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VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
Vivere
in un
paese
senza
sinistra
N° 1 / INVERNO 2018/2019
DA JACOBIN USA
Breaking
Bank.
Dieci anni
di crisi
12 euro
10
Editoriale
8
SOMMARIO
Avvenne passive
domani Come la tv colonizzò la rete
diventando lo specchio deforme
delle nostre vite tra redenzioni
show e finte trasgressioni
La crisi
18
Giuliano Santoro
dei trent’anni
Marta Fana
Il debito
28
Giacomo Gabbuti
italiano non
è un’anomalia
Marco Bertorello
Danilo Corradi
Alla ricerca
32
Salvatore Cannavò
Lorenzo Zamponi Qualcosa
di nuovo
sul fronte
Si scrive popolo, occidentale
51 43
si legge nazione
Giulio Calella
Francesco Strazzari intervista Bhaskar Sunkara
Perché Napoleone
54
62
66
cinese, salari buona per Beni comuni
alla polacca grigi contabili Gaia Benzi
Biologico
Francesca Coin Wolf Bukowski
Piero Maestri Girolamo De Michele
Cambiamento
Giulio Calella
Democrazia diretta
Giuliano Santoro
Senza Non è un paese
75
76
Mutualismo
Sinistra per fare figli Salvatore Cannavò
Precarietà
Giacomo Gabbuti Lorenzo Zamponi
86
business da turco
Sara R. Farris
Sabrina Marchetti Alberto Prunetti
Le nuove
92
emigrazioni
italiane
Simone Fana
Francesco Massimo
98
Fumetto
Raccogliere
Assia Petricelli
Sergio Riccardi
110
126
118
COPERTINA
Manfredi Ciminale Abbonamenti (4 numeri)
Digitale: 24 euro
Illustratori Digitale + cartaceo: 36 euro
Frita Sostenitore: da 50 euro
Luciop
Martoz Spedizioni in paesi Ue: 20 euro
Pronostico Spedizioni in paesi extra Ue: 35 euro
Sergio Riccardi
Info
Web Master www.jacobinitalia.it
Matteo Micalella info@jacobinitalia.it
I
t Happened Tomorrow è il titolo di un vecchio film hollywoodiano di-
retto dal regista francese René Clair. Venne distribuito in sala nel mag-
gio del 1944, mentre nel corso di eventi ben più tragici, su diversi fronti
della seconda guerra mondiale, si combatteva metro per metro e si
strappavano a morsi brandelli di futuro. In quegli stessi giorni le trup-
pe naziste battevano in ritirata da Montecassino e gli alleati si incam-
minavano verso Roma, coi partigiani a preparare il terreno. I deportati
sinti e rom lanciavano un’eroica quanto dimenticata insurrezione con-
tro le SS nel lager di Auschwitz. Sul fronte orientale l’Armata rossa liberava definitivamente
la Crimea. Eppure anche la storia di quel film dal titolo sbilenco, appeso a un verbo al pas-
sato e un avverbio futuro, a suo modo riaccendeva una piccola fiammella. Raccontava la
storia di un cronista precario che riceve da un anziano archivista la copia del giornale con
le notizie del giorno successivo.
È il sogno di ogni impresa editoriale, quello di raccontare anzitempo il futuro prossimo.
Questa rivista non coltiva ambizioni talmente magiche ma si getta in un’impresa altrettanto
ambiziosa. Nel tempo claustrofobico del passato rimosso e manipolato, del presente eterno
e inafferrabile, del futuro da incubo dobbiamo tornare a immaginare l’avvenire. Il poeta di-
ceva che «il futuro non è ancora scritto» e siccome non vogliamo metterci in fila e aspettare
che le prossime pagine del nostro destino siano una copia ancor più brutta del presente,
vogliamo scrivere capitoli inattesi e spiazzanti.
Assieme alla testa di Luigi XVI, i protagonisti della rivoluzione francese decisero di afferra-
re i tempi nuovi cestinando il calendario ereditato dal vecchio mondo. Il 1793 è spirato prima
del tempo, a settembre. Poi ha lasciato spazio all’anno II della nuova epoca rivoluzionaria.
La ghigliottina ha tracciato un solco, c’è stato un prima e un dopo della rivoluzione. La scelta
esprimeva l’utopia fondata sulla ragione al posto di superstizione e fatalismo, ma oggi que-
sta possibilità sembra distante. Il calendario alludeva alla possibilità di lasciarsi indietro il
fango e il sangue dell’oppressione. L’alleanza tra Lega e Movimento 5 Stelle si è accaparrata
una specie di monopolio simbolico sulla speranza e in fondo sull’idea stessa di futuro. È per
questo che, contro ogni evidenza, si dicono portatori del «cambiamento». Il loro governo
va in direzione opposta a quella che auspicheremmo, ma senza battere un tempo nuovo, lo
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crisi italiana dentro la più generale trasformazione della politica. Tutto questo quando ha
avuto inizio? Anche qui, parlare di tempi e cicli, significa affrontare più livelli. Per Giuliano
Santoro il decennio chiave, che ha saldato la rete alla televisione facendo dilagare l’egemo-
nia dello spettacolo che ha spianato la strada alle destre, sono gli Anni Zero. Per Marta Fana
e Giacomo Gabbuti, bisogna andare indietro di almeno trent’anni: il declino economico co-
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Illustrazioni di
Sconnessi (entrambi
una puntata della Ruota della Fortuna: esulta guardando i po- editi da Castelvecchi),
Guida alla Roma
Ribelle (Voland), Al
Palo della Morte
(Alegre Quinto Tipo).
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esplodendo, ci vorranno i grandi monopoli digitali e la messa al lavoro molecolare del 2.0
per risollevare le sorti dei profitti. Si aprono scenari comunicativi inediti e si intravedono
formulette politiche sincretistiche, fortunate e confusionarie. Da Venezia, in quel 18 set-
tembre, il fondatore della Lega Umberto Bossi svuota l’ampolle con le sacre acque del Po,
mette una pietra sopra allo scontro con Berlusconi e annuncia la nascita del Polo della
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dai tempi della scuola. «Lei si farà strada nella vita», dice a Taricone l’ex presidente del
consiglio Lamberto Dini dopo un comizio per le elezioni amministrative, alle quali il
nostro concorre nelle liste di Rinnovamento Italiano (88 voti, 6 annullati). Lui mette
in scena il suo corpo ma giocava con le parole, ipnotizzando e spiazzando un popo-
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Federico Fellini nel 1985 non aveva ancora visto Facebook ma aveva capito da che par-
te stava andando la neotelevisione e profetizzato il flusso superficiale dell’informazione
che si sovrappone al tempo della vita (la timeline) e le platee-ghetto delle bolle dei so-
cial network: «Lo stravolgimento di qualsiasi sintassi articolata ha come unico risultato
quello di creare una sterminata platea di analfabeti pronti a ridere, a esaltarsi, ad applau-
dire tutto quello che è veloce, privo di senso e ripetitivo». «È la cosa più orribile che ab-
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bia mai visto», è la sentenza che Marco Giusti ed Enrico Ghezzi campionano dal b-movie
«The Blob» per riprodurre in forma paradossale lo spezzatino della neotelevisione e la sua
tendenza a riprodurre i linguaggi della pubblicità. La cultura di destra è egemone, con
Furio Jesi diremmo che «possiede tutta la sua oscurità che è dichiarata chiarezza, tutta
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crisi
dei
Il declino italiano non comincia oggi,
né è tutta colpa dell’Ue: almeno dal 1992
le nostre classi dirigenti impongono
trenta
un modello basato su scarsi
investimenti e precarietà, che porta
solo deindustrializzazione e povertà
anni
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coli esterni cui è stata assoggettata dalla sua classe dirigente, ma in Economics, si
nemmeno ai cambiamenti resi necessari dalla transizione a un’e- occupa di mercato
conomia avanzata. Come notava Marcello De Cecco in un luci- del lavoro. Autrice
di Non è lavoro
è sfruttamento
(Laterza).
Giacomo Gabbuti
è dottorando di
storia economica
all’Università di Oxford.
19
Tra 2007 e 2016, nel più generale arretramento dei paesi avanzati e dell’area euro, l’Ita-
lia ha quasi dimezzato la sua quota della produzione industriale mondiale al netto del co-
sto dei fattori (capitale e lavoro) impiegati per realizzarla. Pur rimanendo seconda potenza
industriale europea, siamo quasi agganciati dalla Francia, producendo ancora solo l’87% di
dieci anni fa. Alla contrazione della manifattura corrisponde la crescita di servizi. Tra que-
sti, cresce anche la rendita pura e semplice: quella immobiliare, stando ai calcoli dell’eco-
nomista di Banca d’Italia Roberto Torrini, è più che raddoppiata in termini di valore aggiun-
to nazionale, dal 5% del 1980 al 13%. Nello stesso periodo, il peso dell’industria (costruzioni
incluse) è passato dal 28% (quota stabile tra il 1975 e il 1995) al 23% del
2013. Guardando alla sola manifattura, il valore aggiunto generato da
SENZA IMPRESA PUBBLICA questo settore tra il 1995 e il 2017 si riduce del 12%, nonostante in ter-
L’ECONOMIA ITALIANA mini assoluti aumenti di circa 2,5 miliardi. Un ruolo particolare, all’in-
RINUNCIA A OGNI terno del valore aggiunto, è dato da quella parte di produzione desti-
MODERNIZZAZIONE, nata al commercio con l’estero. Il quadro non è esaltante: dal 1995 le
RESTA ANCORATA esportazioni italiane continuano a crescere, ma molto più lentamen-
A SETTORI A BASSO te che nel resto dell’eurozona, tanto che veniamo scavalcati non solo
VALORE AGGIUNTO dalla Germania, ma anche da Grecia e Spagna. Proprio i servizi mo-
strano la dinamica più stagnante (alla faccia del turismo petrolio d’I-
talia!). Nello stesso periodo, la composizione delle nostre esportazioni
è rimasta sostanzialmente identica. Tessile e lavorati del settore agricolo pesano ancora per
INVERNO 2018/19
un quarto delle esportazioni; il doppio che in Germania, dove beni e apparecchiature elet-
troniche pesano il 10% (6% da noi) e il settore auto il 22% (10,6 in Italia).
Dagli anni Settanta è andato fortemente riducendosi il peso della grande industria, come
di quella pubblica, entrambe importanti fattori nello sviluppo economico italiano. Secondo
N. 1
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Rinunciando a qualsivoglia forma di politica industriale (se non quella dei sempiterni
sgravi fiscali alle imprese) e sottoscrivendo i vincoli europei, le classi dirigenti hanno pro-
vato a scaricare sul costo del lavoro il peso della competizione. Esemplari le campagne sul
«Perché investire in Italia» del Ministero dello Sviluppo Economico, che nel 2016 rivendi-
cava il costo del lavoro inferiore alla media europea («Un ingegnere in Italia guadagna in
media 38.500 euro, mentre nel resto d’Europa 48.500»!). Anche in questo campo, il 1992 è
uno spartiacque: l’Italia diventa laboratorio delle politiche neoliberiste nel mercato del la-
voro, ridotto a unico campo d’azione della politica economica. La nuova fase di ristruttura-
zione iniziata a metà anni Settanta, fatta di
esternalizzazione e decentramento produt- dalla lotta all’inflazione ma fu funzionale a rafforzare i pro-
tivo verso “la terza Italia” – quella delle regio- fitti privati, scaricando il peso della svalutazione sui reddi-
ni del Centro e del Nord-Est, dove in assenza ti da lavoro. Per il quarto di secolo successivo, al fantasma
della grande industria prosperano i distret- dell’inflazione si sostituì il mantra «più flessibilità più cre-
ti – si intensifica negli anni Novanta. L’ag- scita». La disoccupazione poteva essere ridotta, si disse, da
giustamento (basato su flessibilizzazione e contratti di lavoro flessibili (e ovviamente, salari inferiori).
compressione salariale) richiede una nuo- Inizia la riforma permanente che dal Pacchetto Treu (1997)
va cornice normativa. Gli accordi tra gover- arriva al Jobs Act di Matteo Renzi.
no, imprese e parti sociali tra il 1992 e il 1993 Tra il 1992 e il 2017, il tasso di occupazione aumenta di
sanciscono la fine degli adeguamenti auto- pochi punti percentuali (rimanendo tra i più bassi d’Euro-
matici dei salari e aprono alla contrattazione pa) grazie alla maggiore partecipazione femminile e alla sa-
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
decentrata, che alla luce dei rapporti di forza natoria dei lavoratori immigrati (2001). In entrambi i casi, si
spiana la strada a ulteriore compressione sa- tratta di lavoro sempre più precario. Il tasso di part-time ha
lariale. La deflazione salariale fu giustificata raggiunto il 32% dell’occupazione femminile (poco sopra la
media europea), ma la metà delle lavoratrici accetta il tem-
po parziale per via della mancanza di offerte a tempo pieno.
Nel campo del part time involontario, l’Italia vanta il prima-
to europeo (61%), con punte del 74% per i lavoratori tra i 15
e i 34 anni (era il 44% appena nel 2004). Se l’aumento toc-
ca tutta l’economia, la sua distribuzione è ancora asimme-
trica tra settori produttivi, passando dal 48,8% dei lavorato-
21
ta (anche grazie alla riduzione, dagli anni Settanta, delle imposte sui redditi elevati). Nella
ricchezza l’incremento è maggiore. I numeri elaborati da Paolo Acciari, Facundo Alvaredo e
Salvatore Morelli, e presentati al Forum Disuguaglianze Diversità, mostrano come dal 1995,
mentre la quota di ricchezza della metà più povera delle famiglie italiane si riduce dal 15 a
poco più del 5%, l’1% più ricco è passato da circa 15 a oltre il 25%. Dal 2008, le poche fami-
glie che compongono lo 0,1 e lo 0,01% più ricco hanno più che raddoppiato la loro ricchez-
N. 1
za. Sempre il World Income Database mostra come la ricchezza pesi in Italia più di 7 volte
il Pil, ben di più che negli Usa e in Francia, mentre i primi studi dell’economista Francesco
Bloise mostrano quanto questa contribuisce a rendere l’Italia un paese con bassissima mo-
bilità sociale. Di fronte a un’economia stagnante e a un mercato del lavoro infernale, la po-
sizione di chi ha si rafforza sempre di più rispetto a quella di chi ha bisogno di un salario per
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Non sai che fare, non sai dove andare, miagoli nel buio
tazioni grazie alla svalutazione non e l’uso delle autostrade e dei trasporti, ma anche di sanità, istru-
clientelare e improduttivo della spesa pub- zione... Certo, il ritardo accumulato rende difficile costru-
blica dei governi democristiani e socialisti. ire proposte credibili e all’altezza. Ma come suggerisce il
personaggio guzzantiano Quelo che ci ha guidato in questa
rassegna, tra le scorciatoie autoassolutorie e un’analisi rea-
listica dei rapporti di produzione nel nostro Paese, del ruo-
lo dell’Italia nel capitalismo europeo e globale, e del ruolo
dell’intervento pubblico nell’economia italiana, la risposta
per superare l’anomalia di un Paese senza sinistra è… la se-
conda che hai detto.
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15
Media nazionale lavoratori dipendenti
10
5
Manager
1986 1987 1989 1991 1993 1995 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012 2014 2016
-2
-4
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-6
-8
N. 1
-10
-12
30,2%
Valori % per distribuzio-
Centro ne geografica. Si considera-
no in povertà relativa le fa-
miglie con redditi al di sotto
del 60% del reddito media-
Nord no. Redditi equivalenti (sca-
la Ocse modificata), esclusi
quelli derivanti da patrimo-
nio finanziario.
Fonte: SHIW Banca d’Italia
1986 1987 1989 1991 1993 1995 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012 2014 2016
L’avanzo primario è
definito come differenza
tra entrate e spesa totale
del Paese, qui calcolato
in rapporto % al Pil. Per
la costruzione dei dati è
stato usato il Government
Finance Statistics Manual
del Fondo Monetario
Internazionale
(edizione 2001).
Stati uniti
Spagna Fonte: Fiscal Monitor (ottobre 2018)
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
Italia
Grecia
Germania
Francia
90
80
70
60
50
40
30
20
10
0
1996 2000 2004 2008
5 Fonte: rielaborazione
degli autori a partire da
64 A. Baffigi, Il Pil per la storia
d’Italia. Istruzioni per l’uso
(Marsilio, 2015)
0 62
Altro
Elettronica
Chimica
10
Siderurgia
Mineraria Nord Ovest
Vetro e ceramica
Incidenza per macro-area geografica
Alimentare dei lavoratori a tempo determinato sul totale
dei dipendenti dal 1993 al 2017.
Tessile Fonte: Istat
5
2012 2016 1993 1999 2005 2011 2017
1981
1971
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
1961
2milioni
1951
Unità locali
non è un’anomalia
Abbiamo davvero vissuto “al di sopra delle nostre
possibilità”? La narrazione dominante scarica la
responsabilità dei conti pubblici su di noi. Ma l’economia
del debito è il nuovo ciclo economico in cui viviamo
L’
ex ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, l’ultimo tedesco ad
aver spezzato le reni alla Grecia nel 2015, affermò in quei giorni
che sua nonna «diceva spesso che la bonarietà conduce alla
sregolatezza». L’etica del debito e i sensi di colpa introiettati dal
nipotino Wolfgang si rivelano più efficaci quando l’economia è
Marco Bertorello declinata su scala individuale e personale. Ma non sono i singoli
Danilo Corradi individui, è il sistema nel suo complesso, dunque prevalentemente
quelli che al suo interno stanno più in alto, ad aver vissuto al di
sopra delle proprie possibilità. Quando si parla di debito pubblico in Italia, prevale l’idea
che si sia formato a causa della corruzione e dello sperpero delle risorse pubbliche in
particolare negli anni Ottanta. Questa visione si salda spesso con
l’idea che il debito pubblico italiano sia un’anomalia rispetto
agli altri paesi europei, cosa che per i liberisti certificherebbe Marco Bertorello
il fatto che l’austerity sia la giusta ricetta per tornare a una collabora con il
gestione equilibrata dei conti pubblici. Altri argomenti presenti manifesto ed è autore
invece tra i critici dell’economia liberista legano l’aumento del di volumi e saggi su
debito semplicemente alla progressiva perdita della sovranità economia, moneta e
INVERNO 2018/19
a contratto presso
l’Università di Tor
Vergata.
Insieme hanno scritto
tra l’altro Capitalismo
tossico (Alegre).
28
rendita finanziaria. Già nel 1985 l’economista Augusto Graziani sottolineava come, «con
l’immissione di liquidità derivante dal disavanzo dello Stato le imprese realizzano profit-
ti tali per cui non hanno più alcun bisogno di ricorrere al mercato finanziario». Il debito
29
1861 1867 1873 1879 1885 1891 1897 1903 1909 1915
30
Il punto quindi è non banalizzare il debito e comprendere come anche i suoi elemen-
ti disciplinanti (ossia i dispositivi di governo) siano subordinati alle necessità dei meccani-
smi di nuova accumulazione. L’economia contemporanea non riesce a dar vita a processi di
valorizzazione paragonabili al ciclo espansivo precedente e utilizza il debito per drogare la
crescita, come dato portante e non accessorio di un ciclo quarantennale di accumulazione.
La decisione della Banca centrale degli Usa, a partire dal 1979, di imprimere un netto
aumento dei tassi d’interesse segnò l’inizio di questa parabola. Il divorzio tra la Banca d’I-
talia e il Tesoro del 1981, che favorì la progressiva fine del finanziamento del deficit facen-
do ricorso agli acquisti di titoli di Stato da parte della banca centrale, fu l’effetto dell’alli-
neamento alle politiche monetarie restrittive che gli Usa imposero su un piano globale.
Non a caso l’aumento del debito pubblico, e del suo costo, ha iniziato ad affermarsi anche
in quei paesi dove tale divorzio è avvenuto molto più tardi. Parallelamente il debito risulta
centrale anche dove la sovranità monetaria appare in capo alla propria banca nazionale.
Il protagonismo delle banche centrali è tornato sotto altre vesti, cioè con politiche mone-
tarie ultra-espansive, in concomitanza con l’affacciarsi dei primi affanni della finanza. Il
volume dei bilanci delle banche centrali, infatti, è aumentato di 10 volte dal 1995 al 2015.
Se le ragioni dell’uso del debito sono così profonde, per sovvertirne la logica di classe è
necessario immaginare trasformazioni altrettanto profonde. Siamo sicuri che il semplice
ritorno a una spesa pubblica che ripropone la vecchia crescita sia davvero la soluzione?
50
25
5 1921 1927 1933 1939 1945 1951 1957 1963 1969 1975 1981 1987 1993 1999 2005 2011 2017
31
DEI CONFLITTI
INASPETTATI
Come si fa opposizione sociale
a un governo populista?
Sono in crisi le forme tradizionali
ma il paese senza sinistra
non è pacificato.
E il movimento delle donne
rilancia in forma inedita una
vecchia conoscenza: lo sciopero
«I
nsomma, c’erano anche da noi tutte le cause della Rivoluzione
francese. Solo che non eravamo in Francia, e la Rivoluzione non
ci fu. Viviamo in un paese dove si verificano sempre le cause e non
gli effetti». Questo passaggio fulminante di Italo Calvino, ne Il Ba-
rone rampante, è stato spesso tirato in ballo per descrivere l’Italia
Salvatore Cannavò degli ultimi anni, apparentemente incapace di produrre le mobi-
Lorenzo Zamponi litazioni di massa che invece abbiamo visto riempire le piazze di
Madrid, Atene o Parigi.
Eppure l’idea di un paese pacificato e addormentato è contraddetta non solo dalla ri-
cerca sociologica, che segnala nel decennio della crisi un numero di episodi di protesta
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pari se non superiore a quello di altri paesi, ma anche dalla quotidianità politica: il voto
del 4 marzo mostra una rabbia anti-sistema e un desiderio di cambiamento innegabili,
contraddicendo l’apparente calma piatta. A
essere in crisi, più che il bisogno di parteci-
pazione, sembrano le forme tradizionali del Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto
conflitto sociale e il loro rapporto con la rap-
N. 1
«Oggi indosso una maglietta di un posto vicino a Milano, dove gli operai della Rimaflow
hanno provato a reinventarsi il lavoro. Quando l’azienda ha chiuso, ne ha lasciati a casa
trecento. Sono venuti da noi preti e ci hanno detto: non possiamo venire tutti da voi a
chiedere di darci una mano per arrivare a fine mese, dobbiamo inventarcelo il lavoro. E
allora la politica seria, là dove si tenta di inventarselo il lavoro, ci deve essere, ci deve stare,
deve accompagnarli quei progetti». In queste parole pronunciate il 30 settembre 2018 da
un prete di strada, don Massimo Mapelli, della Caritas di Milano sul palco della manife-
stazione nazionale del Partito democratico c’è tutta la sintesi di una fase storica. Un par-
tito che si è fatto governo per più di vent’anni e per questo è stato travolto dalle urne il 4
marzo 2018. Un tema, il lavoro, scomparso dalla sua agenda politica. Una necessità, rein-
ventarsi un’attività al tempo della globalizzazione e delle delocaliz-
zazioni, perché la ex Maflow che produceva componenti per auto a
ALLA MANCANZA Trezzano sul Naviglio, in Lombardia, se ne è andata nel 2009 in Polo-
DI SBOCCHI ISTITUZIONALI nia lasciando i lavoratori in mezzo alla strada. E c’è la Chiesa, trami-
NON CORRISPONDE te la Caritas diocesana, che mai come nell’ultimo decennio ha svol-
PER FORZA MAGGIORE to un ruolo sociale, di supporto e riferimento anche alle lotte sociali,
VIVACITÀ DI PIAZZA. essendosi spezzato un rapporto storico tra movimenti sociali e poli-
AL CONTRARIO, SI RISCHIA tica. La Caritas che parla, in forma quasi surreale, alla manifestazio-
LA SPOLITICIZZAZIONE ne a cui partecipano figure come Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, ex
presidenti del consiglio, citando temi sociali di frontiera e alluden-
do a una cesura che costituisce uno dei nodi del paese senza sinistra.
Maurizio Landini, una vita in prima fila nella Fiom e ora possibile segretario della Cgil, in-
vita ad adoperare uno sguardo più ampio. «Non credo che le persone che vivono di lavoro si
sentano rassegnate o demoralizzate. Questi sono sentimenti più propri dei militanti politici
e degli intellettuali, che hanno tutti i motivi per esserlo, guardandosi intorno e pensando alla
deriva politico-culturale che sta attraversando quelle che un tempo si chiamavano demo-
crazie occidentali e che oggi sembrano avvolte da pericolose spirali nazionaliste e xenofo-
be». I lavoratori sono soprattutto “preoccupati” se non impauriti. Prevalgono l’impotenza e
la solitudine. E va in crisi la politica: «Dagli anni Ottanta l’economia e le sue istituzioni inter-
nazionali hanno contato sempre di più mentre la politica e le sue istituzioni nazionali han-
no dovuto adeguarsi ai vincoli sempre più stretti delle leggi di mercato». «In questo passag-
gio, la sinistra ha preparato la propria crisi».
Difficile dunque, per Landini, dare al termi-
ne sinistra «un significato preciso, almeno
nel nostro paese» anche perché se sinistra
«è chi cancella l’articolo 18…».
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tradita dalla politica. Non dare seguito alla d’altra parte, si fa illusioni su scorciatoie rispetto a un lun-
volontà di 27 milioni di cittadini/e, ignorare go lavoro sociale.
le sentenze della Corte Costituzionale sulla «La scomparsa di una rappresentanza politica del la-
voro non libera le energie delle persone, semmai le lascia
più sole» dice Landini. Per ricostruirla, però, «non servono
operazioni di assemblaggio di ciò che già esiste in forme
frantumate, né si produce a tavolino». Bisogna relazionar
relazionar-
si alle persone in carne e ossa. Un lavoro di ricomposizio
ricomposizio-
ne che si gioca sul terreno sociale, provando a tenere in in-
sieme «il giovane precario, la partita Iva col lavoratore a
35
voluto incontrare, appena insediato, è sta- ve a poco se non diventa pratica capillare nei territori. La
ta quella di Riders Union Bologna, uno dei sfida è quella». Generalizzare la lotta per non essere co-
collettivi di ciclofattorini (i ragazzi e le ra- optati, dicono i rider, per non essere assorbiti nella narra-
zione grillina. Sullo stesso piano gli archeologi, antropo-
logi, archivisti, bibliotecari della campagna Mi riconosci?
Sono un professionista dei beni culturali, scesi in piaz-
za il 6 ottobre a Roma col mondo della cultura, dell’arte
e dello spettacolo: «Primo obiettivo – spiega l’archeologo
Andrea Incorvaia – è la fine del lavoro gratuito. Sfidiamo
il governo a realizzare il cambiamento che promette». A
37
“razza” e classe come terreno innovativo e riunificante; l’idea dell’agire collettivo, la ne-
cessità di ricostruire una visione del mondo. La strada che i movimenti sociali, sindacali
e associativi devono percorrere per uscire dalla palude di un “paese senza sinistra” è lun-
ga, ma l’Italia del 2018 è tutt’altro che un paese pacificato e ipnotizzato dagli stregoni del
consenso al governo.
N. 1
38
EXTRA
da non imitare
L’Italia è un laboratorio che ha anticipato fenomeni di
trasformazione politica che vediamo in tutto l’Occidente.
Per superare la palude c’è bisogno di oltrepassare la
controrivoluzione culturale iniziata negli anni Novanta
L’
Italia sarebbe sempre stata così. Un paese dove la disfunzionalità
dello stato alimenta una diffusa cultura fascistoide. Un paese dove
la demagogia, fin ai tempi di Cesare, ha sempre ingannato le mas-
se, gli “analfabeti funzionali”.
Idee del genere riflettono un senso comune sempre più visibile
nei ranghi del centrosinistra italiano. La stessa nozione di progres-
David Broder so sociale cede a un pessimismo culturale secondo cui il nemico
sono gli italiani stessi: “loro”, la destra, sono l’Italia.
Ma può darsi che la parola d’ordine “più Europa” non sia la soluzione di ogni male. E
pensando all’estrema destra in Germania (dove l’Alternative für Deutschland ha sorpas-
sato il partito di centrosinistra più vecchio al mondo, l’Spd) o alla famosa Svezia social-
democratica (dove un partito di matrice neonazista ha preso
il 17,5% nel voto del 9 settembre), si potrebbe dubitare che il
problema risieda nell’humus culturale italiano. David Broder è uno
Nel contesto attuale l’Italia più che un caso a parte è un pre- storico e traduttore
cursore dei disastri che si diffondono pressoché ovunque. Il disa- inglese. È il redattore
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
gio italiano incarna un processo generale e di lunga durata, che europeo di Jacobin
non è riconducibile a difetti specificamente italiani né solo agli Usa.
effetti della crisi del 2008.
39
Questo paese senza sinistra può sembrare un’anomalia. Ma in tutto l’Occidente si pro-
fila una profonda trasformazione politica. La crisi dell’organizzazione e dell’identità di
classe è accompagnata da un senso sempre più invasivo di atomizzazione, di decadenza
culturale e di crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni. Sì, quelle italiane fanno
schifo. Ma riflettono anche uno specifico contesto storico e dei rapporti di forza nuovi.
L’Italia ha anticipato lo sbandamento generale perché aveva vissuto il crollo delle
forme politiche tradizionali già nei primi anni Novanta. Lo scioglimento del più grande
partito comunista dell’Occidente nel 1991 e poi quello della Democrazia Cristiana, la
discesa in campo di Silvio Berlusconi e la difficile integrazione europea hanno prepara-
to le condizioni per la crisi odierna.
Da allora gli italiani hanno visto l’ascesa di una serie di effimere forze politiche che
hanno sfruttato e accelerato il venir meno dei partiti di massa. Dal marketing di Berlu-
sconi all’utilizzo dei referendum online, la vita politica ha sempre più una partecipazio-
ne “estetica” mentre è sostanzialmente eterodiretta dall’alto, o nel caso del Movimento
5 Stelle da un’azienda privata. Ormai sono i leader a proclamarsi interpreti della volontà
popolare, rottamando non solo l’establishment ma le stesse strutture democratiche.
Allo stesso tempo, si indeboliscono le altre forme di partecipazione politica; non solo
le sezioni di partito o le ormai-dimenticate “scuole politiche” ma anche i sindacati e le
cooperative. Non è un caso che il 53% degli iscritti del sindacato più grande italiano, la
Cgil, sia costituito da pensionati.
Ma se l’Italia è un esempio estremo o precoce, non è un caso a parte. Anzi è proprio
il ruolo internazionale dell’Italia, alla periferia dei paesi centrali, che le fa riflettere come
uno specchio le contraddizioni più generali. E non è la prima volta nella storia che accade.
Al limite dell’Occidente durante la guerra fredda, la politica interna della Repubblica
nata nel 1946 rimaneva fortemente inquadrata dalla logica del conflitto. La conventio ad
excludendum anti-comunista alimentava l’egemonia democristiana e minava le aspira- aspira
zioni del Pci di staccarsi da Mosca. Ma allo stesso tempo la situazione bloccata riman riman-
dava all’avvenire le contraddizioni tre le diverse anime di questo partito.
Nel 1991 fu il crollo dell’Urss a far esplodere le contraddizioni del Pci e di quella
Repubblica, dando luogo alla cosiddetta Seconda Repubblica basata sul nuovo ordine
europeo. Oggi, la fine dell’età d’oro dell’Unione europea fa sì che anche i contenitori po po-
litici italiani degli anni Novanta e Duemila si esauriscano, trovandosi in una crisi simile
a quella dei vecchi partiti alla fine della guerra fredda.
INVERNO 2018/19
N. 1
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La struttura dei partiti di sinistra (e non solo quelli più grandi) del Novecento espri-
meva e riproduceva un mondo oramai capovolto: una pedagogia paternalistica, una di-
sciplina gerarchica e forme di inquadramento radicate in una forte divisione del lavoro
tra leader-intellettuali e base. Ma allo stesso tempo ha creato fitte reti di partecipazione,
di ascesa sociale e di acculturamento di massa. Questi partiti promettevano (e rimaneva
una promessa) un futuro di benessere già preparato nelle vittorie parziali del presente.
Ma dentro questo involucro c’erano anche i germi di futuri disastri. Dagli anni Settanta
in poi il declino del movimento sindacale, la distruzione del comunismo di stato, e l’in-
debolimento dei controlli sul capitale nell’epoca della globalizzazione, hanno distrutto i
legami tra sinistra, organizzazioni di massa e l’idea stessa della possibile riorganizzazio-
ne della società su altre basi. Si è ristretta non solo l’ambizione della
maggior parte degli ex-leader comunisti diventati socialdemocratici
o liberali ma spesso anche quella di una sinistra radicale sempre più IL FALLIMENTO
frammentata e minoritaria. DELL’OPPOSIZIONE
Allo stesso tempo, “esempi” stranieri come quello del partito AL POPULISMO
New Labour inglese hanno assunto una forma anche più violenta È UNA LEZIONE: NON SI
quando sono stati calati nel contesto italiano. Se il leader laburista COMBATTONO I NUOVI
Tony Blair rivendicava la “modernizzazione” del suo partito (la cre- MOSTRI DIFENDENDO
scita della spesa pubblica, ma anche politiche del lavoro basate sul- LO STATUS QUO
la concorrenza, la deregolamentazione dei centri finanziari, l’intro-
duzione di dispositivi sempre più punitivi nel sistema del welfare)
il centrosinistra italiano ha fatto tutto questo tranne che aumentare la spesa pubblica.
La lunga stagnazione italiana abbinata alla distruzione voluta dell’identità operaia
e comunista ha prodotto il partito di “centrosinistra” più elitario e destrorso d’Europa.
Se l’ex segretario del Pd Matteo Renzi o l’ex-ministro dell’economia Carlo Calenda si
immaginano come l’equivalente italiano del presidente francese Emmanuel Macron,
il Pd stesso è stato il precursore del centrismo europeista ormai proclamato dal prés-
ident eletto nel 2017 nonché dalla destra del partito laburista inglese, abbandonando
ogni volontà di difendere gli interessi di chi guadagna cinque euro l’ora per arroccarsi
sulle posizioni dei più “responsabili” e pro austerity.
Debolezza
Gli applausi ai funerali per le vittime del crollo del ponte Morandi di Genova, il bagno
di folla per Salvini a Viterbo, i paesini del Sud dove quelli che una volta erano definiti
“terroni” adesso votano Lega… Ogni notizia, ogni sondaggio nelle ultime settimane di di-
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
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Il troll dell’avvenir
In altri parti del continente vediamo processi simili, soprattutto il crollo dei partiti sto-
rici e l’ascesa di nuove forze oscure. Ma queste tendenze non si sono consumate ovunque
nello stesso modo. In Inghilterra, in Francia, in Spagna, e non solo, ci sono nuovi movi-
menti che organizzano centinaia di migliaia di persone per combattere il clima reaziona-
rio che si sviluppa anche in questi paesi.
Queste esperienze hanno molti limiti; in tutti questi casi, la centralità del leader ri-
flette la debolezza di altre forme di lotta. E non esistono modelli da imitare ciecamente.
Chi si proclama versione italiana del segretario laburista Jeremy Corbyn o del movimen-
to Podemos in Spagna dimostra non solo incomprensione ma anche subalternità cul-
turale. Anzi vanno riconnesse le tradizioni storiche e le realtà di questo paese, ricono-
scendo i suoi orrori ma anche le piccole scintille di speranza, di solidarietà, di orgoglio.
La storia è un troll: non obbedisce mai a schemi prefissati, non c’è nessuna condanna
senza appello. Le cose che consideriamo eterne o naturali si rivelano sempre effimere. La
INVERNO 2018/19
crisi che subiamo, l’assenza di solidarietà e il cinismo di un paese dove le cose non fun-
zionano, possono sembrare insuperabili. Chi può dire che l’egemonia leghista non durerà
dieci anni, un ventennio? Ma un bel giorno, finirà. Non sarà il “sol dell’avvenire” a portarci
il riscatto, ma i nostri stessi sforzi, le nostre stesse lotte, le nostre stesse idee.
N. 1
42
EXTRA
si legge nazione
Il modello della democrazia sovrana nasce in Russia,
sotto le macerie del collasso sovietico. Un mix di
nazionalismo, pensiero reazionario, neoliberalismo.
Dove chi dissente è un traditore della patria
M
a in fin dei conti a chi interessava davvero cosa pensassero i russi,
fra le macerie ancora fumanti dell’implosione sovietica? Il vincito-
re nutre poca curiosità per il perdente: fra i cantori della “fine della
Storia” e gli accigliati ammonitori dell’eterno ritorno della geopo-
litica, le idee che hanno catturato l’immaginario delle élite russe
sono state a lungo considerate irrilevanti.
Francesco Strazzari E così, in un mondo umiliato e con le spalle al muro, l’idea di
“democrazia sovrana” – che nel 2006 venne tirata fuori dal cap-
pello dell’ideologo del Cremlino Vladislav Surkov, già a capo delle comunicazioni del
magnate Mikhail Khodorkovski, poi imprigionato – apparve agli osservatori esterni
come poco più che l’ennesima operazione di propaganda dal
fiato corto: la gestione mediatica di un regime politico ormai
in piena involuzione. La fama di Surkov come grande burat- Francesco Strazzari è
tinaio dell’era Putin, frequentatore dell’intellighenzia, della professore associato di
filosofia occidentale e della rap music, autore sotto pseudo- Relazioni internazionali
nimo di un romanzo autobiografico sull’amoralità del potere, alla Scuola Superiore
nonché autoproclamato direttore artistico di ideologie prêt- Sant’Anna di Pisa,
à-porter, si proiettò sul suo artefatto concettuale, la demo- Senior Researcher
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
crazia sovrana: l’idea che non esista sistema democratico che al Consortium for
non sia managed, che non esista stato fuori dal governo che Research on Terrorism
lo gestisce, e che la libertà non gestita si riveli veleno per il and International Crime
popolo e per lo stato. Eppure, la performance politica di que- del Norwegian Institute
sto stretto collaboratore di Putin (poi approdato al ruolo di of International Affairs
“architetto del Donbass” separatista) rivela molto di come la di Oslo. Con Marina
Russia sovranista, la “democrazia gestita” dove acquistano Calculli ha scritto
visibilità i rosso-bruni, abbia perseguito una propria distinta Terrore Sovrano,
collocazione nella modernità, con un programma certamente Stato e Jihad nell’era
alternativo a quello dell’Unione europea. postliberale (il Mulino).
43
Il sovranismo putiniano non pensa in termini di diritti dei cittadini – pietra d’ango-
lo del pensiero liberal-democratico – ma piuttosto di «bisogni della popolazione». A
seconda del contesto il termine (proto-)slavo narod esprime sia il concetto di popolo
che quello di nazione (e, all’occasione, anche gente, folla, ceto contadino e così via). La
stessa idea di nazione arriva alle lande dell’Europa orientale come prodotto esportato
N. 1
dalla Francia rivoluzionaria ma filtrato dal romanticismo tedesco, che profetizza il «ri-
sveglio degli slavi». Su questa eco profonda e ambigua, prende corpo nella Russia con-
temporanea una narrazione di ritorno all’ordine dopo il caos tutta centrata su stabilità
e sicurezza necessarie per il popolo/nazione. Si tratta di una tradizione inventata, co-
munque fondata su una memoria selettiva. Come che sia, riguarda la fine dell’abbrac-
44
stabilità: piuttosto, «si tratta dell’insieme della modernità in senso reazionario, identitario, religio-
di proiezioni ideologiche, politiche prote- samente legittimato, colmo di contraddizioni e amnesie,
zioniste e statalismo che lavorano, dentro perimetrato da barriere. Sorprende di più come il mondo
della comunicazione nutra questo schema, e sorprendo-
no le esitazioni della sinistra nell’organizzare una risposta
chiara, ampia e partecipata. In un romanzo pubblicato
sotto pseudonimo, Surkov scrive di guerra non lineare del
futuro: lo scopo non è vincere contro il nemico, ma gestire
il processo bellico per destabilizzare la percezione pubbli-
ca, «confondendo le piste, oscurando la verità».
45
A
veva solo 21 anni nel 2010 quando ha pensato di fondare la ri-
vista Jacobin, coinvolgendo molti coetanei nell’ambizione di fare
una rivista marxista ma non propagandistica, accurata ma non
accademica, in grado di apparire innovativa senza rimuovere il
passato, con un linguaggio capace di dialogare anche con l’imma-
Giulio Calella
intervista ginario pop e arrivare a più persone possibile.
Bhaskar Sunkara In questi otto anni c’è stata l’esplosione del movimento Occupy
Wall street nel 2011, poi la coinvolgente seppur sconfitta campa-
gna elettorale presidenziale per le primarie del Partito democratico di Bernie Sanders
nel 2016 e infine l’elezione di Donald Trump: tutti fenomeni che in modi differenti tra
loro hanno inciso non poco nella possibilità di far circolare idee socialiste nella patria
del capitalismo.
In Italia oggi, quando si parla di idee provenienti da oltreoceano, si cita spesso Steve
Bannon, ex stratega di Trump, venuto nel nostro paese negli ultimi mesi per spiegarci
come l’Italia del governo gialloverde sia un laboratorio di politiche sovraniste per tut-
ta l’Europa, un modello per costruire un «partito del popolo» contro il «partito dell’e-
stablishment». Ma dagli Stati uniti, dal paese che da queste latitudini abbiamo sempre
INVERNO 2018/19
generale di Edizioni
del 2018. Bhaskar Sunkara oggi è direttore ed editore di una Alegre.
rivista che è arrivata a contare circa 40mila abbonati, che ha Bhaskar Sunkara
settanta gruppi di lettura in tutto il paese capaci di incanala- è editore, direttore
re nuove energie militanti e più di un milione di contatti unici e fondatore di Jacobin
mensili da tutto il mondo sul sito jacobinmag.com. Usa.
46
forma partito e l’organizzazione sindaca- sociale di cui parlavo prima. Siamo cresciuti molto in
le, in un’estrema sinistra egemonizzata in questi anni come diffusione, ma abbiamo una porzione
modo crescente dal pensiero anarchico e sovradimensionata di lettori con istruzione universita-
ria mentre siamo ancora un po’ distanti dagli ambienti
working class. Direi che il lettore medio di Jacobin ha
23-24 anni e frequenta il college. Ci sono poi molti figli
di professionisti di classe media ormai declassati, e pur
avendo tra i lettori di Jacobin molti attivisti sindacali tra
loro ci sono soprattutto insegnanti e infermieri (la par-
te più istruita della working class). Le caratteristiche dei
47
Qual è la situazione della nuova sinistra socialista Usa e che rapporto c’è tra sinistra
politica e movimenti sociali in una società che non ha conosciuto importanti partiti
socialdemocratici, tanto meno comunisti, e sindacati di classe come in Europa?
Dobbiamo distinguere alcune cose, parzialmente diverse tra loro. Una cosa è l’ampia
mobilitazione a sostegno di Bernie Sanders che ha attirato molto e continua a galva-
nizzare grazie alle sue assemblee e comizi nelle città; poi ci sono le persone che si sono
entusiasmate con i nuovi candidati alle primarie del Partito democratico che si auto-de-
finiscono socialisti come Alexandria Ocasio-Cortez; e infine c’è quel che si muove all’e-
strema sinistra.
La mobilitazione più ampia si riattiverà con la campagna a favore di Sanders per le
presidenziali del 2020, che ha molte potenzialità di far crescere la sinistra in generale e
di produrre attivismo tra le persone. Poi c’è l’estrema sinistra, per lo più organizzata nei
Democratic Socialists of America (Dsa). Quando, nel 2007, ho aderito a Dsa c’erano non
più di cinquemila membri attivi. Oggi sono più di cinquantamila. Quindi c’è stata una
crescita enorme. È uno spazio ampio, con orientamenti politici non sempre definiti e
difficoltà nel costruire un quadro e delle azioni coerenti, ma sta avendo comunque una
crescita incredibile.
OCCUPY WALL STREET In questo momento negli Stati uniti a mio avviso non ci sono dei
E LA CAMPAGNA veri e propri movimenti sociali, almeno per la definizione che ne do io.
PER SANDERS HANNO Black Lives Matter si è oggi in larga parte esaurito o si è spostato in una
APERTO UN VARCO direzione egemonizzata dalle Ong. Il movimento femminista del #Me-
PER L’ESTREMA SINISTRA Too è importante e ha consentito a molte donne di ribellarsi a molestie
NEL PAESE DI TRUMP e discriminazioni di genere, ma la mobilitazione è stata in larga parte
mediatica. Vedremo se si riusciranno ad avere un maggior numero di
azioni di lavoratrici intorno alle rivendicazioni del #MeToo, ma per ora
non sono sicuro che sia un movimento sociale paragonabile a quelli che avete avuto in
Europa o che esistono oggi in paesi come Brasile o India.
Ha avuto una certa eco anche da noi in Italia la vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez
nelle primarie nel Quattordicesimo collegio di New York del Partito democratico per
le elezioni di Midterm. Una ragazza di 28 anni, Latina, di famiglia working class e fre-
sca di laurea in economia che sconfigge un boss del Partito democratico newyorkese
come Joe Crowley, con il solo sostegno di un piccolo gruppo di militanti di ispirazione
socialista. Hai più volte detto di guardare a queste candidature nel Partito democrati-
INVERNO 2018/19
co come uno strumento non per conquistare il partito ma per veicolare idee socialiste
nel paese. Non c’è però un rischio di illudersi di poter cambiare dall’interno il Partito
democratico? E in che modo si può non delegare, come più volte è stato fatto in Italia,
la costruzione dell’alternativa al solo strumento elettorale?
N. 1
48
nero?
strappano i valori
dell’illuminismo
dalle mani
degli ipocriti,
possono farne un
progetto radicale
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
di emancipazione
umana
51
Reason in revolt
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Napoleone
era NERO
La storia della testata
di Jacobin è la storia
di uno Spartaco haitiano,
di un’armata di schiavi
che fa la rivoluzione.
Risulta più attuale che mai,
per tante ragioni.
Capitalisti e razzisti
ancora non si sentono
tranquilli perchè sanno che
gira per il mondo
Toussaint L’Overture
29/10/18 23:32
ompie ottant’anni The Black Jacobins di C.L.R. James, saggio
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storico tra i più influenti del XX secolo, benché la sua influen-
za continui a suscitare imbarazzo, a essere rimossa o sminu-
ita. È ancora incandescente la vicenda ricostruita – la rivolu-
zione haitiana guidata dall’ex-schiavo Toussaint L’Ouverture
– ed è ancora drastica la riconsiderazione della tradizione
rivoluzionaria che, fin dal titolo, il libro esorta a intraprendere.
Wu Ming 1
Ispirato nella struttura e nello stile alla Storia della Rivoluzione
russa di Trotsky, e scritto tendendo l’orecchio alle proteste inter-
nazionali contro l’invasione italiana dell’Etiopia, The Black Jacobins fu pubblicato nel
1938. L’anno che segna l’inizio della sconfitta dei repubblicani spagnoli, che James cita
nella prefazione; l’anno del famigerato Accordo di Monaco, col quale le principali de-
mocrazie borghesi d’Europa – Francia e Regno Unito – aprirono la strada al proget-
to imperialista di Hitler; l’anno della “Notte dei cristalli”, i cui clangori sembrano già
echeggiare nel libro. La seconda guerra mondiale era ormai dietro l’angolo.
Proprio nel Regno Unito, C.L.R. James – nero delle cosiddette «Indie occidentali»,
militante marxista, scrittore e drammaturgo – osava alcune «considerazioni inattua-
li», e potenzialmente oltraggiose: una su tutte, che senza la rivolta di massa degli
schiavi di Haiti, scoppiata nel 1791, la Rivoluzione francese non sarebbe stata la
Révolution che tutti conosciamo. Non contento, aggiungeva che Toussaint L’Ou-
verture, spinto verso l’alto da contraddizioni immani e dall’urto di tumultuose
forze sociali, fu uno dei più grandi uomini del suo tempo, pari solo al suo nemico
Napoleone. Un Napoleone negro!?
Quello che James stava dicendo – ora in forma allegorica, ora esplicitamen-
te – era: non può darsi alcuna vera rivoluzione in occidente senza rivoluzioni
nelle colonie.
Nel 1938, mentre gli sguardi convergevano su Hitler, sembrava una prospet-
tiva remota, un tema non all’ordine del giorno, e per una manciata d’anni la
guerra sembrò spingerlo ancora più ai margini di ogni discorso.
In realtà, mettendo a dura prova i centri dei più grandi imperi coloniali,
(quello britannico e quello francese) e al tempo stesso mobilitandone in
massa i sudditi «di colore», la guerra acuì proprio le contraddizioni su cui
James aveva gettato luce.
29/10/18 23:32
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Nel dopoguerra, le atrocità del nazismo divennero la nuova pie-
tra di paragone per le atrocità del colonialismo. Basti un solo esem-
pio: nella seconda metà degli anni Cinquanta l’opinione pubblica
britannica, ancora fresca di vittoria contro il nazismo, scoprì gli or-
rori della Pipeline, il sistema di centocinquanta lager – come altro
chiamarli? – aperti in Kenya per deportarvi la popolazione Gĩkũyũ
e stroncare l’insurrezione Mau Mau. Emersero casi di prigionieri
bruciati vivi o castrati con pinze da bestiame. Lo scandalo portò
all’indipendenza del Kenya, e accelerò la fine dell’impero «su cui
non tramontava mai il sole».
Quel che il borghese europeo non perdona a Hitler, scris-
se Aimé Césaire nel 1950, «non è il crimine come tale, il crimine
contro l’uomo; non è l’umiliazione dell’uomo in sé, ma il crimine
contro l’uomo bianco, il fatto di aver applicato all’Europa metodi
coloniali finora riservati agli arabi di Algeria, ai coolies dell’India e
ai negri d’Africa». Una riflessione che The Black Jacobins aveva an-
ticipato ancor prima della guerra, come aveva anticipato quelle di
un altro figlio delle Indie occidentali, Frantz Fanon, autore dell’altra
grande opera anticoloniale del XX secolo: I dannati della terra (1961).
Nel mentre, The Black Jacobins circolava, talvolta illegalmente,
nei paesi dove ardevano le braci della rivolta coloniale. Diviso in di-
spense, copiato a mano modello samizdat, fu uno dei testi più diffusi
nel Sudafrica dell’apartheid, tra attivisti di più generazioni, dal mas-
sacro di Sharpeville (1960) alla rivolta di Soweto (1976) e oltre.
Riletta nel suo ottantesimo anniversario, questa storia di uno Spar-
taco nero, di un’armata di schiavi che fa la rivoluzione, risulta più at-
tuale che mai, per tante ragioni. Troppe perché questo articolo possa
contenerle.
In Italia e in gran parte d’Europa, in una torsione paradossale, i ter-
mini «schiavi», «schiavitù» e «schiavisti» sono usati strumentalmente
per difendere il privilegio bianco e attaccare le mobilitazioni antirazzi-
ste: «Siete voi buonisti a difendere la nuova tratta degli schiavi!», «Siete
complici degli scafisti, i nuovi trafficanti di schiavi!», «Li portano qui per
farne degli schiavi!».
29/10/18 23:32
Del resto, neri ammassati su imbarcazioni che compiono un viaggio In Italia il libro di C.L.R. Ja-
drammatico... Cosa potranno mai ricordare? mes è edito da Derive Ap-
prodi con il titolo I giacobini
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Ma l’allegoria è fallace: gli scafisti non sono negrieri ma passeurs, per-
ché i migranti vogliono essere trasportati in Europa e pagano per il viaggio, neri. La prima rivolta contro
cioè per avere un servizio; che lo ricevano di qualità pessima, da parte di l’uomo bianco, con prefa-
carogne senza scrupoli, è colpa sì di quelle carogne, ma prima ancora è zione di Sandro Chignola
colpa delle leggi europee sull’immigrazione. E, sì, la situazione rende quei e postfazione di Madison
viaggi molto pericolosi, ma non li rende uguali al Middle Passage delle navi Smart Bell.
negriere.
Il termine «schiavi» è usato dai razzisti per negare alle persone migranti
ogni soggettività, ogni autonomia di scelta. Chi compie quei viaggi è de-
scritto come mero corpo, materia bruta trasportata da un posto all’altro.
Questo è il cliché razzista e coloniale sugli schiavi, e nessuno lo ha dimo-
strato meglio di C.L.R. James. Nella massa derelitta degli schiavi di Haiti Wu Ming 1, membro del col-
erano in corso, invisibili al padrone, sommovimenti profondi, prese di co- lettivo di scrittori il cui ultimo
scienza, insubordinazioni striscianti, e quelli che nel gergo di oggi chia- libro è Proletkult (Einaudi),
meremmo «percorsi di autoformazione». Ci si formava attraverso riunioni dirige per Alegre la collana di
e lezioni clandestine, attraverso il sabotaggio, attraverso la fuga per rag- ibridi narrativi Quinto Tipo.
giungere le comunità degli schiavi fuggiti, i Maroons, e persino per unirsi a Il suo ultimo libro da solista
ciurme di pirati. Da tali processi emersero, al momento giusto, un soggetto è Un viaggio che non pro-
rivoluzionario e un grande esercito popolare, coi suoi comandanti, mettiamo breve. 25 anni di
coi suoi brillanti strateghi, con il suo incredibile Napoleone. Un lotte No Tav (Einaudi).
esercito che scosse l’ordine del mondo.
Mentre l’oblio del passato coloniale genera nuovi mo-
stri e un delirio di massa su presunte «invasioni» dal
sud del mondo, The Black Jacobins continua a in-
fluenzare l’immaginario e le lotte, e chi lotta conti-
nua a riscoprirlo. Non a caso uno dei rivoluzionari di
Toussaint, uno qualunque, è divenuto il logo di Jacobin
(si veda il testo di Reimeke Forbes pubblicato qui accanto). E quel
lascito non cesserà di spaventare i padroni.
Chiudo parafrasando una canzone degli Stormy Six: capitalisti e razzisti «ancora non si sento-
no tranquilli, perché sanno / che gira per il mondo Toussaint L’Ouverture».
Illustrazione di
29/10/18 23:33
Liberté Égalité Fraternité Transformation
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PRODUZIONE
salari alla polacca
Tecnologia e robotica utilizzate per tagliare il costo
del lavoro e incentivi governativi per mantenere
gli stabilimenti in Italia serviti solo a stringere
sotto ricatto i lavoratori. Il caso Electrolux
F
ondata circa un secolo fa da Antonio Zanussi, che aveva aperto
una piccola officina in Corso Garibaldi a Pordenone, l’azienda
di elettrodomestici italiana è stata acquisita dalla multinazio-
nale svedese Electrolux nel 1984, dopo un periodo di crisi. Nel
2004, l’allora Ceo Hans Stråberg ha annunciato il progetto di
Francesca Coin spostare alcune linee di produzione nell’Est Europa, in Polonia,
Piero Maestri Ungheria e Russia, aree low cost con minore sindacalizzazione
e costi del lavoro più bassi. È iniziato allora un processo di ri-
strutturazione che ancora oggi scarica sui lavoratori la crisi del comparto e l’enorme
competizione internazionale.
Nel racconto dei tre delegati sindacali che abbiamo incontrato fuori dalla Electrolux
di Solaro, nella provincia di Milano, il 2014 è l’anno zero, l’anno in cui sindacati, azien-
da e governo hanno firmato un accordo per un nuovo piano industriale per impedire il
licenziamento del personale. Poco prima l’azienda, che in quel momento aveva quattro
stabilimenti – Porcia, Susegana, Forlì e Solaro con un totale di circa 5.700 dipendenti
– ha annunciato un piano di ristrutturazione che prevedeva,
tra le altre cose, la chiusura dello stabilimento di Porcia e la
perdita del posto di lavoro per 1200 persone, oltre a una lunga Francesca Coin,
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
serie di decurtazioni di diritti, tra cui la riduzione del salario, sociologa all’Università
la diminuzione delle ore retribuite al giorno, l’aumento dei Ca’ Foscari di
ritmi e dei tempi di lavoro. I mesi successivi sono stati segnati Venezia, si occupa
di lavoro, moneta e
diseguaglianze.
Piero Maestri, attivista,
è stato redattore di
Guerre&Pace ed è
coautore tra l’altro di
#GeziPark (Alegre).
59
parte di marchi come Whirlpool e Medea, mentre il basso di gamma trasferito da Solaro
a Zarow in Polonia continua a crescere di volume, tanto che Zarow è passata negli ultimi
anni da una produzione di circa 600mila pezzi a un milione. Con questi numeri, vi sono
a Solaro 200 lavoratori “eccedenti” rispetto quanto previsto dal piano industriale del
N. 1
60
La politica di Electrolux ha avuto costi altissimi, nella vita dei lavoratori. Il diritto pri-
vato alla delocalizzazione, e la messa in competizione tra loro di due stabilimenti gemelli
(in questo caso Solaro e Zarow) per poi punire con la chiusura o la ristrutturazione quelli
meno efficienti (cioè quelli in cui il lavoro
è più tutelato) ha imposto regole del gio- avviene a Susegana, multata per ritmi di lavoro ripetitivi
co sostanzialmente sadiche nella vita dei e asfittici), l’aumento della produttività degli ultimi anni
lavoratori, costretti a scegliere tra accon- ha avuto un impatto negativo sulla salute fisica dei lavora-
sentire a un maggiore sfruttamento o star- tori, aumentando le patologie muscolo scheletriche, dalla
sene a casa. In questo contesto, la fabbrica tendinite alla sindrome del tunnel carpale. Il punto è che
è diventata un luogo pervaso dalla paura, i lavoratori in questi anni hanno dovuto assorbire tutti i
dicono i delegati. Paura significa chieder- costi e i rischi aziendali per evitare che qualcuno di loro ri-
si continuamente «che ne sarà del nostro manesse a casa. Ma sino a quando sarà sostenibile decide-
futuro?», «ci licenzieranno?», «cosa ci acca- re di «guadagnare meno, guadagnare tutti»? Sino a quando
drà?». Paura significa, inoltre, stress, ansia, sarà possibile accettare di tagliarsi lo stipendio per con-
insonnia, farmaci e psicofarmaci, non solo sentire a tutti di averne uno, mentre l’azienda minaccia di
durante il lavoro, ma nel tempo libero, nel- chiudere per trasferirsi in Polonia perché preferisce i salari
le pause, durante le ore notturne, negli in- polacchi? Fino a quando avrà senso acconsentire al dete-
cubi la notte. Va poi detto che, nonostante rioramento delle condizioni di lavoro, per salvaguardare il
l’inchiesta Inail del 2017 abbia considerato posto? Sono queste le domande che assillano la quotidia-
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
l’Electrolux di Solaro un caso non proble- nità dei lavoratori di Solaro, e sono queste le domande a
matico per quanto riguarda lo stress da cui, dopo vent’anni di violenza economica, sarebbe tem-
lavoro-correlato (a differenza di quanto po dare una risposta. Perché è inutile dare incentivi alle
aziende per mantenere uno stabilimento in Italia se poi il
diritto del lavoro continua a essere secondario rispetto al
diritto privato di esternalizzare la produzione ovunque i
costi del lavoro sono più bassi. È inutile dare incentivi alle
aziende per mantenere uno stabilimento nel nostro paese
se poi l’unica organizzazione del lavoro legittima è quella
fondata sul ricatto dei lavoratori.
61
scuola
buona
per La riforma di Renzi è stata
uno shock per i docenti,
grigi
la cui trasformazione
antropologica viene da
lontano. All’ideologia delle
competenze da apprendere va
contrapposta la cooperazione
contabili
sociale del sapere
INVERNO 2018/19
N. 1
62
La controriforma dell’amministrazione
cui nel Mago di Oz Dorothy esclama «ho l’impressione che non siamo più nel Kansas»:
ore inutili alla formazione e all’ingresso nel mondo del lavoro (non a caso si parla non
di “occupazione”, ma di “occupabilità”), sottratte al tempo scuola nel quale si dovrebbe
formare una mente critica.
N. 1
64
Queste diseguaglianze fra strati sociali, centro e periferia, città e provincia, nord e
sud, migranti e indigeni, attraversano il corpo della scuola, che a sua volta le riproduce
e le rilancia: non è casuale che i tassi di dispersione scolastica, che sono in media del
30%, sono molto più alti (fino al 60%) se si guardano i dati del sud, dei migranti, delle
periferie, dei figli di genitori non diplomati o che svolgono lavori non qualificati. Così
come non è un caso che l’orientamento, che dovrebbe favorire la migliore scelta per
l’istruzione superiore, finisce per ribadire il ruolo delle appartenenze sociali sui destini
educativi degli studenti. La scuola, insomma, non solo è impotente davanti alla forbi-
ce sociale, ma a volte coopera nell’allargarla: lo ha scoperto l’opinione pubblica con
la pubblicazione di alcuni Rapporti di AutoValutazione (Rav) nei quali reputati licei si
vantano di non avere fra i propri studenti migranti e non abbienti
(salvo qualche inevitabile figlio di portinaio dei palazzi-bene: dav-
vero non c’è più morale, contessa!). L’INSEGNANTE INVECE
La scuola, in conclusione, sembra essere ritornata ai tempi in cui DI FORMARE CITTADINI
don Milani avviò la sua lenta rivoluzione. Verrebbe spontaneo dire SI TROVA COSTRETTO
che per una scuola degna di essere vissuta è necessario tornare al A SELEZIONARE
priore di Barbiana. Ma «attenzione che non ci si risvegli una matti- I FUTURI IMPRENDITORI
na con qualche cosa da salvare», ammoniva Claudio Lolli. Don Mi- DI SE STESSI
lani non era un profeta: era radicato nel contesto sociale, nelle lotte
degli ultimi, nella coscienza che solo da una prassi didattica fatta
in prima persona può nascere una teoria. Attualizzare don Milani significa attuare una
didattica e uno stile di vita, che assumano la consapevolezza che non c’è pratica scola-
stica che non comporti sia la trasmissione della cultura dominante in chi apprende, sia
la potenzialità di una critica di quel sapere.
La scuola ha a che fare, sia in ciò che riceve dalla società nella quale è radicata, sia
come soggetto collettivo attraversato dalle pratiche educative che restituisce alla so-
cietà, non solo con beni accessibili a tutti come edifici e testi, ma anche con l’interazio-
ne sociale: con conoscenze, linguaggi, codici, informazione, affetti, e con la capacità di
produrre e criticare questi aspetti dei processi che formano, in modo critico o assogget-
tato, tutti i soggetti che la popolano. Con le parole di Toni Negri e Michael Hardt, con
quel comune che «non è soltanto la terra che condividiamo, ma anche il linguaggio che
creiamo, le pratiche sociali che costituiamo, le forme della socialità che definiscono i
nostri rapporti».
Ancora parafrasando Lolli: certo che il mantello di don Milani «è sempre in prima
fila lì sull’attaccapanni» della sala insegnanti, e il suo fucile «è lì nascosto in quel libro
di racconti: però che non diventino ricordi o fantasie, che non sia caricato solamente
a sogni». Che lo si armi con una didattica che si rivolge non a singoli individui, ma al
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
comune che apprende (e, why not, contesta e confligge), all’interno di uno stile di vita
che al grigiore impiegatizio, alla frustrazione e alla sottomissione, sostituisca la coope-
razione sociale: una scuola militante.
65
a stampa.
Proprio perché è concimato dal mar
keting, il biologico
Wolf Bukowski
2013
alla Commissione europea una racc
oman-
dazione finalizzata alla redazione
di uno sta-
tuto della mutua europea. Tale prop
osta do-
vrebbe tenere conto delle particola
ri norme di
funzionamento delle mutue in qua
nto queste
«forniscono una vasta gamma di
servizi as-
sicurativi, servizi di credito e altri
servizi» su
base solidarist istic
ica
a e finanziamento collettivo.
Tra questi “altri servizi” quelli sani
tari occu-
pano in Italia un ruolo fondamental
e.
In un progetto di ricerca svolto su
incarico
della fondazione Cariplo e intitolat
o La rina-
scita del mutualismo si scrive che
«in quanto
rico
iconndu
duccibi
ibili
li alla categoria degli enti mutuali
-
stici, le fondazioni possono essere
a pieno ti-
tolo riconosciute come componenti
del ter-
zo settore», espressione che vuole
richiamare
la «terzietà degli enti mutualistici
sia rispet-
to al privato sia rispetto
al pubblico». Se pensia-
ven-
mo che in Europa, sul- concetto e alla pratica di mutualismo
ve di profitti in cam po
la base dei dati della Fe- ga oggi dalle aspettati
con con segu ente riduzio-
derazione internazionale sociale e sanitario
come lo
per l’assicurazione coo- ne, o cancellazione, del welfare così
perativa e mutualistica, le abbiamo conosciuto. Di fron- Eppure il ritorno alle origini del mov
allidisce imen-
società mutualistiche pos- te a tali progetti imp to operaio, là dove tutto ebbe inizi
anch e la dim ensi one del co- o, si dif-
sono contare su 400 mi- fonde e si radica nel nostro Paese.
operativismo storicamente Esiste un
liardi di euro di premi rac- mutualismo conflittuale che mette
dete rmin ato e che in Italia, in prati-
colti, ci rendiamo conto ca esperienze di solidarietà dal bass
a fine 2015, generava un fat- o diretta-
che l’insidia principale al mente tra coloro che hanno pagato
turato di 72 miliardi rifer ito e conti-
nuano a pagare la crisi economica
solo alle prime 250 coop e- e gli effetti
delle politiche neoliberiste; tra chi
- sper ime
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
ma subisce
Lorenzo Zamponi
incondizionato, di cittadi-
nanza, di esistenza, reddito minimo
universale, reddito di di-
gnità, di inclusione, e così via. Più
semplicemente, reddito di base:
uno strumento di fiscalità redistrib
utiva in mano allo Stato o a un’i-
stituzione pubblica più o meno loca
le, che investe un certo numero
di beneficiari con lo scopo di gara
ntirne la sussistenza.
Un’intuizione di marca progress
ista che compare per
la prima volta sul finire del Settecen
to in Francia come
misura di contrasto alla povertà,
e che riemerge spesso
nella storia del pensiero economi
co: soprattutto in
periodi di crisi, quando un elevato
tasso disoccu-
pazione si somma all’aumento dell
e disuguaglianze
– quando cioè il lavoro scarseggia
e la piena occupazione
resta un miraggio lontano – l’ide
a di eliminare la povertà dando
dei soldi ai poveri torna a sembrar
e terribilmente sensata.
Tuttavia, il reddito di base non è una
semplice elemosina. Nella
sua formulazione più avanzata e
radicale, il reddito è uno stru-
mento di conflitto, pensato per libe
rare uomini e donne dal ricatto
del bisogno e dalla necessità di lavo
rare per sopravvivere. A volte è
inteso come misura universale, indi
viduale e incondizio-
nata, altre è pensato per
platee di beneficiari più ito di
il nome (reddito di inclusione, redd
ristrette, ma in ogni caso di libe rtà, quale
cittadinanza) e la promessa
ha una valenza propul- le allo dole . Nell a
efficace specchietto per
siva, di emancipazione entr amb i disp osit ivi
pratica, però, sono
e autodeterminazione: vi-
finalizzati all’asservimento degli indi
se le esigenze materiali mer cato , che non solo
dui alle logiche di
dell’individuo sono già ito alla
subordinano l’erogazione del redd
soddisfatte, aumenta il e e alla diso ccup azione
situazione fam iliar
suo potere contrattuale o
conclamata, ma addirittura obbligan
nei confronti del mercato lunq ue
alla disponibilità a lavorare a qua
del lavoro e ha più tempo e.
condizione – anche gratis, se serv
a disposizione per vivere la
Con questi parametri, il reddito non
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
genza o di un’urgenza.
come
Affrontare la violenza sulle donne
ifica parl are di un feno me-
un’emergenza sign
cui non rest a che inte rven i-
no imprevisto, su
quasi sem pre a fatto com piut o.
re per punire,
o solo
Nello stato di emergenza emergon
più evidenti del prob lem a. Quelle
le forme
o che si
che non lasciano i segni sul corpo,
più, conti-
compiono lontano dagli occhi dei
a perv adere
nuano, ignorate o normalizzate,
a all’e mer gen za
la vita delle donne. Chi grid
icid i pref erib ilme nte
parla di stupri e femmin
uno stra nier o per stra -
quando a compierli è
don na itali ana . Non con ta
da a danno di una
subito vio-
che 4 donne italiane su 5 abbiano
ano , e che 2 fem min icidi su 3
lenza da un itali
e. Tanto la
avvengano per mano di un familiar
rali pun-
destra populista quanto le forze libe e voci che si
ergenza successo anche me. L’insieme dell
tano il dito sull’immigrazione – l’“em nte lo spaz io politico
sono prese autonomame
immigrazione” – costruen- prob lem a sin dall e sue ra-
ha fatto emergere il
do il mito che la violenza politica dell’emergenza
a sua dim ensi one struttura-
dici, ovvero sin dall
sulle donne sia propensio- prova a occupare lo
feno men o che, dall e relazioni
le. È quella di un
ne degli uomini stranieri, spazio delle dirette in- a il sistema
personali alle istituzioni, attravers
in particolare di cultura teressate, togliendole iona-
intero, o meglio, ne garantisce il funz
islamica. Con la compli- la voce o peggio inter- in piedi se le
mento. Il capitalismo resterebbe
cità dei mass media e dei venendo solo quando,
la violenza a
donne non fossero costrette con
generatori di fake news, insieme alla voce, hanno
ro a mettere al mon do, nutrire,
invocano la castrazione ormai perso la loro stessa riprodurlo, ovve vite che il
ente le
vestire, soddisfare sessualm
chimica, i militari per le vita. Ma questo accade
capitalismo stesso sfrutta?
INVERNO 2018/19
ntare il problema,
in cui si alimenta ma nella sua interezza. L’urgenza
è quella di chi, negli
allo stesso tempo lo ultimi due anni, ha riempito le piaz
ze e i social network
stereotipo dell a don na con la parola d’ordine “Non una di men
o”: non lasce-
vittima indifesa da remo che un’altra vita soltanto ven
ga portata via dalla
salvare. E così, la violenza, senza aver lottato per lei,
per tutte noi. Quel
noi si è coagulato nel momento in
cui l’esperienza
diretta di chi ha subito violenza è
tornata a uscire allo
scoperto, nel guardarsi l’un l’altra
e dirsi #metoo, è
74
CORSIVO
S
enza sinistra è una pratica dito, il furto di vite in cambio di un reddito.
quotidiana affinata dall’espe- Senza sinistra è non ce la faremo mai.
rienza, temprata dall’impo- Senza sinistra è quasi tutta la sinistra che si vede
tenza, morsicata dal bisogno. qui e ora, che orgogliosamente si chiama sinistra sì,
Senza sinistra è lo spuntone ma i mercati, sì, ma i piccoli azionisti, sì ma l’azien-
Alessandro in acciaio sulle sedute pubbli- da, sì, ma l’ordine, sì ma il decoro.
Robecchi che, alla stazione, sui muretti, Senza sinistra è si ma.
accanto ai monumenti, dove Senza sinistra è il discorso della pena e del dolore,
si intende che il sostare improduttivo non è gradito commozione, partecipazione, solidarietà che si
agli sguardi, non conviene, turba l’ordine econo- arresta di fronte al discorso del conflitto, dei rap-
mico. Senza sinistra è il design cattivo, la panchina porti di forze. Sì, ma senza sporcare. Sì ma senza
«antibivacco» per non farci dormire il barbone, è il far danni.
gioco di tubi sulla grata che manda aria calda per Senza sinistra è il contagio dello scandalo padro-
farlo dormire al freddo. Senza sinistra è punizione nale: «Ecco, scioperano sempre al venerdì».
costante, vigilanza, mercato. Senza sinistra è ti pago in visibilità.
Senza sinistra è la casa sfitta. Senza sinistra fa curriculum.
Senza sinistra è la moltitudine di poveri che di- Senza sinistra è la rabbia privatizzata, rancore
fende il ricco e indica come nemico il più povero personale, odio singolo che non si incanala, senza
ancora, e poi quello più ancora, senza sinistra è il sinistra like, senza sinistra soft, senza sinistra incre-
penultimo che picchia l’ultimo. menta il traffico, sei felice? Fatturi?
Senza sinistra è la famiglia Joad dall’Oklahoma Senza sinistra è chiamare «privilegi» i diritti, sen-
alla California a metà dei vecchi anni Trenta, senza za sinistra è combattere – allora sì – i privilegi.
sinistra è Josefa dal Camerun alla Libia al mare alla Senza sinistra è una pratica quotidiana di ognuno
vigilia dei nuovi anni Venti. di noi, di chi se ne accorge, di chi non se ne accor-
Senza sinistra è l’algoritmo, il braccialetto elettro- ge, di chi passa per caso e ci cade dentro, e sangue,
nico, la telecamera. Senza sinistra lo straordinario e dita, e fratture multiple. Senza sinistra è un tom-
estorto. Il cottimo risorto? Senza! Il «meglio che bino per la strada, pertugio e trappola. Colla densa
niente»? Senza! Senza sinistra gospel. Senza sinistra intorno, ambiente naturale, habitat. Così senza
blues. sinistra da faticare a immaginarla.
Senza sinistra è il trucco del portafoglio con il filo, È il perfetto romanzo del nemico: se il migliore
che scappa via quando ti chini a raccoglierlo. Senza dei mondi possibili si misura in fatturato, eccoci,
sinistra è la favola eterna delle due fasi. Fase uno: questo lo è. Senza sinistra è ciò che non funziona
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
sacrifici e poi vedrete che… Fase due… spiacenti applaudito come un successo, il vecchissimo ven-
non si può fare. duto come nuovo, schiavitù e buoni pasto per lo
Senza sinistra è la truffa del merito, la retorica del zio Tom.
merito, la vergogna del merito, una gara in cui si Molto altro, oltre a questo, è senza sinistra.
fissa il traguardo, ma non il punto di partenza. E senza sinistra non se ne esce.
Senza sinistra è il taglio di tutto ciò che è pubbli-
co, senza sinistra è le mani che si allargano e la fac- Alessandro Robecchi, scrittore e autore satirico, è nella
cia impotente: «Eh, è il mercato, che ci vuoi fare». squadra di sceneggiatori che scrive gli spettacoli di
Senza sinistra è non volerci fare niente, infatti. Maurizio Crozza e collabora con il Fatto quotidiano. Il
Senza sinistra è l’accumulo di vite per fare un red- suo ultimo libro è Follia maggiore (Sellerio).
75
P
resentando in diretta televisiva le prime bozze del cosiddetto
«Decreto Dignità» e posto di fronte all’insinuazione che questo
contenesse misure «da comunisti», il ministro del lavoro e “capo
politico” del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio ha spiegato che
la “stabilità” è necessaria per permettere ai giovani di fare figli, e
Giacomo Gabbuti che non può esserci crescita economica senza quella demogra-
Lorenzo Paglione fica. Per l’ennesima volta, anche in questa occasione Di Maio ha
ribadito di non essere «di sinistra», ma di voler sostenere quei
diritti sociali che la sinistra ha tradito, incluso quello «di fare figli». Negli stessi giorni
uno spot della Chicco auspicava un nuovo “baby boom” al fine di rilanciare un Paese in
crisi sollevando un vespaio di polemiche. Impossibile non pensare al patetico lancio del
Fertility Day nel 2016. Quella campagna, voluta dall’allora ministra del governo Renzi,
Beatrice Lorenzin, riduceva il problema demografico a scelte, comportamenti, stili di
vita sbagliati dei giovani italiani (in primis, ovviamente, delle donne). Oltre a poche e
occasionali forme di sostegno monetario e alle promesse di
asili nido, anche per il centrosinistra la crisi delle nascite si
risolverebbe con campagne d’opinione volte a convincere i Giacomo Gabbuti
INVERNO 2018/19
specializzando in
sanità pubblica,
fa parte dell’esecutivo
nazionale del
coordinamento
“Chi Si Cura di Te”.
76
Come illustrato dal demografo Francesco Billari al convegno per i novant’anni dell’I-
stat, in questi anni le migrazioni hanno portato al passaggio dalla demografia lenta, fatta
di fenomeni sociali prevedibili, a una veloce, che richiederebbe rilevazioni più frequenti
dei soli censimenti (basti pensare a quanto poco sappiamo dei nostri concittadini che si
spostano all’interno dell’Ue). Non solo: in questi stessi decenni, spiega Billari, nei paesi
economicamente avanzati «i differenziali tradizionali di fecondità vengono ribaltati». Da
un lato, alla faccia delle letture clerico-fasciste, sono i «comportamenti familiari meno
tradizionali» a far registrare maggiore fertilità. Dal 2008 al 2016, i nati fuori dal matri-
monio sono cresciuti di 30mila unità, mentre le nascite totali sono calate di 100mila. In
generale, tra i paesi più ricchi, quelli con il benessere più elevato mostrano più alti tassi
di fertilità. Soprattutto, all’interno di questi paesi sono i più ricchi e istruiti a fare più figli.
In un articolo del 2017, lo stesso Billari e Agnese Vitali mostrano come questa correla-
zione sia osservabile anche nel nostro paese. Non solo i dati sulla fertilità a livello provin-
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
ciale evidenziano un ribaltamento delle tradizionali differenze nord-sud; allo stesso tem-
po, cambiano di segno le correlazioni con i principali fattori della fertilità. Mentre diventa
fortemente negativo l’impatto delle differenze di genere nel tasso di occupazione, cresce
77
81,2 anni
a 35 anni nei
quartieri di Torino 79,5 anni
l’importanza dei figli nati fuori dal matrimonio, e diventa determinante la ricchezza me-
dia. Illuminante, in questo senso, è un altro lavoro di Billari (qui con Vincenzo Galasso) in
cui si utilizzano come “esperimento naturale” le riforme pensionistiche Dini e Amato, con
il conseguente peggioramento delle prospettive dei giovani, per dimostrare il forte effetto
negativo di un peggioramento delle condizioni di vita sulla fertilità in un paese avanzato.
Dietro il problema della bassa natalità italiana, dunque, si na-
sconderebbe una questione più complessa: influisce la disegua-
LE DISEGUAGLIANZE glianza di genere (diventa sempre più rilevante il problema del
SOCIALI INCIDONO cosiddetto double-shift: le donne che sempre di più entrano nel
SU QUANTO SI VIVE mercato del lavoro senza perdere il monopolio di quello domestico
E COME SI MUORE: e di cura) ma un ruolo ce l’hanno anche le prospettive stagnanti
ISTRUZIONE E REDDITO per i giovani e le crescenti diseguaglianze territoriali. Queste ultime
SI RISPECCHIANO non riflettono più, come nell’Italia del dopoguerra, fattori culturali,
SU SALUTE E LONGEVITÀ ma sempre più condizioni oggettive e materiali, come le prospet-
tive occupazionali e l’accesso ai servizi (si pensi ai citati asili). Da
quest’ottica, pare utile leggere la questione con le lenti delle “dise-
guaglianze sociali in salute”, filone di ricerca che negli ultimi anni ha posto l’attenzione
INVERNO 2018/19
sui determinanti sociali dei crescenti differenziali di salute all’interno di città e territori.
Fattori come istruzione, condizioni di lavoro, reddito familiare, incidono non solo sulle
possibilità degli individui, ma sulla loro stessa salute e longevità, accanto alle caratteri-
stiche genetiche e a fattori non modificabili come l’età.
Lo studio delle diseguaglianze di salute dimostra come siano queste diseguaglianze
(tra persone, territori, regioni) a spiegare sempre di più quanto si vive e di cosa si muore,
N. 1
78
78,3 77,8
quattro anni di aspettativa di vita (Costa
G., Stroscia M., Zengarini N., Demaria
M., 40 anni di salute a Torino, spunti per
leggere i bisogni e i risultati delle politiche,
Inferenze, Milano 2017).
anni anni
2016
1999
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
-2
-4
1961
1962
1963
1964
1965
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1967
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1969
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1979
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1981
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1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
nel nostro paese. Se già i dati censuari rivelano un importante gradiente nord-sud nell’a-
spettativa di vita, e una differenza di tre anni tra alto e basso livello di istruzione, ancor
più impressionanti sono le differenze rilevate dal gruppo di ricerca animatore del portale
disuguaglianzedisalute.it. I dati di Torino mostrano come, lungo il percorso del tram che
parte dal quartiere ricco di Superga e si dirige verso la periferia di Vallette, l’aspettativa
di vita si riduca di un anno per chilometro. A Superga la longevità è in linea con la media
nazionale, a Vallette si è fermi ai primi anni Ottanta. Tenendo conto dei sempre più nume-
rosi studi sulle conseguenze di queste diseguaglianze sulla stessa salute dei figli (dal peso
alla nascita, allo sviluppo psico-motorio, entrambi correlati ai livelli d’istruzione dei ge-
nitori), non è difficile ipotizzare un loro ruolo sulla stessa scelta di mettere al mondo figli,
in un paese in cui tra i bambini e le loro famiglie si registrano i tassi di povertà più elevati.
Se quello della demografia sembra destinato a diventare sempre di più un fronte caldo
del dibattito italiano, non è detto si sia costretti a subire la stantia retorica reazionaria. Al
contrario, la fertilità può diventare un terreno su cui rilanciare e portare nel senso comu-
ne la necessità di contrastare la precarietà lavorativa, perseguire una reale uguaglianza
di genere, riaffermare il diritto a servizi pubblici efficienti e contrastare i crescenti divari
INVERNO 2018/19
territoriali dentro le nostre città e regioni. Superando una volta per tutte l’imbarazzo le-
gato alla tradizione non proprio democratica di certa demografia e mettendo al centro
dell’analisi le diseguaglianze socio-economiche, è necessario prendere sul serio il diritto
(non certo il dovere) di avere figli.
N. 1
80
81
80
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
79
Uomini Livello di istruzione
Alto
78
Medio
77 Basso
Piemonte
Valle d’Aosta
Liguria
Lombardia
Bolzano/Bozen
Trento
Veneto
Friuli-Venezia Giulia
Emilia-Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
81
La cura
come
business
Prima erano lavori svolti gratuitamente dalle donne
nelle proprie case. Poi i servizi di assistenza sono passati
anche sotto il controllo del mercato. Un caso emblematico
di monetizzazione di affettività e relazioni sociali
82INVERNO 2018/19
N. 1
di chi necessita di cura a una visione di mercato, per la Sabrina Marchetti è docente di
quale queste persone diventano “consumatori” che ac- Sociologia dei processi culturali
quistano il servizio di cui usufruiscono. all’Università Ca’ Foscari di
Venezia e autrice di diversi
saggi su lavoro domestico e
discriminazioni di genere e razza.
83
In Italia le richieste nel settore della cura sono quasi interamente soddisfatte dall’im-
piego di donne migranti, specialmente di origine esteuropea, come assistenti familia-
ri. Secondo il Dossier Statistico Immigrazione del 2017, sono per tre quarti straniere le
739mila persone occupate come colf o badanti. Le loro remunera-
zioni sono generalmente molto basse, a causa della vulnerabilità
I SOGGETTI CON e precarietà del lavoro offerto da lavoratrici straniere spesso senza
BISOGNI DIVENTANO permesso di soggiorno. Questo modello tuttavia è lungi dall’esse-
“CONSUMATORI DI CURA” re interamente “in mano alle famiglie”, come spesso si dice, poiché
E CHI LAVORA IN QUESTO sempre più amministrazioni municipali, associazioni, aziende e
SETTORE, SOPRATTUTTO cooperative si inseriscono in questo mercato con diverse modalità.
DONNE MIGRANTI, È L’aziendalizzazione della cura è evidente nella diffusione di ditte
SPESSO SOTTOPAGATA private che forniscono assistenza alla stregua di qualsiasi altro ope-
INVERNO 2018/19
S
to sul confine. Tra Europa e Regno Unito, tra indagine in prima
persona sul mondo della nuova emigrazione italiana in Gran Bre-
tagna e travel-logue di fatica. Lavoro sfruttato come un mulo al
minimum wage ma fingo di fare inchiesta. Nella mia testa ronzano
appunti e pagine di diario; buste paga con un insurance number
della previdenza inglese e deformazioni sarcastiche di lavori inu-
Alberto Prunetti tili, penosi e repellenti, eseguiti da un italiano immigrato oltrema-
nica. Un laureato working class che invece di fare il dottorato va a
Bristol a pulire i cessi e cerca Shakespeare nelle latrine. Me l’aveva promesso anche Alan
Sillitoe nel suo strepitoso racconto La solitudine del maratoneta: «so che quando avrò
perso mi toccheranno i più infami lavori di sguattero e lavaces-
si nei mesi che mancano prima che abbia finito di scontare la
pena». Sono un europeo del sud, un fottuto perdente, nell’e- Alberto Prunetti,
INVERNO 2018/19
Tipo) e Amianto.
Una storia operaia
(Alegre).
Per Alegre dirige la
collana di narrativa
Working class.
86
i
zioni d
Illustra
87
Quale fuga?
È la fuga dei cervelli, dicono. Imprenditori di se stessi, mica disperati. Startupper, mica
criminali. Noi expat, loro migranti. Noi cosmopoliti, loro criminali.
Macché.
Operai eravamo, perché in una caffetteria inglese quello fai. Lavoro seriale in catena.
Come fare la pizza ananas e cotto da Pizza Hut: prodotti surgelati che vengono lavorati
in catena. Operai della ristorazione e delle pulizie, immigrati in un paese ultraliberista
deindustrializzato e convertito a un’economia di finanza (per i ricchi) e di servizi (per i
poveri). Pigs, eurosfigati del sud, ecco cos’eravamo. E intanto riempivano le retoriche di
invasioni che non c’erano, lasciando intere zone dello stivale demograficamente svuota-
te. Un paese avvilito, un paese senza giovani, perché intere generazioni scappavano. Un
paese per vecchi.
Ci mettevano gli uni contro gli altri. Inglesi contro continentali, assunti dalla compa-
gnia contro interinali dell’agenzia, Commonwealth contro europei. Europei del sud (ca-
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
merieri) contro europei dell’est (muratori, badanti). Anche all’interno della stessa nazio-
nalità ci mettevano in conflitto: erasmus contro workers. Studenti vs lavoratori. Anche se
poi nel finesettimana spalla a spalla pulivamo tutti gli stessi tavolini dei vari burgershit.
89
Quasi un clandestino…
Mentre lavoravo nel Regno Unito, una volta pensai anch’io di aver diritto alle vacanze.
Tre giorni fuori dalla mensa scolastica di un paesino del Dorset, dove sminestravo piatti,
per visitare la Normandia. Un lusso da ricchi, che per poco non mi trasformò in clande-
stino. Avevo messo qualche soldo da parte, abbastanza da poter attraversare la Manica
e andare a mangiare decentemente per un fine settimana. Mi imbarcai a Portsmouth e
sbarcai a Cherbourg, in Francia. Per me tempi stretti: arrivo al venerdì pomeriggio, ri-
entro la domenica sera, che il lunedì all’alba mi aspettava il grembiule di sguattero alla
mensa scolastica dove lavoravo. La tradizione inglese vuole che ci si sbronzi nel traghetto,
per combattere il fastidio del mal di mare: se devi vomitare, è bene farlo per una buona
ragione, tipo una dozzina di lattine di lager, non per le fottute onde marine. Nel viaggio
apprezzai un paio di inglesi working class. Mi dissero che loro evitavano di contaminar-
INVERNO 2018/19
(E)MIGRAZIONI
emigrazioni
italiane
Il dibattito pubblico si concentra su presunte “invasioni”,
ma i numeri di coloro che se ne vanno dall’Italia
sono comparabili a quelli del dopoguerra. Un fenomeno
che va ben oltre la retorica dei “cervelli in fuga”
«L
a tragedia di Marcinelle a me fa riflettere: non dobbiamo emigra-
re dall’Italia», ha detto il capo politico del Movimento 5 Stelle Lui-
gi Di Maio in visita nel centro belga teatro della strage di minatori,
molti dei quali emigranti italiani, del 1956. Qualche tempo prima il
ministro del lavoro socialdemocratico tedesco e attuale presiden-
Simone Fana te della Spd Andrea Nahles ha dichiarato: «Dobbiamo fermare l’im-
Francesco Massimo migrazione nel nostro sistema di servizi sociali. È una questione di
autodifesa». Tra gli invasori indicati da Nahles migliaiai di cittadi-
ni polacchi, greci, spagnoli e italiani. Ormai è riconosciuto: dall’Italia si è tornati a partire.
A dieci anni dalla crisi, la società italiana ricomincia a produrre emigrazione di massa, con
livelli inediti dagli anni Settanta, come mostra il socio-
logo Enrico Pugliese nel suo ultimo libro Quelli che se
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
ne vanno. Tuttavia si tratta di un tema che viene volu- Simone Fana si occupa di servizi
tamente oscurato dall’agenda politica, costruita intor- per il lavoro e per la formazione
no al paradigma dell’“invasione” o, quando affrontato, professionale. Autore di Tempo
lo si descrive con formule caricaturali come quella dei Rubato (Imprimatur). Scrive di
“cervelli in fuga”. mercato del lavoro e relazioni
Mentre quantitativamente il fenomeno è compara- industriali.
bile all’emigrazione del dopoguerra, qualitativamen- Francesco Massimo, romano, fa
te e storicamente si affermano dinamiche nuove. Se ricerca a Parigi. Legge e scrive
in passato l’emigrazione era la prima tappa di un pas- di lavoro, relazioni industriali e
saggio dalla precarietà alla stabilità, al prezzo di un movimenti sociali.
93
100.000
80.000
60.000
40.000
20.000
1946 1948 1950 1952 1954 1956 1958 1960 1962 1964 1966 1968 1970 1972 1974 1976 1978 1980
forte sradicamento, per molti versi la situazione attuale appare complementare: emigrare
sembra meno difficile ma la prospettiva della stabilità è sempre più incerta.
Il panorama politico è cambiato e si mostra afflitto da un paradosso lacerante: l’emi-
grazione italiana in Europa è oggi non più una semplice migrazione internazionale, ma
una migrazione interna a una entità politica sovranazionale; eppure le fratture naziona-
li non si attenuano, anzi si riformano sotto la spinta della destra xenofoba che, come nei
INVERNO 2018/19
casi inglese e tedesco, prende ormai di mira gli immigrati dal Sud e dall’Est Europa, sep-
pure non con la stessa intensità dei migranti extra-europei.
La forza con cui la narrazione dell’estrema destra si sta imponendo nel dibattito pub-
blico sembra influenzare anche alcuni settori della sinistra francese, tedesca e italiana.
N. 1
94
6 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012 2014 2016
Ansiosa di offrire una proposta politica competitiva con il paradigma xenofobo, la nuo-
va sinistra nazionalista finisce con l’individuare nelle migrazioni un nemico che non rie-
sce più a indicare.
La scelta di inseguire la destra sul terreno a lei più congeniale rivela un’evidente subal-
ternità che finisce per consegnare il governo politico di questi processi a progetti autori-
tari, che sono già all’opera.
Allo stesso tempo, per restituire forza alla rivendicazione di libertà di movimento bi-
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
sogna intervenire al cuore delle politiche economiche e di sviluppo che oggi governano
questa Europa e che stanno determinando gli squilibri e le fratture sui quali si innestano
le nuove migrazioni europee.
95
dia dell’1,2% contro il 2,9 registrato dalla Germania nello stesso periodo. Una dinami-
ca che si accompagna a uno slittamento settoriale, con la crescita di settori produttivi
a bassa qualificazione (ristorazione, trasporti, logistica), dove si concentra l’aumento
dell’occupazione negli ultimi anni.
N. 1
96
Questa fuga però non sembra più garantire a chi migra le prospettive di una stabilizza-
zione e di un miglioramento delle proprie condizioni. La gran parte delle migrazioni che
oggi attraversano l’Italia e l’Europa hanno come dato di fondo una precarietà struttura-
le perché la degradazione del mercato del lavoro è andata avanti, a colpi di riforme, an-
che negli altri paesi europei: dalla Germania delle leggi Hartz al Regno Unito dei contratti
a zero ore. Le due fasce ben distinte del mercato del lavoro dell’epoca fordista, una carat-
terizzata dall’impiego a tempo pieno e indeterminato e l’altra da occupazioni saltuarie e
collegate alle oscillazioni del ciclo produttivo, hanno cambiato caratteristiche. La secon-
da si è allargata, mentre la prima non si è solo ridotta ma è stata essa stessa precarizzata.
Si tratta di un fenomeno europeo, non solo italiano. Questo nuovo scenario mette in cri-
si la retorica mistificante autoconsolatoria della “fuga dei cervelli”. Perché oggi a migra-
re sono anche gli operai e le operaie. E perché anche i diplomati che fuggono dalla pre-
carietà intravedono un orizzonte di incertezza permanente anche nei paesi di approdo.
L’emigrazione precaria di massa non solo attraversa i confini ma
modifica radicalmente i contesti in cui i flussi si dipanano, mo-
strando un elemento di resistenza irriducibile ai ripiegamen-
ti autarchici e alle false mitologie del radicamento che tentano
di imporsi nel dibattito pubblico. La soluzione non è smettere
di emigrare dall’Italia, come Di Maio sembrerebbe invitarci a
fare, ma rendere l’Italia, l’Europa e il Mondo un luogo in cui
la libertà di migrare sia una condizione dell’emancipazio-
ne individuale e collettiva, di chi parte e di chi “accoglie”.
Questa libertà deve e può essere garantita material-
mente e politicamente. È urgente quindi che que-
sto diventi oggetto di una lotta politica con-
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
BREAKING
BANK
DIECI ANNI DI CRISI
La crisi del 2008 ha ridisegnato
i rapporti di forza globali e riscritto
la relazione tra capitale finanziario
e economia cosiddetta reale.
Cosa ne è stato dei suoi protagonisti?
In che modo gli spettri del debito hanno
infestato le nostre case? Come (non)
ha reagito l’Europa? E un saggio
su un economista poco ortodosso
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
105
e magioni
Immaginateli uno accanto all’altro, come accade
ai soliti sospetti prima di passare sotto il torchio
dell’interrogatorio. Dieci anni dopo la crisi finanziaria,
vediamo come se la passano i lupi di Wall Street
N
egli anni precedenti la crisi finanziaria le banche d’affari hanno
confezionato dei bond realizzati con mutui ipotecari tossici e li
hanno venduti agli investitori. Quando i mutui hanno cominciato
a perdere colpi, anche i bond sono venuti giù e la crisi immobiliare
è diventata una crisi finanziaria.
Milioni di statunitensi hanno perso casa, lavoro, risparmi e
Meagan Day tranquillità d’animo. Alcuni hanno per-
so anche la propria vita, tra dipendenze
da sostanze e suicidi. Si dice che gli Stati uniti sono usciti dalla Meagan Day è staff
crisi ma quei milioni di persone che negli anni della recessione writer di Jacobin Usa.
hanno visto cancellati i loro sogni non hanno mai recuperato le La traduzione
proprie perdite, finanziarie e umane. dell’articolo è di
Per buona sorte, i dirigenti di quelle banche che hanno gio- Alberto Prunetti.
INVERNO 2018/19
Jimmy Cayne
La Bear Stearns ha cominciato a nuotare in cattive acque nel luglio 2007, quando i subpri-
me fecero collassare i fondi di investimento. L’amministratore delegato Jimmy Cayne – fa-
moso per i weekend di golf che durano almeno metà settimana – se ne sta a giocare a bridge
a Nashville nel giorno in cui cominciano i guai. Cayne schiva il colpo e se ne va in pensione
nel gennaio 2008. Vende per 61 milioni di dollari le sue quote aziendali e rimane a guardare
al sicuro mentre la Bear Stearns affonda. La società era stata valutata nel 2007 per 20 miliar-
di di dollari. Un anno dopo viene venduta a JP Morgan Chase per 236 milioni di dollari. Ma
non preoccupatevi del vecchio Jimmy Cayne. Viaggia per il mondo da giocatore altamente
competitivo di bridge. A proposito, nel gergo americano del bridge, il termine “crash”, che di
solito indica un tracollo bancario, si riferisce a una tecnica fraudolenta di gioco.
Kyle Bass
Kyle Bass, amministratore delegato di fondi speculativi, non è stato il primo a rendersi
conto che la crisi dei subprime avrebbe causato un disastro finanziario. Ma non appena
se ne è accorto, ha fatto tutto quanto era in suo potere per fronteggiare la crisi.
INVERNO 2018/19
Oh, no, scusate, solo un attimo… in realtà scommise sull’esplosione della bolla finan-
ziaria e si mise in tasca milioni di dollari.
Bass adesso divide il suo tempo tra il lavoro a San Francisco e Dallas, la pesca subac-
quea alle Bahamas e il riposo nel suo ranch texano – che secondo il Financial Times gode
di uno «status leggendario tra i maschi alpha dei subprime» – dove adora guidare il suo
fuoristrada Hummer pluriaccessoriato, «con cui si sottrae ai fastidiosi inseguitori lancian-
N. 1
Jamie Dimon
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
Jamie Dimon, amministratore delegato della JP Morgan Chase, è uscito dalla crisi fi-
nanziaria profumato come una rosa, dopo aver acquistato Bear Stearns e Washington
Mutual, che stavano fallendo, e aver messo la sua banca sul sentiero che conduce ai pro-
fitti, evitando quello che ti infila in un procedimento giudiziario.
O almeno così sembrava. Nel 2013 Dimon, in ritardo, ha concordato il pagamento da
parte di JP Morgan di una multa di 13 miliardi di dollari per la vendita di prestiti tossici nel
periodo anteriore alla crisi. Questa multa non è riuscita a scalfire la sua ottima reputazio-
ne. A quel punto, nel folklore della narrativa sulla crisi, i cattivi erano già stati identificati e
Dimon non era tra questi. E poi tutti amano i vincitori e i profitti di JP Morgan Chase non
hanno mai smesso di crescere dagli anni della crisi. Tutto è bene quel che finisce bene!
109
con la moneta
La finanza, i debiti sovrani e l’Unione europea.
Com’è potuto accadere che le élite politiche continentali
abbiano finito per sfruttare la crisi economica
come un’opportunità per imporre ricette liberiste?
“O
gni crisi è un’opportunità”: uno slogan spesso evocato in anni se-
gnati da acute difficoltà economiche. L’Europa non fa eccezione.
Soprattutto l’eurozona, dove i politici al potere e le élite econo-
miche hanno visto nella crisi del 2008 un’opportunità d’oro per
radicare nell’attuale politica economica due panacee neoliberali:
l’idea che il deficit da spesa pubblica sia un male e che l’antidoto
Ronald Janssen alla stagnazione vada cercato nella contrazione dei salari e nella
“flessibilità” dei mercati del lavoro. Ma per capire come questa
nuova linea programmatica si sia insediata in Europa è importante analizzare come gli
attori chiave di queste politiche sono riusciti a far approvare le proprie riforme.
A fine anni Ottanta, quando la Commissione europea varò la campagna per la mone-
ta unica con lo slogan “Un mercato unico, una moneta unica”, tra gli argomenti a favore
di quel progetto c’era la tesi che una moneta unica europea avrebbe significato un unico
tasso di interesse europeo.
INVERNO 2018/19
prestiti a quelle dei paesi della periferia indebitata, finanziando il boom immobiliare
di quei paesi e alimentando la propria posizione di creditori. Questo spiega quel che è
accaduto dopo: i leader dell’eurozona hanno riscritto la storia, architettando una narra-
tiva della crisi che allontanava la responsabilità dalle banche e dal mondo della finanza.
N. 1
112
Alla fine le bolle esplodono. C’è voluto almeno un decennio perché i banchieri
francesi e tedeschi si rendessero conto che iniettando grossi flussi di credito nella
bolla immobiliare spagnola o irlandese prima o poi le cose sarebbero andate a roto-
li, ma alla fine quel momento è arrivato. Sotto l’impulso della crisi statunitense dei
subprime del 2008, i proprietari di immobili spagnoli e irlandesi hanno cominciato
ad avere problemi nel ripagare i loro mutui. Rendendosi conto che le banche locali
di quei paesi stavano andando nei guai, le banche europee creditrici interruppero
il loro flusso di finanziamenti. Con le banche periferiche vicino al collasso e quelle
centrali in una situazione poco brillante, la crisi finanziaria nel 2010 era a livelli da
mal di mare.
A quel punto i politici dell’eurozona si trovavano di fronte a una scelta. Potevano
ammettere di essersi addormentati al volante, loro e gli strumenti di controllo sulla fi-
nanza, mentre le banche da controllare gettavano il denaro dei creditori in un carosello
di bolle alimentate dal credito dell’eurozona (e in tal caso i contribuenti avrebbero logi-
camente chiesto loro di pagare per ripulire tutto quel macello); oppure potevano soste-
nere la tesi della “santità del debito”, chiedendo che i governi dei paesi europei periferici
pagassero in qualche modo il salvataggio d’emergenza.
La storia ci insegna che hanno scelto la seconda ipotesi. Ma una volta fatta la scelta,
il costo dei salvataggi andava razionalizzato politicamente. Pertanto i leader europei
cominciarono a smerciare una reinterpretazione della crisi finanziaria che spostava l’at-
tenzione dalle responsabilità di banche e finanza. Al loro posto, il messaggio diffuso era
quello per cui i paesi delle economie periferiche avevano, in maniera irresponsabile,
“vissuto oltre le proprie possibilità”. Adesso dovevano quindi stringere la cintola: per
rimettere le cose a posto e ripagare i propri debiti, i governi di quei paesi dovevano ta-
gliare le condizioni di vita dei propri cittadini. Da un lato, questo significava meno spesa
pubblica; dall’altro, implicava un incremento delle esportazioni.
Si sollevavano due pilastri fondamentali della politica economica neoliberale: il pila-
stro dell’austerità fiscale, con l’eliminazione del deficit pubblico e la riduzione del ruolo
dello stato nell’economia; e il pilastro della competitività, per cui le istituzioni del mer-
cato del lavoro che sostengono i diritti dei lavoratori devono indebolirsi in modo da
poter contrarre i salari e spingere la crescita delle esportazioni.
Sorprende vedere in che misura queste due prescrizioni, l’austerità fiscale e la dere-
golamentazione salariale, siano state realizzate. Per quanto riguarda la politica fiscale,
tra il 2010 e il 2014, il 5% del Pil dell’eurozona è stato sforbiciato dall’economia tra tagli
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
della spesa e aumenti delle tasse. Eppure l’economia quasi non è cresciuta.
E i cambiamenti sono stati ancora più drammatici nell’area, meno conosciuta, della
regolamentazione del mercato del lavoro. Gli stati dell’eurozona in deficit hanno ab-
113
Perché i paesi europei periferici hanno accettato questa narrativa? Perché, obbe-
dienti, hanno realizzato queste politiche disastrose? In fondo, sapevano perfettamente
che le politiche-gemelle di austerità fiscale e deregolamentazione salariale avrebbero
prodotto una diffusa miseria economica e sociale, rischiando al tempo stesso di appro-
fondire il problema a causa della deflazione dei prezzi, facendo cioè aumentare vertigi-
nosamente il debito pubblico.
La risposta è che si trovavano con le spalle al muro mentre i mercati finanziari erano
sotto attacco. Grazie alle selvagge manovre speculative dei mercati finanziari, i governi
e le banche periferici solo per rinnovare il loro debito dovevano affrontare tassi di inte-
resse straordinariamente elevati (e, in ultima analisi, insostenibili). In un caso specifico,
i tassi arrivarono al 45%. I mercati finanziari avevano dato l’avvio a una profezia che si
auto-avvera: gli alti tassi di interesse derivanti dalla paura del default minacciavano di
produrre quello stesso default che i mercati temevano.
INVERNO 2018/19
tuali sanzioni) sia accettato dal Consiglio a meno che una maggioranza qualificata di
stati membri si dichiari contraria col voto.
115
Alla fine questa politica di “governare con la moneta” – o forse bisognerebbe dire:
“ricattare con la moneta” – ha raggiunto i propri limiti. Nell’estate del 2012 Mario Dra-
ghi, il neoeletto presidente della Bce, rivolgendosi a una platea di investitori a Londra
fu costretto a cambiare completamente strada, nell’impossibilità di vendere il solito
discorso sul ruolo della Bce volto a tenere esclusivamente sotto controllo l’inflazione:
era ormai evidente che le speculazioni dei mercati finanziari avevano raggiunto un
punto tale da compromettere l’esistenza stessa dell’euro. Col suo famoso discorso –
«nell’ambito del nostro mandato la Bce è pronta a fare tutto il necessario a preservare
l’euro. E credetemi: sarà abbastanza» – Draghi dette ai mercati finanziari l’impressio-
ne che alla fine la Banca centrale europea avrebbe sostenuto il debito sovrano degli
stati membri dell’eurozona. Questo rassicurò i mercati al punto che le speculazioni
dei mercati finanziari non si intensificarono e permise di abbassare gradualmente i
tassi di interesse dei paesi debitori. L’economia comunque dovette attendere ancora
due anni e mezzo prima che la Bce, all’inizio del 2015, approvasse finalmente un
chiaro programma di quantitative easing: sono stati acquistati centinaia di miliardi
di titoli di debito sovrano, abbassando quindi i livelli dei tassi di interesse sul debi-
to sovrano in difficoltà, per allinearli allo stato depresso delle economie periferiche.
La Banca centrale era obbligata a questa mossa perché incombeva il rischio della
deflazione: l’inflazione stava collassando quasi a zero e le previsioni sull’inflazione
stavano impazzendo sotto l’obiettivo del prezzo di stabilità che la Bce aveva fissato al
2% dell’inflazione. Lo scenario era mutato profondamente.
La Bce non poteva continuare a pretendere austerità fiscale in cambio di un alleg-
gerimento monetario e gli stati membri potevano – e la Bce chiese di farlo per com-
battere la deflazione – rovesciare le politiche fiscali basate sull’austerità in politiche
lievemente espansive. Di conseguenza, gli stati membri dell’euro hanno conosciuto
una piccola ripresa delle economie e del mercato del lavoro.
La storia della crisi dell’euro ci insegna che le decisioni economiche e sociali, in-
clusa la costruzione del quadro europeo della governance economica degli anni di au-
sterità dal 2010 al 2015, sono prese solo formalmente dai governi e dai politici. Dietro
i processi decisionali delle democrazie si nascondono le forze della governance finan-
ziaria che esercitano un potere di controllo anche sui governi democraticamente eletti.
È importante sottolineare che non stiamo parlando di mercati finanziari anonimi che
possono muoversi come locuste e spingere le economie in uno stato di equilibrio au-
INVERNO 2018/19
finanziaria
e le serie
televisive
paranormali
Come sono state messe in scena l’esplosione
della bolla immobiliare e le forze orrende
che l’hanno generata? Guida ragionata al collasso
attraverso i mutamenti dell’immaginario horror
INVERNO 2018/19
N. 1
118
ti in casa, a partire dai classici racconti di porte che si aprono e chiudono da sole, orme
prive di spiegazione e la saltuaria e terrificante apparizione di spettri. Di solito questi
racconti procedono verso un’escalation di aggressioni fisiche da parte di entità invisibili,
con la presenza di voci demoniache che ringhiano: «Vattene!».
N. 1
120
Negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta i fantasmi in televisione seguivano le regole
classiche. Gli spettri abitavano in case vecchie, nelle dimore signorili o in vetuste rovine. [...] Ma
nei primi anni Settanta si verificò un cambiamento curioso. I fantasmi si spostarono. Smisero di
infestare i vecchi castelli e le rovine e si trasferirono nelle case più ordinarie delle periferie. La bat-
taglia tra bene e male si spostava adesso nelle cucine e nelle camere di periferia, addirittura sugli
scalini della Gran Bretagna contemporanea.
Secondo Curtis la presenza dei fantasmi serve a rianimare vite banali e incolori con
un’ondata di eccitazione e una sensazione di maggiore rilevanza all’interno del mondo.
Scrive: «All’improvviso le periferie non sono più noiose. Diventano sinistre, misteriose,
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
epiche». Terrorizzati da fantasmi o addirittura – nei casi più estremi – da demoni, i di-
spossessati raggiungono cime di importanza cosmica. Se il diavolo sa il tuo nome, ti sei
guadagnato il riconoscimento di uno dei potenti del pianeta.
121
di persone ordinarie è rinforzata dal fatto di doversi mantenere con due impieghi. Arri-
vano al punto di dover letteralmente cambiare la segnaletica magnetica del loro furgone
alternando il lavoro diurno a quello notturno.
123
Minsky
Più che una teoria del collasso, per cogliere il significato
degli eventi del 2008 serve un pensiero del salvataggio.
Le analisi di Hyman Minsky, l’economista post-keynesiano
preferito tra i marxisti e apprezzato dagli investitori
D
opo averne vissuta una, rispetto agli anni precedenti il 2008 ora i
socialisti sembrano meno preoccupati dalla “crisi”. A quei tempi,
le teorie della stagnazione e della crisi erano una parte notevole
del repertorio economico marxiano. Eri un sostenitore della Scuo-
la della Monthly Review e della sua nozione di “problema cronico
di assorbimento del surplus”? Ti convinceva di più la storia di Ro-
Mike Beggs bert Brenner della “sovracompetizione che cresce a partire dalla
sovracapacità produttiva permanente della manifattura globale”?
Oppure tutto questo era soltanto revisionismo senza speranze di chi aveva abbandonato
la legge della “caduta tendenziale del saggio di profitto”?
Naturalmente, dopo averla sognata così a lungo i teorici della crisi erano pronti ad agire
quando la Lehman Brothers ha rotto il settimo sigillo e spalan-
cato la stretta porta. Quando tutto è crollato, ero alla sessione
plenaria di Historical Materialism 2008 a Bloomsbury, Londra. Mike Beggs è redattore
La «finanziarizzazione» era un mero sintomo morboso del de- di Jacobin Usa e
clino dei rendimenti, forse uno sfogo per la sovra-accumulazio- docente di economia
ne, e il mercato subprime era il suo ultimo disperato rifugio? politica all’Università
INVERNO 2018/19
Oppure la finanza era una sfera con una relativa autonomia in di Sidney.
cui nuove contraddizioni si stavano condensando? La traduzione
Qualcuno colse l’attimo per lanciare una frecciata agli scrit- dell’articolo è di Marie
tori marxisti Leo Panitch e Sam Gindin, che qualche anno pri- Moïse.
N. 1
126
Intanto, la stampa economica stava scoprendo il proprio teorico socialista della crisi:
Hyman P. Minsky.
Nel 2016 l’Economist incluse l’«ipotesi dell’instabilità finanziaria» di Minsky nell’e-
lenco delle sei teorie più influenti in economia, accanto al moltiplicatore keynesiano,
l’equilibrio di Nash, l’asimmetria informativa. Gli ideatori di questi concetti – eccetto il
moltiplicatore che è arrivato troppo presto – hanno ricevuto tutti il premio Nobel. Min-
sky era quello insolito, riconosciuto a malapena ai suoi tempi negli ambiti convenzionali
della propria disciplina. L’Economist
Economist constatò che prima della morte, nel 1996, lo avevano
menzionato solo una volta e in seguito solo di sfuggita. A partire dal 2007 il giornale aveva
recuperato, citandolo in più di trenta articoli.
Paul Krugman dichiarò che «Siamo tutti minskiniani ora», e coniò l’espressione «mo-
mento Minsky» in un articolo firmato insieme a Gauti Eggertsson. Janet Yellen, allora pre-
sidente della Federal Reserve Bank of San Francisco ma destinata a cose ben più grandi,
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
entrò alla 18th Annual Hyman P. Minsky Conference nel 2009 per presentare un articolo
– intitolato «un crollo Minsky: lezioni per banchieri centrali». Mervyn King e Mark Carney,
i successivi governatori della Banca d’Inghilterra, iniziarono a loro volta a citare Minsky.
127
della spesa privata indussero automaticamente delle leve fiscali compensative, anche senza
uno stimolo programmato e un deficit maggiore, furono iniettati dei Treasury bond [obbli-
gazioni statali statunitensi, ndt] in un sistema finanziario affamato di titoli sicuri. Quello che
Minsky definì «Grande Governo» agì da supporto per attenuare l’impatto di un’inflessione
degli investimenti sulle entrate, l’occupazione, i profitti, e i valori patrimoniali.
128
Ogni volta che la Federal Reserve tutela uno strumento finanziario, ne legittima l’uso per il fi-
nanziamento di attività. Questo significa che l’intervento della Federal Reserve non solo disinnesca
l’inizio di una crisi, ma prepara il terreno per una ripresa del processo di crescente indebitamento
– e consente l’introduzione di nuovi strumenti (Stabilizing an Unstable Economy, 1986, p. 106).
Così come la Teoria Generale di John Maynard Keynes fu influenzata dal periodo di
depressione in cui fu elaborata, anche l’«ipotesi di instabilità finanziaria» di Minsky fu
il risultato dell’inflazione degli anni Settanta e del mercato in ascesa degli anni Ottanta:
Quello con cui ci sembra di avere a che fare è un sistema che sostiene l’instabilità proprio
mentre impedisce la depressione del passato. Invece di crisi finanziarie e profonde depressioni
distanti tra loro decenni, si verificano minacce continue di crisi e di profonda depressione a di-
stanza di pochi anni l’una dall’altra; invece di un’effettiva depressione, ora abbiamo a che fare con
un’inflazione cronica (Stabilizing an Unstable Economy, 1986, p. 106).
L’inflazione dei prezzi non era più cronica ai tempi in cui Minsky scrisse queste parole,
e non lo è più da allora. La debolezza del lavoro (della pressione salariale) eliminò la parte
di inflazione dovuta ai salari all’interno del ciclo economico, con il supporto della strate-
gia delle politiche macro-economiche, studiate affinché partissero scioperi preventivi al
primo segno di rigidità del mercato del lavoro. Ma l’inflazione dei prezzi delle attività non
è mai finita. Ora la teoria di Minsky regge di più se inserita in una spiegazione del lungo
trend ascendente del valore del capitale proprio e dei prezzi dei beni immobiliari che si
è delineato a partire dagli anni Ottanta, con un passo all’indietro ogni due passi avanti.
Minsky riesce a dare spiegazione sia del Greenspan put (provvedimento di politica mone-
taria che permetteva ai detentori di titoli di venderli a terzi in qualsiasi circostanza a un
prezzo prefissato) sia del nuovo ruolo della Federal Reserve nei termini di «operatore di
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
mercato di ultima istanza» come l’ha definita Perry Mehrling dopo il 2008.
Chiunque abbia letto con attenzione la loro interpretazione di Minsky non resterebbe
sorpreso nel leggere nel 2018 le prime pagine dei giornali che sostengono il «ritorno del-
le obbligazioni garantite», e che i titoli di credito sono «troppo attrattivi per essere igno-
rati», o che «il mutuo subprime è tornato sul mercato e ha un nome nuovo di zecca». E
non sarebbe una sorpresa nemmeno sentire che il «sistema bancario ombra» godrebbe
di ottima salute, come sostiene Daniela Gabor. Da una prospettiva minskiana, il periodo
successivo al 2008 è il ripetersi della storia di cui Minsky aveva parlato. È la traiettoria di
molti strumenti, istituzioni e mercati dall’innovazione alla crisi e al salvataggio fino alla
ricostruzione come parte della fornitura finanziaria. Una volta era il mercato dei fondi
129
Minsky il socialista
cago e nei movimenti socialisti. I due si incontrarono per la prima volta alla festa del Socialist
Party per il centenario della nascita di Karl Marx, nel 1918. Hyman nacque l’anno seguente.
Vent’anni più tardi, Minsky era uno studente dell’Università di Chicago, infelice di spe-
cializzarsi in matematica e fisica, e che dedicava la maggior parte delle sue energie alla
politica. Partecipava anche lui alle riunioni del Socialist Party e fu proprio lì che incontrò
l’economista polacco Oskar Lange, chiamato a tenere un ciclo di lezioni per il Partito in
N. 1
tro i due autori austriaci. Questi avevano nuirebbero i prezzi secondo il rapporto tra domanda e
ragione a sostenere che i prezzi fossero offerta. Il banditore d’asta immaginario dell’equilibrio
necessari, ma torto sul fatto che questo ri- economico generale di Walras – una descrizione dei
processi di mercato reale completamente irrealistica –
diventerebbe reale.
Per Lange, la pianificazione e i mercati non erano in
antitesi. I mercati sarebbero stati uno strumento per
implementare i piani, trasmettendo informazioni e or-
ganizzando incentivi. I beni di consumo e il mercato del
lavoro potrebbero restare, in quanto modo più funziona-
131
Lange sosteneva che nella società capitalista l’ineguaglianza e il potere del mercato
impedivano al meccanismo del prezzo di fare il suo lavoro – ovvero organizzare la pro-
duzione nel presente, per fare il miglior uso delle risorse e andare incontro ai bisogni e
ai desideri in maniera corretta ed efficiente. Keynes sosteneva che in particolare avesse
fallito il meccanismo del tasso di interesse nel suo compito di programmare nel tempo,
per poter fare un uso pieno delle risorse nel presente e provvedere in simultanea ai con-
INVERNO 2018/19
sumi desiderati nel futuro. Il cuore di Teoria generale è che il tasso di interesse non porti
a un equilibrio tra i risparmi desiderati e gli investimenti desiderati. Esso infatti non
coordina le preferenze delle persone sulle tempistiche dei consumi e gli investimenti
per provvedervi. Il tasso di interesse è un fenomeno monetario, determinato sui mercati
finanziari. Non è veicolo di provvidenza ma semplicemente riflette gli esiti delle tran-
sazioni tra persone con prospettive incerte rispetto a un futuro incerto, motivate dalla
N. 1
speranza di guadagnare e dalla paura di perdere. Per l’intera comunità, risparmiare non
significa provvedere per il futuro, ma astenersi dal consumo nel presente; l’aumento di
risparmi di una persona corrisponde al declino delle entrate di un’altra. Sono gli inve-
stimenti che provvedono al futuro e questo dipende non dal risparmio, ma dalle pro-
spettive di redditività futura, relativa ai tassi di interesse. Le imprese non hanno bisogno
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fine sarebbero state soddisfatte delle merci, richieda innanzitutto limitazioni alla crescita dei bisogni
per lo meno delle merci prodotte con inve- relativi, e tale crescita richiede una distribuzione delle en-
stimenti sostanziali di capitali. Sbagliava nel trate basata su uno scarso o nullo rendimento derivante
dalla ricchezza posseduta, per esempio l’eutanasia pre-
ventiva di chi vive di rendita».
Lo stesso Keynes diede seguito alla sua chiamata alla
«socializzazione relativamente estesa degli investimenti»,
affermando che «non è la proprietà privata dei mezzi di
produzione che deve assumere lo stato», ma era sufficien-
te «determinare l’ammontare complessivo delle risorse
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Le sue proposte allora puntano al problema della stabilità. Una volta risolto questo, «tale
programma economico è il migliore per minimizzare l’ineguaglianza» – ma l’ordine è chiaro.
L’espansione del consumo collettivo è interamente ritirata. Minsky sostiene quello che de-
finisce «il Grande Governo» innanzitutto in quanto forza di stabilizzazione macroeconomica.
Gli stanziamenti federali dovrebbero almeno essere dello stesso ordine di grandezza degli in-
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Se la disoccupazione aumenta poiché i salari del settore privato vengono aumentati per la pressione
del sindacato, allora aumenterà l’offerta di lavoratori per [il programma di granzia occupazionale] […]
Se il salario del […] programma di occupazione resta immobile, tuttavia, l’aumento dei salari del setto-
re privato ha più probabilità di essere annullato dalla competizione del mercato.
Nel 1975, Minsky aveva criticato il fatto che la teoria keynesiana del dopoguerra si ba-
sasse sul sovvenzionare i profitti e sul garantir loro un livello minimo – «il socialismo per
i ricchi» – e propose un’alternativa «in cui i settori chiave sono socializzati, in cui il con-
sumo comunitario soddisfa un’ampia proporzione di bisogni privati, e la tassazione delle
entrate e della ricchezza è destinata a ridurre l’ineguaglianza». Queste proposte non erano
solo positive in sé, ma aiutavano a far fronte al problema dell’instabilità del capitalismo,
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
che chiamava alla «riduzione della dipendenza del sistema dagli investimenti privati».
Il piano del 1986 va nella direzione opposta: la stabilità significa soltanto supportare la
profittabilità per sostenere il consumo privato. «Una volta ottenuta una struttura istitu-
zionale in cui gli incrementi esponenziali della piena occupazione sono vincolati anche
quando i profitti sono stabilizzati, allora i dettagli dell’economia possono essere lasciati
ai processi di mercato».
Questo è molto più Keynes che Lange.
Gli ideali di Minsky di un tempo sono ancora presenti nei principi generali della sua
teoria: Minsky fa ancora appello al «controllo pubblico, di una proprietà pubblica non
totale della produzione a capitale intensivo su larga scala».
135
essere stabilizzante.
Prevedere la prossima crisi non è una strategia per i socialisti perché il socialismo non
è semplicemente l’assenza del capitalismo. Non è come se il capitalismo fosse semplice-
mente un involucro che deve soltanto rompersi e svanire per rivelare un nuovo modo di
produzione già pronto. Il socialismo subentrerà solo quando le persone saranno convinte
136
Un sistema economico basato sull’impresa privata e sulla proprietà privata dei mezzi di produ-
zione può lavorare solo fino a quando sarà garantita la sicurezza della proprietà privata e delle entra-
te derivate dalla proprietà e dall’impresa […]. Se il governo socialista socializza le miniere di carbone
oggi e dichiara che l’industria tessile sarà socializzata tra cinque anni, possiamo essere abbastanza
certi che l’industria tessile sarà rovinata prima di essere socializzata [...]. Quindi, è difficile che una
programma complessivo di socializzazioni possa essere raggiunto per fasi progressive. […] Ogni esi-
tazione, ogni vacillamento e indecisione provoca l’invitabile catastrofe economica.
Questo è il gran paradosso della strategia socialista, che nessuno è riuscito ancora a
risolvere: i suoi programmi compromettono le basi per un sistema presente prima che si
possa costruire il sistema successivo. La vera debolezza che rende il capitalismo propenso
alla crisi gli conferisce un’eccellente difesa dagli attacchi politici.
Minsky ha ereditato dai socialisti di mercato e da Keynes un programma politico su tre
assi fondamentali: eguaglianza, ampliamento dei servizi pubblici e stabilità. Quando è
arrivato il momento critico negli anni Ottanta, si è trovato a sacrificare i primi due obiet-
tivi in virtù di un’attenzione esclusiva al terzo. Non fu un fallimento personale; Minsky
lesse sicuramente in modo corretto il vento della politica e ne concluse che non ci fosse
alcuna via percorribile per una «socializzazione relativamente estesa degli investimenti».
VIVERE IN UN PAESE SENZA SINISTRA
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N° 1 / INVERNO 2018/2019
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