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N° 1 / INVERNO 2018/2019 JACOBINITALIA.

IT
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

Vivere
in un
paese
senza
sinistra
N° 1 / INVERNO 2018/2019

DA JACOBIN USA
Breaking
Bank.
Dieci anni
di crisi

12 euro

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Ed ecco cosa appare necessario fare
immediatamente, ecco quale deve
essere l’“inizio” del lavoro per la classe
operaia: bisogna fare una spietata
autocritica della nostra debolezza,
bisogna incominciare dal domandarsi
perché abbiamo perduto, chi eravamo,
cosa volevamo, dove volevamo
arrivare. Ma bisogna prima fare anche
un’altra cosa: bisogna fissare i criteri,
i princìpi, le basi ideologiche della
nostra stessa critica.
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

Antonio Gramsci, Che Fare, 1923


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Rivoluzioni

10
Editoriale

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SOMMARIO

Avvenne passive
domani Come la tv colonizzò la rete
diventando lo specchio deforme
delle nostre vite tra redenzioni
show e finte trasgressioni
La crisi
18
Giuliano Santoro
dei trent’anni
Marta Fana
Il debito

28
Giacomo Gabbuti
italiano non
è un’anomalia
Marco Bertorello
Danilo Corradi

Alla ricerca
32

dei conflitti Un esempio


46 39

inaspettati da non imitare


Il paese senza sinistra non
è pacificato. Ma come si fa David Broder
opposizione al governo populista?

Salvatore Cannavò
Lorenzo Zamponi Qualcosa
di nuovo
sul fronte
Si scrive popolo, occidentale
51 43

si legge nazione
Giulio Calella
Francesco Strazzari intervista Bhaskar Sunkara

Perché Napoleone
54

il giacobino era nero


nero?
Remeike Forbes Wu Ming 1

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Lavoro alla Una scuola Parole contese
59

62

66
cinese, salari buona per Beni comuni
alla polacca grigi contabili Gaia Benzi
Biologico
Francesca Coin Wolf Bukowski
Piero Maestri Girolamo De Michele
Cambiamento
Giulio Calella
Democrazia diretta
Giuliano Santoro
Senza Non è un paese
75

76
Mutualismo
Sinistra per fare figli Salvatore Cannavò
Precarietà
Giacomo Gabbuti Lorenzo Zamponi

Alessandro Robecchi Lorenzo Paglione Reddito


Gaia Benzi
Violenza sulle donne
Marie Moïse

La cura come Faccia


82

86
business da turco
Sara R. Farris
Sabrina Marchetti Alberto Prunetti

Le nuove
92

emigrazioni
italiane
Simone Fana
Francesco Massimo
98

Fumetto
Raccogliere
Assia Petricelli
Sergio Riccardi

Breaking bank: dieci anni di crisi

Tra Mercedes Governare La crisi Il millennio


106

110

126
118

e magioni con la finanziaria Minsky


moneta e le serie
televisive
paranormali
Meagan Day Ronald Janssen Eileen Jones Mike Beggs

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Citoyens
Desk Jacobin Italia
David Broder Rivista trimestrale
Giulio Calella n. 1 - inverno 2018/2019
Salvatore Cannavò
Marta Fana Autorizzazione del Tribunale di Roma
Giuliano Santoro n. 173/2018 rilasciata il 25/10/2018
Lorenzo Zamponi
Testata e articoli tradotti
Redazione da Jacobin Usa su licenza di
Elisa Albanesi Jacobin Foundation Ltd
Gaia Benzi 388 Atlantic Avenue
Marco Bertorello Brooklyn NY 11217
Wolf Bukowski United Staes
Francesca Coin www.jacobinmag.com
Danilo Corradi
Girolamo De Michele Editore
Sara Farris
Simone Fana
Giacomo Gabbuti Edizioni Alegre società cooperativa
Piero Maestri Circonvallazione Casilina, 72/74
Sabrina Marchetti 00176 Roma
Francesco Massimo www.edizionialegre.it
Marie Moïse
Assia Petricelli Direttore responsabile
Alberto Prunetti Salvatore Cannavò
Bruno Settis
Wu Ming 1 Chiuso in tipografia il 26 ottobre 2018

Creative director Stampa


Alessio Melandri Arti Grafiche La Moderna S.r.l.
via Enrico Fermi, 13/17
Hanno collaborato 00012 Guidonia Montecelio (Roma)
Lorenzo Paglione
Alessandro Robecchi Distribuzione in libreria
Francesco Strazzari Messaggerie Spa

COPERTINA
Manfredi Ciminale Abbonamenti (4 numeri)
Digitale: 24 euro
Illustratori Digitale + cartaceo: 36 euro
Frita Sostenitore: da 50 euro
Luciop
Martoz Spedizioni in paesi Ue: 20 euro
Pronostico Spedizioni in paesi extra Ue: 35 euro
Sergio Riccardi
Info
Web Master www.jacobinitalia.it
Matteo Micalella info@jacobinitalia.it

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Avvenne domani

I
t Happened Tomorrow è il titolo di un vecchio film hollywoodiano di-
retto dal regista francese René Clair. Venne distribuito in sala nel mag-
gio del 1944, mentre nel corso di eventi ben più tragici, su diversi fronti
della seconda guerra mondiale, si combatteva metro per metro e si
strappavano a morsi brandelli di futuro. In quegli stessi giorni le trup-
pe naziste battevano in ritirata da Montecassino e gli alleati si incam-
minavano verso Roma, coi partigiani a preparare il terreno. I deportati
sinti e rom lanciavano un’eroica quanto dimenticata insurrezione con-
tro le SS nel lager di Auschwitz. Sul fronte orientale l’Armata rossa liberava definitivamente
la Crimea. Eppure anche la storia di quel film dal titolo sbilenco, appeso a un verbo al pas-
sato e un avverbio futuro, a suo modo riaccendeva una piccola fiammella. Raccontava la
storia di un cronista precario che riceve da un anziano archivista la copia del giornale con
le notizie del giorno successivo.
È il sogno di ogni impresa editoriale, quello di raccontare anzitempo il futuro prossimo.
Questa rivista non coltiva ambizioni talmente magiche ma si getta in un’impresa altrettanto
ambiziosa. Nel tempo claustrofobico del passato rimosso e manipolato, del presente eterno
e inafferrabile, del futuro da incubo dobbiamo tornare a immaginare l’avvenire. Il poeta di-
ceva che «il futuro non è ancora scritto» e siccome non vogliamo metterci in fila e aspettare
che le prossime pagine del nostro destino siano una copia ancor più brutta del presente,
vogliamo scrivere capitoli inattesi e spiazzanti.
Assieme alla testa di Luigi XVI, i protagonisti della rivoluzione francese decisero di afferra-
re i tempi nuovi cestinando il calendario ereditato dal vecchio mondo. Il 1793 è spirato prima
del tempo, a settembre. Poi ha lasciato spazio all’anno II della nuova epoca rivoluzionaria.
La ghigliottina ha tracciato un solco, c’è stato un prima e un dopo della rivoluzione. La scelta
esprimeva l’utopia fondata sulla ragione al posto di superstizione e fatalismo, ma oggi que-
sta possibilità sembra distante. Il calendario alludeva alla possibilità di lasciarsi indietro il
fango e il sangue dell’oppressione. L’alleanza tra Lega e Movimento 5 Stelle si è accaparrata
una specie di monopolio simbolico sulla speranza e in fondo sull’idea stessa di futuro. È per
questo che, contro ogni evidenza, si dicono portatori del «cambiamento». Il loro governo
va in direzione opposta a quella che auspicheremmo, ma senza battere un tempo nuovo, lo
INVERNO 2018/19

spirito offensivo dei gialloverdi rischia di farci apparire in posizione difensiva.


Per prendere appunti di futuro cominciamo da una presa d’atto, cruda e persino bana-
le nella sua spietatezza incontestabile. Il paese che ha dato vita al partito comunista più
grande d’Occidente e che è stato un laboratorio per i movimenti sociali e il pensiero critico
è diventato un paese senza sinistra. Si tratta di un’anomalia o piuttosto di un laboratorio?
David Broder e Francesco Strazzari ci aiutano a relativizzare la questione parlando della
N. 1

crisi italiana dentro la più generale trasformazione della politica. Tutto questo quando ha
avuto inizio? Anche qui, parlare di tempi e cicli, significa affrontare più livelli. Per Giuliano
Santoro il decennio chiave, che ha saldato la rete alla televisione facendo dilagare l’egemo-
nia dello spettacolo che ha spianato la strada alle destre, sono gli Anni Zero. Per Marta Fana
e Giacomo Gabbuti, bisogna andare indietro di almeno trent’anni: il declino economico co-
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mincia con gli anni Novanta del secolo scorso. In questo paese ci tocca, come sottolineiamo
in copertina, vivere. Lo abbiamo davvero fatto al di sopra delle nostre possibilità, abbiamo
dunque qualche colpa da espiare? Dati alla mano, Marco Bertorello e Danilo Corradi discu-
tono il dogma del debito.
Vivere significa anche lavorare, amare, lottare. Qui i piani della produzione e della ri-
produzione si incrociano. Francesca Coin e Piero Maestri entrano nelle viscere di una di
quelle che enfaticamente vengono definite «fabbriche 4.0» e scoprono che il lavoro è fatto
di ritmi infernali e ricatti continui. Sara Farris e Sabrina Marchetti ci conducono tra le cate-
ne di montaggio invisibili delle fabbriche affettive del lavoro di cura. Girolamo De Michele
ragiona della scuola e della mutazione antropologica del lavoro dell’insegnante. Giacomo
Gabbuti e Lorenzo Paglione affondano lo sguardo sulla questione, spesso usata strumental-
mente dai nostri nemici reazionari, della demografia. Anche emigrazione e immigrazione,
al tempo delle identità meticcie, si incrociano. Simone Fana e Francesco Massimo riflettono
sulla composizione della nuova ondata migratoria dall’Italia. Alberto Prunetti racconta in
prima persona la sua storia di migrante italiano. Assia Petricelli e Sergio Riccardi raccon-
tano a fumetti la storia di Soumaila Sacko, il sindacalista maliano ucciso nelle campagne
di Rosarno. Non pensiate che la crisi della politica tradizionale (di assenza di sinistra parla
Alessandro Robecchi) abbia cancellato i conflitti: Salvatore Cannavò e Lorenzo Zamponi
percorrono l’Italia a volo d’uccello, in-
terloquendo con alcuni dei protagonisti
delle insorgenze degli ultimi tempi. per l’avvenire parte dall’avvenire stesso, dalle alternative
Avrete notato come nel paese senza che bisogna costruire e non dal rimuginare sulle sconfitte.
sinistre le parole abbiano cominciato a Ciò non toglie che siamo nani sulle spalle dei giganti, e che
perdere di senso: si parla di beni comu- la nostra storia si riallacci a una lunga sequenza di lotte, di
ni, reddito o cambiamento in modo del rivoluzioni, di tentativi di creare un nuovo mondo.
tutto sganciato dalla realtà materiale. Noi La rivista che avete tra le mani è sorella della rivista sta-
pensiamo che anche il vocabolario sia un tunitense Jacobin, il cui direttore e fondatore Bhaskar Sun-
campo di battaglia, per questo comincia- kara dialoga con Giulio Calella. Ospiteremo in ogni numero
mo a lanciare qualche sasso nel panta- una scelta degli articoli pubblicati dai nostri compagni d’ol-
no linguistico del potere e a riprenderci treoceano. Per cominciare ci occupiamo del decennale del-
qualche parola-chiave. la crisi economica del 2008. Cominciando da una sequela di
In queste pagine non troverete alcuna foto segnaletiche messa insieme da Meagan Day. Sono tutti
requisitoria contro chicchessia. Non è villain, i cattivi dei fumetti che qui diventano personaggi
compito nostro e non ci interessa giudi- reali e spietati affamatori. Il testo risponde a una domanda
care, per di più con in tasca il proverbiale che pochi si pongono: che fine hanno fatto gli apprendisti
senno del poi, che cosa i partiti o i movi- stregoni della finanza tossica? Segue una rassegna, a cura
menti del passato avrebbero dovuto fare di Eileen Jones, sul modo in cui la grande crisi ha cambiato
per evitare la crisi in cui ci troviamo. La le storie che popolano il nostro immaginario cinematogra-
ghigliottina serve anche a darci un taglio fico e televisivo. Infine, un articolo sui limiti dell’Unione
con alcune vecchie consuetudini e im- europea nell’ultimo decennio, a firma Ronald Janssen, e
porre alcune linee di divisione. La lotta un corposo saggio di Mike Beggs sull’economista socialista
Hyman Minsky e la sua teoria dell’instabilità finanziaria.
Last but not least, nel paginone centrale Wu Ming 1
racconta la storia dei giacobini neri, protagonisti della
rivoluzione dimenticata di Haiti. Al contrario dei loro av-
versari francesi, quei ribelli ebbero il coraggio di porre
la scandalosa questione della proprietà. Ecco perché li
ricordiamo omaggiandoli con la nostra testata.

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EGEMONIA
INVERNO 2018/19
N. 1
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Oltre la leggenda dell’egemonia
culturale della sinistra, ecco come
tra redenzioni improvvise e finte
trasgressioni lo specchio deforme
dell’individualismo si materializzò
in rete e in televisione

Illustrazioni di

VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA


11

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L
a Madonna appare a Paolo Brosio mentre sta partecipando a
un’orgia. È il dicembre del 2008, manca qualche giorno a Natale e
l’orologio segna le tre del mattino. Quando ha la visione si trova in
un appartamento di Torino. La grande crisi incombe e la sinistra
italiana per la prima volta nella storia della Repubblica è da pochi
mesi fuori dal parlamento.
Giuliano Santoro Brosio si inginocchia e recita per tre volte l’Ave Maria. Anche
il popolo immerso nei festini berlusconiani e irretito dal sogno
degli anni Ottanta infiniti ha da poco visto la luce. Gli italiani hanno cominciato la loro
conversione ritrovandosi in una piazza convocata da un attore comico che manda tutti
affanculo. Brosio intanto si dedica alla Madonna di Medjugorie. Coltivando una forma di
culto tutt’altro che riservata decide di mettere in scena la sua spiritualità. Parla della sua
fede sui social, scrive libri, raccoglie denaro a scopi benefici nel corso di eventi teletra-
smessi. Brosio, del resto, ha già accompagnato gli italiani verso un’altra specie di catarsi. È
diventato famoso stazionando su di un marciapiede, alle sue spalle il Palazzo di giustizia
di Milano. Ha raccontato Tangentopoli, i politici con le occhiaie sotto il torchio degli inter-
rogatori, la fila davanti alla procura per vuotare il sacco, il collasso dei partiti della Prima
Repubblica. In quegli anni le reti berlusconiane lanciano i loro telegiornali e cominciano
a mescolare intrattenimento e politica. La sua immagine di uomo impacciato accompa-
gna il sogno giustizialista. Quel mix di ingenuità e ferocia culmina nel trionfo elettorale
di Forza Italia. Da cronista del Tg4, a furia di siparietti con il direttore che lo bullizza dallo
studio, Brosio diventa una specie di macchietta che compare davanti alle telecamere in
coppia con la su’ mamma.
Se vivere in un paese senza sinistra significasse liberarsi dell’universalismo eurocen-
trico e smettere di considerarsi pura testimonianza delle lotte (e delle, pur se onorevoli,
sconfitte) del Novecento, allora non avremmo nulla da recriminare. Ma se per «sinistra» si
intende l’attitudine di guardare alla società come un processo in continuo mutamento e
non come un oggetto con un suo ordine definito e compiuto, al-
lora è necessario chiedersi non cosa siamo ma in cosa ci stiamo
trasformando. Per farlo bisogna riconoscere, leggere, innescare Giuliano Santoro,
i conflitti che attraversano la società e orientano queste trasfor- giornalista, scrive di
INVERNO 2018/19

mazioni. L’improvvisa redenzione di Paolo Brosio ci interessa politica e cultura


perché si trova in risonanza con le cicliche conversioni soft degli sul manifesto. È
italiani. La sua storia abbraccia un momento storico decisivo. autore, tra le altre
Dapprima l’Italia si tuffa, in ritardo rispetto al resto del mondo cose, di Un Grillo
e col fervore tipico del principiante, nella politica spettacolo. Qualunque e Cervelli
La gente partecipa senza risparmio, come il pubblico pagato di
N. 1

Sconnessi (entrambi
una puntata della Ruota della Fortuna: esulta guardando i po- editi da Castelvecchi),
Guida alla Roma
Ribelle (Voland), Al
Palo della Morte
(Alegre Quinto Tipo).
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litici alla sbarra, lancia monete ai potenti in rotta («Vuoi pure queste/ Bettino vuoi pure
queste» sulla cantilena di Guantanamera al potente in rotta Bettino Craxi) e infine, in
attesa della conversione successiva, si rifugia nel tepore rassicurante del focolare della
Casa della libertà.
Chissà se dopo aver sentito quella voce cristallina che gli dice «Paolo, devi smettere»
per un attimo Brosio pensa a quel decennio vorticoso che sta per finire. Magari gli sono
passati davanti in soggettiva gli Anni Zero che hanno incubato il paese-senza-sinistra.
In questo periodo alligna l’egemonia culturale che viene da lontano e che si proietta nel
nuovo millennio. Antonio Gramsci chiama «rivoluzione passiva» il rinnovamento cui non
corrisponde alcuna mobilitazione dal basso. Lo stato moderno tra le guerre napoleoniche,
annota, nasce ad esempio «senza passare per la rivoluzione politica di tipo radicale-gia-
cobino». La formula prevede che l’«egemonia culturale» sia solo un passaggio tattico che
precede la conquista del potere. Da cui l’interpretazione scolastica, molto in voga presso i
paranoici anticomunisti: nel paese in cui la
rivoluzione è impossibile bisogna lavorare nello scritto su «Americanismo e fordismo», che il modello
sottotraccia, impadronirsi lentamente delle di produzione della grande industria influenzava l’esisten-
casematte della cultura al fine di diventare za dei lavoratori oltre le mura della fabbrica e il tempo di
classe dirigente. Questa semplicistica con- lavoro. Ecco allora che l’«egemonia culturale» non è una
tiene il mito dell’«egemonia culturale» della specie di escamotage tattico per prendere il potere nel pae-
sinistra. In realtà, Gramsci era poco avvez- se delle rivoluzioni mancate.
zo a formule tanto lineari. Aveva già intuito, Se sprovincializziamo Gramsci, l’autore italiano più
letto al mondo, scopriamo che la sua lezione serve piut-
tosto a capire come funziona il potere. Il potere non si
limita a comanda dall’alto ma produce identità. Per que-
sto, quando deve superare una crisi, cambiare tutto affin-
chè tutto resti uguale, ha bisogno di rivoluzioni passive.
Gramsci ci aiuta a individuare la cultura come il campo
di battaglia che definisce il nostro modo di vivere e leg-
gere il mondo. «La cultura ha cessato di essere una sorta
di appendice decorativa del “mondo pesante” della pro-
duzione e degli oggetti, la ciliegina sulla torta del mon-
do materiale», scrive il sociologo britannico Stuart Hall
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

cercando un’«interpretazione gramsciana» dei «tempi


nuovi». Per sfatare la leggenda della «egemonia cultura-
le delle sinistre» bisogna disporre il proprio sguardo oltre
i templi della cosiddetta «cultura ufficiale» e rigettare il
campo di battaglia definito dal nostro nemico. Prendere
atto che non c’è nulla di più ideologico delle narrazioni
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che si presentano come post-ideologiche. Bisogna son-
dare l’insolito, misurarsi con dispositivi che paiono non
avere nulla a che fare con la politica. «Può un socialismo
del ventunesimo secolo risorgere o anche sopravvive-
re se resta completamente tagliato fuori dal campo dei
piaceri popolari, per quanto questo rappresenti un’arena
del tutto contradditoria e mercificata?» si chiede ancora
Stuart Hall. Indagando la cultura popolare ci poniamo
nella condizione di decostruire l’idea stessa di «popolo»
che è andata affermandosi nel paese-senza-sinistra pri-
ma ancora che la sinistra scomparisse e che rischiamo di
assumere come un dato naturale, oggettivo e totalizzante
invece che come un dispositivo ben preciso. Non ci tro-
viamo di fronte a un processo di lobotomia di massa, a
un meccanismo unidirezionale e disarmante. Non parlia- ciso postmoderno davanti alla sua imma-
mo di gente ipnotizzata davanti agli schermi. Scrivendo gine riflessa. «E dai, dimmi qualcosa! Lo
la storia della «mutazione individualistica» prodotta dal so che ci sei dietro il vetro. Non mi vuoi
rapporto tra televisione e società italiana lo storico Gio- parlare? Almeno girati che me devo cam-
vanni Gozzini ci aiuta a rifuggire ogni tentazione apoca- bia’ le mutande», dice una sera parlando
littica: «La televisione non è onnipotente. Se riesce a cam- allo specchio delle sue brame dietro al
biare la testa delle persone è perché funziona da sponda quale si nasconde una telecamera dello
(da specchio) a una trasformazione sociale profonda». show che sarà oltrepassato dal panopti-
Pietro Taricone è il personaggio simbolo della prima con dei social network ma che per primo
edizione del reality show per eccellenza, Il Grande Fra- segnala l’opportunità di mettere in scena
tello, un altro dei feticci del decennio in cui l’egemonia senza soste la propria vita e trasforma in
culturale della televisione si è rinforzata attraverso l’uso normalità la disponibilità a discutere dei
scriteriato e di massa del web 2.0. All’alba del decennio cazzi propri con chiunque passi di lì per
che spazza via la sinistra, Taricone parla come un Nar- caso. Lo spiega bene Alessandra Ghisleri,
la maga dei sondaggi artefice dei successi
berlusconiani: «Il Gf copriva un periodo di campagna elettorale: fu un evento di costu-
me, dirette 24 ore su 24, e iniziai a farmi domande su come quell’overdose di protagoni-
smo cambiava la percezione della politica».
È il 18 settembre del 2000 quando milioni persone assistono a un amplesso veloce,
consumato dietro una tenda, tra Taricone e Cristina Pievani, un’altra concorrente. Gli ita-
liani si innamorano del maschio dominante Taricone, se potessero già farlo stampereb-
bero un like immediato sulla sua pagina Facebook per seguirne tutti gli aggiornamenti.
Intanto, fuori da quel set televisivo, succedono cose. Il numero di telefoni cellulari per la
prima volta nella storia supera quello di impianti fissi. La bolla finanziaria di Internet sta
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esplodendo, ci vorranno i grandi monopoli digitali e la messa al lavoro molecolare del 2.0
per risollevare le sorti dei profitti. Si aprono scenari comunicativi inediti e si intravedono
formulette politiche sincretistiche, fortunate e confusionarie. Da Venezia, in quel 18 set-
tembre, il fondatore della Lega Umberto Bossi svuota l’ampolle con le sacre acque del Po,
mette una pietra sopra allo scontro con Berlusconi e annuncia la nascita del Polo della
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Libertà contro i «nazisti rossi alleati con i banchieri». I ragazzi rinchiusi da cinque giorni
nella casa, ripresi dalle telecamere permanenti del Grande fratello, sono ignari di tutto
ciò. Non lo sanno Pietro Taricone e Cristina Pievani mentre amoreggiano. Lei, sedotta e
abbandonata, vince la prima edizione del reality show per eccellenza. Lui, Taricone, muo-
re dieci anni dopo, per un tragico incidente durante un lancio col paracadute.

La rappresentanza cede il passo alla rappresentazione

Nell’immaginario collettivo galleggiano ambivalenze che restano tali e che riescono a


paralizzare chi le subisce perché paiono foriere di contraddizioni ma non sfociano mai in
conflitti. L’oggetto culturale Taricone è l’emblema di una forma di vita che cominciava a dila-
gare, imprenditore di se stesso e cultore della propria immagine. «Se me piace lu maccarrone
perché devo rinunciare allo spaghetto che me piace pure assai?», domanda ai suoi coinqui-
lini per giustificare l’ostentata bulimia sessuale. La stessa voracità che anni prima è stata
preparata, con la scusa dell’ironia, dalle macchiette di Drive In che trasformano in burletta
la liberazione sessuale. Il suo lancio nel vuoto dello star system, e i tremila e passa giorni che
trascorrono dal salto allo schianto, durano quanto gli anni del ritorno al potere, dopo la fuga-
ce esperienza del 1994, di Silvio Berlusconi. Se si eccettua la parentesi claudicante del gover-
no Prodi del 2006, il suo governo si protrae dal 2001 fino al tragico circo televisivo dell’Aquila
all’indomani del tragico terremoto del 2009. È allora che il presidente,
in palese delirio di onnipotenza e sancendo definitivamente il matri-
monio tra rappresentanza politica e rappresentazione spettacolare, LA PARABOLA TRAGICA
mette in scena il teatro dell’assurdo della shock economy. Costruisce E SIMBOLICA DI PIETRO
una città parallela a quella devastata dal sisma. Era nato come palaz- TARICONE COINCIDE
zinaro artefice di Milano 2, gated community all’italiana costruita tra la COL DECENNIO DI SILVIO
Brianza e la metropoli. E cosa c’è di più politico del sogno borghese di BERLUSCONI PREMIER:
una città senza conflitti sociali all’alba degli anni Settanta del Novecen- DAL GRANDE FRATELLO
to? Adesso mescola le origini con la storia successiva di impresario me- AL G8 DELL’AQUILA
galomane e provinciale al tempo stesso. Diventa il grande cerimoniere
dello stato d’emergenza ospitando il G8 in mezzo alle macerie. Anni
dopo la repressione sanguinosa del movimento che si era incontrato a Genova nel 2001 ri-
consegna all’opinione pubblica internazionale un’Italia pacificata e un mondo volenteroso.
In mezzo ad un’orgia mediatica, ci si converte senza impegno, ci si sente più buoni.
Non c’è da stupirsi se Taricone sembri più autentico dei suoi colleghi. È l’espressione
di una generazione, quella nata negli anni Settanta, che ha digerito la televisione e che
sa muoversi su più livelli. Recita la parte del coatto palestrato o è un coatto palestrato
che sa recitare? Di certo si mostra consapevole, come i politici vecchi e nuovi «recita la
normalità». «Pietro voleva fare il politico, prima di voler diventare imprenditore e poi
attore», testimonia lo scrittore del momento Roberto Saviano, che Taricone lo conosce
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

dai tempi della scuola. «Lei si farà strada nella vita», dice a Taricone l’ex presidente del
consiglio Lamberto Dini dopo un comizio per le elezioni amministrative, alle quali il
nostro concorre nelle liste di Rinnovamento Italiano (88 voti, 6 annullati). Lui mette
in scena il suo corpo ma giocava con le parole, ipnotizzando e spiazzando un popo-
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lo di piccolo borghesi che sta scoprendo la trasgressione che in quegli anni diviene di
massa fino a dilagare: l’inchiostro sul corpo depilato diventa la regola invece che la sua
violazione. «L’usanza prende proporzioni vastissime nella popolazione criminale», scri-
veva Cesare Lombroso dei tatuaggi. Danilo Montaldi, ancora un secolo dopo, afferma
che il tatuaggio contiene l’autobiografia del delinquente di strada. Poi all’improvviso,
come intuiscono Elio e le Storie tese in un brano di una quindicina di anni fa, tutti
quanti «corrono a farsi un tatuaggetto» come Taricone. Oggi più di 8 milioni di italiani
sfoggiano un marchio indelebile sul corpo: è un numero impressionante e fino a poco
tempo fa impensabile. Ancora una volta, un codice che viene dai margini viene impor-
tato dalla cultura di massa e svuotato di senso. Taricone è espressione di una generazio-
ne disimpegnata che sposa il mito dell’autoimprenditoria, prima di diventare famoso
si barcamena tra diverse attività commerciali, ma trasuda una carica politica nitidissi-
ma. Ha conosciuto il grado zero della convivenza umana. Ha fatto
l’amministratore di condominio investendo di nascosto la liquidità
MENTRE L’ONDA fresca proveniente dalle bollette dell’acqua degli inquilini e nel cor-
STUDENTESCA VIENE so di riunioni in cortili e androni ha maneggiato le passioni tristi
SCONFITTA, LA SINTESI dell’individualismo proprietario, mediato tra millesimi, gestito i
TRA TV E WEB PARTORISCE beni comuni in maniera decorosa, senza turbare i difensori del pia-
UN BLOB IDEOLOGICO nerottolo. «È un intellettuale, il Taricone. Un intellettuale duro. È un
PRIVO DI OGNI COERENZA liberale, un liberale attento alla divisione crociana del liberalismo»,
E DUNQUE IRRESISTIBILE azzarda Christian Rocca sul Foglio. Quando il suo volo emblemati-
co si è quasi concluso, Taricone scopre i fascisti. La sua figura anti-
cipatrice diviene quasi profetica: «CasaPound mi piace moltissimo,
mi piace il mutuo sociale, mi affascina l’idea del fare a prescindere dalle ideologie, credo
che questo sia il futuro della politica», dice nel 2009, forse primo a endorsare i fascisti
del terzo millennio. Il paese che dopo i generosi moti del movimento dell’Onda studen-
tesca si prepara a espungere i conflitti dal suo orizzonte si specchia nell’immagine di
Taricone. Si rivede in un trentenne che è espressione di un poutporri culturale che non
ha alcuna coerenza interna e che proprio per questo appare irresistibile.

Il nostro doppio agghiacciante

Federico Fellini nel 1985 non aveva ancora visto Facebook ma aveva capito da che par-
te stava andando la neotelevisione e profetizzato il flusso superficiale dell’informazione
che si sovrappone al tempo della vita (la timeline) e le platee-ghetto delle bolle dei so-
cial network: «Lo stravolgimento di qualsiasi sintassi articolata ha come unico risultato
quello di creare una sterminata platea di analfabeti pronti a ridere, a esaltarsi, ad applau-
dire tutto quello che è veloce, privo di senso e ripetitivo». «È la cosa più orribile che ab-
INVERNO 2018/19

bia mai visto», è la sentenza che Marco Giusti ed Enrico Ghezzi campionano dal b-movie
«The Blob» per riprodurre in forma paradossale lo spezzatino della neotelevisione e la sua
tendenza a riprodurre i linguaggi della pubblicità. La cultura di destra è egemone, con
Furio Jesi diremmo che «possiede tutta la sua oscurità che è dichiarata chiarezza, tutta
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la sua ripugnanza per la storia che è camuffata di venerazione del passato glorioso, tutto
il suo immobilismo veramente cadaverico che si finge forza viva perenne». In virtù della
mancanza di vincoli sociali se non quelli di rielaborare miti per legittimare poteri vecchi e
nuovi, l’egemonia della cultura è il prodotto di una capacità camaleontica che le consen-
te di passare dalla letteratura di consumo al giornalismo popolare, dalla televisione alla
rete. Dalle pagine di Gente e Oggi ereditiamo l’ossessione monarchica incartata di gossip
che accarezza un paese che si sente organo dei Savoia e che approderà ai giorni nostri a
certe nostalgie borboniche mascherate di meridionalismo, rappresentate dai bestseller di
Pino Aprile, che di Gente è stato direttore. Ma in fondo, se si insegue «la rivoluzione senza
ghigliottina» (copyright Beppe Grillo) non serve far saltare teste, basta cambiare cavallo e
passare ad altra dinastia: in questo caso dai Savoia si passa ai Borbone. La grande capa-
cità di Indro Montanelli nel conoscere, blandire e rappresentare le pulsioni della piccola
e media borghesia italiana si trasmette in tronconi giornalistici apparentemente diversi e
confliggenti che pure (e a ragione) rivendicano la sua lezione e che nel governo gialloverde
trovano una sintesi: il giustizialismo spinto e il conservatorismo bieco, il ghigno manettaro
e il borbottio reazionario. Il tutto impacchettato dalle «idee senza parole» che dal lusso
spirituale della letteratura reazionaria dell’Ottocento si trasmette negli slogan pubblicitari
e in quelli elettorali. Del resto, cosa c’è di più falso e al tempo stesso realmente efficace della
propaganda commerciale? Tutti sanno che è pensata proprio per spacciare merce eppure
funziona, altrimenti avrebbe cessato di esistere da tempo.
Attraverso lo specchio osserviamo i Ta-
ricone e ci troviamo di fronte a quello che fronte all’immagine riflessa che ci ipnotizza. A una figura
Paolo Virno ha definito il nostro «doppio che per Virno deforma caratteristiche comuni come «l’in-
agghiacciante», perverte e al tempo stesso tellettualità di massa, le spinte autonomistiche e destataliz-
affianca le forme di vita radicali contem- zanti, le “singolarità qualunque”, i cittadini smaliziati della
poranee. Il fenomeno del quale Taricone è società dello spettacolo». L’audience è diviso in nicchie che
stato anticipatore è il simbolo di un’egemo- non si parlano tra loro e che per ognuna di esse è possibile
nia culturale ancora più pervasiva. Siamo di impacchettare una verità ad hoc senza che queste entrino
in contraddizione perché è ormai dato per scontato che la
sfera della parola sia performativa. La narrazione spezzet-
tata, i tormentoni di Drive In e le bolle di Facebook.
Attraverso lo specchio scorgiamo un altro concorrente un
po’ defilato, sovente dileggiato dagli altri reclusi nella Casa.
Lui, a differenza dello scaltro e sfortunato Taricone, percor-
re tutta la discesa agli inferi dello show biz che tocca agli ex
concorrenti del Grande fratello, fino ad arrivare alla corte di
Lele Mora. (E pensare che una volta Taricone aveva detto
di voler fondare un sindacato degli ex concorrenti del Gf:
«Sciopero compagni! Pensa alle trasmissioni tv senza quelli
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

del Grande Fratello»). Verrà umiliato a favore di telecamera


da un altro degli eroi tragici e ambivalenti degli Anni Zero,
quel Fabrizio Corona che secondo lo scrittore Walter Siti
rappresenta alla perfezione il rovesciamento della profezia
pasoliniana: tutta la strafottenza del sottoproletariato e tut-
to l’egoismo della borghesia in una sola forma di vita. Il con-
corrente che pareva destinato come i suoi colleghi all’oblio
o a campare facendo ospitate nelle discoteche di provincia e
nei mobilifici della Brianza è diventato uno degli uomini più
potenti d’Italia. Si chiama Rocco Casalino.
17

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La
PRODUZIONE

crisi
dei
Il declino italiano non comincia oggi,
né è tutta colpa dell’Ue: almeno dal 1992
le nostre classi dirigenti impongono

trenta
un modello basato su scarsi
investimenti e precarietà, che porta
solo deindustrializzazione e povertà

anni
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C’
è grossa crisi
Dieci anni dopo la crisi del 2008, l’Italia batte ancora il record eu-
ropeo di Neet, i giovani fuori dal mondo della formazione e senza
lavoro. Sommandoli ai disoccupati “normali”, fanno quasi cinque
milioni di persone senza lavoro, poco meno degli individui che vi-
Marta Fana vono in povertà assoluta. La povertà pare il giusto prezzo da pagare
Giacomo Gabbuti come risarcimento ai mercati per aver vissuto al di sopra delle pro-
prie possibilità, per aver fatto pagare salari troppo elevati alle im-
prese. Questo l’espediente retorico-ideologico esplicitato nella politica economica che già
da metà anni Settanta non cessa di esser ripetuto dal padronato e dai governi che si sono
succeduti. La cura proposta: dosi massicce di austerità, deregolamentazione del mercato
del lavoro e una miope politica di deindustrializzazione e privatizzazioni scagliate contro la
maggioranza della società, la stessa a cui simultaneamente sono stati chiesti sacrifici e re-
sponsabilità verso i propri aguzzini. Eppure, anche in termini di Pil la botta è ben lontana
dall’essere riassorbita, tanto da rendere oramai impietoso il confronto persino con la Gran-
de Depressione del 1929, quando si tornò ai livelli pre-crisi in soli otto anni.
Tuttavia, un discorso sulla crisi italiana non può limitarsi all’ultimo decennio. Dentro
la crisi globale, e dentro quella delle istituzioni economiche europee, l’Italia ne vive una
più lunga e profonda. Se è almeno dai primi anni Settanta che a sinistra si discute di “cri-
si e ristrutturazione”, è dai primi anni Novanta che il declino italiano diventa lampante.
Nel decennio 1990-2000 l’Italia inizia a crescere meno della media Ocse. A quel decennio
ne seguono altri due di stagnazione e crisi. Recentemente, Andrea Califano ha mostrato
in un articolo per la Fondazione Feltrinelli il declino di quegli indici che «contribuiscono
a descrivere il cosiddetto “sistema nazionale di innovazione”», cioè i dati relativi a produ-
zione scientifica, investimenti in ricerca e sviluppo, e «al livello di avanzamento tecnolo-
gico e produttivo del paese nel suo complesso». Dal 1995, siamo rimasti indietro anche
rispetto a quella periferia mediterranea cui l’Italia, seconda industria europea, dovrebbe
appartenere solo dal punto di vista geografico, e questo per scelte precise in termini di po-
litica economica. Guardando ai redditi delle famiglie e alla loro distribuzione, gli econo-
misti di Banca d’Italia Andrea Brandolini, Romina Gambacorta e Alfonso Rosolia indicano
lo spartiacque nel 1992. Dopo decenni di crescita, da allora «i redditi reali delle famiglie
hanno praticamente cessato di crescere, mettendo a rischio i livelli di vita conquistati». È
un anno, il 1992, fortemente simbolico: prima del mercoledì nero di settembre in cui l’I-
talia fu costretta ad abbandonare il Sistema Monetario Europeo e svalutare la lira, erano
arrivate la firma del trattato di Maastricht e l’avvio di Tangentopoli, entrambi in febbraio.
L’Italia vive, potremmo dire, la sua crisi dei trent’anni – una crisi legata a quella politica
in cui è degenerata e poi crollata la Prima repubblica. Trent’an-
ni in cui, dopo il consolidamento del Miracolo economico, non
ha saputo adattarsi ai mutamenti dell’economia globale, ai vin- Marta Fana, PhD
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

coli esterni cui è stata assoggettata dalla sua classe dirigente, ma in Economics, si
nemmeno ai cambiamenti resi necessari dalla transizione a un’e- occupa di mercato
conomia avanzata. Come notava Marcello De Cecco in un luci- del lavoro. Autrice
di Non è lavoro
è sfruttamento
(Laterza).
Giacomo Gabbuti
è dottorando di
storia economica
all’Università di Oxford.
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dissimo saggio del 1995, (Tre storie economiche dell’Italia unita, ora nella raccolta L’economia
di Lucignolo, Donzelli Editore) il «modello italiano» di transizione dalla grande industria for-
dista ai distretti mostrava già allora la sua «precarietà». «In cerca di riparo da sindacati e fi-
sco», il nuovo capitalismo italiano si è caratterizzato per insufficienza di capitali e bassi livel-
li di scolarizzazione, specializzandosi in settori ad alta intensità di lavoro poco qualificato e
a basso contenuto tecnologico. Lo Stato, «da protagonista dello sviluppo e grande commit-
tente delle maggiori imprese», si era trasformato già negli anni Settanta in un «dispensatore
di redditi», necessari a sostenere, più che i consumi, la domanda per i nostri prodotti, sem-
pre più in difficoltà sui mercati internazionali.
Un’analisi corretta della storia recente del nostro paese sembra dunque una necessaria
premessa alle spesso retoriche critiche alle politiche neoliberiste portate avanti negli ultimi
decenni. Dietro la crisi della sinistra in Italia c’è anche l’incapacità di costruire analisi, narra-
zioni e mobilitazioni coerenti con questo prolungato declino. Che tengano conto della cre-
scita delle diseguaglianze e dell’evoluzione di ciò che si produce (e come si produce) da cui
originano i rapporti di forza.

Dove stiamo facendo?

Tra 2007 e 2016, nel più generale arretramento dei paesi avanzati e dell’area euro, l’Ita-
lia ha quasi dimezzato la sua quota della produzione industriale mondiale al netto del co-
sto dei fattori (capitale e lavoro) impiegati per realizzarla. Pur rimanendo seconda potenza
industriale europea, siamo quasi agganciati dalla Francia, producendo ancora solo l’87% di
dieci anni fa. Alla contrazione della manifattura corrisponde la crescita di servizi. Tra que-
sti, cresce anche la rendita pura e semplice: quella immobiliare, stando ai calcoli dell’eco-
nomista di Banca d’Italia Roberto Torrini, è più che raddoppiata in termini di valore aggiun-
to nazionale, dal 5% del 1980 al 13%. Nello stesso periodo, il peso dell’industria (costruzioni
incluse) è passato dal 28% (quota stabile tra il 1975 e il 1995) al 23% del
2013. Guardando alla sola manifattura, il valore aggiunto generato da
SENZA IMPRESA PUBBLICA questo settore tra il 1995 e il 2017 si riduce del 12%, nonostante in ter-
L’ECONOMIA ITALIANA mini assoluti aumenti di circa 2,5 miliardi. Un ruolo particolare, all’in-
RINUNCIA A OGNI terno del valore aggiunto, è dato da quella parte di produzione desti-
MODERNIZZAZIONE, nata al commercio con l’estero. Il quadro non è esaltante: dal 1995 le
RESTA ANCORATA esportazioni italiane continuano a crescere, ma molto più lentamen-
A SETTORI A BASSO te che nel resto dell’eurozona, tanto che veniamo scavalcati non solo
VALORE AGGIUNTO dalla Germania, ma anche da Grecia e Spagna. Proprio i servizi mo-
strano la dinamica più stagnante (alla faccia del turismo petrolio d’I-
talia!). Nello stesso periodo, la composizione delle nostre esportazioni
è rimasta sostanzialmente identica. Tessile e lavorati del settore agricolo pesano ancora per
INVERNO 2018/19

un quarto delle esportazioni; il doppio che in Germania, dove beni e apparecchiature elet-
troniche pesano il 10% (6% da noi) e il settore auto il 22% (10,6 in Italia).
Dagli anni Settanta è andato fortemente riducendosi il peso della grande industria, come
di quella pubblica, entrambe importanti fattori nello sviluppo economico italiano. Secondo
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i calcoli degli storici economici Renato Giannetti e Michelangelo Vasta, contenuti nel volu-
me L’Impresa italiana nel Novecento (il Mulino) nel 1971 il valore delle 200 imprese manifat-
turiere ammontava a circa il 40% del Pil; nel 2001 questa quota era scesa al 16%. Negli stes-
si anni, si è ridotta la dimensione delle imprese, in particolare nella manifattura. Il numero
medio di addetti per unità produttiva è nel 2014 di 3,7 (era 4,2 nel 1991). Più difficile è avere
dati precisi sulla ritirata del pubblico. Aldilà di quelli noti sull’avanzo primario di bilancio,
il World Inequality Database consente di approssimare il peso del capitale pubblico (finan-
ziario e non) sul totale dell’economia, che sembra più che dimezzarsi negli ultimi vent’anni
sia in percentuale al Pil che alla ricchezza complessiva.
Nonostante la retorica sulla quarta rivoluzione industriale, insomma, l’obiettivo dei go-
verni dell’austerità di portare la bilancia commerciale in pareggio è stato raggiunto aggrap-
pandosi ai settori tradizionali dello sviluppo italiano (o abbattendo i consumi e quindi le
importazioni degli italiani). Privata dell’importante ruolo dell’impresa pubblica, l’econo-
mia italiana anziché modernizzarsi rimane legata a settori a basso valore aggiunto, con-
tenuto tecnologico e dimensione aziendale, come la ristorazione, il settore alberghiero, il
commercio al dettaglio, la logistica e il magazzinaggio.

La risposta è dentro di te (ma è sbagliata)

Rinunciando a qualsivoglia forma di politica industriale (se non quella dei sempiterni
sgravi fiscali alle imprese) e sottoscrivendo i vincoli europei, le classi dirigenti hanno pro-
vato a scaricare sul costo del lavoro il peso della competizione. Esemplari le campagne sul
«Perché investire in Italia» del Ministero dello Sviluppo Economico, che nel 2016 rivendi-
cava il costo del lavoro inferiore alla media europea («Un ingegnere in Italia guadagna in
media 38.500 euro, mentre nel resto d’Europa 48.500»!). Anche in questo campo, il 1992 è
uno spartiacque: l’Italia diventa laboratorio delle politiche neoliberiste nel mercato del la-
voro, ridotto a unico campo d’azione della politica economica. La nuova fase di ristruttura-
zione iniziata a metà anni Settanta, fatta di
esternalizzazione e decentramento produt- dalla lotta all’inflazione ma fu funzionale a rafforzare i pro-
tivo verso “la terza Italia” – quella delle regio- fitti privati, scaricando il peso della svalutazione sui reddi-
ni del Centro e del Nord-Est, dove in assenza ti da lavoro. Per il quarto di secolo successivo, al fantasma
della grande industria prosperano i distret- dell’inflazione si sostituì il mantra «più flessibilità più cre-
ti – si intensifica negli anni Novanta. L’ag- scita». La disoccupazione poteva essere ridotta, si disse, da
giustamento (basato su flessibilizzazione e contratti di lavoro flessibili (e ovviamente, salari inferiori).
compressione salariale) richiede una nuo- Inizia la riforma permanente che dal Pacchetto Treu (1997)
va cornice normativa. Gli accordi tra gover- arriva al Jobs Act di Matteo Renzi.
no, imprese e parti sociali tra il 1992 e il 1993 Tra il 1992 e il 2017, il tasso di occupazione aumenta di
sanciscono la fine degli adeguamenti auto- pochi punti percentuali (rimanendo tra i più bassi d’Euro-
matici dei salari e aprono alla contrattazione pa) grazie alla maggiore partecipazione femminile e alla sa-
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

decentrata, che alla luce dei rapporti di forza natoria dei lavoratori immigrati (2001). In entrambi i casi, si
spiana la strada a ulteriore compressione sa- tratta di lavoro sempre più precario. Il tasso di part-time ha
lariale. La deflazione salariale fu giustificata raggiunto il 32% dell’occupazione femminile (poco sopra la
media europea), ma la metà delle lavoratrici accetta il tem-
po parziale per via della mancanza di offerte a tempo pieno.
Nel campo del part time involontario, l’Italia vanta il prima-
to europeo (61%), con punte del 74% per i lavoratori tra i 15
e i 34 anni (era il 44% appena nel 2004). Se l’aumento toc-
ca tutta l’economia, la sua distribuzione è ancora asimme-
trica tra settori produttivi, passando dal 48,8% dei lavorato-
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ri dell’industria, al 62% dei servizi. Proprio i servizi hanno
trainato la dinamica occupazionale, a discapito del mani-
fatturiero. Lo slittamento è evidente sia nell’occupazione,
che nelle ore lavorate. Tra il 1993 e il 2017, queste ultime au-
mentano di 2,5 miliardi; una cifra risultante da un +4,3 nei
servizi, e un -1,7 nel manifatturiero. Rispetto al 2008, tut-
tavia, nel 2017 mancano ancora 1,1 miliardi di ore. Que-
sto travaso (così come la riduzione delle dimensioni delle è cresciuta di quasi 10 punti percentuali. La
aziende) maschera in parte la crescente esternalizzazio- povertà assoluta (misurata da una “linea di
ne compiuta con gli appalti e il ricorso al lavoro interinale. povertà” oggettiva, basata su consumi basi-
Oggi sempre più lavoratori vengono assunti per pochi gior- lari), dopo un picco nei primi anni Novan-
ni al mese, o “affittati” tramite un’agenzia di somministra- ta, e un declino successivo, è più che rad-
zione: nel 2017, il 36% dei contratti a termine durava meno doppiata nell’ultimo decennio, trend non
di un mese, mentre il 32% di quelli in somministrazione si fermato dalla “crescita” degli ultimi anni.
risolveva in una giornata. La disuguaglianza territoriale è esplosa in
termini di reddito, occupazione, investi-
Gli ultimi saranno i primi, ma lo sportello chiude alle 12 menti. Sono cresciuti anche i divari gene-
razionali: gli economisti Massimo Baldi-
La povertà e le diseguaglianze trovano origine nel- ni, Giulia Mancini e Giovanni Vecchi (in No
le condizioni di ordinario sfruttamento del lavoro, frutto country for young people. Poverty and age
dello stravolgimento dei rapporti di forza e dell’evoluzio- in Italy 1948-2018) hanno mostrato l’incre-
ne della struttura produttiva italiana. Quel 10% di famiglie mento drammatico della povertà minorile.
che secondo l’Istat erano in povertà relativa nel 2016 – cioè La ciliegina sulla torta è data dall’aumento
con meno del 60% del reddito medio – acquista un’altra delle differenze di genere in termini di re-
valenza se si considera che in queste condizioni si trova il tribuzione. Nell’articolo The Increase of the
34% delle famiglie di operai o lavoratori assimilabili, con- Gender Wage Gap in Italy during the 2008-
tro lo 0 di quelle con un capofamiglia dirigente. Rispetto a 2012 Economic Crisis, Daniela Pizzaluga e
20 anni fa, la povertà relativa tra le famiglie dei lavoratori Maria Laura Di Tommaso mostrano come
la crisi (e soprattutto il congelamento degli
stipendi nella pubblica amministrazione) abbia più che raddoppiato il gap salariale (da
3,8 a 8,6% dal 2008 al 2012), in controtendenza col resto d’Europa.
Considerando nel loro insieme le famiglie italiane, dal 1992 a oggi le indagini di Banca
d’Italia mostrano come la (scarsa) crescita si distribuisca in modo fortemente diseguale.
L’indice di Gini, in crescita dal 1992, non si impenna durante la crisi, ma le famiglie più po-
vere hanno visto i propri redditi ridursi o crescere sotto la media, mentre il ceto medio te-
neva a malapena il passo e i più ricchi andavano meglio di tutti. Ancor più che nei redditi, è
nei patrimoni degli italiani che la disuguaglianza è preoccupante. Guardando ai dati fisca-
li si osserva una crescita della quota dei redditi dell’1% più ricco sin dai primi anni Ottan-
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ta (anche grazie alla riduzione, dagli anni Settanta, delle imposte sui redditi elevati). Nella
ricchezza l’incremento è maggiore. I numeri elaborati da Paolo Acciari, Facundo Alvaredo e
Salvatore Morelli, e presentati al Forum Disuguaglianze Diversità, mostrano come dal 1995,
mentre la quota di ricchezza della metà più povera delle famiglie italiane si riduce dal 15 a
poco più del 5%, l’1% più ricco è passato da circa 15 a oltre il 25%. Dal 2008, le poche fami-
glie che compongono lo 0,1 e lo 0,01% più ricco hanno più che raddoppiato la loro ricchez-
N. 1

za. Sempre il World Income Database mostra come la ricchezza pesi in Italia più di 7 volte
il Pil, ben di più che negli Usa e in Francia, mentre i primi studi dell’economista Francesco
Bloise mostrano quanto questa contribuisce a rendere l’Italia un paese con bassissima mo-
bilità sociale. Di fronte a un’economia stagnante e a un mercato del lavoro infernale, la po-
sizione di chi ha si rafforza sempre di più rispetto a quella di chi ha bisogno di un salario per
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campare. Nell’ultimo decennio la quota di reddito nazionale (viziata dall’incapacità di mi-
surare i redditi dei precari nella contabilità nazionale) che va ai lavoratori sembra essere au-
mentata, ma sempre secondo i dati di Torrini non ha recuperato il crollo avviato nei primi
anni Ottanta, e accelerato proprio nei primi anni Novanta.

Non sai che fare, non sai dove andare, miagoli nel buio

In sostanza, a differenza che in Spagna o in Grecia, la crisi non ci ha colpiti improvvisa-


mente nel 2008. Piaccia o no, l’unica narrazione coerente con questa crisi trentennale è sta-
ta quella anti-euro. Il nostro 99% non si è trovato di colpo senza casa, o licenziato, nel 2008,
ma si adatta almeno dal 1992 alle prospettive stagnanti dell’economia italiana. Il passaggio
alla moneta unica (iniziato con l’avvio del Sistema Monetario Europeo nel 1979) e l’accet-
tazione dei vincoli di bilancio (sottoscritti proprio nel 1992) hanno contribuito a questa si-
tuazione (come era peraltro prevedibile, ed in effetti fu previsto allora). Nessuna risposta
politica alla crisi italiana può evitare di porre il tema dell’Europa come dirimente, né tanto-
meno continuare a trattarlo nel modo fideistico con cui è stato fatto negli ultimi vent’anni.
Questa risposta sorvola sulla specificità italiana, resa evidente dal confronto con la stes-
sa periferia mediterranea, le cui cause affondano nei decenni ancora precedenti. Negli ul-
timi trent’anni però, tra le possibili risposte all’integrazione europea, le classi dominanti
italiane hanno scelto un modello fatto di compressione salariale, espansione dei servizi,
bassi livelli di investimenti, istruzione e in-
novazione, smantellamento dell’intervento Siamo di fronte a uno scontro fra capitali nazionali. Che
pubblico. Ecco quali sono le responsabilità non può essere rimosso come fanno i sedicenti europeisti,
di quei partiti che oggi hanno alzato i vessilli ma neppure risolto riducendo la capacità di agire a livello
dell’antieuropeismo e che imputano all’im- nazionale alla capacità di esportazione e di accumulazione
migrazione le condizioni dei lavoratori ita- privata, mentre si assume come inevitabile la contrapposi-
liani, mentre continuano a volere i voucher zione tra classi lavoratrici di diversi paesi. Senza l’ambizio-
e abbassare le tasse ai più ricchi, nonché a ne di ribaltare l’agenda politica ripudiando ogni cedimen-
opporsi all’intervento pubblico in settori to a narrazioni reazionarie e liberiste continueremo a vivere
strategici come quello dellle infrastrutture in un paese senza sinistra. Questa ambizione titanica ma è
autostradali. Per questo è necessario tenere l’unica opzione credibile, e capace di farsi egemonica. Par-
presente il governo politico delle diverse fasi tendo da una rigorosa analisi, storica e materialistica, dei
di questo lungo trentennio. Come per l’au- rapporti di produzione è possibile rivendicare con realismo
sterità, le politiche che hanno accompagna- un programma di rottura e di emancipazione, coniugando
to la svalutazione italiana si svolsero sotto la liberazione del e dal lavoro con la politica industriale e il
l’egida dell’alleanza tra classe politica e im- ruolo propulsivo dello stato. In cui la riconquista della so-
prenditoriale: si pensi alla scelta di bloccare vranità economica non sia un espediente per garantire pro-
i salari così da rendere immediato l’aumen- fitti a pochi, ma premessa per il benessere della maggioran-
to dei profitti una volta riesumate le espor- za, sottraendo al capitale privato la gestione non soltanto
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

tazioni grazie alla svalutazione non e l’uso delle autostrade e dei trasporti, ma anche di sanità, istru-
clientelare e improduttivo della spesa pub- zione... Certo, il ritardo accumulato rende difficile costru-
blica dei governi democristiani e socialisti. ire proposte credibili e all’altezza. Ma come suggerisce il
personaggio guzzantiano Quelo che ci ha guidato in questa
rassegna, tra le scorciatoie autoassolutorie e un’analisi rea-
listica dei rapporti di produzione nel nostro Paese, del ruo-
lo dell’Italia nel capitalismo europeo e globale, e del ruolo
dell’intervento pubblico nell’economia italiana, la risposta
per superare l’anomalia di un Paese senza sinistra è… la se-
conda che hai detto.
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37,2
40
Incidenza povertà relativa
35
Valori % per tipologia del capofamiglia. Si considerano in
povertà relativa le famiglie con redditi al di sotto del 60%
30 del reddito mediano. Redditi equivalenti (scala Ocse modificata),
esclusi quelli derivanti da patrimonio finanziario.
Fonte: SHIW Banca d’Italia
25
Operai e affini
20,1
20

15
Media nazionale lavoratori dipendenti

10

5
Manager

1986 1987 1989 1991 1993 1995 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012 2014 2016

Avanzo primario (% del Pil)


4

-2

-4
INVERNO 2018/19

-6

-8
N. 1

-10

-12

2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015


24

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14,7%
1986 2016
12,2%
7,8%
Sud
e isole
10,9%
39,4%

30,2%
Valori % per distribuzio-
Centro ne geografica. Si considera-
no in povertà relativa le fa-
miglie con redditi al di sotto
del 60% del reddito media-
Nord no. Redditi equivalenti (sca-
la Ocse modificata), esclusi
quelli derivanti da patrimo-
nio finanziario.
Fonte: SHIW Banca d’Italia
1986 1987 1989 1991 1993 1995 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012 2014 2016

L’avanzo primario è
definito come differenza
tra entrate e spesa totale
del Paese, qui calcolato
in rapporto % al Pil. Per
la costruzione dei dati è
stato usato il Government
Finance Statistics Manual
del Fondo Monetario
Internazionale
(edizione 2001).
Stati uniti
Spagna Fonte: Fiscal Monitor (ottobre 2018)
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

Italia
Grecia
Germania
Francia

2016 2017 2018 2019 2020 2021 2022 2023


25

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Composizione delle Esportazioni Italiane, 1995-2016
100

90

80

70

60

50

40

30

20

10

0
1996 2000 2004 2008

Valore aggiunto per macrosettori (valori in %)


25 76
La distribuzione
del valore
74 aggiunto per
20 macrosettori
economici:
72 industria (inclusa
energia), servizi
15 e costruzioni,
70
Industria dal 1975 al 2013.
INVERNO 2018/19

Servizi I valori sono


Costruzioni 68 concatenati
10 tenendo come
valore base i
66 prezzi del 2005.
N. 1

5 Fonte: rielaborazione
degli autori a partire da
64 A. Baffigi, Il Pil per la storia
d’Italia. Istruzioni per l’uso
(Marsilio, 2015)

0 62

1975 1985 1995 2005 2013


26

024_027_infografiche.indd 26 26/10/18 20:47


Lavoratori a tempo
(Valori in %) Fonte: Atlas of economic complexity,
Center for International Development
at Harvard University determinato (% dipendenti)
20
Mezzogiorno
Servizi

Altro
Elettronica

Meccanica 15 Nord Est


Centro
Veicoli

Chimica

10
Siderurgia
Mineraria Nord Ovest
Vetro e ceramica
Incidenza per macro-area geografica
Alimentare dei lavoratori a tempo determinato sul totale
dei dipendenti dal 1993 al 2017.
Tessile Fonte: Istat

5
2012 2016 1993 1999 2005 2011 2017

Addetti per unità locali (1951-2014)


4milioni

Il numero di addetti rappresenta il numero di persone che svolgono (lavorando eventualmente


2013 2012
a tempo parziale) delle attività economiche per conto di una stessa impresa, cioè le unità 2014
locali. Il dato si riferisce all’intera economia italiana per gli anni dal 1951 al 2014. 2011
1991 2001
Fonte: Serie storiche Istat
3milioni

1981

1971
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

1961
2milioni

1951
Unità locali

Addetti 8milioni 10milioni 12milioni 14milioni


27

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Il debito italiano
PRODUZIONE

non è un’anomalia
Abbiamo davvero vissuto “al di sopra delle nostre
possibilità”? La narrazione dominante scarica la
responsabilità dei conti pubblici su di noi. Ma l’economia
del debito è il nuovo ciclo economico in cui viviamo

L’
ex ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, l’ultimo tedesco ad
aver spezzato le reni alla Grecia nel 2015, affermò in quei giorni
che sua nonna «diceva spesso che la bonarietà conduce alla
sregolatezza». L’etica del debito e i sensi di colpa introiettati dal
nipotino Wolfgang si rivelano più efficaci quando l’economia è
Marco Bertorello declinata su scala individuale e personale. Ma non sono i singoli
Danilo Corradi individui, è il sistema nel suo complesso, dunque prevalentemente
quelli che al suo interno stanno più in alto, ad aver vissuto al di
sopra delle proprie possibilità. Quando si parla di debito pubblico in Italia, prevale l’idea
che si sia formato a causa della corruzione e dello sperpero delle risorse pubbliche in
particolare negli anni Ottanta. Questa visione si salda spesso con
l’idea che il debito pubblico italiano sia un’anomalia rispetto
agli altri paesi europei, cosa che per i liberisti certificherebbe Marco Bertorello
il fatto che l’austerity sia la giusta ricetta per tornare a una collabora con il
gestione equilibrata dei conti pubblici. Altri argomenti presenti manifesto ed è autore
invece tra i critici dell’economia liberista legano l’aumento del di volumi e saggi su
debito semplicemente alla progressiva perdita della sovranità economia, moneta e
INVERNO 2018/19

monetaria, parabola questa che avrebbe impedito alla Banca debito.


d’Italia di essere l’acquirente di ultima istanza dei titoli pubblici Danilo Corradi, dottore
mantenendo bassi i costi sul debito. Tali idee non ci convincono di ricerca in storia,
sul piano analitico e meno ancora su quello politico. insegna filosofia
e storia ed è docente
N. 1

a contratto presso
l’Università di Tor
Vergata.
Insieme hanno scritto
tra l’altro Capitalismo
tossico (Alegre).
28

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Italia modello per caso

Diversamente dai sistemi produttivi che lo hanno preceduto, in cui i cambiamenti si


misurano su archi temporali secolari, il capitalismo si è caratterizzato fin dalle origini per
il suo dinamismo, per la costante trasformazione determinata dalla ricerca del massimo
profitto. Del resto Marx ed Engels già 170 anni fa affermavano che la borghesia non po-
trebbe esistere «senza rivoluzionare di continuo gli strumenti della produzione, quindi i
rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali».
La finanziarizzazione dell’economia, ossia la crescita di ruolo e incidenza della finan-
za, si è affermata dentro questa pulsione innovatrice, come risposta alla crisi del ciclo di
accumulazione keynesiano-fordista iniziato nel secondo dopoguerra e caratterizzato da
una crescita realizzata mediante un massiccio intervento pubblico volto a sostenere la
domanda per una produzione di massa. La crisi di questo modello, iniziata a cavallo tra gli
anni Sessanta e Settanta, è il frutto di un insieme dinamico di fattori, a partire dalla ten-
denza alla saturazione dei mercati e dalla concomitante forza del conflitto operaio capa-
ce d’intaccare sensibilmente i profitti delle imprese.
Il caso dell’Italia è di particolare interesse, poiché è il paese che, dopo il grande balzo
modernizzatore del miracolo economico degli anni Cinquanta e Sessanta, ha pagato per
primo gli effetti di questa crisi. L’Italia è diventata una sorta di modello “per caso”, non
programmato, dove il debito non svolge più principalmente una fun-
zione di sostegno all’investimento produttivo, ma diviene il nerbo at-
traverso cui rilanciare un’economia che non riesce più a crescere ai IL DEBITO NON SVOLGE
ritmi dei primi decenni del dopoguerra. PIÙ UNA FUNZIONE
In Italia il debito non è aumentato a partire dagli anni Ottanta, DI SOSTEGNO
bensì dai Settanta. Lo Stato, in quegli anni come in tutti i principali ALL’INVESTIMENTO
paesi, ha aumentato la propria spesa sociale (pur rimasta complessi- PRODUTTIVO,
vamente inferiore alla media europea), ma differentemente dagli al- È IL NERBO ATTRAVERSO
tri non ha aumentato le proprie entrate a un ritmo necessario a co- CUI RILANCIARE
prire le uscite. Durante gli anni Settanta in Italia la pressione fiscale UN’ECONOMIA
in rapporto al Pil è rimasta stabile intorno al 24% fino al 1975 per poi CHE NON CRESCE
salire al 28,7 nel 1980, mentre in Germania è aumentata dal 31,5 al
36,4% e addirittura in Francia dal 33,6 al 39,4%. Questo scarto si è tra-
dotto in disavanzi primari molto elevati per tutto il decennio, segnando persino un -7,9%
nel 1975 con l’effetto di alimentare la spinta alla crescita del debito italiano che è aumen-
tato in un primo momento grazie alla modesta pressione fiscale e in un secondo a causa
del sovrapporsi degli interessi crescenti su un debito sempre più elevato che tende ad au-
toalimentarsi. Neanche l’avanzo primario (il saldo positivo tra entrate e uscite al netto de-
gli interessi) realizzato dal 1992 fino a oggi, fatto salvo il 2009, ha interrotto tale dinamica.
Questa politica economica è andata prevalentemente a vantaggio dei profitti e della
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

rendita finanziaria. Già nel 1985 l’economista Augusto Graziani sottolineava come, «con
l’immissione di liquidità derivante dal disavanzo dello Stato le imprese realizzano profit-
ti tali per cui non hanno più alcun bisogno di ricorrere al mercato finanziario». Il debito
29

028_031_Debito.indd 29 26/10/18 20:52


pubblico elevato è stata una condizione necessaria per tenere alti i profitti a fronte di un
indebitamento privato (cioè quello di imprese e cittadini) crescente, ma ancora oggi deci-
samente inferiore rispetto agli Usa e ai principali paesi europei.

Debito che garantisce profitto

Attraverso il debito pubblico si è fronteggiata la fine del ciclo keynesiano-fordista che


in Italia, vuoi per il ruolo di parvenu della borghesia italiana, vuoi per un’industrializza-
zione ancora immatura, si è presentata prima che altrove. L’espansione dei mercati ha
perso slancio in tutti i principali paesi. Il debito ha iniziato a divenire elemento di trai-
no dell’economia prima nella sua variante pubblica, in Italia più che altrove, poi in quella
privata, a partire da Usa e Regno Unito. Il debito, dunque, non è la risultante di corruzio-
ne o semplice sperpero, fenomeni che non solo in Italia ci sono indubbiamente stati, ma
un elemento decisivo per garantire crescita economica e alti livelli di rendita e profitto.
L’espansione della sfera finanziaria e del debito, pubblico o privato, hanno svolto un
triplice ruolo: tenere alti i consumi nonostante l’attacco agli stipendi e allo Stato socia-
le; offrire uno sbocco d’investimento remunerativo al capitale in epoca di tendenziale so-
vrapproduzione e saturazione dei mercati; incrementare i valori degli assets (azioni; case;
obbligazioni; derivati; ecc.) generando bolle speculative capaci di “moltiplicare” la spesa
privata attraverso ulteriore indebitamento, in una sorta di keynesismo privato e finanzia-
rio, per usare l’espressione sintetica dell’economista Riccardo Bellofiore.
La crisi iniziata nel 2007 e la successi-
va “crisi dei debiti sovrani” sono espres-
sione dei limiti strutturali del ciclo di
accumulazione fondato sul debito e ini- Debito/Pil
ziato a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta.
Anche la vulgata del debito che si accre-
delle amministrazioni
sce con la crisi è parzialmente scorret- pubbliche
ta. L’aggregato di debito privato e pub-
blico è in costante aumento da decenni.
1861-2017
A conferma di questa tendenza, nel 2017
il debito globale è salito a 233mila mi-
liardi di dollari ed è cresciuto di 71mila
negli ultimi dieci anni e di 163mila ne-
gli ultimi venti (cioè è cresciuto più nella
fase di euforia pre-crisi). Durante la cri-
si è avvenuta la trasformazione di molti
debiti privati in debiti pubblici e di mol-
INVERNO 2018/19

ti crediti privati a rischio in crediti pub-


blici, socializzando le perdite e privatiz-
zando i profitti.
N. 1

1861 1867 1873 1879 1885 1891 1897 1903 1909 1915
30

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Trasformazioni profonde

Il punto quindi è non banalizzare il debito e comprendere come anche i suoi elemen-
ti disciplinanti (ossia i dispositivi di governo) siano subordinati alle necessità dei meccani-
smi di nuova accumulazione. L’economia contemporanea non riesce a dar vita a processi di
valorizzazione paragonabili al ciclo espansivo precedente e utilizza il debito per drogare la
crescita, come dato portante e non accessorio di un ciclo quarantennale di accumulazione.
La decisione della Banca centrale degli Usa, a partire dal 1979, di imprimere un netto
aumento dei tassi d’interesse segnò l’inizio di questa parabola. Il divorzio tra la Banca d’I-
talia e il Tesoro del 1981, che favorì la progressiva fine del finanziamento del deficit facen-
do ricorso agli acquisti di titoli di Stato da parte della banca centrale, fu l’effetto dell’alli-
neamento alle politiche monetarie restrittive che gli Usa imposero su un piano globale.
Non a caso l’aumento del debito pubblico, e del suo costo, ha iniziato ad affermarsi anche
in quei paesi dove tale divorzio è avvenuto molto più tardi. Parallelamente il debito risulta
centrale anche dove la sovranità monetaria appare in capo alla propria banca nazionale.
Il protagonismo delle banche centrali è tornato sotto altre vesti, cioè con politiche mone-
tarie ultra-espansive, in concomitanza con l’affacciarsi dei primi affanni della finanza. Il
volume dei bilanci delle banche centrali, infatti, è aumentato di 10 volte dal 1995 al 2015.
Se le ragioni dell’uso del debito sono così profonde, per sovvertirne la logica di classe è
necessario immaginare trasformazioni altrettanto profonde. Siamo sicuri che il semplice
ritorno a una spesa pubblica che ripropone la vecchia crescita sia davvero la soluzione?

Dati fino al 2007 da Maura


Francese e Angelo Pace, Il 150
debito pubblico italiano dall’Unità
ad oggi. Una ricostruzione della
serie storica, in “Questioni di
Economia e Finanza”, quaderni
della Banca d’Italia, numero
31, Roma 2008. La serie del 125
Pil si riferisce al lavoro di
Alberto Baffigi, Italian National
Accounts, 1861-2011, Bank
of Italy, Economic History
Working Papers n. 18, 2011 e 100
relativa appendice. Si trova
una sintesi del rapporto debito/
Pil ricostruito su questi dati
in Emanuele Felice, Ascesa
e declino. Storia economica
d’Italia, Il Mulino, Bologna 2015, 75
Appendice Statistica. Dati
successivi al 2008 da Eurostat.
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

50

25

5 1921 1927 1933 1939 1945 1951 1957 1963 1969 1975 1981 1987 1993 1999 2005 2011 2017
31

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ALLA RICERCA
LOTTE

DEI CONFLITTI
INASPETTATI
Come si fa opposizione sociale
a un governo populista?
Sono in crisi le forme tradizionali
ma il paese senza sinistra
non è pacificato.
E il movimento delle donne
rilancia in forma inedita una
vecchia conoscenza: lo sciopero

«I
nsomma, c’erano anche da noi tutte le cause della Rivoluzione
francese. Solo che non eravamo in Francia, e la Rivoluzione non
ci fu. Viviamo in un paese dove si verificano sempre le cause e non
gli effetti». Questo passaggio fulminante di Italo Calvino, ne Il Ba-
rone rampante, è stato spesso tirato in ballo per descrivere l’Italia
Salvatore Cannavò degli ultimi anni, apparentemente incapace di produrre le mobi-
Lorenzo Zamponi litazioni di massa che invece abbiamo visto riempire le piazze di
Madrid, Atene o Parigi.
Eppure l’idea di un paese pacificato e addormentato è contraddetta non solo dalla ri-
cerca sociologica, che segnala nel decennio della crisi un numero di episodi di protesta
INVERNO 2018/19

pari se non superiore a quello di altri paesi, ma anche dalla quotidianità politica: il voto
del 4 marzo mostra una rabbia anti-sistema e un desiderio di cambiamento innegabili,
contraddicendo l’apparente calma piatta. A
essere in crisi, più che il bisogno di parteci-
pazione, sembrano le forme tradizionali del Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto
conflitto sociale e il loro rapporto con la rap-
N. 1

quotidiano e direttore editoriale di Edizioni


presentanza politica. Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo
(Alegre).
Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia,
si occupa di movimenti sociali
e partecipazione politica.
32

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Illustrazioni di

VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA


33

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Movimenti, senza sinistra

«Oggi indosso una maglietta di un posto vicino a Milano, dove gli operai della Rimaflow
hanno provato a reinventarsi il lavoro. Quando l’azienda ha chiuso, ne ha lasciati a casa
trecento. Sono venuti da noi preti e ci hanno detto: non possiamo venire tutti da voi a
chiedere di darci una mano per arrivare a fine mese, dobbiamo inventarcelo il lavoro. E
allora la politica seria, là dove si tenta di inventarselo il lavoro, ci deve essere, ci deve stare,
deve accompagnarli quei progetti». In queste parole pronunciate il 30 settembre 2018 da
un prete di strada, don Massimo Mapelli, della Caritas di Milano sul palco della manife-
stazione nazionale del Partito democratico c’è tutta la sintesi di una fase storica. Un par-
tito che si è fatto governo per più di vent’anni e per questo è stato travolto dalle urne il 4
marzo 2018. Un tema, il lavoro, scomparso dalla sua agenda politica. Una necessità, rein-
ventarsi un’attività al tempo della globalizzazione e delle delocaliz-
zazioni, perché la ex Maflow che produceva componenti per auto a
ALLA MANCANZA Trezzano sul Naviglio, in Lombardia, se ne è andata nel 2009 in Polo-
DI SBOCCHI ISTITUZIONALI nia lasciando i lavoratori in mezzo alla strada. E c’è la Chiesa, trami-
NON CORRISPONDE te la Caritas diocesana, che mai come nell’ultimo decennio ha svol-
PER FORZA MAGGIORE to un ruolo sociale, di supporto e riferimento anche alle lotte sociali,
VIVACITÀ DI PIAZZA. essendosi spezzato un rapporto storico tra movimenti sociali e poli-
AL CONTRARIO, SI RISCHIA tica. La Caritas che parla, in forma quasi surreale, alla manifestazio-
LA SPOLITICIZZAZIONE ne a cui partecipano figure come Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, ex
presidenti del consiglio, citando temi sociali di frontiera e alluden-
do a una cesura che costituisce uno dei nodi del paese senza sinistra.
Maurizio Landini, una vita in prima fila nella Fiom e ora possibile segretario della Cgil, in-
vita ad adoperare uno sguardo più ampio. «Non credo che le persone che vivono di lavoro si
sentano rassegnate o demoralizzate. Questi sono sentimenti più propri dei militanti politici
e degli intellettuali, che hanno tutti i motivi per esserlo, guardandosi intorno e pensando alla
deriva politico-culturale che sta attraversando quelle che un tempo si chiamavano demo-
crazie occidentali e che oggi sembrano avvolte da pericolose spirali nazionaliste e xenofo-
be». I lavoratori sono soprattutto “preoccupati” se non impauriti. Prevalgono l’impotenza e
la solitudine. E va in crisi la politica: «Dagli anni Ottanta l’economia e le sue istituzioni inter-
nazionali hanno contato sempre di più mentre la politica e le sue istituzioni nazionali han-
no dovuto adeguarsi ai vincoli sempre più stretti delle leggi di mercato». «In questo passag-
gio, la sinistra ha preparato la propria crisi».
Difficile dunque, per Landini, dare al termi-
ne sinistra «un significato preciso, almeno
nel nostro paese» anche perché se sinistra
«è chi cancella l’articolo 18…».
INVERNO 2018/19

Settori come quello della logistica han-


no visto negli ultimi anni lotte durissime:
«Il bilancio è a macchia di leopardo, ci sono
realtà, come quella dei corrieri, in cui sia-
N. 1
34

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mo riusciti a ottenere grandi avanzamenti nelle condizioni dei lavoratori, mentre in altre,
come nei casi di molti magazzini della grande distribuzione, ci sono ancora situazioni di ca-
poralato spaventose, che continuiamo a denunciare» spiega Gianni Boetto dell’Adl Cobas.
Un settore centrale nei processi di ricomposizione di classe, anche e soprattutto per la sua
composizione in gran parte migrante, come del resto avviene per le battaglie contro il ca-
poralato in agricoltura: «Abbiamo la necessità – segnala Boetto – di far capire che il nemico
non è l’immigrato, questa è l’arma di distrazione di massa. Lo sforzo che facciamo è anche
di natura culturale. Il piano istituzionale ormai mi pare devastato completamente. L’unica
possibilità di creare un’inversione di tendenza è legata a quello che si produce dal basso in
termini ricompositivi, pur sapendo che oggi è un’opzione molto minoritaria».
A mancare, quindi, più che le mobilitazioni, sembra essere la loro forza politica generale.
In una società che si spoliticizza, il rischio è che anche i movimenti si rinchiudano in una lo-
gica single-issue, debole e facilmente cooptabile. Un contesto ben diverso da quello del 2003,
quando il movimento altermondialista, o “no global” veniva definito dal New York Times «la
seconda potenza mondiale». Secondo Marco Bersani, di Attac Italia, associazione nata pro-
prio nel vivo del movimento no global e che ha avuto sempre una dimensione sovranaziona-
le, «il movimento ha imboccato la strada discendente proprio nel 2003 in seguito alla guerra
contro l’Iraq. In quella fase ci siamo chiamati addirittura “Fermiamo la guerra”, ma se poi la
guerra non la fermi, allora è il movimento ad andare in crisi». È la sconfitta della mobilitazio-
ne che provoca la rarefazione e la disintegrazione della loro forza politica.
Un destino non molto diverso è tocca-
to alla successiva ondata di mobilitazione, ripubblicizzazione del servizio idrico, è stata una mazzata».
quella anti-austerità, tra il 2008 e il 2011, «Che facciamo adesso – continua De Marzo – un altro refe-
con le piazze studentesche, le battaglie del- rendum o un’altra raccolta firme dopo che abbiamo con-
la Fiom e il movimento per l’acqua bene co- vinto la maggioranza del paese sulla necessità di rimettere
mune. Il 15 ottobre 2011 un corteo gigan- al centro i beni comuni e la giustizia ambientale e sociale e
tesco riempiva le strade di Roma. Un mese nonostante la vittoria non è cambiato nulla?».
dopo, il governo Monti si insediava nel si-
lenzio generale. Giuseppe De Marzo, coor- Fare società per ricostruire la politica
dinatore della Rete dei Numeri Pari, cam-
pagna contro le disuguaglianze lanciata La sconfitta dei movimenti nella loro capacità di inci-
dall’associazione Libera, ricorda il decenna- dere direttamente sulla politica, e la contemporanea crisi
le lavoro sui beni comuni, che «ha trovato il della sinistra lasciano un vuoto che preoccupa. La parte-
suo apice nella straordinaria mobilitazione cipazione non si fa con i vasi comunicanti, e non è det-
della campagna referendaria del 2011 per il to che alla mancanza di sbocchi istituzionali corrispon-
diritto all’acqua e contro il nucleare». E al- da una maggiore vivacità in piazza. Anzi, il rischio è una
lora, aggiunge, «la demoralizzazione forse spoliticizzazione della società intera, movimenti compre-
inizia proprio quando la grande vittoria dei si. Nessuno, tra le forze sociali, è indifferente alla necessi-
movimenti nella stagione referendaria viene tà di ricostruire strumenti di azione politica. Ma nessuno,
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

tradita dalla politica. Non dare seguito alla d’altra parte, si fa illusioni su scorciatoie rispetto a un lun-
volontà di 27 milioni di cittadini/e, ignorare go lavoro sociale.
le sentenze della Corte Costituzionale sulla «La scomparsa di una rappresentanza politica del la-
voro non libera le energie delle persone, semmai le lascia
più sole» dice Landini. Per ricostruirla, però, «non servono
operazioni di assemblaggio di ciò che già esiste in forme
frantumate, né si produce a tavolino». Bisogna relazionar
relazionar-
si alle persone in carne e ossa. Un lavoro di ricomposizio
ricomposizio-
ne che si gioca sul terreno sociale, provando a tenere in in-
sieme «il giovane precario, la partita Iva col lavoratore a
35

32_38_Conflitti.indd 35 26/10/18 20:55


tempo indeterminato, il lavoratore con un salario sotto
la soglia della povertà e il tecnico il cui salario varia sem-
pre più a seconda degli andamenti aziendali, l’immigrato
schiavo dei caporali con il dipendente delle ditte di subap-
palto». Insomma, una prospettiva che guarda direttamen-
te al sindacato la cui guida Landini potrebbe assumere.
Ma che punta anche a «ridare un senso chiaro all’agire
collettivo, ricostruire la fiducia che solo agire in coalizione
può migliorare la propria condizione materiale».
Le esperienze mutualistiche nate negli anni della crisi
partono proprio da questo assunto: l’idea che, nell’epoca
dell’isolamento e dell’abbandono, sia inutile cimentarsi
con la politica se non si sono prima costruiti i presuppo-
sti prepolitici per la partecipazione, cioè i legami socia-
li, le appartenenze solidali, il riconoscimento reciproco
in un destino comune. Ricostruire in basso, per cambia-
re in alto. Su questa cesura un ex militante della sinistra
radicale, fondatore dello Slai Cobas all’Alfa Romeo ne-
gli anni Ottanta, poi senatore di Rifondazione comunista
e attivo nel movimento antiglobalizzazione, ha costruito
una nuova vita politica. Gigi Malabarba, infatti, si è unito
agli ex operai della Maflow:: «Siamo partiti dalla soddisfa-
zione di un bisogno fondamentale, individuale e colletti-
vo, ricreando, sia pure parzialmente, nuovi posti di lavoro,
per poi passare a costruire comunità anche con la forma-
zione di una rete di economia solidale e alternativa attor-
no alla produzione e distribuzione di prodotti alimenta-
ri». Malabarba parte dalla considerazione che «la fine del
movimento operaio del Novecento ha lasciato un vuoto su Riflessioni simili arrivano da Alber-
cui i padroni del mondo hanno potuto affermare il pen- to Campailla, tra gli animatori di Nonna
siero unico liberista». «Pensare di ricostruire quel mondo Roma, associazione mutualistica nata da
è illusorio» continua Malabarba, «occorre creare embrio- un’iniziativa di Arci e Cgil nel V Municipio di
ni di “contro-società”, e alle forme di economia alternati- Roma, uno tra i più poveri della città. «Ab-
va “fuori mercato” combinare una teoria e una strategia di biamo deciso di rivolgerci agli ultimi – spie-
“poder popular”». ga Campailla – uscendo della dinamica as-
sistenziale che spesso caratterizza queste
iniziative, per creare invece processi di politicizzazione e attivazione. Siamo partiti dall’e-
sperienza meno tipica per la sinistra, quella della distribuzione alimentare. Poi gli sportelli
INVERNO 2018/19

legali, i picchetti antisfratto. Quest’estate abbiamo organizzato un cinema all’aperto, perché


non è vero che a chi ha fame basta il pane». La scelta del mutualismo richiede di mettere in
discussione appartenenza e identità politiche e di misurarsi in nuovi collettivi: «Non ci con-
cepiamo come volontari che aiutano altri – continua Campailla – ma come un’associazio-
ne di autorganizzazione. Della nostra associazione sono soci allo stesso modo sia i volontari
sia le persone che aiutiamo, e abbiamo fatto assemblee tutti insieme. Alcuni hanno iniziato
N. 1

a venire ai picchetti, contribuiscono a tenere il magazzino. Di queste esperienze c’è un gran


bisogno, nella crisi delle organizzazioni classiche, per tornare a ripoliticizzare, all’interno di
processi di partecipazione. C’è un bisogno enorme di alfabetizzazione democratica».
La scelta dell’azione sociale diretta caratterizza anche Mediterranea, l’operazione che
ha fatto salpare una nave da Augusta ai primi di ottobre, su iniziativa di alcuni centri so-
36

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ciali, dell’Arci e di Sea Watch, per riprendere l’opera di salvataggio in mare dei profughi.
Ancora una volta, nella crisi della rappresentanza e della partecipazione politica, si sce-
glie il fare da sé solidale: «È strano per noi essere impegnati in un’azione umanitaria –
spiega Giulia Sezzi, giovane attivista del centro sociale bolognese Làbas – che segue una
logica che molto spesso abbiamo contestato. Ma quando l’atto umanitario viene nega-
to politicamente, diventa un atto politico. Quando viene negato il diritto alla vita, per noi
provare a riaffermarlo è un elemento di lotta politica». Il tentativo, anche qui, è quello
di mettere in discussione identità stantie e costruire una nuova soggettività ibrida: «Noi
non vogliamo diventare una Ong, ma sbaglia Salvini a incasellarci come “i centri sociali”:
la nostra è una composizione ibrida della società civile che sceglie di riaffermare il diritto
alla vita negato» chiarisce Sezzi. Il rischio di fare il gioco della Lega, scegliendo come ter-
reno dello scontro proprio il tema dell’immigrazione, è evidente, ma la risposta non può
essere l’inazione: «Ci abbiamo riflettuto molto – ammette Sezzi – e siamo consapevoli
del rischio. Ma abbiamo deciso di fare un azzardo e andare a sfidare Salvini nella tana del
lupo. Proprio perché lui ha consenso su questi temi, va sfidato. La nostra azione ha l’o-
biettivo proprio di spostare il consenso». Fare, direttamente, senza mediazione politica,
sembra diventare la regola. Ma senza l’illusione dell’autosufficienza: «I nostri sono pre-
sidi democratici – aggiunge Campailla – soprattutto in certe aree delle grandi città. Ma
siamo consapevoli che non bastiamo. Anche se ci fossero 150 realtà come la nostra, non
arriverebbero mai a tutti. La necessità della politica come terreno della discussione pub-
blica rimane centrale».
gazze che consegnano pasti e domicilio per piattaforme
Generalizzare la lotta come Foodora, Deliveroo e Justeat) che sono nati negli ul-
timi due anni in giro per l’Italia. Una vertenza che è arri-
Ricostruire dal basso i legami sociali vata al ministero grazie alla sua portata simbolica, secon-
come presupposto di una nuova politiciz- do il rider Nicola Quondamatteo: «Siamo riusciti a creare
zazione, quindi, non significa sottrarsi allo un po’ di senso comune sul tema della precarietà, forse
scontro quotidiano del dibattito politico. perché la nostra è una condizione estrema, ma credo an-
Scontro che, nell’Italia senza sinistra, vede che che ci sono nervi scoperti, dal cottimo alla sicurez-
come protagonisti il “governo del cambia- za, in cui molte persone si identificano. Siamo riusciti a
mento” di Di Maio e Salvini, e l’opposizione creare empatia intorno a una condizione che parlava del-
liberista del Pd, schierata in difesa dei vin- la vita di molti». Il negoziato col governo, dopo un inizio
coli di bilancio. Qual è l’alternativa? Come promettente si è spostato su binari meno ambiziosi, ma è
si fa opposizione sociale a un governo po- un segnale soprattutto per i movimenti e per il sindacato:
pulista? Ci sono contraddizioni in grado di «C’è attenzione a questi temi – spiega Quondamatteo –
far saltare la delega in bianco che milioni di Confusa, contraddittoria, ma c’è. Si può rovesciare la nar-
italiani hanno dato al Movimento 5 Stelle? razione dominante ma non possono farlo i rider da soli.
La prima delegazione che il neoministro Va ricostruita una mobilitazione del lavoro, e serve il sin-
dello sviluppo economico Luigi Di Maio ha dacato. Al tavolo la Cgil ha dimostrato apertura, ma ser-
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

voluto incontrare, appena insediato, è sta- ve a poco se non diventa pratica capillare nei territori. La
ta quella di Riders Union Bologna, uno dei sfida è quella». Generalizzare la lotta per non essere co-
collettivi di ciclofattorini (i ragazzi e le ra- optati, dicono i rider, per non essere assorbiti nella narra-
zione grillina. Sullo stesso piano gli archeologi, antropo-
logi, archivisti, bibliotecari della campagna Mi riconosci?
Sono un professionista dei beni culturali, scesi in piaz-
za il 6 ottobre a Roma col mondo della cultura, dell’arte
e dello spettacolo: «Primo obiettivo – spiega l’archeologo
Andrea Incorvaia – è la fine del lavoro gratuito. Sfidiamo
il governo a realizzare il cambiamento che promette». A
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capitalizzare i conflitti dell’ultimo decennio, in termini elettorali, è stato soprattutto il
Movimento 5 Stelle. «L’abbiamo visto – racconta Giacomo Cossu, coordinatore naziona naziona-
le della Rete della Conoscenza, sindacato studentesco – dopo la formazione del gover-
no. Ci siamo trovati di fronte a dissensi nei nostri confronti di molti studenti. Rispondia
Rispondia-
mo partendo da proposte concrete, e da un confronto col governo che faccia emergere
contraddizione tra una retorica centrata sulla lotta alla precarietà e il riscatto di una
la contr
generazione, e una realtà che non offre risposte». Bisogna attendere la fine della luna di
mobilita-
miele tra popolo e governo? «Arriverà solo grazie al conflitto. Senza una forte mobilita
zione – risponde Cossu – i consensi aumenteranno. C’è il rischio di essere schiacciati su
una frattura imposta dall’alto, tra italiani e stranieri, abbiamo bisogno di incalzare il go-
go
verno sul piano dei diritti sociali e materiali. Su questa frattura possiamo costruire un
processo di mobilitazione che incida anche sulla questione del razzismo, cambiando il
senso comune, costruendo il riconoscimento tra chi vive condizio-
ni simili». Accanto ai migranti c’è Como Senza Frontiere, oggetto un
IL MOVIMENTO 5 STELLE anno fa di un’aggressione fascista: «Il clima è difficile, non ci sono
HA CAPITALIZZATO spazi di collaborazione – spiega Annamaria Francescato –, la società
IN TERMINI ELETTORALI è parcellizzata. Di migranti si parla anche troppo, senza informarsi,
I CONFLITTI DELL’ULTIMO rischiando di rafforzare chi è contrario. Cerchiamo di ascoltare e ri-
DECENNIO. SI RIPARTE spondere ai problemi della gente in modo che i fatti dimostrino che
DALLE CONTRADDIZIONI colpendo loro la situazione non migliora. I diritti o sono di tutti o di-
TRA PROMESSE E REALTÀ ventano privilegi. Già a partire dal decreto Minniti si andava oltre la
lotta ai migranti attaccando i poveri, bianchi e neri».
Tatiana Montella, di Non una di meno, movimento femminista
che dal 2016 ha assunto una dimensione mondiale anche con la capacità di costruire
scioperi nella giornata dell’8 marzo, porta in questa discussione uno sguardo positivo:
«Oggi possiamo agire sulla base di un movimento nuovo, un soggetto protagonista della
fase politica a livello globale che rompe con il femminismo degli ultimi decenni e che in in-
orientamen-
teragisce con soggettività diverse, con la razzializzazione della classe, con gli orientamen
ti sessuali, con una visione anticapitalista. E quindi propone un terreno favorevole di ri- ri
composizione di classe». Non una di meno costituisce una controtendenza rispetto alla
fase di stagnazione che vivono gli altri movimenti sociali. «Lo sciopero – aggiunge Mon Mon-
tella – è un processo interessante di elaborazione e partecipazione e costituisce una for for-
ma di politicizzazione e soggettivazione». Il movimento delle donne, quindi, come luogo
già avanzato dei processi di soggettivazione politica, luogo in cui tentare «un processo di
ricomposizione» perché, come accaduto in Spagna o in Argentina, «le donne sono state in
grado di rappresentare una parzialità che parla al tutto».
La strada non sembra semplice, ma alcune idee sono individuate: il mutualismo come
strumento di conflittualità e costruzione della solidarietà; l’intersezionalità tra genere,
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“razza” e classe come terreno innovativo e riunificante; l’idea dell’agire collettivo, la ne-
cessità di ricostruire una visione del mondo. La strada che i movimenti sociali, sindacali
e associativi devono percorrere per uscire dalla palude di un “paese senza sinistra” è lun-
ga, ma l’Italia del 2018 è tutt’altro che un paese pacificato e ipnotizzato dagli stregoni del
consenso al governo.
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Un esempio

EXTRA
da non imitare
L’Italia è un laboratorio che ha anticipato fenomeni di
trasformazione politica che vediamo in tutto l’Occidente.
Per superare la palude c’è bisogno di oltrepassare la
controrivoluzione culturale iniziata negli anni Novanta

L’
Italia sarebbe sempre stata così. Un paese dove la disfunzionalità
dello stato alimenta una diffusa cultura fascistoide. Un paese dove
la demagogia, fin ai tempi di Cesare, ha sempre ingannato le mas-
se, gli “analfabeti funzionali”.
Idee del genere riflettono un senso comune sempre più visibile
nei ranghi del centrosinistra italiano. La stessa nozione di progres-
David Broder so sociale cede a un pessimismo culturale secondo cui il nemico
sono gli italiani stessi: “loro”, la destra, sono l’Italia.
Ma può darsi che la parola d’ordine “più Europa” non sia la soluzione di ogni male. E
pensando all’estrema destra in Germania (dove l’Alternative für Deutschland ha sorpas-
sato il partito di centrosinistra più vecchio al mondo, l’Spd) o alla famosa Svezia social-
democratica (dove un partito di matrice neonazista ha preso
il 17,5% nel voto del 9 settembre), si potrebbe dubitare che il
problema risieda nell’humus culturale italiano. David Broder è uno
Nel contesto attuale l’Italia più che un caso a parte è un pre- storico e traduttore
cursore dei disastri che si diffondono pressoché ovunque. Il disa- inglese. È il redattore
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

gio italiano incarna un processo generale e di lunga durata, che europeo di Jacobin
non è riconducibile a difetti specificamente italiani né solo agli Usa.
effetti della crisi del 2008.
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Particolarità

Questo paese senza sinistra può sembrare un’anomalia. Ma in tutto l’Occidente si pro-
fila una profonda trasformazione politica. La crisi dell’organizzazione e dell’identità di
classe è accompagnata da un senso sempre più invasivo di atomizzazione, di decadenza
culturale e di crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni. Sì, quelle italiane fanno
schifo. Ma riflettono anche uno specifico contesto storico e dei rapporti di forza nuovi.
L’Italia ha anticipato lo sbandamento generale perché aveva vissuto il crollo delle
forme politiche tradizionali già nei primi anni Novanta. Lo scioglimento del più grande
partito comunista dell’Occidente nel 1991 e poi quello della Democrazia Cristiana, la
discesa in campo di Silvio Berlusconi e la difficile integrazione europea hanno prepara-
to le condizioni per la crisi odierna.
Da allora gli italiani hanno visto l’ascesa di una serie di effimere forze politiche che
hanno sfruttato e accelerato il venir meno dei partiti di massa. Dal marketing di Berlu-
sconi all’utilizzo dei referendum online, la vita politica ha sempre più una partecipazio-
ne “estetica” mentre è sostanzialmente eterodiretta dall’alto, o nel caso del Movimento
5 Stelle da un’azienda privata. Ormai sono i leader a proclamarsi interpreti della volontà
popolare, rottamando non solo l’establishment ma le stesse strutture democratiche.
Allo stesso tempo, si indeboliscono le altre forme di partecipazione politica; non solo
le sezioni di partito o le ormai-dimenticate “scuole politiche” ma anche i sindacati e le
cooperative. Non è un caso che il 53% degli iscritti del sindacato più grande italiano, la
Cgil, sia costituito da pensionati.
Ma se l’Italia è un esempio estremo o precoce, non è un caso a parte. Anzi è proprio
il ruolo internazionale dell’Italia, alla periferia dei paesi centrali, che le fa riflettere come
uno specchio le contraddizioni più generali. E non è la prima volta nella storia che accade.
Al limite dell’Occidente durante la guerra fredda, la politica interna della Repubblica
nata nel 1946 rimaneva fortemente inquadrata dalla logica del conflitto. La conventio ad
excludendum anti-comunista alimentava l’egemonia democristiana e minava le aspira- aspira
zioni del Pci di staccarsi da Mosca. Ma allo stesso tempo la situazione bloccata riman riman-
dava all’avvenire le contraddizioni tre le diverse anime di questo partito.
Nel 1991 fu il crollo dell’Urss a far esplodere le contraddizioni del Pci e di quella
Repubblica, dando luogo alla cosiddetta Seconda Repubblica basata sul nuovo ordine
europeo. Oggi, la fine dell’età d’oro dell’Unione europea fa sì che anche i contenitori po po-
litici italiani degli anni Novanta e Duemila si esauriscano, trovandosi in una crisi simile
a quella dei vecchi partiti alla fine della guerra fredda.
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Spezzati

La struttura dei partiti di sinistra (e non solo quelli più grandi) del Novecento espri-
meva e riproduceva un mondo oramai capovolto: una pedagogia paternalistica, una di-
sciplina gerarchica e forme di inquadramento radicate in una forte divisione del lavoro
tra leader-intellettuali e base. Ma allo stesso tempo ha creato fitte reti di partecipazione,
di ascesa sociale e di acculturamento di massa. Questi partiti promettevano (e rimaneva
una promessa) un futuro di benessere già preparato nelle vittorie parziali del presente.
Ma dentro questo involucro c’erano anche i germi di futuri disastri. Dagli anni Settanta
in poi il declino del movimento sindacale, la distruzione del comunismo di stato, e l’in-
debolimento dei controlli sul capitale nell’epoca della globalizzazione, hanno distrutto i
legami tra sinistra, organizzazioni di massa e l’idea stessa della possibile riorganizzazio-
ne della società su altre basi. Si è ristretta non solo l’ambizione della
maggior parte degli ex-leader comunisti diventati socialdemocratici
o liberali ma spesso anche quella di una sinistra radicale sempre più IL FALLIMENTO
frammentata e minoritaria. DELL’OPPOSIZIONE
Allo stesso tempo, “esempi” stranieri come quello del partito AL POPULISMO
New Labour inglese hanno assunto una forma anche più violenta È UNA LEZIONE: NON SI
quando sono stati calati nel contesto italiano. Se il leader laburista COMBATTONO I NUOVI
Tony Blair rivendicava la “modernizzazione” del suo partito (la cre- MOSTRI DIFENDENDO
scita della spesa pubblica, ma anche politiche del lavoro basate sul- LO STATUS QUO
la concorrenza, la deregolamentazione dei centri finanziari, l’intro-
duzione di dispositivi sempre più punitivi nel sistema del welfare)
il centrosinistra italiano ha fatto tutto questo tranne che aumentare la spesa pubblica.
La lunga stagnazione italiana abbinata alla distruzione voluta dell’identità operaia
e comunista ha prodotto il partito di “centrosinistra” più elitario e destrorso d’Europa.
Se l’ex segretario del Pd Matteo Renzi o l’ex-ministro dell’economia Carlo Calenda si
immaginano come l’equivalente italiano del presidente francese Emmanuel Macron,
il Pd stesso è stato il precursore del centrismo europeista ormai proclamato dal prés-
ident eletto nel 2017 nonché dalla destra del partito laburista inglese, abbandonando
ogni volontà di difendere gli interessi di chi guadagna cinque euro l’ora per arroccarsi
sulle posizioni dei più “responsabili” e pro austerity.

Debolezza

Gli applausi ai funerali per le vittime del crollo del ponte Morandi di Genova, il bagno
di folla per Salvini a Viterbo, i paesini del Sud dove quelli che una volta erano definiti
“terroni” adesso votano Lega… Ogni notizia, ogni sondaggio nelle ultime settimane di di-
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mostra la crescente egemonia di una destra più forte che mai, la distruzione non solo
delle vecchie regioni rosse ex-comuniste ma anche di quelle bianche cattoliche. Se al
momento di diventare il capo della Lega nel 2014 Salvini si vantava di essere allievo di
Marine Le Pen, ormai è la leader dell’estrema destra francese che vuole imitare l’exploit
del ministro dell’interno italiano.
Non è stato tanto il sorpasso della Lega, quanto il berlusconismo degli anni Novan-
ta, a dare il passo per le trasformazioni attuali del (centro)destra europeo e statunitense.
L’esperienza dell’antiberlusconismo italiano, e il fallimento del tentativo di combattere il
“populismo” subordinando la sinistra alla “difesa delle istituzioni”, offre una brutta lezio-
ne alla “resistenza” clintoniana negli Stati uniti o a chiunque pensa di far saltare la Brexit.
Non si può combattere i nuovi mostri difendendo lo status quo che ha già perso ogni
capacità di offrire una promessa per l’avvenire.
La situazione odierna si deve agli stessi processi che hanno marcato il destino non
solo dei disastrosi progetti di centrosinistra ma anche di gran parte dei movimenti di im-
pronta radicale. Il laboratorio italiano produce risultati così devastanti proprio perché
la frammentazione è il contrario della solidarietà e della fiducia nel riscatto collettivo.
Dopo trent’anni di crisi, in cui vengono meno le esperienze concrete di vittoria con la
lotta, l’idea stessa che sia possibile uscire dall’impasse e cambiare la società sta sparendo
dall’immaginario collettivo.
La lunga marcia per superare l’attuale palude parte dal bisogno di oltrepassare questa
enorme controrivoluzione culturale.

Il troll dell’avvenir

In altri parti del continente vediamo processi simili, soprattutto il crollo dei partiti sto-
rici e l’ascesa di nuove forze oscure. Ma queste tendenze non si sono consumate ovunque
nello stesso modo. In Inghilterra, in Francia, in Spagna, e non solo, ci sono nuovi movi-
menti che organizzano centinaia di migliaia di persone per combattere il clima reaziona-
rio che si sviluppa anche in questi paesi.
Queste esperienze hanno molti limiti; in tutti questi casi, la centralità del leader ri-
flette la debolezza di altre forme di lotta. E non esistono modelli da imitare ciecamente.
Chi si proclama versione italiana del segretario laburista Jeremy Corbyn o del movimen-
to Podemos in Spagna dimostra non solo incomprensione ma anche subalternità cul-
turale. Anzi vanno riconnesse le tradizioni storiche e le realtà di questo paese, ricono-
scendo i suoi orrori ma anche le piccole scintille di speranza, di solidarietà, di orgoglio.
La storia è un troll: non obbedisce mai a schemi prefissati, non c’è nessuna condanna
senza appello. Le cose che consideriamo eterne o naturali si rivelano sempre effimere. La
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crisi che subiamo, l’assenza di solidarietà e il cinismo di un paese dove le cose non fun-
zionano, possono sembrare insuperabili. Chi può dire che l’egemonia leghista non durerà
dieci anni, un ventennio? Ma un bel giorno, finirà. Non sarà il “sol dell’avvenire” a portarci
il riscatto, ma i nostri stessi sforzi, le nostre stesse lotte, le nostre stesse idee.
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Si scrive popolo,

EXTRA
si legge nazione
Il modello della democrazia sovrana nasce in Russia,
sotto le macerie del collasso sovietico. Un mix di
nazionalismo, pensiero reazionario, neoliberalismo.
Dove chi dissente è un traditore della patria

M
a in fin dei conti a chi interessava davvero cosa pensassero i russi,
fra le macerie ancora fumanti dell’implosione sovietica? Il vincito-
re nutre poca curiosità per il perdente: fra i cantori della “fine della
Storia” e gli accigliati ammonitori dell’eterno ritorno della geopo-
litica, le idee che hanno catturato l’immaginario delle élite russe
sono state a lungo considerate irrilevanti.
Francesco Strazzari E così, in un mondo umiliato e con le spalle al muro, l’idea di
“democrazia sovrana” – che nel 2006 venne tirata fuori dal cap-
pello dell’ideologo del Cremlino Vladislav Surkov, già a capo delle comunicazioni del
magnate Mikhail Khodorkovski, poi imprigionato – apparve agli osservatori esterni
come poco più che l’ennesima operazione di propaganda dal
fiato corto: la gestione mediatica di un regime politico ormai
in piena involuzione. La fama di Surkov come grande burat- Francesco Strazzari è
tinaio dell’era Putin, frequentatore dell’intellighenzia, della professore associato di
filosofia occidentale e della rap music, autore sotto pseudo- Relazioni internazionali
nimo di un romanzo autobiografico sull’amoralità del potere, alla Scuola Superiore
nonché autoproclamato direttore artistico di ideologie prêt- Sant’Anna di Pisa,
à-porter, si proiettò sul suo artefatto concettuale, la demo- Senior Researcher
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

crazia sovrana: l’idea che non esista sistema democratico che al Consortium for
non sia managed, che non esista stato fuori dal governo che Research on Terrorism
lo gestisce, e che la libertà non gestita si riveli veleno per il and International Crime
popolo e per lo stato. Eppure, la performance politica di que- del Norwegian Institute
sto stretto collaboratore di Putin (poi approdato al ruolo di of International Affairs
“architetto del Donbass” separatista) rivela molto di come la di Oslo. Con Marina
Russia sovranista, la “democrazia gestita” dove acquistano Calculli ha scritto
visibilità i rosso-bruni, abbia perseguito una propria distinta Terrore Sovrano,
collocazione nella modernità, con un programma certamente Stato e Jihad nell’era
alternativo a quello dell’Unione europea. postliberale (il Mulino).
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Se l’Unione europea vide nella fine della guerra fredda la nascita di un nuovo ordine
post-sovrano, caratterizzato da interdipendenza, dinamiche transnazionali ed espan-
sione di aree di governance sovranazionale, la Russia vi vede un ritorno all’ordine pre-
cedente al bipolarismo: un ordine basato sull’equilibrio di potenza e sul concerto delle
potenze, popolato da stati-nazione capaci di alleanze tattiche ma vincolati dal principio
di non ingerenza negli affari interni. Cresciuta sulle macerie del nazionalismo armato
che porta ai massacri del ventesimo secolo, l’Europa si è rappresentata a lungo come
progetto liberale e kantiano di graduale trascendenza dei confini nazionali e obsole-
scenza della forza: un sistema complesso di mutua interferenza che promuove interdi-
pendenza, e in cui la sovranità nazionale appare per quello che è: una forma di ipocrisia
organizzata, per dirla con Stephen Krasner, che viene smontata, condivisa e partecipata
(il parlamento europeo). Insomma, una potenza civile e trasformativa delle relazioni
internazionali, in cui la sicurezza dovrebbe fondarsi su apertura e trasparenza.
Il ritorno a una Russia assertiva nelle aree di vicinato (Caucaso, Balcani, Mar Nero,
Medio Oriente e oggi Africa) ha significato una sfida per l’ordine europeo, con Mosca
(e oggi anche Washington) che agisce d’intesa con le forze sovraniste nei diversi pae-
si, in vista della ri-nazionalizzazione delle politiche europee in diversi settori cruciali.
Nella concezione putiniana, la sovranità non è fondata sull’astrazione del diritto, ma
sulla capacità dello stato. È nutrita di forza militare e indipendenza economica, poggia
sull’identità culturale ed è rafforzata dalla tradizione, in sintonia
con l’autorità religiosa. Le sue radici intellettuali non possono es-
LA FINE DEL BIPOLARISMO sere definite autoctone: ispirati dal pensiero neo-conservatore oc-
E DELLA GUERRA cidentale (non da ultimo il “modello Singapore”), influenti ideologi
FREDDA PER LA RUSSIA quali Andranik Migranyan e Igor Klyamkin già a fine anni Ottanta
RAPPRESENTA IL RITORNO consigliavano di tenere salde le redini della transizione di mercato
AL PASSATO: EQUILIBRIO mantenendo quote di controllo autoritario nelle mani dell’esecu-
DI POTENZE, ALLEANZE tivo. Sconfitte dai riformisti radicali, queste tesi ritornarono nella
TATTICHE, SFIDA ALL’UE seconda parte dell’era eltsiniana, fra il bombardamento del par-
lamento e quello della Cecenia, quando l’invocazione dell’uomo
forte preparò all’ascesa di Putin. Nel lievito del pensiero sovranista
varato da Surkov (nato in Cecenia sotto lo scomodo nome di Aslambek Dudaev, poi
cancellato dalla storia, al pari del villaggio natio) si rintracciano espliciti prestiti intel-
lettuali conservatori che spaziano dall’anti-pluralismo decisionista di Carl Schmitt, il
filosofo del diritto che elaborò alcuni concetti prestati al nazismo, alla vena anti-popu-
lista di François Guizot, uomo forte del regime orleanista, ispiratore del primato della
borghesia, aspramente criticato da Marx e Engels.

Una sola parola per dire popolo e nazione


INVERNO 2018/19

Il sovranismo putiniano non pensa in termini di diritti dei cittadini – pietra d’ango-
lo del pensiero liberal-democratico – ma piuttosto di «bisogni della popolazione». A
seconda del contesto il termine (proto-)slavo narod esprime sia il concetto di popolo
che quello di nazione (e, all’occasione, anche gente, folla, ceto contadino e così via). La
stessa idea di nazione arriva alle lande dell’Europa orientale come prodotto esportato
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dalla Francia rivoluzionaria ma filtrato dal romanticismo tedesco, che profetizza il «ri-
sveglio degli slavi». Su questa eco profonda e ambigua, prende corpo nella Russia con-
temporanea una narrazione di ritorno all’ordine dopo il caos tutta centrata su stabilità
e sicurezza necessarie per il popolo/nazione. Si tratta di una tradizione inventata, co-
munque fondata su una memoria selettiva. Come che sia, riguarda la fine dell’abbrac-
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cio di valori universali, che viene dipinto corrispondente alla convulsioni politiche di
20-30 anni fa: catastrofe sociale, degrado morale, fine della sovranità.
Ne emerge un modello conservatore plebiscitario (anti-politico e anti-democratico)
di auto-legittimazione, di cui è illustrazione plastica il nazionalismo promosso in Russia
dopo l’annessione della Crimea: un revival della Russia storica da un lato, e la crescente
sfiducia dei cittadini circa istituzioni ritenute sempre più inefficaci e corrotte dall’altro.
Non manca l’enfasi sulla sovranità come forma di vera libertà contro le imposizioni nor-
mative occidentali che promanano dall’arena internazionale. Il tema è un lemma del pen-
siero conservatore: priorità del rito storico sulla legge astratta, necessità di preservare le
vere libertà contro le false libertà propugnate da fanatici rivoluzionari (liberali o socialisti
o islamisti), da sempre quinte colonne di potenze straniere che tramano per minare la so-
vranità nazionale. Compito nazional-patriottico è non solo estirpare Ong e società civile,
ma – con questo – rafforzare la disciplina morale domestica. A sostegno della sovranità la
maggioranza morale serra i ranghi: ecco la proibizione degli studi di genere, la negazione
dei diritti riproduttivi, la criminalizzazione dell’omosessualità. Gli spazi per il dissenso si
riducono: i critici sono solo edonisti membri della classe media. Il 14 marzo 2014, parlan-
do dell’annessione della Crimea, Putin li definisce «traditori della nazione».
Il volto economico di questa assertività nazionalista, tutta giocata lungo il solco
dell’ambizione allo status di grande potenza, fra moralità cristiana e machismo paramili-
taresco, è la tutela dei diritti di proprietà. Il sovranismo non porta rivoluzione economica,
ma un programma nazional-liberale che ha
replicato in Russia i programmi di austerità la crisi dell’Ue, per il ritorno del nazionalismo». Il noc-
visti altrove, in parallelo a repressione dei ciolo di queste proiezioni è chiaro: la sovranità non può
movimenti di protesta. Certo il segno con- essere limitata in nome di diritti universali. Chi difende
servatore della dottrina di governo viene la società davanti alla pervasività delle “riforme” neolibe-
modulato nel tempo, e potrebbe definirsi rali, o getta luce sulla violazione di diritti fondamentali è
– con Samuel Huntington – «situazionale», accusato di ipocrisia e perseguito. Come il politologo Ivan
soprattutto nelle fasi espansive. Appena si Krastev ebbe a spiegare già una decina di anni fa, per la
riacutizza lo scontro con l’occidente libe- dottrina sovranista russa, sovranità significa né più né
rale, ecco la stretta sul codice culturale dei meno che industria estrattiva e ragion di stato: il diritto
valori fondanti della nazione, il ripiego su del governo a fare ciò che vuole sul proprio territorio e a
un conservatorismo assiomatico. perseguire i propri nemici fin nel cuore di Londra.
Incapace di capire se fosse una causa o un sintomo del-
La guerra non lineare la crisi profonda dell’ordine liberale, l’Europa unificata ha
a lungo considerato le varianti sovraniste come illusione
È vero, come ha scritto Marco Bascetta ottica, trasmutazione dell’euroscetticismo, spasmo pro-
sul manifesto, che quando oggi parliamo pagandistico. Non può stupire chi conosce la storia euro-
di «sovranismo» non ci riferiamo a una pea che il nazionalismo, oggi ammantato di sovranismo,
dottrina politica dotata di autonomia e raccolga ampi consensi popolari, operi per una virata
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

stabilità: piuttosto, «si tratta dell’insieme della modernità in senso reazionario, identitario, religio-
di proiezioni ideologiche, politiche prote- samente legittimato, colmo di contraddizioni e amnesie,
zioniste e statalismo che lavorano, dentro perimetrato da barriere. Sorprende di più come il mondo
della comunicazione nutra questo schema, e sorprendo-
no le esitazioni della sinistra nell’organizzare una risposta
chiara, ampia e partecipata. In un romanzo pubblicato
sotto pseudonimo, Surkov scrive di guerra non lineare del
futuro: lo scopo non è vincere contro il nemico, ma gestire
il processo bellico per destabilizzare la percezione pubbli-
ca, «confondendo le piste, oscurando la verità».
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Qualcosa di nuovo
EXTRA

sul fronte occidentale


L’inaspettata circolazione di idee socialiste nella patria
del capitalismo, le ambizioni con cui è nata Jacobin,
le evoluzioni della sinistra Usa, il suo sguardo sull’Italia.
Intervista al direttore e fondatore della rivista statunitense

A
veva solo 21 anni nel 2010 quando ha pensato di fondare la ri-
vista Jacobin, coinvolgendo molti coetanei nell’ambizione di fare
una rivista marxista ma non propagandistica, accurata ma non
accademica, in grado di apparire innovativa senza rimuovere il
passato, con un linguaggio capace di dialogare anche con l’imma-
Giulio Calella
intervista ginario pop e arrivare a più persone possibile.
Bhaskar Sunkara In questi otto anni c’è stata l’esplosione del movimento Occupy
Wall street nel 2011, poi la coinvolgente seppur sconfitta campa-
gna elettorale presidenziale per le primarie del Partito democratico di Bernie Sanders
nel 2016 e infine l’elezione di Donald Trump: tutti fenomeni che in modi differenti tra
loro hanno inciso non poco nella possibilità di far circolare idee socialiste nella patria
del capitalismo.
In Italia oggi, quando si parla di idee provenienti da oltreoceano, si cita spesso Steve
Bannon, ex stratega di Trump, venuto nel nostro paese negli ultimi mesi per spiegarci
come l’Italia del governo gialloverde sia un laboratorio di politiche sovraniste per tut-
ta l’Europa, un modello per costruire un «partito del popolo» contro il «partito dell’e-
stablishment». Ma dagli Stati uniti, dal paese che da queste latitudini abbiamo sempre
INVERNO 2018/19

considerato “senza sinistra” paragonandolo all’Europa, soffia anche un vento contrario:


quello della rivista Jacobin, di Black Lives Matter, il movimento
antirazzista afroamericano nato a seguito dei continui omicidi
di cittadini neri perpetuati dalla polizia, del #Metoo femmini- Giulio Calella è co-
sta e dei diversi candidati socialisti che hanno vinto a sorpresa fondatore e direttore
le primarie del Partito democratico per le elezioni di Midterm
N. 1

generale di Edizioni
del 2018. Bhaskar Sunkara oggi è direttore ed editore di una Alegre.
rivista che è arrivata a contare circa 40mila abbonati, che ha Bhaskar Sunkara
settanta gruppi di lettura in tutto il paese capaci di incanala- è editore, direttore
re nuove energie militanti e più di un milione di contatti unici e fondatore di Jacobin
mensili da tutto il mondo sul sito jacobinmag.com. Usa.
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In Italia, ma non solo da noi, desta impressione e ammirazione che un ragazzo così
giovane sia stato capace in pochi anni di fondare e animare una rivista divenuta un
vero e proprio fenomeno editoriale e politico internazionale. Ci racconti innanzi tutto
qualcosa sulla tua formazione personale?
Sono diventato socialista in giovane età. La mia era una famiglia di immigrati e ho visto
che mi era capitato di avere molte più opportunità a disposizione di quante ne avevano
avute i miei fratelli, decisamente più grandi di me. Credo che la ragione sia stata semplice:
non avevo certo delle qualità innate rispetto a loro, ma piuttosto io sono cresciuto in una
zona con un’ottima scuola pubblica e ho avuto accesso alle politiche sociali. Per questo
credo di poter dire che la mia sensibilità sia divenuta socialdemocratica in modo epider-
mico. Ma la mia è stata una politicizzazione totalmente spontanea, in larga parte casuale.
La mia biblioteca di zona aveva un mucchio di testi di ispirazione socialista, la maggior
parte donati da militanti comunisti e da associazioni culturali ebraiche. Per puro caso
nell’estate successiva al Seventh grade [corrispondente alla nostra seconda media Ndr]
scelsi di leggere La mia vita di Lev Trotsky, non mi piacque particolarmente (e ancora non
amo molto quel libro), ma ne fui abbastanza incuriosito da decidere di leggere la biografia
di Trotsky scritta da Isaac Deutscher, le opere di socialisti democratici come Michael Har-
rington e Ralph Miliband, e alla fine anche lo stesso misterioso Karl Marx.
Il marxismo mi ha fornito gli strumenti per capire come mai le riforme conquistate
all’interno del sistema capitalistico fossero così difficili da sostenere, e sul perché ci sia
così tanta sofferenza in società così piene
di abbondanza. Alla fine ho combinato autonomo. In altre parole, sul piano dei contenuti, si può
il mio cuore socialdemocratico e il mio dire che all’inizio il nostro fosse un progetto marxista ab-
cervello ancora confusamente marxista bastanza ortodosso.
nell’idea politica che sostengo oggi: un ra- Il secondo obiettivo guardava invece al di fuori del no-
dicalismo consapevole delle difficoltà del stro mondo. Eravamo consapevoli di quanto le idee so-
cambiamento rivoluzionario e, allo stesso cialiste fossero marginali negli Stati uniti e volevamo co-
tempo, di quanto profonde possano essere struire un luogo di elaborazione a sinistra del liberalismo,
le conquiste delle riforme. rendere le idee socialiste chiare e accessibili attraendo
persone non politicizzate o che si autodefinivano “libe-
Quali erano gli obiettivi iniziali con cui ral” ma nei fatti avevano molte idee radicali di sinistra.
è nata la rivista Jacobin? In altre parole cercavamo una base di massa per le nostre
Jacobin è nata con due obiettivi diversi idee politiche.
tra loro. Il primo era più interno al dibat-
tito della sinistra radicale statunitense e Riesci a fare una descrizione sociologica e politica
ruotava soprattutto attorno al tentativo di dei lettori di Jacobin? Sono cambiati dopo il movimento
far emergere il ruolo primario della classe Occupy Wall Street e dopo la campagna di Bernie San-
lavoratrice e l’importanza delle forme tra- ders per le presidenziali del 2016?
dizionali della politica socialista, ossia la In verità siamo ancora alla ricerca di quella base
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

forma partito e l’organizzazione sindaca- sociale di cui parlavo prima. Siamo cresciuti molto in
le, in un’estrema sinistra egemonizzata in questi anni come diffusione, ma abbiamo una porzione
modo crescente dal pensiero anarchico e sovradimensionata di lettori con istruzione universita-
ria mentre siamo ancora un po’ distanti dagli ambienti
working class. Direi che il lettore medio di Jacobin ha
23-24 anni e frequenta il college. Ci sono poi molti figli
di professionisti di classe media ormai declassati, e pur
avendo tra i lettori di Jacobin molti attivisti sindacali tra
loro ci sono soprattutto insegnanti e infermieri (la par-
te più istruita della working class). Le caratteristiche dei
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nostri lettori non sono cambiate dopo il movimento Occupy e la campagna per San-
ders, piuttosto possiamo dire che prima non avevamo alcuna base di lettori mentre
adesso una piccola base c’è.

Qual è la situazione della nuova sinistra socialista Usa e che rapporto c’è tra sinistra
politica e movimenti sociali in una società che non ha conosciuto importanti partiti
socialdemocratici, tanto meno comunisti, e sindacati di classe come in Europa?
Dobbiamo distinguere alcune cose, parzialmente diverse tra loro. Una cosa è l’ampia
mobilitazione a sostegno di Bernie Sanders che ha attirato molto e continua a galva-
nizzare grazie alle sue assemblee e comizi nelle città; poi ci sono le persone che si sono
entusiasmate con i nuovi candidati alle primarie del Partito democratico che si auto-de-
finiscono socialisti come Alexandria Ocasio-Cortez; e infine c’è quel che si muove all’e-
strema sinistra.
La mobilitazione più ampia si riattiverà con la campagna a favore di Sanders per le
presidenziali del 2020, che ha molte potenzialità di far crescere la sinistra in generale e
di produrre attivismo tra le persone. Poi c’è l’estrema sinistra, per lo più organizzata nei
Democratic Socialists of America (Dsa). Quando, nel 2007, ho aderito a Dsa c’erano non
più di cinquemila membri attivi. Oggi sono più di cinquantamila. Quindi c’è stata una
crescita enorme. È uno spazio ampio, con orientamenti politici non sempre definiti e
difficoltà nel costruire un quadro e delle azioni coerenti, ma sta avendo comunque una
crescita incredibile.
OCCUPY WALL STREET In questo momento negli Stati uniti a mio avviso non ci sono dei
E LA CAMPAGNA veri e propri movimenti sociali, almeno per la definizione che ne do io.
PER SANDERS HANNO Black Lives Matter si è oggi in larga parte esaurito o si è spostato in una
APERTO UN VARCO direzione egemonizzata dalle Ong. Il movimento femminista del #Me-
PER L’ESTREMA SINISTRA Too è importante e ha consentito a molte donne di ribellarsi a molestie
NEL PAESE DI TRUMP e discriminazioni di genere, ma la mobilitazione è stata in larga parte
mediatica. Vedremo se si riusciranno ad avere un maggior numero di
azioni di lavoratrici intorno alle rivendicazioni del #MeToo, ma per ora
non sono sicuro che sia un movimento sociale paragonabile a quelli che avete avuto in
Europa o che esistono oggi in paesi come Brasile o India.

Ha avuto una certa eco anche da noi in Italia la vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez
nelle primarie nel Quattordicesimo collegio di New York del Partito democratico per
le elezioni di Midterm. Una ragazza di 28 anni, Latina, di famiglia working class e fre-
sca di laurea in economia che sconfigge un boss del Partito democratico newyorkese
come Joe Crowley, con il solo sostegno di un piccolo gruppo di militanti di ispirazione
socialista. Hai più volte detto di guardare a queste candidature nel Partito democrati-
INVERNO 2018/19

co come uno strumento non per conquistare il partito ma per veicolare idee socialiste
nel paese. Non c’è però un rischio di illudersi di poter cambiare dall’interno il Partito
democratico? E in che modo si può non delegare, come più volte è stato fatto in Italia,
la costruzione dell’alternativa al solo strumento elettorale?
N. 1
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Be’, dovremmo intanto fare una differenziazione tra i due tipi di candidature che
hanno vinto a sorpresa le primarie nel Partito democratico. Ci sono le varie Alexandria
Ocasio-Cortez, progressiste, che si autodefiniscono socialiste democratiche, sostenute
da molti socialisti democratici ma che non hanno un legame reale con la tradizione
socialista e la concezione dello Stato, della classe ecc. che ha la maggior parte di chi
proviene da quella tradizione.
E poi ci sono persone come la candidata senatrice Julia Salazar, che è una marxista
con posizioni radicali e proviene da ambienti vicini a Jacobin e a Dsa.
Io penso che concorrere apertamente come socialisti nelle primarie del Partito de-
mocratico sia una strategia che ha senso per la sinistra data la particolarità della nostra
legge elettorale. Ma non dovremmo solo far partecipare candidati e festeggiare le loro
elezioni, abbiamo bisogno di strumenti per formare gli eletti, per renderli controllabili
collettivamente dai membri della propria organizzazione di appartenenza, e di molto
altro ancora.
Le campagne elettorali hanno dimostrato di essere un’utile scorciatoia, ma vanno
utilizzate come strumenti per costruire il potere della classe. Dobbiamo essere guar-
dinghi verso tutte le tendenze che scaturiscono dalla voglia di mantenere unicamente
il proprio seggio parlamentare, ma se l’alternativa è sedersi e non far nulla o attendere
che cambino le condizioni oggettive, allora io preferisco un approccio più attivo. Il
varco che abbiamo di fronte in questo momento, oltre a piccole sacche di resistenza
dei lavoratori come quella del sindacato
degli insegnanti negli Stati uniti, è soprat- tente della storia e con l’eredità storica dell’assenza di
tutto elettorale. partiti laburisti o socialdemocratici che abbiano rappre-
sentato gli interessi del mondo del lavoro.
Negli Usa fate i conti forse da quasi Direi che in Europa ci sono nuovi spazi. Non credo
un secolo con l’assenza di una forte si- nel populismo di sinistra come teoria, ma penso che ci
nistra politica, realtà che invece si sta siano aspetti della sua retorica popolare – come quel-
affermando in Europa solo recentemen- li utilizzati da Podemos in Spagna – che dovremmo
te. Come vedi dalla vostra prospettiva prendere come esempio. Penso che serva anche una
questo cambiamento nel nostro paese, e posizione credibile sull’Europa, avanzando critiche da
cosa possiamo imparare da voi per “vive- sinistra alle istituzioni europee, in modo che la destra
re in un paese senza sinistra”, ossia per non finisca per presentarsi come la sola credibile forza
ricostruire in un tale contesto idee e pra- di opposizione.
tiche di trasformazione sociale? Ma fondamentalmente penso che non si debba per-
Questa è una buona domanda, ma pur- dere la fiducia nella capacità dei lavoratori di lottare per
troppo non credo di avere una buona ri- la propria emancipazione. C’è ancora una working class,
sposta. La storia della sinistra italiana mi può ancora essere organizzata, ci sono ancora interessi
sembra una storia di opportunità spre- comuni che la uniscono. La working class è cambiata,
cate, sconfitte autoinflitte e fallimenti. è stata frammentata, ma le intuizioni fondamentali del
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

Anche la sinistra statunitense ha fatto la marxismo e del socialismo tengono ancora.


sua parte di errori, ma abbiamo dovuto
cimentarci con la classe dirigente più po- Cosa ti aspetti dall’esperimento di Jacobin Italia?
Mi aspetto che un progetto legato al nome di Jacobin
si ponga obiettivi ambiziosi, sia aggressivo nella ricerca
del suo pubblico e nel farlo crescere, professionale nel
suo modo di lavorare, ma anche impegnato nella lot-
ta per una società socialista dopo il capitalismo – una
società senza oppressione, integralismi e sfruttamento
dell’uomo sull’uomo.
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www.edizionialegre.it

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Perché
il giaco
bino
Quando i dannati
della terra

nero?
strappano i valori
dell’illuminismo
dalle mani
degli ipocriti,
possono farne un
progetto radicale
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

di emancipazione
umana
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uando ho proposto alla redazione statunitense di Jaco-
bin il logo col giacobino nero, c’è stata un po’ di appren-
sione. Preoccupava l’idea di usare come “portafortuna”
il profilo di una persona nera. C’era il rischio di risultare
offensivi. La storia delle rappresentazioni visive dei neri
Remeike Forbes è ricca di esempi negativi. Io stesso, immigrato nero gia-
maicano, ho avuto momenti di esitazione.
Eppure proprio quelle preoccupazioni dimostravano che l’utilizzo aveva
senso. La perversione stava nel presentare un volto nero come soggetto uni-
versale, onore sempre e solo accordato a volti bianchi. E non si trattava nem-
meno di un banale tentativo di sovversione, di creare una contro-mitologia
per mezzo di facili sostituzioni, come in quei dipinti dove Gesù ha i dreadlock.
Benché sia una storia troppo spesso ignorata, è difficile trovare un migliore
significante di universalismo della rivoluzione haitiana. Gli eventi che si svol-
sero sull’isola di Saint Domingue durante un’epopea lunga tredici anni hanno
influenzato la storia mondiale.
La rivolta degli schiavi colpì l’illuminismo occidentale al cuore delle sue
contraddizioni. Prendendo il mantello dell’illuminismo e facendo di quest’ul-
timo un autentico progetto di emancipazione umana,
quei rivoltosi spiazzarono, spaventarono e sconfissero
ogni impero presente in quell’area. Un furibondo Na- Remeike Forbes è
poleone Bonaparte cercò di eliminare ogni nero che il direttore creativo
avesse portato le spalline da ufficiale. I proprietari ter- di Jacobin, edizione
rieri del sud degli Stati Uniti imposero al loro governo statunitense. Questo
di non riconoscere il nuovo stato indipendente. che pubblichiamo
INVERNO 2018/19

Di contro, dando prova di profondo internazionali- è un estratto


smo, i rivoluzionari haitiani ispirarono tanta gente quan- riadattato del suo
ta ne fecero arrabbiare, dai repubblicani radicali francesi, articolo The Black
che sostennero la libertà dei neri, al rivoluzionario latino- Jacobin: Our Visual
Identity (2012),
N. 1

leggibile qui: https://


www.jacobinmag.
com/2012/03/the-
black-jacobin-2
Traduzione
di Wu Ming 1.
52

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americano Simon Bolívar, che ad Haiti trovò rifugio. E immaginate la confusione
dei soldati napoleonici nel sentire le truppe haitiane cantare la Marsigliese.
«Libertà, uguaglianza, fraternità – o morte» era la giusta rivendicazione di
quelle truppe. E sul quarto termine non scherzavano: prima della rivoluzione,
gli schiavi avevano adottato la politica di avvelenare, finché loro fossero rima-
sti in catene, quasi tutto quello che respirava. Avvelenarono se stessi, i propri
figli, il padrone, la padrona e tutta la famigliola della fottuta piantagione. E
quando conquistarono la libertà, non c’era forza al mondo che potesse farli
tornare indietro. Così, quando dopo l’ascesa al potere di Napoleone circolaro-
no voci di un ritorno della schiavitù, si misero ad appiccare incendi.

Reason in revolt

La rivoluzione haitiana racchiude in sintesi la missione storica della si-


nistra: la vera realizzazione dell’illuminismo. Quando i dannati della terra
strappano i valori dell’illuminismo dalle mani degli ipocriti che li sbandiera-
no, possono farne un progetto radicale di emancipazione umana. Marx colse
bene la contraddizione: nel suo pensiero c’è sia la critica dell’illuminismo sia
il progetto di espanderne gli ideali di emancipazione politica in un progetto di
emancipazione umana. Ed è questo a risuonare lungo la storia della sinistra:
la richiesta che i princìpi formalizzati nelle nostre istituzioni politiche si allar-
ghino all’intera nostra esistenza – alla nostra vita sociale ed economica, nelle
nostre case e nelle strade.
La storia della rivoluzione haitiana dovrebbe sempre ricordare alla sinistra
che rinunciando al pensiero critico non è immaginabile altra risposta alle
contraddizioni dell’illuminismo se non la totale negazione dell’illuminismo
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

stesso. Ricordiamo quel verso dell’Internazionale: «for reason in revolt now


thunders». Poiché ora tuona la ragione in rivolta. Non è, non è mai stato un
grido di rivolta contro la ragione, ma l’annuncio della rivolta della ragione.
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Napoleone
era NERO
La storia della testata
di Jacobin è la storia
di uno Spartaco haitiano,
di un’armata di schiavi
che fa la rivoluzione.
Risulta più attuale che mai,
per tante ragioni.
Capitalisti e razzisti
ancora non si sentono
tranquilli perchè sanno che
gira per il mondo
Toussaint L’Overture

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ompie ottant’anni The Black Jacobins di C.L.R. James, saggio

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storico tra i più influenti del XX secolo, benché la sua influen-
za continui a suscitare imbarazzo, a essere rimossa o sminu-
ita. È ancora incandescente la vicenda ricostruita – la rivolu-
zione haitiana guidata dall’ex-schiavo Toussaint L’Ouverture
– ed è ancora drastica la riconsiderazione della tradizione
rivoluzionaria che, fin dal titolo, il libro esorta a intraprendere.
Wu Ming 1
Ispirato nella struttura e nello stile alla Storia della Rivoluzione
russa di Trotsky, e scritto tendendo l’orecchio alle proteste inter-
nazionali contro l’invasione italiana dell’Etiopia, The Black Jacobins fu pubblicato nel
1938. L’anno che segna l’inizio della sconfitta dei repubblicani spagnoli, che James cita
nella prefazione; l’anno del famigerato Accordo di Monaco, col quale le principali de-
mocrazie borghesi d’Europa – Francia e Regno Unito – aprirono la strada al proget-
to imperialista di Hitler; l’anno della “Notte dei cristalli”, i cui clangori sembrano già
echeggiare nel libro. La seconda guerra mondiale era ormai dietro l’angolo.
Proprio nel Regno Unito, C.L.R. James – nero delle cosiddette «Indie occidentali»,
militante marxista, scrittore e drammaturgo – osava alcune «considerazioni inattua-
li», e potenzialmente oltraggiose: una su tutte, che senza la rivolta di massa degli
schiavi di Haiti, scoppiata nel 1791, la Rivoluzione francese non sarebbe stata la
Révolution che tutti conosciamo. Non contento, aggiungeva che Toussaint L’Ou-
verture, spinto verso l’alto da contraddizioni immani e dall’urto di tumultuose
forze sociali, fu uno dei più grandi uomini del suo tempo, pari solo al suo nemico
Napoleone. Un Napoleone negro!?
Quello che James stava dicendo – ora in forma allegorica, ora esplicitamen-
te – era: non può darsi alcuna vera rivoluzione in occidente senza rivoluzioni
nelle colonie.
Nel 1938, mentre gli sguardi convergevano su Hitler, sembrava una prospet-
tiva remota, un tema non all’ordine del giorno, e per una manciata d’anni la
guerra sembrò spingerlo ancora più ai margini di ogni discorso.
In realtà, mettendo a dura prova i centri dei più grandi imperi coloniali,
(quello britannico e quello francese) e al tempo stesso mobilitandone in
massa i sudditi «di colore», la guerra acuì proprio le contraddizioni su cui
James aveva gettato luce.

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Nel dopoguerra, le atrocità del nazismo divennero la nuova pie-
tra di paragone per le atrocità del colonialismo. Basti un solo esem-
pio: nella seconda metà degli anni Cinquanta l’opinione pubblica
britannica, ancora fresca di vittoria contro il nazismo, scoprì gli or-
rori della Pipeline, il sistema di centocinquanta lager – come altro
chiamarli? – aperti in Kenya per deportarvi la popolazione Gĩkũyũ
e stroncare l’insurrezione Mau Mau. Emersero casi di prigionieri
bruciati vivi o castrati con pinze da bestiame. Lo scandalo portò
all’indipendenza del Kenya, e accelerò la fine dell’impero «su cui
non tramontava mai il sole».
Quel che il borghese europeo non perdona a Hitler, scris-
se Aimé Césaire nel 1950, «non è il crimine come tale, il crimine
contro l’uomo; non è l’umiliazione dell’uomo in sé, ma il crimine
contro l’uomo bianco, il fatto di aver applicato all’Europa metodi
coloniali finora riservati agli arabi di Algeria, ai coolies dell’India e
ai negri d’Africa». Una riflessione che The Black Jacobins aveva an-
ticipato ancor prima della guerra, come aveva anticipato quelle di
un altro figlio delle Indie occidentali, Frantz Fanon, autore dell’altra
grande opera anticoloniale del XX secolo: I dannati della terra (1961).
Nel mentre, The Black Jacobins circolava, talvolta illegalmente,
nei paesi dove ardevano le braci della rivolta coloniale. Diviso in di-
spense, copiato a mano modello samizdat, fu uno dei testi più diffusi
nel Sudafrica dell’apartheid, tra attivisti di più generazioni, dal mas-
sacro di Sharpeville (1960) alla rivolta di Soweto (1976) e oltre.
Riletta nel suo ottantesimo anniversario, questa storia di uno Spar-
taco nero, di un’armata di schiavi che fa la rivoluzione, risulta più at-
tuale che mai, per tante ragioni. Troppe perché questo articolo possa
contenerle.
In Italia e in gran parte d’Europa, in una torsione paradossale, i ter-
mini «schiavi», «schiavitù» e «schiavisti» sono usati strumentalmente
per difendere il privilegio bianco e attaccare le mobilitazioni antirazzi-
ste: «Siete voi buonisti a difendere la nuova tratta degli schiavi!», «Siete
complici degli scafisti, i nuovi trafficanti di schiavi!», «Li portano qui per
farne degli schiavi!».

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Del resto, neri ammassati su imbarcazioni che compiono un viaggio In Italia il libro di C.L.R. Ja-
drammatico... Cosa potranno mai ricordare? mes è edito da Derive Ap-
prodi con il titolo I giacobini

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Ma l’allegoria è fallace: gli scafisti non sono negrieri ma passeurs, per-
ché i migranti vogliono essere trasportati in Europa e pagano per il viaggio, neri. La prima rivolta contro
cioè per avere un servizio; che lo ricevano di qualità pessima, da parte di l’uomo bianco, con prefa-
carogne senza scrupoli, è colpa sì di quelle carogne, ma prima ancora è zione di Sandro Chignola
colpa delle leggi europee sull’immigrazione. E, sì, la situazione rende quei e postfazione di Madison
viaggi molto pericolosi, ma non li rende uguali al Middle Passage delle navi Smart Bell.
negriere.
Il termine «schiavi» è usato dai razzisti per negare alle persone migranti
ogni soggettività, ogni autonomia di scelta. Chi compie quei viaggi è de-
scritto come mero corpo, materia bruta trasportata da un posto all’altro.
Questo è il cliché razzista e coloniale sugli schiavi, e nessuno lo ha dimo-
strato meglio di C.L.R. James. Nella massa derelitta degli schiavi di Haiti Wu Ming 1, membro del col-
erano in corso, invisibili al padrone, sommovimenti profondi, prese di co- lettivo di scrittori il cui ultimo
scienza, insubordinazioni striscianti, e quelli che nel gergo di oggi chia- libro è Proletkult (Einaudi),
meremmo «percorsi di autoformazione». Ci si formava attraverso riunioni dirige per Alegre la collana di
e lezioni clandestine, attraverso il sabotaggio, attraverso la fuga per rag- ibridi narrativi Quinto Tipo.
giungere le comunità degli schiavi fuggiti, i Maroons, e persino per unirsi a Il suo ultimo libro da solista
ciurme di pirati. Da tali processi emersero, al momento giusto, un soggetto è Un viaggio che non pro-
rivoluzionario e un grande esercito popolare, coi suoi comandanti, mettiamo breve. 25 anni di
coi suoi brillanti strateghi, con il suo incredibile Napoleone. Un lotte No Tav (Einaudi).
esercito che scosse l’ordine del mondo.
Mentre l’oblio del passato coloniale genera nuovi mo-
stri e un delirio di massa su presunte «invasioni» dal
sud del mondo, The Black Jacobins continua a in-
fluenzare l’immaginario e le lotte, e chi lotta conti-
nua a riscoprirlo. Non a caso uno dei rivoluzionari di
Toussaint, uno qualunque, è divenuto il logo di Jacobin
(si veda il testo di Reimeke Forbes pubblicato qui accanto). E quel
lascito non cesserà di spaventare i padroni.
Chiudo parafrasando una canzone degli Stormy Six: capitalisti e razzisti «ancora non si sento-
no tranquilli, perché sanno / che gira per il mondo Toussaint L’Ouverture».
Illustrazione di

57 VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

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Liberté Égalité Fraternité Transformation

In edicola e in abbonamento su
www.left.it/abbonamenti

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Lavoro alla cinese,

PRODUZIONE
salari alla polacca
Tecnologia e robotica utilizzate per tagliare il costo
del lavoro e incentivi governativi per mantenere
gli stabilimenti in Italia serviti solo a stringere
sotto ricatto i lavoratori. Il caso Electrolux

F
ondata circa un secolo fa da Antonio Zanussi, che aveva aperto
una piccola officina in Corso Garibaldi a Pordenone, l’azienda
di elettrodomestici italiana è stata acquisita dalla multinazio-
nale svedese Electrolux nel 1984, dopo un periodo di crisi. Nel
2004, l’allora Ceo Hans Stråberg ha annunciato il progetto di
Francesca Coin spostare alcune linee di produzione nell’Est Europa, in Polonia,
Piero Maestri Ungheria e Russia, aree low cost con minore sindacalizzazione
e costi del lavoro più bassi. È iniziato allora un processo di ri-
strutturazione che ancora oggi scarica sui lavoratori la crisi del comparto e l’enorme
competizione internazionale.
Nel racconto dei tre delegati sindacali che abbiamo incontrato fuori dalla Electrolux
di Solaro, nella provincia di Milano, il 2014 è l’anno zero, l’anno in cui sindacati, azien-
da e governo hanno firmato un accordo per un nuovo piano industriale per impedire il
licenziamento del personale. Poco prima l’azienda, che in quel momento aveva quattro
stabilimenti – Porcia, Susegana, Forlì e Solaro con un totale di circa 5.700 dipendenti
– ha annunciato un piano di ristrutturazione che prevedeva,
tra le altre cose, la chiusura dello stabilimento di Porcia e la
perdita del posto di lavoro per 1200 persone, oltre a una lunga Francesca Coin,
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

serie di decurtazioni di diritti, tra cui la riduzione del salario, sociologa all’Università
la diminuzione delle ore retribuite al giorno, l’aumento dei Ca’ Foscari di
ritmi e dei tempi di lavoro. I mesi successivi sono stati segnati Venezia, si occupa
di lavoro, moneta e
diseguaglianze.
Piero Maestri, attivista,
è stato redattore di
Guerre&Pace ed è
coautore tra l’altro di
#GeziPark (Alegre).
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da presidi, scioperi e assemblee. Una mobilitazione durata sessanta giorni durante la
quale i lavoratori hanno tentato di districarsi dalla situazione di ricatto, stretti da un
lato dalla minaccia della delocalizzazione e dall’altro dall’imperativo di acconsentire
alle richieste di maggiore redditività aziendale. È iniziata allora una lunga vertenza, al
termine della quale è stato deciso il mantenimento di tutti e quattro gli stabilimenti
(Porcia non ha chiuso), mentre i lavoratori hanno accettato incrementi di produttività,
attraverso la riduzione delle pause e l’aumento della velocità delle linee di produzio-
ne. Messo sotto pressione dalla mobilitazione dei lavoratori, l’allora governo a guida
Matteo Renzi ha giocato un ruolo fondamentale, impegnandosi a finanziare la decon-
tribuzione dei contratti di solidarietà, che prevedono una riduzione delle ore di lavoro
distribuita sulla totalità dei dipendenti, con condizioni e decorrenze diverse nei vari
stabilimenti, oltre a integrare temporaneamente una parte della retribuzione delle ore
perse e a mettere a disposizione dell’azienda incentivi a sostegno
di investimenti, ricerca e innovazione in cambio della promessa di
LA PAURA DELLA evitare i licenziamenti. In poche parole, i lavoratori hanno strap-
DELOCALIZZAZIONE pato all’azienda con le unghie e con i denti la promessa di non de-
HA IMPOSTO REGOLE localizzare, pagandone caro il prezzo, mentre il governo ha usato
SADICHE, FATTE DI le risorse pubbliche per agevolare in tutti i modi l’azienda e evitare
RIDUZIONE DELLE PAUSE di essere travolto dagli effetti di una politica del lavoro il cui unico
DAL LAVORO E AUMENTO risultato è stato, come da decenni, quello di spremere il costo del
DELLA PRODUTTIVITÀ lavoro e concedere incentivi e sgravi alle aziende per nascondere
una struttura produttiva sempre più deindustrializzata.
Con tutte le difficoltà del caso, in questi anni l’accordo ha retto.
Mentre Susegana e Forlì, che producono rispettivamente frigoriferi a incasso e piani
cottura, hanno aumentato la produzione, a Solaro, dove si fanno lavastoviglie, i volumi
sono diminuiti. Più degli altri stabilimenti, infatti, Solaro ha risentito dell’aumento della
competizione dall’Est Europa, specie alla luce della decisione di trasferire la produzione
di 225mila lavastoviglie a incasso in Polonia, nel 2014. Da allora, a Solaro si lavora a sin-
ghiozzo, ci sono, oggi, quattro linee di produzione tra cui una destinata al mercato ameri-
cano che lavora in modo intermittente, mentre buona parte della fabbrica lavora su due
turni di sei ore effettive, pagati in solidarietà.

«Dazi? Ci tremano i polsi»

Abbiamo chiesto ai lavoratori quali siano le condizioni di lavoro nella fabbrica di


Solaro, oggi. In sostanza, lavorare a Solaro in questo momento significa lavorare nella
paura. Prima di tutto c’è la crisi di comparto: l’alto di gamma prodotto a Solaro non rie-
sce a conquistare il mercato negli Stati uniti e in Asia, dove c’è troppa competizione da
INVERNO 2018/19

parte di marchi come Whirlpool e Medea, mentre il basso di gamma trasferito da Solaro
a Zarow in Polonia continua a crescere di volume, tanto che Zarow è passata negli ultimi
anni da una produzione di circa 600mila pezzi a un milione. Con questi numeri, vi sono
a Solaro 200 lavoratori “eccedenti” rispetto quanto previsto dal piano industriale del
N. 1
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2014, che prevedeva, alla fine del 2018, la produzione di circa 870mila lavastoviglie, con-
tro le 560mila attuali. La riduzione della domanda è andata di pari passo all’aumento
della velocità delle linee. Con l’accordo del 2014, infatti, i lavoratori producono oggi in
sei ore quello che nel 2014 producevano in otto. Recuperata l’efficienza e aumentata la
produttività da 74 a 90 pezzi all’ora, l’azienda ha, sì, usato l’innovazione per migliorare
le posizioni ergonomiche nelle postazioni più gravose, ma ha anche indotto i lavoratori
a operare contro i propri interessi, producendo, a parità di domanda, nuovi esuberi.
Al netto di tutta la letteratura tecno-ottimista sulla fine del lavoro (naive, negli attuali
rapporti di forza), la tecnologia e la robotica sono state utilizzate anzitutto per tagliare
il costo del lavoro. Abbassata la domanda e ridotti gli ammortizzatori sociali con il Jobs
Act, posti di fronte alla gravosa scelta di aumentare la produttività o perdere il posto
di lavoro i lavoratori si sono trovati a lavorare, su richiesta aziendale, contro i propri
interessi e si trovano oggi nella stessa situazione del 2014: dover gestire 200 eccedenze,
nonostante le 120 uscite volontarie incentivate negli scorsi anni. «Ci tremavano i polsi»,
dicono, quando Trump ha cominciato a parlare di dazi, perché, costretti dal realismo
capitalista a guardare il futuro con gli occhi dell’azienda, sanno benissimo che riduzio-
ne della domanda significa, in potenza, perdita ulteriore di posti di lavoro.

Guadagnare meno, guadagnare tutti?

La politica di Electrolux ha avuto costi altissimi, nella vita dei lavoratori. Il diritto pri-
vato alla delocalizzazione, e la messa in competizione tra loro di due stabilimenti gemelli
(in questo caso Solaro e Zarow) per poi punire con la chiusura o la ristrutturazione quelli
meno efficienti (cioè quelli in cui il lavoro
è più tutelato) ha imposto regole del gio- avviene a Susegana, multata per ritmi di lavoro ripetitivi
co sostanzialmente sadiche nella vita dei e asfittici), l’aumento della produttività degli ultimi anni
lavoratori, costretti a scegliere tra accon- ha avuto un impatto negativo sulla salute fisica dei lavora-
sentire a un maggiore sfruttamento o star- tori, aumentando le patologie muscolo scheletriche, dalla
sene a casa. In questo contesto, la fabbrica tendinite alla sindrome del tunnel carpale. Il punto è che
è diventata un luogo pervaso dalla paura, i lavoratori in questi anni hanno dovuto assorbire tutti i
dicono i delegati. Paura significa chieder- costi e i rischi aziendali per evitare che qualcuno di loro ri-
si continuamente «che ne sarà del nostro manesse a casa. Ma sino a quando sarà sostenibile decide-
futuro?», «ci licenzieranno?», «cosa ci acca- re di «guadagnare meno, guadagnare tutti»? Sino a quando
drà?». Paura significa, inoltre, stress, ansia, sarà possibile accettare di tagliarsi lo stipendio per con-
insonnia, farmaci e psicofarmaci, non solo sentire a tutti di averne uno, mentre l’azienda minaccia di
durante il lavoro, ma nel tempo libero, nel- chiudere per trasferirsi in Polonia perché preferisce i salari
le pause, durante le ore notturne, negli in- polacchi? Fino a quando avrà senso acconsentire al dete-
cubi la notte. Va poi detto che, nonostante rioramento delle condizioni di lavoro, per salvaguardare il
l’inchiesta Inail del 2017 abbia considerato posto? Sono queste le domande che assillano la quotidia-
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

l’Electrolux di Solaro un caso non proble- nità dei lavoratori di Solaro, e sono queste le domande a
matico per quanto riguarda lo stress da cui, dopo vent’anni di violenza economica, sarebbe tem-
lavoro-correlato (a differenza di quanto po dare una risposta. Perché è inutile dare incentivi alle
aziende per mantenere uno stabilimento in Italia se poi il
diritto del lavoro continua a essere secondario rispetto al
diritto privato di esternalizzare la produzione ovunque i
costi del lavoro sono più bassi. È inutile dare incentivi alle
aziende per mantenere uno stabilimento nel nostro paese
se poi l’unica organizzazione del lavoro legittima è quella
fondata sul ricatto dei lavoratori.
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Una
PRODUZIONE

scuola
buona
per La riforma di Renzi è stata
uno shock per i docenti,

grigi
la cui trasformazione
antropologica viene da
lontano. All’ideologia delle
competenze da apprendere va
contrapposta la cooperazione

contabili
sociale del sapere
INVERNO 2018/19
N. 1
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L
a legge 107/2013, detta “Buona Scuola”, che in piena continuità
con le precedenti riforme della scuola e della dirigenza pubblica
ha confermato il taglio dei curricoli scolastici e dei posti di la-
voro, rafforzato la governance scolastica con l’introduzione del
“preside-manager” e introdotto l’obbligo di alternanza scuola-la-
Girolamo voro a detrimento delle ore di scuola, è l’esito dell’abbandono, da
De Michele parte della sinistra di governo, dell’idea di una scuola per tutti, in
grado di rimuovere alcuni degli ostacoli materiali – l’analfabeti-
smo in primo luogo – che impediscono il pieno esercizio dei diritti costituzionali: una
scuola che genera “cittadini costituzionali”, per dirla con il fondatore della Scuola di
Barbiana, don Lorenzo Milani.
Abbandonandola, la sinistra di governo ha abbracciato la visione di un riformismo
tecnocratico che mira non all’istruzione di massa, ma alla formazione di un’élite di «im-
prenditori di se stessi», senza tener conto delle conseguenze di questa svolta: il pro-
gressivo ritorno di quelle disparità sociali che la scuola aveva cercato di contrastare.
Proprio per questo la Buona Scuola è stata uno shock per gli insegnanti che, sentitisi
traditi dallo schieramento su cui per anni avevano fatto affidamento, hanno spostato
il proprio consenso elettorale sul M5S, come rivalsa rancorosa nei confronti del Partito
democratico (vedi l’indagine Isos “Elezioni 2018. Genere, età, professione: identikit dei
nuovi elettori a 5 Stelle”, Il sole 24 ore, 6 marzo 2018).

La controriforma dell’amministrazione

Ma la “trasformazione antropologica” dell’insegnante (l’espressione è di Marina


Boscaino, un’insegnante molto attiva nelle lotte della scuola) ha radici lontane. Era
di fatto già contenuta nella riforma della pubblica amministrazione del 1993, varata
nel contesto di un uso disciplinare della crisi economica e della tempesta valutaria
sulla lira del 1992 (una manovra finanziaria da 100mila miliardi di lire, l’accordo con
i sindacati che cancellò la scala mobile, prelievo forzoso sui conti correnti del 6%, la
legge 359/92 sul riordino, cioè sulle privatizzazioni, delle par-
tecipazioni statali) che ha trasformato i pubblici dipenden-
ti, e dunque anche gli insegnanti, in dipendenti pubblici con Girolamo De Michele
contratto di diritto privato. In parole povere: il cuore del me- lavora nella scuola
stiere di insegnante non è più (come nel diritto pubblico) il come probapossibile
contenuto della sua azione (insegnare, educare, formare), ma insegnante e coordina
lo spazio politico
letterario Il Povero
Yorick su www.
euronomade.info.
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

Ha curato i due volumi


dell’autobiografia di
Toni Negri.
63

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il rapporto paritario fra le ore di lavoro prestate e il salario retribuito (in termini giuri-
dici, il “sinallagma contrattuale”).
Ciò consente allo Stato di fare un elenco minimo di compiti che l’insegnante, in cam-
bio del salario, deve svolgere: un elenco che può non contenere compiti essenziali per
l’andamento della scuola, lasciando l’insegnante davanti alla scelta fra un lavoro mal-
fatto e/o inutile, e un di più di lavoro volontario, gratuito o mal retribuito. Lo Stato met-
te sul tavolo un sacchetto e si arroga il diritto di dire: questi sono i pupazzi, con questo
fate il presepe. Se poi manca l’asino, i Magi sono solo due e arrivano a piedi perché non
hanno i cammelli, poco importa: è questo il modo in cui la trasformazione dell’istruzio-
ne italiana da scuola d’élite in scolarizzazione di massa, e l’irruzione dell’adolescenza
nella scuole sono state gestite senza adeguare la struttura alla grande trasformazione
sospinta dalle lotte degli anni Sessanta e Settanta, scaricandone l’onere sul volontari-
smo degli insegnanti.
L’attuale insegnante neo-assunto, che vaga alla ricerca di ore da svolgere in progetti
spesso improvvisati per completare l’orario di servizio, ha la sua giustificazione in quel-
la lontana controriforma dell’amministrazione; così come l’insegnante che si presenta
col cappello in mano dal dirigente chiedendo di svolgere un qualche ruolo servile per
poter avere un’integrazione salariale.
Così, il mondo nel quale si dovrebbe attuare il diritto all’istruzione e a una vita degna
di essere vissuta è popolato da piccoli, ingrigiti contabili portati a calcolare ogni minuto
di forza-lavoro prestata in cambio di un salario chiedendosi: «Non avrà quell’altro lavo-
rato mezz’ora più di un me?». Il compito dell’insegnante diventa non formare cittadini,
ma selezionare futuri imprenditori di se stessi: la didattica si fa sempre più atomizzata
e individualizzata, l’istruzione è sempre più considerata una merce da misurare e va-
lutare.
Il sapere è sminuzzato in tante particole dette “competenze”, un’entità astratta che gli
stessi suoi teorici affermano non essere osservabile in sé, ma che nondimeno si presup-
pone debba esistere, un po’ come il flogisto o l’etere: e tanto peggio per quegli aspetti
del processo educativo – capacità critica, cooperazione, pensieri lunghi e distesi – non
inquadrabili nelle griglie di valutazione, che vengono esclusi da una scuola che pro-
duce individui in grado non di tenere insieme (che sarebbe il senso di competenza, da
cum petere) la complessità del sapere con una mente ben fatta, ma di possedere singole
nozioni rinchiuse in una testa ben piena. Per competere in quel mercato che è libero
ed egualitario quanto lo sono nel libero pollaio la libera volpe e le galline: un luogo di
sfruttamento che genera disuguaglianze e gerarchie, che segmenta la società in spezzo-
ni per poterla meglio governare. Questo luogo è intersecato dalla scuola con una co-
spicua quantità di ore di “alternanza scuola/lavoro”, che un ispettore ministeriale definì
«l’incontro del mondo degli adolescenti con quello degli adulti», con lo stesso tono con
INVERNO 2018/19

cui nel Mago di Oz Dorothy esclama «ho l’impressione che non siamo più nel Kansas»:
ore inutili alla formazione e all’ingresso nel mondo del lavoro (non a caso si parla non
di “occupazione”, ma di “occupabilità”), sottratte al tempo scuola nel quale si dovrebbe
formare una mente critica.
N. 1
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Per una scuola militante

Queste diseguaglianze fra strati sociali, centro e periferia, città e provincia, nord e
sud, migranti e indigeni, attraversano il corpo della scuola, che a sua volta le riproduce
e le rilancia: non è casuale che i tassi di dispersione scolastica, che sono in media del
30%, sono molto più alti (fino al 60%) se si guardano i dati del sud, dei migranti, delle
periferie, dei figli di genitori non diplomati o che svolgono lavori non qualificati. Così
come non è un caso che l’orientamento, che dovrebbe favorire la migliore scelta per
l’istruzione superiore, finisce per ribadire il ruolo delle appartenenze sociali sui destini
educativi degli studenti. La scuola, insomma, non solo è impotente davanti alla forbi-
ce sociale, ma a volte coopera nell’allargarla: lo ha scoperto l’opinione pubblica con
la pubblicazione di alcuni Rapporti di AutoValutazione (Rav) nei quali reputati licei si
vantano di non avere fra i propri studenti migranti e non abbienti
(salvo qualche inevitabile figlio di portinaio dei palazzi-bene: dav-
vero non c’è più morale, contessa!). L’INSEGNANTE INVECE
La scuola, in conclusione, sembra essere ritornata ai tempi in cui DI FORMARE CITTADINI
don Milani avviò la sua lenta rivoluzione. Verrebbe spontaneo dire SI TROVA COSTRETTO
che per una scuola degna di essere vissuta è necessario tornare al A SELEZIONARE
priore di Barbiana. Ma «attenzione che non ci si risvegli una matti- I FUTURI IMPRENDITORI
na con qualche cosa da salvare», ammoniva Claudio Lolli. Don Mi- DI SE STESSI
lani non era un profeta: era radicato nel contesto sociale, nelle lotte
degli ultimi, nella coscienza che solo da una prassi didattica fatta
in prima persona può nascere una teoria. Attualizzare don Milani significa attuare una
didattica e uno stile di vita, che assumano la consapevolezza che non c’è pratica scola-
stica che non comporti sia la trasmissione della cultura dominante in chi apprende, sia
la potenzialità di una critica di quel sapere.
La scuola ha a che fare, sia in ciò che riceve dalla società nella quale è radicata, sia
come soggetto collettivo attraversato dalle pratiche educative che restituisce alla so-
cietà, non solo con beni accessibili a tutti come edifici e testi, ma anche con l’interazio-
ne sociale: con conoscenze, linguaggi, codici, informazione, affetti, e con la capacità di
produrre e criticare questi aspetti dei processi che formano, in modo critico o assogget-
tato, tutti i soggetti che la popolano. Con le parole di Toni Negri e Michael Hardt, con
quel comune che «non è soltanto la terra che condividiamo, ma anche il linguaggio che
creiamo, le pratiche sociali che costituiamo, le forme della socialità che definiscono i
nostri rapporti».
Ancora parafrasando Lolli: certo che il mantello di don Milani «è sempre in prima
fila lì sull’attaccapanni» della sala insegnanti, e il suo fucile «è lì nascosto in quel libro
di racconti: però che non diventino ricordi o fantasie, che non sia caricato solamente
a sogni». Che lo si armi con una didattica che si rivolge non a singoli individui, ma al
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

comune che apprende (e, why not, contesta e confligge), all’interno di uno stile di vita
che al grigiore impiegatizio, alla frustrazione e alla sottomissione, sostituisca la coope-
razione sociale: una scuola militante.
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DIZIONARIO

Nel paese senza sinistra


Illustrazioni di Luciop
i discorsi perdono di senso.
Vengono depoliticizzati
dalle narrazioni mainstream,
utilizzati a fini di marketing
economico o elettorale, pervertiti
INVERNO 2018/19

dalla retorica di chi cambia tutto


per non cambiare nulla.
Abbiamo bisogno di riprenderci
alcuni concetti, a partire da questi
N. 1
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Beni comuni
T ra le recenti vette della politica di
mento – che certo non brilla per
sfazioni – figura senza dubbio la
movi-
soddi-
vittoria al
referendum sull’acqua del 2011:
un punto di
svolta della battaglia sulle privatiz
zazioni, un
momento di riscossa popolare e
lo sdogana-
mento mainstream della locuzion
e, tipica del
lessico giuridico, di “bene comune
”.
Ma che cos’è un bene comune? Intu
itiva-
mente, bene comune rimanda a
un imma-
ginario fatto di fiumi, boschi, prat
i, vecchie
mulattiere e spiagge cristalline, e
sta di fatto
a indicare un vasto e variegato grup
po di
beni cosiddetti indisponibili, inal Una carica propulsiva enorme, che
ienabili e si è
inservibili in termini di profitto. Nel diffusa velocemente, diventando
tempo si persino
è voluto distinguere i beni comuni di moda. E, proprio per questo, risu
tout court, ltando
come le risorse naturali, dai beni
Gaia Benzi

comuni a volte annacquata: con la lodevole


ecce-
urbani, che ricadono nell’ambito zione della delibera del Comune
più vasto di di Napoli
un diritto alla città. sugli usi civici, capita infatti sempre
più
Che un bene sia comune può non spesso che la retorica sui beni com
essere uni
subito evidente; anzi, venga scopiazzata da amministraz
ioni e
quasi sempre lo diventa fond azioni private, in un clima di rinn
lotta, gruppi eterogenei si ova-
quando è a rischio in mento apparente dove piogge di
possono trasformare in vere e bandi e
qualche modo. Nascono regolamenti sull’uso comune dei
proprie comunità. beni ser-
allora le battaglie in dife- unit à an- vono solo a dare una nuova veste
E si tratta di com ai vecchi
sa dei beni comuni, por- modelli di partenariato pubblico-pr
che molto variegate: dai gio- ivato.
tate avanti da collettività Fra tante lotte vive e in salute, dun
vani di Gezi Park a Istanbul que,
composite che improv- c’è pure il tentativo di disinnescare
ai Sioux che negli Usa pro- le poten-
visamente condividono zialità teoriche e pratiche che i ben
teggono la loro terra, fino ai i comuni
un percorso politico; e, tono allo han no dimostrato di avere nelle centinai
valsusin i che resis a
nell’unione data dalla cità . di lotte che hanno ispirato, in Itali
scem pio dell’alta velo a e nel
mondo, magari appiattendole sul
Tutte però di base riven- discorso
secu ritario del decoro urbano. E forse,
dicano il diritto all’uso dei più
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

che i beni in se stessi, è proprio il


beni in un’ottica di supera- comune
ad essere oggi terreno di conflitto
mento dei vincoli imposti .
dalla mera proprietà , in
alcuni casi mettendo in di-
ata ma
scussione non solo la proprietà priv
statale. È in questa dire zione
anche quella
attano
che le battaglie sui beni comuni imp
spesso
anche sulle forme organizzative,
ocrazia
intrecciando esperimenti di dem
diretta e solidarietà mutualistica .
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Biologico
C’
bra
è una pubblicità, in radio, che sem
di vino biol ogic o. In real tà è di
parlare
di con ness ione inte rnet ; dà voce
un fornitore
ndica di
a un ipotetico produttore che rive
nonno, sen-
coltivare «come mio padre e mio
clud e che il
za usare prodotti chimici» e con
enza , «con-
vino va «condiviso», e, di consegu
dell a pigi atura.
divide» sui social il momento
cam po il nom e
E qui entra finalmente in
Prop rio perc hé non
dell’operatore di rete.
solo un’idea
promuove un prodotto reale ma
dere », poss iam o assumerlo
forte da «condivi
pizz azio ne di ciò che è diventa- dunque quella nostalgia, oltre
come stereoti
to il biologic o. che intrinsecamente reazio-
a di un biol ogic o che ha chia ram en- naria, è anche falsa.
Si tratt
rrito le istan ze amb ient alist e da cui è Dal movimento che mira-
te sma
ann i
nato come movimento contadino
neg li va a una condivisione dei saperi
che no- rno alla
Settanta. Quelle istanze, tutt’altro (tradizionali e innovativi) e a un «rito
o un futu ro alien azio ne
stalgiche, erano proiettate vers terra» che era anche rifiuto dell’
to il prod uttiv i- ge a que llo
in cui si sarebbe abbandona del lavoro dipendente, si giun
poten- la «condi-
smo capitalista per usare «le nuove scimmiottamento alienante che è
zialità offerte dalla scie nza, to foto graf ato o la
vita, e dunque depoliti- visione» sui social: il piat
’arte », strea min g su facebo-
dalla tecnica e dall cizzate. A che scopo im- «pigiatura dell’uva» in
chi priv ile- o si pass a dall’Alce Nero
seppellire i «vec pegnarsi per una solu- ok. Allo stesso mod
ti rapp orti di oggi : dal 2004 il mar chio
gi» e «i consun zione collettiva, difficile di allora a quella
si», com e si legg e llo è pass ato in man o ad
fra le clas da raggiungere, quando è del sioux a cava accomoda
in un articolo del 1974 che possibile raggiungere un aziende del mondo Legacoop, e si
super-
racconta le prime mosse di obiettivo
indi come costosa nicchia all’interno dei
viduale qui sono,
quella che sarebbe diven- e ora? Salvare la salute del mercati di catena. Supermercati che
evol i di
tata, di lì a poco, la coo- pianeta (provarci) è da guarda caso, tra le aziende più colp
e sono alla
perativa Alce Nero. Erano ingenui, mentre per salva- consumo di
suolo, dedite com
aspirazioni collettive, e ita espansione.
INVERNO 2018/19

re la propria salute basta prop ria infin


quindi politiche, mentre spendere un po’ (o molto)
quelle attuali sono indi- di più al supermercato. Poco imp
viduali, legate allo stile di individu orta che quell’obiettivo
ale sia illusorio, visto che in un pian
eta devastato
non si salva nessuno che apparte
nga a un target da super-
mercato: gode egualmente di ottim
N. 1

a stampa.
Proprio perché è concimato dal mar
keting, il biologico
Wolf Bukowski

di oggi sostituisce il coraggio di futu


ro con la proiezione
nostalgica verso le generazioni che
coltivavano senza
prodotti chimici. Però, se il viticolto
re dello spot ha meno
di un secolo d’età, è assai probabil
e che il padre e il nonno
abbiano abusato allegramente di
prodotti di sintesi; e
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Cambiamento
“T here is no alternative”, fu lo slogan
coniato dal primo ministro britan-
nico Margaret Thatcher negli ann
i Ottanta
mentre proponeva privatizzazioni
e politiche
liberiste. Poco dopo, nei primi ann
i Novanta,
il politologo Francis Fukuyama scris
se La
fine della storia proclamando, dop
o il crollo
del regime sovietico nel 1989, l’eco
nomia di
mercato capitalistica come l’insupe
rabile
orizzonte di tutti i tempi.
In questi trent’anni in realtà la stor
ia non
ha mai smesso di ribellarsi alla sua
fine, e più
volte sono emerse lotte e idee per
“un altro
mondo possibile”. Ma le sentenze provvise esplosioni di fenomeni elet
di Thatcher torali
e Fukuyama, insieme alle rivoluzi nuo vi, sfociati in alcuni casi nella nasc
oni fallite o ita di
tradite del Novecento, hanno defi governi inaspettati. Ma se non si
Giulio Calella

nito i nuovi immagina


orizzonti di quelli che erano i part mai di poter cambiare gli elementi
iti di sinistra strut-
e trasformato la stessa contesa elet tura li della produzione e della politica
torale nei che
paesi occidentali in semplice “alte creano le diseguaglianze, prevale
rnanza” di l’idea che
governo, con sostanziale continu sia esattamente quell’unica società
ità di politi- possibi-
che concrete. le a esser stata tradita, e che basti
rompere
Pian piano nel senso con le caste e le cosche perché ven
pensiero a lungo termine sbef- ga fuori,
comune ha prevalso l’i- tore qua si naturalmente, la promessa cap
feggiata. È ciò che lo scrit italista
dea che a livello politico di libertà individuali, economia dell
Mark Fisher ha definito Rea- a cono-
il futuro potesse essere scenza e merito. E se l’unica raziona
lismo capitalista, un sistema lità è
solo la reiterazione di ciò sem pre quella del mercato, allora si cam
nel quale viene incentivato il bia
che esiste già. Il presente tutto per non cambiare nulla, e può
conformismo e il culto delle auto-
è divenuto l’unica tempo- definirsi “governo del cambiamento
variazioni minime, e dove è ” anche
ralità possibile, la memo- e imm a- que llo composto da chi taglia le tasse
diventat o «più facil ai ric-
ria del passato è stata ri- do che chi, chiude i porti ai migranti in fuga
ginare la fine del mon dall a
mossa e la possibilità di un mo» . La povertà e lascia invariata la precarie
la fine del capitalis tà del
mercato del lavoro.
crisi economica iniziata nel
Per poter cambiare davvero occo
2008 ha tolto la copertura rre che
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

nien te sia definito naturale, perché nien


ideologica sulle speranze te
possa passare per immutabile.
nel futuro, ma non ha mi-
nato i presupposti struttu-
rali di quel realismo. Anzi,
che “too big to
ci è stato spiegato che c’erano ban
ativa.
fail”, che era impensabile un’altern
ame nto dell e condizi oni di vita e la
Il peggior
finito per gene-
perdita di prospettive hanno però
i min imi chi ha
rare rabbia, riducendo a consens
e dan do vita a im-
governato in questi trent’anni
69

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Democrazia
diretta
«L a classe operaia non può mettere
semplicemente la mano sulla mac
china dello Stato bell a e pron ta e met terla
-
in
ri fini» scris se a cald o
movimento per i prop
-
Karl Marx ne La Guerra civile in Fran
o dell a Com une di Pari gi,
cia a proposit
e di
primo esempio di presa del potere l’esempio dell’avverarsi
one di istituzio ni rivo luzi ona rie
costruzi della «democrazia del
zia diretta.
ispirate al principio della democra pubblico» teorizzata
are nella
Non bisognava accontentarsi di entr dal politologo Bernard
ve isti-
stanza dei bottoni ma inventare nuo Man in. Sorretto da una
onimento
tuzioni. Per capire come quel prop stru ttur a che disprezza i
gna partire
possa essere stato pervertito biso vincoli organizzativi,
za. Il
dall deperimento della rappresentan iz-
no della dribbla gli impegni concreti e teor
voto alle elezioni, teorizza il deca e, il M5S
l’atto che za l’inutilità del radicamento real
sociologia Alessandro Pizzorno, è otere di
ione che la impedisce il costituirsi del controp
unisce più persone nella convinz ntis ce all’e letto
cui si parlava prima e gara
loro scelta serva a scegliere re il mom ento
faccia seguito un mero libertà assoluta. Esaspera
i governanti e indirizzare le edisce
rapp orto di potere. Se del voto, o meglio del televoto, imp
decisione verso la direzione salta e: è così che è stata
il rapporto il tra di formulare domand
auspicata. Dunque, la ces- tafo rma Rou ssea u del
potere costituente e concepita la piat
sione di potere presuppone pote ali) di
re cost ituito, se non M5S, priva di luoghi (seppur virtu
una relazione solidale tra si tra pari e forn ita di fine stre che
sviluppano forme di confronto
votanti, un contraltare che part solo di app ellar si a chi sta nel
ecipazione dal basso consent ono
conferisce grande impor- ma «de-
dei cittadini, istituzioni palazzo. Quella che Di Maio chia
tanza ma anche molta sogno di
orizzontali e alternative, mocrazia diretta» è l’avverarsi del
delicatezza agli istituti con nessione
l’imperfetto meccanismo ogni uomo di potere: essere in
della democrazia rappre- sti abb ia la pos-
della delega si inceppa, con l’elettore senza che que
sentativa. Non esiste pre- zion e ad altri e
diviene puro arbitrio. La sibilità di percepirsi in rela
ferenza elettorale senza prima forza politica italia- organizzarsi in corpi colle ttivi .
INVERNO 2018/19

un progetto collettivo na, il Movimento 5 Stelle,


che riequilibri i rapporti dichiara di voler mettere
di forza ed eviti il più in pratica la «democrazia diretta»
possibile che alla delega proponimento dovrebbe realizza
. Questo
rsi attraver-
so l’uso taumaturgico degli strumen
ti digitali.
N. 1

Alla partecipazione subentra la com


unica-
Giuliano Santoro

zione. I partiti diventano agenzie


di promo-
zione. Ai cittadini resta il compito
di ratificare
decisioni prese da altri. La democra
zia
diretta del quale si fa portatore il
M5S è
70

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Mutualismo
I l Parlamento europeo ha inviato nel
Salvatore Cannavò

2013
alla Commissione europea una racc
oman-
dazione finalizzata alla redazione
di uno sta-
tuto della mutua europea. Tale prop
osta do-
vrebbe tenere conto delle particola
ri norme di
funzionamento delle mutue in qua
nto queste
«forniscono una vasta gamma di
servizi as-
sicurativi, servizi di credito e altri
servizi» su
base solidarist istic
ica
a e finanziamento collettivo.
Tra questi “altri servizi” quelli sani
tari occu-
pano in Italia un ruolo fondamental
e.
In un progetto di ricerca svolto su
incarico
della fondazione Cariplo e intitolat
o La rina-
scita del mutualismo si scrive che
«in quanto
rico
iconndu
duccibi
ibili
li alla categoria degli enti mutuali
-
stici, le fondazioni possono essere
a pieno ti-
tolo riconosciute come componenti
del ter-
zo settore», espressione che vuole
richiamare
la «terzietà degli enti mutualistici
sia rispet-
to al privato sia rispetto
al pubblico». Se pensia-
ven-
mo che in Europa, sul- concetto e alla pratica di mutualismo
ve di profitti in cam po
la base dei dati della Fe- ga oggi dalle aspettati
con con segu ente riduzio-
derazione internazionale sociale e sanitario
come lo
per l’assicurazione coo- ne, o cancellazione, del welfare così
perativa e mutualistica, le abbiamo conosciuto. Di fron- Eppure il ritorno alle origini del mov
allidisce imen-
società mutualistiche pos- te a tali progetti imp to operaio, là dove tutto ebbe inizi
anch e la dim ensi one del co- o, si dif-
sono contare su 400 mi- fonde e si radica nel nostro Paese.
operativismo storicamente Esiste un
liardi di euro di premi rac- mutualismo conflittuale che mette
dete rmin ato e che in Italia, in prati-
colti, ci rendiamo conto ca esperienze di solidarietà dal bass
a fine 2015, generava un fat- o diretta-
che l’insidia principale al mente tra coloro che hanno pagato
turato di 72 miliardi rifer ito e conti-
nuano a pagare la crisi economica
solo alle prime 250 coop e- e gli effetti
delle politiche neoliberiste; tra chi
- sper ime
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

rative con profitti com ples n-


ta forme diverse di produzione e redi
sivi pari a 382 mili oni. Le strib u-
zione delle risorse; tra chi mette in
Coop sono in effetti azien- pratica un
agire collettivo improntato all’autor
de globali gest ite com e tali ganizza-
zione e all’autogestione democratica.
e inserite in un mer cato al-
Un mutualismo impregnato dell’asp
tamente competitivo dove ira-
zione alla trasformazione sociale
la diffe renz a vien e fatta che quin -
di recupera la sua origine e la sua
dall’aumento della produt- lità. E che iniz potenzia-
ia a sperimentare, accanto a
tività e dalla riduzione del forme di economia sociale e solid
costo del lavoro. ale, an-
che la “forma rivoluzionaria” di nuo
ve isti-
tuzioni per una nuova società. Un
mutuali-
smo politico.
71

066_074_Parole.indd 71 26/10/18 21:48


Precarietà
N
to il
el 1997, anno in cui viene approva
di rifor me del mer cato del
Pacchetto
ra ministro
lavoro che porta il nome dell’allo
, i con tratt i “atip ici” entr ano
Tiziano Treu
iam ente nell ’ord inam ento itali ano e
massicc
eme a quella
la parola “precarietà” appare insi
pag ine de La
“lavoro” solo per 36 volte sulle
ce, acco mpa -
Repubblica. “Flessibilità”, inve
oli. La reto rica
gna “lavoro” in ben 487 artic
ministro:
dominante è illustrata dallo stesso
ione si agev ola l’occupa-
«con la flessibilizzaz
un dece nnio perc hé il trend
zione». Ci vuole
2006 , per la prim a volt a, si parla
si inverta: nel
sull’onda afora
più di precarietà che di flessibilità, degli albori del grillismo, come met
aglia con tro la legg e 30, il prov vedi- dei rica tti econ omi ci, giur idici
della batt dell’insieme
usco ni. Il è sotto-
mento sul lavoro del governo Berl e perfino esistenziali a cui ognuno
2012 : c’è petizione
rapporto si ribalta nuovamente nel posto nel meccanismo della com
e la reto rica
da salvare l’Italia dallo spread, individuale globale.
sulla realtà rale
della flessibilità torna a prevalere Il senso comune non è un dato natu
ario . Nel 2015 po di batt aglia
concreta di chi vive da prec a cui adeguarsi, ma un cam
e si torna a ano
arriva il Jobs Act di Matteo Renzi prodotto dai conflitti che attravers
fino con tend ere co-
parlare di precarietà, posizione strumentale la società, uno spazio da
ggio tra i i di rico nos cim ento
al sostanziale pare al consenso, che inse- struendo meccanism
il rac-
due termini nel 2018. gue un cambiamento collettivo in cui le persone trovino
Venti ann i fa, il cen - ria vita con cret a e del
nel senso comune. La conto della prop
cele brav a la liora rla. Mod ifica rlo sign ifica
trosinistra narrazione della flessibi- modo per mig
tà; oggi il lead er ersa rio a gioc are sul prop rio
flessibili lità e della competitività, spostare l’avv
avere la
del più grande movimento della nec
essi terreno. Poi, certo, bisognerebbe
tà di adat-
di destra radicale dal do- tare completamente le capacità di sfidarlo.
poguerra, Matteo Salvini, nostre vite alle necessità
durante i negoziati sul del capitale globale, ormai, non regg
governo segnala come e più
INVERNO 2018/19

neanche a destra. A invertire que


prima urgenza per l’ese - l tren d sono
stati venti anni di battaglie sociali.
cutivo il fatto che «di pre- L’ico na di
San Precario, creata dagli attivisti
carietà si muo re». Una dell a man i-
festazione del primo maggio mila
nese May-
Day, è arrivata a farsi evocare anc
he da chi
un contratto di lavoro non ce l’ha
N. 1

ma subisce
Lorenzo Zamponi

le stesse logiche di sfruttamento,


come gli
studenti dei movimenti dell’Onda
tra il 2008
e il 2011, o da chi un contratto stab
ile ce l’ha
ma è tutt’altro che “garantito”, com
e i me-
talmeccanici ricattati da Sergio Mar
chionne
alla Fiat. E è approdata perfino nell
e piazze
72

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Reddito
R eddito garantito, o anche: reddito
Gaia Benzi

incondizionato, di cittadi-
nanza, di esistenza, reddito minimo
universale, reddito di di-
gnità, di inclusione, e così via. Più
semplicemente, reddito di base:
uno strumento di fiscalità redistrib
utiva in mano allo Stato o a un’i-
stituzione pubblica più o meno loca
le, che investe un certo numero
di beneficiari con lo scopo di gara
ntirne la sussistenza.
Un’intuizione di marca progress
ista che compare per
la prima volta sul finire del Settecen
to in Francia come
misura di contrasto alla povertà,
e che riemerge spesso
nella storia del pensiero economi
co: soprattutto in
periodi di crisi, quando un elevato
tasso disoccu-
pazione si somma all’aumento dell
e disuguaglianze
– quando cioè il lavoro scarseggia
e la piena occupazione
resta un miraggio lontano – l’ide
a di eliminare la povertà dando
dei soldi ai poveri torna a sembrar
e terribilmente sensata.
Tuttavia, il reddito di base non è una
semplice elemosina. Nella
sua formulazione più avanzata e
radicale, il reddito è uno stru-
mento di conflitto, pensato per libe
rare uomini e donne dal ricatto
del bisogno e dalla necessità di lavo
rare per sopravvivere. A volte è
inteso come misura universale, indi
viduale e incondizio-
nata, altre è pensato per
platee di beneficiari più ito di
il nome (reddito di inclusione, redd
ristrette, ma in ogni caso di libe rtà, quale
cittadinanza) e la promessa
ha una valenza propul- le allo dole . Nell a
efficace specchietto per
siva, di emancipazione entr amb i disp osit ivi
pratica, però, sono
e autodeterminazione: vi-
finalizzati all’asservimento degli indi
se le esigenze materiali mer cato , che non solo
dui alle logiche di
dell’individuo sono già ito alla
subordinano l’erogazione del redd
soddisfatte, aumenta il e e alla diso ccup azione
situazione fam iliar
suo potere contrattuale o
conclamata, ma addirittura obbligan
nei confronti del mercato lunq ue
alla disponibilità a lavorare a qua
del lavoro e ha più tempo e.
condizione – anche gratis, se serv
a disposizione per vivere la
Con questi parametri, il reddito non
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

sua vita e lottare per i suoi ica,


è altro che l’ennesima toppa familist
diritti. Bello, no? di un welf are
ristretta e condizionata
Bello. E infatti le pro- ilità
al collasso, che aumenta la ricattab
poste di legge avanzate in forz a coer citiv a del
dei lavoratori e la
tal senso in Italia da Pd e e di
mercato. Da strumento di conflitto
CinqueStelle ne conservano lavo rato ri, il redd ito di
emancipazio ne dei
nta così disp osit ivo pate rnal ista
base dive
iplin ame nto dell a pov ertà , olio negli
di disc
ta.
ingranaggi della macchina capitalis
73

066_074_Parole.indd 73 26/10/18 21:48


Violenza
sulle donne
L
un’emer-
a questione è capire se si tratti di
Marie Moïse

genza o di un’urgenza.
come
Affrontare la violenza sulle donne
ifica parl are di un feno me-
un’emergenza sign
cui non rest a che inte rven i-
no imprevisto, su
quasi sem pre a fatto com piut o.
re per punire,
o solo
Nello stato di emergenza emergon
più evidenti del prob lem a. Quelle
le forme
o che si
che non lasciano i segni sul corpo,
più, conti-
compiono lontano dagli occhi dei
a perv adere
nuano, ignorate o normalizzate,
a all’e mer gen za
la vita delle donne. Chi grid
icid i pref erib ilme nte
parla di stupri e femmin
uno stra nier o per stra -
quando a compierli è
don na itali ana . Non con ta
da a danno di una
subito vio-
che 4 donne italiane su 5 abbiano
ano , e che 2 fem min icidi su 3
lenza da un itali
e. Tanto la
avvengano per mano di un familiar
rali pun-
destra populista quanto le forze libe e voci che si
ergenza successo anche me. L’insieme dell
tano il dito sull’immigrazione – l’“em nte lo spaz io politico
sono prese autonomame
immigrazione” – costruen- prob lem a sin dall e sue ra-
ha fatto emergere il
do il mito che la violenza politica dell’emergenza
a sua dim ensi one struttura-
dici, ovvero sin dall
sulle donne sia propensio- prova a occupare lo
feno men o che, dall e relazioni
le. È quella di un
ne degli uomini stranieri, spazio delle dirette in- a il sistema
personali alle istituzioni, attravers
in particolare di cultura teressate, togliendole iona-
intero, o meglio, ne garantisce il funz
islamica. Con la compli- la voce o peggio inter- in piedi se le
mento. Il capitalismo resterebbe
cità dei mass media e dei venendo solo quando,
la violenza a
donne non fossero costrette con
generatori di fake news, insieme alla voce, hanno
ro a mettere al mon do, nutrire,
invocano la castrazione ormai perso la loro stessa riprodurlo, ovve vite che il
ente le
vestire, soddisfare sessualm
chimica, i militari per le vita. Ma questo accade
capitalismo stesso sfrutta?
INVERNO 2018/19

strade, l’inasprimento 150 volte all’anno, 1 volta mergen-


La violenza sulle donne non è un’e
delle pene, le espulsioni ogni 2,5 giorni. Altro che
ress ione in cui viviamo.
fenomeno imprevisto. za, ma il sistema di opp
e i corsi di educazione di srad icar lo.
L’urgenza è quella
ai valori occidentali per Parlare di urgenza,
richiedenti asilo. allora, significa ricono-
È questo il modo scere la necessità impellente di affro
N. 1

ntare il problema,
in cui si alimenta ma nella sua interezza. L’urgenza
è quella di chi, negli
allo stesso tempo lo ultimi due anni, ha riempito le piaz
ze e i social network
stereotipo dell a don na con la parola d’ordine “Non una di men
o”: non lasce-
vittima indifesa da remo che un’altra vita soltanto ven
ga portata via dalla
salvare. E così, la violenza, senza aver lottato per lei,
per tutte noi. Quel
noi si è coagulato nel momento in
cui l’esperienza
diretta di chi ha subito violenza è
tornata a uscire allo
scoperto, nel guardarsi l’un l’altra
e dirsi #metoo, è
74

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Senza sinistra

CORSIVO
S
enza sinistra è una pratica dito, il furto di vite in cambio di un reddito.
quotidiana affinata dall’espe- Senza sinistra è non ce la faremo mai.
rienza, temprata dall’impo- Senza sinistra è quasi tutta la sinistra che si vede
tenza, morsicata dal bisogno. qui e ora, che orgogliosamente si chiama sinistra sì,
Senza sinistra è lo spuntone ma i mercati, sì, ma i piccoli azionisti, sì ma l’azien-
Alessandro in acciaio sulle sedute pubbli- da, sì, ma l’ordine, sì ma il decoro.
Robecchi che, alla stazione, sui muretti, Senza sinistra è si ma.
accanto ai monumenti, dove Senza sinistra è il discorso della pena e del dolore,
si intende che il sostare improduttivo non è gradito commozione, partecipazione, solidarietà che si
agli sguardi, non conviene, turba l’ordine econo- arresta di fronte al discorso del conflitto, dei rap-
mico. Senza sinistra è il design cattivo, la panchina porti di forze. Sì, ma senza sporcare. Sì ma senza
«antibivacco» per non farci dormire il barbone, è il far danni.
gioco di tubi sulla grata che manda aria calda per Senza sinistra è il contagio dello scandalo padro-
farlo dormire al freddo. Senza sinistra è punizione nale: «Ecco, scioperano sempre al venerdì».
costante, vigilanza, mercato. Senza sinistra è ti pago in visibilità.
Senza sinistra è la casa sfitta. Senza sinistra fa curriculum.
Senza sinistra è la moltitudine di poveri che di- Senza sinistra è la rabbia privatizzata, rancore
fende il ricco e indica come nemico il più povero personale, odio singolo che non si incanala, senza
ancora, e poi quello più ancora, senza sinistra è il sinistra like, senza sinistra soft, senza sinistra incre-
penultimo che picchia l’ultimo. menta il traffico, sei felice? Fatturi?
Senza sinistra è la famiglia Joad dall’Oklahoma Senza sinistra è chiamare «privilegi» i diritti, sen-
alla California a metà dei vecchi anni Trenta, senza za sinistra è combattere – allora sì – i privilegi.
sinistra è Josefa dal Camerun alla Libia al mare alla Senza sinistra è una pratica quotidiana di ognuno
vigilia dei nuovi anni Venti. di noi, di chi se ne accorge, di chi non se ne accor-
Senza sinistra è l’algoritmo, il braccialetto elettro- ge, di chi passa per caso e ci cade dentro, e sangue,
nico, la telecamera. Senza sinistra lo straordinario e dita, e fratture multiple. Senza sinistra è un tom-
estorto. Il cottimo risorto? Senza! Il «meglio che bino per la strada, pertugio e trappola. Colla densa
niente»? Senza! Senza sinistra gospel. Senza sinistra intorno, ambiente naturale, habitat. Così senza
blues. sinistra da faticare a immaginarla.
Senza sinistra è il trucco del portafoglio con il filo, È il perfetto romanzo del nemico: se il migliore
che scappa via quando ti chini a raccoglierlo. Senza dei mondi possibili si misura in fatturato, eccoci,
sinistra è la favola eterna delle due fasi. Fase uno: questo lo è. Senza sinistra è ciò che non funziona
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

sacrifici e poi vedrete che… Fase due… spiacenti applaudito come un successo, il vecchissimo ven-
non si può fare. duto come nuovo, schiavitù e buoni pasto per lo
Senza sinistra è la truffa del merito, la retorica del zio Tom.
merito, la vergogna del merito, una gara in cui si Molto altro, oltre a questo, è senza sinistra.
fissa il traguardo, ma non il punto di partenza. E senza sinistra non se ne esce.
Senza sinistra è il taglio di tutto ciò che è pubbli-
co, senza sinistra è le mani che si allargano e la fac- Alessandro Robecchi, scrittore e autore satirico, è nella
cia impotente: «Eh, è il mercato, che ci vuoi fare». squadra di sceneggiatori che scrive gli spettacoli di
Senza sinistra è non volerci fare niente, infatti. Maurizio Crozza e collabora con il Fatto quotidiano. Il
Senza sinistra è l’accumulo di vite per fare un red- suo ultimo libro è Follia maggiore (Sellerio).
75

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Non è un paese
(RI)PRODUZIONE

per fare figli


Sì, l’Italia ha un problema demografico. Ma non date retta
alla propaganda moralista delle destre di ogni tipo:
per incentivare le nuove nascite bisogna riconoscere
le famiglie non tradizionali e lottare contro le ingiustizie

P
resentando in diretta televisiva le prime bozze del cosiddetto
«Decreto Dignità» e posto di fronte all’insinuazione che questo
contenesse misure «da comunisti», il ministro del lavoro e “capo
politico” del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio ha spiegato che
la “stabilità” è necessaria per permettere ai giovani di fare figli, e
Giacomo Gabbuti che non può esserci crescita economica senza quella demogra-
Lorenzo Paglione fica. Per l’ennesima volta, anche in questa occasione Di Maio ha
ribadito di non essere «di sinistra», ma di voler sostenere quei
diritti sociali che la sinistra ha tradito, incluso quello «di fare figli». Negli stessi giorni
uno spot della Chicco auspicava un nuovo “baby boom” al fine di rilanciare un Paese in
crisi sollevando un vespaio di polemiche. Impossibile non pensare al patetico lancio del
Fertility Day nel 2016. Quella campagna, voluta dall’allora ministra del governo Renzi,
Beatrice Lorenzin, riduceva il problema demografico a scelte, comportamenti, stili di
vita sbagliati dei giovani italiani (in primis, ovviamente, delle donne). Oltre a poche e
occasionali forme di sostegno monetario e alle promesse di
asili nido, anche per il centrosinistra la crisi delle nascite si
risolverebbe con campagne d’opinione volte a convincere i Giacomo Gabbuti
INVERNO 2018/19

mammoni italiani a metter su famiglia (e magari le donne a è dottorando


starsene a casa con i bambini). di storia economica
L’idea conservatrice e sessista sottostante questa imposta- all’Università di Oxford.
zione è stata analizzata. Lo stesso non si può dire del problema Lorenzo Paglione
è medico
N. 1

specializzando in
sanità pubblica,
fa parte dell’esecutivo
nazionale del
coordinamento
“Chi Si Cura di Te”.
76

076_081_Nascite-diseguali.indd 76 26/10/18 21:16


demografico. Le politiche nataliste sono sempre state un cavallo di battaglia dei nostalgici
del Ventennio. Tuttavia, la dinamica demografica italiana degli ultimi decenni offre mo-
tivi di preoccupazione oggettivi. Ad esempio, è difficile attribuire simpatie mussoliniane
al passaggio conclusivo dell’editoriale che l’Independent ha dedicato al crollo del Ponte
Morandi di Genova. Tracciando il fosco quadro italiano, il quotidiano inglese ha ipotiz-
zato che dietro molti dei problemi del nostro paese vi sarebbe la «disastrosa demogra-
fia». L’«invecchiamento della popolazione», sostiene il testo, rende «tetra» la prospettiva
di migliori servizi pubblici e «improbabile» un miglioramento delle «condizioni di vita».
Indicheremmo nelle politiche economiche e sociali la causa prima e più immediata delle
disastrose prospettive italiane, ma che quello demografico sia un problema non sembra-
no esserci più dubbi.
Non siamo più negli anni Venti del Novecento, quando, come ha spiegato la storica
Anna Treves, le ansie demografiche erano basate su previsioni dimostratesi del tutto erra-
te. In un’Italia che cercava nel “colonialismo demografico” una soluzione alla sovrappo-
polazione, le politiche nataliste vennero motivate dal terrore delle culle vuote e di un più
generale “declino dell’Occidente”. Dopo una riduzione avviatasi a metà degli anni Sessan-
ta, negli anni Ottanta il tasso di fecondità totale (definito come il numero medio di figli
per donna in età riproduttiva) scese stabilmente sotto 2: l’Italia si ritrovò tra i paesi meno
fertili al mondo. Negli ultimi due decenni c’è stata una lieve ripresa, complice anche l’ap-
porto delle famiglie immigrate. Ma è dagli anni Novanta che il saldo naturale (la differen-
za tra natalità e mortalità) porta il segno meno. Dall’Unità era accaduto solo nel 1917-18,
per tutt’altre cause. Pur essendo lontani dalla denunciata “sostituzione etnica”, sono stati
i flussi migratori a tenere in positivo la bilancia demografica (almeno fino al 2015).

Dalla demografia lenta a quella veloce

Come illustrato dal demografo Francesco Billari al convegno per i novant’anni dell’I-
stat, in questi anni le migrazioni hanno portato al passaggio dalla demografia lenta, fatta
di fenomeni sociali prevedibili, a una veloce, che richiederebbe rilevazioni più frequenti
dei soli censimenti (basti pensare a quanto poco sappiamo dei nostri concittadini che si
spostano all’interno dell’Ue). Non solo: in questi stessi decenni, spiega Billari, nei paesi
economicamente avanzati «i differenziali tradizionali di fecondità vengono ribaltati». Da
un lato, alla faccia delle letture clerico-fasciste, sono i «comportamenti familiari meno
tradizionali» a far registrare maggiore fertilità. Dal 2008 al 2016, i nati fuori dal matri-
monio sono cresciuti di 30mila unità, mentre le nascite totali sono calate di 100mila. In
generale, tra i paesi più ricchi, quelli con il benessere più elevato mostrano più alti tassi
di fertilità. Soprattutto, all’interno di questi paesi sono i più ricchi e istruiti a fare più figli.
In un articolo del 2017, lo stesso Billari e Agnese Vitali mostrano come questa correla-
zione sia osservabile anche nel nostro paese. Non solo i dati sulla fertilità a livello provin-
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

ciale evidenziano un ribaltamento delle tradizionali differenze nord-sud; allo stesso tem-
po, cambiano di segno le correlazioni con i principali fattori della fertilità. Mentre diventa
fortemente negativo l’impatto delle differenze di genere nel tasso di occupazione, cresce
77

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SUPERGA
Differenza nella CENTRO
speranza di vita

81,2 anni
a 35 anni nei
quartieri di Torino 79,5 anni

l’importanza dei figli nati fuori dal matrimonio, e diventa determinante la ricchezza me-
dia. Illuminante, in questo senso, è un altro lavoro di Billari (qui con Vincenzo Galasso) in
cui si utilizzano come “esperimento naturale” le riforme pensionistiche Dini e Amato, con
il conseguente peggioramento delle prospettive dei giovani, per dimostrare il forte effetto
negativo di un peggioramento delle condizioni di vita sulla fertilità in un paese avanzato.
Dietro il problema della bassa natalità italiana, dunque, si na-
sconderebbe una questione più complessa: influisce la disegua-
LE DISEGUAGLIANZE glianza di genere (diventa sempre più rilevante il problema del
SOCIALI INCIDONO cosiddetto double-shift: le donne che sempre di più entrano nel
SU QUANTO SI VIVE mercato del lavoro senza perdere il monopolio di quello domestico
E COME SI MUORE: e di cura) ma un ruolo ce l’hanno anche le prospettive stagnanti
ISTRUZIONE E REDDITO per i giovani e le crescenti diseguaglianze territoriali. Queste ultime
SI RISPECCHIANO non riflettono più, come nell’Italia del dopoguerra, fattori culturali,
SU SALUTE E LONGEVITÀ ma sempre più condizioni oggettive e materiali, come le prospet-
tive occupazionali e l’accesso ai servizi (si pensi ai citati asili). Da
quest’ottica, pare utile leggere la questione con le lenti delle “dise-
guaglianze sociali in salute”, filone di ricerca che negli ultimi anni ha posto l’attenzione
INVERNO 2018/19

sui determinanti sociali dei crescenti differenziali di salute all’interno di città e territori.
Fattori come istruzione, condizioni di lavoro, reddito familiare, incidono non solo sulle
possibilità degli individui, ma sulla loro stessa salute e longevità, accanto alle caratteri-
stiche genetiche e a fattori non modificabili come l’età.
Lo studio delle diseguaglianze di salute dimostra come siano queste diseguaglianze
(tra persone, territori, regioni) a spiegare sempre di più quanto si vive e di cosa si muore,
N. 1
78

076_081_Nascite-diseguali.indd 78 26/10/18 21:16


Passando dai quartieri più ricchi alle
PORTA periferie più deprivate, lungo la linea VALLETTE
del tram 3 di Torino si perdono quasi
PALAZZO

78,3 77,8
quattro anni di aspettativa di vita (Costa
G., Stroscia M., Zengarini N., Demaria
M., 40 anni di salute a Torino, spunti per
leggere i bisogni e i risultati delle politiche,
Inferenze, Milano 2017).
anni anni

Tasso di fecondità totale


Differenza tra il tasso medio provinciale e la media nazionale.
Elaborazione su dati Istat, basata su A. Vitali e F. C. Billari,
Changing Determinants of Low Fertility and Diffusion: a Spatial
Analysis for Italy, Popul. Space Place 2017, 23: e1998.

2016

1999
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

> +1 +0,5 +1 -0,5 +0,5 -1 -0,5 < -1


79

076_081_Nascite-diseguali.indd 79 26/10/18 21:16


12
Saldi demografici
10
Italia, 1961-2017
8

Tasso di crescita naturale


4
Tasso migratorio totale
Somma
2

-2

-4
1961
1962
1963
1964
1965
1966
1967
1968
1969
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
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nel nostro paese. Se già i dati censuari rivelano un importante gradiente nord-sud nell’a-
spettativa di vita, e una differenza di tre anni tra alto e basso livello di istruzione, ancor
più impressionanti sono le differenze rilevate dal gruppo di ricerca animatore del portale
disuguaglianzedisalute.it. I dati di Torino mostrano come, lungo il percorso del tram che
parte dal quartiere ricco di Superga e si dirige verso la periferia di Vallette, l’aspettativa
di vita si riduca di un anno per chilometro. A Superga la longevità è in linea con la media
nazionale, a Vallette si è fermi ai primi anni Ottanta. Tenendo conto dei sempre più nume-
rosi studi sulle conseguenze di queste diseguaglianze sulla stessa salute dei figli (dal peso
alla nascita, allo sviluppo psico-motorio, entrambi correlati ai livelli d’istruzione dei ge-
nitori), non è difficile ipotizzare un loro ruolo sulla stessa scelta di mettere al mondo figli,
in un paese in cui tra i bambini e le loro famiglie si registrano i tassi di povertà più elevati.
Se quello della demografia sembra destinato a diventare sempre di più un fronte caldo
del dibattito italiano, non è detto si sia costretti a subire la stantia retorica reazionaria. Al
contrario, la fertilità può diventare un terreno su cui rilanciare e portare nel senso comu-
ne la necessità di contrastare la precarietà lavorativa, perseguire una reale uguaglianza
di genere, riaffermare il diritto a servizi pubblici efficienti e contrastare i crescenti divari
INVERNO 2018/19

territoriali dentro le nostre città e regioni. Superando una volta per tutte l’imbarazzo le-
gato alla tradizione non proprio democratica di certa demografia e mettendo al centro
dell’analisi le diseguaglianze socio-economiche, è necessario prendere sul serio il diritto
(non certo il dovere) di avere figli.
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Il tasso di crescita della popolazione è
ente ottenuto sommando il tasso crescita naturale
atorio, – la differenza tra il tasso di natalità e il tasso
escita di mortalità – al tasso migratorio totale – il
totale rapporto tra il saldo migratorio (immigrati
meno emigrati) e popolazione residente.
I tassi sono espressi in valori ‰ abitanti.
Fonte: Istat
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1985
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2017
Speranza di vita alla nascita L’aspettativa di vita
della popolazione per regione, genere e livello di istruzione calcolata dall’Istat
nelle singole Regioni
87 mostra evidenti
gradienti sia nelle
86 disuguaglianze tra le
Regioni, in particolare
85 tra quelle del sud e
quelle del nord, sia,
84 Donne all’interno delle stesse
Regioni, tra persone
83 con diverso livello di
istruzione.
82

81

80
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

79
Uomini Livello di istruzione

Alto
78
Medio
77 Basso
Piemonte
Valle d’Aosta
Liguria
Lombardia
Bolzano/Bozen
Trento
Veneto
Friuli-Venezia Giulia
Emilia-Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna

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(RI)PRODUZIONE

La cura
come
business
Prima erano lavori svolti gratuitamente dalle donne
nelle proprie case. Poi i servizi di assistenza sono passati
anche sotto il controllo del mercato. Un caso emblematico
di monetizzazione di affettività e relazioni sociali
82INVERNO 2018/19
N. 1

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L
a cura come business, come occasione di fare profitti. Niente a
che vedere con la cura come patrimonio dello stato sociale, del
welfare pubblico o, magari, della solidarietà sociale. La prima sta
cacciando la seconda, almeno dalla metà degli anni Novanta. E
da almeno due decenni, i bisogni di cura di persone anziane o
Sara R. Farris malate, bambini e disabili sono al centro del dibatto politico e
Sabrina Marchetti accademico, soprattutto fra studiose e attiviste femministe. No-
nostante tocchi la sfera intima e personale, sulla questione della
cura sono in gioco non solo le misure di welfare ma anche, sempre di più, soggetti pri-
vati e for-profit che offrono servizi di cura di vario tipo. La presenza di attori così diversi
ha innescato una varietà di processi il cui esito dipenderà dall’equilibrio che si stabilirà
fra stato, mercato, famiglie e terzo settore.
Nel corso del Novecento, in Italia e in Europa ci sono stati numerosi tentativi di
sperimentazione sul tema della cura da parte di organizzazioni ispirate da ideali co-
munitari, di solidarietà e per la valorizzazione del lavoro tradizionalmente svolto
(gratuitamente) dalle donne nelle proprie case. Ma a partire dagli anni Novanta si è
progressivamente interrotta l’idea di una fornitura pubblica di cura, sia istituzionale
che partecipativa “dal basso”. Tanto nel caso della cura agli anziani che per quella dei
disabili, le politiche si indirizzano largamente verso il modello del “cash for care”, ossia
di un contributo monetario, invece che materiale, erogato a famiglie e persone con
esigenze di questo tipo.
Tale sistema ha progressivamente incentivato l’im-
piego di assistenti personali, su base privata e domicilia-
re, da parte di chi riceve la cura, piuttosto che attraver- Sara R. Farris, Senior Lecturer
so posti di lavoro gestiti direttamente dallo stato. Claire in Sociologia a Goldsmiths -
Ungerson nel suo saggio del 1997 Social Politics and the University of London, è autrice tra
Commodification of Care, anticipa che attraverso que- l’altro di In the name of women
sto tipo di misure si passa da una visione “assistenziale” right (Duke University press).
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

di chi necessita di cura a una visione di mercato, per la Sabrina Marchetti è docente di
quale queste persone diventano “consumatori” che ac- Sociologia dei processi culturali
quistano il servizio di cui usufruiscono. all’Università Ca’ Foscari di
Venezia e autrice di diversi
saggi su lavoro domestico e
discriminazioni di genere e razza.
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Questo stesso processo riconferma, seppur con modalità nuove, la centralità della fami-
glia quale unità principale per il soddisfacimento dei bisogni di cura. Ne è infatti responsa-
bile direttamente, ad esempio nel sempre maggiore coinvolgimento dei nonni per l’accudi-
mento dei bambini, oppure indirettamente tramite la gestione dell’impiego di una persona
esterna.
Si compie così una parabola per cui a una fase iniziale di fuoriuscita della cura
dall’obbligatorietà per le donne e di presa in carico in senso comunitario o istituziona-
le, fa seguito un nuovo familismo andato di pari passo con la creazione di una sfera di
servizi di assistenza e cura in un regime di mercato.

Aziendalizzazione della cura

In Australia, Usa, Canada, e in diversi paesi dell’Europa occidentale si assiste a un feno-


meno di “aziendalizzazione della cura”.
Il settore della cura è uno dei pochi che ha resistito alla crisi economica globale inizia-
ta nel 2007 e ha attratto l’interesse di investimenti e imprese. Secondo il Global Healthca-
re Private Equity And Corporate Report, gli investimenti privati nel settore, includendo la
cura per anziani e disabili, hanno raggiunto la cifra record di 36.4 miliardi di dollari nel
2016. Il 40% degli investimenti sono stati fatti da aziende europee.
Si tratta, in pratica, della sempre maggiore (e aggressiva) presenza di aziende, incluse
aziende quotate in borsa, in questo ambito di servizi. Tali aziende non stanno semplicemen-
te allargando il ventaglio di servizi offerti, ma anche modificando radicalmente le condizio-
ni di chi lavora in questo settore nonché le caratteristiche dell’assistenza che viene fornita.

Franchising, aziende e cooperative

In Italia le richieste nel settore della cura sono quasi interamente soddisfatte dall’im-
piego di donne migranti, specialmente di origine esteuropea, come assistenti familia-
ri. Secondo il Dossier Statistico Immigrazione del 2017, sono per tre quarti straniere le
739mila persone occupate come colf o badanti. Le loro remunera-
zioni sono generalmente molto basse, a causa della vulnerabilità
I SOGGETTI CON e precarietà del lavoro offerto da lavoratrici straniere spesso senza
BISOGNI DIVENTANO permesso di soggiorno. Questo modello tuttavia è lungi dall’esse-
“CONSUMATORI DI CURA” re interamente “in mano alle famiglie”, come spesso si dice, poiché
E CHI LAVORA IN QUESTO sempre più amministrazioni municipali, associazioni, aziende e
SETTORE, SOPRATTUTTO cooperative si inseriscono in questo mercato con diverse modalità.
DONNE MIGRANTI, È L’aziendalizzazione della cura è evidente nella diffusione di ditte
SPESSO SOTTOPAGATA private che forniscono assistenza alla stregua di qualsiasi altro ope-
INVERNO 2018/19

ratore nei servizi. Fra tutte spicca il caso di PrivatAssistenza, un’a-


zienda che opera su tutto il territorio italiano in modalità franchi-
sing, con incassi di oltre 50 milioni di euro nel 2016. Fra il 2010 e 2015 il numero di sedi di
PrivatAssistenza è raddoppiato (da 80 a 180) arrivando a 40mila clienti.
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Ben sappiamo che il settore privato è già estremamente diffuso nel caso degli asili nido
per l’infanzia, solo parzialmente sostenuti da finanziamenti pubblici. Per l’Istat nel 2015
solo il 36% degli asili nido era di tipo pubblico anche se le differenze regionali sono parec-
chie: i bambini sotto i tre anni accolti in servizi comunali o finanziati dai comuni variano
dal 18,3% del Centro al 4,1% del Sud.
Infine, anche le cooperative sociali sono un attore sempre più centrale in questo pa-
norama. Secondo un’indagine ISMU/Censis del 2013, le cooperative rappresentano il
14% del settore della cura domiciliare dando lavoro a circa il 6% degli occupati del ramo.
Le cooperative sono spesso, ma non sempre, assegnatarie di finanziamenti da parte di
enti locali dopo un processo di selezione di tipo competitivo, per bandi. Ma non sono
estranee a logiche di tipo aziendale nella gestione del lavoro delle operatrici e nell’im-
postazione del servizio. Nell’ottica di una sempre maggiore riduzione dei costi organiz-
zano la turnazione delle lavoratrici, la divisione e l’organizzazione dei loro compiti, la
gestione della durata e sequenza delle mansioni in un’ottica di efficienza e massimizza-
zione del rendimento, con un utilizzo sempre più diffuso di supporti tecnologici, sullo
stile di ciò che accade in ambito industriale. Nonostante al posto di macchinari si trovi-
no persone vulnerabili, in condizione di malattia e fragilità.

Catene di montaggio impersonali

Questo fenomeno non è privo di ripercussioni sul’“immaginario della cura”. Il progres-


sivo uscire della cura dalla sfera del lavoro riproduttivo non retribuito non ha contribuito
al suo ripensamento come attività collettiva e condivisa. La logica di mercato non è slega-
ta da un approccio personalistico e anzi emula modalità familistiche per intercettare i bi-
sogni dei “consumatori” della cura.
È il processo di aziendalizzazione a trasformare l’immaginario della cura. Nella con-
cezione tradizionale, la cura consisteva in una serie di attività di carattere fluido, con
mansioni cicliche e ripetitive, senza tempi fissi, basate più sulla risposta alle esigen-
ze che su decisioni prese a priori; e soprattutto come attività intima basata sul rap-
porto “a due”. Nella cura aziendalizzata invece i pazienti sono accuditi da diverse per-
sone in rotazione, non per una esigenza
di collettivizzazione ma nell’ottica della sione, tenerezza e accudimento, ma diplomi e certifica-
catena di montaggio toyotista, con con- zioni di competenze. Inoltre, le condizioni lavorative sia
seguente svuotamento della relazione nelle cooperative che nelle aziende per la cura peggiora-
personale e della capacità di ascolto dei no progressivamente.
bisogni. Le qualità richieste alle assisten- Così come sta accadendo più in generale in vari ambiti
ti non sono qualità umane, di compren- della nostra vita personale e familiare, le mansioni, le per-
sone e i gesti collegati alla cura tendono a non esser più vi-
sti come una relazione umana, ma come un pacchetto di
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

“items” da scegliere da una lista premendo un pulsante, e


a cui dare il proprio “like” a servizio concluso.
Ma nel nostro ideale “paese di sinistra”, come vorrem-
mo organizzare la cura evitando che ricada sulle don-
ne come responsabilità e attività prettamente di genere
senza svuotarne il suo carattere affettivo e riproduttivo?
E come possiamo rispondere al bisogno di cura da parte
delle persone più fragili in un contesto di costante ridu-
zione della spesa pubblica?
85

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Faccia
(E)MIGRAZIONI

Cos’ero? Un migrante economico. Uno di quelli che


secondo i lupi mannari al potere non andrebbero accolti.
Uno da aiutare a casa sua. Solo che quelli che dicono
aiutiamoli a casa loro, mi avevano rubato i diritti e il pane

S
to sul confine. Tra Europa e Regno Unito, tra indagine in prima
persona sul mondo della nuova emigrazione italiana in Gran Bre-
tagna e travel-logue di fatica. Lavoro sfruttato come un mulo al
minimum wage ma fingo di fare inchiesta. Nella mia testa ronzano
appunti e pagine di diario; buste paga con un insurance number
della previdenza inglese e deformazioni sarcastiche di lavori inu-
Alberto Prunetti tili, penosi e repellenti, eseguiti da un italiano immigrato oltrema-
nica. Un laureato working class che invece di fare il dottorato va a
Bristol a pulire i cessi e cerca Shakespeare nelle latrine. Me l’aveva promesso anche Alan
Sillitoe nel suo strepitoso racconto La solitudine del maratoneta: «so che quando avrò
perso mi toccheranno i più infami lavori di sguattero e lavaces-
si nei mesi che mancano prima che abbia finito di scontare la
pena». Sono un europeo del sud, un fottuto perdente, nell’e- Alberto Prunetti,
INVERNO 2018/19

tica del neoliberismo, sull’onda del “There is no alternative” scrittore e traduttore,


della Thatcher e del “We are all middle class” recitato come un è autore di 108 metri.
mantra da Blair. E se non vuoi proprio vincere (perché non hai The new working
ambizioni da quattrinaio) allora sei un fottuto Chav. Un coatto, class hero (Laterza),
PCSP (Alegre Quinto
N. 1

Tipo) e Amianto.
Una storia operaia
(Alegre).
Per Alegre dirige la
collana di narrativa
Working class.
86

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da turco

VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

i
zioni d
Illustra
87

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uno scarto della società. E questo sono per loro, per chi fa shopping e viene a svuotare la
vescica passando davanti a me, al ragazzo col mop. Altro che cervelli in fuga e altre para-
culate da quattrinai.
A volte mentre passo una spugnetta blu su uno specchio rigato da schizzi di sapone
mi vengono in mente le pagine di Faccia da turco, l’inchiesta del giornalista tedesco
Günther Wallraff. Uno che si finse un lavoratore turco per indagare lo sfruttamento
della forza lavoro immigrata in Germania. Magari, mi dico, me ne sto undercover. Sto
realizzando uno stunt. Sono davvero un cervello in fuga, in incognito nel mondo della
lower working class inglese. Sono come Orwell in Down and Out in Paris and Lon-
don. Butterò via la maschera dell’infiltrato nei cessi e dirò: «sorpresa, sono il vostro
antropologo preferito, raccontatemi la vostra storia e facciamo una bella fotografia
per The Guardian». Magari. Il fatto è che non dovevo fingere di essere immigrato: lo
ero davvero. Non dovevo neanche alterare il
mio aspetto fisico: le spalle, la statura e i
miei modi erano perfetti, in un contesto
working class. Solo il mio inglese era pessi-
mo, ma non dovevo mica parlare granché.
Bin, trash, litter. Shit. That’s it. E quanto alla
faccia, ho scoperto che a Londra la faccia da
turco e quella da italiano si equivalgono. Fino
all’intercambiabilità, al punto che chi scrive si è
trovato a lavorare sotto un turco che si fingeva ita-
liano. Sia quel che sia, greco, italiano, spagnolo o
portoghese, ho camminato sulla pista di quei nuo-
vi emigrati europei del Sud, più o meno giovani,
che la crisi ha portato a guadagnarsi il mestiere
di vivere lontano da dove sono nati. Storie che il
giornalismo, trincerato dietro la formula carica-
turale dei “cervelli in fuga”, non riesce a raccon-
tare. Perché dietro i cervelli ci sono i cuori e i
piedi e le mani. E anche quelli che hanno una
misera borsa di studio (e non era il mio caso),
per campare devono portare coi piedi quel “cer-
vello in fuga” dentro un centro commerciale alla
periferia di Bristol, dove le mani dovranno pulire
tavolini per la paga minima sindacale. E mentre
le mani puliscono, col cervello ripassi la lezione.
Non quella da dare all’università. Quella da pren-
INVERNO 2018/19

dere all’agenzia interinale: se ti ammali, la prossi-


ma settimana non ci sono ore per te. Fair enough. E
intanto alle spalle ti accusano di portare via il lavo-
ro agli inglesi. Britain first, dicono. Via gli stranieri
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dal Regno Unito, dicono. Tu incassi, hai visto di peggio. Dalle profondità dei cessi di
un centro commerciale, con una pettorina da cleaner, analizzi la merda dei culi inglesi
e tenti l’exit pool: aruspice di una Brexit tutta da venire, vincerà il Leave o il Remain?
Vince il Leave, ma tu te ne sei già andato. Sei scappato dall’Italia, te ne andrai anche
dall’Inghilterra. Tornerai, ripartirai. Nessuna patria ti aspetta. Sei rimasto intrappolato.
Non c’è più né Italia né Inghilterra, questi nomi di vecchi paesi del Novecento sono
solo specchietti per le allodole. La realtà del nostro presente è la no man’s land del
precariato globalizzato. Contrazioni violente e spasmi muscolari, boccate d’ossigeno e
fughe che ti spingono a Parigi, a Berlino, a Barcellona, ovunque ci siano flussi di lavoro
migrante. Andartene è diventata la tua strategia, la mobilità coatta è il tuo mestiere
precario. Mentre te ne vai, prendi appunti, scrivi. Mentre stai e lavori, osservi, fotografi,
annoti. Interpreti gli eventi della grande migrazione globale. Scavalchi i muri che cin-
gono il continente, dentro e fuori la ri-nazionalizzazione delle masse e i suoi confini
instabili. “Leave or Remain”: sono tre parole, non due e tu sei un partigiano dell’or. Sei
l’alternativa al gioco dello spettacolo, dell’Europa vs Regno Unito. In quello spazio di
un’alternativa possibile, in quell’or, trovi il tuo rifugio fragile, costruisci il tuo nido in-
stabile di uccello migrante. Da lì vedrai la working class britannica assumersi le colpe
del vaso di pandora aperto ai piani alti della società inglese. Blame the poor, da quella
regola non si scappa, ormai. Nella tua fuga, calcando le periferie, lavorando come un
precario lavora, ti troverai nel punto migliore per capire la realtà: sul confine. Dove si
possono tessere relazioni e interpretare meglio gli eventi. Su un confine che sembrava
essere scomparso e che di nuovo si riforma, come una macchina mitologica del capita-
lismo crepuscolare, a ogni meridiano.

Quale fuga?

È la fuga dei cervelli, dicono. Imprenditori di se stessi, mica disperati. Startupper, mica
criminali. Noi expat, loro migranti. Noi cosmopoliti, loro criminali.
Macché.
Operai eravamo, perché in una caffetteria inglese quello fai. Lavoro seriale in catena.
Come fare la pizza ananas e cotto da Pizza Hut: prodotti surgelati che vengono lavorati
in catena. Operai della ristorazione e delle pulizie, immigrati in un paese ultraliberista
deindustrializzato e convertito a un’economia di finanza (per i ricchi) e di servizi (per i
poveri). Pigs, eurosfigati del sud, ecco cos’eravamo. E intanto riempivano le retoriche di
invasioni che non c’erano, lasciando intere zone dello stivale demograficamente svuota-
te. Un paese avvilito, un paese senza giovani, perché intere generazioni scappavano. Un
paese per vecchi.
Ci mettevano gli uni contro gli altri. Inglesi contro continentali, assunti dalla compa-
gnia contro interinali dell’agenzia, Commonwealth contro europei. Europei del sud (ca-
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

merieri) contro europei dell’est (muratori, badanti). Anche all’interno della stessa nazio-
nalità ci mettevano in conflitto: erasmus contro workers. Studenti vs lavoratori. Anche se
poi nel finesettimana spalla a spalla pulivamo tutti gli stessi tavolini dei vari burgershit.
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Welcome nel regno dei bullshit jobs. Lavoracci di merda che toccavano a noi.
Perché scappavamo dall’Italia? Perché in Italia era peggio. Peggio dello sfruttamento
c’è l’inferno.
«Vengo dal sud della Sardegna. Sono figlia di una casalinga e di un operaio. In Italia
ho fatto diversi lavori: cameriera, bracciante, commessa in un negozio di tabacchi, guida
turistica, educatrice per bambino, ecc. per otto anni ho lavorato in Italia e non ho mai
avuto un contratto di lavoro, a parte durante quei pochi mesi in cui ho lavorato come
guida turistica con contratto a progetto. Ho lasciato l’Italia per questo motivo». (cit. in E.
Pugliese, Quelli che se ne vanno, Bologna, il Mulino, 2018, p. 96).
È la storia di Maria, 32 anni, della provincia di Cagliari, ma è anche la mia storia. Ho
fatto gli stessi lavori: commesso, bracciante agricolo, guida turistica, babysitter. E anche
il pizzaiolo, il barista, il boscaiolo, il manovale e lo stalliere. Praticamente sempre senza
un contratto. Mi piace raccontare la mia storia in forma iperbolica: una sessione di archi-
tettura del paesaggio con decespugliatore dietro la schiena, un master come facchino in
logistica dei traslochi, una sinfonia di merda di cavallo da eseguire nei box di un ippodro-
mo, provetto interprete solista di pala e rastrelliera. Tutto al nero, ovviamente.
Insomma, scappavo dai lavori di merda senza contratto, all’italiana, per impiegarmi
in bullshit jobs con contratti di paglia, all’inglese. Almeno per farmi pagare non dovevo
prendere a cazzotti il capo.
Insomma, cos’ero? Un migrante economico. Uno di quelli che secondo i lupi mannari
al potere non andrebbero accolti. Uno da aiutare a casa sua. Solo che quelli che dicono
aiutiamoli a casa loro, mi avevano rubato i diritti e il pane e mi costringevano, dopo aver
fatto strame delle conquiste dei lavoratori, a scappare dall’Italia. Ero un fottuto migrante
economico. Scappavo dal deserto. Dal deserto italiano dei diritti del lavoro.

Quasi un clandestino…

Mentre lavoravo nel Regno Unito, una volta pensai anch’io di aver diritto alle vacanze.
Tre giorni fuori dalla mensa scolastica di un paesino del Dorset, dove sminestravo piatti,
per visitare la Normandia. Un lusso da ricchi, che per poco non mi trasformò in clande-
stino. Avevo messo qualche soldo da parte, abbastanza da poter attraversare la Manica
e andare a mangiare decentemente per un fine settimana. Mi imbarcai a Portsmouth e
sbarcai a Cherbourg, in Francia. Per me tempi stretti: arrivo al venerdì pomeriggio, ri-
entro la domenica sera, che il lunedì all’alba mi aspettava il grembiule di sguattero alla
mensa scolastica dove lavoravo. La tradizione inglese vuole che ci si sbronzi nel traghetto,
per combattere il fastidio del mal di mare: se devi vomitare, è bene farlo per una buona
ragione, tipo una dozzina di lattine di lager, non per le fottute onde marine. Nel viaggio
apprezzai un paio di inglesi working class. Mi dissero che loro evitavano di contaminar-
INVERNO 2018/19

si col continente, abitato da mangiarane: si fermavano solo il tempo di una mezz’ora,


quanto serviva a comprare una quantità spaventosa, industriale, pantagruelica di casse
di stella artois, le caricavano su una opel dai pneumatici deformati dal carico eccezionale
e si affrettavano a rimbarcare il bottino nella stiva del primo traghetto in partenza verso la
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Gran Bretagna, stappando la prima d’una interminabile serie di lattine. Erano i vantaggi
del cambio favorevole: adesso con l’euro forte tocca sbattersi nei musei.
Devo ammetterlo: in Francia diventai anch’io un fucking frog, un mangiarane. Bevvi
poco e mi infilai a vedere la cattedrale gotica di Caen e gli arazzi medievali di Bayeux,
mangiai in maniera superlativa e conobbi una ragazza italiana che doveva andare in
Inghilterra con lo stesso traghetto che dovevo prendere io al rientro. Il viaggio ebbe in-
somma un suo lato passionale. La domenica sera io e questa ragazza cenammo assieme
(stavolta una pizza indegna) e poi ci mettemmo in cammino verso il porto. Solo che sba-
gliammo strada: depistati dalla sagoma di una nave da crociera, finimmo verso il porto in-
dustriale. Stava per scoccare l’ora dell’imbarco e ci mettemmo quasi a correre per arrivare
in tempo. Entrai nella zona degli imbarchi sudatissimo e un po’ stravolto. Io e la ragazza
eravamo gli ultimi passeggeri. La tipa al check-in prese i nostri biglietti e i documenti.
Poi fece una telefonata, disse qualcosa in francese che non capii. Ci disse di seder-
ci. Attendevamo. Vennero altri funzionari, poi poliziotti. Mi chiesero di passare
in una stanza. La ragazza italiana se voleva poteva imbarcarsi. Io no. Il tempo
passava, la nave era ferma. Quando cazzo mi facevamo entrare per partire?
Mi dissero che il mio documento era strano. In che senso, chiesi. Nel senso
che era in regola ma credevano che io non fossi Alberto Prunetti. A vedermi
sembravo turco. Ero forse un curdo? Parlavamo inglese e il mio era forse
migliore del loro, ci vivevo in Inghilterra. Quella conversazione era un
nonsense. Mi sembrò un sogno, un delirio alla P.K. Dick. Mi dissero che
Prunetti esisteva ma forse io gli avevo rubato l’identità e la ragazza
italiana stava cercando di far entrare clandestinamente un immi-
grato irregolare nel Regno Unito... (Forse l’equivoco era dovuto al
fatto che ero dimagrito molto da quando avevo fatto la foto per
la carta d’identità). Cominciavo a innervosirmi, dissi che erano
fuori di testa, che Prunetti ero io e che mi aspettava in Inghilterra
il mio boss per pulire le stoviglie nel Dorset… avevo il numero
di telefono, se volevano chiamarlo... Alla fine rinunciarono, non
erano convinti ma mi fecero passare. Era un assaggio di quello
che succede a chi ha la faccia da curdo o da turco o da siriano
quando cerca di attraversare la Manica. Di lì a poco le cose
sarebbero peggiorate.
Il traghetto partì in ritardo. Quando entrai nell’area viag-
giatori, mi guardarono tutti male: secondo loro, era colpa
mia se partivamo in ritardo. Blame the poor. Io però tirai un
sospiro di sollievo. Tornavo nel Regno Unito. Avevo oltre-
passato il mare. Il confine. Era lunedì. Mi sentivo libero. Alle
6,30 del mattino il grembiule da sguattero mi aspettava. La
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

libertà ai nostri giorni è libertà di farsi sfruttare.


The working class hates Mondays.
(You don’t hate Mondays, you hate capitalism).
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Illustrazioni di
INVERNO 2018/19
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Le nuove

(E)MIGRAZIONI
emigrazioni
italiane
Il dibattito pubblico si concentra su presunte “invasioni”,
ma i numeri di coloro che se ne vanno dall’Italia
sono comparabili a quelli del dopoguerra. Un fenomeno
che va ben oltre la retorica dei “cervelli in fuga”

«L
a tragedia di Marcinelle a me fa riflettere: non dobbiamo emigra-
re dall’Italia», ha detto il capo politico del Movimento 5 Stelle Lui-
gi Di Maio in visita nel centro belga teatro della strage di minatori,
molti dei quali emigranti italiani, del 1956. Qualche tempo prima il
ministro del lavoro socialdemocratico tedesco e attuale presiden-
Simone Fana te della Spd Andrea Nahles ha dichiarato: «Dobbiamo fermare l’im-
Francesco Massimo migrazione nel nostro sistema di servizi sociali. È una questione di
autodifesa». Tra gli invasori indicati da Nahles migliaiai di cittadi-
ni polacchi, greci, spagnoli e italiani. Ormai è riconosciuto: dall’Italia si è tornati a partire.
A dieci anni dalla crisi, la società italiana ricomincia a produrre emigrazione di massa, con
livelli inediti dagli anni Settanta, come mostra il socio-
logo Enrico Pugliese nel suo ultimo libro Quelli che se
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ne vanno. Tuttavia si tratta di un tema che viene volu- Simone Fana si occupa di servizi
tamente oscurato dall’agenda politica, costruita intor- per il lavoro e per la formazione
no al paradigma dell’“invasione” o, quando affrontato, professionale. Autore di Tempo
lo si descrive con formule caricaturali come quella dei Rubato (Imprimatur). Scrive di
“cervelli in fuga”. mercato del lavoro e relazioni
Mentre quantitativamente il fenomeno è compara- industriali.
bile all’emigrazione del dopoguerra, qualitativamen- Francesco Massimo, romano, fa
te e storicamente si affermano dinamiche nuove. Se ricerca a Parigi. Legge e scrive
in passato l’emigrazione era la prima tappa di un pas- di lavoro, relazioni industriali e
saggio dalla precarietà alla stabilità, al prezzo di un movimenti sociali.
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La nuova
emigrazione
di massa
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forte sradicamento, per molti versi la situazione attuale appare complementare: emigrare
sembra meno difficile ma la prospettiva della stabilità è sempre più incerta.
Il panorama politico è cambiato e si mostra afflitto da un paradosso lacerante: l’emi-
grazione italiana in Europa è oggi non più una semplice migrazione internazionale, ma
una migrazione interna a una entità politica sovranazionale; eppure le fratture naziona-
li non si attenuano, anzi si riformano sotto la spinta della destra xenofoba che, come nei
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casi inglese e tedesco, prende ormai di mira gli immigrati dal Sud e dall’Est Europa, sep-
pure non con la stessa intensità dei migranti extra-europei.
La forza con cui la narrazione dell’estrema destra si sta imponendo nel dibattito pub-
blico sembra influenzare anche alcuni settori della sinistra francese, tedesca e italiana.
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Il libro di Pugliese è importante
Svizzera anche perché problematizza
la capacità di rendere conto
Francia del fenomeno migratorio da
Germania parte delle rilevazioni ufficiali.
Regno Unito Comparando i dati dell’Istat
(secondo la “National Insurance Administration”) (basati sulle cancellazioni
Regno Unito anagrafiche) ai dati raccolti dai
sistemi amministrativi tedesco e
Germania
(secondo lo “Statistisches Bundesamt”) inglese (che registrano i cittadini
stranieri in arrivo) emerge uno
scarto notevole.

6 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012 2014 2016

Ansiosa di offrire una proposta politica competitiva con il paradigma xenofobo, la nuo-
va sinistra nazionalista finisce con l’individuare nelle migrazioni un nemico che non rie-
sce più a indicare.
La scelta di inseguire la destra sul terreno a lei più congeniale rivela un’evidente subal-
ternità che finisce per consegnare il governo politico di questi processi a progetti autori-
tari, che sono già all’opera.
Allo stesso tempo, per restituire forza alla rivendicazione di libertà di movimento bi-
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sogna intervenire al cuore delle politiche economiche e di sviluppo che oggi governano
questa Europa e che stanno determinando gli squilibri e le fratture sui quali si innestano
le nuove migrazioni europee.
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Molteplicità delle migrazioni dall’Italia

Solo collocando l’emigrazione italiana nel contesto


Europeo è oggi possibile comprendere e agire su questo
fenomeno.
La molteplicità è il primo dato importante su cui riflet-
tere e che non viene mai intercettato dal dibattito pubblico.
L’Italia è attraversata da vari tipi di migrazioni: internazio-
nali e interne, comunitarie ed extra-comunitarie, dirette o
“di rimbalzo”. Pugliese già a partire dagli anni Novanta ha
coniato l’espressione “crocevia migratorio” per sottoline-
are la particolare posizione dell’Italia, al centro dei flussi
migratori Mediterranei ed Europei. In una recente ricerca,
analizza questi nuovi movimenti migratori, inserendoli nel
contesto delle trasformazioni economiche e demografiche
in corso nel Mezzogiorno, in Italia e in Europa. meridionali che partono infatti, si aggiun-
Una prima linea di frattura separa il Mezzogiorno d’Italia gono gli stranieri, che costituiscono più
dal Centro-Nord e dall’Europa. Pugliese parla espressamen- di un quarto delle partenze dall’Italia, se-
te di “tsunami demografico”, riferendosi a un progressivo condo dati Istat. Ecco perché è forse più
spopolamento del Sud e in particolare delle sue aree inter- corretto parlare di emigrazioni dall’Italia,
ne. Questo aspetto è stato rimosso dal dibattito politico: tra più che di emigrazione italiana. Le filiere
il 2002 e il 2018 sono partiti quasi 2 milioni di meridiona- dell’emigrazione interna e quelle dell’e-
li. Si tratta di un fenomeno paragonabile solo al grande eso- migrazione internazionale sono tornate
do del decennio Cinquanta-Sessanta. È difficile quantifica- a saldarsi. Sullo sfondo, gli squilibri regio-
re, ma molti sono poi ripartiti, stavolta verso l’Europa. Sono nali italiani ed europei.
queste, le cosiddette migrazioni di rimbalzo, che hanno su-
bito un’accelerazione dopo la crisi. Non a caso, le regioni da La povera emigrazione
cui partono più migranti sono il Lazio e la Lombardia.
Un secondo elemento che non viene mai tematizzato Alla base di questi squilibri ci sono
è il carattere internazionale dell’emigrazione italiana. Ai scelte politiche: nell’assenza di una poli-
tica industriale coordinata, nello sman-
tellamento della ricerca pubblica e nella contrazione della spesa sociale. Nella fase
post-crisi l’Europa e l’Italia conoscono gli effetti di un processo di ristrutturazio-
ne produttiva, che modifica in profondità i mercati del lavoro nazionali e la divisio-
ne del lavoro europea. Per quanto riguarda il caso italiano alcuni dati sono indicati-
vi delle riorganizzazioni dell’economia nazionale e delle ripercussioni sulle condizioni
di vita di larghe fasce della popolazione. L’Italia si classifica agli ultimi posti nel perio-
do post-crisi per incidenza della spesa pubblica in Ricerca e Sviluppo, con una me-
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dia dell’1,2% contro il 2,9 registrato dalla Germania nello stesso periodo. Una dinami-
ca che si accompagna a uno slittamento settoriale, con la crescita di settori produttivi
a bassa qualificazione (ristorazione, trasporti, logistica), dove si concentra l’aumento
dell’occupazione negli ultimi anni.
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Le statistiche sui servizi di mercato si accompagnano alla contrazione del lavoro pub-
blico, dovuta alla decennale politica di blocco del turn over, che penalizza soprattutto la
componente più giovane della popolazione attiva. La bassa domanda di lavoro delle im-
prese nel settore dei servizi ad alto valore aggiunto e la debolezza della ripresa dell’indu-
stria in senso stretto costituiscono, quindi, un potenziale vettore dell’emigrazione italiana
all’estero. Un processo che coinvolge nella gran parte dei casi la componente più giovane,
residente principalmente al centro-nord, dove gli effetti della ristrutturazione post-crisi
sono più evidenti, e con titoli di studio che vanno dalla laurea al diploma. Una composi-
zione eterogenea che stride con la retorica dei cervelli in fuga, utilizzata spesso dai media
per ridurre il tema dell’emigrazione a fenomeno di costume, oscurando le ragioni struttu-
rali che determinano la fuga dall’Italia e, analogamente, dal Sud e dall’Est Europa.

Dalla fuga dei cervelli alla precarietà europea di massa

Questa fuga però non sembra più garantire a chi migra le prospettive di una stabilizza-
zione e di un miglioramento delle proprie condizioni. La gran parte delle migrazioni che
oggi attraversano l’Italia e l’Europa hanno come dato di fondo una precarietà struttura-
le perché la degradazione del mercato del lavoro è andata avanti, a colpi di riforme, an-
che negli altri paesi europei: dalla Germania delle leggi Hartz al Regno Unito dei contratti
a zero ore. Le due fasce ben distinte del mercato del lavoro dell’epoca fordista, una carat-
terizzata dall’impiego a tempo pieno e indeterminato e l’altra da occupazioni saltuarie e
collegate alle oscillazioni del ciclo produttivo, hanno cambiato caratteristiche. La secon-
da si è allargata, mentre la prima non si è solo ridotta ma è stata essa stessa precarizzata.
Si tratta di un fenomeno europeo, non solo italiano. Questo nuovo scenario mette in cri-
si la retorica mistificante autoconsolatoria della “fuga dei cervelli”. Perché oggi a migra-
re sono anche gli operai e le operaie. E perché anche i diplomati che fuggono dalla pre-
carietà intravedono un orizzonte di incertezza permanente anche nei paesi di approdo.
L’emigrazione precaria di massa non solo attraversa i confini ma
modifica radicalmente i contesti in cui i flussi si dipanano, mo-
strando un elemento di resistenza irriducibile ai ripiegamen-
ti autarchici e alle false mitologie del radicamento che tentano
di imporsi nel dibattito pubblico. La soluzione non è smettere
di emigrare dall’Italia, come Di Maio sembrerebbe invitarci a
fare, ma rendere l’Italia, l’Europa e il Mondo un luogo in cui
la libertà di migrare sia una condizione dell’emancipazio-
ne individuale e collettiva, di chi parte e di chi “accoglie”.
Questa libertà deve e può essere garantita material-
mente e politicamente. È urgente quindi che que-
sto diventi oggetto di una lotta politica con-
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tro ogni scorciatoia sovranista e che


allo stesso tempo vada oltre un
generico umanitarismo.
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DA JACOBIN USA

BREAKING
BANK
DIECI ANNI DI CRISI
La crisi del 2008 ha ridisegnato
i rapporti di forza globali e riscritto
la relazione tra capitale finanziario
e economia cosiddetta reale.
Cosa ne è stato dei suoi protagonisti?
In che modo gli spettri del debito hanno
infestato le nostre case? Come (non)
ha reagito l’Europa? E un saggio
su un economista poco ortodosso
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Tra Mercedes
SUBPRIME

e magioni
Immaginateli uno accanto all’altro, come accade
ai soliti sospetti prima di passare sotto il torchio
dell’interrogatorio. Dieci anni dopo la crisi finanziaria,
vediamo come se la passano i lupi di Wall Street

N
egli anni precedenti la crisi finanziaria le banche d’affari hanno
confezionato dei bond realizzati con mutui ipotecari tossici e li
hanno venduti agli investitori. Quando i mutui hanno cominciato
a perdere colpi, anche i bond sono venuti giù e la crisi immobiliare
è diventata una crisi finanziaria.
Milioni di statunitensi hanno perso casa, lavoro, risparmi e
Meagan Day tranquillità d’animo. Alcuni hanno per-
so anche la propria vita, tra dipendenze
da sostanze e suicidi. Si dice che gli Stati uniti sono usciti dalla Meagan Day è staff
crisi ma quei milioni di persone che negli anni della recessione writer di Jacobin Usa.
hanno visto cancellati i loro sogni non hanno mai recuperato le La traduzione
proprie perdite, finanziarie e umane. dell’articolo è di
Per buona sorte, i dirigenti di quelle banche che hanno gio- Alberto Prunetti.
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cato col fuoco per massimizzare i profitti hanno avuto il giusto


castigo. O no?
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Dick Fuld
Lo chiamavano “il gorilla di Wall Street”. Secondo il Times di Londra, chi gli stava ac-
canto «sgobbava come uno schiavo, facendo da cortigiano per quel monarca medievale,
assecondando cambi di umore e desideri, logorandosi attorno ai dettagli più minuti della
sua agenda (incluse le decorazioni floreali) e isolandolo da qualsiasi difficoltà, da qualsi-
asi cosa non volesse sentire».
Era incline ad attacchi esplosivi di rabbia. Anche quand’era di buon umore, secondo il
Times, «sembrava compiacersi di fare pensieri violenti». Un bravo ragazzo.
Fuld condusse l’operazione dei prestiti subprime con l’unica impresa che non aveva
dovuto ancora salvarsi col paracadute, la Lehman Brothers. Sotto la sua direzione la Leh-
man arrivò a emettere i propri prestiti subprime: Fuld era proprio affascinato dal business
di concedere mutui rischiosi a persone incapaci di ripagarli, a condizioni che garantivano
il loro fallimento.
Fuld è stato licenziato quando la Lehman è collassata. Ma non è stato mai legalmente
perseguito e adesso ha fatto il proprio ritorno come amministratore delegato del Matrix
Private Capital Group. Chi non si merita una seconda chance nella vita?

Jimmy Cayne
La Bear Stearns ha cominciato a nuotare in cattive acque nel luglio 2007, quando i subpri-
me fecero collassare i fondi di investimento. L’amministratore delegato Jimmy Cayne – fa-
moso per i weekend di golf che durano almeno metà settimana – se ne sta a giocare a bridge
a Nashville nel giorno in cui cominciano i guai. Cayne schiva il colpo e se ne va in pensione
nel gennaio 2008. Vende per 61 milioni di dollari le sue quote aziendali e rimane a guardare
al sicuro mentre la Bear Stearns affonda. La società era stata valutata nel 2007 per 20 miliar-
di di dollari. Un anno dopo viene venduta a JP Morgan Chase per 236 milioni di dollari. Ma
non preoccupatevi del vecchio Jimmy Cayne. Viaggia per il mondo da giocatore altamente
competitivo di bridge. A proposito, nel gergo americano del bridge, il termine “crash”, che di
solito indica un tracollo bancario, si riferisce a una tecnica fraudolenta di gioco.

Kyle Bass
Kyle Bass, amministratore delegato di fondi speculativi, non è stato il primo a rendersi
conto che la crisi dei subprime avrebbe causato un disastro finanziario. Ma non appena
se ne è accorto, ha fatto tutto quanto era in suo potere per fronteggiare la crisi.
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Oh, no, scusate, solo un attimo… in realtà scommise sull’esplosione della bolla finan-
ziaria e si mise in tasca milioni di dollari.
Bass adesso divide il suo tempo tra il lavoro a San Francisco e Dallas, la pesca subac-
quea alle Bahamas e il riposo nel suo ranch texano – che secondo il Financial Times gode
di uno «status leggendario tra i maschi alpha dei subprime» – dove adora guidare il suo
fuoristrada Hummer pluriaccessoriato, «con cui si sottrae ai fastidiosi inseguitori lancian-
N. 1

do chiodi sulla strada».


Intanto continua a scommettere sul collasso economico su scala globale. «La Cina sta
con le spalle al muro, ormai», dice. Ama il suo lavoro. «Non lo faccio per i soldi», sostiene
(anche se ovviamente continua a fare un mucchio di quattrini), «quel che mi diverte è
avere sempre ragione».
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I RAGAZZI DELLA LEHMAN
Nel 2008 il loro mondo se ne andò in fumo. Quella stabilità che
davano per scontata si è dimostrata un’illusione, il loro Sogno
Americano era un castello di sabbia. Rimasero appollaiati su
una roccia, a contemplare il naufragio.
Sì, sto parlando proprio dei banchieri.
Intervistati dal Financial Times, gli ex impiegati della Lehman
Brothers hanno raccontato di aver perso il controllo emotivo
quando la società è andata in rovina. «Ti sentivi inerme», dice
un banchiere d’affari, abbandonandosi ai ricordi. Un altro si ri-
corda di aver fissato un muro e di aver pensato: «È finito, quel
mondo è finito. Che peccato».
Molti dipendenti della Lehman si sono imbarcati sul mare in-
John Thain crespato del libero mercato del lavoro, costretti a inviare mail
piene di angoscia a esclusive agenzie di collocamento della fi-
John Thain viene chiamato come nanza. Tenacia e capacità di recupero hanno pagato, e il Finan-
commissario della Merrill Lynch al cial Times ha trovato che tutti gli intervistati hanno raggiunto
principio della crisi. La banca aveva prima o poi la terraferma, trovando impiego o da professionista
miliardi di dollari in prestiti tossici e o in un’impresa di venture capital. Quando si dice che gli affari
vacillava accanto agli altri giganti dei vanno bene…
subprime quando il mercato immo- Quando la crisi economica apre uno squarcio nel tuo universo,
biliare cominciò a collassare. non hai altra scelta che perseverare. Questa straziante esperien-
Non era colpa di Thain, piuttosto za ha insegnato agli ex dipendenti della Lehman il valore dell’in-
bisognava prendersela con Stan O’Ne- dividualismo. «Ti rendi conto che tu stesso sei il tuo valore», dice
al. Se siete preoccupati del destino di un ex dipendente della sezione commerciale specializzata in
O’Neal, rilassatevi: si è fatto dare 160 mercati finanziari, oggi dirigente finanziario di un’altra società.
milioni di dollari per andarsene via «Non puoi dipendere da un marchio o da una banca».
prima che scoppiasse il casino.
Ma anche Thain non è stato un san-
to. Dopo aver ricevuto il sostegno della
fiscalità pubblica per tenere accese le luci della sua società e aver negoziato la vendita di
Merrill Lynch alla Bank of America, è saltato fuori che Thain aveva speso un milione di dollari
per ristrutturare l’ufficio e aveva pagato dei massicci bonus di uscita ai vertici della Merril.

Jamie Dimon
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

Jamie Dimon, amministratore delegato della JP Morgan Chase, è uscito dalla crisi fi-
nanziaria profumato come una rosa, dopo aver acquistato Bear Stearns e Washington
Mutual, che stavano fallendo, e aver messo la sua banca sul sentiero che conduce ai pro-
fitti, evitando quello che ti infila in un procedimento giudiziario.
O almeno così sembrava. Nel 2013 Dimon, in ritardo, ha concordato il pagamento da
parte di JP Morgan di una multa di 13 miliardi di dollari per la vendita di prestiti tossici nel
periodo anteriore alla crisi. Questa multa non è riuscita a scalfire la sua ottima reputazio-
ne. A quel punto, nel folklore della narrativa sulla crisi, i cattivi erano già stati identificati e
Dimon non era tra questi. E poi tutti amano i vincitori e i profitti di JP Morgan Chase non
hanno mai smesso di crescere dagli anni della crisi. Tutto è bene quel che finisce bene!
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Governare
SUBPRIME

con la moneta
La finanza, i debiti sovrani e l’Unione europea.
Com’è potuto accadere che le élite politiche continentali
abbiano finito per sfruttare la crisi economica
come un’opportunità per imporre ricette liberiste?

“O
gni crisi è un’opportunità”: uno slogan spesso evocato in anni se-
gnati da acute difficoltà economiche. L’Europa non fa eccezione.
Soprattutto l’eurozona, dove i politici al potere e le élite econo-
miche hanno visto nella crisi del 2008 un’opportunità d’oro per
radicare nell’attuale politica economica due panacee neoliberali:
l’idea che il deficit da spesa pubblica sia un male e che l’antidoto
Ronald Janssen alla stagnazione vada cercato nella contrazione dei salari e nella
“flessibilità” dei mercati del lavoro. Ma per capire come questa
nuova linea programmatica si sia insediata in Europa è importante analizzare come gli
attori chiave di queste politiche sono riusciti a far approvare le proprie riforme.

Il prequel della crisi: la promessa di una moneta unica europea

A fine anni Ottanta, quando la Commissione europea varò la campagna per la mone-
ta unica con lo slogan “Un mercato unico, una moneta unica”, tra gli argomenti a favore
di quel progetto c’era la tesi che una moneta unica europea avrebbe significato un unico
tasso di interesse europeo.
INVERNO 2018/19

In particolare si sosteneva che, dal momento che non ci


sarebbe più stato alcun fenomeno di svalutazione competiti-
va delle monete nazionali, i mercati finanziari non avrebbero Ronald Janssen è
più richiesto tassi di interesse più alti dai membri delle aree consulente di politica
economica presso il
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Trade Union Advisory


Committee dell’Ocse.
La traduzione
dell’articolo è di
Alberto Prunetti.
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europee economicamente più deboli, che si trovavano a rischio di svalutazione. I tassi
di interesse, che erano sempre stati sostanzialmente più elevati per paesi come l’Italia,
avrebbero cominciato a convergere e a declinare sul basso livello dei tassi di paesi come
la Germania, ossia sul livello dei mercati finanziari più affidabili. Grazie alla moneta
unica, il costo della finanza sarebbe diminuito, stimolando investimenti, crescita eco-
nomica e creazione di posti di lavoro in tutta l’eurozona.
Volgendosi al passato, la promessa di “un mercato unico, una moneta unica, un uni-
co tasso di interesse” si è materializzata in maniera evidente, almeno nel primo decen-
nio dall’introduzione dell’euro e negli anni immediatamente precedenti. Ma l’analisi
della Commissione ha trascurato due altri elementi che si sono dimostrati cruciali negli
sviluppi successivi.
In primo luogo, la convergenza dei tassi di interesse era un beneficio tangibile per
molte economie europee, ma non per la Germania: la moneta unica infatti implicava
la perdita di un importante vantaggio di posizione costituito da bassi tassi di interes-
se, un vantaggio che quel paese si era procurato nel corso di decenni con una strate-
gia di “disinflazione competitiva”. Il governo di coalizione “rosso-verde” del cancelliere
Gerhard Schröder, di fronte a una crescita epocale della disoccupazione che aveva quasi
raggiunto il picco dei quattro milioni, decise di tornare a una strategia salariale com-
petitiva: da un lato, rese flessibile il mercato del lavoro aumentando l’insicurezza dei
lavoratori attraverso le note “riforme del Piano Har-
tz” che limitavano i benefici della disoccupazione a
CI SONO VOLUTI ANNI un periodo massimo di un anno; dall’altro, a livello
PRIMA CHE I BANCHIERI aziendale spinse il modello “alleanza per il lavoro”, in
FRANCESI E TEDESCHI cui i rappresentanti dei lavoratori e i vertici aziendali
CAPISSERO CHE INIETTARE si trovavano a negoziare nuovi investimenti o sicu-
CREDITO NELLE BOLLE rezza sul lavoro in cambio di salari e condizioni di
IMMOBILIARI AVREBBE lavoro ridotti rispetto ai livelli fissati dalla contratta-
ALIMENTATO LA CRISI zione collettiva del settore di riferimento.
Il secondo elemento trascurato aveva a che ve-
dere con la maniera in cui le banche e i mercati
finanziari avrebbero fatto uso di questi nuovi e più convenienti mezzi finanziari. Li
avrebbero incanalati verso una maggiore capacità produttiva o li avrebbero diretti in
attività speculative non sostenibili? Oggi conosciamo le risposte: la Grecia ha usato
l’euro bonus per gonfiare i consumi, esponendosi ad ampi livelli di deficit, inizial-
mente rimasti nascosti, mentre in altri paesi dell’eurozona, tra cui Spagna e Irlanda, il
costo più basso del denaro ha gonfiato una massiccia bolla immobiliare, assieme a un
rialzo del debito privato.
Nel frattempo le banche dei paesi di rilievo dell’eurozona hanno concesso pesanti
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prestiti a quelle dei paesi della periferia indebitata, finanziando il boom immobiliare
di quei paesi e alimentando la propria posizione di creditori. Questo spiega quel che è
accaduto dopo: i leader dell’eurozona hanno riscritto la storia, architettando una narra-
tiva della crisi che allontanava la responsabilità dalle banche e dal mondo della finanza.
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Una nuova lettura delle cause della crisi

Alla fine le bolle esplodono. C’è voluto almeno un decennio perché i banchieri
francesi e tedeschi si rendessero conto che iniettando grossi flussi di credito nella
bolla immobiliare spagnola o irlandese prima o poi le cose sarebbero andate a roto-
li, ma alla fine quel momento è arrivato. Sotto l’impulso della crisi statunitense dei
subprime del 2008, i proprietari di immobili spagnoli e irlandesi hanno cominciato
ad avere problemi nel ripagare i loro mutui. Rendendosi conto che le banche locali
di quei paesi stavano andando nei guai, le banche europee creditrici interruppero
il loro flusso di finanziamenti. Con le banche periferiche vicino al collasso e quelle
centrali in una situazione poco brillante, la crisi finanziaria nel 2010 era a livelli da
mal di mare.
A quel punto i politici dell’eurozona si trovavano di fronte a una scelta. Potevano
ammettere di essersi addormentati al volante, loro e gli strumenti di controllo sulla fi-
nanza, mentre le banche da controllare gettavano il denaro dei creditori in un carosello
di bolle alimentate dal credito dell’eurozona (e in tal caso i contribuenti avrebbero logi-
camente chiesto loro di pagare per ripulire tutto quel macello); oppure potevano soste-
nere la tesi della “santità del debito”, chiedendo che i governi dei paesi europei periferici
pagassero in qualche modo il salvataggio d’emergenza.
La storia ci insegna che hanno scelto la seconda ipotesi. Ma una volta fatta la scelta,
il costo dei salvataggi andava razionalizzato politicamente. Pertanto i leader europei
cominciarono a smerciare una reinterpretazione della crisi finanziaria che spostava l’at-
tenzione dalle responsabilità di banche e finanza. Al loro posto, il messaggio diffuso era
quello per cui i paesi delle economie periferiche avevano, in maniera irresponsabile,
“vissuto oltre le proprie possibilità”. Adesso dovevano quindi stringere la cintola: per
rimettere le cose a posto e ripagare i propri debiti, i governi di quei paesi dovevano ta-
gliare le condizioni di vita dei propri cittadini. Da un lato, questo significava meno spesa
pubblica; dall’altro, implicava un incremento delle esportazioni.
Si sollevavano due pilastri fondamentali della politica economica neoliberale: il pila-
stro dell’austerità fiscale, con l’eliminazione del deficit pubblico e la riduzione del ruolo
dello stato nell’economia; e il pilastro della competitività, per cui le istituzioni del mer-
cato del lavoro che sostengono i diritti dei lavoratori devono indebolirsi in modo da
poter contrarre i salari e spingere la crescita delle esportazioni.

Massiccia austerità, profonda deregulation del mercato del lavoro

Sorprende vedere in che misura queste due prescrizioni, l’austerità fiscale e la dere-
golamentazione salariale, siano state realizzate. Per quanto riguarda la politica fiscale,
tra il 2010 e il 2014, il 5% del Pil dell’eurozona è stato sforbiciato dall’economia tra tagli
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

della spesa e aumenti delle tasse. Eppure l’economia quasi non è cresciuta.
E i cambiamenti sono stati ancora più drammatici nell’area, meno conosciuta, della
regolamentazione del mercato del lavoro. Gli stati dell’eurozona in deficit hanno ab-
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bracciato in pieno la politica della deregolamentazione salariale competitiva, imple-
mentando tutte le misure necessarie a indebolire la forza di contrattazione dei sinda-
cati e a rendere flessibili i salari. In Portogallo e Spagna il valore nominale del salario
minimo è rimasto congelato per sette anni, mentre in Grecia è stato ridotto in manie-
ra sostanziale. In Spagna e Portogallo i governi hanno attaccato la contrattazione per
categorie, che creava una posizione di forza a favore di quei sindacati che avevano
la maggioranza in un dato settore. Grecia, Spagna, Italia e Francia adottarono misure
volte a invertire la gerarchia tra la contrattazione aziendale e quella per categorie. Se
prima un contratto aziendale era concesso solo a condizione che i suoi termini fossero
più favorevoli ai lavoratori di quanto fissato dagli accordi di settore, adesso accadeva
l’opposto: si potevano siglare accordi al ribasso, facendo pressione sulla capacità dei
sindacati di garantire agevolazioni a favore dei lavoratori.
Alcuni governi sono arrivati al punto da ridare vita alla pratica dei sindacati gialli,
concedendo ad “associazioni di persone” di negoziare al posto dei sindacati a livello
aziendale (ovviamente gran parte di queste “associazioni” erano falsi sindacati sotto
il controllo del datore di lavoro). Nella lista delle mosse per la deregolamentazione del
lavoro c’era anche la revoca del principio dell’ultra-validità dei contratti di lavoro, co-
stringendo così i sindacati a negoziare alla fine di un contratto senza considerare i livelli
salariali anteriori.
In questo modo i leader europei hanno snaturato la contrattazione collettiva in un
processo in cui non si tratta di capire quanto aumenterà il salario; la domanda piuttosto
è: quanto verrà tagliato?

Paesi debitori con le spalle al muro

Perché i paesi europei periferici hanno accettato questa narrativa? Perché, obbe-
dienti, hanno realizzato queste politiche disastrose? In fondo, sapevano perfettamente
che le politiche-gemelle di austerità fiscale e deregolamentazione salariale avrebbero
prodotto una diffusa miseria economica e sociale, rischiando al tempo stesso di appro-
fondire il problema a causa della deflazione dei prezzi, facendo cioè aumentare vertigi-
nosamente il debito pubblico.
La risposta è che si trovavano con le spalle al muro mentre i mercati finanziari erano
sotto attacco. Grazie alle selvagge manovre speculative dei mercati finanziari, i governi
e le banche periferici solo per rinnovare il loro debito dovevano affrontare tassi di inte-
resse straordinariamente elevati (e, in ultima analisi, insostenibili). In un caso specifico,
i tassi arrivarono al 45%. I mercati finanziari avevano dato l’avvio a una profezia che si
auto-avvera: gli alti tassi di interesse derivanti dalla paura del default minacciavano di
produrre quello stesso default che i mercati temevano.
INVERNO 2018/19

Di solito il compito di prevenire queste profezie che si auto-avverano ricade sulle


banche centrali. Stampando denaro e usandolo per comprare quote di debito in diffi-
coltà, la banca centrale può garantire che gli speculatori che scommettono contro il
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debito perdano il proprio denaro. È proprio questo che in altre occasioni hanno fatto
la Federal Reserve o la Bank of England, ma stavolta la Banca centrale europea era re-
stìa a compiere questa operazione. Anzi, in realtà ha fatto l’opposto: in svariate occa-
sioni, a un passo dalla crisi, la Banca centrale europea ha alzato i tassi di interesse in-
vece di diminuirli, diffondendo messaggi di preoccupazione in merito all’inflazione.
I governi, sotto la pressione dei mercati finanziari, cercavano disperatamente il so-
stegno della Banca centrale europea. Erano disposti a tutto per convincere la Bce a
proteggerli dalle pressioni del mercato con l’acquisto di porzioni di debito dei loro pa-
esi. Questo metteva i banchieri della Bce in una posizione di forza. La Banca centrale
europea ha usato quella forza per indirizzare lettere segrete ai vertici dei governi di
Spagna e Italia, esponendo per filo e per segno quale tipo di austerità fiscale e di dere-
golamentazione del mercato del lavoro dovevano essere realizzate. Ecco in che modo
degli irresponsabili banchieri, con un passato nella finanza, sono arrivati a decidere
su scelte di politiche economiche e sociali al posto di politici democraticamente eletti.
Questo è avvenuto in maniera evidente nel caso di Grecia, Portogallo e Cipro, dove
la Banca centrale europea, assieme al Fondo Monetario Internazionale e alla Com-
missione europea, era parte della “troika” che ha scritto e imposto dei programmi di
aggiustamento strutturale.
Il potere della Bce ha giocato un ruolo centrale nel plasmare la costruzione delle
politiche economiche europee su linee più aggres-
sivamente neoliberali. Adottare quasi ogni propo-
sta venisse dalla Germania – un alleato chiave della BANCHIERI, CON UN
Banca centrale europea, a sua volta modellata su PASSATO NELLA FINANZA,
pratiche e filosofia della Bundesbank – era conside- SI SONO RITROVATI
rato un modo per tranquillizzare la Bce, sperando A DECIDERE SULLE SCELTE
di non interrompere quel frammentario sostegno ECONOMICHE DI GOVERNI
che la Banca centrale europea offriva nella forma di DISPOSTI A TUTTO
qualche particolare espediente monetario. Pertanto PER FARSI PROTEGGERE
quasi tutti i paesi membri dell’eurozona convennero
immediatamente e senza troppe discussioni a rati-
ficare il Fiscal Compact, un trattato internazionale che radicava una stretta disciplina
fiscale nelle costituzioni o nelle leggi nazionali. Il Parlamento europeo e il Consiglio
europeo hanno approvato senza grandi difficoltà anche il “Six-pack”, un pacchetto di
sei regolamenti economici proposto dalla Commissione, che le conferisce il potere di
emettere raccomandazioni e imporre sanzioni sugli stati membri. Questa misura, tra
altre, era volta a rovesciare il principio della decisione democratica. Al posto di una
maggioranza qualificata all’interno del Consiglio europeo per approvare una proposta
della Commissione su argomenti relativi alla stabilità fiscale, il pacchetto Six-pack de-
cide che l’adozione di un regolamento su proposta della Commissione (incluse even-
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tuali sanzioni) sia accettato dal Consiglio a meno che una maggioranza qualificata di
stati membri si dichiari contraria col voto.
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La politica di “governare con la moneta” raggiunge i propri limiti

Alla fine questa politica di “governare con la moneta” – o forse bisognerebbe dire:
“ricattare con la moneta” – ha raggiunto i propri limiti. Nell’estate del 2012 Mario Dra-
ghi, il neoeletto presidente della Bce, rivolgendosi a una platea di investitori a Londra
fu costretto a cambiare completamente strada, nell’impossibilità di vendere il solito
discorso sul ruolo della Bce volto a tenere esclusivamente sotto controllo l’inflazione:
era ormai evidente che le speculazioni dei mercati finanziari avevano raggiunto un
punto tale da compromettere l’esistenza stessa dell’euro. Col suo famoso discorso –
«nell’ambito del nostro mandato la Bce è pronta a fare tutto il necessario a preservare
l’euro. E credetemi: sarà abbastanza» – Draghi dette ai mercati finanziari l’impressio-
ne che alla fine la Banca centrale europea avrebbe sostenuto il debito sovrano degli
stati membri dell’eurozona. Questo rassicurò i mercati al punto che le speculazioni
dei mercati finanziari non si intensificarono e permise di abbassare gradualmente i
tassi di interesse dei paesi debitori. L’economia comunque dovette attendere ancora
due anni e mezzo prima che la Bce, all’inizio del 2015, approvasse finalmente un
chiaro programma di quantitative easing: sono stati acquistati centinaia di miliardi
di titoli di debito sovrano, abbassando quindi i livelli dei tassi di interesse sul debi-
to sovrano in difficoltà, per allinearli allo stato depresso delle economie periferiche.
La Banca centrale era obbligata a questa mossa perché incombeva il rischio della
deflazione: l’inflazione stava collassando quasi a zero e le previsioni sull’inflazione
stavano impazzendo sotto l’obiettivo del prezzo di stabilità che la Bce aveva fissato al
2% dell’inflazione. Lo scenario era mutato profondamente.
La Bce non poteva continuare a pretendere austerità fiscale in cambio di un alleg-
gerimento monetario e gli stati membri potevano – e la Bce chiese di farlo per com-
battere la deflazione – rovesciare le politiche fiscali basate sull’austerità in politiche
lievemente espansive. Di conseguenza, gli stati membri dell’euro hanno conosciuto
una piccola ripresa delle economie e del mercato del lavoro.

Una piccola lezione: il denaro non è mai “neutrale”

La storia della crisi dell’euro ci insegna che le decisioni economiche e sociali, in-
clusa la costruzione del quadro europeo della governance economica degli anni di au-
sterità dal 2010 al 2015, sono prese solo formalmente dai governi e dai politici. Dietro
i processi decisionali delle democrazie si nascondono le forze della governance finan-
ziaria che esercitano un potere di controllo anche sui governi democraticamente eletti.
È importante sottolineare che non stiamo parlando di mercati finanziari anonimi che
possono muoversi come locuste e spingere le economie in uno stato di equilibrio au-
INVERNO 2018/19

todistruttivo. Quella è solo la punta dell’iceberg. La parte sommersa dell’iceberg è co-


stituita dalle banche centrali “indipendenti” che fanno un uso astuto del disordine dei
mercati finanziari per imporre delle “terapie shock” e affermare il loro punto di vista
sulle scelte programmatiche da prendere in ambito economico e sociale.
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Ogni programma politico progressista dovrà quindi fare i conti con questa “gover-
nance della moneta”, ossia col potere detenuto da banche centrali e istituzioni mo-
netarie di controllare – o in caso contrario scatenare – l’agitazione dei mercati finan-
ziari. Decenni di teoria economica monetarista hanno radicato la convinzione che la
banca centrale debba essere indipendente dai governi e che la politica monetaria ab-
bia principalmente a che fare con la lotta contro l’inflazione attraverso l’applicazione
di regole tecniche da lasciare nelle mani di esperti finanziari. In realtà la banca cen-
trale – soprattutto in tempi di crisi finanziaria, come nel caso dell’eurozona – risulta
essere un attore politico chiave. Decidendo quanto denaro stampare, a chi fornirlo e
a che prezzo, la banca centrale può acquisire un potere che non dovrebbe detenere: il
potere di imporre le proprie prospettive sui governi democraticamente eletti.
Nel caso dell’eurozona, questo problema è particolarmente impegnativo. In real-
tà alcune banche centrali, come la Federal Reserve o la Bank of England sono fonda-
mentalmente sotto il controllo di un parlamento nazionale e sono consapevoli del
fatto che il parlamento o il congresso possono in ultima analisi cambiare i termini
del loro statuto o del loro mandato. Di fatto questo contribuisce a tenerli sotto con-
trollo. Ma le cose sono completamente differenti con la Bce perché per cambiare
lo statuto o il mandato della Banca centrale europea bisogna cambiare un Trattato
europeo e per questo serve la firma e l’approvazione di tutti gli stati membri dell’eu-
rozona, inclusa la Germania. Il fatto che un evento del genere sia alquanto improba-
bile concede ai banchieri della Bce ampi margini di movimento di fronte a politici e
a governi nazionali.
Sarebbe infine un errore pensare che la “governance col denaro” o il potere del-
la Bce di far uso di politiche di sostegno monetario come quid pro quo in cambio
di austerità fiscale e riforme strutturali siano scomparsi. Il quantitative easing sta
per finire. Rimane da capire cosa succederà una volta che lo scudo che ha protet-
to i governi dalle forze distruttive dei mercati finanziari sarà abbassato. I mercati
finanziari torneranno a colpire uno a uno i membri più vulnerabili dell’eurozona?
E se ciò accadrà, la Bce interverrà? O tornerà alla vecchia strategia di alleviare la
pressione dei mercati finanziari in cambio di un’aggressiva compressione fiscale e di
una nuova deregolamentazione del mercato del lavoro? Tanto più che è preoccupan-
te osservare che le élite finanziarie, in particolare i ministri delle finanze dei paesi
chiave dell’eurozona, propongono in maniera sistematica riforme che in realtà con-
tinueranno a serrare la morsa dei mercati finanziari sugli stati membri più deboli.
Consideriamo proposte come quella di chiedere alle banche di detenere più capitale
quando investono nel debito pubblico di classe inferiore alla tripla A, o procedure
di ristrutturazione automatica del debito con garanzie extra da garantire da parte
delle banche nel caso di un portafoglio di prestiti non competitivo: sono tutte ipo-
tesi che hanno in comune il fatto che, una volta applicate, le finanze e i risparmi si
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

sposteranno dagli stati membri finanziariamente vulnerabili, come l’Italia o la Spa-


gna, verso porti più sicuri, come la Germania, col rischio di rinnovare la pressione
finanziaria a carico dei primi.
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La crisi
SUBPRIME

finanziaria
e le serie
televisive
paranormali
Come sono state messe in scena l’esplosione
della bolla immobiliare e le forze orrende
che l’hanno generata? Guida ragionata al collasso
attraverso i mutamenti dell’immaginario horror
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L
a crisi finanziaria del 2008 è stata raccontata al cinema attraverso
film di finzione o romanzati, come The Big Short, Margin Call e The
Wolf of Wall Street, e documentari come Too Big to Fail, Inside Job
e Capitalism: A Love Story. Film con uomini ricchi in giacca e cra-
vatta. Se ne stanno seduti alle loro scrivanie, parlano al telefono, si
dirigono verso pompose riunioni a numero chiuso con una venti-
Eileen Jones quattrore in mano, si radunano nei convegni, fissano gli schermi dei
computer, si dichiarano incapaci di testimoniare nelle aule di giusti-
zia. Ripensando all’immaginario complessivo che trasmettono, è fastidiosa l’assenza di una
rappresentazione mostruosa che corrisponda a delle pratiche che sappiamo essere orrende.
È risaputo che stanno distruggendo il mondo, come possono essere così banali, spregevoli e
noiosi questi potenti di mezza età in giacca e cravatta?
Gi studiosi hanno ritrovato un immaginario maggiormente
spaventoso a proposito della crisi finanziaria nei film dell’orro- Eileen Jones si
re successivi al 2008, che sembrano riflettere le ansie per il col- occupa di critica
lasso del mercato immobiliare in picchiata a causa della grande cinematografica per
recessione. Gli horror, specializzati nella rappresentazione di Jacobin Usa. Ha scritto
inimmaginabili forze maligne, possono aggirare la difficoltà di il libro Filmsuck Usa.
portare in scena in forma memorabile le complesse operazioni Insegna alla University
finanziarie, astratte e spesso deliberatamente oscure, dell’un of Calirfornia, Berkeley.
per cento dei ricchi del pianeta. Non è un problema da poco: La traduzione
come mettere in scena il terrore dell’esplosione della bolla im- dell’articolo è di
mobiliare e le forze orrende che l’hanno scatenata? Ad esempio Alberto Prunetti.

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le truffe basate su mutui predatori per adescare persone della classe lavoratrice che lotta-
no per sopravvivere, spinte a possedere case che non possono permettersi. O i vertiginosi
livelli di debito delle famiglie americane, paese in cui un gran numero di persone è pro-
prietario di più di quel che potrà mai pagare con una vita di lavoro salariato. E, ancora più
importante, le speculazioni finanziarie, catastrofiche e prive di regolamentazione, delle
banche e dei fondi di investimento di Wall Street, salvati dal governo mentre i cittadini, a
pezzi, pativano i morsi della crisi.
Il cinema horror degli ultimi dieci anni, ritornato in auge, sembra essere il posto miglio-
re per raccontare gli effetti traumatici della crisi finanziaria. Una tesi sostenuta in articoli
come “The (Re)possession of the American Home: Negative Equity, Gender Inequality, and
the Housing Crisis Horror Story” di Tim Snelson, “No Safe Spaces: Economic Anxiety and
the Post-Recession Spaces in Horror Films” di Joni Hayward, “A Lesson Concerning Tech-
nology: The Affective Economies of Post-Economic Crisis Haunted House Horror in The
Conjuring and Insidious” di Emanuelle Wessels, “The Great Recession and Transnational
Horror: Sajit Warrier’s Crossover Film Fired (2010)” di Elena Oliete-Aldea e “When Commo-
dities Attack: Reading Narratives of the Great Recession and Late Capitalism in Contempo-
rary Horror Film” di Sean Brayton.
I saggi di Snelson e di Wessels si concentrano sulla particolare impennata di popolarità
del sottogenere di horror paranormale della “casa infestata”, con esempi di produzioni di
successo realizzate dopo il 2008, come Paranormal Activity, Insidious e The Conjuring.
In questi format la contesa sul possesso di una casa tra proprietari umani e misteriose
forze oscure che ne pretendono il controllo rappresenta un’evidente allegoria della crisi
immobiliare. Snelson sostiene che il sottogenere della “casa infestata” segna un ritorno
all’importanza di testi che raccontino «insicurezza economica e mobilità sociale verso il
basso dovute alla recessione» proprio come facevano, negli anni Settanta e Ottanta, filoni
come quelli di Amityville Horror e Poltergeist.
Ancora più drammatica è la versione televisiva di questo ritorno, posteriore al 2008,
del sottogenere della “casa infestata”. La “casa working class in pericolo” è diventata un
diffusissimo luogo di terrore e di scontro in un vasto numero di “spettacoli paranormali”
molto diffusi in televisione. Il momento clou di questi reality ha a che fare con una de-
cisione che il proprietario deve affrontare: cedere la casa all’invisibile entità maligna o
decidersi a combatterla?
Un buon esempio è la serie televisiva Kindred Spirits [per serie si intende qui principal-
mente il format dei reality Tv show, che simulano il documentario raccontando episodi
di finzione come se fossero veri, ndt] che mette in scena settimanalmente la struttura
narrativa tipica del paranormale: una famiglia in pericolo cacciata dalla propria casa da
forze maligne al di fuori della loro comprensione. Adam Berry e Amy Bruni, investigatori
dell’occulto, indagano i fenomeni spaventosi che secondo i proprietari si sono manifesta-
INVERNO 2018/19

ti in casa, a partire dai classici racconti di porte che si aprono e chiudono da sole, orme
prive di spiegazione e la saltuaria e terrificante apparizione di spettri. Di solito questi
racconti procedono verso un’escalation di aggressioni fisiche da parte di entità invisibili,
con la presenza di voci demoniache che ringhiano: «Vattene!».
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In un episodio Adam Berry grida a un proprietario terrorizzato: «Ma questa è la tua
casa. La tua casa!». Il suo tono sovraeccitato vuole sottolineare che l’abitazione è uno spa-
zio sacro, profanato e minacciato da un’intrusione ostile, e deve essere difesa. È inusuale
che queste parole stiano in bocca a un detective. In genere in queste serie è il proprietario
a fare l’appassionata dichiarazione in difesa della propria dimora, in una qualche ver-
sione della ricorrente formula: «Questa è la mia casa e non la lascerò senza combattere».
Se non siete degli appassionati spettatori dei canali televisivi Travel Channel o Syfy, di
Discovery’s Destination America o di A & E’s Biography, non potete rendervi conto di quale
fenomeno siano diventate queste serie altamente stereotipate. Io ne sono consapevole per-
ché ho cominciato a guardare show paranormali nel 2008 e li ho visti diventare sempre più
diffusi nel corso dei dieci anni seguenti. Quella odierna è ormai la grande stagione delle serie
paranormali e potete rendervene conto da soli. Cominciano in genere nella prima metà di
settembre, raggiungono il loro climax per Halloween e poi svaniscono
nel nulla verso Natale. Dopodiché le più popolari sono trasmesse in re-
plica nel resto dell’anno. LA CASA INFESTATA
Il mio interesse a riguardo è personale. Ne sono attratto in parte È TORNATA AD ESSERE
perché la mia origine working class ha a che fare con una storia da UN LUOGO DI TERRORE.
“casa infestata”. Eravamo una famiglia operaia che aveva compra- LO SPAZIO CHE FINO
to una grande casa nel bel quartiere da borghesia medio-alta, una A POCO PRIMA ERA SICURO
casa che sarebbe dovuta essere oltre le nostre possibilità ma che per ADESSO È MINACCIATO
qualche strana ragione potevamo permetterci. Mai comprare una DA UN’INTRUSIONE OSTILE
casa che risulta “stranamente” alla vostra portata, come ci insegnano
molte storie horror successive al 2008. È una trappola!
Il rapporto tra la narrazione da “casa infestata” e le ansie della classe lavoratrice non
è mai stato analizzato in maniera esaustiva. Tuttavia Adam Curtis ha realizzato un buon
primo tentativo con il suo video-saggio del 2011, Ghosts in the Living Room, in cui mappa
le mutevoli convenzioni della rappresentazione di spettri e fantasmi in un contesto “rea-
listico” nelle serie britanniche:

Negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta i fantasmi in televisione seguivano le regole
classiche. Gli spettri abitavano in case vecchie, nelle dimore signorili o in vetuste rovine. [...] Ma
nei primi anni Settanta si verificò un cambiamento curioso. I fantasmi si spostarono. Smisero di
infestare i vecchi castelli e le rovine e si trasferirono nelle case più ordinarie delle periferie. La bat-
taglia tra bene e male si spostava adesso nelle cucine e nelle camere di periferia, addirittura sugli
scalini della Gran Bretagna contemporanea.

Secondo Curtis la presenza dei fantasmi serve a rianimare vite banali e incolori con
un’ondata di eccitazione e una sensazione di maggiore rilevanza all’interno del mondo.
Scrive: «All’improvviso le periferie non sono più noiose. Diventano sinistre, misteriose,
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

epiche». Terrorizzati da fantasmi o addirittura – nei casi più estremi – da demoni, i di-
spossessati raggiungono cime di importanza cosmica. Se il diavolo sa il tuo nome, ti sei
guadagnato il riconoscimento di uno dei potenti del pianeta.
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Curtis ha mappato la “ghost tv” dagli anni Settanta fino ai Novanta, quando una serie
di successo intitolata Ghostwatch ha segnato un cambiamento nelle relazioni del pub-
blico col materiale trasmesso nella forma della non fiction. Sostiene che in questa epoca
caratterizzata dal nuovo docudrama ibrido, finzione e racconto fattuale sono paradossal-
mente intrecciati tra loro non solo nella “ghost tv” ma anche nei programmi di informa-
zione, che diventano sempre più orientati all’intrattenimento. Non ci si può fidare della
dimensione fattuale di niente di quel che si vede in televisione e tuttavia gli eventi non
sono considerati reali fino a quando non compaiono in televisione.
Trasferendo la mappa di Curtis negli Stati uniti e allargando l’analisi fino al nuovo mil-
lennio, notiamo che una delle principali preoccupazioni dei proprietari di “case di fanta-
smi”, nella televisione del paranormale, è il desiderio che queste esperienze domestiche
terrificanti siano certificate, da parte di figure autorevoli, come “fattuali” e degne di in-
teresse. «Almeno so di non essere pazzo», è il frequente commento dei proprietari, grati
che il loro terrore e il rischio di dover traslocare siano riconosciuti da un professionista. Il
motore di molte di queste serie sta nel fascino di vedere “noti professionisti” e rappresen-
tanti del mondo dei media diventare testimoni delle vite dei lavoratori, per verificare lo
stato di assedio in cui versano.
Vi chiederete quante serie paranormali siano state trasmesse complessivamente dal
2008. Ecco una lista abbastanza esaustiva, che indica nome della serie, network e anno di
trasmissione:

The Haunted (Animal Planet, 2009 -2011, ora su Destination America),


The Haunting of… (Biography Channel, poi su Lifetime Movie Network, 2012 - 2016),
My Ghost Story (Biography Channel, poi Lifetime Movie Network, 2010 - 2013),
Celebrity Ghost Stories (Biography Channel, poi Lifetime Movie Network, 2009 - 2014),
Paranormal Witness (Syfy, 2011 - 2016),
Paranormal Survivor (Travel Channel, 2015 - in corso),
Paranormal Lockdown (Destination America, 2016 - in corso),
My Haunted House (Lifetime Movie Network, 2013 - 2016),
The Dead Files (Travel Channel, 2011 - in corso),
Kindred Spirits (Syfy, 2016 - in corso),
Ghost Hunters International (Syfy 2008 - 2012),
Ghost of Shepherdstown (Destination America, 2016 - in corso),
Ghost Mine (Syfy, 2013),
Haunted Collector (Syfy, 2011 – 2013),
Fact or Faked: Paranormal Files (Syfy, 2010 - 2012),
Alaska Hauntings (Destination America, 2015 - in corso),
Psychic Kids (A & E, 2008 - 2011),
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Scariest Night of My Life (Travel Channel, 2017 - in corso),


Ghost Asylum (Destination America, 2014 - 2016),
Haunted Towns (Destination America, 2017 - in corso).
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Certo, non tutte queste serie sono incentrate su indagini su case popolari in pericolo.
Celebrity Ghost Stories è su case di celebrità infestate (ad esempio, c’è un episodio in cui
Joan Rivers, ormai defunta, parla del suo appartamento infestato a New York). Tuttavia
un numero sorprendente di episodi della serie ha a che fare con il passato di miseria
di celebrità che un tempo vivevano in difficoltà, in classi subalterne, in condizioni rese
ancora più dure da spaventose entità invisibili: ad esempio Ernie Hudson cresciuto nel-
la povertà di una campagna, o Gina Gershon raccontata come un’attrice ambiziosa ma
priva di quattrini che occupa la peggiore camera da letto di un affollato appartamento
di New York che in passato – nel diciannovesimo secolo – aveva ospitato alcune prosti-
tute vittime di abusi.
Il format della casa infestata è elastico ed è popolare da secoli. Può adattarsi a chiun-
que, dagli aristocratici nelle loro magioni alle madri single che vivono nelle roulotte. Ma
nell’attuale televisione americana del paranormale si possono distinguere dei trend spe-
cifici. All’inizio del nuovo millennio c’erano poche serie paranormali ma erano grandi
successi che mostravano differenti approcci e indicavano la strada alle più popolari strut-
ture narrative. La serie britannica Most Haunted (Living Tv, poi Reality Channels, 2002
– in corso), subito ritrasmessa negli Stati uniti, si basava sul classico approccio gotico che
preferisce l’infestazione di proprietà aristocratiche e di famosi luoghi pubblici (castelli,
teatri, chiese, musei, locande). La squadra di acchiappa-fantasmi si scontra con gli spettri
in un’esplosione di paura isterica, urla e fughe, al fine di mettere in scena un’attività para-
normale irresistibile.
Il particolare modello di lotta coi fantasmi di Most Haunted compare anche in Ghost
Adventures (Travel Channel, 2008 – in corso), una serie americana popolarissima e di lun-
go corso, che aggiunge agli scontri un alto livello di machismo. Ci sono un bel po’ di sfide
urlate nell’oscurità che chiedono che i fantasmi «vengano fuori e si facciano vedere!».
Serie tv come Scariest Places on Earth (Fox Family, 2000-2006) proseguono la tendenza
di Most Haunted a investigare i luoghi pubblici che hanno beneficiato della presenza di
turisti alla ricerca di emozioni e di bramosi acchiappa-fantasmi amatoriali. Gli hotel con
la reputazione di luoghi infestati fanno adesso affari fiorenti smerciando esperienze so-
vrannaturali.
Ma la struttura narrativa che più ci riguarda è quella resa famosa da Ghost Hunters
(Syfy, 2004-2016), una serie diventata tanto popolare da essere imitata da altri programmi,
aver dato vita a spin-off (Ghost Hunters International, Kindred Spirits), libri, tour con la
presenza fisica di star del programma e un mucchio di gadget in vendita, inclusi mini-kit
da acchiappa-fantasmi. Il timbro del programma è sorprendentemente working class. Il
suo successo si basa su una configurazione interessante e nuova dal punto di vista della
narrativa di fantasmi: porta in scena due operai, Jason Hawes e Grant Wilson, che di gior-
no fanno gli idraulici e di notte gli investigatori del paranormale. In un’era di molteplici
lavoretti, caratterizzata da una classe lavoratrice sempre più stressata, la loro condizione
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

di persone ordinarie è rinforzata dal fatto di doversi mantenere con due impieghi. Arri-
vano al punto di dover letteralmente cambiare la segnaletica magnetica del loro furgone
alternando il lavoro diurno a quello notturno.
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La caccia ai fantasmi viene condotta alla stessa maniera dell’idraulica: con un ap-
proccio pratico, la tuta blu, utensili e maniere dure. Al posto della cassetta degli attrez-
zi, del piega-tubi e dello sturalavandini, i protagonisti trasportano dal furgone alla casa
cavi, videocamere, registratori e rivelatori di movimento. Il processo di preparazione
dell’attrezzatura è importante e viene mostrato in ogni episodio. Concentrano la loro
opera, al posto dei tubi ostruiti, quasi sempre su case di ordinarie persone delle classi
subalterne, nei guai con garage, cantine e stanze infestate da fantasmi.
Grant e Jason dedicano parecchio tempo a smontare i racconti di presenze spettrali
usando la loro esperienza operaia. Quel continuo picchiettio che si sente in casa è una
comunicazione di malcontento dal regno dei morti o il risultato di tubi mal funzionan-
ti? C’è una perdita di gas in casa che può dare allucinazioni a chi la abita, facendo crede-
re di vedere il fantasma dei nonni defunti? O forse l’impianto elettrico danneggiato nel
seminterrato contribuisce a creare quello che gli investigatori del
paranormale chiamano “la gabbia della paura”, un’area circoscritta
CI SONO INVESTIGATORI da un campo magnetico che può provocare mal di testa e nausea,
DEL PARANORMALE assieme a inquietudine e ansia.
CHE USANO LA LORO Quasi in ogni caso Grant e Jason raccolgono prove del fatto che
ESPERIENZA OPERAIA, le case sono davvero infestate da entità soprannaturali, e quindi i
COMPAIONO ESPONENTI loro clienti non patiscono solo gli effetti tipici della vita della classe
DI UNA WORKING CLASS lavoratrice, come un’intensa stanchezza, uno stress che indebolisce
SPAVENTATA E AFFRANTA le difese immunitarie e povere condizioni abitative.
Possiamo ricondurre all’immenso successo di Ghost Hunters le
tante serie paranormali che continuano a specializzarsi nell’inda-
gine sulle abitazioni ordinarie di una classe lavoratrice terrorizzata. Un esiguo numero
di programmi televisivi precedenti al 2008 tendeva a scegliere il modello investigativo di
Ghost Hunters, come Paranormal State (A&E, 2007-2011), che portava in scena un team
di studenti nei panni degli investigatori. Altre serie anteriori al 2008 si basavano invece
sulla ricostruzione drammatica delle traumatiche esperienze soprannaturali degli ospi-
ti, che le raccontavano comprovandone la veridicità. I programmi di reinterpretazione
spettrale sono spesso introdotti o incorniciati dalla voce fuori campo di un’autorevole
figura maschile che sembra rappresentare la verifica solenne e ufficiale delle esperienze
soprannaturali, tanto vitale in questo format. Tra questi esempi troviamo Ghostly En-
counters (del canale canadese Viva/T, in onda dal 2005 al 2011, poi venduto negli Sta-
ti uniti attraverso i canali Biography e Destination America) e A Haunting (Discovery
Channel, 2007-2011, ora trasmesso su Destination America).
Una serie classica, alla maniera di Ghost Hunters, è Dead File, un popolare show di
Travel Channel che va in onda dal 2011. La serie porta in scena una squadra di investi-
gatori composta da una medium, Amy Allan, e da un «detective della squadra omicidi
INVERNO 2018/19

di New York in pensione», Steve DiSchiavi. Lei ha il compito di comunicare in forma


diretta con gli spiriti, mentre lui perquisisce gli immobili alla ricerca di tragedie pro-
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dotte da fantasmi e interroga i testimoni. Il climax di quasi ogni episodio è raggiunto
quando DiSchiavi dice all’ansioso proprietario, la cui casa infestata rimane in attesa
di un verdetto: «Il punto è: per te è sicuro rimanere qui? Oppure è arrivato il momento
di andarsene?».
Sempre più spesso nelle ultime stagioni sembra che Amy Allan porti cattive notizie
ai proprietari: devono abbandonare le abitazioni. Entità maligne si sono impossessate
delle loro case e né la saggezza né l’esorcismo potranno disperderle.
In risposta a queste notizie, spesso elencando una serie di traumatiche aggressioni
soprannaturali, queste persone, dall’aspetto impoverito e oppresso, si mettono a pian-
gere. In molti episodi troviamo i duri segni fisici dell’esistenza impressi nel cuore del
paese: persone prematuramente invecchiate, dalle facce rugose, con la pelle simile a
cuoio, persone che tendono all’obesità, che hanno perso i denti, coi capelli sfibrati, tinti
con prodotti alla buona. Una frustrante realtà scritta su quei volti e quei corpi, fatta di
limitata disponibilità economica, molteplici lavori sottopagati, un’alimentazione di ci-
bo-spazzatura e nessuna decente assistenza sanitaria.
Raccontano quel che patiscono sotto un’oppressione sovrannaturale, e i sintomi del-
la possessione spettrale risuonano – sorprendentemente – come versioni più intense
di quel che le classi subalterne, in circostanze economiche precarie, soffrono quotidia-
namente. In ogni puntata c’è la stessa litania: una tremenda ansia, insonnia, incubi,
umore improvvisamente rabbioso, malattia, depressione, pensieri suicidi, accresciuta
dipendenza da alcol e farmaci, e un senso profondo di solitudine.
Lottano per salvare case che spesso sono disordinate e fatiscenti, con mobilio logoro
e mal assortito e tristi tentativi di riparazione lasciati in un permanente stato di incom-
piutezza. In molti episodi Steve DiSchiavi, dopo aver fatto il giro di quelle residenze
malandate e aver ascoltato le loro sventure paranormali, domanda: «Lasciami chiedere
una cosa: perché non ve ne andate da qui?».
È una domanda che fa piangere il cuore, ed è anche offensiva, perché la risposta è già
di fronte ai nostri occhi: la casa è l’unico bene di quella famiglia. Spesso il proprietario
risponde in maniera educata, rendendo esplicita la propria disperata condizione: «Non
posso permettermi di andarmene. Tutta la mia vita è in questa casa. È tutto quel che ho».
Come forma di intrattenimento questi show televisivi sembrano particolarmente
adatti alla nostra epoca di recessione economica. Trasmettono alla condizione di pro-
gressivo impoverimento della classe lavoratrice la qualità vivida di qualcosa di «sinistro,
epico e misterioso», che Adam Curtis ha identificato nel suo saggio. Sarebbe difficile
immaginare gli spettatori intenti a guardare infinite stagioni di varie serie sullo sgom-
bero di appartamenti, piene di interviste a persone comuni, ansiose e depresse, messe
davanti a una telecamera. Ma aggiungeteci fantasmi e demoni e detective del paranor-
male ed episodi con titoli come La casa del demonio, Vattene o muori o La casa del morto
risorto:
o: allora anche i mostri che ci rovinano la vita diventano degni avversari in un
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

mondo estremamente terrificante.


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Il millennio
SUBPRIME

Minsky
Più che una teoria del collasso, per cogliere il significato
degli eventi del 2008 serve un pensiero del salvataggio.
Le analisi di Hyman Minsky, l’economista post-keynesiano
preferito tra i marxisti e apprezzato dagli investitori

D
opo averne vissuta una, rispetto agli anni precedenti il 2008 ora i
socialisti sembrano meno preoccupati dalla “crisi”. A quei tempi,
le teorie della stagnazione e della crisi erano una parte notevole
del repertorio economico marxiano. Eri un sostenitore della Scuo-
la della Monthly Review e della sua nozione di “problema cronico
di assorbimento del surplus”? Ti convinceva di più la storia di Ro-
Mike Beggs bert Brenner della “sovracompetizione che cresce a partire dalla
sovracapacità produttiva permanente della manifattura globale”?
Oppure tutto questo era soltanto revisionismo senza speranze di chi aveva abbandonato
la legge della “caduta tendenziale del saggio di profitto”?
Naturalmente, dopo averla sognata così a lungo i teorici della crisi erano pronti ad agire
quando la Lehman Brothers ha rotto il settimo sigillo e spalan-
cato la stretta porta. Quando tutto è crollato, ero alla sessione
plenaria di Historical Materialism 2008 a Bloomsbury, Londra. Mike Beggs è redattore
La «finanziarizzazione» era un mero sintomo morboso del de- di Jacobin Usa e
clino dei rendimenti, forse uno sfogo per la sovra-accumulazio- docente di economia
ne, e il mercato subprime era il suo ultimo disperato rifugio? politica all’Università
INVERNO 2018/19

Oppure la finanza era una sfera con una relativa autonomia in di Sidney.
cui nuove contraddizioni si stavano condensando? La traduzione
Qualcuno colse l’attimo per lanciare una frecciata agli scrit- dell’articolo è di Marie
tori marxisti Leo Panitch e Sam Gindin, che qualche anno pri- Moïse.
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ma si erano assegnati la parte degli anti-Geremia, dei profeti eccentrici di un non-destino.
Sostenevano che il capitalismo fosse in declino cronico dagli anni Settanta, e che si fosse
salvato per un fortuito aggiustamento spazio-temporale dopo l’altro. Secondo loro, nel
mondo a capitalismo avanzato l’accumulazione era debole solo in confronto col lungo
boom del dopoguerra. In una prospettiva storica e su un’ampia estensione geografica,
il capitalismo e l’impero se la stavano cavando bene. Eppure, ecco che arriva la grande
crisi. Il presidente della Federal Reserve [la banca centrale degli Stati uniti d’America, ndt]
non aveva avvertito che «potremmo non avere più un’economia lunedì prossimo»? Esat-
tamente così!
Ma riguardando indietro al 2008, Panitch e Gindin sembrano i più preveggenti. Non ne
avevano mai negato la possibilità, avevano solo sostenuto che «prevedere una crisi non è
una strategia». Le teorie della crisi non erano affatto di aiuto politico per i socialisti. Anche
se una teoria spiega, la spiegazione è politicamente utile solo se identifica le leve più effi-
caci per l’azione. La teoria marxiana della crisi è inusuale perché è una diagnosi che non
prova a fornire elementi per la cura. La prognosi è che il capitalismo è intrinsecamente
instabile e non può essere stabilizzato. E poi?
La speranza taciuta era che una grande crisi smascherasse il capitalismo, rivelasse che
la prosperità che la gente pensava di possedere era una menzogna. Ma ora abbiamo re-
alizzato che non delegittima il capitalismo, e non ne minaccia di per sé la fine. La crisi
porta a un capitalismo malfunzionante per un po’ di tempo e legittima tutte le misure
per ripristinarne il funzionamento, vero o falso che sia: salvataggi, incentivi alle aziende,
austerità, contrasto all’immigrazione. Per troppo tempo i socialisti hanno immaginato la
grande crisi come l’evento che avrebbe fatto saltare in aria il sistema.

Il vero «momento Minsky» è il salvataggio

Intanto, la stampa economica stava scoprendo il proprio teorico socialista della crisi:
Hyman P. Minsky.
Nel 2016 l’Economist incluse l’«ipotesi dell’instabilità finanziaria» di Minsky nell’e-
lenco delle sei teorie più influenti in economia, accanto al moltiplicatore keynesiano,
l’equilibrio di Nash, l’asimmetria informativa. Gli ideatori di questi concetti – eccetto il
moltiplicatore che è arrivato troppo presto – hanno ricevuto tutti il premio Nobel. Min-
sky era quello insolito, riconosciuto a malapena ai suoi tempi negli ambiti convenzionali
della propria disciplina. L’Economist
Economist constatò che prima della morte, nel 1996, lo avevano
menzionato solo una volta e in seguito solo di sfuggita. A partire dal 2007 il giornale aveva
recuperato, citandolo in più di trenta articoli.
Paul Krugman dichiarò che «Siamo tutti minskiniani ora», e coniò l’espressione «mo-
mento Minsky» in un articolo firmato insieme a Gauti Eggertsson. Janet Yellen, allora pre-
sidente della Federal Reserve Bank of San Francisco ma destinata a cose ben più grandi,
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

entrò alla 18th Annual Hyman P. Minsky Conference nel 2009 per presentare un articolo
– intitolato «un crollo Minsky: lezioni per banchieri centrali». Mervyn King e Mark Carney,
i successivi governatori della Banca d’Inghilterra, iniziarono a loro volta a citare Minsky.
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Minsky non stava mica lavorando nell’ombra ai suoi
tempi – gli sconosciuti non hanno istituti di ricerca o con-
ferenze annuali a loro nome. Ma il suo status di “classico”
fu riconosciuto da due pubblici distinti. Fu un nome gros-
so tra i post-keynesiani e uno dei post-keynesiani preferiti
tra i marxisti (per quanto mi riguarda, l’ho incontrato per
la prima volta attraverso il punto di vista radicale di Doug
Henwood su Wall Street, del 1998). Ebbe un certo segui- menti. Poiché il bisogno di un quadro del
to anche tra gli investitori professionisti. Uno di questi, genere si fa più chiaro durante una crisi
Paul McCulley della Pimco – l’azienda di gestione di in- finanziaria, Minsky è stato visto solamente
vestimenti da un triliardo di dollari – coniò la nozione di come un teorico del punto di collasso.
«momento Minsky» e fu responsabile in larga misura della Ma Minsky viene interpretato a torto
divulgazione del suo lavoro nei giornali di affari (McCulley come un profeta. Una raccolta di suoi ar-
è anche l’autore del concetto di «sistema bancario ombra ticoli si intitola, in modo abbastanza pre-
[shadow banking]» - che peraltro ha teorizzato da una vedibile, Potrebbe ripetersi? – il cui sogget-
prospettiva minskiana). to sottinteso è la Grande Depressione. Il
Minsky è considerato quasi ovunque come uno dei saggio prende il nome da uno degli articoli
teorici del collasso finanziario. Il «momento Minsky», se- della raccolta, in origine pubblicato nel
condo McCulley, è il punto in cui una bolla speculativa, 1962. Ovviamente si può presumere che la
alimentata dal debito, esplode. Nel modello di Krugman e risposta di Minsky sia «Sì». In realtà lui ri-
Eggertsson, il «momento Minsky» è il punto in cui le pro- sponde «Probabilmente no».
spettive sul livello sostenibile della leva finanziaria (rap- L’occasione per scrivere quell’articolo fu
porto debito-capitale) improvvisamente crollano, spin- un crollo nel mercato azionario, che aveva
gendo i debitori a cercare di ridurre il loro debito con ogni innescato sui giornali diverse riflessioni
mezzo necessario. sulla crisi del 1929. Il Consiglio dei con-
Minsky fornisce un ingrediente mancante nella macro- sulenti economici di Kennedy respinse la
economia classica: il quadro per pensare alla relazione tra possibilità che potesse ripetersi, grazie ai
debito, prezzi delle attività (reali e finanziarie) e investi- «cambiamenti fondamentali messi in atto
durante e a partire dagli anni Trenta». La
risposta di Minsky scartava questa ipotesi non in quanto fondata sulla speranza, ma piut-
tosto per mettere a critica il fatto che non fosse sostenuta da alcuna spiegazione teorica
della relazione tra i rapporti macroeconomici e il sistema finanziario. Il proposito di Min-
sky era di fornire tale teoria. L’articolo espose la prima formulazione di ciò che sarebbe di-
venuta più avanti «l’ipotesi dell’instabilità finanziaria». Questa avrebbe sempre incluso la
tesi secondo cui la crescita del settore pubblico e i cambiamenti nella politica economica
pongono un limite alle conseguenze macroeconomiche dei guai finanziari.
All’inizio Minsky credeva che le banche centrali avessero imparato dall’esperienza della
Depressione e che avrebbero fatto di tutto per interrompere una reazione a catena di ban-
INVERNO 2018/19

carotte, agendo da finanziatori di ultima istanza, oppure organizzando e sottoscrivendo un


salvataggio da parte di privati. Anche quando la banca centrale si rifiuta in partenza di sup-
portare qualche strumento esotico o qualche istituzione che si comporta male, si trova sem-
pre forzata al salvataggio quando la minaccia è il collasso del sistema. Inoltre, la spesa pub-
blica era molto più ampia in proporzione alle dimensioni dell’economia di quanto non fosse
prima della Seconda Guerra Mondiale. Dato il sistema fiscale e dei trasferimenti, le riduzioni
N. 1

della spesa privata indussero automaticamente delle leve fiscali compensative, anche senza
uno stimolo programmato e un deficit maggiore, furono iniettati dei Treasury bond [obbli-
gazioni statali statunitensi, ndt] in un sistema finanziario affamato di titoli sicuri. Quello che
Minsky definì «Grande Governo» agì da supporto per attenuare l’impatto di un’inflessione
degli investimenti sulle entrate, l’occupazione, i profitti, e i valori patrimoniali.
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Negli anni Settanta e Ottanta, quando presentò l’«ipotesi dell’instabilità finanziaria»,
Minsky non aveva bisogno di predire il futuro guaio finanziario. Poteva sottolineare una
lunga serie di salvataggi nel sistema statunitense: una corsa ai certificati di deposito nel
1966, il default della Penn-Central railroad negli anni Settanta, il fallimento della Franklin
National Bank del 1974, la corsa ai fondi fiduciari di investimenti immobiliari nel medesi-
mo anno, il collasso di Penn Square del 1982. Questi erano gli episodi che aveva in mente
Minsky; nessuno è rimasto nella memoria al giorno d’oggi. Erano crisi ordinarie e rimedi
ordinari, e l’ordinarietà era il punto centrale per Minsky.
Il vero «momento Minsky» è il salvataggio. Minsky non predisse l’implosione del ca-
pitalismo in una grande crisi che avrebbe eliminato tutti: «Abbiamo a che fare con un
sistema intrinsecamente instabile», scrisse nel 1975, ma «l’instabilità fondamentale ten-
de verso l’alto». Nel 1986, sintetizzava la questione così:

Ogni volta che la Federal Reserve tutela uno strumento finanziario, ne legittima l’uso per il fi-
nanziamento di attività. Questo significa che l’intervento della Federal Reserve non solo disinnesca
l’inizio di una crisi, ma prepara il terreno per una ripresa del processo di crescente indebitamento
– e consente l’introduzione di nuovi strumenti (Stabilizing an Unstable Economy, 1986, p. 106).

Così come la Teoria Generale di John Maynard Keynes fu influenzata dal periodo di
depressione in cui fu elaborata, anche l’«ipotesi di instabilità finanziaria» di Minsky fu
il risultato dell’inflazione degli anni Settanta e del mercato in ascesa degli anni Ottanta:

Quello con cui ci sembra di avere a che fare è un sistema che sostiene l’instabilità proprio
mentre impedisce la depressione del passato. Invece di crisi finanziarie e profonde depressioni
distanti tra loro decenni, si verificano minacce continue di crisi e di profonda depressione a di-
stanza di pochi anni l’una dall’altra; invece di un’effettiva depressione, ora abbiamo a che fare con
un’inflazione cronica (Stabilizing an Unstable Economy, 1986, p. 106).

L’inflazione dei prezzi non era più cronica ai tempi in cui Minsky scrisse queste parole,
e non lo è più da allora. La debolezza del lavoro (della pressione salariale) eliminò la parte
di inflazione dovuta ai salari all’interno del ciclo economico, con il supporto della strate-
gia delle politiche macro-economiche, studiate affinché partissero scioperi preventivi al
primo segno di rigidità del mercato del lavoro. Ma l’inflazione dei prezzi delle attività non
è mai finita. Ora la teoria di Minsky regge di più se inserita in una spiegazione del lungo
trend ascendente del valore del capitale proprio e dei prezzi dei beni immobiliari che si
è delineato a partire dagli anni Ottanta, con un passo all’indietro ogni due passi avanti.
Minsky riesce a dare spiegazione sia del Greenspan put (provvedimento di politica mone-
taria che permetteva ai detentori di titoli di venderli a terzi in qualsiasi circostanza a un
prezzo prefissato) sia del nuovo ruolo della Federal Reserve nei termini di «operatore di
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

mercato di ultima istanza» come l’ha definita Perry Mehrling dopo il 2008.
Chiunque abbia letto con attenzione la loro interpretazione di Minsky non resterebbe
sorpreso nel leggere nel 2018 le prime pagine dei giornali che sostengono il «ritorno del-
le obbligazioni garantite», e che i titoli di credito sono «troppo attrattivi per essere igno-
rati», o che «il mutuo subprime è tornato sul mercato e ha un nome nuovo di zecca». E
non sarebbe una sorpresa nemmeno sentire che il «sistema bancario ombra» godrebbe
di ottima salute, come sostiene Daniela Gabor. Da una prospettiva minskiana, il periodo
successivo al 2008 è il ripetersi della storia di cui Minsky aveva parlato. È la traiettoria di
molti strumenti, istituzioni e mercati dall’innovazione alla crisi e al salvataggio fino alla
ricostruzione come parte della fornitura finanziaria. Una volta era il mercato dei fondi
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federali, poi sono arrivati i certificati di deposito, i fondi di mercato monetario, i fondi
fiduciari di investimenti immobiliari. Prima ti ignorano, poi ti ammoniscono, poi ti sal-
vano, e poi diventi parte della fornitura finanziaria e ti ignorano di nuovo.
Proprio come Keynes che cercava di fornire una teoria generale, e non solo una teoria
per i tempi di crisi, Minsky volle fare altrettanto. Come afferma Perry Mehrling, «la sua
enfasi sulla crisi può essere capita meglio come il tentativo di attirare l’attenzione sul suo
modo di pensare […]. Per Minsky la crisi finanziaria era solo il caso più estremo di un
problema permanente che ogni economia finanziaria sviluppata si trova ad affrontare,
ovvero il problema del rifinanziamento a causa dello spostamento dell’equilibrio tra gli
impegni di cassa e i flussi di cassa».
Per Minsky, la finanza non è qualcosa di trapiantato nel capitalismo. La finanza non è
un parassita e nemmeno una sfera separata. L’economia capitalista è finanziaria fino al
midollo. Minsky non porta semplicemente l’attenzione sulle istituzioni finanziarie; egli
tratta tutti gli attori economici come istituzioni finanziarie – banche, imprese e famiglie
allo stesso modo. Tutte le unità economiche, infatti, hanno un bilancio, ricevono e fan-
no pagamenti, contraggono e concedono prestiti. La «transazione economica chiave»
è «lo scambio di denaro oggi per altro denaro più avanti». Quasi tutti gli aspetti della
finanza rientrano in questa definizione; nei dettagli si aggiungono solo le tempistiche e
le condizioni per il «denaro più avanti». Alcune istituzioni sono specializzate in funzioni
finanziarie e, in quanto nodi fondamentali nella rete delle relazioni
monetarie, i mercati finanziari sono gli epicentri da cui il collasso
LA FINANZA NON È facilmente si propaga.
UN SEMPLICE PARASSITA La finanza è solo finanza. Non ha niente a che vedere con «l’otti-
E NON AGISCE NEMMENO mizzazione intertemporale» dei modelli idealizzati. La finanza non
SU UNA SFERA SEPARATA. ottimizza l’allocazione di mezzi scarsi tra usi alternativi in una so-
L’ECONOMIA CAPITALISTA cietà, né predice il futuro attraverso il buonsenso della gente. È solo
PER MINSKY È FINANZIARIA «scambio di denaro oggi, per altro denaro più avanti». Il capitalismo
FINO AL MIDOLLO è fondamentalmente instabile perché le aspettative sul «denaro più
avanti» possono mettere in moto flussi di «denaro oggi» che hanno
poco a che vedere con le condizioni macroeconomiche dell’oggi e
fissano delle promesse di «denaro più avanti» basate su aspettative che potrebbero non
concretizzarsi quando «più avanti» diventa «oggi».

Minsky il socialista

Ancor prima di diventare un economista Hyman Minsky fu un socialista, e divenne eco-


nomista proprio a causa della sua adesione al socialismo. I suoi genitori erano degli emi-
granti menscevichi (di buona annata, 1905), entrambi molto impegnati nei sindacati di Chi-
INVERNO 2018/19

cago e nei movimenti socialisti. I due si incontrarono per la prima volta alla festa del Socialist
Party per il centenario della nascita di Karl Marx, nel 1918. Hyman nacque l’anno seguente.
Vent’anni più tardi, Minsky era uno studente dell’Università di Chicago, infelice di spe-
cializzarsi in matematica e fisica, e che dedicava la maggior parte delle sue energie alla
politica. Partecipava anche lui alle riunioni del Socialist Party e fu proprio lì che incontrò
l’economista polacco Oskar Lange, chiamato a tenere un ciclo di lezioni per il Partito in
N. 1

Economia del socialismo.


Il giovane Minsky trovava che gli interventi di Lange fossero «un modello di chiarezza
nell’argomentare sia come un’economia di mercato possa raggiungere “l’efficienza”, sia
come il socialismo di mercato decentralizzato possa realizzare gli obiettivi dei mercati,
paradossalmente irrealizzabili sotto il capitalismo».
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Un giorno, su una fredda banchina della stazione, poco dopo la fine di una sua lezione,
Lange convinse Minsky a passare agli studi di economia.
Minsky non fu mai un leninista e mai un membro del Communist Party, ma continuò a
ritenersi un socialista e contribuì a pubblicazioni socialiste, per decenni.
Tra i suoi mentori si annoverano: il socialista di mercato e keynesiano Abba Lerner (che
Minsky conobbe al rientro di Lerner dal Messico, dopo aver fatto lezione a Lev Trotsky
su Keynes), Wassily Leontief (che più tardi lo fece assumere ad Harvard) e il suo tutor di
dottorato Joseph Schumpeter, che Minsky descrisse come un «Marxista conservatore» (ma
ancora meglio lo definì Joan Robinson: Schumpeter era «Marx con una variazione di agget-
tivi»). Minsky rimase molto deluso dalla traiettoria politica di Oskar Lange, che più avanti
divenne collaboratore di Stalin e titolare della più alta carica nella Repubblica Popolare di
Polonia. Ma tornando indietro agli anni Settanta – proprio a quando stava riformulando la
sua Ipotesi dell’instabilità finanziaria – Minsky affermò che «il programma di ricerca che
sto portando avanti è coerente con il Lange del 1939-42». Questa affermazione è la prova di
quale fosse l’intento originario di Minsky con l’ipotesi dell’instabilità finanziaria. L’obiet-
tivo non era dimostrare una propensione del capitalismo al collasso, ma piuttosto rendere
evidente che i mercati finanziari reali non sono un insieme di informazioni magiche, ma
un dispositivo che crea incentivi per organizzare la complessa divisione del lavoro in ma-
niera equa ed efficiente. Minsky combinò Lange con Keynes.
Le lezioni che Lange diede per il Socialist Party a Chicago si basavano su un lungo
articolo pubblicato in due parti nella Review of Economic Studies del 1936-37, e pub-
blicate poi sotto forma di libro nel 1938.
Oggi Lange è visto come un classico del chiedesse diseguaglianza o la proprietà privata dei mezzi
«socialismo di mercato», ma il suo atteg- di produzione. In realtà il socialismo, nella prospettiva di
giamento nei confronti del mercato era Lange, potrebbe avere un sistema di prezzi migliore. L’e-
ambivalente e potrebbe essere definito quilibrio nella competizione di cui parlano i manuali di
come «socialismo dei prezzi». economia era una fantasia dal punto di vista del capita-
Mises e Hayek sostenevano l’impossibilità lismo. Nel capitalismo reale, le imprese non prendono i
di gestire l’intricata moderna divisione del prezzi come un dato, ma occupano posizioni di maggio-
lavoro sulla base di una pianificazione cen- re o minor potere di mercato che cercano di difendere o
tralizzata. Senza i mercati, i prezzi dei beni sfruttare. I risultati positivi di un’economia del benesse-
capitali sarebbero indeterminati e non vi sa- re potrebbero essere raggiunti solo in un’economia so-
rebbe modo di ripartire le risorse in maniera cialista in cui i prezzi siano direttamente stabiliti come
efficace. Secondo i due autori, la generosa se vigesse un regime di concorrenza perfetta. Al con-
produttività del capitalismo semplicemente trario delle imprese che cercano alla cieca una via per
non era matura per la spennatura socialista: la minimizzazione dei costi e la massimizzazione dei
togli la proprietà privata e il mercato e l’ab- profitti, una gestione socialista sarebbe orientata diret-
bondanza svaniranno. tamente alla minimizzazione dei costi, avendo i prezzi
Lange rigirò quell’argomentazione con- come parametri. I pianificatori aumenterebbero o dimi-
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

tro i due autori austriaci. Questi avevano nuirebbero i prezzi secondo il rapporto tra domanda e
ragione a sostenere che i prezzi fossero offerta. Il banditore d’asta immaginario dell’equilibrio
necessari, ma torto sul fatto che questo ri- economico generale di Walras – una descrizione dei
processi di mercato reale completamente irrealistica –
diventerebbe reale.
Per Lange, la pianificazione e i mercati non erano in
antitesi. I mercati sarebbero stati uno strumento per
implementare i piani, trasmettendo informazioni e or-
ganizzando incentivi. I beni di consumo e il mercato del
lavoro potrebbero restare, in quanto modo più funziona-
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le per assicurarsi che le persone siano libere di dirigere
la produzione verso ciò che decidono di consumare, e di
muoversi tra le possibilità di impiego a loro piacimen-
to. Ma in questo caso lavorerebbero in maniera ben di-
versa. Anche i mercati ideali organizzano la produzione
per soddisfare le persone in proporzione alle entrate
da spendere; distribuendo in modo equo le risorse, il
socialismo adempirebbe per la prima volta alle pretese
democratiche del mercato, permettendo la libera espres-
sione delle mode e dei gusti. Con la piena occupazione, Keynes all’«eutanasia di chi vive di rendita»
il mercato del lavoro sarebbe il mercato dei venditori. Le e alla «socializzazione degli investimenti».
differenze salariali rifletterebbero i gradi d’intensità e Minsky cita il Keynes degli anni Venti, quel-
di amabilità degli impieghi, adempiendo alla teoria dei lo che si proclamava «meno conservatore
salari di Adam Smith come il capitalismo non ha mai nelle mie tendenze di elettore laburista
fatto: professori e professoresse potrebbero guadagnare medio» e che «la Repubblica della mia im-
meno di lavoratori e lavoratrici delle pulizie. Le differen- maginazione risiede nell’estrema sinistra
ze di reddito derivanti da un divario nelle capacità o altre dello spazio celeste».
espressioni della fortuna potrebbero essere mitigate con Lange pensava che, una volta eliminata
una tassazione progressiva. E ovviamente, mentre il si- l’ineguaglianza di risorse, un mercato idea-
stema dei prezzi potrebbe andare bene per il consumo lizzato e simulato fosse un buon meccani-
individuale, la tassazione e i servizi pubblici si prende- smo distributivo. Allo stesso modo Keynes
rebbero cura dei beni collettivi come l’educazione, la sa- scriveva in Teoria generale:
lute, le infrastrutture.
Minsky vide una corrispondenza naturale tra la visione Se le nostre autorità centrali di controllo ri-
di Lange e quella di Keynes. La politica di Keynes era com- uscissero a stabilire un volume complessivo di
plessa e non era affatto socialista. Ma il libro di Minsky del produzione corrispondente per quanto possibile
1975, John Maynard Keynes, si conclude con una lunga im- alla piena occupazione […] allora non vi è alcuna
provvisazione in cui prende sul serio l’ambiguo appello di obiezione da opporre all’analisi classica del modo
in cui l’interesse individuale privato determinerà
ciò che si produce in particolare, in quali proporzioni i fattori di produzione verranno comminati nella
produzione e in che modo il valore del prodotto finale si distribuirà fra di essi (Utet, 2013).

Lange sosteneva che nella società capitalista l’ineguaglianza e il potere del mercato
impedivano al meccanismo del prezzo di fare il suo lavoro – ovvero organizzare la pro-
duzione nel presente, per fare il miglior uso delle risorse e andare incontro ai bisogni e
ai desideri in maniera corretta ed efficiente. Keynes sosteneva che in particolare avesse
fallito il meccanismo del tasso di interesse nel suo compito di programmare nel tempo,
per poter fare un uso pieno delle risorse nel presente e provvedere in simultanea ai con-
INVERNO 2018/19

sumi desiderati nel futuro. Il cuore di Teoria generale è che il tasso di interesse non porti
a un equilibrio tra i risparmi desiderati e gli investimenti desiderati. Esso infatti non
coordina le preferenze delle persone sulle tempistiche dei consumi e gli investimenti
per provvedervi. Il tasso di interesse è un fenomeno monetario, determinato sui mercati
finanziari. Non è veicolo di provvidenza ma semplicemente riflette gli esiti delle tran-
sazioni tra persone con prospettive incerte rispetto a un futuro incerto, motivate dalla
N. 1

speranza di guadagnare e dalla paura di perdere. Per l’intera comunità, risparmiare non
significa provvedere per il futuro, ma astenersi dal consumo nel presente; l’aumento di
risparmi di una persona corrisponde al declino delle entrate di un’altra. Sono gli inve-
stimenti che provvedono al futuro e questo dipende non dal risparmio, ma dalle pro-
spettive di redditività futura, relativa ai tassi di interesse. Le imprese non hanno bisogno
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di mettere le loro mani nei risparmi della gente prima di poter investire; le banche e i
mercati finanziari possono creare e mobilitare potere d’acquisto.
Gran parte del lavoro di una vita di Minsky può essere visto come un’elaborazione di
questo aspetto della Teoria generale. Keynes ha espresso la sua nel modo più modesto e
astratto possibile. Se Keynes si focalizza sul tasso di interesse, su un solo tipo di obbliga-
zioni, Minsky estende la sua analisi all’intera gamma di strumenti finanziari, in partico-
lare ai titoli azionari.
Se Keynes descrive la «preferenza per la liquidità» come l’esigenza di una certa quantità
di denaro (comunque definita), per Minsky la liquidità è una cosa complessa che include
l’interazione tra lo stato patrimoniale, i flussi di cassa previsti, e i flussi di cassa potenziali.
Se Keynes negli anni Trenta si concentra sulle disfunzioni della disoccupazione, Minsky
negli anni Settanta si focalizza sulle disfunzioni dell’inflazione e delle bolle speculative
sui prezzi delle attività finanziarie. La tesi implicita è la stessa: non c’è ragione perché il
perseguimento razionale del proprio interesse individuale sui mercati finanziari generi
un esito razionale per il sistema intero. Non esiste nessuna mano invisibile finanziaria.
Ma per Minsky nel 1975 un capitalismo stabilizzato non sarebbe stato sufficiente: an-
che il mercato falliva «in ciò che conduce a una distribuzione socialmente oppressiva della
ricchezza», ma in misura molto più efficiente per il ricco e molto meno per il povero. «Rico-
noscere il meccanismo del mercato come determinante la direzione dell’occupazione po-
trebbe ricadere su un cortocircuito pre-esistente della distribuzione di mercato dei redditi».
Dal punto di vista di Minsky anche Key-
nes faceva la medesima analisi e per que- generalizzare da Bloomsbury. Piuttosto che «filosofia e cul-
sto sperava nell’«eutanasia di chi vive di tura» i ricchi continuavano a trovare nuove combinazioni
rendita», ma pensava che sarebbe stato di beni ad alta intensità di capitale da desiderare e «il loro
tutto troppo facile. Keynes credeva che la esempio trapelava verso il basso, verso i non così ricchi».
remunerazione del capitale sarebbe dimi- Un’ondata dietro l’altra di novità tecnologiche ha colpito i
nuita quando la ricchezza fosse diventata negozi nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale,
abbondante. In altre parole, si verificava mentre i contratti statali per l’armamento ad alta intensità di
una caduta tendenziale del tasso di profit- capitale continuava ad aumentare. Non c’era alcuna garan-
to. Le ricompense per la mera detenzione zia che il capitale potesse diventare talmente abbondante da
di ricchezza sarebbero andate scemando. eliminare i rendimenti derivanti dalla detenzione di ricchez-
In realtà, questa si chiamerebbe «una esau- za (questa tesi, per inciso, proveniva direttamente da Lange).
stiva socializzazione degli investimenti»: lo Minsky pensava che i gusti potessero evolvere prefe-
scopo del profitto andrebbe scemando gra- rendo lo svago e la cultura a gadget ed energia, ma che
zie a questa. questo sarebbe accaduto con molta più probabilità in una
Purtroppo, diceva Minsky, non era così società che fosse già egualitaria. Così Keynes si sbagliava
semplice. Keynes pensava che il capitale ad aspettarsi che i rendimenti derivanti dalla ricchezza
avrebbe raggiunto un punto di saturazione sarebbero scomparsi: «potrebbe anche darsi che l’eutana-
perché credeva, a torto, che le persone alla sia di chi vive di rendita nella forma a cui puntava Keynes
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

fine sarebbero state soddisfatte delle merci, richieda innanzitutto limitazioni alla crescita dei bisogni
per lo meno delle merci prodotte con inve- relativi, e tale crescita richiede una distribuzione delle en-
stimenti sostanziali di capitali. Sbagliava nel trate basata su uno scarso o nullo rendimento derivante
dalla ricchezza posseduta, per esempio l’eutanasia pre-
ventiva di chi vive di rendita».
Lo stesso Keynes diede seguito alla sua chiamata alla
«socializzazione relativamente estesa degli investimenti»,
affermando che «non è la proprietà privata dei mezzi di
produzione che deve assumere lo stato», ma era sufficien-
te «determinare l’ammontare complessivo delle risorse
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destinate ad aumentare gli strumenti e il tasso base di
ricompensa per coloro che li possedevano». Ma Minsky
difese la causa della socializzazione in misura molto più
letterale, almeno dei «piani alti» dell’industria. La prospet-
tiva di Keynes era «coerente in linea di principio» con il
socialismo di mercato dei suoi contemporanei come Lan-
ge e Lerner.
Eppure, la politica keynesiana prese una strada diversa. I
governi appresero la lezione dalla Seconda Guerra Mondia- Molto più ampia di quanto il titolo non
le, ovvero che un ampio budget di governo era sufficiente lasci intendere, quest’opera non è altro che
per stabilizzare l’economia capitalistica. La politica fiscale il quadro per comprendere il capitalismo.
divenne il sostituto della socializzazione. La politica macro- Mescola la teoria economica con una trat-
economica lavorò per rinforzare i rendimenti del capitale tazione della storia finanziaria statuniten-
nella speranza di alimentare gli investimenti privati. «La po- se sin dalla Seconda Guerra Mondiale. È la
litica della piena occupazione ha assunto una connotazione formulazione definitiva dell’Ipotesi dell’in-
conservatrice; ciò che è stato raggiunto potrebbe essere chia- stabilità finanziaria di Minsky e si conclude
mato in maniera appropriata come socialismo per i ricchi». con una serie di proposte politiche ancora
L’instabilità finanziaria «verso l’alto» era l’effetto collaterale,più dettagliate.
poiché gli stabilizzatori automatici dei grandi stanziamenti Sfortunatamente la proposta politica se-
di governo e i meccanismi di protezione della banca centrale gna la ritirata dal socialismo di mercato de-
salvavano il capitale dal crollo della valutazione senza essere gli anni Settanta. La radicalità del suo testo
in grado di tenere a bada l’esuberanza/la sovrabbondanza. del 1975 non dovrebbe essere sovrastimata.
In quell’opera Minsky faceva appello soltan-
La ritirata di Minsky to alla socializzazione dei «piani alti». Ma
lo schema precedente dava egual peso alla
Un decennio dopo l’uscita del libro John Maynard Key- stabilizzazione macroeconomica, a un’e-
nes, Minsky pubblicò la sua opera più importante, Stabili- spansione «dei beni comuni-sociali», e a
zing an Unstable Economy (1986). una distribuzione egualitaria delle entrate.
E Minsky lo chiamava tranquillamente «so-
cialismo». A metà degli anni Ottanta, la stabilizzazione domina in maniera assoluta.
«Il capitalismo è difettoso – scrive ora Minsky – perché non può assimilare prontamente
i processi di produzione che usano capitale fisso su larga scala». Questa è la radice dell’in-
stabilità finanziaria, verso l’alto e verso il basso: la produzione dipende da attività a lungo
termine, ma il loro valore è instabile perché le persone non possono prevedere il futuro.
Quando queste hanno fiducia nella profittabilità futura, le valutazioni sono alte, le imprese
investono in capitale fisso, e il reddito creato dagli investimenti convalida le alte valuta-
zioni. Quando le persone sono meno fiduciose, preferiscono la sicurezza e la liquidità, la
valutazione delle attività a lungo termine diminuisce, gli investimenti si riducono e spese
INVERNO 2018/19

inferiori alle attese convalidano valutazioni più basse.


Il capitalismo ha anche molti altri problemi, ma «per quanto detestabili possano essere
l’ineguaglianza e l’inefficienza, non c’è legge scientifica o evidenza storica che dica che un
sistema economico per sopravvivere deve andare incontro agli standard di eguaglianza ed
efficacia». Il sistema è insostenibile se «oscilla tra minacce di collasso imminente dei valori
dei beni e minacce di un’accelerazione dell’inflazione e di speculazione galoppante».
N. 1

Le sue proposte allora puntano al problema della stabilità. Una volta risolto questo, «tale
programma economico è il migliore per minimizzare l’ineguaglianza» – ma l’ordine è chiaro.
L’espansione del consumo collettivo è interamente ritirata. Minsky sostiene quello che de-
finisce «il Grande Governo» innanzitutto in quanto forza di stabilizzazione macroeconomica.
Gli stanziamenti federali dovrebbero almeno essere dello stesso ordine di grandezza degli in-
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vestimenti privati, in modo da poter finire il lavoro quando questi ultimi recedono – ma gli
stanziamenti federali non devono essere più grandi. Minsky propone la «stima generosa» che il
20% del reddito nazionale lordo sia sufficiente, e tramite questo parametro le spese del gover-
no federale del 1983 (l’anno che fa da parametro di riferimento) erano di oltre cento miliardi di
dollari troppo alte (per un totale di 826 miliardi) per bilanciare il budget in condizioni di piena
occupazione. Invece di espandere lo stato, egli propone di tagliare più di un decimo delle spese
federali e di lasciare che le tasse assumano oscillazioni per stabilizzare la domanda.
Questo implica una riforma del welfare: propone di «rimuovere i trasferimenti mone-
tari in quanto barriere alla partecipazione al mercato del lavoro». Intende sia rimuovere
la verifica dei mezzi su ciò che resta dei trasferimenti sia smantellare «il considerevole
apparato per i trasferimenti». Finirebbe così l’aiuto federale ai disoccupati oltre le tredici
settimane di copertura. Con la stabilità economica a piena occupazione, non sarebbe ne-
cessario estendere oltre tale misura.
Invece, il governo manterrebbe un programma di garanzia dell’oc-
cupazione, garantendo un lavoro per chiunque altrimenti resterebbe IN TUTTA LA SUA CARRIERA
disoccupato. Ma questi lavori devono essere abbastanza bassi così MINSKY HA DESCRITTO
da limitare la parte inferiore della distribuzione dei salari di mercato. I MODI IN CUI LA FINANZA
Gli adulti percepirebbero una paga annuale pari a settemila dollari HA AGGIRATO OGNI
(17.700 dollari nel 2018), all’incirca il salario minimo del momento, REGOLAMENTAZIONE
per effettuare «servizi pubblici, miglioramenti ambientali, ecc.» non IMPEDENDO POLITICHE
meglio specificati. I giovani percepirebbero tremila dollari più vitto e MONETARIE RIGIDE
alloggio per lavorare nei parchi nazionali, o come staff nei bar delle
scuole e nelle biblioteche in cui studiano. La paga bassa è purtroppo
necessaria, sostiene Minsky, perché «i vincoli ai salari e al costo del lavoro sono la conse-
guenza dell’impegno a mantenere la piena occupazione». La disciplina del mercato del
lavoro si mantiene: la popolazione occupata potrebbe non temere la disoccupazione, ma
rimarrebbe sicuramente preoccupata dalla riduzione del salario minimo.

Se la disoccupazione aumenta poiché i salari del settore privato vengono aumentati per la pressione
del sindacato, allora aumenterà l’offerta di lavoratori per [il programma di granzia occupazionale] […]
Se il salario del […] programma di occupazione resta immobile, tuttavia, l’aumento dei salari del setto-
re privato ha più probabilità di essere annullato dalla competizione del mercato.

Nel 1975, Minsky aveva criticato il fatto che la teoria keynesiana del dopoguerra si ba-
sasse sul sovvenzionare i profitti e sul garantir loro un livello minimo – «il socialismo per
i ricchi» – e propose un’alternativa «in cui i settori chiave sono socializzati, in cui il con-
sumo comunitario soddisfa un’ampia proporzione di bisogni privati, e la tassazione delle
entrate e della ricchezza è destinata a ridurre l’ineguaglianza». Queste proposte non erano
solo positive in sé, ma aiutavano a far fronte al problema dell’instabilità del capitalismo,
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

che chiamava alla «riduzione della dipendenza del sistema dagli investimenti privati».
Il piano del 1986 va nella direzione opposta: la stabilità significa soltanto supportare la
profittabilità per sostenere il consumo privato. «Una volta ottenuta una struttura istitu-
zionale in cui gli incrementi esponenziali della piena occupazione sono vincolati anche
quando i profitti sono stabilizzati, allora i dettagli dell’economia possono essere lasciati
ai processi di mercato».
Questo è molto più Keynes che Lange.
Gli ideali di Minsky di un tempo sono ancora presenti nei principi generali della sua
teoria: Minsky fa ancora appello al «controllo pubblico, di una proprietà pubblica non
totale della produzione a capitale intensivo su larga scala».
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Ma quando questi principi generali si declinano in proposte dettagliate, queste si li-
mitano alle ferrovie e all’energia nucleare; altrove la politica della competizione e i limiti
sulle dimensioni dell’impresa sono sufficienti. Minsky lascia intendere che la finanza fa-
vorisce gli oligopoli perché il potere del mercato protegge i loro flussi di denaro dall’in-
stabilità macroeconomica. «Una volta che il Grande Governo abbia stabilizzato i profitti
complessivi, le ragioni del banchiere per il potere del mercato perdono la loro forza». La
soluzione per l’«impresa burocratica» è il finanziamento dell’«impresa innovatrice»
Tutto sommato, sembra che Minsky abbia chiaramente riconfezionato le sue idee
per l’era di Reagan. Da qualche altra parte continuò a parlare di «socialismo keynesia-
no», ma il suo significato era annacquato, e Minsky diventò più propenso a parlare di
«varietà del capitalismo». Con il crollo del blocco orientale, portò avanti le sue proposte
per la transizione cui diede inizio con una prospettiva decisamente Langiana – con pia-
nificatori che usavano i segnali di prezzo per gestire le imprese pubbliche – ma anche in
questo caso l’impressione è che avesse perso fiducia e i piani successivi finiscono con
la privatizzazione.
L’obiettivo principale del suo piano era la regolazione finanziaria. La grande ironia di
Stabilizing an Unstable Economy è che la brillantezza dell’analisi e degli studi storici di
Minsky nella maggior parte del suo libro compromette la fiducia del lettore nelle sue pro-
poste finali. Per la sua intera carriera Minsky ha scritto dei modi in cui la finanza alla fine
ha aggirato ogni autorità di regolamentazione che ostruiva il suo percorso e ha impedito
rigide politiche monetarie inventando nuovi modi di estendere la liquidità.
L’elemento centrale della sua proposta era una serie di controlli dello stato patrimonia-
le delle banche. Egli raccomanda un rapporto di adeguatezza patrimoniale – un rapporto
attivi e capitale proprio del 5% come norma, ma variabile a discrezione della banca cen-
trale «nel caso in cui il sistema bancario complessivo venga compromesso».
Non dobbiamo immaginare cosa sarebbe accaduto se il piano di Minsky fosse stato
messo in opera, perché non è poi così distante dai requisiti di adeguatezza del capitale
imposti sul sistema bancario negli Stati uniti e in giro per il mondo dopo gli Accordi di
Basilea del 1988. Il sistema bancario li aggirava, proprio come aveva fatto in passato con
i requisiti di liquidità – come raccontato da Minsky al dettaglio in Stabilizing an Unstable
Economy. Era più difficile gestire uno stato patrimoniale attorno ai requisiti di capitale di
quanto non lo fosse con i requisiti di liquidità. Ma quello non era un problema se le ban-
che potevano trasferire gli affari al di fuori dello stato patrimoniale.
Ora sappiamo esattamente quello che è emerso: i requisiti di capitale non hanno evi-
tato un’enorme crisi bancaria, ma le hanno dato la forma che poi avrebbe preso. Minsky,
lo storico finanziario, non ne sarebbe rimasto affatto sorpreso.

L’instabilità può essere stabilizzante


INVERNO 2018/19

«La stabilità è destabilizzante»: questo è lo slogan dell’«ipotesi dell’instabilità finan-


ziaria» di Minsky. L’economista intendeva dire che i periodi di tranquillità finanziaria e
macroeconomica alimentano la fiducia nel futuro che conduce alla sovra-espansione e
alla fragilità.
Ma politicamente parlando, è vero anche l’opposto: l’instabilità del capitalismo può
N. 1

essere stabilizzante.
Prevedere la prossima crisi non è una strategia per i socialisti perché il socialismo non
è semplicemente l’assenza del capitalismo. Non è come se il capitalismo fosse semplice-
mente un involucro che deve soltanto rompersi e svanire per rivelare un nuovo modo di
produzione già pronto. Il socialismo subentrerà solo quando le persone saranno convinte
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che sia una strada percorribile per organizzare la complessa divisione del lavoro da cui
dipende la vita moderna.
Anche le peggiori crisi finanziarie della storia non sono state fatali per le strutture eco-
nomiche capitalistiche o per qualsiasi cosa simile. Nelle recessioni profonde, molte per-
sone vengono espulse dal mercato del lavoro e gettate nella povertà o nell’insicurezza e
bloccate in questa situazione per lunghi periodi. Molte persone perdono i loro risparmi
di una vita, le loro case, e ancora più persone temono di perderli. L’instabilità finanziaria
minaccia i mezzi di sussistenza della classe lavoratrice, ma non minaccia il capitalismo
in sé, a meno che non alimenti risposte politiche credibili nella promessa di costruire
qualcosa di meglio.
E abbiamo visto di continuo che le crisi alimentano le risposte politiche tecnocrati-
che e reazionarie tanto quanto quelle della sinistra. Una crisi finanziaria rivela quanto
la sussistenza di ciascuno dipenda dalla fiducia degli investitori privati. Ripristinare la
fiducia attraverso il ripristino della profittabilità ovviamente sembra un percorso di mi-
nor resistenza politica rispetto a un piano per mettere fine alla nostra dipendenza dagli
investimenti privati.
Niente ha più probabilità di scoraggiare ulteriormente la fiducia negli affari di un pia-
no per socializzare gli investimenti in misura «relativamente estesa» o in altro modo.
Questa tesi è stata sostenuta soltanto da Oskar Lange, nell’articolo che ha fornito le
basi per quelle sue lezioni che hanno convertito Minsky all’economia tanto tempo fa:

Un sistema economico basato sull’impresa privata e sulla proprietà privata dei mezzi di produ-
zione può lavorare solo fino a quando sarà garantita la sicurezza della proprietà privata e delle entra-
te derivate dalla proprietà e dall’impresa […]. Se il governo socialista socializza le miniere di carbone
oggi e dichiara che l’industria tessile sarà socializzata tra cinque anni, possiamo essere abbastanza
certi che l’industria tessile sarà rovinata prima di essere socializzata [...]. Quindi, è difficile che una
programma complessivo di socializzazioni possa essere raggiunto per fasi progressive. […] Ogni esi-
tazione, ogni vacillamento e indecisione provoca l’invitabile catastrofe economica.

Questo è il gran paradosso della strategia socialista, che nessuno è riuscito ancora a
risolvere: i suoi programmi compromettono le basi per un sistema presente prima che si
possa costruire il sistema successivo. La vera debolezza che rende il capitalismo propenso
alla crisi gli conferisce un’eccellente difesa dagli attacchi politici.
Minsky ha ereditato dai socialisti di mercato e da Keynes un programma politico su tre
assi fondamentali: eguaglianza, ampliamento dei servizi pubblici e stabilità. Quando è
arrivato il momento critico negli anni Ottanta, si è trovato a sacrificare i primi due obiet-
tivi in virtù di un’attenzione esclusiva al terzo. Non fu un fallimento personale; Minsky
lesse sicuramente in modo corretto il vento della politica e ne concluse che non ci fosse
alcuna via percorribile per una «socializzazione relativamente estesa degli investimenti».
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA

Quando la crisi arriva, è troppo tardi.


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DC S Duco tem pro tatque orevivi ribuntemus es et; num dit, ut L.


Bereoru menihilin iu co ad pribus con Etra ma, nonfex nium
niustidees sis, det quo consu erteatus conte intrum estala eo,
fatus? P. Idicave, ublin perceniUt audernit. Decultorum es
audemuntiu viribus o mus ventes anum res At verissi senatus
viliciteatia confectur quo etoricavere aves vit? Bitante, ad
confent. Git, caelientiam in su me clum diescierit demus;
in terum nostra egitio int, mus, que publin horit, nortemni
propos facrum. Forternici imus ter lostrium isse factuspim
dum hos, quis. Grae, dic o Ximperis iam iae atam dum

Digitale:
24 euro
Duco tem pro tatque orevivi ribuntemus es et; num dit,
ut L. Bereoru menihilin iu co ad pribus con Etra ma,
nonfex nium niustidees sis, det quo consu erteatus conte
intrum estala eo, fatus? P. Idicave, ublin percdet quo
consu erteatus conte intrum estala eo, fatus? P. Idicave,
ublin perceniUt audernit. Decultorum es audemuntiu
viribus o mus ventes anum res At verissi senatus
viliciteatia confectur quo etoricavere aves vit? Bitante,
ad confent. Git, caelientiam in su me clum diescierit
demus; in terum nostra egitio int, meniUt audernit.
Decultorum es audemuntiu viribus o mus ventes anum
res At verissi senatus viliciteatia confectur quo etoricavere

Duco tem pro tatque


orevivi ribuntemus es et; num dit, ut
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con Etra ma, nonfex nium niustidees
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in su me clum diescierit demus;
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que publin horit, nortemni propos
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isse factuspim dum hos, quis. Grae,
dic o Ximperis iam iae atam dum
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aves vit? Bitante, ad confent. Git,
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num dit, ut L. Bereoru menihilin iu co ad pribus
con Etra ma, nonfex nium niustidees sis, det quo
consu erteatus conte intrum estala eo, fatus? P.
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mus, que publin horit, nortemni propos facrum.
Forternici imus ter lostrium isse factuspim dum hos,
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vasdam tatrae numOditrum arior in henis re omacto
iaedet intervium maioctuam intisque clem inte tat.
Ad a crion terius ad inc terobse mo es ficae mandam
effrestica ressilii suliniu vivatracitus prortam nos
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Duco tem pro tatque orevivi ribuntemus es et; num dit, ut L.
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propos facrum. Forternici imus ter lostrium isse factuspim

dum hos, quis. Grae, dic o Ximperis iam iae

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atam
Duco tem pro tatque orevivi ribuntemus es et; num dit,
ut L. Bereoru menihilin iu co ad pribus con Etra ma,
nonfex nium niustidees sis, det quo consu erteatus conte
intrum estala eo, fatus? P. Idicave, ublin percdet quo consu
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muntiu viribus o mus ventes anum res At verissi senatus
viliciteatia confectur quo etoricavere aves vit? Bitante, ad

Duco tem pro tatque


orevivi ribuntemus es et; num dit, ut
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su me clum diescierit demus; in terum nostra
egitio int, mus, que publin horit, nortemni propos
facrum. Forternici imus ter lostrium isse factuspim
dum hos, quis. Grae, dic o Ximperis iam iae atam
dum am in vasdam tatrae numOditrum arior in
henis re omacto iaedet intervium maioctuam
intisque clem inte tat. Ad a crion terius ad inc
terobse mo es ficae mandam effrestica ressilii
suliniu vivatracitus prortam nos horem diondactum
Duco tem pro tatque orevivi ribuntemus es et; num dit, ut L.
Bereoru menihilin iu co ad pribus con Etra ma, nonfex nium
niustidees sis, det quo consu erteatus conte intrum estala eo,
fatus? P. Idicave, ublin perceniUt audernit. Decultorum es
audemuntiu viribus o mus ventes anum res At verissi senatus
viliciteatia confectur quo etoricavere aves vit? Bitante, ad
confent. Git, caelientiam in su me clum diescierit demus;
in terum nostra egitio int, mus, que publin horit, nortemni
propos facrum. Forternici imus ter lostrium isse factuspim

dum hos, quis. Grae, dic o Ximperis iam iae

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atam
Duco tem pro tatque orevivi ribuntemus es et; num dit,
ut L. Bereoru menihilin iu co ad pribus con Etra ma,
nonfex nium niustidees sis, det quo consu erteatus conte
intrum estala eo, fatus? P. Idicave, ublin percdet quo consu
erteatus conte intrum estala eo, fatus? P. Idicave, ublin
perceniUt audernit. Decultorum es audemuntiu viribus
o mus ventes anum res At verissi senatus viliciteatia
confectur quo etoricavere aves vit? Bitante, ad confent.
Git, caelientiam in su me clum diescierit demus; in terum
nostra egitio int, meniUt audernit. Decultorum es aude-
muntiu viribus o mus ventes anum res At verissi senatus
viliciteatia confectur quo etoricavere aves vit? Bitante, ad

Duco tem pro tatque


orevivi ribuntemus es et; num dit, ut
L. Bereoru menihilin iu co ad pribus
con Etra ma, nonfex nium niustidees
sis, det quo consu erteatus conte
intrum estala eo, fatus? P. Idicave,
ublin perceniUt audernit. Decultorum
es audemuntiu viribus o mus ventes
anum res At verissi senatus viliciteatia
confectur quo etoricavere aves vit?
Bitante, ad confent. Git, caelientiam
in su me clum diescierit demus;
in terum nostra egitio int, mus,
que publin horit, nortemni propos
facrum. Forternici imus ter lostrium
isse factuspim dum hos, quis. Grae,
dic o Ximperis iam iae atam dum
aeatia confectur quo etoricavere
aves vit? Bitante, ad confent. Git,
caelientiam in su me clum diescierit
Duco tem pro tatque orevivi ribuntemus es et;
num dit, ut L. Bereoru menihilin iu co ad pribus
con Etra ma, nonfex nium niustidees sis, det quo
consu erteatus conte intrum estala eo, fatus? P.
Idicave, ublin perceniUt audernit. Decultorum
es audemuntiu viribus o mus ventes anum res At
verissi senatus viliciteatia confectur quo etoricavere
aves vit? Bitante, ad confent. Git, caelientiam in
su me clum diescierit demus; in terum nostra
egitio int, mus, que publin horit, nortemni propos
facrum. Forternici imus ter lostrium isse factuspim
dum hos, quis. Grae, dic o Ximperis iam iae atam
dum am in vasdam tatrae numOditrum arior in
henis re omacto iaedet intervium maioctuam
intisque clem inte tat. Ad a crion terius ad inc
terobse mo es ficae mandam effrestica ressilii
suliniu vivatracitus prortam nos horem diondactum

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Il romanzo sui vent’anni che sconvolsero il mondo.

VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA


WU MING

PROLETKULT

N° 1 / INVERNO 2018/2019

PROLETARI DI TUTTI I PIANETI,


UNITEVI!
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