circa l’idolo ado-
rato. Tuttavia, si può constatare che non vi è traccia, in nessuna tradizione,
di società del tutto prive di principi religiosi.
Di questi tempi la contemplazione si esprime attraverso gli studi reli-
giosi. Bisogna averne una buona conoscenza se si vuole istruire o guidare
una folla, o quantomeno occorre guadagnarsi il favore delle divinità me-
diante la pietas.
Proprio la necessità di dover far affidamento su una tale ‘predilezione’
divina, o quantomeno di poterla presupporre, per poter aver influenza sul-
l’opinione comune, cagiona numerose frodi, spesso talmente mescolate alla
realtà da rendere assai difficile – se non impossibile – per una persona one-
sta, il compito di distinguere tra la volontà divina rivelata e la ragione del-
l’uomo, soprattutto nelle questioni che afferiscono a regole prescritte rela-
tive ai doveri religiosi e morali.
Quando la filosofia, raggiunto uno stadio sufficientemente maturo, ini-
ziò a voler correggere quegli abusi che l’interesse aveva prodotto e la su-
perstizione confermato, cominciò a perdersi in un dedalo di errori. Più a
fondo portava le sue riflessioni, più profondi erano i dubbi che sollevava.
Lo scetticismo è cresciuto insieme alla capacità di contemplazione, e ha
raggiunto una tale dimensione nel corso del tempo da aver cagionato una
generale sfiducia nel governo della Provvidenza.
Tuttavia l’ateismo, che oggi è prevalente tra gli uomini dotti, non ha an-
cora infettato le classi più umili della società. Poiché ritengono necessario
un senso del dovere di ispirazione religiosa per poter dotare di senso le leg-
gi umane, i riti e le cerimonie religiose, queste non hanno voluto il supporto
che l’autorità e l’esempio delle istituzioni civili avrebbero potuto offrire
loro.
L’era cristiana ha inaugurato un nuovo ordine sia nell’ordinamento ci-
vile sia in quello ecclesiastico.
Quando il cristianesimo è diventato la religione dei legislatori dell’uma-
nità, i preti hanno mantenuto l’influenza che avevano sui convertiti quando
la religione cristiana era soltanto una setta. Una circostanza che comportò
un vero cambiamento nel governo dell’intera Europa. Gli onori e i poteri
del sacerdozio, che prima erano unificati nella persona del magistrato ci-
vile, ora vengono conferiti come poteri distinti a quegli uomini che la Chie-
sa nomina ministri ecclesiastici.

95
La superstizione della gente è cresciuta con l’aumentare dell’influenza
degli ecclesiastici, e l’influenza degli ecclesiastici è cresciuta con la su-
perstizione della gente.
[…] Gli inglesi, dalle origini del loro governo, hanno beneficiato della
libertà di espressione più di ogni altro popolo in Europa. Da loro è giunto il
primo attacco aperto al cristianesimo; eppure i limiti imposti ai preti in
Francia per impedirne il legittimo dissenso sono risultati molto più nocivi
per il bene della religione che la libertà degli inglesi.
Un popolo che inizia a dubitare si troverà nella licenza di riflettere sui
limiti delle proprie azioni esterne.
Gli scritti audaci e satirici di Voltaire sono stati letti con una tale avidità
e hanno ricevuto un tale apprezzamento da aver provocato una svolta atea
nel pensiero di molti intellettuali del continente.
Dal momento che non c’è stata una vera resistenza al contagio di questo
sentimento generale, c’è ragione di credere che la confusione prodotta dallo
scetticismo diffusosi prevarrà sulla fede cieca dei nostri antenati e che,
salvo un particolare intervento della Provvidenza, i principi religiosi ver-
ranno prima o poi scardinati dalle società cristiane.

96
Tracciare l’economia della
stima ci porterà
sicuramente ad avere una
comprensione migliore
del mondo sociale,
permettendo, inoltre, di
cambiare quel mondo in
meglio.
L’economia nascosta della stima*
Geoffrey Brennan e Philip Pettit

ABSTRACT: The article describes those patterns of behavior that silently regulate the attri-
bution of esteem in society. In particular, the reflection is developed under the assumption
that there seems to be no chance for an individual to obtain esteem and avoid disesteem in-
tentionally. Despite this, the aim is to show that people have however found how to satisfy
their demand of esteem by means of mutual exchange, competition and association, so to
earn for themselves a certain amount of that commodity. Thus, social practices are taken to
hide an economy of esteem that the article wants to unmask.
KEYWORDS: esteem, disesteem, competition, exchange, normativity

Il problema

Unʼintera generazione di teorici sociali ha sostenuto che, se considera-


zioni free-rider mostrano che certi contesti di azione collettiva non sono ri-
solvibili attraverso la scelta razionale individuale – cioè attraverso un siste-
ma in cui ognuno sia libero di perseguire il proprio vantaggio – allora quel-
le stesse considerazioni dovrebbero anche mostrare che tali contesti non
possono essere risolti facendo ricorso a norme1. Così, se quelle valutazioni
sono in grado di spiegare perché le persone non tengano spontaneamente le
strade pulite anche quando ognuno preso singolarmente preferirebbe che
fossero prive di rifiuti, allora esse dovrebbero anche indicare perché non
esista alcuna norma efficace contro lʼimbrattamento delle strade.
*
Il presente articolo, parte del progetto di un libro, è stato presentato al “Social and Political Theory
Workshop” presso A NU (Australian National University), a un seminario tenutosi alla Concordia Uni-
versity di Montréal e al “Seminar in Political Thought” della Columbia University. Siamo grati ai molti
colleghi che ci hanno offerto i loro utili commenti, in particolare a Kent Greenawalt e Julian Frankil che
hanno calcato sul significato dellʼofferta limitata. Ci sono state dʼaiuto anche le osservazioni ricevute da
due revisori anonimi. Questo articolo è stato accettato per la pubblicazione il 10 maggio 2016, pre-
cedentemente allʼincontro di Brennan con la redazione. Affiliazioni e contatti: ANU, College of Arts and
Social Sciences, geoffrey.brennan@anu.edu.au; A NU e Princeton University, ppettit@princeton.edu.
Traduzione di Giulia Lasagni.
1
Cfr. J. Buchanan, The Limits of Liberty, University of Chicago Press, Chicago 1975, p. 132; A.
Heath, Rational Choice and Social Exchange, Cambridge University Press, New York 1976, p. 30; E.
Sober, D.S. Wilson, Unto Others: The Evolution and Psychology of Unselfish Behavior, Harvard Uni-
versity Press, Cambridge (Mass.) 1998, p. 156; M. Taylor, The Possibility of Cooperation, Cambridge
University Press, Cambridge 1987, p. 144.

La società degli individui, n. 58, anno XX, 2017/1 ISSN 1590-7031, ISSNe 1972-5752
Il problema, secondo questa tradizione di analisi, è che le norme emer-
gono o sono efficaci solo nella misura in cui gli individui siano preparati ad
assumersi i costi del loro rafforzamento attraverso il controllo e, in partico-
lare, il sanzionamento reciproco: ovvero, attraverso biasimo e lode recipro-
ci. Ma se gli agenti non sono disposti ad assumersi i costi relativi alla ri-
soluzione del problema – ad esempio, quelli riguardanti la pulizia delle
strade – allora come ci si potrebbe aspettare che essi possano persino sob-
barcarsi agli oneri derivanti dal rafforzamento di una norma volta a tale ef-
fetto? Come ci si potrebbe aspettare che si impegnino a tenersi dʼocchio
lʼun lʼaltro e, dunque, a esprimere appropriate manifestazioni di lode e di
biasimo?
Tale problema, come abbiamo sostenuto altrove2, altro non è che uno
pseudo-problema. Infatti, non è necessario che ci siano oneri sostenuti in-
tenzionalmente e associati al controllo reciproco: che ci piaccia o meno, sa-
remo spesso nella posizione – in quanto caso di consapevolezza comune –
di osservarci lʼun lʼaltro e di riconoscere occasioni di condotta sociale e
asociale. Inoltre, fatto ancor più sorprendente, non è neppure necessario che
si diano oneri sostenuti intenzionalmente e associati al sanzionamento reci-
proco; infatti, potremmo infliggere la pena soltanto osservando e valutando
la condotta altrui.
Posto che generalmente si sia portati ad apprezzare la stima e a rifuggire
la disistima dei propri compagni, assumiamo che ognuno di noi dia impor-
tanza al fatto che altre persone, senza che esse dicano né facciano nulla per
esprimerlo, abbiano una buona opinione di lui. Assumiamo anche che, pur
se in assenza di gesti o di affermazioni esplicite, sia spesso evidente – come
una questione di consapevolezza comune tra un agente e un osservatore –
che uno abbia una buona o cattiva opinione di ciò che fa lʼaltro, o che ci sia
la possibilità che qualcuno possa comportarsi così. Infine, assumiamo che
ognuno di noi, in base a come agirà, possa aumentare o diminuire la propria
previsione di stima.
È chiaro che sulla base di queste considerazioni noi potremmo procurar-
ci approvazione o controllo reciproco allʼinterno di un dato modello di
comportamento – come nel caso della pulizia delle strade – senza fare il
minimo sforzo; infatti, potremmo ricompensarci e punirci a vicenda sola-
mente essendo presenti e notando la natura della condotta altrui. Inoltre, la
prospettiva di tali ricompense e punizioni potrebbe portarci ad aggiustare il

2
Cfr. P. Pettit, Virtus Normativa: a rational choice perspective, “Ethics”, 100, 1990, pp. 725-755; P.
Pettit, G. Brennan, Restrictive consequentialism, “Australasian Journal of Philosophy”, 64, 1986, pp.
438-455; R.H. McAdams, The origin, development and regulation of norms, “Michigan Law Review”,
96, 2, 1997, pp. 338-433; Id., Cooperation and conflict: the economics of group status production and
race discrimination, “Harvard Law Review”, 108, 5, 1995, pp. 1003-1084.

100
nostro comportamento di conseguenza. Lʼinaspettata stima e disistima che
ci procuriamo vicendevolmente potrebbe mettere in gioco forze che serva-
no, tanto silenziosamente quanto la gravità, a fissare la nostra condotta su
certi modelli.
Eppure, il fatto di assumere la presenza di tali forze e usarle nella spie-
gazione di come certe norme emergano o si stabilizzino lascia aperta una
questione che necessita di essere affrontata esplicitamente. Potremmo forse
dire che le forze di stima e disistima agiscano a un livello tale per cui i loro
effetti sfuggano al nostro controllo, sia esso individuale o collettivo? Tali
forze agiscono in un modo simile a quello in cui operano i feromoni nello
stabilire i nostri modelli di risposta sessuale, o certi enzimi quando inter-
vengono nella generazione di reazioni violente o di sconforto? O, invece, si
uniscono a noi in modo da farci muovere strategicamente nellʼottenere e nel
dare stima: in modo, cioè, che ci sia unʼeconomia della stima che corri-
sponda, per quanto imperfettamente, allʼordinaria economia dei beni mate-
riali e dei servizi? Questo è il problema di cui vogliamo occuparci nel pre-
sente articolo.
Esiste unʼeconomia per ogni prodotto o servizio, chiamiamolo X, sotto
due condizioni: 1) X è ampiamente richiesto pur essendo presente in quan-
tità limitata; 2) le persone, di conseguenza, interagiscono lʼuna con lʼaltra –
entrando in competizione e scambio – nel perseguimento di X.
Assumiamo qui che la stima comprenda sia la stima positiva sia lʼassen-
za di stima negativa, ovvero di disistima. Potremmo dunque dire che la sti-
ma, in senso ampio, sia un bene di cui vi è offerta limitata e domanda con-
siderevole? Rappresenta essa qualcosa che porta gli individui a interagire
gli uni con gli altri quando viene perseguita razionalmente?
Intendiamo dedicare la sezione 1 alla prima questione e le rimanenti tre
sezioni alla seconda. La sezione 2 presenta due vincoli che sembrano essere
a favore di una risposta negativa alla seconda domanda (la prima riguarda
la competizione, la seconda lo scambio), mentre le sezioni 3 e 4 sostengono
che tali vincoli di competizione e scambio non siano del tutto restrittivi:
essi lasciano spazio almeno a un’economia nascosta della stima. La sezione
5, conclusiva, illustra il tipo di competizione per la stima, insieme allo
scambio ad essa relativo, che ci potremmo aspettare in base a quei vincoli.
Prima di procedere, unʼultima considerazione. Gli economisti spesso si
preoccupano dei cosiddetti effetti della reputazione e noi non intendiamo
insinuare che nellʼaffrontare il problema della possibilità di unʼeconomia
della stima si stia aprendo un terreno completamente nuovo3. Tuttavia, lʼe-

3
Cfr. D. Levy, The market for fame and fortune, “History of Political Economy”, 20, 1988, pp. 616-
625; T . Cowen, D. Sutter, Politics and the pursuit of fame, “Public Choice”, 93, 1997, pp. 19-35.

101
sistenza di unʼeconomia della reputazione non cancella il problema che
stiamo ponendo. Per reputazione, nel senso in cui essa viene normalmente
considerata, si intende una modalità molto speciale di stima e questa non si
scontra con i due vincoli che andremo a discutere. A essere in questione è,
solitamente, la reputazione derivante dal raggiungimento di un certo risul-
tato (rispettare scadenze, soddisfare determinati standard qualitativi e simili)
e non dal fatto di incarnare un certo tipo di persona; questo, come vedremo,
significa che la reputazione non è in contrasto con il vincolo della com-
petizione. Inoltre, si discute spesso di reputazione quando essa è accostata a
un marchio o al nome di una compagnia (questo accade perché general-
mente non si conosce chi ne porti il nome), e quando essa viene comprata o
venduta; in tal senso non ci saranno problemi nemmeno con il vincolo dello
scambio.

1. L’offerta limitata e la grande richiesta di stima

Nel caso in cui la domanda di stima sia insignificante, non ci sarà alcun
motivo di competere gli uni con gli altri nel tentativo di ottenerla. Parimenti,
assumendo che lʼofferta di stima sia illimitata, non sarà necessario impe-
gnarsi nella competizione finalizzata al suo ottenimento; infatti, indipen-
dentemente da quanta stima si richieda, ce ne sarà per tutti e al medesimo
costo. Pertanto, il problema è se domanda e offerta soddisfino queste
condizioni.
Dire che ci sia grande richiesta di stima è come dire che generalmente si
preferiscano prospettive che includano il godimento di stima rispetto ad al-
tre prospettive simili che non comprendano tale godimento, e che si sia di-
sposti alla rinuncia ad ottenere altri beni – almeno in certe quantità o sotto
certi livelli di certezza – in cambio di un aumento della stima prospettata.
In altre parole, ciò significa che se si potesse commerciare stima – vedremo
in seguito che questo non è, propriamente, possibile – allora gli individui
sarebbero pronti a barattare altri beni in cambio di un suo incremento.
Che ci sia grande richiesta di stima è una questione poco controversa.
Sebbene i recenti studi nelle scienze sociali4 abbiano trascurato il problema,
esiste, tuttavia, una lunga tradizione a sostegno di tale richiesta5: troviamo
la tesi in vari autori tra cui Platone e Cicerone, Tommaso dʼAquino e Ma-
chiavelli, Montaigne e La Rochefoucauld, Locke e Hume, Mandeville e
Rousseau, Kant e Hegel. Adam Smith, in particolare, la enuncia con unʼen-
fasi incomparabile:

4
Cfr. P. Blau, Exchange and Power in Social Life, Wiley, New York 1964.
5
Cfr. A.O. Lovejoy, Reflections on Human Nature, Johns Hopkins Press, Baltimore 1961.

102
La Natura, nel fare l’uomo per la società, lo fornì di un originario desiderio di
piacere e di un’originaria avversione per l’offesa verso i suoi fratelli. Gli insegnò a
provare piacere nell’esser considerato favorevolmente, e ad addolorarsi nell’esser
considerato sfavorevolmente da loro. Fece sì che la loro approvazione fosse per lui
molto lusinghiera e molto gradevole in se stessa, e la loro disapprovazione molto
mortificante e offensiva6.

Pur ammettendo che normalmente tra le persone ci sia grande richiesta


di stima, che dire rispetto allʼaffermazione per cui essa si trova in offerta li-
mitata? Questo caso sembrerebbe più controverso, dato che la stima non è
un bene materiale che può essere esaurito o un servizio pratico che può es-
sere sospeso. Infatti, lʼessere inclini a considerare lʼassenza di disistima co-
me se fosse essa stessa una forma di stima sembra rendere del tutto miste-
rioso il modo in cui questʼultima potrebbe darsi in quantità limitata. Come
potrebbe lʼassenza di qualcosa essere in una condizione di offerta limitata?
In ogni caso, lʼaffermazione che vi sia offerta limitata di stima diventa
plausibile quando ci si soffermi su come venga propriamente intesa la limi-
tazione dellʼofferta in un contesto economico. Lʼespressione, infatti, non
indica semplicemente che, in linea di principio, c’è una quantità limitata del
bene in questione. Ciò implica, a nostro modo di vedere, che lʼeffettiva di-
sponibilità del bene – il livello di sforzo o il costo necessario al suo otteni-
mento – dipenda da quanto esso sia richiesto. Così, nel caso in cui, davanti
a una crescente ricerca del bene, si lasci che la domanda salga e che le con-
dizioni a cui il bene viene offerto salgano a loro volta, si vedrà che il costo
per ottenerlo diventerà simmetricamente più alto.
A questo proposito, riteniamo ci sia una ragione profonda a sostegno del
fatto che la stima verrebbe in questo senso limitata; ovvero, che la valuta-
zione – fonte di stima e disistima – abbia sempre un lato comparativo.
Quando attribuiamo stima e disistima a qualcuno tendiamo a considerarlo
come membro di una qualche classe o raggruppamento contestualmente ri-
levante: in quanto membro di questa o quella professione o organizzazione,
in quanto persona di una certa religione o etnia, in quanto cittadino di uno
Stato o del mondo. Inoltre, il fatto di stimare o non stimare quel soggetto
per la presenza di una certa disposizione, o per il compimento di una certa
azione, dipende in parte da come si comportano gli altri individui apparte-
nenti a quello stesso raggruppamento.
Questo è palesemente vero quando i valori sulla base dei quali stimiamo
gli agenti sono essi stessi posizionali o comparativi. Nel caso dei posizio-

6
A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. Lecaldano, BUR, Milano 1995, pp. 293-294.

103
nali, una persona riceve stima quando consegue risultati più alti degli altri,
e non ne riceve quando consegue risultati più bassi: si pensi, ad esempio, a
concorsi o votazioni. Nel caso dei comparativi, invece, viene stimato chi
ottiene punteggi più alti della media (o più alti dello standard o del valore
medio, o altro), come quando si giudica qualcuno in base al suo essere in-
telligente, cioè più intelligente della media. In questi casi è logico che vi sia
offerta limitata di stima: non tutti possono arrivare primi e non tutti posso-
no essere sopra la media.
Ciononostante, non è forse vero che spesso stimiamo le persone perché
sono oneste e degne di fiducia, coraggiose e sincere, gentili e compassione-
voli, anche laddove i valori in questione non siano né posizionali né com-
parativi? La nostra tesi è che la stima viene solitamente attribuita in base al
possesso di una precisa proprietà, la disistima in base all’assenza di essa o
alla presenza della proprietà opposta, e qualora il comportamento di una
persona si mostri differente da quello delle altre appartenenti al gruppo.
Questo è per dire che mentre proprietà come lʼonestà, la franchezza o la
gentilezza hanno un senso non comparativo, la stima e la disistima sono
attribuite in buona parte per divergenze dalla media e non solo per il
possesso delle proprietà in senso assoluto. La media fornisce lo standard in
base al quale una persona è valutata, cosicché lʼonestà o la mancanza di
onestà – proprietà comparative – pesino sullʼattribuzione di stima a un
grado non trascurabile.
Si consideri una comunità dove sia statisticamente probabile che chi
possieda un cane pulisca i bisogni lasciati sul suolo pubblico dal proprio
animale. Il fatto che quella sia la norma significherà che tutti coloro che si
mostreranno incuranti permettendo ai loro cani di sporcare gli spazi pubbli-
ci saranno oggetto di forte disistima: certamente più di quanta ne subirebbe-
ro se la noncuranza fosse un fenomeno ordinario. In alternativa, si imma-
gini una comunità dove sia statisticamente probabile che i padroni di casa
non si sforzino di liberare dalla spazzatura il marciapiede o lʼaiuola al di
fuori delle proprie staccionate. In una comunità di questo tipo la persona
che si impegni a tenere lo spazio pubblico vicino allʼabitazione pulito tanto
quanto il suo stesso giardino conquisterà quasi sicuramente unʼalta opinio-
ne tra coloro che sono informati del suo comportamento; quella persona
tenderà ad avere migliori risultati rispetto a quelli che avrebbe se la norma
fosse che tutti i padroni di casa si assumano tale responsabilità.
Il nostro pensiero, allora, è che quando stimiamo o disistimiamo le per-
sone sulla base di valori apparentemente non comparativi, in realtà stiamo
facendo riferimento, in misura significativa, a un campione per il quale sti-
miamo o disistimiamo la loro azione rispetto allo standard stabilito allʼin-
terno dello stesso. Ciò significa che lʼattribuzione di stima ha una compo-

104
nente comparativa, relativa al fatto che i soggetti risultino bene o male ri-
spetto al campione assunto. Per tornare al tema principale, ciò implica che
vi sia offerta limitata di stima in senso proprio. Infatti, fintantoché tutti noi
cercheremo di ottenere stima in un certo contesto – anche stima legata a
una proprietà non-comparativa – la sua fornitura in quello stesso contesto
sarà sempre più difficile da ottenere; essa potrebbe continuare a essere di-
sponibile, ma a condizioni progressivamente più costose.

2. I due vincoli all’economia della stima

Che gli individui facciano grande richiesta di stima e che questʼultima


sia presente in quantità limitata potrebbe sembrare sufficiente perché se ne
crei unʼeconomia. Si potrebbe dare per certo che i singoli individui manife-
stino la propria domanda individuale e che interagiscano gli uni con gli altri
cercando di procacciarsi una parte della stima disponibile. Ma le cose non
sono così chiare come sembrano. Perché una normale economia della stima
possa emergere gli agenti dovrebbero infatti poter perseguire la stima inten-
zionalmente, competendo gli uni con gli altri nella ricerca e impiegando la
stima allʼinterno di relazioni di scambio. A tale proposito, non è chiaro se
questi due requisiti siano entrambi possibili, poiché esistono vincoli che, da
una parte, sembrano limitare la ricerca e la competizione mentre, dallʼaltra,
pare pongano limiti allo scambio.

La competizione limitata. È un luogo comune che non si possa ottenere


spontaneità provando a essere spontanei e che sia alquanto effimero cercare
di ottenere soddisfazione cercando soddisfazione, facendo dunque della
soddisfazione stessa il proprio fine esplicito. Molto meglio porsi come
obiettivo il perseguimento di un risultato eccellente, un completo coinvol-
gimento nellʼattività, o qualcosa del genere, e lasciare che la spontaneità o
la soddisfazione vengano come risultati, ma non come risultati secondari
apertamente desiderati. È sciocco focalizzarsi sulla possibilità di ricavare
dalla propria attività spontaneità o soddisfazione, così dice il luogo comune.
Infatti, tale progetto è destinato a essere controproducente e fallimentare.
Allo stesso modo, potremmo dire che la competizione per la stima sia
duramente limitata a causa dellʼesistenza di un vincolo al suo persegui-
mento intenzionale, il quale va di pari passo con gli impedimenti legati al
perseguimento della spontaneità e della soddisfazione. Così, fare dellʼot-
tenimento di stima un fine esplicito, come accade nel caso della competi-
zione, si prospetta controproducente al pari di quanto lo sia il corrisponden-
te perseguimento di soddisfazione e spontaneità. Nel caso in cui uno faccia

105
della stima il suo obiettivo primario, così si suggerisce, questo tenderà a
minacciare lʼattribuzione di stima da parte di altri. Jon Elster pone la que-
stione in un modo particolarmente diretto: «lʼassioma generale in questo
ambito è che niente sia così insignificante come il comportamento escogi-
tato apposta per lasciare il segno»7.
Sarebbe illogico assumere la spontaneità come obiettivo esplicito; essa,
infatti, consiste precisamente nellʼassenza di tale finalità. Inoltre, da un
punto di vista psicologico, non è plausibile ritenere che il fatto di provare
soddisfazione rappresenti un obiettivo primario: la soddisfazione tende a
venire, in quanto esperienza umana, dalla dedizione alla ricerca di qualcosa
distinto da sé. Considerando poi lʼaspetto relazionale, così suggerisce Elster,
il fatto di immaginare che lʼottenimento di stima sia un fine esplicito è de-
stinato a essere dʼostacolo al fine stesso. La ricerca di stima non è essa stes-
sa una forma di comportamento stimato e qualsiasi manifesto tentativo di
ottenerla è destinato a fallire. La stima viene dagli altri – in questo saggio
non consideriamo la stima di sé – e la regola generale vuole che essa sia da-
ta solo a coloro che non la cerchino esplicitamente.
Ammesso che tale vincolo guidi la ricerca di stima, allora sembrerebbe
ragionevole che esso mini lo sviluppo di qualsiasi cosa assomigli a unʼeco-
nomia della stessa. Ciò implica che, sebbene ci sia una domanda reale di
stima, tale domanda non possa essere tradotta in unʼazione intenzionale e in
una competizione direttamente volta alla stima. Considerando il caso dei
beni materiali e dei servizi ordinari, si nota che gli individui tendono a or-
ganizzarsi apertamente per conquistarsi una parte del beneficio; ciò porta
allʼinterazione che caratterizza la vita economica. Nel caso della stima, in-
vece, sembra che le persone non possano organizzarsi sensatamente per fa-
re qualcosa di simile: cercare esplicitamente stima risulterà immancabil-
mente controproducente.

Lo scambio limitato. Cʼè un secondo tipo di vincolo al modo in cui ci si


può comportare rispetto alla stima e questo parrebbe ridurre ancora di più le
possibilità di avere qualcosa come unʼeconomia della stima. Pensando al
caso dei beni materiali e dei servizi, il punto non è soltanto che le persone
cerchino esplicitamente di accaparrarsene una parte. Infatti, ciò che spesso
accade è che esse si comportino a quel modo pur non facendo direttamente
ciò che vorrebbero, ma piuttosto scambiando di proposito alcuni beni o ser-
vizi – o il loro equivalente monetario – al fine di procurarsi ciò che cercano.
Esse acquisiscono un bene al fine di ottenerne un altro come per sbaglio;

7
Cfr. J. Elster, Sour Grapes, Cambridge University Press, Cambridge 1983, p. 66.

106
ciò permette loro di specializzarsi nella produzione di quei tipi di beni da
cui è possibile trarre vantaggi comparativi.
Sembrerebbe che nulla di analogo possa accadere nel caso della stima.
Non solo ha poco (o nessun) senso che le persone perseguano la stima di-
rettamente, come posto dal primo vincolo. Gli agenti, inoltre, non sono nel-
la posizione di conferirsi stima lʼun lʼaltro deliberatamente, neanche attra-
verso attribuzioni spontanee, quando cioè non vi sia traccia di mercato. In-
fatti, allo stesso modo in cui non si può sensatamente perseguire la stima
sulla base del normale andamento economico, così non la si può sensata-
mente ottenere come se fosse una questione di scelta volontaria. Non è pos-
sibile decidere di dare stima qui e toglierla lì, nemmeno in uno spirito di
scambio o donazione.
Qual è dunque la fonte di questo vincolo? La stima ci attrae e la disisti-
ma ci respinge e questo accade perché esse rappresentano l’opinione che gli
altri hanno di noi. Potrebbe essere un bene in sé che alcuni individui ab-
biano unʼopinione positiva di un altro – almeno quando egli approvi la base
della valutazione – e un male in sé che ne abbiano una negativa. Parallela-
mente, la comparsa di stima potrebbe rappresentare un bene strumentale e,
allʼopposto, la comparsa di disistima un male strumentale: ciò potrebbe in-
sinuare unʼimmagine di sé che sia lusinghiera o poco lusinghiera prospet-
tando, di conseguenza, un trattamento buono o cattivo da parte degli esti-
matori. In ogni caso, sembra essere piuttosto chiaro che il bene della stima,
così come il male della disistima, dipenda dal fatto che esso rappresenti il
risultato di una valutazione.
Posto questo legame con la valutazione, possiamo prontamente spiegare
perché lʼatto del procurarsi stima sia soggetto al vincolo descritto. Una va-
lutazione è, a seconda della natura del caso, qualcosa che viene giustificato,
e generalmente occasionato, dal carattere dellʼoggetto su cui essa verte. Es-
sa è essenzialmente una risposta involontaria alla modalità di approccio con
la quale ci si avvicina allʼoggetto. Chi valuta potrebbe anche essere capace
di decidere di fare o non fare una valutazione ma, avendo già deciso tale
questione in senso affermativo, per quanto riguarda lo sviluppo di unʼattitu-
dine positiva o negativa non si tratta più di un fatto di scelta: questa fac-
cenda va determinata a partire da come le cose si presentano.
Se io avessi lasciato intendere che ti avrei potuto conferire stima o disi-
stima, come avrei voluto, allora tu avresti saputo che qualsiasi cosa ti stessi
offrendo – fossero parole dolci o amare – non sarebbe stata sincera. Non
potrei, infatti, far diventare un regalo volontario o un oggetto di baratto vo-
lontario qualcosa che di fatto non controllo; e non potrei semplicemente de-
cidere di pensare bene o male di te. Quindi non ha alcun senso mostrare di

107
essere pronti a fare ciò sia come attribuzione spontanea sia in cambio di
qualcosʼaltro.
La nostra posizione in quanto soggetti che si procurano la stima gli uni
attraverso gli altri è abbastanza curiosa. Le valutazioni che formiamo e la
stima o disistima che ci procuriamo in tal modo, almeno in circostanze di
relativa trasparenza, generano benefici o oneri ricadenti sugli stessi indivi-
dui che sono oggetto della nostra valutazione. Ma questi benefici e oneri
appaiono come elementi esterni che non possiamo interiorizzare: noi non
possiamo attribuirli o toglierli in base a ciò che ci viene offerto in cambio o
in base alla nostra personale inclinazione. Infatti, nel darsi delle nostre va-
lutazioni e dei nostri giudizi, possiamo solo guardare a noi stessi come a
meccanismi che emettono quelle risposte in un modo riflesso e involontario.
Coerentemente a quanto detto, non solo risulta impossibile che uno tra
noi si procuri la stima degli altri di proposito, ma pare non essere possibile
nemmeno che uno trasmetta a una terza persona la stima che unʼaltra gli ha
dato; infatti, la deliberata trasmissione di stima è tanto vincolata quanto lo è
la sua ricerca intenzionale. La ragione di ciò risale ancora al modo involon-
tario in cui si genera la stima. Se io godo di un certo livello di stima nella
mente di una persona, A, questo è da ricondursi al fatto che A consideri – e
consideri involontariamente – che io esista. Dunque, non si profila alcuna
possibilità che io possa deliberatamente trasmettere un poʼ di questa stima a
unʼaltra persona, B. Potrebbe darsi che A non conosca B o anche che A
pensi male di B.
Così, sembra che proprio come il perseguimento e la competizione sono
vincolati, lo stesso accada per la possibilità di scambio: non cʼè spazio per
provare a scambiare la propria stima, o quella che uno ha ottenuto dagli al-
tri, nel tentativo di aumentare le proprie scorte di altri beni o della stima
stessa. Pertanto, davanti allʼemergere di un’economia normale si pone un
doppio ostacolo.
Nelle prossime due sezioni sosterremo che, contrariamente alle apparen-
ze, questi vincoli non sono così restrittivi come potrebbe inizialmente sem-
brare, e che essi non escludono la possibilità di unʼeconomia della stima.
Infine, nella sezione conclusiva, delineeremo la forma che una tale econo-
mia potrebbe plausibilmente assumere; ciò darà concretezza allʼastratta pre-
tesa di possibilità.

3. Oltre il vincolo della competizione

Lʼassioma di Elster potrebbe essere inteso ad affermare che non cʼè nul-
la di così insignificante quanto il comportamento progettato solo per im-

108
pressionare. Ma in questo senso esso non avrebbe molta rilevanza per la
vita reale; raramente si ha motivo di credere che qualcuno sia mosso esclu-
sivamente da una tale preoccupazione. Noi preferiamo dunque considerare
lʼassioma di Elster in un modo più provocatorio, cioè come lʼaffermazione
per la quale il comportamento risulti insignificante nella misura in cui esso
– generalmente, in misura parziale – venga progettato per impressionare.
Ci sono due ordini di ragioni generali per cui questa affermazione non
rappresenta né un serio vincolo al perseguimento e alla competizione né un
ostacolo importante allʼemergere di un’economia di tipo concorrenziale. Il
primo gruppo di considerazioni riguarda il fatto che il perseguimento della
stima non è unʼattività così seriamente disprezzata come sarebbe invece
suggerito dallʼassioma. Il secondo sostiene che in ogni caso esisterebbero
modi di ricercare la stima che non coinvolgano la disistima.

Perché perseguire la stima non è sempre, e non del tutto, disistimabile?


Lʼassioma di Elster, per ciò che afferma, risulta plausibile in riferimento al
comportamento progettato apposta per impressionare un osservatore rispet-
to al fatto che lʼagente in questione sia in qualche modo virtuoso: suppo-
niamo, ad esempio, che egli mostri la disposizione a essere onesto, franco o
gentile. Nella misura in cui io creda che qualcuno si stia comportando con
onestà, franchezza o gentilezza, perché egli possa anche guadagnarsi la mia
approvazione, a quello stadio non avrò prove a sufficienza del fatto che egli
sia realmente incline a essere onesto, franco o gentile. La sola credenza im-
pedirà di giungere alla conclusione per la quale in ogni situazione adeguata
– e senza prendere in considerazione lʼassenza di spettatori – lʼagente si
comporterebbe in modo simile e che manifesterebbe tale disposizione. Così,
non sorprende che in questi casi io non rimango impressionato – infatti non
arriverò a pensare che lʼagente possieda le virtù sfoggiate – se penso che il
comportamento presentato come un esempio della disposizione sia in realtà
prodotto dal desiderio di impressionarmi. Al contrario, riterrò che lʼagente
mi stia volutamente ingannando nel pretendere di mettere in atto una dispo-
sizione virtuosa, fornendomi così una ragione per disistimare il suo com-
portamento.
La prima osservazione che vogliamo fare è che un simile argomento in
altri casi non riuscirebbe ad arrivare al punto. Ad esempio, il fatto che alcu-
ne persone stiano chiaramente cercando di impressionarci con le loro abilità
matematiche, la loro eleganza nella danza, la loro arte al pianoforte o la lo-
ro efficienza nel procurare un servizio veloce e di alta qualità, non minaccia
lʼimpressione che lasciano. Al massimo, quellʼaspetto può portarci a pen-
sare che esse non siano molto modeste, senza che ciò comprometta la prova
che danno della propria abilità, eleganza, arte o efficienza. Noi possiamo

109
disistimarle per la mancanza di modestia, pur reagendo in conformità al
modo in cui esse volevano che reagissimo formandoci unʼalta opinione del-
la loro capacità matematica, leggiadria, arte musicale o abilità di mercato.
Questa osservazione spiega perché lʼeconomia della reputazione non in-
contra problemi con il vincolo al perseguimento e alla ricerca; infatti, come
accennato precedentemente, la reputazione è quasi sempre considerata co-
me dovuta allʼefficacia o ad altre ragioni essenzialmente comportamentali.
Cʼè poi una seconda osservazione da aggiungere. Lʼassioma di Elster
non ha valenza inequivocabile nemmeno rispetto al comportamento proget-
tato per dare prova di una disposizione virtuosa e per guadagnare stima su
quella base. A tale proposito, non è ovvio pensare che la ricerca di stima sia
un male inequivocabile, tale per cui la presenza del desiderio di stima allon-
tani sempre dallʼimpressione suscitata dalla condotta virtuosa. In questo
senso avremmo giudicato il desiderio di stima un male inequivocabile, poi
probabilmente avremmo tenuto nella massima considerazione quegli agenti
virtuosi che si fossero mostrati del tutto indifferenti al pensiero altrui su di
loro, e al contenuto di esso. Questo, però, non è ciò che succede. Perlomeno,
non è ciò che accade tra quelli di noi che non sono stati eccessivamente
influenzati da una certa interpretazione di Kant. Molti di noi riterrebbero
quegli individui che si mostrano completamente indifferenti al fatto che
qualcun altro abbia lʼopportunità di formarsi unʼopinione su di loro, come
eccessivamente sicuri di sé. Come potrebbe qualcuno essere così sicuro del
valore di ciò che sta facendo da non preoccuparsi che anche altri possano
osservare e valutare la sua azione? Gran parte di noi, invece, giudicherebbe
gli individui del tutto indifferenti a ciò che gli altri pensano di loro, nel caso
in cui qualcuno abbia la possibilità di osservarli, come una sottospecie di
mostri morali: li guarderemmo come totalmente spudorati.
La morale è che mentre la testimonianza della ricerca di stima sopra un
certo livello può allontanare dalla stima che attribuiremmo a una persona
virtuosa, questa testimonianza non è qualcosa per cui le persone che ne mo-
strino un basso livello vengano biasimate; al contrario, solitamente si ha
miglior considerazione di qualcuno con una modesta preoccupazione per la
stima degli altri, di quella che si ha per coloro che non se ne interessano.
Concludiamo con una terza osservazione. Anche laddove biasimiamo i
soggetti che cercano la stima in un certo modo, lasciando che questo ci al-
lontani dalla stima che daremmo loro per il fatto di essere virtuosi, non ten-
diamo affatto ad assegnare un peso particolare a tale aspetto negativo del
loro comportamento. In molti casi, ad esempio, preferiremo che qualcuno si
comporti più virtuosamente, anche se con un maggior desiderio di stima,
piuttosto che vederlo comportarsi in maniera meno virtuosa seppur con una
minor preoccupazione di essere ammirato. Forse Oskar Schindler trovava

110
difficile convivere con la disistima dei suoi lavoratori ebrei e fu per questo
motivo che lavorò così duramente per salvarli dai campi di sterminio nazisti.
Detto ciò, avremmo sicuramente unʼopinione più alta del suo comporta-
mento rispetto a quello di un suo corrispondente meno esibizionista, che
non avesse fatto nulla per coloro che si trovavano esposti alle minacce na-
ziste.

Come perseguire la stima senza guadagnare disistima. Anche laddove la


ricerca di stima sia riprovevole, esistono comunque soluzioni che consento-
no agli agenti di evitare di attrarre disistima pur continuando a competere
per la stima. Il perseguimento di questʼultima sarà, infatti, fonte di disistima
qualora esso sia aperto, diretto e fatto di proposito e quando emerga che ci
sono differenti alternative perseguibili, prive di tali caratteristiche. Potrem-
mo dire che esistono modi nascosti per cercare di guadagnare stima.
Considerando la prima eventualità, è possibile che gli agenti, anche
quando stiano attivamente perseguendo la stima, lo celino. È possibile che
impostino le cose in modo da nascondere di aver pensato che qualcun altro
avrebbe anche solo notato ciò che stavano facendo. È possibile che manipo-
lino le prove così da non apparire preoccupati di chi li noti o stimi. E cer-
tamente è possibile che tengano nascoste le loro mosse in modo da essere
sicuri che gli atti disistimabili non arrivino allʼattenzione degli altri. Fin-
tanto che avranno successo in tale occultamento, il fatto che stiano per-
seguendo la stima non ridurrà minimamente la stima procurata ad essi dal
loro comportamento. In questo senso, se la caveranno bene al pari della
persona veramente virtuosa, ovvero di quellʼagente che genuinamente pos-
siede disposizioni virtuose.
Ma non solo è possibile procacciarsi la stima di nascosto. La si può anche
perseguire indirettamente, cercandola cioè al posto di un altro agente as-
sociato. Lʼidea è che le scorte di ciascuno salgano di pari passo con la scorta
di un agente associato. Lʼesempio più chiaro di questo perseguimento
indiretto di stima è il caso in cui gli individui spendono molta della loro
energia tessendo le lodi di un corpo collettivo a cui essi stessi appartengono.
Il corpo collettivo in questione può essere una nazione, un vicinato, unʼorga-
nizzazione o una rete di amici. Il fatto di impegnarsi apertamente nel-
lʼaccrescere la stima di tale corpo potrebbe quasi sembrare altruista e ammi-
revole e potrebbe incrementare la stima allʼinterno del gruppo; questo, infatti,
sembra essere il motivo per cui, in spirito opportunistico, cantare le lodi del
gruppo e non aspettare che siano gli altri a farlo risulti ragionevole. Inoltre,
allo stesso tempo, il medesimo sforzo potrebbe aumentare la stima del
singolo individuo in quanto membro di un corpo presentato come stimabile.

111
Lʼultima osservazione che vogliamo proporre mostra che, a parte il fatto
di non essere aperta o diretta, la ricerca di stima può venire celata in un al-
tro modo, ancor più importante. Essa può essere condotta non di proposito.
Consideriamo alcuni agenti che ottengono stima in alta misura grazie ai
loro avanzamenti in un certo ambito. Questi potrebbero essere sia ricerca-
tori particolarmente produttivi e che ricoprono alte posizioni, sia funzionari
pubblici che forniscono contributi significativi e apprezzati. A tali agenti
importa molto della stima in questione, anche se, nel caso in cui non lʼaves-
sero ottenuta, essi avrebbero conseguentemente abbassato il livello del loro
rendimento o, in alternativa, sarebbero passati a un altro ambito. Inoltre,
questi individui difficilmente sarebbero in grado di includere la stima nel
corso della pianificazione del loro comportamento; essi, infatti, possono
agire seguendo prassi di routine, abitudini o regole oppure in base a consi-
derazioni di cui, senza pensarci, riconoscono lʼautorità allʼinterno di quel-
lʼarea. Il fatto che quella stima per loro sia importante risulta evidente solo
rispetto alla verità controfattuale per la quale, nel caso in cui il loro com-
portamento non dovesse riuscire a ottenerla, essi se ne renderebbero conto
rapidamente e si regolerebbero di conseguenza.
Questa casistica mostra che gli individui possono perseguire la stima es-
sendo disposti a riproporre un modello di condotta orientato al suo otteni-
mento fintantoché esso continui effettivamente ad avere quel risultato. È
possibile ricercare stima senza pianificare direttamente alcun mezzo per il
raggiungimento di quel bene; ciò è attuabile in via ipotetica, non in pratica,
considerando che gli individui risponderebbero in modi diversi alle varie
circostanze controfattuali8. La richiesta di stima può controllare significa-
tivamente il comportamento delle persone, poiché è unʼinfluenza latente
quella che può avere effetto e condizionare la condotta, quando essa non
raggiunga un certo livello di stima. Inoltre, in circostanze ordinarie – in
circostanze in cui il comportamento dellʼagente sia adatto a concorrere per
la stima – il desiderio di stima può non avere un ruolo attivo nella motiva-
zione e può non essere presente alla coscienza.
Non è necessario che il perseguimento virtuale di stima sia fonte di
disistima, almeno fintantoché che esso regoli il comportamento da dietro le
quinte e sia coerente, in circostanze ordinarie, con lʼesercizio autentico di
virtù stimabili. Stando così le cose, il perseguimento virtuale di stima po-
trebbe rappresentare il più razionale approccio disponibile. In altre parole,
il modo migliore di ricercare la stima potrebbe consistere nel fatto di tro-
vare un modello di condotta capace di guadagnarsela e a cui si possa aderi-
re anche nelle decisioni di tutti i giorni senza che sia necessario alcun cal-

8
Cfr. P. Pettit, The virtual reality of homo economicus, “Monist”, 78, 1995, pp. 308-329.

112
colo rispetto alla quantità così ottenuta. Lʼagente che si comportasse a que-
sto modo smetterebbe di fare calcoli sulla stima fino a quando il feedback
non gli indicasse che il bene stia smettendo di arrivare e, solo nel caso di un
tale messaggio negativo, riprenderebbe in considerazione il modo in cui ha
ragionato ed è giunto a una certa decisione9.

4. Oltre il vincolo dello scambio

Il fatto che i vincoli al perseguimento e alla competizione siano indul-


genti quanto lo suggeriscono le nostre osservazioni significa che gli indivi-
dui hanno un buon margine per gareggiare gli uni con gli altri nel tentativo
di ottenere stima. Ciò implica che non si ponga alcun ostacolo alla nascita
di unʼeconomia della stima, seppure di unʼeconomia nascosta nella quale la
ricerca sia spesso celata, indiretta o virtuale.
Ciononostante, ci sono ancora questioni da sollevare riguardo al vincolo
dello scambio. Infatti, se questo vincolo è così rigido e restrittivo come ap-
pare nella Sezione 2, allora esso avrà un importante effetto modellante sul-
lʼeconomia della stima. Comunque, sta di fatto che anche questo vincolo è
più permissivo di quanto non sembrasse allʼinizio: esso permette il manife-
starsi di un tipo peculiare di scambio, seppur nuovamente di uno scambio
che potrebbe restare in qualche modo nascosto.

I servizi relativi alla stima. Il vincolo dello scambio è radicato in senso


molto più profondo e stabile di quanto lo sia quello al perseguimento e alla
competizione. Ciò deriva dal fatto – forse lʼaspetto più importante in questo
campo – che la stima si genera involontariamente dal modo in cui le cose
appaiono al soggetto giudicante. La stima, infatti, non può essere procurata
o trasmessa attraverso una scelta volontaria; quindi, essa non può nemmeno
essere trasformata in oggetto di baratto o dono.
Ma il fatto che la stima non possa essere attribuita di proposito non si-
gnifica che le persone siano incapaci di prestare volontariamente dei servizi
che ne assicurino più o meno la comparsa – e ciò su base involontaria. Tale
è il motivo per cui il vincolo dello scambio risulta essere alquanto permis-
sivo. Menzioneremo tre servizi del genere, i quali possono essere forniti
volontariamente sia per mezzo di uno scambio – forse, come vedremo, solo
un tipo nascosto di scambio – sia come dono.
Il primo servizio o favore in questione consiste nel mio dare attenzione a
un modello di condotta che tu solleciti o assumi, e che ti consenta di au-

9
Cfr. P. Pettit, G. Brennan, Restrictive consequentialism, “Australasian Journal of Philosophy”, 64,
1986, pp. 438-455.

113
mentare la stima ricevuta. Non importa quanto tu possa comportarti bene,
non avrai da me alcuna stima per il tuo comportamento fintantoché io non
sia pronto a notarlo; unʼaffermazione analoga vale per la disistima. Inoltre,
dato che mi trovo nella posizione di scegliere se prestare o meno attenzione
ai tuoi sforzi rispetto al modello di condotta da te proposto, io posso anche
decidere di offrire o negare qualcosa che valga come indicatore della mia
stima. Così, posso scegliere di prestare o negare attenzione sia davanti a un
comportamento che meriti di ricevere più stima – diciamo, davanti a un fat-
to che tu chiaramente vorresti venisse valutato – sia davanti a un caso che
non offra tale prospettiva positiva: davanti a un comportamento, quindi, che
minacci di far crescere la mia disistima. Ad esempio, nell’eventualità in cui
tu sia uno scrittore ansioso di impressionarmi, io potrei scegliere di concen-
trarmi sui lavori che ti piacerebbe sottopormi e per i quali vorresti essere
giudicato; in alternativa, potrei scegliere di dedicarmi a quei tuoi scritti gio-
vanili che ti provocano imbarazzo.
Il secondo servizio di stima che posso prestarti volontariamente è stret-
tamente correlato al primo; consiste nel dare o non dare espressione allʼo-
pinione che ho di te o del tuo lavoro. Il servizio o favore in questione sta
nel fatto di manifestare unʼopinione favorevole o esprimerne una negativa,
siano queste credenze reali o fittizie; il disservizio corrispondente consiste
nel non dare testimonianza di unʼopinione favorevole o nel non manifestar-
ne una sfavorevole – ancora, siano esse reali o fittizie. Non importa che tu
ti comporti bene o male e non ha rilevanza nemmeno che io ti giudichi bene
o male; è improbabile che il tuo comportamento ottenga stima o disistima
al di fuori dalla nostra cerchia fintantoché io non sia incline a esprimere
unʼopinione al suo riguardo. E così posso farti un piacere, o forse entrare in
uno scambio con te, rispetto al mio ruolo di testimone.
Il vincolo sul procurare stima può dunque escludere la concessione vo-
lontaria della stessa ma non può impedire che si provveda volontariamente
a servizi che la manifestino. La mia attenzione favorevole mostra la stima
che io stesso ti conferisco, mentre la mia testimonianza favorevole rappre-
senta la stima che gli altri potrebbero attribuirti. Può non esserci spazio per
un mercato riguardante la provvigione di stima, ma questo non dice nulla
contro la possibilità di un mercato di quei servizi che la promuovono.
Lo scambio di stima è vincolato, abbiamo visto, non solo in quanto io
non posso provvedere di proposito alla mia stessa stima ma anche nella mi-
sura in cui io non possa deliberatamente trasmetterti la stima attribuitami da
altri. Ma cʼè un terzo servizio di natura intenzionale che serve a indicare un
passaggio di stima, ed esso deriva dal modo in cui essere presenti e testimo-
niare siano manifestazioni della mia stima, o di quella altrui, nei tuoi con-
fronti. Io posso associarmi a te in modo tale da riflettere su di te la stima –

114
o, ovviamente, la disistima – datami da altri. Oppure, posso dissociarmi da
te e bloccare così questo passaggio.
Se io in qualche modo mi metto pubblicamente in relazione con te, co-
me invitandoti a prendere parte a unʼimportante rete di colleghi o amici, al-
lora posso trasmetterti una porzione di quella considerazione, buona o cat-
tiva, di cui godo personalmente. Al contrario, nel caso in cui ti rinneghi
pubblicamente, come imponendoti una sorta di ostracismo, allora ti nego
qualsiasi porzione di quella considerazione. Pensiamo al potere che ha un
Premio Nobel nell’attirare colleghi e collaboratori. O pensiamo allʼeffetto
di un vincitore di Premio Oscar quando egli nomini qualcuno in particolare
per essere stato fondamentale rispetto al suo successo. Tutto quello che cia-
scuno di loro offre non è solo una testimonianza favorevole – sebbene essi
offrano anche questa – ma un riflesso sulla persona menzionata dellʼonore
che loro stessi hanno ottenuto.

Lo scambio nascosto. Abbiamo compreso che, sebbene io non possa con-


ferire o negare stima di proposito, potrei comunque conferire o negare certi
servizi ad essa legati. Ma il fatto che io sia nella posizione di negare o con-
ferire deliberatamente tali servizi non implica, di per sé, che possa anche
usarli intenzionalmente nello scambio, sia con servizi dello stesso tipo sia
con altri beni. Infatti, potrei essere in grado di darti volutamente qualcosa in
un preciso contesto, senza perciò essere in grado di procurartelo in altri. E
così potrei permettermi di prestarti servizi di stima in alcune circostanze
senza che mi sia possibile farlo in situazioni di scambio.
Ne risulta, dunque, che non si può fare affidamento sulla capacità di of-
frire servizi relativi alla stima allʼinterno di contesti di scambio ordinario.
La stima, per lʼattitudine che è, rappresenta una risposta non volontaria, ba-
sata sulla valutazione. Questa considerazione, che sta allʼorigine del vinco-
lo dello scambio, implica che i servizi di stima che vengono prestati posso-
no solo servire come buoni veicoli di stima – e possono solo ricompensare
il comportamento – nei casi in cui chi valuta sia ritenuto adeguatamente
sincero. Ma il problema è che la sincerità sarà sempre in questione laddove
vi sia unʼinequivocabile proposta di scambio.
Nello scambio ordinario si assume che io sia suscettibile rispetto a moti-
vi e considerazioni che gettino sospetto sulla sincerità con la quale starei
offrendo i veicoli di stima in quanto beni di scambio. Supponiamo che io
noti con apprezzamento i tuoi sforzi, guardando a tutti e soli quegli aspetti
del comportamento verso i quali stai attirando la mia attenzione. Suppo-
niamo che io offra una testimonianza positiva anche dei tuoi successi. Op-
pure, supponiamo che io ti coinvolga in una forma di associazione che ti sia
favorevole. Così facendo, in una situazione in cui manifestamente io tragga

115
vantaggio da quello che tu mi dai in cambio, sarà difficile per me convince-
re chiunque altro, te in primis, del fatto che io sia un giudice imparziale che
riporta risposte involontarie.
Qualora io scambi una cosa per unʼaltra, offrirò il mio bene, servizio o
denaro in cambio di altro, come in un baratto. Ciò implica che io ti lasci in-
tendere – perciò lo considero un fatto di consapevolezza comune – che ti
stia dando quel che ho da offrire perché e solo perché tu mi stai dando ciò
che puoi offrirmi; questo nellʼassunzione che – nuovamente come fatto di
consapevolezza comune – tu dia a me ciò che hai da offrire perché e solo
perché io ti do quello che posso offrire. Lo scambio diventa un tentativo in-
tenzionale dalla parte di entrambi di aumentare le proprie scorte, cosa fatta
in modo completamente aperto e manifesto: il motivo e la strategia da ogni
parte sono aspetti condivisi.
Supponiamo ora che io rivolga con apprezzamento la mia attenzione al
tuo comportamento in un contesto in cui è noto che io agisco così perché e
solo perché so che tu mi offrirai qualcosa in cambio. Oppure, supponiamo
che io testimoni i tuoi meriti quando la ragione dello scambio sia nota tanto
agli altri quanto a noi. Oppure, supponiamo che io ti proponga di associarti
a me in un contesto in cui il motivo dello scambio, insieme allʼapprezza-
mento riflesso, goda della medesima notorietà generale.
Non cʼè bisogno di riflettere molto per realizzare che in queste circo-
stanze il servizio a cui io adempio potrebbe non avere lʼeffetto desiderato
nel regno della stima. In base a ciò che cerco nello scambio, l’attenzione, la
testimonianza o lʼassociazione da me offerta potrebbe sembrare del tutto
egoistica e disonesta. Fintantoché essa apparirà a quel modo allora, a tali
condizioni, non rappresenterà una credibile manifestazione di stima da par-
te mia o una fonte della stima altrui per la persona in questione.
Sebbene generalmente possa risultare impossibile avere accesso in mo-
do produttivo a un normale scambio di stima – ovvero a uno scambio par-
tecipato ed esplicito – potrebbe comunque darsi il caso che io riesca a en-
trare in forme di scambio non evidenti o non attive intenzionalmente. Qui si
presenta una lezione analoga a quella proposta nella discussione sul vincolo
al perseguimento e alla competizione.
Nella misura in cui io posso nasconderti il fatto che la mia attenzione sia
legata a un motivo di scambio, o quando io possa nascondere agli altri che
nellʼoffrirti testimonianza o associazione stia agendo per tale motivo, si ca-
pisce chiaramente che io sono in grado di suscitare con successo stima nei
tuoi confronti in cambio di una ricompensa. Lo scambio in questione sarà
dunque un esercizio opportunistico, ma non per questo non sarà uno scam-
bio di successo.

116
Soprattutto, traspare come non sia necessario che lo scambio virtuale di
manifestazioni di stima rappresenti un ostacolo per lo scambio ordinario.
Questo, infatti, può avere successo, e può averlo pur essendo completamen-
te esplicito e manifesto.
Supponiamo che io sia abituato a offrirti attenzione favorevole, testimo-
nianza e associazione e che questa abitudine sia direttamente supportata
dalla considerazione positiva che ho di te. Questa può ancora rappresentare
unʼeventualità in cui, se io in cambio non godessi di certe ricompense – nel
caso più probabile, di ricompense in natura – allora rivolgerei la mia atten-
zione, la mia testimonianza o la mia offerta di associazione altrove. Effetti-
vamente, potrei addirittura non riconoscere questo fatto e ciò potrebbe non
avere alcun ruolo nella mia motivazione attiva e nel mio ragionamento.
Ciononostante, il caso potrebbe persistere e mostrare che la mia preoccupa-
zione per le ricompense di cui godiamo reciprocamente esercita un serio
controllo sul mio comportamento; inoltre, potrebbe mostrare che quel mio
comportamento – e, per simmetria, il tuo comportamento – ha una struttura
legata allo scambio. La preoccupazione per le ricompense reciproche ha un
forte effetto sulla nostra condotta; resta in attesa, pronta a intervenire e ri-
modellarla, quando essa dovesse smettere di ottenere le ricompense pro-
spettate.
Lʼaspetto cruciale in questa immagine di scambio virtuale è che mentre
io posso offrire importanti servizi per la stima solo finché riceva o mi
aspetti un ritorno in natura, il motivo che mi spinge a offrirti tali prestazioni
non consiste nel medesimo fatto per cui io riceva o mi aspetti la stessa
ricompensa. Se ti offro certi servizi è perché sono abituato a pensare bene
di te, ammirare in te questo o quel tratto, e così via; dʼaltra parte, la preoc-
cupazione per la reciprocità non spiega la ragione per cui io ti riservo atten-
zione e ti offro testimonianza favorevole o associazione. Essa, infatti, spie-
ga solo perché tu appartieni al dominio delle persone a cui offro tali beni –
sulla base, in ogni caso, di ragioni appropriate e relative al merito.
Questo quadro di scambio virtuale non è egoistico. È sicuramente unʼaf-
fermazione plausibile che così come si tende a dare amicizia solo dove si ri-
ceve amicizia in cambio, allo stesso modo, in generale, si è inclini a dare at-
tenzione favorevole, testimonianza e associazione solo dove si goda a pro-
pria volta di simili ricompense – o forse di altre ricompense correlate. Sicu-
ramente non si è affezionati a certi amici, o non si fanno loro dei regali, a
causa del loro affetto; si prova affetto e si fanno loro dei favori, nel normale
corso delle cose, perché questo è fonte di piacere e perché ci si identifica
con loro. Nonostante ciò, può essere vero che se non si venisse amati o non
si ricevessero favori dagli amici, si tenderebbe a investire su altre amicizie.
Tale lezione, per come la intendiamo, può essere compatibile con i servizi

117
relativi alla stima. Mentre il dovere può spesso richiedere di essere impar-
ziali su questioni simili, le offerte spontanee che appartengono al dominio
dellʼattenzione, della testimonianza e dellʼassociazione finiscono in genere
per essere positivamente legate alla reciprocità. Le persone sono libere di
fare queste offerte da una parte o dallʼaltra e non dovrebbe sorprendere se,
in generale, scelgano di farle dove i ritorni siano relativamente buoni e non
dove siano relativamente scarsi.
Nemmeno è necessario vedere un effimero interesse personale allʼinter-
no di questo quadro. La stima degli altri è strettamente legata alla stima di
sé, nel senso che è più difficile per qualcuno pensare bene degli altri se co-
loro con i quali socializza non pensano bene di lui. Ma ciò significa che una
persona, per avere e mantenere un livello accettabile di stima di sé, dovreb-
be scegliere di associarsi con chi condivida i suoi stessi valori e interessi e
sia generalmente propenso a pensare bene di lui. Noi pensiamo che, in tali
circostanze, sia del tutto giusto – e certamente non si tratta di stretto, inat-
taccabile interesse personale – che si debba provare a conservare la propria
autostima. E così non dovremmo interpretare come opportunistica lʼosser-
vazione per la quale le persone tendono a esprimere manifestazioni di stima
solo dove loro stesse ricevano tali manifestazioni in cambio.
Un altro modo di porre il punto della questione è questo: nel caso in cui
ci fosse stata una forma regolare di scambio che includa i servizi di stima,
lʼesistenza di questi servizi sarebbe stata spiegata dal desiderio delle perso-
ne di avere certe ricompense, sia in natura che non, e la sincerità di chi sta-
va provvedendo ai servizi sarebbe stata messa in questione. Al contrario,
dove cʼè solo una forma virtuale di scambio che includa i servizi di stima,
in ogni caso, lʼesistenza dei servizi potrà essere spiegata da fattori che sod-
disfino il requisito della sincerità. Infatti, lʼaspetto che può essere spiegato
dal desiderio di ricompense provato da chi provvede ai servizi non è ne-
cessario sia lʼesistenza di quegli stessi servizi ma, piuttosto, la loro origine:
non cʼè bisogno che essi si verifichino ma solo che si verifichino a questo o
quel proposito.

5. Verso l’economia della stima

Il fatto che il primo tipo di vincolo non sia manifestamente restrittivo


significa che non cʼè spazio per unʼeconomia competitiva nella quale ogni
persona persegua un bene ampiamente richiesto e disponibile in quantità li-
mitata. Il fatto che il secondo tipo di vincolo sia piuttosto permissivo com-
porta che nei servizi relativi alla stima si dia anche spazio allo scambio e
alla competizione nel perseguimento di tale possibilità. Accanto a ciò, la

118
realtà dei vincoli rende plausibile che lʼeconomia della stima, in ogni suo
aspetto, abbia il carattere di unʼeconomia nascosta.

Competere per la stima. Ci sono almeno tre diversi modi attraverso i quali
le persone possono competere nella ricerca di stima. Uno consisterà nella
competizione relativa alla natura del comportamento. Un altro riguarderà la
competizione rispetto al tipo di pubblicità che possa massimizzare la stima
da esso ottenuta. Il terzo starà nella competizione inerente alla struttura del
comportamento pubblicamente osservato allo scopo di massimizzare la sti-
ma ottenuta.
La competizione nel comportamento porterà le persone a impegnarsi du-
ramente in ogni campo, al fine di agire in un modo che generi stima, o a
cercare di dirigere i propri sforzi in quei settori in cui esse hanno più facili-
tà ad ottenerla. Considerando alcuni esempi ordinari in ambito universitario,
è frequente che gli studenti provino a ottenere lʼammirazione dei docenti,
che i ricercatori si cerchino e stabiliscano un ruolo tra i loro pari e che gli
accademici provino a collocare i propri sforzi tanto nella ricerca quanto nel-
lʼinsegnamento, nellʼamministrazione e in quelle aree in cui i ritorni in sti-
ma risultino maggiori.
Ma a parte la competizione nel comportamento, qualsiasi sia il campo,
ci dobbiamo aspettare anche la competizione nella pubblicità. Ad esempio,
è probabile che, quando si voglia vedere riconosciuti i propri meriti, si desi-
deri un pubblico di ascoltatori che sia il più grande e significativo possibile,
e un pubblico di ascoltatori il più piccolo e insignificante possibile qualora
siano in ballo i propri demeriti; così si vorrà un pubblico di ascoltatori che
condivida la consapevolezza comune che i propri meriti sono stati ricono-
sciuti in un certo modo; e si preferirà che venga impedito di parlare, e dun-
que di diffondere veleno, a chi possieda un’opinione sfavorevole.
La terza area in cui possiamo aspettarci competizione consiste in quella
che abbiamo descritto come strutturazione del comportamento. Il modo in
cui uno viene valutato e stimato relativamente al grado di condotta osserva-
to è funzione di svariati elementi. In primo luogo, bisogna tenere conto di
quali dimensioni del comportamento siano valutate positivamente e quali
negativamente nella cultura di riferimento; secondariamente, si considera
quali dimensioni siano usate nella valutazione della propria condotta; infine,
quali persone siano assunte come il gruppo adatto a fornire lo standard di
paragone o a costituire la classe in cui la persona in questione è posizionata
e giudicata.
Una volta chiariti questi diversi modi in cui le persone possono compe-
tere per la stima – e senza dubbio ce ne sono altri – si ha un insieme di que-
stioni con cui dimostrare e provare a prevedere il loro comportamento in

119
qualsiasi circostanza. Si pensi ai membri del mondo accademico. Non solo
ci si aspetterebbero le forme di competizione notate precedentemente in re-
lazione al comportamento. Ci si dovrebbe anche aspettare che gli agenti
competano rispetto alla sua pubblicità e struttura.
Il caso della pubblicità è inequivocabile. Gli studenti e i ricercatori vor-
ranno presumibilmente assicurarsi che il loro successo venga notato e i loro
fallimenti ignorati; che i loro successi diventino materia di consapevolezza
comune; che coloro che parleranno contro di loro vengano trattati con scet-
ticismo e screditati. Che dire, invece, della competizione rispetto alla strut-
tura? Qui un esempio è fornito da un modello di condotta spesso riscontrato
tra i membri delle facoltà universitarie, particolarmente tra coloro che non
prendono tanti punti nelle valutazioni pubbliche. Questi sostengono lʼim-
portanza delle dimensioni della valutazione che sono loro più congeniali:
lʼinsegnamento e non la ricerca, o la ricerca nel proprio settore e non la va-
rietà generale. Questi ritengono anche che, tra i parametri standard, dovreb-
bero essere valutati in base a quelli loro più congeniali, siano essi tassi di
pubblicazione, di citazione, di valutazione degli studenti, o altro. Inoltre,
essi stessi si presentano come parte di quel gruppo allʼinterno del quale rie-
scono a spiccare con più facilità: non tra i docenti con alte valutazioni nel
loro stesso dipartimento ma piuttosto tra i docenti universitari in generale;
non tra i ricercatori nella loro stessa materia ma solo tra i ricercatori che as-
sumono il medesimo approccio o si dedicano alla loro particolare spe-
cializzazione.
Non stiamo qui affermando che, considerando tali iniziative, le persone
nel mondo accademico cerchino in modo eccessivo e con diffidenza di pro-
muovere la propria reputazione; quella non sarebbe una buona strategia,
ammesso che il vincolo al perseguimento e alla competizione abbia una
qualche presa. Riteniamo, invece, che il più delle volte la competizione per
la stima abbia un carattere virtuale. Le persone prendono le diverse strade
che prendono per un gran numero di ragioni: lavorano duramente per il pia-
cere e per il senso di realizzazione che esso procura loro, cercano un pub-
blico per il loro lavoro, senza la convinzione che il lavoro sia proficuo; cri-
ticano il tipo di standard che declasserebbe il lavoro senza la credenza ap-
passionata che quello standard sia inappropriato. Accade, tuttavia, che gli
sforzi individuali vengano implementati dal fatto che la stima in ogni caso
aumenti. E se gli sforzi non dovessero dimostrarsi appaganti in quel senso,
ci sarebbero possibilità di aggiustare e adottare altri approcci. Il compor-
tamento è formato seguendo i contorni della competizione per la stima ma
tale formazione è ottenuta principalmente senza una direzione consapevole.

120
La pratica dello scambio nel dominio della stima. Queste brevi considera-
zioni dovrebbero chiarire che cʼè molto spazio per la comparsa di un’eco-
nomia competitiva della stima, seppure essa resti nascosta. Inoltre, dovrem-
mo anche prestare attenzione allo spazio per lo scambio allʼinterno di que-
sto dominio: non propriamente lo scambio di stima ma certamente lo scam-
bio di vari servizi relativi alla stima: previsione di attenzione favorevole, te-
stimonianza e associazione.
Consideriamo i casi seguenti dove gli accademici godono di benefici re-
ciproci nel dominio della stima.
1. Due parti accademiche – individui o gruppi – traggono beneficio
dallʼunione professionale dellʼuna con lʼaltra: ognuna guadagna un poʼ di
gloria riflessa, mentre nessuna ne perde; infatti, riflettere la propria gloria
non significa diminuirla.
2. Un referente testimonia per il merito di uno studente, o di un colle-
ga, e guadagna in cambio la ricompensa di essere ritenuto capace di asse-
gnare una posizione a uno dei suoi allievi o a un suo pari.
3. Una persona testimonia per il merito del libro di un altro scrivendo
una recensione per un soffietto editoriale e guadagnando in cambio la ri-
compensa di essere presentata ai lettori come qualcuno la cui opinione ha
valore.
4. Due ricercatori dedicano particolare attenzione lʼuno al lavoro del-
lʼaltro, godendo così del beneficio della reciproca stima manifesta.
È perfettamente plausibile, e non necessariamente egoistico, che queste
forme di beneficio reciproco rappresentino pratiche di scambio, in partico-
lare di scambio virtuale. Lʼidea è che, considerando la dinamica descritta,
ogni parte agisca per abitudine, convinzione, senso del dovere o altro, pur
assumendo che tale agire venga ricompensato da un beneficio reciproco.
Del resto, se la condotta adottata non fosse ricompensata a quel modo – in
particolare, se dovesse ostacolare la corsa alla stima – essa, probabilmente,
non verrebbe perpetuata. La reciprocità è controllata dallʼinteresse di cia-
scuna parte per il godimento della stima, sebbene il controllo abbia un ca-
rattere del tutto virtuale. Lʼinteresse di ogni parte per la stima resta latente,
pronto a modificare il comportamento nel caso in cui le ricompense abituali
non dovessero arrivare, senza giocare alcun ruolo diretto e restando così
sullo sfondo.
Lʼaffermazione per la quale queste forme di reciprocità rappresentano
scambi virtuali, non attivamente intenzionali, può essere corroborata consi-
derando alcuni casi contrastanti. Supponiamo che A offra di pagare B per
ottenere gloria riflessa dallʼassociazione con B; o supponiamo che un edito-
re offra di pagare unʼalta carica accademica per esprimere una buona opi-
nione, reale o fittizia, su un libro; o supponiamo che un ricercatore sugge-

121
risca a un altro – egoisticamente, non senza interesse – di citare e apprezza-
re i rispettivi lavori. Buona parte di noi, sospettiamo, rifiuterebbe su due
piedi questa offerta ritenendola alquanto sgradevole. Inoltre, molti di noi
sarebbero scettici rispetto alla normalità di queste proposte; ma tale scettici-
smo, o critica, non sorgerebbe con i casi precedentemente menzionati.

Comprendere lʼeconomia della stima. Si dice che il primo trattato sulla


Corrente del Golfo cominci con la frase «Cʼè un fiume nellʼoceano». Così,
allo stesso modo in cui esiste un fiume nascosto nel tumulto dellʼoceano,
noi suggeriamo che ci sia unʼeconomia nascosta nel turbinio della vita so-
ciale.
In ogni caso, non abbiamo inteso rivolgere lʼattenzione a questa econo-
mia nascosta della stima al solo scopo di accrescere lʼinventario del mondo
sociale. Quando comprendiamo lʼeconomia ordinaria, identifichiamo ten-
denze, conseguenze non intenzionate che toccano la vita individuale e ci
mettiamo nella posizione di chiederci in che misura questi effetti, secondo
criteri generalmente accettati, possano essere ampliati. E così comʼè per
lʼeconomia ordinaria, allo stesso modo è per lʼeconomia della stima.
Quando le persone competono e commerciano al modo illustrato prece-
dentemente, esse danno collettivamente avvio a certe conseguenze indivi-
dualmente non intenzionate. Così il fatto che le persone competano nel
comportamento in qualsiasi ambito può alzare lo standard di valutazione e
stima e rendere più difficile raggiungerne un più alto livello all’interno di
un certo contesto. Il fatto che ottenere stima in un dato ambito diventi più
difficile – il costo in termini di sforzo e tempo cresce – può far sembrare
più attraente guardare ad altri ambiti in cui ricercare la stima o perseguire la
soddisfazione in generale. E che in ogni campo si competa nel cercare una
pubblicità adatta a quello che viene fatto può far diventare sempre più dif-
ficile lʼottenimento di tale pubblicità; infatti, ciò può condurre a un esito
svantaggioso per il quale ognuno faccia più di quanto stesse facendo prece-
dentemente pur ottenendo il medesimo risultato in termini di stima.
Queste conseguenze non intenzionate tornano a toccare lo scenario indi-
viduale di quegli agenti che ne sono collettivamente responsabili. Che lo
standard della valutazione emerga in una data area implicherà la corrispet-
tiva comparsa di un comportamento generale. Che i costi del fare bene in
un ambito salgano relativamente ai costi del fare bene altrove tenderà a tra-
scinare le persone fuori da quellʼarea e dentro ad altre. Che i costi dellʼot-
tenere pubblicità crescano, senza nessun beneficio di compensazione, por-
terà le persone che cercano pubblicità ad avere risultati peggiori.
Di fronte a tali effetti non possiamo rimanere indifferenti. Rispetto a
certi settori, molti di noi esulteranno di fronte a un miglioramento nel com-

122
portamento delle persone, mentre, rispetto ad altri, lo condanneranno. Molti
di noi saranno preoccupati del fatto che alcuni campi vengano lasciati per
altri, mentre, nel caso di altri ambiti, il fenomeno creerà compiacimento. In
generale, nella maggior parte dei casi, ognuno di noi disprezzerà il decre-
scere dei tentativi quando i costi della ricerca di pubblicità salgono senza
che nessuno ne benefici. Perciò, è difficile non pensare a come questi mo-
delli aggregativi, non intenzionati, potrebbero essere forgiati e incanalati
verso effetti migliori.
Abbiamo iniziato questo saggio menzionando il modo in cui le forze
della stima e della disistima possano eludere problemi pratici e dare origine
a certe norme. A loro volta, queste potrebbero aiutare gli agenti a risolvere
difficili situazioni di azione collettiva – prendiamo il problema della spaz-
zatura – o, come nel caso della vendetta, esse potrebbero recare più dolore
che bene collettivo. Comunque sia, non si può rimanere indifferenti rispetto
alle norme che prevalgono nella nostra società e, di conseguenza, sarebbe
opportuno preoccuparsi di quanto le forze della stima e della disistima si
possano orientare alla produzione di norme che tutti noi considereremmo a
favore del bene comune. Potrebbe darsi che stabilendo certi standard gene-
ralmente accettati – prendiamo per esempio lo standard di scrupolosità nel-
la vita pubblica – sia possibile attivare forze di stima e disistima e miglio-
rare la condotta delle autorità pubbliche. Potrebbe essere che rendendo di-
sponibili alcune informazioni – ad esempio, informazioni riguardanti gli ef-
fetti nocivi del fumo passivo – si possano attivare forze di stima e disistima
e ridurre lʼincidenza di comportamenti individuali dannosi. E così via.
Infine, abbiamo portato lʼeconomia della stima allʼattenzione generale
non solo per motivi di interesse intellettuale ma anche per ragioni pratiche.
Infatti, tracciare lʼeconomia della stima ci porterà sicuramente ad avere una
comprensione migliore del mondo sociale, permettendo, inoltre, di cambia-
re quel mondo in meglio. Come ogni esercizio proficuo in economia, lʼim-
presa abbozzata qui offre prospettive entusiasmanti su entrambi i fronti,
teoretico e applicativo.

123
I debiti di Durkheim verso Rousseau*

Gabriella D’Ambrosio

ABSTRACT: The aim of this work is to analyze, in detail, the theoretical framework that the
french sociologist Émile Durkheim has done during his methodological studies. In
reconstructing this path, we can note that his digressions can be compared with the theories
propounded by Jean Jacques Rousseau that include: the man’s state of nature, the
development of civil society and National State. For this reason, the proposed work
examines the positions of two authors with reference to particular political and social
themes.
KEYWORDS: Nature, State, civilization, law, modernity

Introduzione

Il lavoro di ricerca qui sviluppato analizza l’excursus teorico che Émile


Durkheim ha affrontato nel corso del suo lavoro metodologico relativo
all’analisi del comportamento dei singoli individui all’interno della società.
Tale studio non può esimersi dal confronto con le teorie esposte dall’illu-
minista Jean Jacques Rousseau con riferimento sia all’individuazione
dell’uomo nello stato di natura sia al crescente bisogno della società civile,
e in ultimo alla concezione dello Stato.
Tale prospetto presenta, inevitabilmente, uguaglianze e disuguaglianze
che manifestano l’importanza di un discorso sociologico versus un discorso
prettamente filosofico.
Innanzitutto è necessario far riferimento al periodo storico in cui i ‘no-
stri’ agiscono ed operano: da una parte, Rousseau è da inquadrarsi nel pe-
riodo in cui l’Illuminismo, corrente filosofico-letteraria, condizionava le
menti e le idee degli uomini rivolti verso quell’età dei Lumi che sembrava
aver fatto luce sul passato ‘oscurantista’; dall’altra, invece, il sociologo
francese vive nella cosiddetta età della Restaurazione, periodo in cui il
Congresso di Vienna (1815) si proponeva di formare un ordine legittimo

* Data di presentazione: 3 febbraio 2017; data di accettazione: 21 aprile 2017. Affiliazione: Dottoran-
da di Ricerca in Metodologia delle Scienze Sociali presso il Dipartimento CoRiS, Università di Roma
“La Sapienza”. Indirizzo email: gabriella.dambrosio@uniroma1.it.

La società degli individui, n. 58, anno XX, 2017/1 ISSN 1590-7031, ISSNe 1972-5752
dopo l’avvento della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche che
avevano abdicato il potere del re. In questa prospettiva, facile è comprende-
re come il cittadino e gli ideali di una volontà nazionale o popolare prenda-
no il sopravvento e il sociale in toto diventi un elemento di rilevanza stra-
ordinaria nella storia moderna.
Sotto questo punto di vista, Durkheim e le sue Règles de la méthode so-
ciologique (1894) ne sono la più alta e meglio riuscita manifestazione, i-
naugurando la sociologia come disciplina scientifica, in grado di muoversi
e di conciliare il piano delle astrazioni concettuali con il piano della cono-
scenza empirica.

Il nostro metodo ha il vantaggio di regolare l’azione nello stesso tempo che il


pensiero. Se il desiderabile non è oggetto di osservazione ma può e deve essere de-
terminato con una specie di calcolo mentale, nessun limite può essere fissato alle
libere invenzioni della immaginazione alla ricerca del meglio1.

Per tali ragioni, al fine di comprendere appieno l’opera e l’intento dur-


khemiano di «fondare la sociologia»2, si è deciso di analizzare nel dettaglio
il pensiero del filosofo francese a partire da una disamina dei punti di con-
tatto con le teorie di Rousseau; un pensiero che, come verrà esplicitato in
seguito, vede di suprema e assoluta importanza «la concezione dell’am-
biente sociale come fattore determinante della evoluzione collettiva»3.

Dallo stato di natura alla società civile


La discussione socio-filosofica di Rousseau che vedrà la sua piena com-
pletezza con la pubblicazione de Du contrat social ou principes du droit
politique (1762), affonda le sue radici nelle discussioni circa il soggetto
uomo e la sua collocazione nello stato primitivo che il filosofo ginevrino
definisce «stato di natura»4. Per Rousseau, infatti, alla base del male tra gli
1
É. Durkheim (1894), Le regole del metodo sociologico, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 37.
2
Cfr. M. Fournier, Émile Durkheim (1858-1917), Fayard, Paris 2007.
3
É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, cit., p. 45.
4
Lo ‘stato di natura’, considerato come ipotetica condizione in cui gli uomini non sono ancora asso-
ciati tra di loro, fu esaminato antecedentemente in modo analitico sia da Hobbes (1651) che da Locke
(1689): per Hobbes lo stato di natura si configura come un bellum omnium contra omnes, stato in cui gli
uomini a causa della scarsità dei beni disponibili combattono l’uno contro l’altro; per il secondo, invece,
lo stato di natura è una condizione di perfetta libertà in cui l’uomo gode di diritti intangibili che non
possono essere in alcun modo obiettati. Riprendendo queste teorie, Rousseau afferma che lo stato di
natura rappresenta una condizione in cui gli uomini da ‘buoni selvaggi’ si ritrovano ad essere, attraverso
i cambiamenti indotti dalle trasformazioni sociali, cattivi. Tuttavia, come sottolinea J. Rawls (2000), i
motivi per cui Rousseau non afferma mai che la natura umana è ‘cattiva’ alla radice sono da rintracciare
in due fondamentali elementi: nel suo rifiuto dell’ortodossia cristiana (per Rousseau schiavitù e proprie-

125
uomini nella società moderna vi è il processo di civilizzazione, il quale, at-
traverso il suo sviluppo, ha creato fenomeni di disuguaglianza, corruzione
morale e coercizione violenta5. Convinto del fatto che le ricerche antropo-
logiche «sono tuttavia i soli mezzi che ci restano per eliminare le molte dif-
ficoltà che ci sottraggono la conoscenza dei fondamenti reali della società
umana» 6, Rousseau, a conferma di questa tesi, pone la seguente domanda:

perché l’uomo è soggetto a rimbecillire? Non è forse perché torna così al suo
stato primitivo? E perché, mentre la bestia che nulla ha acquistato e nulla ha da
perdere mantiene sempre il suo istinto, l’uomo tornando a perdere per vecchiaia o
altri accidenti quanto la sua perfettibilità gli aveva fatto conquistare viene a cadere
più in basso anche della bestia?7

A partire da queste considerazioni, è facile rendersi conto del fatto che


Rousseau non si inserisce in nessun modo nel contesto sociale e letterario
del suo tempo e che la sua opera si discosta palesemente dai temi dominanti
del periodo illuminista e della sua fede nel progresso della ragione. Difatti,
nelle analisi dei discorsi sull’ineguaglianza tra gli uomini è posta, in chiara
evidenza, la posizione ostile alla società illuminista che inquadrava e vede-
va nella razionalità umana i presupposti necessari per la convivenza civile,
quegli stessi presupposti che, secondo Rousseau, erano, questa volta, alla
base sia della disgregazione morale sia del regresso umano. Il progetto di
Rousseau (quello di contrapporre il recupero di una nuova natura alla fede
dei Lumi) può essere visto, dunque, come un’utopia poiché il ritorno al
primitivo état de nature è inconciliabile con la vita nel Settecento dei ‘co-
stumi corrotti’, sottoposta alla critica del ragionamento. La nascita della
sofferenza è, di conseguenza, un prodotto della civiltà; pertanto, bisogna
rintracciare le cause determinanti lo status quo in cui è andato perduto il
senso del vivere collettivo e si è accentuato il fenomeno di alienazione in-
dividuale. Alienazione che, è bene specificarlo, è di tipo etico-sociale8 ma
che può rappresentare la sola clausola del contratto sociale, attraverso cui

tà privata sono sviluppi storici e non derivati del peccato originale come sosteneva la dottrina agostinia-
na) e nella critica che il filosofo muove ad Hobbes.
5
Tale concetto esercitò particolare influenza sull’etica di Immanuel Kant (1798) il quale vede nelle
parole di Rousseau un insegnamento morale piuttosto che un ritorno ad uno stato selvaggio.
6
J.J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, Editori Riuniti,
Roma 2006, p. 132.
7
J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, cit., p. 10.
8
Cfr. E. Gavalotti, Rousseau e l’arcantropia: dal passato più remoto al futuro più prossimo, Lulu
Press, Canada 2015.

126
l’individuo cede i propri naturali diritti alla comunità di appartenenza e si
unisce alla formazione di una volontà unica legislatrice.

Gli individui che escono da uno stato prepolitico insostenibile e invivibile co-
struiscono, grazie alla clausola dell’alienazione totale, una comunità politica molto
“compatta”, che si basa su un’indiscutibile uguaglianza di tutti i partecipanti e nella
quale tuttavia la sfera del privato non viene cancellata, ma semmai reinterpretata in
relazione alla comunità politica che è stata fondata9.

Se, dunque, nello stato primitivo, l’essere umano è in completa armonia


con la natura, con la nascita delle società, l’uomo, entrando in interazione
con altri soggetti, inizia inconsciamente a voler far prevalere se stesso: pas-
sioni, ire, possesso e desideri prendono il sopravvento su sentimenti nobili
quali onestà e lealtà (caratteristiche dello stato precedente) e si configura
una società moderna civile in cui l’uomo da buono si trasforma in cattivo.
All’amor di se stesso (proprio dell’uomo virtuoso che manifesta razionalità
e verità) si sostituisce l’amor proprio, espressione di emozioni egoistiche
quali ricchezza, potere e benessere. Scrive Rousseau:

tutto è bene uscendo dalla mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le
mani dell’uomo. Egli sforza un terreno a nutrire i prodotti propri d’un altro, un al-
bero a portare i frutti d’un altro; mescola e confonde i climi, gli elementi, le stagio-
ni; mutila il suo cane, il suo cavallo, il suo schiavo; sconvolge tutto, altera tutto,
ama le deformità, i mostri; non vuol nulla come l’ha fatto natura, neppure l’uomo;
bisogna addestrarlo per sé, come un cavallo da maneggio; bisogna sformarlo a mo-
do suo, come un albero del suo giardino. Senza di ciò, tutto andrebbe peggio anco-
ra, e la nostra specie non vuol essere formata a mezzo. Nello stato in cui oramai le
cose si trovano, un uomo, abbandonato a se stesso fin dalla nascita, sarebbe fra gli
altri il più alterato di tutti. I pregiudizi, l’autorità, la necessità, l’esempio, tutte le
istituzioni sociali nelle quali ci troviamo sommersi, soffocherebbero in lui la natura
e non metterebbero nulla al suo posto. Essa si troverebbe come un arboscello che il
caso fa nascere in mezzo ad una strada e che i passanti fanno perire presto, urtan-
dolo da ogni parte e piegandolo in tutti i sensi10.

In un contesto civilizzato, i bisogni umani diventano, inoltre, sempre più


complessi, portando a nuove forme di attività economiche in cui le relazio-
ni tra gli individui, un tempo riconosciute dalla spontaneità, si sostituiscono
ai lavori, facendo aumentare le forme d’interdipendenza che sono propor-

9
A. Loche, Declinare la democrazia: popolo e sovranità in Rousseau e Bentham, in G.M. Chiodi, R.
Gatti, La filosofia politica di Rousseau, FrancoAngeli, Milano 2012, p. 175.
10
J.J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, in P. Rossi, a cura di, Jean-Jacques Rousseau. Opere, San-
soni, Firenze 1989, p. 290.

127
zionali alla soddisfazione dei nuovi bisogni egoistici. La perfettibilità uma-
na diventa, così, il primo passo verso l’ineguaglianza sociale: da questo
momento in poi, gli uomini, da una iniziale condizione di isolamento, vivo-
no in una società non più naturale e primitiva a cui non sentono di apparte-
nere.

L’uomo civile ha perso per sempre la sua originaria unità e con essa la sua feli-
cità. Sorge così il male nei rapporti sociali, un male che consiste nell’alienazione
dell’uomo, per cui l’individuo assume la maschera che i rapporti sociali gli impon-
gono e si crea in lui la suddetta contraddizione di essere e apparire11.

Andando ora a ricercare un punto di contatto tra il sociologo francese e


il filosofo ginevrino, notiamo che, secondo Durkheim, Rousseau concepi-
sce le relazioni umane come superficiali e labili, considerando l’uomo un
essere originariamente solitario e inserito nelle funzioni sociali come pro-
dotti artificiali. Egli, così facendo, compara il pensiero di Rousseau a quello
di Hobbes dal momento che entrambi sostengono l’assioma tale per cui
l’umana natura sia contraria alla vita collettiva e l’uomo accetti la collettivi-
tà soltanto sotto l’impatto di una forza superiore e maggiore: perciò, secon-
do questa posizione, l’esistenza sociale di Rousseau è approvata soltanto
attraverso un uso eccessivo di ingenuità dialettica che non considera il
mondo psichico dell’uomo (come invece avviene in Durkheim). La socio-
logia è, quindi, per Durkheim la sola scienza attraverso cui è possibile stu-
diare l’uomo all’interno della società:

la vita collettiva precede − sia storicamente che logicamente − la vita dei singo-
li separati, e i “contratti” sono qualcosa di possibile solo fra soggetti che intendano
rispettarli, cioè che avvertano di appartenere ad una medesima società, che condi-
vidano una certa obbligazione nei confronti delle sue regole morali. Insomma: il
comportamento di ciascun uomo non è mai comprensibile pienamente se non come
espressione del suo inserimento in un insieme sociale12.

In quest’analisi, dunque, di peculiare importanza è la morale, vista come


un sistema di regole di condotta, giacché l’individuo agisce secondo norme
etiche perché le sente come desiderabili. In quest’ordine, la perfettibilità di
Rousseau è sostituita alla desiderabilità della morale che per Durkheim toc-
cano l’individuo sia come dovere sia come desiderio. Della vita collettiva la
società rappresenta la fonte e l’oggetto della morale, in cui i termini di co-

11
D. Sacchi, Rousseau. Il paradosso del porcospino, FrancoAngeli, Milano 2016, p. 44.
12
P. Jedlowski, Il mondo in questione. Introduzione alla storia del pensiero sociologico, Carocci, Ro-
ma 1998, p. 66.

128
strizione e di egoismo non sono ‘ordinabili’: in questo senso l’uomo allo
stato di natura si inscrive aprioristicamente in una moralità che in sé e per
sé è un fatto sociologico.
Se dunque per Rousseau l’individuo è solo oggetto di un progresso che
conduce all’alienazione attraverso il contratto sociale, per Durkheim l’uo-
mo si rende possibile solo se inserito in un contesto civile. D’altra parte,
rifiutando il contrattualismo di Rousseau, il sociologo francese concorda
con Mandeville13 riguardo al bisogno della società, non considerando la po-
sizione dell’uomo in uno stato primitivo poiché egli è anche, in questo sta-
to, un essere sociale.
A differenza di Hobbes e Rousseau, non c’è, quindi, in Durkheim, una
soluzione di continuità tra individuo e società: l’uomo non è naturalmente
refrattario alla vita in comune né vi si rassegna solo se obbligato. I fini so-
ciali non sono i punti d’incontro dei fini individuali: sono piuttosto loro
contrari. A differenza di quanto si legge in Rousseau, dunque, in Durkheim
nessuna opera collettiva per eccellenza si manifesta attraverso istituzioni e
organizzazioni: lo Stato, così come la società, sono inconcepibili per se
stesse dal momento che sono macchine costruite interamente dalla mano
degli uomini; così come, allo stesso modo, l’individuo non è mai un sogget-
to isolato quanto un essere sociale la cui moralità si crea attraverso
l’interazione e l’interiorizzazione delle regole e dei principi sia valutativi
sia conoscitivi.

La visione dello Stato


Per quanto concerne l’idea di Stato, le visioni di Rousseau e di Dur-
kheim possono dirsi complementari tra loro. Il sociologo francese, difatti,
prendendo spunto dal pensiero di Rousseau per la formulazione del concet-
to, vede nella presenza dello Stato il mezzo attraverso cui l’uomo riesce a
convivere pacificamente con gli altri uomini. Lo Stato, dunque, rappresen-

13
Cfr. B. Mandeville (1732), The fable of the bees or private vices, publick benefits, Clarendon Press,
Oxford 1924; cfr. L. Infantino, Il Coraggio della libertà. Saggio in onore di Sergio Ricossa, Rubbettino,
Catanzaro 2002, p. 287: «Mandeville e i moralisti scozzesi operano con un teorema della conoscenza
limitata. Innanzitutto, essi si oppongono all’idea della costruzione razionale delle preferenze. Mandevil-
le scrive: “l’uomo s’impegna soltanto quando è stimolato dai suoi desideri. Finché questi sono assopiti e
non c’è nulla che li risvegli, la sua superiorità e le sue capacità restano ignote, e la sua macchina grande
e grossa, senza l’influenza delle passioni, può essere opportunamente paragonata a un mulino a vento
senza un alito di aria”. Spingiamo quindi “la nostra ragione là dove sentiamo che la passione la trascina
e l’amore di sé giustifica tutti gli uomini, quali che siano i loro scopi, fornendo a ogni individuo gli ar-
gomenti per giustificare le proprie inclinazioni”. Ossia: la ragione giustifica le nostre preferenze ma non
le crea».

129
ta, per Durkheim, la collettività intera e il suo scopo è quello di far rispetta-
re leggi e regole condivise dalla massa degli individui.
Facile intuire il richiamo al contratto sociale così come definito da
Rousseau: il filosofo, infatti, partendo dal presupposto che allo stato
d’uguaglianza (proprio della società primitiva) ne subentri uno di disugua-
glianza, sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista economico, af-
ferma che in questa situazione nuova, caratterizzata dalla nascita dello Sta-
to, l’uomo diventa schiavo per opera stessa della società. Per Rousseau,
l’ambizione divorante e la brama di accrescere la propria fortuna personale
conducono gli uomini a nuocersi reciprocamente; si ha, quindi, da un lato
lo spirito di concorrenza e rivalità e, dall’altro, contrasto di interessi e sem-
pre il desiderio nascosto di fare il proprio vantaggio a spese altrui. Tale fu o
dovette essere l’origine della società e delle leggi, che diedero nuovi impe-
dimenti al debole e nuove forze al ricco, distrussero definitivamente la li-
bertà naturale, stabilirono per sempre la legalità della proprietà e della di-
sparità, trasformarono un’abile usurpazione in un diritto irrevocabile e as-
soggettarono da allora in poi tutto il genere umano, per il vantaggio di
qualche ambizioso, a lavoro, alla servitù e alla miseria14.
Nella concettualizzazione avanzata da Rousseau, la libertà innata ana-
lizzata precedentemente deve modificarsi ed adattarsi a una cosiddetta li-
bertà ‘civile’ e sociale in cui l’uomo si innalza ad un livello superiore, in
quanto parte di una organizzazione sociale ben formata15. Non solo: questa
nuova forma di organizzazione deve, al contempo, difendere i propri mem-
bri nella loro individualità.
Fino a quando parecchi uomini riuniti tra loro si considerano come un
sol corpo, essi non hanno che un’unica volontà, diretta alla comune conser-
vazione e al benessere generale. Allora tutte le energie dello Stato sono vi-
gorose e semplici, le sue massime sono chiare e luminose; non vi sono inte-
ressi imbrogliati, contraddittori; il bene comune si presenta dovunque con
evidenza e non richiede che del buon senso per essere visto. La pace,
l’unione, l’uguaglianza sono nemiche delle sottigliezze politiche16.
Durkheim, invece, prendendo spunto da questa concettualizzazione teo-
rica, cerca di evitare l’antinomia proposta da Rousseau nella formulazione
della sua visione di Stato. Quest’ultimo, infatti, aveva negato ed escluso la
possibilità di creare una volontà generale la cui vera espressione richiede
l’assenza delle società parziali e l’autonomia razionale di ogni singolo cit-
tadino. Ma, se ognuno ragiona con la propria testa, è possibile creare una

14
Cfr. J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, cit.
15
La legge è garanzia e nello stesso tempo espressione della libertà poiché tutela l’individuo.
16
Cfr. J.J. Rousseau, Il contratto sociale, Feltrinelli, Milano 2003.

130
vita sociale, comunità armonica di sforzi, comunione di spiriti e di volontà
per uno stesso fine? Per Durkheim la risposta viene individuata in una
‘classe generale’, portatrice di un ‘punto di vista privilegiato sul mondo’,
riprendendo quindi il pensiero non lontano di Hegel, Comte e Marx.
Gli unici sentimenti superiori agli impulsi individuali sono quelli che
derivano dalle azioni e dalle reazioni che intercorrono tra gli individui as-
sociati. Se gli individui, ciascuno per proprio conto, danno il loro suffragio
per costituire lo Stato o gli organi che devono servire a costituirlo definiti-
vamente, se ciascuno fa la propria scelta isolatamente, è quasi impossibile
che tali voti non siano ispirati altro che da preoccupazioni personali ed e-
goistiche: per lo meno queste saranno preponderanti, e così alla base di tut-
ta l’organizzazione ci sarà un particolarismo individualista. Dunque,
nell’ambito del contrattualismo classico rousseauiano, la massa di individui
egoisti e la nascita dello Stato non comporterebbero lo sviluppo di una so-
cietà giusta, eguale e solidale che, al contrario, si riscontra nel pensiero fi-
losofico di John Rawls 17 per il quale, anzi, le conseguenze supposte da
Rousseau per un simile credo dogmatico non sono convalidate empirica-
mente. Difatti, il filosofo statunitense sostiene che

un argomento psicologico a priori, per quanto plausibile, non è sufficiente per


abbandonare il principio di tolleranza, poiché la giustizia sostiene che il turbamen-
to dell’ordine pubblico e della stessa libertà deve essere stabilito con certezza
dall’esperienza comune18.

Ed è con riferimento all’esperienza comune e alle elaborazioni condivi-


se che si riannoda l’opera di Durkheim. Infatti, quando gli uomini pensano
in comune, il loro pensiero è in parte opera della comunità. Questo agisce
su di essi, pesa su di essi con tutta la sua autorità, trattiene le velleità egoi-
stiche, orienta gli animi in una direzione collettiva. Bisogna che sia un
gruppo costituito, omogeneo, permanente, che non si materializzi per un
istante solo il giorno del voto. In questo caso, ogni opinione individuale,

17
Cfr. J. Rawls (1971), Una teoria della giustizia, Feltrinelli Editori, Milano 2008, p. 26: «Una società è
bene-ordinata quando non soltanto è tesa a promuovere il benessere dei propri membri, ma è anche re-
golata in modo effettivo da una concezione pubblica della giustizia. Ciò significa che si tratta di una
società in cui 1) ognuno accetta e sa che gli altri accettano i medesimi principi di giustizia e 2) le istitu-
zioni fondamentali della società soddisfano generalmente, e in modo generalmente riconosciuto, tali
principi. In questo caso, anche se si possono avanzare richieste eccessive verso i propri simili, si ricono-
sce nondimeno un punto di vista comune in base al quale possono essere giudicate le pretese. Se la ten-
denza degli uomini verso il proprio interesse rende necessaria la vigilanza reciproca, il loro senso pub-
blico di giustizia rende possibile una stabile associazione».
18
Ibidem, p. 215.

131
poiché si è formata nel seno di una collettività, ha qualcosa di collettivo. È
chiaro che la corporazione risponde a questo requisito19.
Lo Stato, allora, che non è altro che la sede di una coscienza speciale, ri-
stretta, ma più alta, più chiara, che possiede un sentimento più vivo di se
stessa, è ‘un sistema’ che si pone al di sopra delle coscienze individuali,
quasi una terza persona.
Superando di gran lunga le formulazioni avanzate da Rousseau, Dur-
kheim, dunque, configura e attribuisce allo Stato un forte onere morale dal
momento che esso costituisce l’organo stesso del pensiero collettivo. La
classe generale, quindi, è da ritrovarsi non all’interno dell’apparato divino
(come affermava Rousseau) ma in un gruppo di funzionari che rispondono
alle esigenze degli uomini e formulano i legami della collettività. É in tale
prospettiva, inoltre, che l’individuo diventa figlio dello Stato, suo prodotto,
poiché l’attività dello Stato sarebbe essenzialmente liberatrice nei confronti
dell’individuo: la volontà generale è, perciò, lo strumento fondamentale per
la costruzione dell’equilibrio interno ed esterno dell’uomo il quale, sotto-
ponendosi a questa volontà, si sottomette a un vero e proprio potere i cui
fondamenti sono l’indivisibilità, l’infungibilità, l’infallibilità, l’essere asso-
luto e la sacralità. Nella società civile l’uomo è moderno: la sua obbedienza
non è quindi violenta ma sentita consapevolmente.

Conclusioni
La società non esiste solo per sé: il punto da cui parte Rousseau e da cui
poi si snodano le riflessioni di Durkheim è questo. Mentre Rousseau im-
bocca una direzione contrattualistica, Durkheim non pone il problema
dell’inizio della società. L’essere di Durkheim non acquista la condizione
sociale ma, in primis, la condivide: è «un fatto sociale»20 che non si può
spiegare a partire dal comportamento o dalle intenzioni dei singoli ma lo si
può spiegare solo a partire dalla società.
Durkheim, infatti, non colloca la nascita della società ex nihilo, dal nul-
la, ma semplicemente dà un valore diverso a quest’ultima in quanto è la
composizione di più individui, il risultato dell’interazione tra singoli. É
proprio questa interazione che migliora la situazione di partenza: la società

19
Cfr. L. Infantino, L’ordine senza piano: le ragioni dell’individualismo metodologico, Armando Edi-
tore, Roma 2008.
20
Cfr. É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, cit. Durkheim intende con «fatto sociale» un
qualsiasi modo di fare, stabilito o meno, suscettibile di esercitare sull’individuo una costrizione esterna
e/o generale all’interno di una data società, in quanto possiede una sua esistenza, indipendentemente
dalle manifestazioni individuali.

132
non è solo la somma degli individui21, è quel + 1 rispetto al tempo zero. Il
miglioramento della propria posizione è lo scopo di ciascun attore: l’inte-
razione è come una reazione chimica. Quel che abbiamo è una varietà di
norme sociali, prodotto sia intenzionale sia inintenzionale dell’azione, che
gli individui svolgono gli uni sugli altri; è il risultato di una composizione,
che devono soddisfare e giustificare le preferenze che hanno spinto i singoli
ad agire: la norma, dunque, determina il comportamento e le azioni degli
individui.
Che ciò abbia una sua validità, è riconosciuto dallo stesso Durkheim
che, in un saggio di risposta alle critiche di Tarde, non ha esitato ad affer-
mare che la risultante dell’interazione è esteriore agli individui: così facen-
do il sociale definisce anche il contesto storico, viene contestualizzato così
come la vita stessa degli individui che vivono in esso. Inoltre, Durkheim ha
esteso le norme ad ogni campo della convivenza, mettendo sopra ogni cosa
la morale che diviene così obbligo e assume carattere coercitivo. Tuttavia
quest’aspetto della morale colpisce l’uomo sia dall’interno sia dall’esterno
e la società è come un essere impersonale che si pone di fronte alle partico-
larità come qualcosa che le domina e che non dipende dalle stesse condi-
zioni della vita individuale.
La norma diventa, allora, una prescrizione che s’impossessa dell’indi-
viduo, il quale non può e non deve scegliere. Il sociale non può essere lo
strumento attraverso cui l’attore decide liberamente di realizzare se stesso o
di conseguire fini che stanno al di là della norma. Di queste norme, che ci
vengono imposte attraverso l’educazione22 o comunque si impongono con
autorità, non si può che cercare la natura e la loro ragione d’essere: così fa-
cendo l’uomo è padrone del suo stesso mondo, in quanto può comprender-
lo, attraverso la scienza.

21
Cfr. L. Infantino, Le radici gnoseologiche del totalitarismo, Rubbettino, Catanzaro 2001, p. 90: «Vo-
lendosi riferire a posizioni espresse in tempi più recenti, occorre evidenziare che a non diversi esiti con-
duce l’aspirazione rousseauiana a vedere realizzata “la volontà generale”. Quel che si vuole è esatta-
mente la risorgenza del “punto di vista privilegiato sul mondo”. E Rousseau non fa nulla per nasconder-
lo. Lo dice chiaramente allorché sostiene che “ci vorrebbero degli dei per dare leggi agli uomini”. Ma
ciò è palese anche quando egli scrive che bisogna pensare al “genere umano come una persona morale
che abbia […] un motore universale che faccia agire ciascuna parte per un fine generale relativo al tut-
to”, in modo che “il bene o il male pubblico” non sia “la somma dei beni e dei mali privati”. Quanto
sostenuto da Rousseau è stato accolto in sociologia col nome di “teorema sociologistico”; il che
nell’opera di Durkheim viene espresso nei seguenti termini: “il tutto non è identico alla somma delle
parti”. E così che viene affermata l’esistenza di un punto di vista, diverso da quello dei singoli attori
sociali, rappresentativo del tutto. Sarebbe questo il punto di vista della società, intesa come entità distin-
ta dagli individui che la compongono».
22
Cfr. T. Parsons (1955), Famiglia e socializzazione, Mondadori, Milano 1974, p. 23: «Il punto focale
centrale del processo di socializzazione stia nell’interiorizzazione della cultura della società in cui il
bambino è nato. La parte più importante di questa cultura, da questo punto focale, consiste nei modelli
di valore che, sotto un altro aspetto, costituiscono i modelli istituzionalizzati della società».

133
Se sappiamo le leggi del tutto, sappiamo anche le ragioni di tutto e pos-
siamo dunque conoscere le ragioni dell’ordine universale. In altri termini,
riprendendo un’espressione un tantino arcaica, non siamo noi gli autori del
piano della natura, ma lo ritroviamo mediante la scienza, lo ripensiamo e
comprendiamo perché sia com’è. Da questo momento, nella misura in cui
ci assicuriamo che esso è tutto ciò che dev’essere, quale cioè la natura delle
cose lo implica, possiamo sottomettercisi e non unicamente perché vi siamo
materialmente costretti, o incapaci di fare altrimenti senza pericolo, bensì
perché stimiamo che così sia bene e che non possiamo fare di meglio.
Ciò che fa ammettere al credente che il mondo è buono per principio,
perché è opera di un essere buono, lo possiamo fare nella misura in cui la
scienza ci permette di stabilire razionalmente ciò che la fede postula a prio-
ri. Una simile sottomissione non è una rassegnazione passiva, ma
un’adesione consapevole. Conformarsi a un ordine di cose perché si ha la
certezza che è tutto ciò che dev’essere, non è subire costrizione ma volere
liberamente quest’ordine, con consapevole acquiescenza […]. Poniamo in-
fatti, per semplificare l’esposizione, che la scienza delle cose sia integral-
mente compiuta e che ognuno di noi la possieda. Da questo momento il
mondo non è più, propriamente parlando, fuori di noi ma è divenuto un e-
lemento di noi stessi, perché vi è in noi un sistema di rappresentazione che
lo esprime adeguatamente23.
La scienza, dunque, poiché si basa sui fatti sociali e sulla loro oggettiva
esistenza24, riesce a dare certezza all’ordine delle cose e diventa parametro
di giustificazione capace di riconoscere e legittimare il reale.
In conclusione, per Durkheim, si ha scienza

quando si osservano le cose, si descrivono e si comparano. L’errore capitale da


parte di chi presuma di svolgere lavoro scientifico consiste nel sostituire alle cose
le proprie idee e accontentarsi di considerare, descrivere e comparare queste ultime
anziché l’effettiva realtà25.

23
L. Infantino, L’ordine senza piano: le ragioni dell’individualismo metodologico, cit., p. 123.
24
Cfr. E. Campelli, Da un luogo comune. Introduzione alla metodologia delle scienze sociali, Carocci,
Roma 2009, p. 103: «Questi fatti, prescrive la prima e fondamentale delle Règles, vanno considerati
come cose. Delle cose essi condividono l’incontrovertibilità, la concretezza refrattaria a ogni mediazio-
ne individuale, l’esistenza indiscutibile. Si tratta di un programma di lavoro antimetafisico e anti-
idealista. Ciò che la prima regola richiede, chiarisce Durkheim, è precisamente la rinuncia a ogni meta-
fisica, a ogni speculazione astratta sul fondo degli esseri, mentre ciò che impone è che il sociologo as-
suma di fronte al suo oggetto il medesimo atteggiamento del fisico, del chimico o del fisiologo quando
si trovano ad affrontare un ambito ancora inesplorato del loro dominio scientifico».
25
Ibidem, p. 104.

134
La ‘normatività’ tra etica e metafisica*

Salvatore Muscolino

ABSTRACT: The Author’s aim is to highlight the limits of monist metaphysics which underpin
the paradigm of Secular Humanism. In fact, all forms of monism consider good and evil ei-
ther as internal momentums to the logic of development of the world, or as mere illusions
within the evolutionary process. Can tragedies as the Holocaust be interpreted by such a
monistic approach? The distinction between ‘polar opposition’ and ‘logic of contradiction’
is introduced by Romano Guardini. This is based on a creationistic metaphysic and it is use-
ful to show that our practical-moral investigation is legitimated only by a theist approach.
By considering good and evil as two aspect with mutual implications, monistic logic risks to
weaken both freedom and human responsibility within human history.
KEYWORDS: ethics, metaphysic, monism, theism, evil.

Il problema

Nel suo monumentale L’età secolare, Charles Taylor sostiene che, in


base al percorso storico e culturale compiuto in età moderna, la vita del-
l’uomo nelle società secolarizzate si muove oggi sullo sfondo di una corni-
ce immanente: ciò significa che tutti noi viviamo all’interno di strutture
(scientifiche, sociali, tecnologiche…) le quali appartengono a un ordine na-
turale senza alcun riferimento al ‘soprannaturale’ o al ‘trascendente’ come
accadeva in passato1.
Secondo Taylor, lo sfondo in senso lato culturale rappresentato da que-
sta cornice immanente rappresenterebbe una delle tre accezioni, forse la più
interessante, di quel processo definito come secolarizzazione2. La sua idea è
che tale cornice immanente sia passibile di due letture alternative ma gravi-
de, come si vedrà, di importanti conseguenze a livello pratico-morale: una
prima lettura possibile è quella chiusa, difesa dai sostenitori
dell’umanesimo secolare i quali sostengono che l’universo non abbia più

* Data di presentazione: 14 dicembre 2016; data di accettazione: 14 gennaio 2017. Affiliazione: Uni-
versità di Palermo; indirizzo email: salvatore.muscolino@unipa.it.
1
Cfr. Ch. Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 677-744.
2
Cfr. ibidem.

La società degli individui, n. 58, anno XX, 2017/1 ISSN 1590-7031, ISSNe 1972-5752
bisogno di un riferimento al Trascendente per avere un senso, un significato
e un valore (sempre che ne abbia uno, la quale cosa non è affatto scontata!);
in alternativa alla proposta monista appena delineata, è possibile immagina-
re una lettura aperta di suddetta cornice per cui un ‘Assoluto’ trascendente
diventa il punto di riferimento per un’idea di pienezza (fullness) che va al di
là della realtà storico-empirica.
Il punto interessante della proposta di Taylor è che la scelta in favore
della chiusura o apertura della cornice immanente è considerata come un
vero e proprio «salto di fede». Con questa espressione, egli intende una sor-
ta di «fiducia anticipatoria» che ognuno di noi avrebbe nei confronti della
costruzione di ‘senso’ della propria esperienza all’interno del mondo che
consiste nel rispondere a domande intorno a ciò che è importante nella vita
umana e sui modi in cui trasformarla o migliorarla. Questa «fiducia antici-
patoria», è bene precisarlo, non sarebbe ‘fondata’ su una qualche esperien-
za o fatto inequivocabile3.
Sono molti coloro che oggi, soprattutto in ambito accademico, optano
per una lettura chiusa della cornice immanente e, anche a livello di senso
comune, sembra che la credenza nei confronti della Trascendenza o, se vo-
gliamo, verso una prospettiva di tipo teista non appaia più compatibile con
le conoscenze scientifiche e filosofiche della nostra epoca. Taylor sostiene
che l’influsso di questa lettura chiusa sia in realtà una sorta di ‘immagine’,
nel senso wittgensteiniano del termine, cioè una sorta di ‘sfondo’ condiviso
del nostro pensiero che, quasi sempre, rimane però non formulato critica-
mente, assumendo così la forma e lo statuto di «narrazione dominante» 4.
Sulla base della suggestione offerta da Taylor, vorrei avanzare alcuni
argomenti per mostrare come la lettura aperta della cornice immanente sia
invece una prospettiva attraente e supportata da validi argomenti sul piano
scientifico, metafisico e morale al contrario di quanto affermato dalla «nar-
razione laico-secolare», oggi dominante.
Il punto di partenza del mio ragionamento sarà un confronto con la re-
cente proposta avanzata da Ronald Dworkin che intendo assumere come
esempio di una lettura chiusa della cornice immanente. Il mio intento non
sarà quello di mostrare, contro Dworkin, che gli atei non possano possedere
un «atteggiamento religioso» verso il mondo e non cercherò neanche di
confrontarmi criticamente con tutti i passaggi del suo ragionamento. Piutto-
sto, mi servirò ‘strumentalmente’ della sua proposta per difendere il valore
di una prospettiva ‘teista’ ovvero di una possibile lettura aperta della corni-
ce immanente.

3
Cfr. ibidem, p. 692.
4
Ch. Taylor, L’età secolare, cit., p. 690.

136
Il saggio si svilupperà sostanzialmente in due momenti: nel primo, mo-
strerò come gli argomenti utilizzati da Dworkin non riescano a supportare
adeguatamente la sua tesi in ordine all’oggettività e all’indipendenza dei
valori che la prospettiva, da lui definita «ateo-religiosa», dovrebbe essere in
grado di garantire; nel secondo, proverò a sostenere la legittimità di una
prospettiva teista a questo riguardo.
Come spero sarà chiaro alla fine del saggio, l’indagine ‘pratico-morale’
ha una sua piena legittimità solo su uno sfondo metafisico5 non monista.

Dworkin e la ‘metafisica del valore’

Nel suo ultimo lavoro, Dworkin affronta il tema dell’ateismo e dei sui rap-
porti con la sfera dei valori. Più in particolare, la sua tesi è che lungi
dall’esservi una spaccatura insanabile tra credenti e atei, come pure spesso
si sostiene da ambo le parti, è invece possibile trovare un punto di contatto
intorno a tre punti fondamentali: il primo è che un «valore intrinseco ogget-
tivo permea tutte le cose»; il secondo è che «l’universo e le creature susci-
tano meraviglia»; il terzo è «che la vita umana ha uno scopo e l’universo ha
un ordine»6.
A differenza di quanto sostengono i teisti, Dworkin afferma come non
sia necessario credere nell’esistenza di un Dio creatore per nutrire un sen-
timento «religioso»7 verso la vita e verso l’universo. Questo convincimento
si basa sulla distinzione tra «questioni scientifiche» e «questioni di valore»
le quali, nella prospettiva teista, sarebbero generalmente legate l’un l’altra
mentre in realtà risulterebbero separate e, soprattutto, separabili. Alla luce
di questa distinzione, Dworkin è convinto che teisti e atei potrebbero trova-
re un terreno di incontro sulle «questioni di valore» perché anche chi non
crede in un Dio creatore ammetterebbe senza problemi, con una sensibilità
appunto ‘religiosa’,

5
Non posso soffermarmi sulla questione relativa al rapporto tra ontologia e metafisica la quale è molto
dibattuta soprattutto in ambito analitico. In questo saggio, come spiegherò più avanti, provo a sondare le
potenzialità di una metafisica di approccio aristotelico sulla scia di autori quali Marino Gentile e il suo
allievo Enrico Berti. Sul rapporto ontologia/metafisica cfr. A.C. Varzi, Ontologia, Laterza, Roma-Bari
2005.
6
Cfr. R. Dworkin, Religione senza Dio, il Mulino, Bologna 2014, p. 17.
7
Dworkin afferma che ‘religione’ sia un concetto interpretativo. Per questa ragione, ritegno che
sarebbe stato preferibile utilizzare il termine ‘spirituale’ invece di ‘religioso’. Se si vuole sostenere che
è possibile avere una sensibilità attenta a grandi misteri della vita e dell’universo, anche rimanendo
all’interno di una prospettiva ‘immanente’, allora l’aggettivo ‘spirituale’ sembra più opportuno. Infatti,
Taylor utilizza l’aggettivo ‘religioso’ per riferirsi esclusivamente a coloro che credono in una forma di
‘trascendenza’ (cfr. Ch. Taylor, L’età secolare, cit., pp. 29-36). Fatte queste precisazioni nelle prossime
pagine mi atterrò alla terminologia di Dworkin.

137
che come va una vita umana è oggettivamente importante, e che ciascuno ha la
responsabilità etica innata e inalienabile di cercare di vivere il meglio possibile da-
ta la propria situazione. Accettano che la natura non è solo una questione di parti-
celle che si sono ammucchiate nel corso di una storia molto lunga, ma qualcosa di
meraviglioso e intrinsecamente bello 8.

La proposta di Dworkin è certamente di grande interesse sia per la vo-


lontà di non erigere steccati tra teisti e atei sia perché rifiuta un certo tipo di
‘naturalismo’ scientifico oggi assai di moda e rappresentato da figure assai
influenti a livello mediatico come quella, ad esempio, di Richard Dawkins,
il quale considera l’universo come un semplice ammasso di particelle dove
non c’è alcuno spazio per un discorso che vada oltre la mera dimensione
empirica. Secondo Dworkin, questo ‘naturalismo’ porterebbe alla logica
conseguenza per la quale nulla è reale tranne ciò che può essere oggetto di
studio da parte delle scienze naturali e della psicologia: «In altre parole,
non esiste nulla che non sia né materia né psiche; fondamentalmente, in re-
altà non c’è niente di simile a una vita buona o alla giustizia, o alla crudeltà
o alla bellezza».9
Dworkin intende contrastare anche le possibili implicazioni etico-filo-
sofiche di questo tipo di posizioni. Se Thomas Nagel sostiene che in man-
canza di un senso complessivo dell’universo al quale fare riferimento, allo-
ra il senso di assurdità potrebbe essere l’esito conseguente di questa condi-
zione generale, Dworkin obbietta:

Ma perché? [...] Se il valore di vivere all’altezza dell’universo è avverbiale [egli


intende con questa espressione il valore scaturente da una qualunque prestazione in
sé] allora perché non è altrettanto dotato di valore vivere all’altezza nella mancanza
di senso dell’eternità, se l’universo è privo di senso, quanto lo è vivere all’altezza
del suo scopo, se l’universo ne ha uno? […] Perché non possiamo trovare valore in
ciò che creiamo, in risposta a ciò che semplicemente capita che ci sia, allo stesso
modo in cui troviamo valore in ciò che fa un’artista o un musicista?10

Piuttosto che all’ateismo degli umanisti secolari come Dawkins, Dwor-


kin suggerisce di guardare a quello di Baruch Spinoza o Albert Einstein per
comprendere come l’ateismo non porti necessariamente a un sentimento di
‘disincanto’ o addirittura di ‘assurdità’ verso il mondo ma, al contrario, a
un atteggiamento di profonda ‘meraviglia’ o di ‘stupore’ verso l’universo.

8
R. Dworkin, Religione senza Dio, cit., p. 33.
9
Ibidem, p. 25.
10
R. Dworkin, Giustizia per ricci, Feltrinelli, Milano 2011, p. 251.

138
Non è necessario, per Dworkin, ipotizzare l’esistenza di un Creatore per ri-
conoscere la natura sublime dell’universo in cui viviamo come dei valori in
esso inscritti:

La vita umana non può avere alcun genere di significato o di valore solo perché
esiste un dio amorevole. L’universo non può essere intrinsecamente bello solo per-
ché è stato creato per essere bello. Qualsiasi giudizio sul significato nella vita uma-
na o sulla meraviglia nella natura, in ultima istanza, fa affidamento non solo su una
verità descrittiva, per quanto entusiasmante o misteriosa, ma su giudizi di valore
più fondamentali11.

A questo punto, però, penso che sorgano alcuni problemi che riguardano
l’inevitabile legame tra indagine ‘metafisica’ e indagine ‘pratico-morale’
come ho accennato all’inizio di questo saggio e il rimando a Spinoza è par-
ticolarmente utile per illustrare questo punto. Se, da un lato, Dworkin parte
dal riconoscimento che la ‘bellezza’ dell’universo è un qualcosa che suscita
meraviglia in sé, a prescindere dall’esistenza di un Creatore, dall’altro lato,
egli ammette che in Spinoza non c’è alcun riconoscimento del valore esteti-
co del mondo. Piuttosto, Spinoza era interessato a mostrare che il modo
migliore di vivere per le persone «consistesse nel cercare di acquisire la co-
noscenza delle leggi fondamentali della natura». Spinoza pensava che la na-
tura fosse il «vero fondamento della giustizia e della morale personale e po-
litica liberale che egli sottoscriveva» 12.
Il rimando di Dworkin a Spinoza apre quindi problemi teorici e pratici
importanti che ci portano alla distinzione ateismo/teismo che riposa su
un’opzione metafisica iniziale. Non ci si può limitare a constatare che la
‘bellezza’ dell’universo sia un valore sul quale sia atei che credenti possono
convergere in quanto il problema prioritario è comprendere perché ci po-
niamo il problema della bellezza e, più in generale, il problema morale.
Senza dubbio è vero che qualcosa può essere bello o buono in sé a pre-
scindere dal fatto che sia stato ‘creato’ (sia nel caso di un paesaggio natura-
le sia in quello di una cattedrale o di un’opera d’arte). Questa è la ragione
per la quale Dworkin parla del valore in termini ‘avverbiali’, ossia, per usa-
re le sue parole, «il valore di una buona prestazione di fronte a una sfida
importante»13. Il suo intento è quello di rifiutare tanto il ‘realismo fonda-
zionalistico’ secondo il quale i valori sarebbero ‘proprietà’ degli enti quan-
to lo ‘scetticismo nichilistico’ che li considera invece come mera proiezio-
ne o costruzione del soggetto. Dworkin propone di considerare il ‘valore’
11
R. Dworkin, Religione senza Dio, cit., p. 33.
12
Ibidem, p. 43.
13
R. Dworkin, Giustizia per ricci, cit., p. 108.

139
come un qualcosa che risiede appunto in ‘ciò’ che facciamo e nel ‘perché’
lo facciamo:

non possiamo certificare la verità dei nostri giudizi di valore attraverso scoperte
fisiche o biologiche o metafisiche; e che non possiamo neanche invalidarli in que-
sto modo. Dobbiamo formulare una giustificazione per le nostre convinzioni, non
fornire prove, e questa distinzione richiede un tipo di integrità del valore che a sua
volta porta verso un diverso resoconto della responsabilità14.

La perplessità che suscita la prospettiva di Dworkin è che la domanda


sui valori, come quella intorno alla bellezza, sorge nell’ambito della razio-
nalità pratica e può avere una sua legittimità soltanto in presenza di un certo
sfondo metafisico il quale, temo, non possa essere quello ateo-naturalistico.
Non è un caso, infatti, che i principali sostenitori dell’ateismo filosofico e
scientifico moderno negano con forza la legittimità stessa della morale per-
ché la si riduce o a «volontà di potenza» (Nietzsche) o a mera illusione frut-
to della dinamica evolutiva (Dawkins e Freud)15.
Sullo sfondo di questo genere di posizioni agisce certamente un presup-
posto metafisico e cioè che l’universo fisico-naturale, al quale bisogna ri-
condurre ogni altro livello dell’esistenza, si spieghi da sé e presenti un sen-
so o un significato assolutamente immanente, fosse anche il non-senso as-
soluto. Tuttavia, come si è visto con Taylor, anche in questo caso saremmo
in presenza di un ‘salto di fede’ perché l’ateismo implicito nella lettura
chiusa della cornice immanente non è in grado di fornire, sul piano scienti-
fico che in ultima istanza la dovrebbe fondare, quella teoria unificata del
tutto che dovrebbe mostrare l’inconsistenza di tutte quelle ‘domande’ di ti-
po morale e metafisico che tormentano l’uomo ab origine.
D’altra parte Dworkin stesso conferma implicitamente la necessità di un
collegamento con la domanda metafisica quando parla dello ‘stupore’ che
nutriamo nei confronti dell’universo cioè del bisogno di spiegazione da par-
te dell’uomo verso la bellezza e verso i valori che non appaiono riducibili
alla mera descrizione empirica della realtà16. Questo stupore verso l’ordine
dell’universo fa nascere la domanda intorno all’origine ultima di queste
leggi e di questa regolarità anche se Dworkin riconosce che non possiamo

14
Ibidem, p. 473.
15
Riporto soltanto un passo di Freud per mostrare come, accettando un punto di vista ateo, la questione
morale debba essere logicamente ricondotta ad ‘altro’: «Questo solo so con sicurezza, che i giudizi di
valore degli uomini sono guidati esclusivamente dai loro desideri di felicità, e sono quindi un tentativo
di argomentare le loro illusioni» (S. Freud, Il disagio della civiltà, in ID., Opere, Bollati Boringhieri,
Torino 1978, p. 630).
16
Cfr. R. Dworkin, Religione senza Dio, cit., p. 24.

140
offrire una ragione definitiva sul perché l’universo ospiti le leggi che di fat-
to ospita17 e dalle quali ‘sorge’ quell’oggettività della bellezza a lui cara.

È possibile eliminare la domanda ‘ultima’?

Una soluzione diversa è quella offerta da Anthony Flew, considerato in


passato come il più importante sostenitore della causa filosofica dell’atei-
smo. Di recente ha ammesso una svolta in favore del teismo in quanto unica
opzione in grado di offrire una ragione soddisfacente dell’esistenza
dell’universo e delle sue leggi. Questa scelta viene giustificata sulla base di
motivazioni di tipo filosofico, cioè razionali. Infatti, quando ci si imbatte in
questioni ultime legate all’esistenza e al perché del Reale considerato nella
sua totalità si entra nell’ambito della filosofia: «quando si traggono conclu-
sioni filosofiche da dati scientifici, allora si sta ragionando da filosofi»18.
I dati scientifici oggi disponibili, e Dworkin concorda su questo con
Flew, impediscono una spiegazione definitiva dell’universo come totalità
ordinata che si spieghi da sé.19 Anzi, come sottolineato da Robert Audi,
questo esito è in un certo senso necessario anche da un punto di vista scien-
tifico perché la scienza indaga le leggi che regolano il funzionamento del
mondo ma non può rispondere alla domanda intorno al perché il mondo e-
sista20.
Per evitare pericolose e dannose confusioni, può essere opportuno di-
stinguere il naturalismo ‘metodologico’ da quello ‘filosofico’: mentre il
primo è connaturato all’indagine scientifica e consiste nell’idea che «le
cause e le spiegazioni dei fenomeni naturali vanno cercate nel mondo natu-
rale, di solito nei termini di ciò che soddisfa i criteri di testabilità, accessibi-
lità pubblica e carattere empirico» 21 il secondo riguarda invece il convinci-
mento, decisamente più impegnativo, che «la natura è tutto quello che esi-
ste e le uniche verità fondamentali sono le verità della natura»22.
Ovviamente, il naturalismo filosofico, spesso professato dagli scienziati
senza averne piena consapevolezza, è una posizione di tipo metafisico la
quale però solleva questioni non indifferenti perché, come osserva Robert

17
Cfr. ibidem, p. 80.
18
A. Flew con R.A. Varghese, Dio esiste. Come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, Alfa
& Omega, Caltanissetta 2010, p. 100.
19
Dworkin ammette che anche la teoria dei multiversi, la principale rivale della prospettiva teista, non
sia in grado di spiegare tutto in modo autoreferenziale (cfr. R. Dworkin, Religione senza Dio, cit., p.
82).
20
Cfr. R. Audi, La razionalità della religione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, p. 295.
21
Ibidem, p. 216.
22
Cfr. ibidem, p. 291.

141
Audi, anche qualora si accettasse l’idea che l’universo sia un fatto bruto,
ciò non renderebbe illegittima la domanda intorno al perché della sua esi-
stenza23.
Questa è la ragione per la quale trovo particolarmente utile la prospetti-
va difesa in Italia da Enrico Berti sulla scia del suo maestro Marino Gentile.
La teoria metafisica difesa da Berti è debole perché consiste in un’unica te-
si: la totalità del mondo dell’esperienza presenta un carattere ‘problemati-
co’, ossia non si spiega da sé, e quindi richiede una ‘ragione’ che non sia ad
esso immanente. Ciò rende necessario ipotizzare l’esistenza di un ‘Assolu-
to’ che sia trascendente rispetto al mondo dell’esperienza perché, in caso
contrario, quest’ultimo dovrebbe coincidere con l’Assoluto e non presenta-
re, quindi, alcun aspetto ‘problematico’.
Da un punto di vista epistemologico, questa teoria metafisica è debole
perché consiste, come accennavo, in un’unica tesi ma da un punto di vista
logico ha il grosso vantaggio di essere difficilmente ‘falsificabile’ perché
per farlo sarebbe necessario riuscire a ‘dimostrare’ che il mondo non pre-
senti aspetti ‘problematici’ sotto nessun profilo24 e, come si è visto prima
con Audi, ciò appare altamente improbabile. Una volta riconosciuta la pos-
sibilità di un Assoluto trascendente rispetto al mondo dell’esperienza allora
si apre nuovamente uno spazio per una lettura teista25.

Il ‘male’ tra filosofia politica e metafisica

Ritornando a Dworkin, ritengo che il richiamo a Spinoza appare legitti-


mo ma solo richiamando, contestualmente, la dimensione metafisica che fa
da sfondo all’argomento del filosofo ebreo olandese. Ma dalla metafisica
spinoziana sorgono una serie di conseguenze, soprattutto in ambito pratico-
morale, che non vengono prese in considerazione da Dworkin ma che sono
invece abbastanza problematiche.
Come detto prima, la metafisica spinoziana è una metafisica monista nel
senso che non riconosce alcun Creatore trascendente ma piuttosto tende a
identificarlo con l’insieme delle leggi che regolano il funzionamento del
cosmo. All’interno di una prospettiva metafisica monista, il compito del-
l’uomo diventa quello di prendere coscienza di queste leggi e di inserirsi al-

23
Cfr. ibidem, p. 294.
24
Cfr. E. Berti, Quale metafisica per il terzo millennio?, in D. Murray, a cura di, La metafisica nel
terzo millennio, Armando, Roma 2001, pp. 17-34.
25
Marino Gentile afferma in uno dei suoi ultimi saggi che l’Assoluto trascendente sia
un’«Intelligenza» che è anche «amore» (cfr. M. Gentile, Quattro note, “Bollettino della Società
Filosofica Italiana”, 136, 1989/1, pp. 38-45).

142
l’interno del ritmo del Dio-natura. Un passaggio del Trattato teologico-
politico è particolarmente chiaro a questo riguardo:

Quindi tutto ciò che in natura a noi sembra ridicolo, assurdo o cattivo, deriva
dal fatto che conosciamo le cose solo in parte e per la massima parte ignoriamo
l’ordine e la coerenza di tutta la natura, e dal fatto che vogliamo tutte le cose siano
governate come torna comodo alla nostra ragione, mentre tuttavia, ciò che la ragio-
ne detta come male, non è male rispetto all’ordine e alle leggi della natura univer-
sale, bensì soltanto rispetto alle leggi della sola nostra natura26.

Dal passo riportato si evince come per Spinoza il ‘male’ derivi soltanto
dalla ‘limitatezza’ umana per cui va considerato come un semplice tassello
di un mosaico più ampio dove l’armonia del tutto finirebbe con l’annullarlo
come tale27.
Questo è un punto particolarmente delicato e vorrei collegarlo alla lettu-
ra chiusa della cornice immanente dalla quale sono partito. L’idea spino-
ziana di un ordine immanente dell’universo, di un ordine cioè privo di un
riferimento a un qualche atto creativo di un Dio trascendente, nel corso del-
la modernità ha ceduto lentamente il passo, complici i progressi della scien-
za, a un’idea di universo privo di una qualunque finalità o normatività in-
trinseca se non quella imposta dall’uomo 28.
La lettura chiusa della cornice immanente si fonda allora su una ‘meta-
fisica monista’ la quale può avere, a sua volta, due possibili declinazioni in
campo pratico-morale: la prima è che la realtà presenta un ordine immanen-
te che abbiamo il dovere etico di riconoscere e dove la distinzione tra bene
e male è esclusivamente quoad nos (Spinoza); la seconda è che l’universo
si presenta completamente disincantato, addirittura caotico, e pertanto sia-
mo noi a dover darle un senso erigendoci a fondatori dei valori (Nie-
tzsche)29.
In entrambi i casi, però, l’assunzione di una metafisica monista rende il
tradizionale discorso cristiano sul “male”, intrecciato a una metafisica tei-
sta, un retaggio del passato destinato prima o poi a estinguersi. Ma siamo
sicuri che una prospettiva di questo tipo sia soddisfacente?

26
Spinoza, Trattato teologico-politico, Rusconi, Milano 1999, p. 521.
27
Il tema del male è oggetto di grande interesse nella tradizione filosofica occidentale in rapporto,
soprattutto in età moderna, alla questione della teodicea. Anche nella tradizione analitica è disponibile
una vasta bibliografia in questo settore. Per alcuni riferimenti generali cfr. la voce The concept of evil
curata da Todd Calder per la “Stanford Encyclopedia of Philosophy” (plato.stanford.edu-
/entries/concept-evil/)
28
Cfr. Ch. Taylor, op. cit., p. 683.
29
Ibidem, p. 738. Posizione un po’ diversa da quella di Nietzsche è quella di Albert Camus che
concepisce il mondo come assurdo. Sui limiti della sua posizione cfr. ibidem, pp. 732-733.

143
In una conferenza del 2001, Jürgen Habermas ha osservato:

Come oggi risulta chiaro da uno spregiudicato riattualizzarsi di questa eredità


biblica, non disponiamo ancora di un concetto adeguato a definire la differenza
semantica tra ciò che è moralmente sbagliato e ciò che è malvagio nel senso più
profondo. Il diavolo non esiste ma l’arcangelo caduto imperversa ora come prima:
non solo nel bene capovolto dell’atto mostruoso, ma anche nella pulsione che lo
segue a ruota30.

Questo passo è molto indicativo della più recente riflessione da parte di


Habermas intorno al tema religioso. Habermas ammette che la ragione se-
colare oggi non è in grado di spiegare a fondo ciò che consideriamo senza
se e senza ma come ‘male’. La sua personale impostazione post-metafisica
gli ha impedito in passato di affrontare questioni ontologiche e metafisiche
in ordine alla totalità del Reale mentre oggi egli, pur continuando a muo-
versi all’interno di un orizzonte post-metafisico, difende la legittimità dei
discorsi religiosi come discorsi di senso sulla realtà umana contro un «natu-
ralismo scientista» che vorrebbe eliminarli considerandoli come meri re-
taggi del passato31.
È utile, allora, tornare a riflettere su questo legame sottile, ma innegabi-
le, tra filosofia politica e domanda metafisica di cui è un chiaro esempio la
tensione presente nella produzione più matura di Habermas. È possibile rin-
tracciare un’analoga tensione anche in un altro protagonista della filosofia
politica contemporanea, cioè John Rawls, che attribuisce come compito alla
filosofia politica quello di riconciliarci con il mondo 32.
Come ha mostrato una sua allieva, Susan Neiman, la riconciliazione per
Rawls non deve essere intesa alla maniera hegeliana, ossia come un tentati-
vo di ritrovare una razionalità del reale, ma piuttosto quella di «mostrare la
possibilità della ragione nel mondo sociale»33. Benché il suo linguaggio di
filosofo analitico renda difficile cogliere questo aspetto di fondo, l’etica di
Rawls risponderebbe a due questioni metafisiche di fondo riguardanti il
problema del male: quello della contingenza e quello della riconciliazio-

30
J. Habermas, Fede e sapere, in ID., Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale,
Einaudi, Torino 2002, p. 108.
31
Cfr. J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2008; ID., Verbalizzare il sacro. Sul lascito
religioso della filosofia, Laterza, Roma-Bari 2015. Su questi ultimi sviluppi del pensiero di Habermas
cfr. C. Calhoun, E. Mendieta, J. Van Antwerpen, a cura di, Habermas and Religion, Polity, Malden
2013. Sugli aspetti aporetici di quest’ultima fase della produzione di Habermas cfr. G. Cunico, Lettura
di Habermas. Filosofia e religione nella società post-secolare, Queriniana, Brescia 2009.
32
Cfr. J. Rawls, Giustizia come equità. Una riformulazione, Feltrinelli, Milano 2002, p. 5.
33
S. Neiman, In cielo come in terra. Storia filosofia del male, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 298.

144
ne34. E ciò non deve stupire perché in realtà le questioni politiche possono
emergere da, e rimanere legate a, quelle metafisiche35.
Ciò che voglio dire è che la domanda intorno al male va incontro a delle
serie difficoltà se si assume uno sfondo metafisico di tipo monista. Ciò ac-
cade in entrambe le sue varianti: quella spinoziana che riduce il male alla
limitatezza umana e quella nietzschiana che riduce tutto a volontà di poten-
za che impone il suo ordine di valori a un cosmo caotico.
Ed è a questo livello metafisico generale, sul quale la riflessione filoso-
fico-politica contemporanea si arresta, che vorrei dedicare alcune conside-
razioni finali. La filosofia contemporanea per molte ragioni ha nutrito un
forte sospetto nei confronti della metafisica. In particolare, l’affrontare sul
versante filosofico-politico questioni di tipo metafisico è sembrato perico-
loso per la salvaguardia del bene prezioso del pluralismo. Negli ultimi anni,
l’atteggiamento nei confronti della metafisica (e conseguentemente verso la
sfera del ‘religioso’) è mutato anche in risposta a un certa sterilità del-
l’eredità positivista molto influente nel mondo anglosassone. Un autore co-
me Hilary Putnam, ad esempio, è un caso particolarmente significativo di
come anche all’interno della tradizione analitica sia possibile oltrepassare
una prospettiva rigidamente empirista facendo spazio a un discorso più a-
perto in campo morale e anche religioso36. L’importanza di una riflessione
a questo livello discende allora da un’esigenza improrogabile della raziona-
lità pratica.

Una lettura ‘aperta’ della cornice immanente?

Ho già sottolineato i limiti di una prospettiva monista sulla tematizza-


zione di concetti quali ‘male’ e ‘bene’. A questo proposito ritengo che al-
cuni spunti interessanti provengano dalla distinzione introdotta da Romano
Guardini tra «opposizione polare» e «contraddizione»37. Mentre l’«opposi-
zione polare» costituisce la dinamica della realtà in cui viviamo e presup-
pone che i due poli in questione, pur differenti, siano legati tra loro, la
«contraddizione» impone al contrario la loro esclusione radicale. Andando
al cuore della questione, per Guardini ‘bene’ e ‘male’ non stanno in un rap-
porto di «opposizione polare» ma piuttosto di «contraddizione»: il ‘male’
34
Cfr. ibidem, p. 295.
35
Cfr. ibidem, p. 277.
36
Cfr. H. Putnam, Fatto/valore. Fine di una dicotomia, Fazi Editore, Roma 2004; ID., Etica senza
ontologia, Bruno Mondadori, Milano 2005; ID., Filosofia ebraica, una guida di vita. Rosenzweig,
Buber, Levinas, Wittgenstein, Carocci, Roma 2011.
37
Cfr. R. Guardini, L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, Morcelliana,
Brescia 1997.

145
non ha nulla a che vedere con il ‘bene’ perché, in caso contrario, esso sa-
rebbe implicato nella logica stessa di sviluppo del bene e quindi della real-
tà. In effetti, questo è ciò che sostengono le metafisiche moniste, come
quella spinoziana o, allargando lo sguardo, religioni asiatiche come il bud-
dismo o il taoismo le quali concepiscono la salvezza come un processo mi-
stico di liberazione che si realizzerebbe annullando tutte le distinzioni sen-
sibili e, tra queste, anche quella tra ‘bene’ e ‘male’38.
Purtroppo, però, se si applicasse radicalmente una logica di tipo monista
si aprirebbero scenari gravidi di conseguenze morali assai pesanti. Come è
possibile, ad esempio, la denuncia morale di tragedie come l’Olocausto a-
dottando una logica ‘polare’ secondo la quale anche questo evento sarebbe
implicato in un qualche modo con il ‘bene’? Analoghe difficoltà incontre-
rebbe qualunque tentativo di ‘fondare’, come pure è stato proposto, il di-
scorso sui diritti umani sulla memoria storica di un ‘male assoluto’ che non
debba mai più ripetersi39.
Seguendo il ragionamento di Guardini, sembra ragionevole ammettere
che se qualcosa può essere classificato come ‘male’ allora deve essere con-
cepito come contrario al bene e non come a esso legato da una logica di ti-
po ‘polare’: «Il male non costituisce assolutamente una componente neces-
saria del mondo, non assolutamente l’oscura contropartita del bene: è inve-
ce ciò che non è lecito esista, in senso assoluto e semplice; tra bene e male
non c’è possibilità di sintesi, ma solo una scelta, una decisione»40.
La prospettiva non monista di Guardini è un forte stimolo per tornare a
riflettere sul legame tra ‘metafisica’ e ‘morale’ e per comprendere, almeno,
come certe visioni metafisiche abbiano implicazioni assai problematiche in
ambito pratico-morale perché, tirando le conseguenze delle premesse as-
sunte, si dovrebbe giungere a negare una legittimità del domandare stesso
intorno al significato del ‘male’ che dipenderebbe esclusivamente dalla ‘li-
mitatezza’ umana. Così facendo, però, il serio rischio sarebbe quello di
mettere a repentaglio la responsabilità e la libertà storica dell’uomo il qua-
le, in realtà, avrebbe come unico compito quello di ‘uniformarsi’ alla logica
intrinseca del Reale.
Se poniamo invece domande intorno al fondamento dei valori o su cosa
sia il ‘male’ è proprio perché, essendo il nostro mondo ‘relativo’ e non
l’Assoluto, allora la domanda pratico-morale è un qualcosa di inestinguibi-

38
Non trovo, pertanto, molto convincenti le argomentazioni fornite nell’articolo D. Gira, Un approccio
buddista alla questione del ‘male’, “Concilium”, XLV, 2009/1, pp. 145-156.
39
Cfr. S. Veca, La priorità del male e l’offerta filosofica, Feltrinelli, Milano 2005.
40
R. Guardini, Etica, Morcelliana, Brescia 2001, p. 91.

146
le e il ‘male’ può essere concepito come qualcosa da rifiutare piuttosto che
da accettare come momento intrinseco alla ‘logica’ delle cose.

Conclusione

Gli argomenti presentati fin ora non sono finalizzati a sostenere che
l’ateo non possa avere esperienze morali profonde o non possa nutrire un
senso di ‘stupore’ o di ‘riverenza’ nei confronti del mondo. All’interno del-
la cornice immanente, l’uomo comune, ateo o credente che sia, possiede
valori in base alla pluralità delle concezioni del bene disponibili. Spesso,
però, ciò avviene in maniera non necessariamente critico-riflessiva. Se
l’argomento di Dworkin dal quale siamo partiti consistesse soltanto
nell’affermare che un ateo (come d’altra parte un credente!) può tranquil-
lamente agire in base ai valori che ritrova nella società in cui vive, per e-
sempio i valori democratici, saremmo d’accordo. Ma il tentativo di Dwor-
kin è più ambizioso, è di natura filosofica appunto, cioè volto a innalzarsi al
di sopra delle credenze quotidiane di coloro che non fanno filosofia: Dwor-
kin vuole dimostrare che si possa argomentare in favore di una «oggettività
del valore» a prescindere dalla scelta ateismo/teismo.
Ho provato a mostrare che non solo una prospettiva atea non riesce a
chiarire quali e di che tipo siano questi valori ma, andando ancora più in
profondità, come essa, in quanto monista, rischi di compromettere la distin-
zione tra ‘normatività’ e ‘fattualità’. Su questo livello ho provato a mostrare
come la lettura chiusa della cornice immanente, logica conclusione
dell’ateismo, non riesce a fornire argomenti soddisfacenti non solo per so-
stenere che il mondo abbia un significato o dei valori in sé ma, addirittura,
se abbia ‘senso’ porsi questi interrogativi. Ricordo, per inciso, che è esat-
tamente quanto hanno sostenuto tutti i più famosi esponenti della lettura
chiusa della cornice immanente (da S. Freud a F. Nietzsche, da R. Dawkins
a R. Dennett)41.
Come ho sostenuto nelle pagine precedenti, la presenza del ‘male’ è uno
degli aspetti principali di fronte ai quali la nostra esperienza assume un ca-
rattere ‘problematico’ a meno che, sposando una causa ateo-materialista,
non lo si consideri un’illusione. Ma se si scegliesse questa soluzione, allora

41
R. Dennett ha provato a dimostrare nei suoi scritti come la logica di sviluppo della cultura (ivi
comprese le credenze religiose) sia analoga a quella della natura. Ciò farebbe sparire qualunque bisogno
di considerare la morale o la religione come qualcosa ‘che va più in là’ della mera dimensione empirico-
materialista (cfr. R. Dennett, Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale, Raffaello
Cortina Editore, Milano 2007). Per una critica della teoria di Dennett cfr. R. Schröder, Liquidazione
della religione? Il fanatismo scientifico e le sue conseguenze, Queriniana, Brescia 2011, p. 31 s.

147
il prezzo da pagare sarebbe assai pesante per la nostra autocomprensione di
esseri morali.
Ma, forse, c’è un quesito ancora più radicale di fronte al quale l’ateismo
non sembra fornire una risposta adeguata: è un ‘bene’ in sé la continuazio-
ne dell’esistenza del genere umano su questa terra oppure dobbiamo guar-
dare alla sua possibile scomparsa senza particolare disagio visto che, in fin
dei conti, siamo probabilmente figli del caos e di un’evoluzione a-
finalistica?42

42
Cfr. R. Brague, Les ancre dans le ciel. L’infrastructure métaphysique, Editions du Seuil 2011.

148
goffman
tripodi
giolo e bernardini
valerio
sasso
Goffman e il genere tare – magari in forme più sofisti-
nelle immagini pubblicitarie cate e meno esplicite, ma pur sem-
pre influenzate dal male gaze – le
Elisa Rossi donne in questi ruoli e come donne-
elisa.rossi@unimore.it oggetto, costruendo e ‘naturalizzan-
do’ l’immagine della loro inferiorità
Il modo in cui nelle società occi- e subordinazione rispetto agli uomi-
dentali, attraverso le immagini pub- ni, al loro potere, al loro desiderio
blicitarie, ma anche i programmi te- sessuale, finendo così per trascurare
levisivi e le fotografie che circolano l’eterogeneità dei corpi e delle atti-
in rete e sui social network, viene vità lavorative delle donne ‘vere’.
rappresentato il genere, in parti-co- Il libro di Erving Goffman (1922-
lare il genere femminile, è un tema 1982), uno dei più autorevoli socio-
di grande attualità e di interesse. A logi della vita quotidiana e dell’in-
questo proposito, nel dibattito terazione vis-à-vis, analizzate in una
scientifico si evidenziano spesso prospettiva drammaturgica come
due ordini di problemi: in primo metafore teatrali a partire dai con-
luogo, l’ipersessualizzazione e la cetti di rappresentazione, rituale, ri-
mercificazione del corpo delle don- balta e retroscena, facciata, costi-
ne, collegate a un’ideale di bel- tuisce un punto di avvio e un tas-
lezza-magrezza e di carica erotica, sello importante nelle riflessioni su
di recente esteso a ragazze sempre questo tema. Pubblicato nel 1979
più giovani; in secondo luogo, la con il titolo Gender advertisements,
rappresentazione di ruoli femminili il volume si articola in tre capitoli,
tradizionali e stereotipati, ossia proponendo una riflessione teorica,
quello di moglie servizievole, ma- seguita da una breve analisi di foto-
dre protettiva, donna dedita ai la- grafie (pubbliche e private) e di
vori domestici o, ancora, di mera fi- pubblicità dell’epoca, selezionate in
gura di intrattenimento e contorno, maniera non casuale e opportuna-
accessoria e marginale rispetto, ad mente commentate.
esempio, alla conduzione televisiva Nel primo capitolo, prima di trat-
affidata a un uomo. Negli ultimi an- tare il concetto di esibizione, in par-
ni, numerosi studi hanno dimostrato ticolare di esibizione di genere
come le pubblicità, nonostante alcu- (gender display), Goffman illustra
ni importanti cambiamenti e inno- la funzione delle cerimonie, che so-
vazioni sospinti dall’emancipazione lennizzano particolari momenti del-
femminile e da una crescente parità la vita e implicano situazioni sociali
di genere, continuino a rappresen- nelle quali le persone, fisicamente

La società degli individui, n. 58, anno XX, 2017/1 ISSN 1590-7031, ISSNe 1972-5752
presenti tra loro, sono sottoposte a litamente trasmesse e ricevute come
un controllo e a un monitoraggio re- se fossero qualcosa di naturale
ciproco, mettono in scena – spesso proprio in quanto ritualizzate, le
in maniera consapevole e allinean- esibizioni di genere sono invece
dosi a convenzioni e stereotipi – socialmente apprese e strutturate in
una sorta di ritratto delle distinzioni base a un programma che determina
e delle gerarchie della struttura so- quando e come utilizzarle. Esse
ciale, dando mostra e ‘sfoggio’, in dunque necessitano di spiegazioni
forma ritualizzata, della loro coe- storiche tese a individuare anche le
renza nei confronti delle aspettative origini culturali, non solo dei di-
sociali. Le esibizioni, per Goffman, versi stili di comportamento di uo-
sono appunto espressioni e compor- mini e donne, ma anche delle diver-
tamenti ritualizzati, stilizzati e sem- se forme di trattamento, andando
plificati, che hanno una funzione oltre agli elementi innati, biologici.
identificatoria e danno prova del- In merito alle forme di trattamento,
l’allineamento dell’attore nella si- Goffmann pone un pa-rallelismo tra
tuazione sociale, informano gli altri la relazione genitore-figlio e la rela-
partecipanti della sua identità so- zione uomo-donna, entrambe osser-
ciale (e in parte personale), del suo vate a partire da espressioni ritua-
stato d’animo, delle sue intenzioni, lizzate nelle quali spesso si stabi-
delle sue aspettative, della relazione lisce un’asimmetria tra chi detiene
che è in gioco, favorendo in questo il controllo e il potere, anche esi-
modo una rapida comprensione e bendosi come protettivo, gentile e
intellegibilità delle azioni. Un altro amorevole, e chi si sottomette al-
aspetto centrale del primo capitolo è l’altro, alla relazione, alla definizio-
la definizione di ‘genere’, inteso co- ne della situazione, talvolta in modo
me «il correlato stabilito cultural- non chiaro ed evidente. Alla base di
mente del sesso (sia conseguente queste asimmetrie vi sarebbero gli
dalla biologia o dall’apprendimen- stereotipi di genere, i quali, defi-
to)», nella quale dunque si sotto- nendo come naturale qualcosa che
linea l’influenza della cultura e dei invece non lo è, iniziano ad essere
processi di socializzazione, oltre al utilizzati e applicati agli individui
dato biologico, a cui segue la defi- fin dall’infanzia, perpetuandosi nel-
nizione di ‘esibizioni di genere’, la sfera domestica e nelle immagini
considerate «rappresentazioni con- pubblicitarie. Per Goffman l’inte-
venzionalizzate di questi correlati», resse degli studiosi non dovrebbe
messe in scena di parti che la so- allora consistere nello scoprire
cietà si aspetta da uomini e donne, espressioni reali e naturali, appel-
ossia espressioni e dimostrazioni di landosi a quella che egli chiama
mascolinità e femminilità. Come «dottrina dell’espressione natu-ra-
puntualizza bene l’autore, nono- le», secondo cui «le espressioni ac-
stante siano pratiche espressive so- cadono semplicemente perché per

152
loro è naturale farlo», ma dovrebbe grezza e la bellezza, caratteristiche
piuttosto riguardare la competenza che le renderebbero alquanto di-
degli individui nel produrre e leg- verse dalle donne nelle scene reali
gere i loro ritratti, nel sottoscrivere ma che comunque le porrebbero,
le convenzioni delle loro esibizioni nei confronti di queste ultime, come
di genere, nell’aderire a un pro- degli ideali da raggiungere. Si trat-
gramma strutturato per presentare le ta, lo abbiamo visto, di un aspetto
loro descrizioni di mascolinità e molto dibattuto nella riflessione sul
femminilità. Tale competenza e tali rapporto tra genere e media.
rappresentazioni, tuttavia, fornisco- Nel terzo e ultimo capitolo, Gof-
no soltanto un’immagine e un ri- fman sostiene che non soltanto le
tratto parziali, sia del genere, sia immagini pubblicitarie ma anche le
della relazione tra i sessi. esibizioni di genere hanno un ca-
Il secondo capitolo del volume è rattere fittizio e artificiale, tuttavia
incentrato sulle cornici fotografi- le prime sono fatte passare per ‘rea-
che, le quali vengono classificate in listiche’, le seconde per ‘naturali’. I
private e pubbliche. Le prime sono pubblicitari, di fatto, non creano le
quelle progettate, visualizzate e rese espressioni ritualizzate da loro im-
accessibili a proprio piacimento in piegate, bensì compiono una iper-
ambito familiare, soprattutto per ritualizzazione: per rendere com-
commemorare eventi importanti. Le prensibili le azioni su cui poniamo
seconde invece, progettate per cat- lo sguardo, utilizzano i repertori di
turare l’attenzione di un pubblico dimostrazioni disponibili, dunque
più ampio, possono includere, ad «convenzionalizzano le nostre con-
esempio, le immagini pubblicitarie venzioni, stilizzano ciò che è già
per vendere un prodotto ma anche una stilizzazione». Poiché compito
quelle pubblicitarie personali, le im- dei pubblicitari è far sì che gli spet-
magini su temi attuali, le immagini tatori acquistino un prodotto, il si-
didattiche, le immagini di interesse gnificato dell’immagine pubblici-
umano ecc. Guardando al presente, taria deve essere immediatamente
dunque a oltre trent’anni dall’opera comprensibile: per questo, i perso-
di Goffman, dopo l’avvento di In- naggi vengono idealizzati e stereoti-
ternet e dei social network, si po- pizzati, la scena viene coreografata
trebbe affermare che i confini tra in modo da riprodurre la standar-
foto private e foto pubbliche sono dizzazione, l’esagerazione e la sem-
meno rigidi, considerando che le fo- plificazione dei rituali e delle scene
to private e intime sono sempre più di vita reale. Il capitolo si conclude
spesso di dominio pubblico. Sempre con la presentazione e il commento
in questo capitolo, l’autore introdu- di alcune pubblicità degli anni set-
ce al tema delle figure femminili tanta che, come puntualizza il so-
nelle immagini pubblicitarie, sotto- ciologo, non sono rappresentative
lineandone in particolare la ma- del comportamento di genere nella

153
vita reale, né della pubblicità in Un’inquietante assenza
generale, ma sono state selezionate
in modo non casuale, a sostegno Silvia Ferrari
delle tesi presentate nelle pagine silviaf87@gmail.com
precedenti. Esse vengono suddivise
in cinque sezioni: 1) la dimensione Generazioni di studenti del liceo
relativa, che collega il potere, si sono formate con il classico ma-
espresso in situazioni sociali, alla nuale dell’Abbagnano, scorrendo le
statura delle figure maschili o fem- pagine nel corso dei tre anni per ap-
minili rappresentate; 2) il tocco prodare non solo a una conoscenza
femminile, per mostrare come le della storia della filosofia ma anche
donne, più degli uomini, siano raf- alla consapevolezza che la filosofia
figurate con le mani che – aperte e è tutta una questione al maschile.
rivolte verso l’alto – accolgono e Chiaramente, nella scarsa presenza
sostengono un prodotto, accarezza- femminile in quel manuale, ma po-
no e accompagnano la mano ma- tremmo citarne tanti altri e anche di
schile la quale a sua volta tocca il tanti altri generi − nella letteratura,
prodotto, esprimano vicinanza e per esempio − risiedono diverse ra-
amore nei confronti del coprotago- gioni storiche: innanzitutto perché
nista maschile, oppure ancora si alle donne è stato negato lunga-
sfiorino i capelli e il volto; 3) la mente il diritto all’istruzione e ‘un
funzione dell’occupazione, rispetto tetto di vetro’ opaco impediva non
alla quale Goffman osserva gli uo- solo il concorso alle pratiche gno-
mini soprattutto in ruoli esecutivi, seologiche ma anche più banal-
nei lavori di équipe con una o più mente l’aspirazione ad avvicinar-
figure femminili; 4) la famiglia, visi. A un secondo livello, poi, si
nello specifico la famiglia nucleare, muove la serpe del pregiudizio che
che a suo parere ben si presta alla ha albergato negli intellettuali per
rappresentazione visiva e dunque secoli: sulla scia di Aristotele, è
alla simbolizzazione di quella che è l’uomo ad avere il privilegio della
(stata a lungo considerata) l’unità di razionalità, mentre alla donna è de-
base dell’organizzazione sociale; 5) clinata la stregua dell’emotività che
il rituale della subordinazione, per impedirebbe loro di produrre sem-
mostrare come i pubblicitari raffi- plici sillogismi, formulare pensieri
gurino lo stereotipo della deferenza, chiari e distinti, condurre inchieste
e quello della superiorità, attraverso logicamente valide e risolverle.
precise caratteristiche mimiche e Queste due grandi questioni storico-
posturali dei personaggi. intellettuali sono le grandi narrazio-
ni con cui si giustifica ancor oggi la
ERVING GOFFMAN, Rappresentazioni di scarsa presenza delle donne nei ma-
genere, Mimesis, Milano-Udine 2015, nuali di filosofia, ma una terza più
pp. 152, € 12 spinosa e assai attuale questione è

154
l’ingiustizia sistemica che colpisce del sapere filosofici, in particolare
le donne nella loro assenza, un’as- quelli che intersecano la sessualità,
senza che non predomina soltanto la bioetica, e la stessa messa in que-
nei libri scolastici ma ben più peri- stione delle donne − i cosiddetti stu-
colosa nel luogo in cui si produce di di genere.
cultura e a cascata essa viene redi- Il saggio muove da quattro do-
stribuita, l’università. mande che occupano ciascuna un
Diversi saggi hanno cercato di capitolo. Il capitolo Epistemologia e
supplire a questa assenza, si pensi al scienza risponde alla domanda
manuale di Gilles Ménage, al focus «perché le donne hanno un ruolo di
sulle filosofe fra il Rinascimento e confine nello sviluppo della scienza
l’Illuminismo di Sandra Plastina, e delle pratiche scientifiche?»; il ca-
oppure alla carrellata di Giulio De pitolo Corporeità e sessualità ri-
Martino e Marina Bruzzese: eppure, sponde a «quale nesso logico c’è fra
tutti questi sembrano essere tenta- la corporeità, la sessualità e il ge-
tivi di manuali a supporto, con un nere?». La domanda che muove il
intento più storico-biografico che terzo capitolo, Etica e politica, è
analitico. «quale rapporto c’è fra la donna e la
Qualcosa però in Italia si è mosso, cura − e come essa debba forse es-
e il ‘calcio d’inizio’ lo hanno dato sere risemantizzata?»; in ultimo, il
Pieranna Garavaso e Nicla Vassal- capitolo Religione muove dalla pos-
lo, non solo scrivendo di Diotima, sibilità non solo di declinare una di-
Ipazia ed Elisabetta del Palatinato, vinità al femminile ma anche di dar
ma cercando di far emergere il mo- forma ed espressione a un suo pre-
do in cui un sapere situato come ciso atto simbolico.
quello femminile, ai margini delle Epistemologia e scienza prende le
società che si sono susseguite nei mosse proprio dal libro sopracitato
secoli, ha contribuito alla storia del della Vassallo ma non solo, indaga
pensiero quando esso si è incontrato propriamente la cosiddetta ‘episte-
− e talvolta scontrato − con i sistemi mologia femminista’, un insieme di
filosofici tradizionali. metodi, stili e teorie che propon-
L’esigenza che muove la stesura gono di occuparsi del ruolo sociale
del libro di Vera Tripodi, Filosofie delle donne nella conoscenza e che
di genere. Differenza sessuale e in- è divenuto un ambito importante
giustizie sociali non è quella di pro- nella filosofia delle scienze naturali
durre una storia delle filosofe dal- e in quelle sociali − benché ancora
l’Atene del V secolo a. C. ad oggi, si inserisca nel dibattito più ampio
ma essenzialmente di indagare l’as- dei Gender studies. Il presupposto
senza delle donne, e interrogarsi da cui muove un’epistemologia
non solo sugli stereotipi ma sui mo- femminista è la ‘non neutralità’ del
tivi per i quali esse fanno la loro sapere scientifico, valorizzandone
comparsa solo in determinati campi la parzialità − raggiungendo però,

155
come è chiaro, un cortocircuito non l’altro: da una parte il femminismo
solo epistemico ma anche politico. radicale che valorizza la corporeità
A seguire, le tre vie adombrate sono e la sessualità secondo il punto di
state quelle dell’empirismo fem- vista esperienziale femminile, dal-
minista, del postmodernismo fem- l’altra il femminismo psicanalitico
minista e del punto di vista fem- francese che invece vuol ricon-
minista (l’approccio standpoint) su figurare il corpo stesso delle donne.
cui Tripodi si sofferma, poiché fa- Se entrambi i filoni nascono in seno
rebbe entrare nella storia dell’epi- alla filosofia della differenza di
steme il contesto culturale a cui es- Simone de Beauvoir, allo stesso
so si riferisce, fondando ogni ricer- tempo ci si allontana sempre di più
ca sulle esperienze situate. Il dibat- dalla biologia quando si riflette sul
tito sulle standpoint epistemolo- corpo perché il modo in cui è
gies, seppur datato e forse superato, pensato è influenzato intrinseca-
ha dominato il dibattito pubblico mente dal contesto − e quindi dalle
per tutti gli anni ottanta, costituendo questioni messe in nuce nel primo
un buon punto di partenza per una capitolo.
problematizzazione ulteriore del- Il terzo capitolo, che esplora le
l’epistemologia femminista. Il di- ragioni della relazione fra le donne
battito prende avvio da un polemico e il ‘prendersi cura’, apre con una
articolo di Susan Hekman che in- digressione sui diritti della donna
terpellava le principali epistemo- citando Mary Wollstonecraft e John
loghe standpoint come Harding, S. Mill, per poi trattare nel merito
Hartsock, Collins, Smith, e che per alcune relazioni di cura che sem-
questo con articoli e saggi pub- brano predominio delle donne per-
blicati nel 1997 sulla rivista “Signs: ché ricadono sotto l’egida del do-
journal of women in culture and mestico a cui le donne sono ancora
society” sviluppano più approfondi- ancorate nel loro ruolo di mogli,
tamente le trame che intercorrono madri e non solo.
fra sapere-potere. Quello che le au- Il quarto e ultimo capitolo ri-
trici difendevano era l’imperativo percorre la posizione di alcune filo-
politico che sempre doveva accom- sofe femministe che hanno ripen-
pagnare il movimento femminista, sato al ruolo di subalternità della
anche nel momento in cui si deci- donna affidato dalla tradizione giu-
deva di intervenire nel campo epi- daico-cristiana, citando prevalente-
stemologico. mente Luce Irigaray, per poi inter-
Il capitolo Corporeità e Sessualità rogarsi sugli attributi maschili di
getta una luce sui due grandi filoni Dio e ripensarli attraverso una
che hanno cooptato la narrazione filosofia femminista della religione.
sulla differenza di esperienza che In conclusione, il saggio non striz-
un uomo e una donna hanno con il za l’occhio solo ed esclusivamente
proprio corpo e con il corpo del- agli addetti ai lavori: nella sua bre-

156
vità e attraverso uno stile molto stra società e legare tale sguardo
scorrevole, pur senza cadere nella critico a specifiche questioni di ge-
superficialità, vuole riassumere le nere: questo, in sintesi, l’intento
radici di un dibattito sulla questione principale del volume. Quindi un
femminile che si è innescato con libro ‘di cerniera’ fra mondi diversi:
Simone de Beauvoir ma che ha at- fra la metodologia della disciplina
traversato momenti di stanca fra giuridica (dalla quale prende spun-
Novecento e Anni Duemila, ridu- to, data la formazione delle cura-
cendosi spesso alle pagine culturali trici, entrambe filosofe del diritto) a
della domenica. Con uno sguardo quella filosofica, sociologica, lette-
analitico, invece, il libro sia affronta raria. Ma anche un libro che vuole
problemi filosofici tout court, sia non solo pensare il mondo ma agire
tenta di mettere in luce quanto il nel mondo, un libro che dunque le-
modo in cui funziona la nostra ga pensiero e azioni.
mente sia influenzato dal contesto L’opera raccoglie nove saggi, con
culturale e, a cascata, esso produca un’introduzione corposa e una bre-
conseguenze sulle realtà con cui ci ve conclusione che propone un nuo-
si confronta quotidianamente, quali vo ABC del femminismo. Si confi-
ad esempio l’aborto, la maternità gura come una rilettura di alcune
surrogata, la prostituzione. I lettori voci ben note nel mondo dei fem-
invece più esperti delle tematiche di minist studies (da Jane Austen a Si-
cui sopra troveranno una vasta bi- mone de Beauvoir, da Carla Lonzi a
bliografia con cui potersi in un se- Judith Butler) ma anche come una
condo momento confrontare senza serie di riflessioni sul femminismo
restare impietriti dinnanzi alla mole a partire dal quadro giuridico della
di saggi e articoli che animano un rivendicazione dei diritti e in nuovi
dibattito molto nutrito e a volte contesti di indagine (dal femmini-
dispersivo. smo nero di Patricia Hill Collins a
quello islamico esaminato da Ziba
VERA TRIPODI, Filosofie di genere. Dif- Mir-Hosseini, trattati, rispettiva-
ferenza sessuale e ingiustizie sociali, mente, nei saggi di Maurilia Sca-
Carocci, Roma 2015, pp. 168, € 15 mardo e di Laura Scuderi).
La diversità dei percorsi viene
utilizzata come chiave interpretati-
Percorsi comuni va: il volume propone, infatti, un
del femminismo femminismo ‘inclusivo’, sia in ter-
mini disciplinari sia per l’apertura a
Patrick Leech tutti coloro che intendano adottare
johnpatrick.leech@unibo.it uno sguardo critico verso le rela-
zioni di potere vigenti. Il femmi-
Legare il femminismo ad uno nismo viene così concepito e figu-
sguardo critico e analitico della no- rato a fianco di una serie di altre

157
forme di discriminazione presenti genze, fratture. La continuità è data
nella società contemporanea quali soprattutto del posizionamento del
quelle basate sul colore, sull’etnia, femminismo in un’area critica ne-
sulla religione, sull’età, sull’orien- cessariamente ai margini dei flussi
tamento sessuale. Il collante di que- principali e consolidati della so-
ste condizioni diverse, si trova nel cietà, ossia nel mondo dell’oppo-
quadro complessivo dei diritti, e in sizione ad un status societario pre-
particolare in quella tradizione di stabilito, pre-ordinato, accettato e
diritti umani universali che si basa apparentemente immutabile, in una
sulla nozione che tutti gli individui parola il patriarcato. L’obiettivo
hanno valore uguale ‘a prescin- del femminismo è di realizzare
dere’, a prescindere in senso asso- cambiamenti radicali in seno alla
luto, ma anche a prescindere dalla società, e ciò è possibile, secondo le
diversità, condizione ineluttabile autrici del libro, attraverso uno
dell’essere umano. sguardo critico ampio e l’utilizzo
Tale punto di partenza spiega an- dell’assioma dei diritti universali.
che la posizione del libro verso la Il volume merita pertanto l’atten-
tradizione femminista. Le curatrici zione di chiunque vede nei diritti
non negano la diversità e la plu- una leva per discutere delle forme e
ralità dei femminismi che anzi ven- del funzionamento del potere nella
gono riconosciute in pieno. Rico- società odierna. I vari saggi, nello
noscono che le radici di tale diver- specifico, offrono diversi spunti sti-
sità e le diverse forme che il fem- molanti: dalla discussione del rap-
minismo ha assunto sono da riscon- porto fra norma e normativo (tratta-
trarsi nei vari contesti nei quali è ta dalle curatrici nell’introduzione)
stato elaborato, ma anche nel forte all’importanza di un concetto pieno
intreccio fra il pensiero femminista di riconoscimento e dignità come
e la soggettività personale. Un ele- pre-requisito dell’accoglimento del-
mento caratterizzante del pensiero la differenza (Baldassare Pastore);
femminista, che emerge in contesti da un esame del pensiero di Jane
diversi, è costituito infatti dal suo Austen come narratrice «dell’op-
rootedness e dalla sua materialità. pressione delle donne nel contesto
Si parla, ad esempio, non solo del domestico», collocata nel solco del-
corpo, ma anche del ‘corpo situato’ la lotta per i diritti delle donne di
materialmente e storicamente, con Mary Wollstonecraft, nonché di
riferimento al pensiero di de Beau- quella contro la tratta degli schiavi,
voir (esaminato nel saggio di Ber- già tracciata nel lavoro di Edward
nardini). Said e di altri studiosi postcoloniali
Tale diversità non preclude, tutta- (Orsetta Giolo) alla disamina del
via, l’intento di tracciare un’essen- «corpo situato» nel lavoro di Simo-
ziale continuità negli studi femmi- ne de Beauvoir (Maria Giulia Ber-
nisti, aldilà delle differenze, diver- nardini); dall’eterosessualità come

158
«pilastro del patriarcato» nel lavoro e suffragiste, alle quali, tuttavia, la
di Carlo Lonzi (Sandra Rossetti) al chiesa cattolica si mostra sorda,
rapporto fra femminismo e gender confermando un regime di misogi-
studies (Stefania Guglielmi; Ales- nia, basato sull’emarginazione della
sandra Sturabotti); dal legame fra donna, confinata nei tradizionali
self-definition ed empowerment ruoli domestici ed esclusa dalle ge-
(Maurilia Scamardo) allo sguardo rarchie ecclesiastiche.
sul femminismo islamico da parte Nel suo Donne e chiesa: una sto-
dell’antropologo del diritto iraniano ria di genere, Adriana Valerio si
Ziba Mir-Hosseini (Laura Scuderi) propone di tracciare una genealogia
sino alla biopolitica del materno di questo apparato di disciplina-
(Olivia Guaraldo). mento e asservimento della donna,
Ma al di là delle discussioni dei andando a individuarne le origini
singoli temi, va riconosciuto lo storiche, radicate nell’epoca tardo-
sforzo di agire verso la costruzione antica e alto-medievale, in cui il
di un’«unità di senso del pensiero cattolicesimo si istituzionalizza,
femminista» che potrà permettere assimilando alcuni codici etico-filo-
alle donne e agli uomini di «coglie- sofici e politici del mondo elle-
re la persistenza (accanita, astuta, nistico-romano.
per nulla sconfitta) di un sistema Lo studio prosegue un percorso di
patriarcale». ricerca già tracciato con Le ribelli
di Dio (Feltrinelli, Milano 2014),
MARIA GIULIA BERNARDINI, ORSETTA dedicato ad alcune figure femminili
GIOLO, a cura di, Critiche di Genere. della Bibbia, e affrontato anche in Il
Percorsi su norme, corpi e identità nel potere delle donne nella chiesa (La-
pensiero femminista, Aracne, Roma terza, Roma-Bari 2016). Come
2015, pp. 214, € 12 spiega l’autrice, non esistono tracce
di misoginia, né tanto meno una
netta separazione di genere o un
Uno sguardo genealogico disprezzo del corpo femminile nella
su donne e Chiesa cattolica predicazione di Gesù di Nazareth,
bensì sarebbero state le comunità
Chiara Tortora post-paoline a sviluppare una antro-
chiara.tortora@gmail.com pologia asimmetrica, nel delicato
momento storico in cui il catto-
«Non si conceda mai la parola alle licesimo si propone come garante
signore, benché rispettabili e pie» dell’ordine costituito e religione di
così si esprime papa Pio X (in “Atti stato. È allora che si forma questo
della Santa Sede”, 37, del 1904-05). dispositivo di potere-sapere desti-
Siamo agli albori del ‘900, il secolo nato a durare per secoli: simbolo di
dei diritti delle donne, quando già questo passaggio epocale, il mar-
circolano rivendicazioni femministe tirio della filosofa Ipazia. Con la de-

159
vastazione del corpo di Ipazia, la re- tro esempio di pratica religiosa ca-
ligione cattolica si afferma distrug- pace di ribaltare le gerarchie tradi-
gendo il paganesimo e stabilendo zionali è il culto mariano: il mona-
parallelamente una netta gerarchia stero di Montevergine, nel quale
di ruoli tra autorità maschile e trovavano accoglienza e rifugio i
inferiorità femminile. L’esclusione femminielli napoletani, è l’emble-
della donna e il celibato per il clero ma del culto della Grande Madre,
sarebbero collegati ad un più gene- «ritorno al mistero della vita, supe-
rale rifiuto dell’eros, ad un modello ramento dell’ambiguità della ses-
di continenza, padronanza di sé e sualità e integrazione della diversi-
censura del corpo mutuati da filo- tà» e, ancora, «incontro con la ma-
sofie tardo antiche. dre generosa che protegge i propri
Tuttavia, come già evidenziava figli da ogni fondamentalismo di-
negli anni settanta Michel Foucault, scriminatorio».
alla cui analisi genealogica dei La teologia dell’esclusione, la pra-
dispo-sitivi di potere-sapere e dei tica del sospetto e la convinzione di
sistemi disciplinari il testo della uno stretto legame tra donna e de-
Valerio sembra spesso implicita- monio culminano nel Rinascimen-
mente collegarsi, là dove c’è potere, to, con il fenomeno della stregone-
ci sono sempre margini di resi- ria, che si sviluppa proprio, paralle-
stenza: tra le trame di una chiesa lamente alla nascita della scienza
androcentrica e maschilista, si no- moderna, nell’età della ragione. Tra
tano tante piccole storie di donne, Rinascimento e Controriforma, si
che sono riuscite a ritagliarsi spazi accentuano disciplinamento e con-
personali di libertà e lotta. Come trollo ossessivo del corpo femmi-
scrive Valerio, «la visione ideo- nile, attraverso le pratiche della di-
logica, l’ordinamento giuridico e i rezione spirituale, della confessione
rapporti quotidiani sono piani di- e della reclusione. In tutta Europa,
versi e non sempre coincidenti». si moltiplicano i casi di stregoneria
Accanto alla grande Storia, l’autrice e si diffondono i manuali per inqui-
sceglie di accostarsi a tante piccole sitori. «L’ossessione del corpo fem-
storie quotidiane, ricostruite e re- minile, desiderato e allo stesso tem-
stituite al lettore come esempi di po rifiutato e respinto, si manifestò
ribaltamento e resistenza ai modelli in maniera ancora più drammatica
di potere dominanti. nella letteratura demonologica. I
La stessa pratica della clausura, trattati sulla stregoneria a partire
nata come esclusione, confinamento dalla fine del Quattrocento acutiz-
e disciplinamento delle donne, può zarono il concetto di inferiorità na-
diventare, in pieno Alto-medioevo, turale e fisiologica delle donne» per
strumento per sfuggire ad un ma- questo, scrive Valerio, «riscon-tria-
trimonio imposto o ad un destino di mo particolare crudeltà verso il cor-
madre pericoloso e non voluto. Al- po femminile nelle torture inflitte

160
alle streghe, la cui persecuzione in- menti di carnalità ed erotismo, nor-
sanguinò l’Europa (cattolica e pro- malmente esclusi dalla Chiesa tra-
testante) per due secoli attraverso dizionale.
l’eliminazione del capro espiato- Altra questione spinosa affrontata
rio». Un olocausto femminile di cui da Adriana Valerio è il diritto allo
ancora oggi risulta difficile com- studio delle donne, così difficil-
prendere completamente le ragioni. mente riconosciuto, non solo in am-
L’età della Controriforma procede bito ecclesiastico: persino nel se-
anche ad una ridefinizione degli colo dei Lumi, intellettuali come
spazi architettonici nei conventi e Genovesi o Filangieri continuano a
nelle chiese, dove si accentuano le relegare le donne nell’ambito do-
misure atte a custodire la clausura mestico, non riconoscendo loro un
femminile: mura, grate, catenacci, diritto all’istruzione analogo a quel-
chiavi e ruote si diffondono per im- lo maschile. Intellettuali religiosi e
pedire, quasi come gli odierni bur- laici continueranno a sostenere che
qua islamici, la visibilità del corpo la natura abbia confinato la donna
femminile e il contatto della donna nel destino di moglie e madre, limi-
con l’esterno. Persino durante la tandone le attività alle cure fami-
confessione la donna deve essere liari: un paradigma di sapere-potere,
isolata e invisibile al confessore: un modello educativo veicolato dal-
compaiono i confessionali. Eppure, l’istruzione gesuitica, come anche
anche in questa epoca oscura, non da quella laica, contro cui si mol-
mancano forme di resistenza: dai tiplicheranno le proteste nel corso
monasteri di San Festo e di Santa dell’ottocento suffragista e, soprat-
Maria Donnalbina a Napoli le mo- tutto, nel secolo scorso.
nache accolgono con lanci di pietre Persino nei suoi maggiori mo-
e di altri oggetti i delegati eccle- menti di apertura, la Chiesa catto-
siastici mandati a controllarle e di- lica appare restia a riconoscere la
sciplinarle. Sempre a Napoli, il donna come soggetto attivo alla pari
chiostro di San Marcellino, struttura dell’uomo e a consentirle l’accesso
aperta, e quello di Santa Chiara, alle cariche ecclesiastiche. Leone
ornato con maioliche, testimoniano XIII ribadisce la disuguaglianza uo-
ancora oggi la resistenza delle mo- mo-donna nella Rerum Novarum,
nache ad una clausura totale che enciclica rivoluzionaria per tanti al-
non doveva concedere nulla al-l’e- tri aspetti, che pure condanna qual-
stetica e al piacere dei sensi. siasi progetto di emancipazione
In piena età della Controriforma, femminile.
Teresa d’Avila usa inoltre i codici Arriviamo così al Concilio Vati-
del femminile per descrivere Dio, cano II, spartiacque della storia del-
definito come «seno divino», espri- la Chiesa, evento cui l’autrice ha
mendo, come tante altre mistiche, dedicato lo studio Madri del con-
una religiosità in cui si fondono ele- cilio (Carocci, Roma 2012), incen-

161
trato proprio sulle richieste presen- talità e cultura diffuse all’intera so-
tate da alcune donne e associazioni cietà, dunque la questione femmi-
femminili cattoliche in quella occa- nile non sarà risolta finché anche la
sione, e che, tuttavia, furono disat- Chiesa non avrà modificato le pro-
tese. Ancora una volta, scrive Vale- prie posizioni e strutture andro-
rio, la chiesa si presenta come una centriche. La persistenza di una
«istituzione monarchica, gerarchica, antropologia asimmetrica nell’isti-
clericale e maschile», caratterizzata tuzione ecclesiastica indica un per-
«dall’invisibilità femminile». corso di emancipazione femminile e
Non molto è stato fatto da allora, di acquisizione dei diritti non an-
nemmeno da papa Giovanni Paolo cora concluso: sul piano giuridico la
II, e le recenti polemiche sul gen- situazione è sicuramente miglio-
der, che rischia di diventare l’eresia rata, ma, come testimoniano anche
del ventunesimo secolo, ci mo- tragici eventi di cronaca, restano
strano ancora una Chiesa rigida, ancora da modificare tanti aspetti
pronta a difendere il paradigma tra- della nostra mentalità comune, frut-
dizionale dell’asimmetria di genere. to di tradizioni antichissime.
Senza dubbio i nostri tempi sono
diversi dai secoli bui della strego-
neria, tuttavia c’è ancora tanta stra- ADRIANA VALERIO, Donne e Chiesa.
da da percorrere: riconoscere il ca- Una storia di genere, Carocci, Roma
rattere storico del primato maschile 2016, pp. 246, € 18
è già un primo passo. Troppo spes-
so, come si evidenzia nella ri-
costruzione della Valerio, Dio o la Machiavelli pensatore della crisi
natura sono stati usati per legitti-
mare disuguaglianze che sono inve- Mattia di Pierro
ce storiche, prodotto di rapporti di mattia.dipierro@sns.it
forza e, dunque, modificabili. È
possibile essere cattoliche e fem- Il lavoro di Gennaro Sasso sul-
ministe o, come scrive Valerio, l’opera di Machiavelli è molto noto.
«femministe perché cattoliche»: oc- Dalla pubblicazione della sua prima
corre separare l’esperienza della fe- monografia (Machiavelli: storia del
de e il suo messaggio di salvezza suo pensiero politico, Istituto Ita-
dalle forme e dalle pratiche che si liano per gli studi storici, Napoli
sono storicamente affermate nell’i- 1958), poi ampliata nella nuova edi-
stituzione ecclesiastica. Tale discor- zione del 1980 e ulteriormente svi-
so va oltre l’ambito strettamente luppata nel 1993 (Niccolò Machia-
religioso, per investire la ‘questione velli, Il Mulino, Bologna), sono
femminile’ in senso ampio: la Chie- ormai passati oltre cinquant’anni.
sa è infatti sempre stata specchio Un lungo periodo in cui l’autore è
dei tempi ed espressione di men- divenuto un punto di riferimento

162
imprescindibile per gli studi ma- chiavelliano, nella sua cornice stori-
chiavelliani (tra i numerosi suoi in- ca e con il suo spessore culturale,
terventi ricordiamo i quattro volumi troppe volte sottovalutato o rifiuta-
di Machiavelli e gli antichi e altri to. In questo contesto, ricostruire la
saggi, Ricciardi, Milano-Napoli formazione di Machiavelli, dal rap-
1987-1997). porto con i classici alla scelta gio-
Il libro che qui consideriamo si vanile della lingua latina e alla co-
presenta già dal sottotitolo come il noscenza degli autori della cultura
gesto finale di questo lungo lavoro; volgare (Dante, Petrarca, Boccac-
«un’ultima occasione» per riflettere cio), acquista una rilevanza decisi-
sull’opera del Segretario fiorentino, va. Ugualmente importante appare
chiudendo alcune linee di ricerca, la rivalutazione della posizione po-
ribadendo diversi punti di vista e litica di quello che non era un pove-
riservando qualche parola, seppur ro funzionario di basso grado, come
tra le righe, a vecchie polemiche. I spesso è stato descritto, ma il prin-
saggi che lo costituiscono, raccolti cipale consigliere della Repubblica
da Carocci, sono stati originaria- soderiniana; un uomo politico in-
mente composti per essere inseriti fluente e temibile, che non per caso
come voci nell’Enciclopedia Ma- i Medici, una volta ritornati al po-
chiavelliana, diretta dallo stesso tere, vollero tenere ai margini.
Sasso insieme a Giorgio Inglese ed Una reale comprensione del pen-
edita da Treccani in occasione del siero machiavelliano, ci dice dun-
quinto centenario del Principe. Il que Sasso, deve necessariamente
volume che ne è risultato, nonostan- passare per un suo reinserimento
te non sia eccessivamente corposo, nell’ambiente culturale e politico
condensa nelle sue pagine un’enor- fiorentino, nonché attraverso la ri-
me quantità di spunti, prospettando scoperta delle radici che la sua ope-
nuovi motivi per continuare a stu- ra affonda nella cultura classica e
diare l’opera di Machiavelli. nel mondo antico. Un’idea, questa,
Due sono gli obiettivi polemici di da subito presentata nella prima
Sasso: coloro che hanno dipinto o sezione: un’Introduzione a Machia-
continuano a dipingere il Segretario velli dedicata a una presentazione
fiorentino come «una cosa di mezzo generale delle opere e delle mag-
fra un diavolo e un gangster», smor- giori questioni storiche e teoriche.
zandone la credibilità e coloro che, Il capitolo seguente, consacrato al
al contrario, il pensiero di Machia- Principe, si apre riassumendo la
velli lo hanno sì trovato, ma per poi celebre controversia tra Meinecke e
addomesticarlo, ammorbidirlo. In Chabod intorno alla genesi e alla
modo coerente con il lungo per- datazione dell’opera. Un lungo di-
corso dei suoi studi, Sasso tenta in- battito ancora attuale in cui Sasso
vece di portare in superficie l’auten- ha da tempo preso una posizione
tico e a tratti terribile pensiero ma- netta, rigettando l’ipotesi delle due

163
versioni e indicando come unica da- me a quello che viene su da una più
ta di composizione il 1513. sotterranea serie di accordi». Sono
L’indagine intorno al significato questi gli accordi della poesia di
della politica, alla sua autonomia e Ovidio e Virgilio, dello stoicismo,
alla sua separazione dalla morale dell’aristotelismo, dell’averroismo
impegna molte delle pagine suc- e, soprattutto, del pensiero di Lucre-
cessive. Proponendo temi che sono zio. Non potendo qui entrare nel
stati ripresi dalle più recenti letture merito di un dibattito tra i più vivi e
conflittualistiche, l’autore si scaglia complessi della recente critica ma-
contro l’interpretazione che vorreb- chiavelliana (per due differenti opi-
be la politica divisa e delimitata nioni sul tema dell’eternità del
dalla morale. Al contrario, afferma mondo nel pensiero del Segretario
Sasso, nella riflessione machia- fiorentino si veda S. De Grazia,
velliana «la politica è tutto, perché Machiavelli all’Inferno, Laterza,
al mondo non si danno se non esi- Roma-Bari 1990 e A. Brown, The
stenze in lotta per la salvezza. E il Return of Lucretius to Renaissaince
resto, appunto, è immaginazione, Florence, HUP, Cambridge 2010)
fantasia irresponsabile, elusione ci limitiamo ad affermare che, nel-
della realtà». l’ipotesi esposta, l’eternità è com-
La questione del conflitto è ripre- presa dall’autore del Principe al-
sa nella parte dedicata ai Discorsi, l’interno del nesso tra permanenza e
dove è messa in relazione ai temi varietà.
della corruzione, della «cattiveria L’analisi del rapporto tra Machia-
umana» e, soprattutto, della deca- velli e Lucrezio, che già in passato
denza. Si profila in queste pagine il Sasso aveva fatto oggetto di attento
ritratto di Machiavelli come teorico studio (Machiavelli e gli antichi e
di un’umanità percorsa e travolta altri saggi) occupa il capitolo quin-
dai venti impetuosi della fortuna, to. Il punto di partenza e di contatto
dal conflitto perpetuo: l’immagine tra i due autori è rintracciato nel di-
di un pensatore della crisi e della verso approccio che essi intratten-
decadenza. gono con la religione: mentre Lu-
Crescita e decadimento si rincor- crezio aveva fede nelle divinità, ma
rono in un processo ineluttabile che non le confondeva con la religione,
scandisce l’eternità del mondo, te- «fonte di ogni guaio che si fosse
matica dibattuta da Machiavelli nel prodotto in terra», Machiavelli «non
secondo libro dei Discorsi e analiz- credeva agli dèi; e nemmeno alla
zata nel capitolo quarto del volume religione quando si fosse presunto
di Sasso. L’obiettivo dell’autore è che in essa si conservasse viva la
ancora quello di far emergere il voce di Dio».
retroterra culturale di una teoria che Vi credeva però come si crede a
non potrebbe essere compresa «se uno strumento politico che è buono
non se ne ascoltasse il suono insie- e valido per quel legislatore che, co-

164
sciente della sua funzione, sappia liana: Francesco De Sanctis e Bene-
usarlo al meglio. detto Croce. A De Sanctis Sasso ri-
La conoscenza machiavelliana de- conosce il merito di aver tentato di
gli autori antichi e in particolar mo- penetrare nella sostanza autentica
do il rapporto con Polibio vengono del pensiero del Segretario fioren-
ulteriormente esaminati nella sezio- tino, oltrepassando gli anacronismi,
ne seguente, dedicata alla teoria le interpretazioni polemiche e co-
della Costituzione mista. Seguendo gliendovi «il momento saliente di
un percorso già presentato in Ma- una crisi storica che aveva le sue ra-
chiavelli e gli antichi, Sasso rico- dici nel passato della storia italia-
struisce qui un breve profilo di tale na». Nonostante ciò, il lavoro de-
teoria, alla luce dell’importanza che sanctisiano non riesce a superare al-
il sesto libro delle Storie polibiane, cuni limiti ermeneutici e a guardare
dedicato alla costituzione romana, senza alcun filtro nell’«abisso senza
riveste per l’intero pensiero machia- fondo» descritto nel Principe.
velliano. Al pensiero di Benedetto Croce,
Il capitolo successivo mette sotto con cui il libro si chiude, Sasso ha
osservazione la presenza di Dante destinato una ricerca trentennale
nell’opera e nella vita di Machia- (Benedetto Croce. La ricerca della
velli. Se per quest’ultimo l’auctori- dialettica, Morano, Napoli 1975;
tas poetica dantesca non è in di- Per invigilare me stesso. I “Taccui-
scussione, il suo giudizio cambia ni di lavoro” di Benedetto Croce, Il
profondamente quando ad essere Mulino, Bologna 1989). Il filosofo
preso in considerazione è il Dante napoletano frequenta l’opera di Ma-
cittadino. La frattura insanabile che chiavelli da «libero fruitore», inte-
lega e allo stesso tempo divide i due ressato alla questione del rapporto
personaggi prende forma scritta in tra etica e politica. La sua opera, in-
quel ribaltamento della Commedia fatti, è pervasa dal tentativo di tra-
che è l’Asino, in cui è evidente non durre il «tempo senza tempo del
solo l’avversione machiavelliana al- puro ritmo categoriale», della mora-
le idee e al cristianesimo danteschi le, nel tempo determinato della po-
ma, soprattutto, la critica al man- litica. Alle varie fasi della riflessio-
cato patriottismo del poeta. Un’op- ne crociana intorno a questa temati-
posizione utile al Segretario fioren- ca, però, corrispondono mutamenti
tino per esaltare, per contrasto, il precisi del giudizio sul Segretario
mito della sua propria esemplarità fiorentino. Così, se quest’ultimo è
come cittadino fedele a una patria inizialmente apprezzato per la
che lo ha ripudiato. concettualizzazione dell’autonomia
L’ultima coppia di sezioni ribalta della politica rispetto all’etica, nelle
la prospettiva considerando la pre- opere tarde viene descritto come
senza di Machiavelli nel pensiero di «un’austera e dolorosa coscienza
due autori chiave per la cultura ita- morale». È, infine, affiancando a

165
Machiavelli l’interpretazione ideali- temente con i suoi precedenti studi,
stica dell’opera di Giambattista Vi- è un Machiavelli teorico del con-
co che Croce tenta di dare una ri- flitto, pensatore della crisi, «grande
sposta all’inaccettabile politica feri- diagnosta della decadenza e delle
na machiavelliana, «condannata a molteplici sue manifestazioni», che
cercare in se stessa, e soltanto in se mai come ora dovrebbe essere letto
stessa, la ragione del suo valere di nella sua reale profondità, nella sua
più». tragicità.
Ci fermiamo qui, coscienti di aver
solo sfiorato la mole delle informa-
zioni, delle idee e degli spunti pre-
senti in un volume che riassume GENNARO SASSO, Su Machiavelli.
una ricerca lunga diversi decenni. Ultimi scritti, Carocci, Roma 2015, pp.
Quello presentato da Sasso, coeren- 262, € 22

166
RiassuntiAbstractsRésumésSintesis

Sulla libertà delle donne


Orsetta Giolo
All’origine, l’affermazione dei diritti nelle Dichiarazioni del 1776 e del 1789 portò con sé
l’affacciarsi di due grandi questioni, che alimentarono e animarono il dibattito pubblico e
giuridico degli anni successivi e che si trasformarono a loro volta ben presto in due
importantissime – fondamentali per la costruzione delle società e delle comunità politiche a
venire – rivendicazioni: l’abolizione della schiavitù e la fine dell’asservimento delle donne.
In entrambi casi, il nodo centrale venne ad individuarsi ovviamente nell’attribuzione (agli
schiavi e alle donne) della titolarità dei diritti fondamentali, a partire dai diritti di libertà.
Tuttavia, queste due rivendicazioni della libertà, sorte congiuntamente, vennero ben presto
‘separate alla nascita’ per ‘questioni di genere’.

Aysha Abdurrahman. L’esegesi coranica al femminile in epoca moderna


Marisa Iannucci
La questione centrale per una teologia femminile e femminista nell’Islam è l’interpretazione
dei testi della Shari’a (Corano e Sunna) in un’ottica di genere. L’ijtihad femminista è alla base
dell’attuale gender jihad, ma ha le sue radici nei primi movimenti per i diritti delle donne che
si sono sviluppati nei paesi arabi alla fine dell’Ottocento, in un percorso strettamente connesso
allo sviluppo del nazionalismo e alle dinamiche coloniali e post coloniali. Aisha Abdurrahman
(Bint Shati, 1913-1998) è stata un’anticipatrice del femminismo arabo e musulmano. Il suo
lavoro di tafsir letterario ha gettato le basi per una interpretazione storica del Corano. Anche
se l’approccio letterario moderno non ruppe con l’esegesi classica, la sua nuova prospettiva
ha avuto una grande influenza per l’esegesi femminista del Novecento, che ha dovuto affrontare
e decostruire interpretazioni sessiste di alcuni versetti coranici anche servendosi di strumenti
linguistici. L’articolo mette in luce il percorso di Bint Shati e le caratteristiche del suo metodo,
considerando le influenze sull’ijtihad femminista del ‘900 e contemporaneo.

Le donne nella tradizione protestante. Sarah e Angelina Grimké


Giuseppina Bagnato

Il presente articolo delinea un possibile collegamento tra la riflessione delle sorelle Grimké,
radicata nella tradizione protestante, e quella di altre figure che furono capaci di proporre
analisi profonde e audaci sul rapporto tra i sessi, all’interno del panorama di ispirazione biblica
– quali Katharine Zell –, mettendo in luce l’importanza e la rilevanza di tali contributi, anche
nel presente.

La società degli individui, n. 58, anno XX, 2017/1


ZusammenfassungenSintesesAbstracts

Prospettive di genere
L’educazione da attività filantropica a diritto universale
Serena Vantin
Questo contributo propone una riflessione sull’evoluzione dell’impatto politico, giuridico e
sociale dell’educazione attraverso l’analisi, emblematica, del caso inglese. Si evidenzierà il
percorso che gradualmente sottrasse la questione educativa dall’ambito delle attività filantropiche
e caritatevoli, sino a dotarla di significati nuovi: prima quello di ‘dovere sociale’, poi quello
di ‘diritto’ legalmente riconosciuto. Un nodo essenziale delle posizioni intellettuali che saranno
presentate è quello teorizzato, anche con una prospettiva di genere, da Wollstonecraft e da
Mill, secondo cui lo sviluppo educativo è un elemento imprescindibile per il flourishing
umano.

‘Connessioni di destino’. Cura, interdipendenza, convivialismo


Alberto Pirni
Il saggio si concentra sul concetto di interdipendenza. Esso inquadra innanzitutto il concetto
all’interno del Manifesto sul Convivialismo. Ne esplora conseguentemente lo sviluppo all’interno
dell’etica della cura (e del dibattito teorico che ne accompagna l’articolazione), specifico
ambito di riflessione contemporanea al quale lo stesso Manifesto fa esplicito riferimento. Il
saggio pone quindi in dialogo tali ambiti di elaborazione critica del concetto di interdipendenza,
identificando un atteggiamento metodico rispetto ad alcune connessioni di destino, ovvero a
inevitabili sfide di interdipendenza per l’età interculturale e globale.

L’economia nascosta della stima


Geoffrey Brennan e Philip Pettit

L’articolo descrive quei modelli di comportamento che nella società regolano tacitamente
l’attribuzione di stima. In particolare, la riflessione si sviluppa sulla base del fatto che non
sembra esserci alcuna possibilità che un individuo possa ottenere stima ed evitare la disistima
intenzionalmente. Nonostante ciò, l’obiettivo è mostrare che le persone sono comunque riuscite
a trovare il modo di soddisfare la loro richiesta di stima attraverso scambio, competizione e
associazione reciproci, così da guadagnare per sé stesse una certa quantità di quel bene.
Pertanto, le pratiche sociali parrebbero nascondere un’economia della stima che l’articolo
vuole smascherare.
RiassuntiAbstractsRésumésSintesis

I debiti di Durkheim verso Rousseau


Gabriella D’Ambrosio
Il lavoro di ricerca qui sviluppato analizza, in modo dettagliato, l’excursus teorico che il
sociologo francese Émile Durkheim ha affrontato nel corso del suo lavoro metodologico. Nel
ricostruire un percorso teorico, è possibile notare che tale studio non può esimersi dal confronto
con le teorie esposte dal Rousseau illuminista, con riferimento sia all’individuazione dell’uomo
nello stato di natura sia al crescente sviluppo della società civile e dello Stato. Per questo mo-
tivo, il lavoro proposto esamina le posizioni dei due autori con riferimento a specifici temi
politici e sociali.

La ‘normatività’ tra etica e metafisica


Salvatore Muscolino
L’autore intende mostrare i limiti delle metafisiche moniste che fanno da sfondo al paradigma,
oggi assai influente, dell’umanesimo secolare. Infatti il monismo, nelle sue diverse varianti,
considera male e bene come momenti interni alla logica di sviluppo del mondo oppure come
mere illusioni interne al processo evolutivo. Ma è possibile interpretare tragedie come
l’Olocausto con un approccio monista? La distinzione introdotta da Romano Guardini tra
«opposizione polare» e «logica della contraddizione» è basata su una metafisica creazionistica
ed è utile per mostrare come l’indagine pratico-morale ha una sua legittimità solo sullo sfondo
del teismo perché il concetto di male deve essere considerato contradditorio a quello di bene.
La logica monista, considerando male e bene come due aspetti che si implicano l’un l’altro,
rischia anche di indebolire la libertà e la responsabilità umana all’interno della storia.
gl i A ut ori d i q ue st o num e ro

T ho ma s C a sa de i Se r e na Van tin Ph il ip P e tti t

in se gna Fil osofi a de l è do tt o ran d a i n Soc io - i n s e g n a Po l i t i c s a n d


d ir i t t o p re ss o U n i M o - l og ia, St o ria e C ul tu ra H u m a n Va l u e s a l l a
Re. A u t o r e d i s a g g i e po litica pr esso l’ Uni- P r in c et on U n iver si t y. I
m o n o g r af ie, h a c u ra t o v e r s it à d i P i s a e c o o r - suoi pr in cipali interessi
i v o l u m i D on n e, d i r i t t o, dinatrice scientifico-or- di ric erc a vert on o su ll a
d i r i t t i ( 2 0 1 5 ) e S. M . g a n i z z at i v a d e l C R ID teoria politica e morale.
G rim k é, Poc o men o d e gl i d i U n i M o Re. S t a s v i - Tra le sue pubblicazioni
a n ge l i . Le t t er e s u l l ’ e gu a- luppando un progetto re c e n t i : Ju s t f r e e d o m : a
glianza dei sessi (2 016) d i r ic e rc a su l p en s iero mo ral com pass for com pl ex
giusfilosofico di Ed- wo rl d ( 2 01 4 ) , T h e ro bu s t
demands of the good
Or s e tta Gi ol o m un d B urk e e di Ma r y
(2 015)
Wo ll est o nec r af t
in se gna Fil osofi a de l
diritto all’Università di A l b e rto Pi rn i Gabriella D’Ambrosio
Ferrara. Coordina, con
Luc ia Re, il Gr uppo d i è d ot to ra nd a di ric erc a
è ricerc ato re e do cent e in Metodologia delle
l avo ro in t eru n iv er si t a- di Et ica p ubbl ica p res-
rio sulla sog gettività sc ienze soc ial i presso il
so la Sc uo la Supe rio r e Dipartimento CoRis
politica delle donne. “Sant’Anna” di Pisa.
Ha curato i volumi del l ’Un iver sit à “ La Sa -
Tr a l e s u e p u b b l i c a - pie nz a” d i Ro ma
Critiche di g enere (con z i o n i: K a n t f i l o s o fo d el l a
M.G. Ber nardini, 2015) c omu n it à ( 200 6) , Ch e c o-
e Di r i t t o p o t ere e r a gi o n e s’è la cittadinanza (con S al v a to re Mu s c o li n o
nel pensiero di Letizia S. F i l o t ic o, F. F i st e t t i,
Gianfor mag gio (con B. i n s eg n a F i l o s o f i a po l i-
2017)
Pas to re, 2 01 6) t i c a a l l ’ U n i ve r s it à d i
Paler mo. Tra le sue mo-
Geoffrey Brennan nografie: Genesi e svi-
M ar i sa I an n uc ci
luppo del costitu zionalismo
insegna presso la ros miniano (200 6), Cri-
islamologa, è autrice di School of Philosophy s t i a n e s i m o e s o c i e t à p os t -
Gender Jihad (2013) e della ANU e dirig e il s ec ol are ( 20 15 ) , Li ber t à e
c u ra t r ic e di C on t r o l ’ I - Duke PPE Program m e r c a t o. R i f l e s s i o n i s u
SIS (2016). Dirige la della UNC . I suoi inte- capi tal i smo, soci et à e
collana “Dialoghi r e ss i di r ic er c a s i c o l - c r i st i a n es im o ( 2 01 7 )
Medit er ran ei” di Poz zi l oc an o al l’i nt er sez io ne
Edi to re tra economia e filosofia
morale e politica.Tra le
G i u s ep pi na B a gn a to su e p ub bl ic a z io ni : T h e
econo my of es te em (con
pastora dell a C hiesa P h . Pe t t i t , 2 0 0 4 ) , E x -
v a l d e s e di R i m i n i , l a - plaining no r m s (co n L.
vora nel Servizio Istru- Er i k ss o n, R . G o o di n e
zione ed Educ az ione N. So ut h wo od , 20 1 4)
della F CEI e promuove
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