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194198
Quanto accaduto nelle valli dell’Isonzo, nei pressi di Caporetto, a partire dal 24 ottobre 1917,
rappresenta uno dei momenti più intensi e tragici della storia italiana: il violento assalto
dell’esercito austro-ungarico e tedesco costrinse le truppe italiane, impreparate, a una repentina
e drammatica ritirata, che si risolse in qualche giorno in una disfatta umiliante, capace di
incidere fortemente sul futuro del Paese in moltissimi contesti e non soltanto in quello bellico-
militare. Questo breve testo si propone di analizzare i principali risvolti della sconfitta studiando
come essa fu letta, analizzata e interpretata non dalle alte gerarchie dell’esercito ma
dall’opinione pubblica e dalla politica, cercando di scoprire se e quanto la mediatizzazione
dell’evento abbia influito su come esso fu presentato e concepito.
La notte tra il 24 e il 25 ottobre 1917 l’esercito austro-tedesco agli ordini del generale Von
Below sfonda efficacemente e repentinamente le linee difensive italiane all’altezza di Caporetto:
darsi una spiegazione di un simile livello di impreparazione delle truppe italiane è già un
compito più che arduo. Ciò che in primis si genera, dal punto di vista sicuramente militare, ma
anche da quello comunicativo, che ora interessa di più, è una grandissima confusione: dopo
mesi di stasi bellica e immobilità quasi totale, di colpo in una notte ogni cosa è stravolta,
l’effetto sorpresa è così importante che di fatto tutte le comunicazioni con il fronte sono
sospese, interrotte: da quella notte per qualche giorno, eccezion fatta per i quotidiani - e
immotivatamente rassicuranti – dispacci ufficiali che erano pubblicati sulle principali testate,
l’opinione pubblica, così come più generalmente tutta la popolazione italiana che, ognuno nella
propria casa, attendeva notizie dalle trincee, è costretta a navigare a vista. In questo improvviso
stato d’eccezione iniziano a circolare insistentemente voci sempre più clamorose, tra i soldati al
fronte e anche tra i civili a casa, tutte con l’obiettivo di giustificare, in un modo o nell’altro, la
clamorosa ritirata: si parla di un complotto frutto del tradimento degli altri gradi dell’esercito
italiano; di un suicidio del generale Cadorna che aveva lasciato senza guida i militari italiani;
della fuga del re e addirittura dello scoppio di una rivoluzione a Roma.1 Cadorna certo non si
era tolto la vita, anzi continuava in prima persona a cercare di fornire un immagine il più
possibile positiva di quanto stava accadendo sul Carso: nei quotidiani dispacci inviati alle
redazioni giornalistiche si legge ogni giorno il tentativo di proporre un successo, per quanto
parziale, conseguito dalle truppe italiane. Lo spirito dei comunicati ufficiali però si degraderà
ben presto, anche inevitabilmente, con il passare dei giorni: se all’indomani dell’attacco si dice
che “l’urto nemico ci trova ben saldi e preparati”2, già due giorni dopo nei bollettini si annuncia
la ritirata e lo sfondamento compiuto da parte delle truppe nemiche, potendo gioire soltanto
per qualche velivolo straniero abbattuto o, addirittura, costretto ad atterrare. 3 La retorica,
perché così è giusto definire il tenore di tali bollettini, adottata dagli alti ranghi dell’esercito nelle
1 A. Gibelli, La Grande Guerra degli italiani. 1915-1918; Rizzoli, Milano 1998. Pag. 255
2 Comunicato Ufficiale da La Stampa, 25.10.1917. Consultato attraverso l’Archivio online del quotidiano.
3 Comunicato Ufficiale da La Stampa, 27.10.1917. op. cit.
sparute comunicazioni alla società civile non può che assestarsi su un timido elogio della
resistenza, della tenacia delle truppe italiane: il 29 ottobre arriva la notizia del definitivo ingresso
delle truppe austro-tedesche entro i confini italiani, Cadorna questa volta non può nascondersi
ed è costretto ad ammettere chiaramente la sconfitta: “Gli sforzi valorosi delle altre truppe non
sono riusciti ad impedire all’avversario di penetrare nel sacro suolo della Patria”, il bollettino è
accompagnato, sempre su La Stampa, in prima pagina da un editoriale il cui titolo suona come
un solenne grido di disperazione: “Patria!”. 4 I tre esempi appena citati dovrebbero essere utili a
descrivere efficacemente la situazione, ove da un lato regnano sconforto e confusione,
essendosi rotto il filo diretto che legava il fronte alla società civile, e dall’altro invece i bollettini
ufficiali cercano, dopo un vano tentativo di minimizzare l’accaduto, di descrivere l’eroismo dei
soldati italiani, atti a resistere all’attacco del nemico invasore. Se gran parte delle supposizioni
che circolavano tra i militari erano false, certo del tutto veritiere non erano nemmeno le poche
parole di Cadorna, dato che – quantomeno in un primo momento – la ritirata delle truppe
italiane fu tutto fuorché organizzata e ordinata: l’obiettivo ovvio degli alti ranghi dell’esercito è
quello di raffreddare gli animi, tranquillizzare la popolazione mentre incessantemente si cerca
una giustificazione e soprattutto un colpevole per quanto accaduto.
ibidem
9 N. Labanca, Caporetto. Storia di una disfatta, Giunti, Firenze 1997. Pag. 52
hanno disarmato, alla propaganda socialista, all’azione del clero nelle campagne e al colpo di
grazia infertoci dall’enciclica del papa, allo spionaggio organizzato dai tedeschi e dai tedescofili, e
soprattutto alla debolezza del ministero che in nome a una forma astratta di libertà adottata per
mero opportunismo di politica parlamentare, ha lasciato a tutte quelle forze ostili alla guerra la
via libera per arrivare a poco a poco dall’interno del paese, dagli opifici, dalle case dei contadini
alle trincee […], dividendo l’esercito in una parte che vuole la guerra e si batte e in una parte
che non vuole la guerra e getta le armi”.10 Le parole di De Viti De Marco sono utili a riassumere
quanto detto in questo paragrafo: oltre alla responsabilità immediatamente addossate a
Cadorna, il fronte interventista nel cercare un colpevole della disfatta di Caporetto individuò di
fatto due responsabili a capo dei neutralisti, da un lato cioè il clero,attivo sia attraverso preti e
curati nelle campagne e nei piccoli borghi, sia al suo vertice tramite l’accusa di “inutile strage”
proferita da Benedetto XV; e dall’altro i socialisti, colpevoli di aver organizzato una campagna
disfattista in grado di convincere i soldati al fronte ad abbandonare le armi.
Certo, al netto della propaganda disfattista – il cui ruolo rispetto al comportamento dei soldati
al fronte è tutt’ora ambiguo –, l’attribuzione di molte responsabilità agli stessi militari
rappresentava per chi cercava a tutti i costi un colpevole un’occasione alquanto facile per
risolvere almeno in parte la propria questione. Tuttavia l’idea che i soldati potessero essersi in
massa ribellati ai comandi dei propri maggiori divenne ben presto fondamentale per un
atteggiamento del tutto opposto, ovvero il mito dell’ammutinamento e della rivoluzione al
fronte, figlio del contemporaneo ottobre russo e di un clima di agitazioni popolari che, Torino
in primis, da mesi coinvolgeva il Paese. La rilettura in chiave rivoluzionaria della disfatta di
Caporetto ebbe in realtà maggiore fortuna dopo la guerra, quando mentre la società cercava
disperatamente un nuovo assetto per rinascere dalle macerie, l’opinione pubblica comunista
ritenne funzionale provare l’esistenza di una lotta di classe già tra le trincee. In questo clima e
con questo scopo si sviluppa, per esempio, l’opera del polemista e scrittore Curzio Malaparte
(all’anagrafe Kurt Erich Suckert), che nel saggio La rivolta dei santi maledetti, edito nel 1921, esaltò
una fantomatica, e di fatto mai in questi termini verificatasi, rivolta proletaria delle truppe di
fanteria – appunto i “santi maledetti”, ossimoro che li descrive come innocenti ma condannati
– che a Caporetto, seppur in maniera ancora non organizzata e del tutto embrionale, avevano
inaugurato una nuova stagione rivoluzionaria in Italia, volgendo le armi contro i loro generali. 11
In realtà la retorica di Malaparte si dimostrò del tutto infondata e forse anche inopportuna,
poiché la descrizione fornita da storici e testimoni, quindi anche i militari stessi, della rotta di
Caporetto è ben lontana da un’anche incipiente e mal congeniata lotta di classe, e assomiglia
piuttosto, come è più logico, a una confusa ondata di individui dispersi e disperati, che di una
guerra logorante erano soltanto vittime (“cenci di uomini, che sbucavano dalla campagna
dinoccolati, melliflui e sciolti, ombre fuggitive di una viltà spaventevole” ricorda lo scrittore, ma
10 A. De Viti De Marco, “Crisi superata” da “L’Unità”, 29 novembre 1917; in A. Gibelli, op. cit., pagg. 267-268
11 A. Gibelli, op. cit., pag. 268
prima ancora testimone della ritirata Carlo Betocchi12). Non fu però soltanto Malaparte a
interpretare la disfatta di Caporetto come segnale rivoluzionario, nel corso degli anni ’20, infatti,
diverse personalità politiche di area comunista in Italia si esposero in termini analoghi,
connettendo cioè il comportamento dell’esercito sul Carso con i fatti di Torino e,
inevitabilmente, con l’ottobre sovietico: il dirigente comunista Ruggero Grieco nel 1927 scrisse
un articolo non a caso intitolato “Le ripercussioni della rivoluzione russa in Italia” per la rivista
fondata da Togliatti “Lo Stato Operaio”, affermando che “l’agosto torinese del ’17 dice che il
proletariato aveva talora dal suo istinto di classe la direzione della lotta, l’indicazione del
bersaglio da colpire. […] I fatti di Torino giunsero al fronte e lievitarono Caporetto. […]
Caporetto è stata un’insurrezione del popolo che non riuscì a trovare il modo di raggiungere e
di spezzare lo stato”.13 Per la propaganda e la retorica comunista post-bellica, dunque,
Caporetto non rappresentava soltanto una disfatta militare, ma soprattutto un eroico e glorioso
atto di rivolta dei soldati – immagine del proletariato – contro i generali, figurativamente qui
intesi come loro padroni; questa interpretazione, come già evidenziato, è stata del tutto smentita
dai fatti, sia nello specifico dal fatto che la dispersione dei militari fu conseguenza della disfatta,
e certo non la causò, sia poiché questa eventuale rivolta non ebbe, proprio per il fatto che mai si
verificò nei termini proposti qui da Malaparte e da Grieco, alcuna rilevante conseguenza
sull’assetto politico e sociale del Paese nel lungo termine.
L’interpretazione che, per ovvie ragioni, ebbe più successo nell’opinione pubblica italiana
riguardo ai fatti di Caporetto fu quella maturata nel dopoguerra dal fascismo, che riteneva
l’evento non una disfatta quanto una “fisiologica” battuta d’arresto necessaria, entro una sorta
di disegno del destino, a quel percorso trionfale culminato nel decisivo successo di Vittorio
Veneto. Vista nel suo complesso, e con il senno di poi, la sconfitta sul Carso si può già di per sé
– al netto cioè della faziosa interpretazione fornita dal Ventennio – ritenere come quello che
alcuni studiosi hanno definito un “doppio miracolo”: dal punto di vista militare poiché aprì alla
disperata, ma efficace, resistenza sul Piave dell’esercito italiano; ma anche da quello sociale
poiché, mutando la guerra da offensiva a dichiaratamente difensiva (l’esercito austro-tedesco
superato l’Isonzo passo all’attacco sui confini italiani), convinse quantomeno una parte della
popolazione italiana che, per quanto deprecabile, il conflitto era a quel punto in tutto e per tutto
da sostenere per la salvezza della nazione. 14 A partire anche da questo dato di fatto nel primo
dopoguerra si svolse la rivisitazione totale in chiave positiva dei fatti di Caporetto sotto l’attenta
regia di Mussolini: già nel 1924, un anno certo non facile per il regime che si trovava a
fronteggiare l’assassinio di Matteotti e la conseguente sua svolta fascistissima, il duce decise di
nominare contemporaneamente e congiuntamente “marescialli d’Italia” i generali Cadorna e
Conclusioni
Antonio Gibelli, La Grande Guerra degli italiani. 1915-1918. Rizzoli, Milano 1998
Benedetto XV, Lettera del Santo Padre Benedetto XV ai capi dei popoli belligeranti.
Vaticano 1917