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2 Aree 5
2.1 Aree e derivate. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
2.2 Digressione sul numero π . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10
1
Per chi abbia un minimo di interesse in questioni tecniche o scientifiche, il punto
di partenza della trigonometria non dovrebbe essere così repulsivo. Sintetizzando, il
problema base è questo: dato un triangolo rettangolo, se conosco 2 lati, ho un metodo
per calcolare il terzo (il teorema di Pitagora). Ma se volessi conoscere gli angoli? O
viceversa, se conosco un lato e un angolo, come calcolare gli altri lati (in questo caso il
calcolo degli angoli è banale, perché uno è retto e il terzo si ottiene dal teorema sulla
somma degli angoli interni di un triangolo)?
Problemi di questo tipo sono molto naturali, e anche applicativi. Uno degli autori
ricorda di averli incontrati nella prima infanzia, quando leggendo Topolino ha seguito
le vicende di Qui Quo e Qua che, trovandosi davanti ad un fiume che non potevano
attraversare, avevano bisogno di conoscerne la larghezza. Ovviamente la soluzione era
nel manuale delle Giovani Marmotte, che suggeriva di tracciare sulla riva del fiume un
segmento di retta di una certa lunghezza, e poi puntare un albero al di là del fiume dai
due estremi del segmento, misurando in pratica due angoli. A questo punto si è in un
classico problema trigonometrico: dati di un triangolo un lato e i due angoli adiacenti,
come trovarne l’altezza? La soluzione suggerita dal manuale delle Giovani Marmotte era:
fare un disegno in scala ridotta del triangolo su un foglio, cioè in pratica rappresentare
il lato (diciamo di 10 metri) con un tratto di 10 cm., riportare i due angoli, misurare
l’altezza del triangolo ottenuto (che sarà di qualche centimetro), moltiplicare l’altezza
per 100, ottenendo così la vera larghezza del fiume.
Una soluzione grafica di questo tipo è certamente corretta, ma ha qualche difetto: è
lenta, probabilmente non molto precisa, e soprattutto non si presta ad una automatiz-
zazione: oggi il problema della triangolazione di Qui Quo Qua è continuamente risolto,
quasi senza rendersene conto, dai misuratori di terreni, dai geografi, dai geometri, nel
senso che lo strumento che misura gli angoli (teodolite) provvede direttamente a fornire
anche le distanze richieste e vari altri dati. Evidentemente esso non disegna una figura,
ma fa un calcolo numerico, usando tecniche sviluppate dalla trigonometria.
A proposito della naturalezza dei problemi trigonometrici, aggiungiamo ancora un
ricordo personale dello stesso autore:
“mentre si era in vacanza in un fiordo dell’Islanda, il figlio, studente del primo anno
di liceo scientifico, fece questa domanda: papà, a scuola mi hanno afflitto per un anno
con proprietà varie geometriche, ma non mi hanno spiegato come si fa a calcolare il terzo
lato di un triangolo quando se ne conoscono gli altri due e l’angolo compreso: si può?
Fu necessario improvvisare un corso di trigonometria di 1 ora, oltre naturalmente ad
anticipare al ragazzo le future sofferenze che gli sarebbero state inflitte sull’argomento.”
In sostanza, ogni trattazione di trigonometria dovrebbe partire facendo almeno capire
quale è il problema a cui ci si dedica, che, schematizzando e semplificando, può essere
questo:
dato un triangolo rettangolo, di cui si conosce l’ipotenusa e un angolo acuto, come
calcolare i due cateti del triangolo, con metodi numerici? L’espressione “con metodi
numerici ”, è importante perché se si ammettono metodi grafici il problema non esiste,
la sua soluzione è sul manuale delle Giovani Marmotte.
Abbiamo qualche dubbio sul fatto che i testi di liceo e molti insegnanti comincino
2
almeno mettendo in chiara luce questo punto di partenza, e questa è la prima critica
all’insegnamento tradizionale della trigonometria.
Ma adesso vediamo altri difetti della trattazione abituale. Anzitutto non si fa no-
tare, come sarebbe essenziale, che il problema posto è difficilissimo, assolutamente non
paragonabile ad altri sui triangoli che sembrerebbero simili: ad esempio, dati l’ipotenu-
sa e un cateto, trovare l’altro, che è risolto semplicemente (si fa per dire) dal Teorema
di Pitagora, che porta ad un calcolo in cui si richiedono quadrati di numeri, differenza
e estrazione di radice quadrata, tutte operazioni aritmetiche che in questa trattazione
consideriamo note (si veda la prima parte di questa trattazione [1]). Chi conosce già la
soluzione del problema trigonometrico sa che invece si devono introdurre funzioni piú
sofisticate (non per nulla dette trascendenti), ma probabilmente, se non ha una specifica
preparazione matematica, non sa come si calcolano.
La trattazione abituale della trigonometria si riferisce, per ovvia semplicità, ad un
triangolo rettangolo di ipotenusa lunga 1, e introduce appunto due funzioni dell’angolo
e cioè:
• sin α = la lunghezza del cateto opposto all’angolo α
3
come se lo studente avesse bisogno di conoscere continuamente migliaia di valori della
funzione seno, e con la precisione di 10 cifre decimali. Si ignorava del tutto la vera que-
stione che si porrebbe qualunque persona di buon senso: come sono stati trovati quei
valori?
Oggi crediamo che la situazione sia cambiata. La rivoluzione informatica ha spazzato
via le famigerate tabelle, sostituendole con l’uso delle calcolatrici o dei programmi. Ma
si continua ad ignorare la questione fondamentale: come lavorano le calcolatrici e i
programmi per produrre quei valori?
Questo modo di procedere è particolarmente nefasto, perché tende a trasmettere
l’idea che la matematica (o la scienza in genere) sia qualche cosa di riservato a dei guru
che con metodi imperscrutabili generano risultati a cui noi non possiamo che inchinarci
(o piú spesso ignorarli, con la scusa non ne capisco niente). Al contrario, è certamente
vero che le grandi scoperte sono state fatte da menti superiori, e spesso si resta stupiti
davanti alla potenza di un’intuizione, ma è altrettanto vero che la verifica o lettura di
qualsiasi argomento deve, o dovrebbe, essere alla portata di tutti. In sostanza, non mi
si può chiedere di credere ad una tabella o a una calcolatrice, se non mi si dà almeno
un’idea di ciò che c’è sotto.
Nel caso del calcolo delle funzioni trigonometriche, ciò che c’è sotto non è affatto
semplice, almeno a livello scuole medie superiori, ed è particolarmente grave, diremmo
addirittura disonesto, nasconderlo e coprirlo con tecnicismi.
Esistono punti piú specifici in cui la trattazione ordinaria della trigonometria appare
difficilmente accettabile.
Abbiamo ricordato che il punto di partenza è la definizione del seno e del coseno di
un angolo come lunghezze dei cateti di un triangolo rettangolo con ipotenusa lunga 1 e
un angolo pari a quello assegnato.
Tale definizione è geometrica, e si appoggia su una notevole quantità di concetti
geometrici:
• Misura di segmenti
• Misura di angoli
• Concetto di angolo retto e triangolo rettangolo
• Concetti di adiacenza fra angoli e lati.
È molto ottimistico pensare che tali concetti siano stati sviluppati correttamente
prima di affrontare la trigonometria, anche perché la loro precisazione non è affatto
semplice, si richiederebbe una trattazione seria della geometria.
Nel prossimo capitolo si accenna a vari possibili approcci geometrici, con i loro difetti.
Ma anche supposto che fosse disponibile una trattazione seria della geometria, sareb-
be comunque poco soddisfacente il far dipendere in modo essenziale la definizione delle
funzioni trigonometriche (che sono funzioni da numeri reali a numeri reali) da tutto
l’apparato della geometria.
Crediamo che anche molti laureati in matematica abbiano solo la visione delle funzio-
ni trigonometriche come derivanti da considerazioni geometriche: se non fossero troppo
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condizionati dall’insegnamento ricevuto, dovrebbero notare con disagio la forte differen-
za fra una funzione come l’esponenziale, che è definita parlando solo di numeri (si veda
[1]) e la funzione seno, che è introdotta attraverso la geometria. Questo ha un riflesso
quando si cerca di calcolarne la derivata, cioè in pratica il limx→0 sinx
x
: ci si riesce solo
attraverso limitazioni a carattere geometrico, in genere date per ovvie, sui valori che il
seno di un angolo può avere rispetto ai valori dell’angolo stesso, purchè per questi ultimi
si usi una speciale unità di misura, il radiante. Anche questo punto è discusso piú a
fondo nel prossimo capitolo.
Non vogliamo affatto affermare che tutte le pecche elencate non possano essere su-
perate, ma che questo non è abitualmente fatto, e non può essere fatto senza un serio
studio della geometria piana. Ma anche se fosse fatto, resterebbe sempre l’obiezione ma
perché devo introdurre tanta geometria per riuscire a dire cosa intendo per sinx, cioè
per definire una funzione da numeri a numeri?
Anche per motivi di economia intellettuale, si sentirebbe fortemente il bisogno di
una trattazione delle funzioni trigonometriche che non esca dall’ambiente aritmetico,
vedendo poi gli aspetti geometrici come un possibile campo applicativo, non come cuore
dell’argomento.
Probabilmente non tutti, anche fra i matematici, sanno che una trattazione di tal
genere è possibile, e anche abbastanza semplice per chi conosce qualche strumento di
analisi matematica. A livello liceale probabilmente questo non è completamente vero,
però è possibile anticipare gli strumenti necessari, che sono abbastanza naturali, e poi
procedere correttamente. Si possono poi trovare vari compromessi fra economia nell’u-
so di strumenti matematici piú avanzati e naturalezza della deduzione. In ogni caso,
le trattazioni numeriche della trigonometria forniscono anche la risposta naturale alla
domanda centrale come si calcolano le funzioni trigonometriche?.
Nel seguito di questo articolo si esaminano quattro possibili trattazioni, tutte ragio-
nevolmente accettabili. Le prime due, basate sulle serie o sulle equazioni differenziali,
richiedono maggiori conoscenze preliminari di analisi matematica, e sono molto naturali,
mentre la terza e la quarta, basate sul concetto di integrale, richiedono solo conoscenze
minime di analisi matematica, con il prezzo di essere un po’ piú faticose e tecniche per
quanto riguarda argomenti delicati come la periodicità.
Per quanto riguarda la trattazione a partire dall’equazione differenziale y 00 + y = 0,
dobbiamo ringraziare il professor Paolo Tilli del Politecnico di Torino per averci suggerito
un elegante ragionamento.
2 Aree
Qui si dettagliano maggiormente i problemi citati nell’introduzione sulla tratttazione
tradizionale della trigonometria basata su concetti geometrici, fra cui essenziali sono
l’area del cerchio e la lunghezza della circonferenza o di un suo arco.
Tutti sanno che l’area della regione piana interna a una circonferenza di raggio r
vale πr2 . Peccato che non si sappia che cosa sia π e nemmeno che cosa sia l’area. Il
concetto di area è in realtà ben noto per regioni del piano interne a un quadrato di lato
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l, un rettangolo di lati a,b, un triangolo di base b e altezza h (rispettivamente l2 , ab).
In realtà i due numeri l2 , ab sono chiamati aree (del quadrato, del rettangolo) perché
hanno proprietà che tutti pensano di dover attribuire alle aree delle figure piane. Per
esempio, se raddoppio il lato di un quadrato, la sua area quadruplica, e questo fatto
si può toccare con mano prendendo un quadrato di lato 1 e poi un quadrato di lato 2,
che contiene esattamente 4 quadrati di lato 1. Si può anche verificare direttamente che
un quadrato di lato 2 e un rettangolo di lati 1 e 4 possono essere riempiti con lo stesso
numero di quadrati di lato 1, cioè 4.
Queste aree, o magari solo quelle dei rettangoli, possono essere considerate come
punto di partenza per arrivare in varie tappe alle aree di figure piane complesse (l’interno
di un cerchio, o la regione al di sotto di una parabola, ad esempio).
Diciamo quindi che noi accettiamo come assioma che l’area di un rettangolo di lati
a e b sia pari al numero ab. Come facciamo a passare all’area delimitata da un bordo
diverso dai quattro lati del rettangolo? Già il triangolo richiede qualche considerazione,
sia pure abbastanza semplice. Sia dato ad esempio un triangolo ABC, avente base AB
di lunghezza b e altezza CH di lunghezza h, come in figura 1. Il triangolo può essere
inserito nel rettangolo ABDE, che ha la stessa base e la stessa altezza del triangolo
e area bh. Si noti che, grazie a un ben noto criterio di eguaglianza, il triangolo BDC
è eguale al triangolo CHB e che il triangolo AEC è eguale al triangolo ACH. Ora
ammettiamo che
• una figura formata da due (o piú) triangoli, che abbiano in comune al massimo
lati e vertici ma non punti interni, abbia come area la somma delle aree delle sue
parti.
Possiamo quindi osservare che il triangolo ABC ha la stessa area della figura formata
da AEC e da BDC, mentre i tre triangoli insieme formano il rettangolo ABDE. Quindi
si ottiene:
area del rettangolo = bh = doppio dell’area di ABC, che vale quindi bh 2
.
Non è difficile estendere questo ragionamento ai poligoni, che possono essere suddivisi
in triangoli aventi a due a due solo lati o vertici in comune.
Se passiamo a regioni piane che hanno contorno non rettilineo le cose si complicano.
In effetti è impossibile ripetere il ragionamento fatto per i triangoli, e valido ovviamente
anche per i poligoni, in quanto non si può riempire la regione con rettangoli, o triangoli,
e nemmeno si può aggiungere qualche rettangolo o triangolo per ottenere un rettangolo.
Consideriamo ad esempio un quarto della regione interna alla circonferenza di raggio
1, delimitata da un quarto di circonferenza e da due raggi perpendicolari fra loro, diciamo
uno orizzontale OP e uno verticale OQ.
Come si può calcolarne l’area? Prima di tutto occorre chiarire che cosa si intende
per area, visto che noi abbiamo a disposizione solo i rettangoli (ed eventualmente i
triangoli). Cominciamo con la seguente costruzione (figura 2):
• dividiamo il raggio orizzontale OP in due parti eguali mediante il punto medio M
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• alziamo da M la perpendicolare a OP fino a incontrare il quarto di circonferenza
in N
• il rettangolo che ha come base OM e altezza M N , che ha area metà della lunghezza
di M N
La somma delle loro aree non supera quella della nostra figura. Quindi, detta P
l’area della nostra figura, avremo:
1 1 1
M N ≤ P ≤ + M N.
2 2 2
Occorre a questo punto osservare che abbiamo cominciato a parlare di area P senza
avere in realtà definito il concetto di area. Sarebbe piú appropriato e corretto dire che,
qualunque sia la definizione di area che vorremo considerare, questa dovrà rispettare le
due diseguaglianze.
Il passo successivo sarà la suddivisione del segmento OP in tre parti eguali, con la
costruzione dei tre rettangoli interni e dei tre rettangoli esterni che si vedono nella figura
figura 3. La nostra area dovrà quindi rispettare le due diseguaglianze:
somma delle aree dei tre rettangoli interni ≤ P ≤ somma delle aree dei tre rettangoli
esterni.
Passeremo poi a una suddivisione in quattro, cinque , ..., n parti eguali, ottenendo
analoghe diseguaglianze.
Si noti che stiamo costruendo due insiemi di numeri reali:
7
La nostra area soddisferà alle diseguaglianze: a ≤ P ≤ b dove a è un qualsiasi
elemento di A e b un qualsiasi elemento di B.
Se per caso A e B sono classi contigue, allora il numero P resta perfettamente
individuato e possiamo decidere di chiamare area proprio un tale P .
È piuttosto evidente che ogni area a è minore di ogni area b, ma, dato un numero
positivo arbitrario , esistono un’area a e un’area b tali che b − a < ?
Per capire questo fatto occorre cercare di calcolare le aree dei rettangoli. Supponiamo
di dividere OP in n parti uguali mediante i punti Q1 ,Q2 , ..., Qn = P , ognuno dei quali
dista n1 dal successivo. Il primo rettangolo esterno
q
di base OQ1 ha altezza 1, il secondo
1
rettangolo esterno di base Q1 Q2 ha altezza 1 − n2 (per il teorema di Pitagora, si veda
q
2
la figura 4), il terzo rettangolo esterno di base Q2 Q3 ha altezza 1− n2
, ecc.
Invece i rettangoli interni hanno altezze:
s s
1 2
1 − 2, 1 − 2,....
n n
1
Poiché le aree si calcolano moltiplicando le altezze per la lunghezza fissa n
delle basi,
la differenza fra le aree sarà:
s s s
1 1 1 2 1
[(1 − 1 − 2) + ( 1 − 2 − 1− 2
) + ...] =
n n n n n
e, per il solito principio di Archimede (si vedapu[1]), tale numero si può rendere minore
di qualsiasi prefissato positivo. Quindi le due classi A e B sono contigue e ha senso
chiamare area il numero reale loro elemento di separazione.
Questo ragionamento ci permette di definire l’area, almeno quella di un cerchio (4
volte quella del quarto considerato), ma non ci permette di dire quanto vale, il calcolo
mediante le approssimazioni con rettangoli (non facile) ci potrebbe consentire di trovare
valori approssimati dell’area con qualsiasi precisione richiesta.
Osserviamo anche il fatto che si potrebbero considerare suddivisioni di tipo diverso
e si dovrebbe dimostrare che conducono allo stesso risultato.
Occorre anche aggiungere che le considerazioni precedenti, pur non banali, sono piú
semplici di quelle che usano le aree dei poligoni regolari.
Possiamo però estendere a un dominio piano D qualsiasi (o quasi) la nostra defini-
zione. Un plurirettangolo (figura 5) è una figura formata da uno o piú rettangoli, in
numero finito, con i lati paralleli a due fissate rette perpendicolari (asse x e asse y),
che hanno in comune al massimo un lato o una parte di esso. Consideriamo le aree dei
plurirettangoli interni a D e quelli esterni, cioè contenenti D. Se tali aree formano due
classi contigue, l’area del dominio è per definizione l’elemento di separazione.
Purtroppo la nostra definizione di area non è operativa: a parte il caso dei rettangoli,
dei triangoli e delle figure che si possono costruire combinando rettangoli e triangoli in
vari modi, cioè con bordi rettilinei, il calcolo di qualsasi area è praticamente impossibile
con ragionamenti elementari, perfino nel caso del cerchio, che sembrerebbe il piú semplice
fra i casi non rettilinei (e in realtà è fra i meno semplici).
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2.1 Aree e derivate.
Riprendiamo in esame l’area del quarto di cerchio. Chi conosce un po’ le coordinate
cartesiane sa che il nostro
√ quarto di circonferenza, nel riferimento cartesiano della figura
6, ha equazione y = 1 − x2 (con 0 ≤ x ≤ 1). Proviamo a considerare la seguente
funzione: f (x) = area del dominio interno al quarto di cerchio e compresa fra le ascisse
0 e x (l’area è definita con i plurirettangoli) e proviamo a calcolarne la derivata:
f (x + h) − f (x)
lim = 0.
h→0 h
Il numeratore è l’area in figura 6, sotto la circonferenza e compresa fra x e x + h,
e quindi si√può approssimare - per eccesso mediante l’area del rettangolo (in figura 6)
q vale h 1 − x - per difetto mediante l’area del rettangolo (in figura 6) che vale
che 2
h 1 − (x + h)2 .
q √
Quindi la frazione è compresa fra 1 − (x + h)2 e 1 − x2 . Cioè la derivata f 0 (x)
dell’area q è il limite per h tendente a 0 di una funzione di h che è intermedia fra la
√
funzione 1 − (x + h)2 (che dipende da h) e la funzione 1 − x2 (che non dipende da h
ed
q è quindi fissa). Lasciamo al lettore la dimostrazione (non così difficile) del fatto che
√
1 − (x + h)2 tende a 1 − x2 quando h tende a 0, e concludiamo che la derivata f 0 (x)
√ √ √
resta schiacciata fra 1 − x2 e 1 − x2 , cioè vale√proprio 1 − x2 . Quindi la derivata
dell’area sotto la circonferenza vale esattamente 1 − x2 , cioè coincide con l’ordinata
del punto P di ascissa x sulla circonferenza.
Questa proprietà risulta molto utile per calcolare le aree, perché riconduce il calcolo
alla ricerca di una funzione che abbia derivata nota. Tale ricerca si chiama integrazione.
Non è del tutto ovvio che si sappiano trovare le funzioni che hanno derivata assegnata,
ma in qualche caso è possibile.
Una funzione F (x) che ha come derivata f (x) si chiama primitiva di f (x) e si può
dimostrare che ogni funzione continua ha infinite primitive che diferiscono l’una dall’altra
per una costante arbitraria.
Nel caso del quarto di cerchio possiamo ragionare come segue. √
L’area fra 0 e x coincide con una funzione che ha come derivata 1 − x2 . Occorre
quindi scoprire tale funzione e calcolarla quando x = 1. Con√tecniche standard di calcolo
x 2
integrale si può vedere che la funzione f (x) = arcsin 2
+ x 1−x
2
ha proprio la derivata
desiderata e quindi basta calcolare la funzione in x = 1 per ottenere che l’area vale
arcsin 1
2
= π4 .
Tutto sembrerebbe a posto, perché abbiamo scoperto che l’area del quarto di cerchio
ha proprio il valore atteso, ma occorre porsi qualche domanda.
Prima di tutto abbiamo introdotto la funzione arcoseno. Se ammettiamo (ma la
cosa è da discutere) di sapere che cosa è la funzione sin x dall’intero anno dedicato
alla trigonometria nelle scuole superiori, la funzione arcsin x non è difficile da definire:
nell’intervallo [− π2 , π2 ] la funzione sin x assume tutti i valori compresi fra -1 e 1 una sola
volta, cioè stabilisce una corrispondenza biunivoca fra l’intervallo [− π2 , π2 ] e l’intervallo
[−1,1]. Quindi, se si sceglie un qualsiasi numero reale y compreso fra -1 e 1, esiste un
9
solo numero reale x compreso fra − π2 e π2 tale che y = sin x. Diremo in tal caso √che
x = arcsin y, cioè che x√è l’arco il cui seno è y. Ad esempio, poiché si ha sin π4 = 22 ,
si ha anche: π4 = arcsin 22 . In secondo luogo occorre calcolare
√
la derivata dell’arcoseno,
1 1−x 2
che vale √1−x2 , e anche la derivata della funzione x 2 (e questo richiede qualche
nozione sul calcolo delle derivate e qualche commento sul fatto che un denominatore si
annulla per x = 1).
Ma soprattutto le nostre considerazioni richiedono di sapere già che cosa è il numero
π, ed è questo il vero problema. La mancanza di questo numero rende poco chiara tutta
la trigonometria, che introduce sin x e cos x considerando come noto il numero π.
In realtà è molto più semplice calcolare l’area compresa fra l’asse x, l’asse y, la
retta x = 1 e la parabola di equazione y = x2 , perché è molto piú facile vedere che
3
la derivata di x3 è proprio x2 e che quindi l’area sotto la parabola vale 13 in quanto si
3
ottiene sostituendo x = 1 nella funzione x3 .
• i perimetri dei poligoni inscritti sono minori di quelli dei poligoni circoscritti
La dimostrazioni di questi fatti richiede di saper calcolare i perimetri per ogni nu-
mero n di lati. Seguendo la bella trattazione del libro [2], si può iniziare
√ con il quadrato
inscritto√nella circonferenza (per semplicità di raggio 1), che ha lato 2 e quindi peri-
metro 4 2 . Se raddoppiamo il numero dei lati otteniamo un ottagono q regolare. Con
√
qualche considerazione q geometrica si dimostra che il suo lato vale 2 + 2 e quindi
√
il suo perimetro vale 8 2 + 2 . Si vede poi che il poligono di 16 lati ha perimetro
√
r q
16 2 − 2 + 2. Con un po’ di fatica si può trovare la formula generale per il peri-
metro del poligono regolare che ha 2m lati (quadrato per m = 2, ottagono per m = 3,
10
...): s r
m
q √
2 2− 2+ 2 + ··· + 2.
La formula sembra semplice, ma in realtà è abbastanza complicata da usare. Si può
tuttavia far vedere che essa rispetta il fatto, geometricamente ovvio, che, raddoppiando
il numero dei lati, aumenta il perimetro. Qualcosa di analogo si può fare con i poligoni
regolari di 4, 8, 16,..., lati circoscritti alla circonferenza. Si può quindi far vedere (e
questo è facile, è solo questione di proprietà dei triangoli), che un poligono regolare di
n lati inscritto ha perimetro minore di quello di uno circoscritto con lo stesso numero
di lati. Il passo successivo consiste nel provare che, dato un numero positivo arbitrario
, è possibile trovare due poligoni regolari, uno inscritto e uno circoscritto, ottenuti con
il procedimento del raddoppio del numero di lati, che hanno perimetri che differiscono
per meno di . Occorre poi naturalmente far vedere che possiamo limitarci ai poligoni
regolari ottenuti con il raddoppio del numero lati a partire dal quadrato, ma questo
dipende da due fatti (di non difficile dimostrazione):
• le classi
A = perimetri dei poligoni inscritti
B = perimetri dei poligoni circoscritti
sono separate (ogni a ∈ A è minore di ogni b ∈ B).
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di n lati, d il diametro, allora i numeri pdn , Pdn , al variare di n, formano due classi contigue,
con un elemento di separazione, che chiameremo π. Ma anche questa operazione è
tutt’altro che semplice. Solo a questo punto saremo anche in grado di trovare cifre
decimali a nostro piacere di tale numero, prendendo poligoni con un numero di lati
abbastanza grande.
Il passo successivo consiste nel definire (nel modo ben noto) le funzioni trigono-
metriche. Però è necessario introdurre anche il concetto di radiante: un angolo di un
radiante sottende per definizione un arco di circonferenza lungo quanto il raggio. Questa
definizione ha però il difetto di richiedere il concetto di lunghezza non solo dell’intera
circonferenza, ma anche di un suo qualsiasi arco. Forse è meglio stabilire che l’angolo di
360 gradi vale 2π radianti. Quindi un radiante corrisponde a un angolo pari all’intero
angolo di 360 gradi diviso per 2π. Siccome sappiamo che la circonferenza intera è lunga
2πr, un radiante corrisponderà a un arco lungo 2πr diviso per 2π, cioè r. Anzi, per
essere precisi, misureremo gli archi guardando agli angoli in radianti corrispondenti.
Siamo ora in grado di affermare che:
π
• 2
corrisponde a un quarto di circonferenza e quindi a un angolo retto
• ....
• Concetto di serie come limite di una somma, quando il numero di addendi tende
all’infinito;
12
• serie di potenze, loro convergenza in un intervallo di centro l’origine, metodi per
determinarlo;
• se una funzione continua assume un valore positivo e uno negativo negli estremi di
un intervallo di esistenza, fra i due assume anche il valore nullo (il celebre teorema
di esistenza degli zeri);
• il limite del quadrato è il quadrato del limite (e, piú in generale, il limite del
prodotto è il prodotto dei limiti);
• se limx→+∞ f 0 (x) esiste ed è un numero reale > 0, allora la funzione f (x) tende a
+∞, mentre se limx→+∞ f 0 (x) esiste ed è un numero reale < 0, allora la funzione
f (x) tende a −∞ (infatti f (x) è esprimibile come l’integrale della sua derivata,
che può essere maggiorato, o minorato, da una opportuna costante). Si noti che
di qui si deduce il fatto seguente (che in effetti noi useremo):
se f (x) e f 0 (x) tendono entrambe a limite finito per x tendente a +∞, allora f 0 (x)
tende a 0.
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(cos x)” = -cos x.
Inoltre:
sin 0 = 0
cos 0 = 1.
Possiamo a questo punto ottenere in modo soddisfacente, mediante la regola di L’Ho-
pital, una formula ben nota ma generalmente ottenuta con metodi poco ortodossi (basati
sul fatto intuitivo che sin x ≤ x):
sin x
limx→0 =1
x
z 00 + z = 0
Allora si ha:
z(x) = z(0) cos x + z 0 (0)sin x. da cui segue, fra l’altro, che z è ovunque definita, e
soddisfa la stessa equazione ovunque.
Dimostrazione. Poniamo y(x) = z(x)−z(0) cos x−z 0 (0)sin x. Un facile calcolo permette
di trovare le relazioni
y 00 + y = 0, y(0) = 0, y 0 (0) = 0.
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A questo punto si applica lo stesso metodo del capitolo precedente, e si arriva all’e-
guaglianza y 2 + y 02 = c = costante; ma in questo caso si trova c = 0, quindi y 2 + y 02 = 0,
da cui segue immediatamente y = 0.
Poniamo ora z(x) = sin(x + a), essendo a qualsiasi. È immediato verificare che z
soddisfa la condizione del lemma; poiché z(0) = sin a, z 0 (0) = cos a , il lemma fornisce
immediatamente la formula di addizione per la funzione seno:
sin(x + a) = sin x cos a+cos x sin a.
L’analoga formula per la funzione coseno si può trovare con lo stesso metodo, o piú
semplicemente derivando la precedente:
cos(x + a) = cos x cos a-sin x sin a.
Dalle formule di addizione si deducono subito le formule di duplicazione:
sin 2x = 2sin x cos x,
cos 2x = (cos x)2 − (sin x)2 ,
e le formule
q di bisezione:
x x
sin 2 = ± 1−cos
2
q
cos x2 = ± 1+sin x
2
3.1.5 Definizione di π
Si è visto che la funzione sin x si annulla per x = 0. Ora si dimostrerà che essa si
annulla anche per certi valori positivi di x, e il piú piccolo di tali valori si chiamerà
per definizione π . Dimostriamo dunque che esiste almeno un numero a > 0 tale che
sin a = 0. L’elegante ragionamento che segue ci è stato suggerito dal professor Paolo
Tilli del Politecnico di Torino, che ringraziamo.
In primo luogo notiamo che la funzione y = sin x (che è infinitamente derivabile)
soddisfa alla condizione:
sin(0) = 0
(sin x)0 = 1 per x = 0.
Osserviamo quindi che la condizione (sin x)0 = 1 > 0 per x = 0 implica che la
funzione, essendo crescente in un intorno dell’origine, diventa positiva, almeno per un
certo tratto, a destra di 0. Potrebbe però capitare che resti positiva per sempre, cioè che
sin x > 0, per ogni x > 0. Cerchiamo di vedere che ciò non avviene, ovvero che esiste
un numero reale a > 0 tale che sin a = 0.
Supponiamo dunque per assurdo che si abbia sin x > 0 per ogni x positivo. Siccome
(sin x)00 = −sin x, si ha (sin x)00 < 0 per ogni x positivo.
Ricordiamo ora che le due funzioni sin x e (sin x)0 sono limitate (in valore assoluto
non superano mai 1). Inoltre (sin x)00 < 0 è la derivata di (sin x)’ e quindi quest’ultima,
oltre che limitata, è anche decrescente. Ne concludiamo che tende a un limite finito per
2 0 2
qtendente a piú infinito. Poiché, come si è visto, (sin x) + ((sin x) ) = 1, si ha: sin x =
x
1 − ((sin x)0 )2 (in quanto supponiamo per assurdo che il seno sia sempre positivo).
Allora anche sin x tende a limite finito per x tendente a piú infinito, e precisamente, se
limx→+∞ (sin x)0 = m
si ha:
15
√
l = limx→+∞ sin x = 1 − m2 .
Si è quindi nel caso di una funzione che ha limite insieme con la sua derivata e si può
concludere che m = 0, l = 1. Di qui si deduce che (sin x)00 tende a −1 per x tendente
all’infinito. Ma (sin x)00 è la derivata di (sin x)0 e quindi (sin x)0 deve tendere all’infinito.
Siamo giunti a una contraddizione (sin x è limitata ma tende all’infinito) e perciò è
assurdo pensare che sin x sia sempre maggiore di 0 per ogni x > 0. Dunque esiste a > 0
tale che sin a = 0. L’insieme degli zeri positivi di sin x non è quindi vuoto e ammette
un estremo inferiore che, a priori, potrebbe essere positivo ma anche nullo. Non può
tuttavia essere nullo, perché si è già visto che sin x è positiva in un intorno destro di 0.
Quindi tale estremo inferiore è un numero reale positivo che si chiama per definizione
π. Invocando la continuità di sin x si vede che sin π = 0.
Ne segue immediatamente cos π = ±1. L’incertezza di segno si elimina subito osser-
vando che sin x è positivo in un intorno sinistro di π, per definizione, quindi è decrescente
e con derivata negativa. Si conclude che cos π = −1.
In modo analogo, usando le formule di bisezione, si trova
cos π2 = 0
sin π2 = 1.
Si è dunque stabilito che la funzione sin x è positiva nell’intervallo aperto ]0,π[ , e che
in π2 ha un massimo, di valore 1. Verifichiamo ora che essa è crescente in ]0, π2 [, cioè che
la sua derivata cos x è strettamente positiva. Infatti, se si avesse cos a = 0 per a < π2 ,
dalle formule di duplicazione si otterrebbe sin 2a = 0, contro la definizione data di π
come il piú piccolo zero positivo di sin x. Inoltre si vede facilmente che la funzione sin x
è simmetrica intorno a π2 . Infatti dalle formule di addizione segue
sin( π2 + x) = sin( π2 − x) = cos x.
Si può concludere che sin x è decrescente in ] π2 ,π[.
16
3.1.7 Collegamento con la geometria
In questo paragrafo si considera una circonferenza di raggio 1 centrata nell’origine (la
ben nota circonferenza trigonometrica). Le coordinate (x,y) di un generico punto P di
tale circonferenza sono collegate dal fatto che P ha per definizione distanza 1 dall’origine.
Quindi, per il teorema di Pitagora, vale la formula:
x2 + y 2 = 1
per y variabile da 0 a 1, che è nota come equazione della circonferenza.
Consideriamo ora la parte della circonferenza compresa nel primo quadrante (cioè
con x ≥ 0, y ≥ 0. Per essa è immediato verificare che la formula scritta è equivalente a
q
x= 1 − y2
per y variabile da 0 a 1.
Si considera ora l’arcoqottenuto facendo variare y da 0 fino al valore generico y0 (e
quindi x da 1 fino a x0 = 1 − y02 ) e se ne vuole calcolare la lunghezza. Qui si richiede
la conoscenza del fatto che la lunghezza di un arco di curva, definita dall’equazione
x = f (y), per y variabile fra i valori a e b, è data dalla formula
Z bq
l= 1 + (f 0 (y))2 dy,
a
dove con il simbolo ab f (x) dx si intende F (b) − F (a), dove F (x) è una primitiva
R
17
3.1.8 Lunghezza della circonferenza
Ma come si vede che la circonferenza di raggio r ha lunghezza 2πr, dove π è proprio il
numero che abbiamo introdotto?
Riferiamoci come al solito√ al quarto di circonferenza di raggio r che in coordinate
cartesiane ha equazione y = r2 − x2 (x varia tra 0 e r). Come per l’area dividiamo il
segmento di estremi 0 e r sull’asse x in n parti uguali, tracciamo le verticali per tali punti,
cioè O, Q1 , Q2 ,..., P e andiamo a incontrare la circonferenza nei punti Q, N1 ,N2 ,..., P
stesso. Quindi costruiamo la poligonale QN1 N2 ...P . Si noti che i lati della poligonale
hanno lunghezze (calcolabili con il teorema di Pitagora), se si osserva che le coordinate
degli estremi sono:
Q = (0,r)q
N1 = ( n1 , r2 − n12 )
q
N2 = ( n2 , r2 − 4n1 2 )
....
Si ottiene pertanto: q
lunghezza di QN1 = n22 ,
q q q
lunghezza di N1 N2 = n12 + ( r2 − n12 − r2 − 4n1 2 ).
....
Possiamo ragionevolmente chiamare lunghezza dell’arco di circonferenza il limite
per n tendente all’infinito della lunghezza della poligonale. Con qualche difficoltà si
può vedere
q che tale limite
q 2 coincide con un integrale, cioè con l’integrale della funzione
x2
f (x) = 1 + r2 −x2 = r2r−x2 calcolato fra gli estremi 0 e r.
Tale integrale è di calcolo molto semplice per chi conosca i primi rudimenti dell’in-
tegrazione e vale r moltiplicato per b − a, dove a = valore di rx quando rsin x = 0 e b =
valore di rx quando rsin x = r . Ma noi sappiamo che
sin 0 = 0
sin π2 = 1
e quindi tale integrale vale r .
Si noti che abbiamo scelto una definizione di lunghezza leggermente diversa da quella
proposta qualche pagina fa: qui non usiamo i poligoni regolari ma quelli che provengono
da una suddivisione in parti uguali sull’asse x. Non è difficile vedere che allo stesso
integrale si arriva suddividendo in parti qualsiasi il segmento di estremi 0 e r sull’asse x.
Il risultato che abbiamo ottenuto è comunque un numero a questo punto noto, perché
già introdotto.
18
√
Serve quindi una primitiva della funzione 1 − x2 . Anche se il lettore √
non conosce
arcsin x+x 1−x2
metodi di integrazione, può verificare con una derivazione che 2
è una tale
l
primitiva, e quindi completare il calcolo trovando A = 2 , dove l è la lunghezza dell’arco
calcolata in precedenza. Considerando una circonferenza di raggio generico r, si trova
invece A = 2l r.
In particolare l’area della parte di cerchio compresa nel primo quadrante è A = π4 r2 ,
e quindi si ritrova la notissima espressione per l’area del cerchio.
19
Si noti che per il momento le funzioni trigonometriche sono definite solo nel dominio
[− π4 , π4 ]
e che valgono le formule
sin 0 = 0
cos 0 = √1
sin π4 = √22
cos π4 = 22 .
1
Poiché la derivata dell’arcoseno di x è √1−x 2 , usando la formula per il calcolo della
derivata della funzione inversa, si trova
q
(sin x)0 = 1 − (sin x)2 = cos x
−2 sin x cos x
(cos x)0 = q = −sin x.
2 1 − (sin x)2
Si è quindi provato che sia sin x sia cos x soddisfano alla solita equazione differenziale
y 00 + y = 0 in tutto il dominio − π4 , π4 . Inoltre ovviamente
sin 0 = 0
cos 0 = 1
(sin x)’ = 1 per x = 0
(cos x)’ = 0 per x = 0.
A questo punto si possono ripetere inalterati i ragionamenti delle due presentazioni
precedenti, in quanto tutte portano all’equazione differenziale y 00 + y = 0 e alle proprietà
che ne conseguono. Si giunge cosí alle già trovate formule di addizione e duplicazione,
ma valide solo nel dominio [− π4 , π4 ].
Le formule di duplicazioni si usano una prima volta per estendere il dominio a [− π2 , π2 ]
e una seconda volta fino al dominio [−π,π]. In particolare si trova che
sin π2 = 1
cos π2 = 0
sin π = 0
cos π = −1.
Infine le funzioni trigonometriche sono estese all’insieme di tutti i numeri reali
stabilendone per definizione la periodicità con periodo 2π.
Il seguito della trattazione continua come nelle presentazioni precedenti.
La via qui presentata ha il vantaggio di non richiedere nozioni sulle serie di potenze né
sulle equazioni differenziali, ma risulta un po’ artificiosa per quanto riguarda l’estensione
del dominio e la periodicità. Inoltre sarebbero necessari facili ma noiosi dettagli tecnici
per verificare che le funzioni estese siano continue e derivabili anche in tutti i punti di
giunzione.
20
e coseno sono piú note della tangente è, a nostro parere, compensato dal fatto che sotto
il segno di integrale non ci sono radicali ma solo un polinomio di secondo grado al
denominatore, e questo polinomio, cioè 1 + t2 , è privo di radici reali.
limitata fra 0 e 1.
In base al teorema fondamentale del calcolo integrale, la funzione arctan x ammette
come derivata in ogni punto la funzione
d arctan x 1
= .
dx 1 + x2
Poiché tale derivata è sempre strettamente positiva arctan x è strettamente crescente.
Si vede facilmente che la nostra nuova funzione è dispari (arctan(−x) = − arctan(x)), e
inoltre si ha
arctan(x) > 0 se x > 0,
arctan(x) < 0 se x < 0,
arctan(0) = 0.
Vogliamo dimostrare che la funzione è anche limitata. Poiché è dispari, basta ragionare
sui valori positivi di x.
Il nostro punto di partenza è costituito dalle (ovvie) diseguaglianze
(
1 1 se t ≤ 1
≤ 1
1 + t2 t2
se t > 1
Basta ora osservare che, per x > 1, si ha (grazie a varie semplici proprietà degli integrali):
Z x
1 Z 1
1 Z x
1 Z 1 Z x
1 1
arctan x = 2
dt = 2
dt+ 2
dt ≤ 1dt+ 2
dt = 1+(1− ) ≤ 2.
0 1+t 0 1+t 1 1+t 0 1 t x
Quindi possiamo concludere che arctan x è limitata superiormente dal numero 2; poiché
si tratta di funzione crescente, possiamo anche dedurre che esiste limx→+∞ arctan x ed
è un numero ≤ 2.
Chiamiamo ora π il doppio del limx→+∞ arctan x:
π = 2 lim arctan x.
x→+∞
21
In base alla definizione di π si vede che
π
lim arctan x =
x→+∞ 2
Si vede anche che
π
lim arctan x = − .
x→−∞ 2
Riassumendo possiamo dire che la funzione arcotangente è definita ovunque, è stret-
tamente crescente, è derivabile i e quindi
h continua, la sua immagine (insieme dei valori
π π
assunti) è l’intervallo aperto − 2 , 2 . Insomma, il suo grafico coincide con quello della
funzione arcotangente riportato sui testi di matematica delle scuole secondarie.
i Poichè h la funzione è strettamente crescente, ammette funzione inversa, definita su
− π2 , π2 e con immagine ] − ∞, + ∞[.
Questa inversa si chiama per definizione tan x (tangente di x). È anch’essa
i h conti-
π π
nua e strettamente crescente. Finora è definita solo nell’intervallo aperto − 2 , 2 , ma si
può estendere a tutto l’insieme dei numeri reali, con l’eccezione dei multipli dispari di π2 ,
decidendo per definizione che la funzione estesa è periodica di periodo π: tan(x + π)
= tan(x + 2π) = . . . .
Inoltre si ha:
limx→ π2 tan x = +∞
.
limx→− π2 tan x = −∞
Analoghi limiti si hanno nei punti speciali dove non è definita.
In pratica otteniamo una funzione che ha il ben noto grafico della tangente. Poiché
la funzione arcotangente ha derivata nota, otteniamo subito la derivata della funzione
inversa:
d tan x
= 1 + (tan x)2
dx
dove n è l’indice dell’intervallo aperto In al quale x appartiene. (il lettore osservi che
una nota formula riportata sui testi di trigonometria viene ora usata come definizione).
22
La funzione seno è per ora definita nello stesso dominio della tangente (i multipli
dispari di π2 sono esclusi), ed è periodica di periodo 2π, non π, a causa dei segni (−1)n
introdotti nella definizione. È interessante calcolare i limiti del seno nei punti esclusi.
Ad esempio si ha:
tan x u 1
lim sin x = lim q = lim √ 2
= lim q = 1.
π−
x→ 2 π−
x→ 2 1 + (tan x)2 u→+∞ 1+u u→+∞ 1
2 + 1
u
lim sin x = 1
x→ π2 +
e concludere che anche limx→ π2 sin x = 1 (si noti che gioca un ruolo essenziale il segno
(−1)n , che è stato scelto con oculatezza).
Lasciamo al lettore il calcolo degli altri limiti come
lim sin x = −1
x→− π2
Usando i valori dei limiti, estendiamo la funzione seno a tutto l’insieme R dei numeri
reali, ponendo per definizione
sin( π2 ) = 1, sin( 3π
2
) = −1, sin( 5π
2
) = 1, ...
π
sin(− 2 ) = −1, sin(− 2 ) = 1, sin(− 5π
3π
2
) = −1, . ..
La funzione sin x è definita e continua su tutti i reali. Possiamo ora dare la definizione
di coseno:
sin x
cos x = .
tan x
Questa definizione esclude i punti in cui la tangente non è definita e anche quelli in
cui la tangente si annulla (i multipli di π e i multipli dispari di π2 ). Ma l’estensione a
tutto l’insieme dei reali si ottiene come quella del seno.
In conclusione il seno e il coseno sono definite e continue su tutto R e periodiche di
periodo 2π. Inoltre si ottengono subito le seguenti formule:
sin x
tan x = cos x
(sin x)2 + (cos x)2 = 1
sin(0) = 0, cos(0) = 1
La seconda eguaglianza dice (il fatto ben noto) che | sin x| ≤ 1 and | cos x| ≤ 1.
Le derivate si possono calcolare usando le solite formule di derivazione:
d sin x
dx
= cos x
d cos x
dx
= − sin x
Le derivate a rigore hanno senso solo se si escludono i multipli di π2 , ma il lettore
può verificare facilmente, calcolando dei limiti, che le formule valgono ovunque.
23
3.4.3 Seno e coseno soddisfano all’equazione y 00 + y = 0
Dalle formule di derivazione ottenute è immediato dimostrare che seno e coseno sod-
disfano all’equazione differenziale y 00 + y = 0, di cui abbiamo parlato ampiamente nei
capitoli precedenti. In effetti si ha: (sin x)0 = cos x e quindi (sin x)00 = (cos x)0 = − sin x
(e analogamente per il coseno).
A questo punto possiamo dedurre tutte le proprietà che abbiamo dimostrato nei
capitoli precedenti a partire dall’equazione differenziale. Ad esempio si ottengono le
formule di addizione, di duplicazione e di bisezione.
FIGURE
24
Riferimenti bibliografici
[1] P. Valabrega,
“Un tentativo di introdurre alla matematica qualche non matematico ”,
disponibile all’indirizzo http://www2.polito.it/didattica/polymath/htmlS/Interventi/
DOCUMENT/MatematicaNonMatematici_Valabrega.pdf. (2009)
[2] Castelnuovo,Gori,Valenti “La matematica nella realtà, vol. 3, ed. La Nuova Italia ”
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