Vous êtes sur la page 1sur 7

Il concetto del politico

2 paragrafo (su 8)

Il problema iniziale si presenta di carattere definitorio all’interno del lessico politico e giuridico. Il
politico viene definito da Schmitt attraverso il raggruppamento Amico/Nemico (Freund/Feind), che
però non esauriscono il contenuto di tale termine. Il raggruppamento fa riferimento ad una
situazione concreta, esistenziale, per la quale si parte a partire da un’identità politica, che per essere
veramente tale deve essere in grado di agire nel rispetto di questi due criteri fondamentali. L’altro, lo
straniero (Der Fremde) deve essere sempre ricondotto nella sua alterità a queste due categorie, e di
conseguenza relazionarsi ad esso nel caso positivo o negativo. Il discorso viene allargato in seguito in
riferimento all’analisi delle tesi antropologiche assunte in partenza (uomo come buono o cattivo).
Altro aspetto su cui insiste particolarmente il giurista di Plettenberg è relativo all’autonomia di
questo raggruppamento rispetto agli altri campi, ovvero quello economico, morale, religioso; e come
questi campi possano legarsi e trasformarsi in motivi politici, ovvero motivi economici, morali e
religiosi che acquisiscono una forza tale da raggruppare secondo i criteri specificatamente politici. È
ben difficile pensare all’assenza di una commistione di aspetti morali, economici o religiosi all’interno
dell’azione politica. (“Nella realtà psicologica, il nemico viene facilmente trattato come cattivo e
brutto, poiché la distinzione politica, la più estrema, fa ricorso a proprio sostegno a tutte le altre
distinzioni possibili”) Da rilevare però è quanto questi campi incidano sull’azione politica;
quest’ultimo punto in particolare riguarda la questione della sovranità, intesa come referente che
decide sul caso d’eccezione e che quindi s’impegna alla permanenza in vita dell’unità politica.
(Paragrafo successivo relativo alla critica pluralistica di Laski e Cole). All’interno di una maggiore
distinzione delle sfaccettature del raggruppamento che si è considerato Schmitt dice: “Il significato
della distinzione di amico e nemico è di indicare l’estremo grado d’intensità di un’unione o di una
separazione, di un’associazione o di una dissociazione; essa può sussistere teoricamente e
praticamente senza che, nello stesso tempo, debbano venir impiegate tutte le altre distinzioni
morali, estetiche, economiche o di altro tipo”.

3 paragrafo (su 8)

L’analisi del raggruppamento spinge Schmitt a concentrarsi sul carattere fortemente immanente ed
esistenziale del significato che nel senso del politico devono assumere Amico e Nemico. Nemico non
è l’avversario morale, il concorrente economico, o l’eterodosso religioso, né deve avere influenza
nell’ambito della definizione degli amici e dei nemici. Il nemico politico si qualifica sempre come
l’altro esistenziale, che può concorrere alla minaccia o all’annichilimento della propria unità politica,
e per tale motivo si presenta come l’hostis o il polemios, ovvero termini che nella lingua latina e
greca indicano il nemico pubblico, il nemico dell’unità politica. Come abbiamo detto, a questa prima
qualificazione del nemico come pubblico non è necessaria alcuna qualifica morale, religiosa ed
economica, ma ciononostante si verifica puntualmente per la definizione di una percezione comune
la commistione di elementi morali, religiosi od economici all’ambito del politico. Il liberalismo
rispetto a questi termini rivoluziona la definizione del politico dal momento che nel suo spirito
economico e morale, trasforma i nemici in avversari di discussione o concorrenti economici; in
questa rivoluzione dei termini politici il liberalismo s’inserisce in un contesto che rinnova il concetto
moderno di Stato. Le definizioni di politico inoltre si accumulano cosicché è possibile individuare altre
definizioni secondarie del politico: politico nel senso di programma di idee (politica religiosa,
economica, culturale), che in sé già presuppone una preesistente unità, ovvero lo Stato, e quindi
s’inserisce nell’orizzonte della politica interna; o la “politica di partito”, prodotto rivoluzionario del
liberalismo e del suo parlamentarismo. Attraverso la delimitazione del potere dello Stato, che nella
visione schmittiana rimane ancora rappresentante unico dell’unità politica poiché ancora sovrano,
ovvero come detentore dello ius belli e della definizione dei raggruppamenti, si presentano nei partiti
diverse unità all’interno di quella macroscopica, che rimane lo Stato. Quest’ultimo punto è molto
Il concetto del politico

importante perché è ripreso anche relativamente alla sua opinione rispetto alla visione pluralistica
francese nata nel 1906-07 e anglosassone con Gierke e Laski (il pluralismo e la fine dello Stato
moderno). “L’equivalenza politico = politico di partito è possibile allorché l’idea di un’unità politica,
lo Stato, comprendente tutto e in grado di relativizzare tutti i partiti politici al suo interno e le loro
conflittualità, perde la sua forza e di conseguenza le contrapposizioni interne allo Stato acquistano
maggiore intensità rispetto alla comune contrapposizione di politica estera nei confronti di un altro
Stato” (115 pag.). Altra conseguenza del parlamentarismo liberale all’interno dello Stato attraverso la
definizione di queste unità di partiti politici compresi dall’unità politica è relativa all’eccessiva pratica
di politica interna che attraverso uno sviluppo eccessivo può definire effettivamente delle unità
politiche a sé stanti che definirebbero una guerra civile. Nel momento in cui un partito politico
ragiona attraverso le categorie del politico ed è in grado di imporle questo si qualifica come sovrano;
nel momento in cui è in grado di intervenire negativamente rispetto alle prerogative sovrane si
palesa una crisi dell’unità politica, dal momento che è inesistente la stessa unità politica che
dovrebbe essere capace di operare secondo le categorie amico/nemico; lo stesso caso vale nel
momento in cui si verifica un conflitto partitico forte all’interno dello Stato. Si veda per quest’ultimo
caso come interviene la questione sul principio di maggioranza e come l’apparato giuridico deve
intervenire in esso: si è ancora davanti ad una situazione di normatività o in un caso eccezionale,
anormale? Sopravvive ancora l’apparato giuridico a questa situazione? Su questo sfondo l’anno
successivo, nel 1933, Schmitt avrebbe composto il piccolo scritto “Legalità e legittimità” riguardo alla
situazione conflittuale, da guerra civile tra il partito nazionalsocialista e quello comunista, e la
prevista conclusione attraverso un uso improprio e non naturale dell’apparato giuridico, dal
momento che quest’ultimo ha senso nella misura in cui ci si trova in uno stato di normalità e non in
uno di eccezione come quello della guerra civile. In questo frangente Schmitt e i suoi collaboratori
richiesero fortemente la dichiarazione dello stato d’emergenza da parte di Von Hindenburg. Grazie
Hindenburg e burocrazia dell’apparato giuridico!! Altro aspetto legato all’ambito del politico e
all’accezione del nemico sussiste sempre come possibilità reale estrema la guerra. In una dinamica
graduale l’ostilità qualifica il grado di dissociazione rispetto ad un’altra entità politica che può
sfociare come estrema ratio. La guerra come possibilità reale estrema del politico sussiste sempre nel
momento in cui è sempre presenta la possibilità del raggruppamento amico/nemico; in questo senso
nella misura i contrasti di qualsiasi natura si trasformano in politici, ovvero assumono le categorie
amico/nemico, cambiano la loro natura di partenza specifica e slittano nell’ambito del politico.
Risulta chiaro pertanto come la guerra si qualifichi come aspetto probabile sempre presente
all’interno del politico in quanto interessa massimamente la presenza esistenziale di un’unità. Non è
necessario che la guerra abbia caratteri morali, economici o religiosi, né che sia combattuta spesso o
con quali mezzi, essa implica sempre un caso critico per il quale un’unità politica ribadisce la sua
identità nella negazione dell’altro. In ciò il politico non vuole qualificarsi come guerra sanguinosa o
come pura guerra; la neutralità è confermata proprio dalla possibilità della guerra all’interno dei
rapporti politici tra Stati. A questo proposito Schmitt: “la definizione qui data di politico non è né
bellicistica, né militaristica, né imperialistica, né pacifista. (…) La guerra è solo la realizzazione
estrema dell’ostilità. (…) essa deve però esistere come possibilità reale, perché il concetto di nemico
possa mantenere il suo significato”. All’interno delle dinamiche del XX secolo, con i programmi di
Ginevra-Versailles, nasce un concetto discriminatorio di guerra che adopera le caratterizzazioni
morali come umanità, pace e giustizia per snaturare e superare il politico, nella sua definizione del
nemico. Il nemico non diviene più in questo modo soltanto il nemico pubblico, ma il nemico
dell’umanità, il disturbatore della pace, l’ingiusto. Tale snaturamento della componente del politico
ha dato il via, secondo Schmitt, a guerre sempre più disumane e crudeli, oltre che per l’avanzamento
tecnico dell’artiglieria bellica. Come se non bastasse, con lo spostamento delle dinamiche politiche
sempre più sbilanciato sull’ambito economico vi è anche il problema di definizione delle azioni
economiche contro gli stati disturbatori dell’ordine universalistico di Ginevra e Versailles. Da questo
Il concetto del politico

punto di vista Schmitt segnala un vero e proprio rinnovamento lessicale mutuato dall’ambito
giurisdizionale ed economico. È lo spostamento del centro spirituale tra economico e tecnico che ha
mutato il modo di percepire le dinamiche statali. Schmitt segnala come l’ipocrisia borghese con il suo
vocabolario economico e giuridico mascheri azioni politiche di annessione e controllo politico,
mascheramento richiesto dai valori umanitari e pacifisti dell’opinione pubblica borghese. Basti
pensare alla figura di Leopoldo II del Belgio oppure al controllo francese e inglese delle colonie
attraverso determinate clausole all’interno delle costituzioni (come il caso dell’Egitto), che di fatto
assegna le prerogative del politico e il suo campo d’azione pratico (come la guerra) allo stato
protettore o mandatario.

Sulla relazione intercorrente tra i concetti di guerra e Nemico (1938)

In questo corollario (secondo di tre) Schmitt approfondisce, nel 1938, i concetti di guerra e nemico.
Nel 1 paragrafo approfondisce la dinamica della guerra, dividendola in “azione” e “stato”. Con guerra
d’azione si indica l’atto pratico del guerreggiare in battaglia; mentre con guerra come stato si indica
la situazione di contrasto politico che dura nel tempo e comporta un determinato modo di
relazionarsi nel tempo. La guerra totale si qualifica come la commistione di questi due fattori. La
guerra in quanto tale viene sempre indicata come presupponente uno stato di ostilità che si sviluppa
e vive nel tempo, e che trova un suo sbocco poi nella possibilità sempre reale ed estrema della
guerra, come strumento di eliminazione fisica e politica (Bellum manet, pugna cessat). Nel 2
paragrafo si concentra sul cambiamento del lessico, mutuato dal linguaggio giuridico-penalistico,
dall’istituzione ginevrina post-bellica dai giuristi. Tale cambiamento viene polemizzato nel suo atto di
mascherare sotto vesti criminali ed economiche questioni politiche, che di conseguenza vengono poi
inquadrate dall’opinione pubblica borghese come qualcosa di legittimo e giusto. È sempre presente il
leitmotiv polemico di Schmitt nei confronti del mascheramento dell’azione politica a partire da
Ginevra e Versailles, prodotto della mentalità borghese. Quale mezzo di azione politica risulta essere
ancora più brutale e spietato del passato dal momento che adopera mascheramento e sfruttamento
materiale quale prassi. Nel 3 paragrafo si dilunga su aspetti etimologici riguardanti i concetti di amico
e nemico. Amico viene indicato, nella lingua tedesca, come amico di sangue, ovvero qualsiasi
componente (sia per adozione e non) della famiglia, per poi assumere un significato un po’ più
allargato, a causa del pietismo e di movimenti analoghi (a detta sua), con il senso di amico dell’anima,
amico privato; l’etimo della parola “Feind” invece risulta essere di più difficile origine. Schmitt
protende a legare tale origine al concetto di faida (Fehde), e, rifacendosi a Karl von Amira (grande
giurista del diritto nordico; “Grundriss des germanischen Rechst), definisce quest’ultima come il caso
in cui si viene esposti ad una situazione di inimicizia mortale. Rileva inoltre il cambiamento linguistico
che puntualmente si verifica a seguito di una sempre maggiore attenzione alla politica interna nelle
unità politica (Zum Beispiel Inimicus-amicus nell’Imperium romanum dopo la pax romana). Nel
paragrafo 4 Schmitt ritorna a legare il discorso alle conseguenze delle istituzioni di Ginevra e
Versailles all’interno dell’ambito del diritto internazionale. Il punto cruciale su cui si concentra è
relativo all’indeterminatezza voluta tradotta da astrazioni giuridiche rispetto alla questione dello
stato di pace e di guerra. La domanda fondamentale è: la pace di qualifica come non guerra e
viceversa, o è possibile definire una situazione intermedia? E se sì, come deve relazionarsi ad essa
l’istituzione giuridica? Definita questa problematica fondamentale, Schmitt evidenzia la volontaria
decisione di non accostare ambito giuridico e sociologico rispetto alla situazione intermedia. In
questo modo per Schmitt la situazione intermedia si presenta come abnorme, ma non ancora
rilevabile come stato di guerra o pace, dal momento che questi stessi, cosi come la definizione di
nemico, vengono allargati quanto mai per dare libertà d’azione “non militare”, ma neppure pacifica.
La causa di quest’abnormità viene riferita a tre cause: l’imposizione della pace di Parigi, il sistema di
prevenzione post-bellica attraverso il patto di Kellogg e la SdN, e l’estensione dell’idea della guerra a
manifestazioni anche non militari (economiche, propagandistiche) all’interno delle ostilità. Tale
Il concetto del politico

situazione viene definita alquanto criminosa e regressiva da parte di Schmitt poiché “l’alternativa tra
guerra e pace in una situazione intermedia è ancora più importante poiché in essa tutto viene risotto
a finzione e ad astrazione giuridica”. Ci sono state tentativi di specificare all’interno di questa
situazione dei discrimini per i due concetti, ma essi si limitano a teorie soggettivistiche dello Stato che
delegano ai partiti di palesare un animus belligerandi, ma non risolvono la questione in ambito
giuridico internazionale. La grande novità che palesa Schmitt è relativa “alla formalizzazione
giuridica, all’istituzionalizzazione della situazione intermedia fra guerra e pace, che non rende più
corrette tutte le definizioni precedenti” (a causa del patto di Kellogg e della SdN). Vedi pag. 200-201.
Nel paragrafo 5 approfondisce il concetto di guerra totale, che viene allargato ad ambiti extramilitari,
come propaganda, economia etc., definendo cosi un potenziamento qualitativo. Nel paragrafo 6
considera quattro significati del termine “neutralità”, che lui connette fortemente alla guerra,
all’interno del diritto internazionale. 1) equilibrio tra neutrali e belligeranti: in questo caso il neutrale
è inteso in senso classico, come qualcuno che non prende posizione, in questo caso si qualifica nel
linguaggio del diritto internazionale come un non nemico, quindi amico; 2) superiorità univoca dei
belligeranti sui neutrali: in questo caso i neutrali non si schierano per tacito compromesso di
sopravvivenza (per ragion di Stato) e quindi stanno alla mercé dei belligeranti; 3) superiorità dei
neutrali sui belligeranti: in questo caso possono i neutrali definire delle regole e diritti ai belligeranti
per una controllata risoluzione delle ostilità (dog fight); 4) neutralità nel senso di isolamento dato da
grande lontananza o per una componente autarchica e isolabile: in questo caso la neutralità non
consiste nell’isolamento ma nel voler essere né amico, né nemico dei belligeranti. Quest’ultima
definizione trascende leggermente il linguaggio giuridico e si può qualificare come una definizione
non troppo applicabile data la riduzione effettiva delle lontananze con la globalizzazione, anche
politica. Il problema della neutralità risulta essere per Schmitt, in virtù dei problemi relativi alla
definizione di una situazione intermedia nell’ambito del diritto internazionale, come evidenziato nel
paragrafo 4, dipendente sempre dalla necessità di definire bene per il mondo del diritto
internazionale cosa è guerra e cosa è pace, poiché solo in riferimento a questi due concetti che trova
senso il concetto di neutralità.

Paragrafo 4 (su 8)

In questa parte dell’opera Schmitt si concentra sulla costituzione dell’unità politica. Il politico, che
indica sia il grado d’intensità dell’associazione e dissociazione sia il raggruppamento, si lega sempre
agli altri ambiti; ciò che non deve essere glissato è il cambiamento reciproco definito dal
mescolamento di questi ambiti. Qualsiasi comunità religiosa, economica o morale si mischia nel
politico nel momento in cui adotta le categorie del politico, e quindi i criteri amico/nemico, cosicché
si criteri di partenza e quelli del politico agiscono l’uno sull’altro. Rispetto a questo aspetto ne
scaturiscono le dinamiche di un’unità politica, che si qualifica sempre come sovrana, ovvero
arbitraria del caso critico. Qui emerge l’importanza dello stato d’eccezione nella definizione dell’unità
politica e del politico, dal momento che soltanto nel momento in cui un’associazione politica si
qualifica come sovrana, ovvero decide sullo stato d’eccezione, si presenta come unità politica; questo
vale per associazioni economiche, morali, religiose etc. Se ad esempio una comunità religiosa è tale
da poter definire la qualifica di nemico, allora si qualifica sia come comunità politica sia come unità
politica. Se invece è capace in senso negativo di intervenire, si palesa una crisi all’interno dell’unità
politica. Da questi discorsi parte la critica al pluralismo di Laski che si è già citata. Schmitt riconosce
come il lavoro di Laski nella sua prospettiva pluralistica sia una critica alla concezione mitica dello
Stato come “supra partes”, avente il monopolio del potere, e altri riferimenti al mito dello Stato
moderno, guardando sullo sfondo la vicenda di Bismarck dell’Impero tedesco contro la Chiesa e i
sindacati. Da questo punto di vista Laski presuppone lo Stato come un’associazione tra le tante che
concorrono all’interno della vita di un individuo e ai quali è vincolato da legami, che decidono la sua
azione caso per caso. Ma come ribadisce Schmitt la questione è definire in linea essenziale il politico,
Il concetto del politico

da cui derivare che non si deve parlare di un’associazione o un’altra, ma dell’unità politica, che si
palesa nel momento in cui è capace di decidere sul caso d’eccezione. La critica pluralistica di Laski
non inquadra il problema della sovranità secondo la prospettiva del giurista tedesco, ovvero della
decisione sul caso critico, ma la riferisce ai miti dello Stato moderno. “(la prospettiva di Laski) si
mantiene ferma ad un individualismo liberale, poiché in conclusione non fa altro che far giocare
un’associazione contr l’altra, al servizio del libero individuo e delle sue libere associazioni, e in tal
modo tutte le questioni e i conflitti vengono decisi partendo dall’individuo”. Il succo risulta essere
sempre determinare quale tra le associazioni si definisce come la decisiva.

Paragrafo 5 (su 8)

Schmitt si concentra sul modello Stato come unità politica organizzata riferendola anche alla storica
situazione politica. Infatti, rileva come nel suo carattere di unità politica, rientri il ius belli e come di
fatto oggi la costituzione politica e tecno-economica degli Stati abbia definito casi di protettorato o
mandati dal momento che viene fortemente ridimensionata la possibilità e la ragionevolezza di
esercitare il ius belli. Ciò non comporta certamente la fine delle guerre, ma una possibilità di
verificarsi minore. Il discorso rispetto al ius belli continua in riferimento alla prerogativa dello Stato
nella definizione dello stato “normale”. Lo Stato normale è lo status in cui l’unità politica riesce ad
assicurare la pace e la stabilità interna; in questo caso risulta fondamentale come prerogativa dello
Stato un complesso di norme che definisce sia la normalità, sia la definizione dell’hostis all’interno
dell’unità politica stessa. In tal caso, ovvero nel momento in cui viene riconosciuto un nemico
pubblico, si definisce la situazione della guerra civile, che si sottrae al caso di normalità e che quindi
non può essere soggetto ad un sistema di norme. Caso analogo succede all’interno delle democrazie
costituzionali, in cui la difesa esistenziale e la dichiarazione del hostis si relativizza rispetto alla
salvaguardia della costituzione (secondo Lorenz von Stein). Altro aspetto che nel corso del paragrafo
Schmitt si preoccupa di chiarificare è l’esercizio dello ius belli legato al politico. Schmitt asserisce che,
oltre all’esclusività dello ius belli esercitato dall’unità politica per la sopravvivenza esistenziale, non
deve essere inteso e riconosciuto alcun altro motivo per la definizione di una guerra se non quello
esistenziale. “Maledire la guerra come assassinio e poi pretendere dagli uomini che essi facciano la
guerra (…) è un inganno manifesto. Non esiste uno scopo razionale, né una norma cosi giusta, né un
programma cosi esemplare, né un ideale sociale così bello, né una legittimità o legalità che possa far
apparire giusto che gli uomini si ammazzino a vicenda” (pag. 133). Il discorso viene portato avanti
come anticipazione della descrizione del contesto definito da Kellogg e Ginevra, ovvero quello del
nuovo diritto internazionale. Infatti, la situazione definita dal patto di Kellogg rispetto alla guerra non
si pone in maniera più assoluta come risolutore, nonostante i suoi proclami. Infatti, essa bandisce
soltanto la guerra nazionale, ma non quella internazionale; oltre a quest’ultimo elemento Kellogg
risulta essere un patto sottoposto a riserve che ne definiscono fortemente il contenuto, riserve che
fanno riferimento all’ambito del politico (autodifesa, violazione di trattati, indipendenza). Oltre a ciò
il patto di Kellogg non fa altro che dare una linfa ancora più forte alla qualità del motivo bellico, dal
momento che definisce un concetto di guerra discriminatorio, ovvero che fonde fortemente moralità
e la giustizia per il bene dell’umanità alla guerra. La conclusione del paragrafo si presenta come una
disamina lucida e realistica: le comunità umane devono necessariamente affrontare il problema del
politico se vogliono conservarsi come indipendenti e libere, altrimenti verranno di necessità assorbite
da altri sistemi politici, e ad evitare questo destino nessun proclamo resiste. “Sarà allora il protettore
a determinare il nemico, in forza della connessione eterna che esiste tra protezione ed ubbidienza.
(….) Il protego ergo obligo è il cogito ergo sum dello Stato. (…) Nessuno ritiene possibile che gli
uomini possano condurre il mondo, ad esempio, ad uno stato di pura moralità, mediante una
rinuncia a ogni produttività estetica o economica; ma ancor meno un popolo potrebbe procurare
all’umanità uno stato puramente morale o puramente economico mediante la rinuncia ad ogni
decisione politica. (Sparirebbe) semplicemente un popolo debole”.
Il concetto del politico

Paragrafo 6 (su 8)

In questo paragrafo Schmitt affronta la questione del pluralismo del concetto del politico. Molto
diverso alla prospettiva che ne aveva Laski, il pluralismo del politico fa riferimento per definizione alla
presenza di più stati che si contrappongono, più unità politica, altrimenti perderebbe di senso la
stessa distinzione tra amico e nemico. In virtù di questo carattere si deduce che non è ammissibile o
almeno, per lui, probabile la possibilità di universalismi. Gli universalismi, infatti, come progetti di
leghe o morali (l’umanità) sono molto difficili da coniugare e presuppongono un mondo senza il
politico, senza la distinzione amico/nemico. E rispetto agli universalismi Schmitt fa una disanima sia
dell’uso del concetto di umanità, di cui chiarisce a più riprese la sua accezione neutra e
assolutamente non politica, sia sulla lega di nazioni, e in particolare sulla SdN. Infatti, questa si
qualifica tutt’altro che aderente a piani universalistici di pace e umanità; piuttosto sarebbe molto più
corretto definirla un’alleanza politica: infatti definisce determinate relazioni tra le parti, agevola
determinate dinamiche della guerra e soprattutto ne favorisce enormemente la possibilità, sia per il
motivo umanitario, sia per gli aiuti militari. Quest’analisi viene portata avanti a fronte delle
contraddizioni, che subito evidenzia, come la non universalità, il carattere puramente interstatale e
non internazionale, su cui insiste nella necessità di una differenziazione. Rispetto al progetto di una
lega di nazioni universale: “Una lega di nazione come organizzazione universale dell’umanità
concretamente esistente dovrebbe invece portare a conclusione il difficile compito in primo luogo
di sottrarre effettivamente a tutti i raggruppamenti umani esistenti il ius belli e secondariamente di
non esercitare essa stessa nessun ius belli, poiché altrimenti verrebbe meno di nuovo l’universalità,
l’umanità, la società spoliticizzata: insomma tutti i suoi tratti essenziali”.

Paragrafo 7 (su 8)

Schmitt continua la sua dissertazione concentrandosi sull’epistemologia politica, che riguarda i


presupposti antropologici da cui si parte. Dalla disanima che ne consegue vengono definiti il
liberalismo e l’anarchismo presupponenti l’uomo come “buono”, mentre contrariamente operano le
teorie autoritarie. La questione, come sottolinea Schmitt, non è relativa ad una distinzione etica dei
concetti di buono o cattivo, ma di carattere fattuale: “cioè la risposta alla domanda se un uomo sia
un essere pericoloso o non pericoloso, amante del rischio o innocentemente timido”. Da questo
punto di vista ancora più esaustivo è il rimando che fa prima a H. Plessner, autore di un’antropologia
politica intitolata “Macht un mannliche Natur” (1931), e a Hegel. “Per Plessner l’uomo è un essere
fondato primariamente sul distacco che resta indeterminato, impenetrabile, questione aperta in
quanto alla sua essenza”: la citazione di Plessner vuole indicare essenzialmente il carattere
potenziale, dinamico, sempre aperto dell’uomo. L’imprevedibilità dell’uomo stesso spinge a definirlo
cattivo, inteso, come ribadito precedentemente, non in senso morale ma fattuale. Il riferimento a
Hegel è relativo essenzialmente al significato politico sul suo passo riguardante il passaggio dalla
quantità alla qualità, che paleserebbe, secondo Schmitt, la consapevolezza della possibilità sempre
presente della trasformazione in politico di settori della vita umana extrapolitici. Importante è la
definizione polemica che dà Hegel del borghese come individuo che si vuole spoliticizzare, che
vincola lo Stato attraverso l’etico e lo subordina con l’economico, che si compiace di godere dei frutti
della sua proprietà e della sicurezza data dall’agiatezza. Per la conclusione di questo ragionamento:
“Bisogna osservare quanto diversi siano, nei diversi settori del pensiero umano, i presupposti
antropologici. (…) Poiché la sfera del politico è determinata, in ultima istanza, dalla possibilità
reale di un nemico, le concezioni e le teorie politiche non possono facilmente avere come punto di
partenza un ottimismo antropologico. Altrimenti esse eliminerebbero, insieme alla possibilità del
nemico, anche ogni conseguenza specificatamente politica”. La seconda parte della dissertazione
viene dedicata ad una sorta di elogio del realismo politico attraverso le figure di Machiavelli e
soprattutto di Hobbes, dopo aver spiegato la connessione tra i criteri teologici e politici (peccatori/
Il concetto del politico

non peccatori; amico/nemico). Essenzialmente il discorso di Schmitt verte continuamente sulla


necessità di riconoscere continuamente l’ambito del politico, che viene continuamente mischiato
dagli altri ambiti. La moralità, il diritto, i valori sociali devono essere continuamente distinti e
compresi rispetto al loro rapporto con il politico. L’esempio che porta avanti e che inoltre è quello
che teoricamente e retoricamente ha avuto e ha sempre un peso storico molto forte è relativo al
diritto, alla cosiddetta signoria o sovranità del diritto. Sempre e continuamente bisogna riconoscere
l’uso politico che si fa dell’ambito del diritto, come di qualsiasi altro, perché continuamente esso
concorre o a giustificare uno status quo o a definire la legittimità per instaurarne un altro. Il punto
focale all’interno della vita politica di un popolo risulta essere sempre quello di non perdere mai la
distinzione del politico; è nel momento che in cui ci si abbandona ad opinioni moralistiche, giuridiche
o religiose che si perde la propria esistenza politica. In questo termini il politico si qualifica come un
modus essendi sempre presente ed esistenziale.

Paragrafo 8 (su 8)

La conclusione dell’opera racchiude una descrizione diacronica serrata e dissacrante del liberalismo e
degli effetti che ha provocato nella storia politica occidentale a partire dal XIX secolo. Come notifica
sin dalle prime battute il liberalismo non si presenta come una teoria dello Stato, ma come una
negazione di determinati aspetti dello Stato moderno che si possono riassumere nella difesa di due
aspetti fondamentali: l’etica e l’economia. Già nel paragrafo precedente Schmitt aveva definito
l’azione del liberalismo come capace di aver vincolato lo Stato all’etico, con la definizione dell’ambito
del privato (e la conseguente creazione di un diritto privato ad hoc), e averlo subordinato attraverso
l’economico. La delimitazione dello Stato attraverso etico ed economico non basta a definire una
teoria positiva dello Stato, cosi come non basta per svincolarsi dall’ambito del politico. La conclusione
del ragionamento è infatti intuibile già dalle prime battute: il liberalismo non si svincola dall’ambito
del politico; l’economico ha raggiunto e adottato le categorie del politico, attraverso la preminenza
che tra XIX e XX secolo ha acquisito. Più che altro il liberalismo si rende protagonista di una forte
operazione di spoliticizzazione e neutralizzazione rispetto al politico, e definisce anche una forte
autonomia e isolamento rispetto ai vari ambiti del sapere. “Che produzione e consumo, formazione
del prezzo e mercato avessero una loro propria sfera e non potessero essere diretti né dall’etica, né
dall’estetica, né dalla religione, né, meno che mai, dalla politica, era uno dei pochi dogmi
indiscutibili e indubitabili dell’epoca liberale”. Altro componente importante dello sviluppo del
pensiero liberale è costituita dalla sua retorica e dalla sua filosofia della storia. Queste due
componenti si legittimano a vicenda attraverso ragionamenti etico-tecnici per i quali la storia deve
seguire un percorso di perfezionamento morale e sociale attraverso l’economia e la tecnica; e cosi
nascono le filosofie della storia di Hegel e Comte, oppure successivamente quelle di antinomie forti
come quella marxista (oppure quelle di Gierke con la contrapposizione tra signoria e comunità, o di
Tӧnnies con società e comunità). Il discorso si conclude con l’ennesimo riferimento, frutto appunto
della mentalità etico-economica liberale, alla costituzione dello status quo ginevrino, che adotta il
politico, talvolta superandolo, attraverso l’economico e la costruzione di un nuovo linguaggio morale
e giuridico all’interno delle retoriche belliche per la pace e l’umanità.

Vous aimerez peut-être aussi