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Montale - Riassunto Letteratura italiana contemporanea

Letteratura italiana contemporanea (Università del Salento)

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Genovese, Montale (1896) ha attraversato la Prima e la Seconda guerra mondiale, la Prima da soldato,
la Seconda da testimone della tragedia. Ha esordito cantando il paesaggio ligure e la sua terra salmastra,
bruciati dal sole: nell'epoca del fascismo trionfante, era un modo per prendere le distanze dai miti e dalle
certezze del tempo. Gli anni 30, trascorsi a Firenze, lo hanno messo in contatto con i giovani poeti fondatori
dell'Ermetismo. Dopo il 1945, lavorando a Milano come giornalista del Corriere della Sera, Montale ha
preso posizione contro la massificazione della società e della comunicazione. Non ha mai rinunciato al
ruolo scomodo di coscienza critica e di osservatore delle storture presenti. Ha ricevuto il premio Nobel per
la letteratura.
Montale scrisse pochi ma meditati libri di versi. Esordì con “Ossi di seppia”, nel 1925. Passò quasi un
quindicennio perché desse alle stampe la sua seconda raccolta, “Le occasioni”, che costituì assieme al
successivo libro “La bufera e altro”, il suo momento di avvicinamento (ma non di adesione) all'Ermetismo.
Dopo queste raccolte, Montale inaugurò una stagione completamente nuova, almeno sul piano del
linguaggio e, parzialmente, dei temi, con “Satura”, uscito nel 1971 e replicato da altri libri successivi del
medesimo stampo. Montale fu anche apprezzato prosatore: si segnalò nel genere della prosa breve o prosa
d'arte con il libro “La farfalla di Dinard”.
Tutte le opere di Montale sono alimentate da una sempre viva meditazione, di sapore filosofico sull'esistere
umano nella storia.
I motivi dominanti del primo Montale, quello di “Ossi di seppia”, sono il male di vivere e le lacerazioni
della coscienza; il paesaggio ligure come simbolo dell'aridità; la ricerca di un varco attraverso cui ristabilire
il contatto con la verità e la speranza.
Nel secondo Montale, quello fiorentino delle “Occasioni” e della “Bufera e altro”, prevalgono temi
psicologici (il ricordo) e amorosi, messi a dura prova dalla tragedia della guerra.
L'ultimo Montale, quello satirico, è il poeta giornalista del Corriere della Sera, immerso suo malgrado
nell'universo della comunicazione di massa. Egli privilegia la critica a ciò che non è autentico, espressa in
uno stile ironico e anche autoironico.
Il primo Montale si stacca nettamente dalla tradizione letteraria, scegliendo per i suoi versi d'esordio uno
stile scabro ed essenziale quale corrispettivo dell'aridità esistenziale e del male di vivere.
Il secondo Montale utilizza uno stile denso e simbolico: da qui la difficoltà dei lettura che suscitano molte
sue liriche, gremite di cose e situazioni poco leggibili, in prima battuta, dal lettore.
L'ultimo Montale è quello satirico: in un mondo inautentico, egli sceglie di utilizzare un linguaggio
impoetico, che possa evidenziare, paradossalmente, tutta l'inautenticità della comunicazione originata e
vissuta nella sfera dei mass-media.

“Ossi di seppia” uscì nel 1925, pubblicato da Piero Gobetti (una seconda edizione, con qualche lirica
aggiuntiva, segui' nel 1928). Fu subito chiaro che si trattava di un libro di rottura. Veniva infatti a
infrangere una tradizione di poesia aristocratica, difficile, concepita come lontana dalle parole e dalle cose
della gente comune. Era la tradizione incarnata dal poeta-vate di allora, D'Annunzio.
Ossi di seppia intendeva affermare valori diversi, lontani dalla retorica di una vita preziosa ed eroica,
secondo i modelli dannunziani. Il libro nasceva da uno sforzo verso la semplicità e la chiarezza, a costo di
sembrar poveri. Semplicità, implicava appunto una presa di posizione contro D'Annunzio. Per quanto
riguarda la chiarezza, si può intendere come una volontà di distanziarsi da quegli altri poeti che, come
Pascoli o simbolisti di primo Novecento, intendevano la poesia come una magica rivelazione di nascoste
verità. Montale si proponeva invece come uno di quegli scrittori disincantati, coscienti dei limiti ed amanti
in umiltà dell'arte loro più che di rifar la gente (così egli scrisse nel saggio “Stile e tradizione” del 1925):
interessati cioè a testimoniare la realtà, così come essa è invece di salire sul piedistallo a impartire lezioni
di morale ai lettori.
La polemica antifascista. Per cogliere la portata rivoluzionaria di “Ossi di seppia” dobbiamo riflettere sul
concreto momento storico in cui il libro prese forma e fu pubblicato. Erano gli anni in cui il fascismo si
mutava in dittatura, per mezzo delle cosiddette leggi speciali, che imponevano un regime totalitario:
pensiero unico, capo unico, governo senza oppositori e molta propaganda con cui avevano distorti i fatti. Il
filosofo del fascismo, Giovanni Gentile, riteneva che il pensiero (ovviamente un pensiero in linea con le
aspettative del regime) fosse in grado di ricreare il mondo.

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Il libro di Montale nacque in tale clima, nell'invadenza trionfante di questi modelli culturali. Il poeta di “Ossi
di seppia” esprime una posizione ben diversa: il compito della poesia è si quello di tendere all'assoluto, ma
essa poi, concretamente, non può che darci la negatività, come Montale la chiamò, del mondo. La parola non
deve fingere una realtà diversa da quella in cui siamo; il pensiero non è in grado di creare un mondo reale,
ma solo desideri, ombre, fantasmi. Prendendo a modello gli umili ossi di seppia, la poesia montaliana finì
per divenire, negli anni venti (forse al di là delle intenzioni del poeta stesso), un saldo punto di riferimento
per chi negava il fascismo e i suoi dogmi.
Il paesaggio ligure. L'opera è ambientata nel paesaggio ligure, cioè in quei luoghi che avevano segnato
l'infanzia del poeta e il suo primo rapporto con il mondo. A emergere in tale contesto solo le umili cose,
senza pretese, della vita comune. Non casualmente la prima poesia del libro s'intitola “I limoni”, un frutto
assolutamente ordinario. Appunto gli alberi dei limoni, vengono contrapposti alle piante / dai nomi poco
usati che riempiono di solito i versi dei poeti laureati.
A tale poetica di riduzione della letteratura risponde anche il titolo “Ossi di seppia”: un titolo in umiltà, che
allude a poveri relitti sballottati dalle ondate, destinati a svanire a poco a poco. L'osso di Seppia è umile
cartilagine del mollusco, che risulta visibile solo a una volta che l'animale si è decomposto. L'immagine
fa pensare a un detrito sbattuto dalla corrente, a un oggetto disidratato, prosciugato dall'azione corrosiva della
salsedine, del vento, della natura.
I segni del negativo e la ricerca del varco
Due elementi in particolare hanno un ruolo decisivo nel paesaggio ligure del libro:
- da un lato il mare come simbolo positivo, perché il mare è sempre immutabile e perfetto, è vastità, dice
Montale, che sa spurgare da sé, tutte le imperfezioni del fondo, levigando e ripulendo (mediante l'azione
corrosiva della salsedine) ogni incrostazione;
- dall'altro la terraferma, vista per lo più come simbolo negativo, perché viene raffigurata soprattutto al
momento del meriggio assolato (come in “Meriggiare pallido e assorto”) quest'ultima è l'ora topica (cioè la
caratteristica) di Ossi di seppia.
Il contesto tipico del libro è precisamente il terreno spaccato dal sole, la vegetazione colta non nel suo
momento di rigoglio, ma in quello del sofferente resistere a erratiche forze di venti. Questa terraferma
assolata e riarsa raffigura in modo diretto e illuminante il senso della negatività, dell'angoscia, in una parola
quel male di vivere che caratterizza la prima raccolta montaliana.
Il giovane Montale non si rassegna al negativo. Cerca qua e là tracce di una possibile salvezza,
interrogandosi sulla possibilità di un varco. Ma la sua ricerca è vana: la rete o il muro, che circondano e
imprigionano l'uomo, gli tolgono la vista, sono per lui invalicabili, come una muraglia; non presentano
spiragli o prospettive di salvezza. Il poeta può solo affermare <<ciò che non siamo, ciò che non vogliamo>>
Anche il motivo del tempo contribuisce, in “Ossi di seppia”, a dare al poeta il senso della sconfitta. E'
impossibile infatti fermare i ricordi e ricavare un senso dal passato. E' un motivo destinato a grandi
sviluppi nelle raccolte montaliane successive. Molte liriche di “Ossi di seppia” sono contraddistinte
dall'attesa inutile, perché il mondo vive in una totale mancanza di significato; le eventuali divinità
rimangono silenziose e assenti per noi, della razza / di chi rimane a terra; l'unico bene, o presunto tale, è la
divinità Indifferenza.
Il simbolismo e l'alternanza prosa/poesia. L'attaccamento di Montale alla realtà non è realismo in senso
stretto. Egli utilizza oggetti e situazioni quotidiane in chiave simbolica, cioè per esprimere altro: ricordi,
emozioni, idee. In lui, insomma, il realismo convive con il simbolismo.
Tale dimensione simbolica, poi prevalente nei due libri successivi, cioè “Le occasioni” (1939) e “La
bufera e altro” (1956). Emerge in particolare in alcune grandi liriche raccolte nella seconda parte del libro,
come “Arsenio”, tradotta nel 1928 in inglese da Thomas Stearns Eliot.
L'alternanza tra realtà e simbolo si riverbera anche nell'oscillazione tra poesia e prosa. In “Ossi di seppia”
Montale dà voce al bisogno di aderire agli oggetti umili della realtà (e questo è prosa), ma senza per questo
rinunciare alla poesia: anzitutto alle forme metriche, anche se variate rispetto alla tradizione. Nelle liriche del
libro, l'andamento prosastico e colloquiale invade larghi strati del discorso poetico, spesso occupa lunghe
zone descrittive; ma la poesia resiste, conserva anzitutto i suoi suoni caratteristici, rime e assonanze, strofe
e metafore. E poi prende il largo nei momenti più intensamente simbolici, allorché rivelano i cosiddetti
fantasmi montaliani: simboli lirici come i gialli demoni nei Limoni o come il girasole impazzito di luce in
Portami il girasole.
Tale alternanza prosa/poesia comporta particolare effetti sonori: Montale, che a lungo aveva studiato canto
professionistico, sapeva utilizzare nei suoi versi anche gli strumenti della musica e insieme della dissonanza,

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secondo il modello del grande compositore francese Claude Debussy (1862-1918). Anche in ciò si conferma
poeta raffinato, complesso, sempre nutrito di cultura.

Il terzo volume di Montale, “La bufera e altro”, pubblicato nel 1956, comprende un primo nucleo di liriche
(Finisterre) concepite quale completamento delle Occasioni; a esse si aggiunge in seguito un gruppo di testi
più vario per tempi di stesura e tematiche. La novità del libro è che Montale introduce ora, nella sua poesia,
accanto ai consueti richiami alle vicende personali, anche nuove tematiche storiche. liriche confluite nella
raccolta furono infatti concepite negli anni della guerra: la bufera che dà il titolo alla prima lirica del libro e
quindi all'intera raccolta è infatti la guerra, tragedia collettiva da cui nulla sembra salvarsi.
Soprattutto nelle prime poesie del libro, quella della sezione Finisterre, pubblicate nel 1943, i versi
sembrano prendere vita in mezzo al fremere della battaglia.
La realtà come mitologia. La storia incalza con i suoi orrori, ma nel libro l'attualità è sempre indiretta,
trasfigurata sullo sfondo di immagini allegoriche, di non semplice decifrazione. Gli episodi allusi, infatti, non
sono mai direttamente descritti; inoltre sono presentati come drammi sia collettivi sia personali, in un
groviglio inestricabile. L'argomento della poesia montaliana è la condizione umana in sé considerata;
non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo. (Non
nego che il fascismo dapprima, la guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso
infelice; tuttavia esistevano in me le ragioni di infelicità che andavano molto al di là e al di fuori di questi
fenomeni). Perciò, se questo terzo libro di Montale segna un suo deciso avvicinamento alla storia e alla
realtà, resta però la sede di una realtà in forma di mito, cioè di una realtà cosmica, universale, da leggersi in
senso esistenziale, non immediatamente storico o cronachistico.
Un altro tema tipico della “Bufera” è il dialogo con i propri cari scomparsi. Il padre e la madre defunti
sono protagonisti di alcune liriche molto toccanti (L'arca, proda di Versilia, Voce giunta con le folaghe).
Questo colloquio a distanza ci ricorda certe liriche di Pascoli, anche perché è dai defunti che il poeta cerca il
senso dell'umana esistenza. Il dialogo con loro è molto difficile; i defunti sono simili a ombre (certe
atmosfere ricordano i mancanti abbracci di Dante con alcune anime dell'oltretomba nella Divina Commedia)
e non hanno messaggi da consegnare al poeta, se non la dolcezza dei ricordi e il rimpianto di un passato che
non può tornare.
Il ruolo dominante della donna. L'unica a incarnare una speranza di salvezza, in questo modo cupo e
ferito dall'odio, rimane la donna. La figura femminile in particolare colei che il poeta chiama Clizia, riveste
un ruolo dominante nella raccolta; quasi tutte le poesie della “Bufera” sembrano dettate al poeta (o meglio,
alla sua memoria innamorata). Clizia funge da dolce-lontano messaggero che si rende presente al poeta, di
quando in quando, con i suoi messaggi suggestivi, anche se oscuri.
Clizia sembra svolgere, in certi passaggi del libro, un ruolo salvifico simile a quello di altre famose
ispiratrici, come la Beatrice di Dante e la Laura di Petrarca. In liriche come “Iride” e “La primavera
hitleriana”, Clizia pare incarnare, in chiave religiosa, la salvezza da lei stessa annunciata: la sua opera
sembra continuare il sacrificio supremo, quello di Cristo.
In realtà, però, nessuna salvezza può giungere neppure da Clizia (Irma Brandeis): il dolore dell'esistenza
non può essere redento né da lei né dalle sue sorelle, chiamate con i nomi di Mandetta o Volpe. Montale
rimane un poeta laico, anche se certamente la dimensione religiosa non lo lascia indifferente. La donna è una
figura luminosa, sì, ma irrimediabilmente lontana dall'uomo.
Il messaggio laico. Nel suo terzo libro, dunque, Montale canta (con sofferenza) la bufera che investe
l'umanità, esprime in versi il male cosmico che travolge il mondo, ma non sa come combatterlo se non con
l'arma della profezia, cioè della poesia. Non si identifica con alcuna ideologia, afferma solo un senso di
fratellanza nei confronti dell'umanità intera, sentimento che nasce dalla consapevolezza di una sorte comune
(è un forte motivo di vicinanza a Leopardi).
Noi sappiamo che tutta la poesia di Montale è sollecitata da un assillo morale; una moralità laica, che non si
nasconde l'urgenza di aderire ai valori, ma che dubita della possibilità che i valori s'incarnino nella storia,
forse perché li vede irraggiungibili. Questo punto di vista emerge esplicitamente nel poemetto in prosa
“Visita a Fadin”, affine agli scritti della “Farfalla di Dinard”, ma inserito in virtù della sua importanza nel
corpo stesso della “Bufera e altro”. Elogiando un amico, Fadin, appena scomparso, Montale scrive di lui che
non aveva bisogno di richiamarsi alle questioni supreme, agli universali, chi era sempre vissuto in modo
umano, cioè semplice e silenzioso. E aggiunge di avere appreso da Fadin quest'alta lezione di decenza
quotidiana (la più difficile delle virtù).

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La lezione teorizzata in “Visita a Fadin” dà vita alle due liriche finali della “Bufera e altro”. Nella prima di
esse, Piccolo testamento, la poesia appare l'estrema possibilità di una testimonianza umana; il poeta rifiuta
fedi e ideologie ma non per fuggire dal mondo, bensì come scelta austera e fraterna: lo sfavillare dei suoi
versi voleva essere un bagliore per tutti gli uomini. Nella seconda, “Il sogno del prigioniero”, si rappresenta
l'alienazione in cui si dibatte l'uomo contemporaneo, prigioniero di una società che non gli consente altra
scelta se non quella di essere farcitore o farcito. Quest'ultima lirica si conclude però con un toccante invito
alla speranza: L'attesa è lunga, il mio sogno di te non è finito.
L’ultima stagione poetica di Montale si avvia da “Satura”, il libro uscito nel 1971 dopo quindici anni di
silenzio poetico. L’opera prende il titolo dall’antico genere della satura latina, caratterizzato da una vena
critica e parodistica e da grande varietà di temi, toni ecc. (nei banchetti rituali dell’antica Roma, infatti, la
satura lanx era un piatto guarnito di numerose primizie, diverse l’una dall’altra). I poeti satirici latini
avevano utilizzato questo genere per narrare eventi privati, situazioni quotidiana, ben differenti dai
contenuti alti dell’epoca o della tragedia, e /o per criticare comportamenti immorali e vizi sociali: due
caratteri ben presenti anche in Satura e nei successivi libri montaliani.
L’opera segnò un forte rinnovamento dei temi e del linguaggio di Montale, tra l’ironico e il divertito.
Abituati al tono elevato della “Bufera e altro”, molti critici rimasero spiazzati di fronte a quello semplice e
colloquiale di “Satura”, al suo lessico prosastico. A suo avviso, solo termini quotidiani e toni ironici
potevano narrare adeguatamente quei contenuti minimali, i piccoli fatti e i piccoli uomini dell’età
contemporanea. L’io poeta si riserva il ruolo di ironico esaminatore delle storture sociali. Si distinguono le
due sezioni degli Xenia dedicate alla moglie Mosca, morta nel 1963 (Ho sceso dandoti il braccio o Avevamo
studiato per l’aldilà).
I bersagli dell’ironia. Nascosto come un ectoplasma, come leggiamo nella lirica “La storia”, il poeta coglie il
farsi e il disfarsi della realtà quotidiana. Osserva tutto: piccoli e grandi fatti, della vita pubblica così come
della vita privata; ogni cosa ricade sotto la lente della sua divertita, e insieme amara, ironia.
Altre volte Montale ricorda i propri versi d’un tempo, li cita, ma per smitizzarli, per denigrarsi. Dice per
esempio che Clizia è tornata a visitarlo, ma la ritrae nei panni della moglie scomparsa, la Mosca,
invecchiata, miope, distratta. La donna angelo, abbassata a proporzioni così domestiche, ormai non può più
salvare nessuno. Tra i motivi più presenti in “Satura” vi è la balbuzie del linguaggio, originata dalla
comunicazione di massa. Montale giornalista prendeva spesso di mira i mass-media, nei suoi scritti
giornalistici degli anni cinquanta e sessanta (molti poi ripubblicati nel volume “Auto da fé” del 1966).
Moltiplicare informazioni e conoscenze non produce per nulla, a suo avviso, una crescita di umanità; così
come l’incremento dei mezzi di comunicazione e della quantità di parole non porta ad alcun progresso di
consapevolezza critica e di cultura.
Lo stile basso e satirico. Non basta: il mestiere del giornalista esperto suggerisce a Montale di usare nelle
sue liriche satiriche precisamente quel linguaggio standardizzato dei mass-media e della nuova società dei
consumi. Esso sostituisce così in chiave ironica le parole letterarie e i modi alti di un tempo.
Perciò lo stile dell’ultimo Montale appare così anonimo; il tono è quello di un discorso impuro, ove tutto si
mescola. Siamo di fronte a una specie di bricolage poetico, di arte povera. Qualche volta, tra i versi, fanno
ancora capolino rime e strofe; ma servono solo a dimostrare che per il vecchio poeta l’effetto generale
della non-poesia in prosa, è previsto e intenzionale.

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