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4.1. GENERALITÀ
Le macchine trasmettitrici, o meccanismi, sono, per definizione, quelle macchine
elementari che hanno la funzione di trasmettere energia meccanica, modificando i fattori del
lavoro, cioè forza e spostamento oppure coppia e angolo. I meccanismi possono essere definiti
secondo molti punti di vista. In questa sede si propone il seguente raggruppamento, che tiene
conto essenzialmente delle funzioni cui sono destinati:
1) meccanismi atti al collegamento di due alberi, quindi giunti ed innesti;
2) meccanismi atti a trasmettere forze e velocità con rapporto di trasmissione costante: ruote
di frizione, ruote dentate, cinghie (lisce, trapezoidali e dentate) e relative pulegge
variamente sagomate o catene e relative ruote dentate;
3) meccanismi atti a trasmettere forze e velocità con possibilità di variare in modo continuo
il rapporto di trasmissione, detti variatori continui di velocità;
4) meccanismi atti a trasmettere forze e velocità con legge del moto varia, cioè sistemi
articolati, camme e relativi cedenti, meccanismi a moto intermittente e meccanismi
unidirezionali;
5) meccanismi atti alla frenatura, cioè freni con tamburo (e ceppi o nastro) o con disco.
6) Nel presente corso si tratterà unicamente dei primi due tipi di meccanismi e dei sistemi di
frenatura.
4.2. GIUNTI
Quando si deve trasmettere il moto tra due alberi rotanti collegati l’uno al gruppo
motore e l’altro ad un gruppo utilizzatore o ad altri componenti meccanici quali rotismi,
pulegge, ecc., si ricorre a due tipi di collegamenti, a seconda che si richieda o meno la
possibilità di interrompere in qualunque istante il collegamento medesimo. Si distinguono in
particolare:
• giunti fissi, se l’accoppiamento è permanente ed invariabile;
• giunti mobili, se l’accoppiamento è permanente ma non invariabile;
• giunti scioglibili, o innesti, se l’accoppiamento è temporaneo.
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Figura 4.2.1.1: Giunto a bussola inchiavettata Figura 4.2.1.2: Giunto flangiato ordinario
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Un esempio di giunto flessibile è quello elastico (figura 4.2.1.3), in cui gli assi sono
collegati mediante un elemento di gomma: quando il giunto trasmette una coppia, l’elemento
di gomma, sollecitato a torsione, si deforma, dando luogo ad una rotazione relativa tra i due
alberi proporzionale alla coppia trasmessa.
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Figura 4.2.2.1: Giunto limi- Figura 4.2.2.2: Giunto limi- Figura 4.2.2.3: Giunto limi-
tatore di coppia con sfera e tatore di coppia con superfici tatore di coppia con superfici
molla d’attrito e molle a tazza d’attrito e molle elicoidali
Quando si deve trasmettere una rilevante potenza fra due alberi aventi assi concorrenti,
vengono usati i giunti universali. Fra questi, per le sue numerose applicazioni, occorre
menzionare il giunto di Cardano. In esso l’albero motore e l’albero condotto sono solidali a
due forcelle poste in piani tra loro perpendicolari e infulcrate folli su una crocetta costituita da
due perni pure ortogonali (figura 4.2.2.4). La figura 4.2.2.5 mostra la posizione del giunto ad
un dato istante e quella assunta dopo una rotazione di 90°.
Figura 4.2.2.4: Giunto di Figura 4.2.2.5: Posizione del giunto in un istante generico
Cardano (a) e dopo una rotazione di 90° (b)
ω2med = ω1.
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
ω2 α = 30°
ω2max
α = 10° α = 20°
ω2med
ω2min
π 2π ϑ
Quando si vuole che le velocità dei due alberi siano uguali in ogni istante (condizione di
omocinetismo), si ricorre al doppio giunto cardanico, realizzato interponendo tra l’albero
conduttore e quello condotto un albero intermedio collegato ai due precedenti per mezzo di
due giunti cardanici identici. L’omocinetismo, se i tre alberi sono complanari, si ottiene
quando gli angoli che l’asse intermedio forma con gli altri due assi sono uguali e quando le
forcelle dell’asse intermedio sono complanari. Le due possibili realizzazioni sono riportate
nelle figure 4.2.2.7 e 4.2.2.8. Dal punto di vista dell’utilizzazione è comunque opportuno che
l’angolo del giunto non superi i 15°; angoli superiori (fino a 45°) sono possibili per comandi a
mano o per funzionamenti a bassissime velocità.
Figura 4.2.2.7: Doppio giunto di Cardano Figura 4.2.2.8: Doppio giunto di Cardano
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Figura 4.2.3.1: Innesto a denti Figura 4.2.3.2: Innesto a Figura 4.2.3.3: Innesto a denti
frontali rettangolari spirale di sega
Gli innesti a denti frontali rettangolari sono i più semplici e possono trasmettere coppia
in entrambi i versi di rotazione, in teoria senza dar luogo a spinte assiali, ma in pratica, dopo
un certo numero di innesti, dette spinte insorgono per l’usura. I profili a spirale o a denti di
sega permettono un solo verso di trasmissione di coppia, ma consentono l’innesto anche in
presenza di velocità, seppur modeste.
Gli innesti ad attrito, detti comunemente frizioni, sfruttano il fenomeno dell’attrito
esistente tra due superfici a contatto per poter trasmettere una certa coppia fra due elementi
rotanti a queste collegati, e possono pertanto essere utilizzati per operazioni di innesto che
debbano avvenire anche ad alte velocità ed in presenza di carichi notevoli. Quando infatti i
due elementi della frizione aventi diversa velocità angolare vengono portati a contatto, si
origina nell’accoppiamento una coppia di attrito, funzione sia della forza con cui i due
elementi vengono premuti l’uno contro l’altro, sia della geometria della frizione stessa, sia,
infine, del valore del coefficiente d’attrito relativo alla coppia di materiali a contatto. Una
volta che i due elementi della frizione hanno raggiunto la stessa velocità angolare, si passa da
una fase di trasmissione della coppia per attrito dovuta allo strisciamento ad una fase di
trasmissione della coppia per aderenza fra le due superfici, e la coppia trasmessa in queste
condizioni può assumere qualsiasi valore, purché entro il limite massimo stabilito dalle
condizioni di aderenza.
I più semplici sono le frizioni assiali a disco (figura 4.2.3.4), schematizzabili mediante
due soli dischi solidali ai due alberi da collegare, uno dei quali porta del materiale di attrito
(coefficiente di aderenza compreso fra 0.1 e 0.4). Serrando l’uno contro l’altro i due dischi
con l’ausilio di una forza assiale, si ottiene, grazie alla presenza dell’attrito esistente fra le due
superfici a contatto, una coppia all’interno della frizione.
Quando si debbano trasmettere coppie elevate, si realizzano frizioni assiali multidisco
(figura 4.2.3.5), ove i vari dischi sono alternativamente collegati con l’albero motore e
l’albero condotto. A frizione inserita, i dischi vengono tutti premuti uno contro l’altro con la
stessa forza assiale e la coppia trasmessa aumenta proporzionalmente al numero di dischi.
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Figura 4.2.3.4: Frizione assiale monodisco Figura 4.2.3.5: Frizione assiale multidisco
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
quando si vuole trasmettere il moto tra assi situati a distanza relativamente grande. In tal caso,
infatti, la presenza dei flessibili sostituisce gruppi di ingranaggi, alberi e cuscinetti, per cui,
riducendo notevolmente il numero e la complessità dei componenti della trasmissione, ne
riduce in genere di molto il costo. Inoltre, poiché i flessibili sono organi elastici di solito di
notevole lunghezza, possono servire per smorzare eventuali urti e vibrazioni. Tuttavia il loro
uso è normalmente limitato ai casi in cui le potenze da trasmettere non sono molto grandi ed a
quelli in cui non si richiede un’assoluta costanza del rapporto di trasmissione tra le velocità
angolari dei due alberi.
4.3.1. Cinghie
Le cinghie vengono normalmente usate per trasmettere il moto tra assi paralleli posti ad
una certa distanza. Si distinguono in cinghie piane, trapezoidali, dentate e speciali, queste
ultime realizzate per fini particolari.
La trasmissione di potenza sfrutta l’attrito che si sviluppa fra la puleggia e la cinghia
quando questa è soggetta a una conveniente tensione. La puleggia consiste in un corpo
cilindrico costituito da un mozzo centrale che serve al calettamento sull’albero, una corona
esterna a profilo leggermente convesso sulla quale si avvolge la cinghia e una serie di razze
che collegano la corona stessa al mozzo.
La puleggia alla quale viene applicato il momento motore si dice conduttrice o motrice,
quella cui viene applicato il momento resistente, condotta. Durante il moto i due rami della
cinghia assumono tensioni diverse: dicesi conduttore il ramo che si muove dalla puleggia
condotta alla conduttrice, condotto il ramo che si muove dalla puleggia conduttrice alla
condotta. Il ramo conduttore è soggetto a una tensione maggiore del ramo condotto.
Lo schema di funzionamento è rappresentato in figura 4.3.1.1, ove sono indicati i raggi
r1 e r2 delle due pulegge e le rispettive velocità angolari ω 1 e ω 2 .
In assenza di slittamento, essendo uguale la velocità di traslazione della cinghia per
entrambe le pulegge, si può scrivere la relazione:
v = ω 1 r1 = ω 2 r2
Da questa si ricava il rapporto di trasmissione, definito in generale come rapporto fra la
velocità angolare del cedente e quella del movente:
ω 2 r1
τ= =
ω1 r2
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
ω1
ramo condotto
r1 r2
ω2
ramo conduttore
È bene, per una migliore e più sicura utilizzazione del sistema, che il ramo conduttore
sia sistemato inferiormente e il ramo condotto superiormente. Inoltre, è anche utile che nella
puleggia a raggio più piccolo l’avvolgimento della cinghia non sia mai inferiore a un terzo
della circonferenza. Ciò si ottiene adottando rapporti di trasmissione non inferiori a 1/8 e
facendo si che la distanza fra i due assi sia almeno pari a 2,5 volte il diametro della puleggia
maggiore. In casi eccezionali si può ricorrere a rapporti di trasmissione inferiori sistemando le
cinghie incrociate (con tale sistema si aumenta infatti sensibilmente l’avvolgimento della
cinghia sulla puleggia, figura4.3.1.2).
ω1
ω2
Sempre per un corretto funzionamento del sistema, è opportuno che lo slittamento fra
cinghia e puleggia non superi il 2-3%. Ciò può essere ottenuto esercitando una opportuna
tensione sulla cinghia. Se Mm è il momento motore che si vuole trasmettere e r1 il raggio della
puleggia motrice, la forza periferica risulta pari a:
Mm
F=
r1
Per assicurare il movimento dovuto all’attrito fra cinghia e puleggia occorre però che
questa sia tesa maggiormente: l’esperienza dice in merito che nel ramo conduttore è
sufficiente una tensione F1 = 2,5 F e nel ramo condotto una tensione F2 = 1,5 F. Ne deriva che
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
la cinghia deve resistere ad una forza di trazione almeno pari ad F1 e che i perni degli alberi
devono invece resistere a forze paria a Fp = F1 + F2 = 4 F. In base a queste considerazioni è
possibile calcolare la larghezza di cinghia necessaria in funzione anche delle differenti
velocità cui viene sottoposta.
Cinghie piane
Realizzate normalmente in cuoio, gomma o materia plastica, offrono una notevole
flessibilità che ne consente l’impiego per trasmettere il moto anche lungo percorsi piuttosto
tortuosi. I principali vantaggi consistono nel costo relativamente basso, nella capacità di poter
operare in ambienti sfavorevoli, nella efficienza alle elevate velocità, nella possibilità di
assorbire variazioni anche violente di coppia. I principali svantaggi risiedono nel pericolo di
slittamento, nella rumorosità, nel modesto rendimento alle basse velocità e nel maggiore
carico sui cuscinetti in conseguenza della maggior tensione nella cinghia, richiesta dalla
necessità di garantire una forza di aderenza sufficiente fra cinghia e puleggia.
Le cinghie in cuoio sono utilizzate per velocità fino a 30 m s e per potenze fino a
350 kW; le loro tipiche applicazioni si riscontrano nella derivazione del moto a diverse
utilizzazioni a partire da un unico albero di trasmissione. Quelle di gomma costituiscono il
tipo più economico di cinghie piane; esse sono normalmente formate da uno o più strati di
cotone impregnati di gomma. La vita di queste cinghie e la potenza da esse trasmessa per
unità di superficie sono minori delle analoghe caratteristiche delle cinghie di cuoio. La
massima velocità raggiungibile è dell’ordine dei 30 m s e la potenza trasmessa non supera in
genere i 220 kW; le principali applicazioni riguardano trasmissioni di piccole potenze, con
pulegge di solito di piccolo diametro. Le cinghie di materia plastica sono costituite da sottili
strati di poliestere e vengono utilizzate quando le potenze da trasmettere non superano la
decina di kilowatt e quando si richieda grande leggerezza della trasmissione.
Per tutte le realizzazioni il rendimento è intorno al 96-98%.
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Cinghie trapezoidali
Sono normalmente costituite da una serie di cavi immersi in uno strato di materiale
plastico che, oltre a fungere da supporto, mantiene i cavi stessi nella loro posizione corretta;
questo strato di materiale plastico è a sua volta compreso entro due strati di gomma chiusi
esternamente da una guaina anch’essa generalmente di gomma. La cinghia è sagomata con
una sezione trapezia (figura 4.3.1.4) e richiede pertanto l’impiego di pulegge a gola (figura
4.3.1.5), ossia dotate sulla corona di apposite scanalature entro cui alloggiare. I principali
vantaggi sono la lunga durata, la facilità di installazione, la silenziosità e la facile
manutenzione.
Figura 4.3.1.4: Cinghia trapezoidale Figura 4.3.1.5: Pulegge per cinghia trapezoidale
Una delle principali proprietà delle cinghie trapezoidali è costituita dal fatto che esse
possiedono un coefficiente di aderenza equivalente molto superiore (sino a tre volte) a quello
effettivamente esistente tra il materiale della cinghia e quello della puleggia. Infatti, con
&
riferimento alla figura 4.3.1.6, se si indica con N la forza normale con la quale la cinghia è
&
premuta contro la puleggia, tale forza è equilibrata dalle due forze N ′ che le facce della
puleggia trasmettono alla cinghia. Imponendo l’equilibrio alla traslazione verticale, si deduce
la relazione:
α
N = 2 ⋅ N ′ ⋅ sin
2
La forza tangenziale complessiva dovuta all’aderenza fra cinghia e puleggia è allora:
fa
T = 2f a N′ = N = f a′ ⋅ N
sin α 2
Per effetto della forma della sezione trasversale della cinghia si è pertanto in presenza di
un coefficiente di aderenza equivalente fa′ che è tanto maggiore quanto minore è l’angolo al
vertice della cinghia. Per il corretto funzionamento occorre però che il contatto cinghia-
puleggia avvenga solo sulle superfici laterali e non sulla parte inferiore.
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
→
N
→ →
N' N'
Cinghie dentate
Sono derivate da una cinghia piana che porta una serie di denti di gomma posti a uguale
distanza tra loro lungo tutta la superficie interna che penetrano in altrettanti incavi
appositamente predisposti nelle pulegge cui vengono accoppiate (figura 4.3.1.7 e 4.3.1.8).
Tali tipi di cinghie offrono numerosi vantaggi, quali la costanza del rapporto di
trasmissione, una piccola tensione di forzamento con conseguente basso carico sui cuscinetti,
minima manutenzione e possibilità di trasmissione di potenze elevate con elevato rendimento
(95-97%). Poiché non possono slittare sulle pulegge su cui si avvolgono, in casi di urti sono
sottoposte, contrariamente agli altri tipi esaminati, all’intero carico d’urto.
Figura 4.3.1.7: Cinghia dentata Figura 4.3.1.8: Pulegge per cinghie dentate
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Figura 4.3.1.9: Rullo tenditore Figura 4.3.1.10: puleggia Figura 4.3.1.11: puleggia
oscillante traslante
4.3.2. Catene
Le catene sono, per definizione, membri flessibili atti a trasmettere forze di trazione,
composti da elementi rigidi (maglie) fra i quali è possibile un moto relativo. Vengono usate
per la trasmissione del moto in numerose applicazioni meccaniche e, a seconda del campo di
impiego, si distinguono catene ordinarie, articolate e meccaniche. Le prime sono costituite da
anelli chiusi in ferro a sezione circolare e sono anche dette di trazione perché utilizzate in
applicazioni eminentemente statiche. Quando sono calibrate possono permettere la
trasmissione di un moto lento, come ad esempio nei paranchi azionati a mano. Le catene
articolate hanno maglie costituite da più pezzi fra loro variamente collegati e sono destinate a
trasmettere potenza. Le catene meccaniche, infine, sono di gran lunga le più importanti,
almeno al punto di vista degli impieghi industriali, per la trasmissione del moto. Fra queste
sono da ricordare quelle a rulli (figura 4.3.2.1), aventi passo normalmente compreso fra 5 e 75
mm, forza di trazione massima variabile da 4 a 600 kN e potenza massima trasmissibile fino a
1100 kW.
In generale, le catene presentano i seguenti principali vantaggi. Innanzitutto
garantiscono l’assenza di slittamento e quindi una fasatura precisa fra la posizione del
membro motore e quella del membro condotto, fatto che le rende adatte alle trasmissioni di
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
precisione e alla trasmissione di elevate potenze a bassa velocità. A parità di forza trasmessa,
rispetto alle cinghie, l’angolo di abbracciamento può essere minore e quindi l’ingombro è
minore, ed in ogni caso è possibile la trasmissione anche con distanze fra gli assi troppo
ridotte perché sia possibile impiegare una trasmissione a cinghie. Sempre rispetto alle cinghie,
non è richiesta una tensione iniziale di forzamento, e, quindi, il carico sui cuscinetti è minore.
Le trasmissioni a catene, infine, funzionano bene anche per assi molto distanti. I maggiori
inconvenienti rispetto alle cinghie sono il maggior costo, la minore velocità massima
ammissibile (dell’ordine dei 10 m s), la necessità di una maggiore manutenzione, la
rumorosità, la necessità di un sistema di lubrificazione.
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
cioè il rapporto di trasmissione è anche uguale al rapporto fra il raggio della ruota motrice e
quello della ruota condotta.
→
-T
Mm Mu
→ →
-N N
O1 δ O2
→ →
r1 N -N
ω1 r2
ω2
→
T
& &
Per effetto delle forze N e − N , detto f il coefficiente di attrito relativo ai materiali
costituenti le ruote, nasce una forza di attrito f N che si oppone al moto relativo fra le ruote
stesse. Trascurando l’attrito volvente e l’attrito nel perno, detti M m il momento della coppia
motrice applicata alla ruota conduttrice e T = M m r1 la forza tangenziale corrispondente,
affinché sia mantenuto il contatto, con esclusione del pericolo di slittamento, deve essere
T < f N , cioè:
M m < f N r1
Questa relazione mostra che il momento applicabile è necessariamente limitato e ciò
riduce le possibilità d’impiego di tale tipo di trasmissione. Per aumentare la potenza da
trasmettere si può o aumentare il coefficiente d’attrito f o la forza premente N: il primo fattore
dipende dai materiali che guarniscono le ruote di frizione, il secondo è limitato dalle necessità
di non caricare troppo i cuscinetti degli alberi, per cui sono utilizzate solo per trasmettere
piccoli sforzi.
Costruttivamente le ruote possono essere in gomma (pneumatici, ruote piene
industriali), in resine sintetiche (per elettrodomestici), in acciaio (ruote di treni, di gru).
Possono essere cilindriche, esterne (figura 4.4.2) o interne (figura 4.4.3), oppure coniche
(figure 4.4.4 e 4.4.5). Non si usano per le trasmissioni fra assi sghembi, ma solo paralleli o
incidenti.
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Figura 4.4.2: Ruote di frizione esterne Figura 4.4.3: Ruote di frizione interne
Figura 4.4.4: Ruote di frizione coniche Figura 4.4.5: Ruote di frizione piatto-coniche
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Le ruote dentate possono trasmettere il moto fra assi paralleli (figura 4.5.3), incidenti
(figura 4.5.4) e sghembi (figura 4.5.5). Possono essere esterne (figura 4.5.6) o interne (figura
4.5.7): le prime hanno senso di rotazione discorde, le seconde concorde. Se in una coppia di
ruote dentate il raggio di una delle due diventa infinito, questa si trasforma in una dentiera
ingranante con l’altra (figura 4.5.8). La trasmissione del moto fra assi sghembi può anche
realizzarsi mediante un ingranamento fra ruota dentata e vite senza fine (figura 4.5.9).
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Figura 4.5.8: Ingranamento tra rocchetto e Figura 4.5.9: Trasmissione con vite senza fine
dentiera
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Data una coppia di ruote dentate, dette ω 1 e ω 2 rispettivamente le velocità angolari della
ruota motrice e di quella condotta, si può sempre pensare una coppia di ruote di frizione (ruote
primitive) che, sostituita alla coppia di ruote dentate, realizzi le stesse velocità angolari. I
raggi di tali ruote di frizione, r1 e r2 rispettivamente, si dicono raggi primitivi della coppia di
ruote dentate e le circonferenze di raggio r1 e r2 circonferenze primitive. Il movimento di una
coppia di ruote dentate può studiarsi considerando in loro vece la corrispondente coppia di
circonferenze primitive: sulle primitive si ha puro rotolamento senza strisciamento. Il rapporto
di trasmissione, come nelle ruote di frizione, vale pertanto:
ω 2 r1
τ= =
ω1 r2
4.5.1. Ingranamento
In ogni ruota dentata, qualunque sia il profilo dei denti, la superficie attiva di questi
ultimi viene delimitata da due circonferenze dette di troncatura esterna e di troncatura interna;
il tratto di superficie attiva del dente compreso fra la troncatura esterna e la circonferenza
primitiva prende il nome di fianco addendum del dente, mentre il tratto compreso fra la
primitiva e la troncatura interna è il fianco dedendum del dente stesso. Si definisce inoltre
passo della ruota dentata la distanza esistente tra due punti omologhi di due denti successivi
misurata sulla circonferenza primitiva (figure 4.5.1.1 e 4.5.1.2).
Figura 4.5.1.1: Grandezze caratteristiche del dente di una ruota dentata esterna. Cp:
circonferenza primitiva; Ce: circonferenza di troncatura esterna; Ci: circonferenza di
troncatura interna; a: addendum; d: dedendum; p: passo; b: larghezza; c: fianco addendum; f:
fianco dedendum.
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Figura 4.5.1.2: Trasmissione del moto mediante ruote dentate interne; Cte: troncatura esterna;
Cti: troncatura interna; Cp: circonferenza primitiva; p: passo; i: interasse, θ: angolo di
pressione.
Poiché due ruote dentate devono avere lo stesso passo p per poter ingranare fra loro, è
necessario di conseguenza che siano verificate le uguaglianze:
%&z p = 2π r
1 1
'z p = 2 π r
2 2
dove con z1 e z 2 sono indicati i numeri dei denti e con r1 e r2 i raggi primitivi delle due ruote.
Il rapporto di trasmissione assume pertanto l’espressione:
ω2 r1 z1
τ= = =
ω1 r2 z 2
Esso può essere dunque facilmente calcolato in funzione del numero di denti. Dal punto
di vista costruttivo si tende, quando non è necessario che il rapporto di trasmissione assuma
valori rigorosamente assegnati e quando sono elevati gli sforzi da trasmettere, a realizzare
coppie di ruote dentate in cui i numeri dei denti siano primi fra loro, in modo che un dente di
una ruota tocchi progressivamente tutti i denti dell’altra prima di ritornare alla posizione
iniziale, evitando così fenomeni di usura preferenziale.
Poiché il passo è un numero irrazionale trascendente, e quindi di scarsa utilità pratica in
quanto non misurabile, nelle ruote dentate viene introdotta una grandezza particolare, espressa
da un numero razionale, detta modulo e definita da:
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
p 2 r1 2 r2
m= = =
π z1 z2
Il modulo rappresenta una dimensione caratteristica della ruota dentata; quest’ultima
viene infatti normalmente proporzionata in base al valore del modulo secondo norme dette per
l’appunto modulari. Secondo tale proporzionamento l’altezza del fianco addendum, detta
semplicemente addendum, è pari al modulo, mentre l’altezza del fianco dedendum, detta
semplicemente dedendum, è pari ai 5/4 del modulo; in totale l’altezza del dente è pertanto pari
2,25 volte il modulo.
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
γ Q
θ
r
f
76
CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
rispettare la condizione sul numero di denti, sempre per evitare l’interferenza si ricorre a un
proporzionamento diverso da quello modulare, originando così una dentatura corretta,
caratterizzata da una diminuzione, sempre entro certi limiti, dell’addendum nella ruota di
diametro maggiore e un aumento dello stesso nella ruota di diametro minore.
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Un aspetto per cui gli ingranaggi a denti elicoidali si differenziano da quelli cilindrici a
denti dritti è la presenza di una componente assiale della forza scambiata fra i denti in presa.
Per annullare tale componente, o quanto meno ridurla a valori molto piccoli, e quindi per
evitare l’utilizzo di cuscinetti reggispinta, vengono costruite ruote dentate elicoidali a freccia
(figura 4.5.4.2) formate da due parti uguali aventi inclinazioni di elica opposte. In tal modo,
nell’ipotesi di distribuzione uniforme del carico tra le due parti, le componenti assiali delle
forze scambiate sono uguali e di verso opposto e pertanto si equilibrano reciprocamente.
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
schematizzabile in quello di due coni che ruotano attorno ai propri assi, mantenendosi in
contatto secondo una generatrice lungo la quale la velocità relativa tra i coni stessi è
ovviamente nulla (figura 4.5.5.2).
Figura 4.5.5.1: Coppia di ingranaggi conici Figura 4.5.5.2: Coni primitivi di una coppia di
ingranaggi conici
Per determinare il valore del rapporto di trasmissione, si osserva nella figura 4.5.5.2 che
la velocità V del punto P di contatto fra due coni è data da V = ω1r1 = ω 2 r2 , e quindi:
&
ω 2 r1
τ= =
ω1 r2
Essendo d’altra parte:
r1 r
OP = = 2
sinϕ1 sinϕ 2
si ha pure:
sinϕ1
τ=
sinϕ 2
Poiché la somma degli angoli di apertura dei due coni è pari all’angolo ψ compreso fra i due
assi ψ = ϕ1 + ϕ 2 , si è in grado di calcolare il valore degli angoli di apertura ϕ1 e ϕ 2 dei due
coni una volta che siano noti, come normalmente accade, i valori dell’angolo ψ e del rapporto
di trasmissione τ:
τsinψ
ϕ1 = tan −1
1 + τ cos ψ
sinψ
ϕ 2 = tan −1
τ + cos ψ
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Come per le ruote dentate ad assi paralleli, così anche per le ruote coniche il profilo dei
denti universalmente adottato è quello a evolvente, ed in questo caso l’evolvente è quella
descritta dai punti di una retta solidale ad un piano che rotola senza strisciare su un cono
fondamentale.
4.5.6. Rotismi
Si definisce rotismo un sistema costituito da più ruote dentate ingrananti tra loro in
modo tale che la rotazione di una ruota determini di conseguenza la rotazione di tutte le altre.
Un rotismo viene detto ordinario se gli assi di tutte le ruote dentate che lo costituiscono sono
fissi (figura 4.5.1), viene detto epicicloidale quando almeno uno di tali assi è mobile (figura
4.5.2).
In un rotismo ordinario le velocità angolari di tutte le ruote sono note in valore e in
verso una volta nota la velocità di una di esse; per convenzione il rapporto di trasmissione
viene assunto negativo se due ruote dentate ruotano in versi opposti (caso di due sole ruote
con ingranamento esterno), positivo se ruotano nello stesso verso (caso di due sole ruote con
ingranamento interno). Con riferimento all’esempio di figura 4.5.6.1, si ha:
ωb z
τ a ,b = =− a
ωa zb
ωd z
τ c ,d = =− c
ωc zd
ωd ωd ωb z z z z
τ = τa , d = = = τa , b ⋅ τc , d = − a − c = a c
ωa ωc ωa z b z d z b z d
In un rotismo ordinario il rapporto di trasmissione globale è quindi pari al prodotto dei
singoli rapporti di trasmissione degli ingranaggi componenti.
Se un rotismo contiene una ruota che ingrana contemporaneamente con altre due (figura
4.5.6.2), il rapporto di trasmissione tra la prima e l’ultima ruota non vede alterato, a causa
della presenza della ruota intermedia, il suo valore, ma unicamente il segno. Si ha infatti:
ωb z
τ a ,b = =− a
ωa zb
ωc z
τ b ,c = =− b
ωb zc
τ = τ a ,c =
ωc − z = z
z
= τ a , b ⋅ τ b ,c = − a b a
ωa z z
zb c c
80
CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Per questo motivo alla ruota intermedia viene dato il nome di ruota oziosa.
ωb
ωb
ωc
ωa
ωa
ωc
ωd
Figura 4.5.6.1: Esempio di rotismo ordinario Figura 4.5.6.2: Esempio di rotismo ordinario
con ruota oziosa
ωs
ω1
Ω
È chiaro che in un rotismo epicicloidale non tutte le ruote dentate possono essere scelte
l’una indipendentemente dall’altra, poiché debbono essere evidentemente rispettate alcune
condizioni di carattere geometrico. Ne consegue che i parametri che caratterizzano una ruota
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
dentata risultano automaticamente determinati una volta che siano stati stabiliti quelli relativi
a tutte le altre.
82
CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
I freni si possono distinguere in vari tipi, secondo la natura della resistenza passiva
utilizzata.
83
CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
I freni a tamburo con i ceppi esterni sono antichi quanto i veicoli a ruote con trazione
animale. All’inizio della costruzione delle vetture automobili, verso il 1895, la frenatura fu
realizzata mediante soluzioni analoghe a quelle fino ad allora impiegate per i veicoli a
trazione animale, facendo agire i ceppi direttamente sui cerchioni in acciaio delle ruote.
Successivamente l’uso dei freni a ganasce per automobili fu abbandonato ed oggi tale tipo di
freno trova altre applicazioni quali ascensori, argani, gru, macchine di cantiere, teleferiche,
ecc.
I freni ad espansione sono costituiti da uno o più ceppi (in genere due), rivestiti da
guarnizioni la cui superficie attiva, di forma cilindrica, si appoggia, durante la frenatura, ad un
tamburo dello stesso raggio, posto esternamente ai ceppi e reso solidale al membro da frenare.
I primi freni ad espansione apparvero attorno al 1903 e furono brevettati da Liversidge, in
Inghilterra, nel 1906. Essi presentavano due vantaggi evidenti nel settore automobilistico:
nessun ingombro all’esterno del tamburo e protezione del freno da polvere e sporcizia per la
presenza del tamburo stesso. Erano azionati meccanicamente. Nel 1910 l’italiano Franchini
depositò un sistema di comando meccanico assai più razionale e, negli anni successivi, i
comandi meccanici ebbero rapidi e continui miglioramenti. Per evitare che sia trascinato in
rotazione dal tamburo, durante il frenamento, il ceppo deve essere vincolato ad un appoggio,
il che consente alla guarnizione di appoggiarsi meglio al tamburo, compensando le inevitabili
imperfezioni di lavorazione. Durante i periodi di riposo i ceppi sono mantenuti staccati dal
tamburo dalla presenza di molle.
L’azionamento dei ceppi è realizzato, nelle autovetture, mediante i pistoni di cilindri
idraulici e con lo stesso mezzo, oppure mediante camme azionate pneumaticamente, negli
autocarri.
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
Tale tipo di freno fu ideato da Lanchester il cui brevetto, nel 1902, anticipa molte delle
moderne soluzioni. Per mezzo secolo fu trascurato, essendogli preferito, per la frenatura dei
veicoli, il freno ad espansione. Ma, anche in questo periodo, nella storia dei trasporti non
manca qualche esempio di applicazione: si ricordi, ad esempio, che i freni “sul cerchione”
delle biciclette sono freni a disco a guarnizione parziale. Durante la seconda guerra mondiale,
i freni a disco furono largamente adottati nel settore aeronautico. Le necessità di far atterrare
aerei sempre più pesanti a velocità sempre più elevate mostrarono i limiti dei freni a tamburo
in condizioni di esercizio severe. I freni multidischi sostituirono così quelli a tamburo, in
quanto permisero, a parità di ingombro, di ottenere coppie frenanti assai più elevate e, quindi,
di accorciare notevolmente le piste di atterraggio. Dopo il 1945 i freni a disco furono adottati
anche nel settore automobilistico: il grande pubblico li conobbe nel 1953, in occasione della
gara “24 ore di Le Mans”. Successivamente furono montati su vetture di classe (Citroen DS
19, nel 1955), quindi su vetture di grande serie. Oggi sono diffusi anche in altri settori: veicoli
ferroviari, macchine utensili, argani, ecc.
Nei freni a disco i ceppi, portati da apposite staffe, sono premuti contro le facce di uno
(o più) dischi montati solidalmente all’albero che deve essere frenato. I dischi comunemente
utilizzati hanno forma di cilindri di modesta larghezza, almeno nella parte attiva; le facce
85
CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
opposte del disco portano le piste di strisciamento. I ceppi possono essere completi o parziali.
I ceppi completi, a forma di corona circolare, sono oggi utilizzati solo in qualche caso per il
frenamento di veicoli lenti (trattori, ecc.) ed in aviazione. Consentono di mantenere più
facilmente le pressioni specifiche di contatto entro valori accettabili. Nel settore
automobilistico sono oggi universalmente adottati i ceppi parziali, che ricoprono una porzione
angolare assai ridotta del disco. Questa soluzione, lasciando libera la maggior parte del disco,
consente un migliore smaltimento del calore.
Tali freni, pur presentando svariati vantaggi rispetto agli altri tipi, e principalmente una
maggiore costanza nell’azione frenante, una minore sensibilità alla contaminazione (da acqua
o da olio) grazie ai valori molto piccoli del gioco esistente tra le superfici di attrito ed il disco,
ed una uguale capacità frenante in entrambi i versi di rotazione, debbono tuttavia essere
sottoposti ad una forza di comando più intensa per originare, a parità di dimensioni, un
momento frenante pari a quello relativo ai freni a tamburo. Il materiale di attrito che li
costituisce deve pertanto essere in grado di sopportare pressioni maggiori di quelli insorgenti
in un contatto ceppo-tamburo.
Freni a nastro: sono quelli in cui la puleggia del freno può essere abbracciata, lungo un
arco che si cerca di rendere molto grande, da un nastro di acciaio, spesso munito di opportuna
guarnizione, i cui rami terminano sui bracci di una leva (figure 4.6.1.5 e 4.6.1.6): agendo
sull’estremo di uno di questi, si provoca l’aderenza del nastro sulla puleggia, e la differenza
delle tensioni che nascono nei due rami genera la forza frenante. All’occorrenza, questa può
essere aumentata montando più nastri uguali in parallelo.
Attualmente i freni a nastro sono utilizzati nel settore della locomozione, su apparecchi
di sollevamento e trasporto, specie a bordo delle navi. Oggi, non sempre per giustificati
86
CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
motivi, il loro uso tende ad essere limitato ai casi in cui il funzionamento del freno è saltuario
(freni di emergenza), oppure quando la coppia di frenatura è modesta.
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
guarnizione, tra i 100 ed i 150 °C, l’usura delle guarnizioni è modesta. Se si supera la
temperatura di sicurezza si manifesta, in modo piuttosto repentino, il fenomeno
dell’affievolimento (fade) delle prestazioni dell’accoppiamento: l’usura aumenta
esponenzialmente con la temperatura, il fattore d’attrito diminuisce e diventa instabile.
Inoltre, il tamburo può distorcersi e ciò dà luogo a fenomeni vibratori. Di qui la necessità di
raffreddare con getti d’aria (od altri mezzi) i tamburi (ed i dischi) in condizioni di esercizio
gravose.
I tamburi hanno una capacità termica superiore a quella dei dischi e perciò, a parità di
lavoro frenante, i dischi raggiungono temperature superiori. Essi però (almeno nel caso usuale
di disco pieno) ricevono simmetricamente il calore in corrispondenza delle piste di
strisciamento e lo evacuano direttamente nell’atmosfera a partire da tali piste. Quindi, in
generale, non presentano punti caldi, né rischi di cricche, anche in condizioni di
funzionamento severe. Per contro, nel caso di freni a tamburo, il calore, per essere evacuato,
deve attraversare il tamburo, provocando variazioni irregolari della sua temperatura. Inoltre il
riscaldamento del tamburo si traduce in una notevole dilatazione radiale dello stesso. Nei freni
a tamburo è quindi indispensabile la presenza di un gioco relativamente consistente, sicché, ad
esempio, per freni ad espansione regolati in modo da funzionare ad una certa temperatura,
occorre evitare che il tamburo resti bloccato quando il freno è a temperatura ambiente. Tale
inconveniente non esiste nel caso dei freni a disco.
La maggiore possibilità di smaltire il calore prodotto per attrito e l’assenza di distorsioni
rendono i freni a disco più adatti a condizioni gravose d’esercizio, in particolare a sopportare
cicli ripetuti di frenatura. Al riguardo si è inoltre verificato sperimentalmente che, a parità di
tipo di guarnizione, il fenomeno dell’affievofimento delle prestazioni (fade) si manifesta
prima nei freni a tamburo che in quelli a disco. Questi ultimi possono perciò sopportare
temperature superiori. Inoltre i freni a disco hanno guarnizioni piane e ciò, come accennato,
consente di utilizzare materiali più idonei alle alte temperature. Data la leggerezza dei ceppi
ed il piccolo gioco esistente fra gli stessi, i freni a disco si prestano meglio di quelli a tamburo
a compiere ripetuti cicli frenatura-sfrenatura, specie se sono azionati elettricamente e sfrenati
meccanicamente. Un freno a disco singolo azionato elettricamente può compiere un ciclo
completo ogni 1,7 s; un freno a dischi multipli arriva al massimo ad un cielo ogni 5 s; un
freno a ganasce azionato meccanicamente può fare, al più, un ciclo ogni 20 s.
I freni a tamburo con ceppi esterni ed interni hanno applicazioni industriali ben
caratterizzate. I freni a ganasce sono molto diffusi per macchine di sollevamento (carroponti,
gru, ecc.), macchine da cantiere, teleferiche, argani, ascensori, ecc. Loro inconvenienti sono
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
l’ingombro necessario al sistema articolato che porta i ceppi e, quando il telaio è mobile, la
massa notevole. Per questo motivo nella costruzione di autoveicoli, sono universalmente
diffusi i freni a tamburo con ceppi interni (ad espansione), che hanno minor ingombro e minor
massa.
Una certa moda tende oggi a mettere in disparte i freni a nastro nelle macchine di
sollevamento, limitandone l’impiego ai casi di uso poco frequente (freni di emergenza). Ciò è
solo dovuto al fatto che il progetto di un freno a nastro richiede molta competenza; per
tamburi di diametro inferiore ai 2500 mm, un freno a nastro ben scelto può essere più
vantaggioso, meno ingombrante e meno costoso (perché costruttivamente più semplice) di un
freno a ganasce. Caratteristica certamente negativa dei freni a nastro è la notevole diversità di
pressione specifica lungo l’arco di abbracciamento (superiore a quella dei freni o ceppi) e,
quindi, la diversa usura della guarnizione.
I freni a ceppi (sia esterni che interni), come quelli a nastro, possono essere autofrenanti
e, al limite, autobloccanti. L’impiego di sistemi autofrenanti deve essere fatto con grande
cautela, e solo quando debba regolarsi il moto di grandi masse. Dovrebbe essere evitato negli
ascensori ed ogni volta che eventuali rotture possano mettere in pericolo la vita umana. La
condizione limite di autobloccaggio può infatti prodursi, anche se non desiderata, per effetto
di un aumento del fattore d’attrito dovuto, per esempio, al variare delle condizioni ambientali.
Ciò comporta severi fenomeni d’urto, che possono facilmente portare a rotture improvvise.
Nel caso dei freni a tamburo, le forze frenanti sono applicate al maggior diametro
possibile del membro rotante sicché, nei casi usuali, essi danno luogo a coppie di frenatura da
due a quattro volte superiori a quelle di un freno monodisco dello stesso ingombro. Per
contro, va osservato che, nel caso di freni a disco, le forze di comando sono equilibrate e sui
cuscinetti, durante la frenatura, grava soltanto la reazione dovuta alla forza d’attrito fra
guarnizioni e ceppi. Ma anche quest’ultima può essere equilibrata disponendo due staffe in
posizione simmetrica rispetto all’asse di rotazione del disco.
I freni a tamburo, salvo rari casi, sono efficaci (per efficacia è da intendersi il rapporto
fra la forza d’attrito massima applicata al tamburo e la forza massima di comando), ma
pagano tale efficacia con una modesta regolarità (rapporto fra la variazione percentuale della
coppia di frenatura e la variazione percentuale del fattore d’attrito). Il contrario avviene per i
freni a disco.
Nei freni a tamburo la ripartizione della pressione di contatto, e quindi l’usura, è
disuniforme, a meno di non adottare particolari accorgimenti costruttivi, peraltro poco usati.
Nei freni a disco, invece, la pressione è molto più uniforme e l’usura più regolare. Ciò
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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
consente registrazioni meno frequenti, anzi, nel caso dei freni a disco con comando idraulico,
il recupero del gioco provocato dall’usura è automatico. Va inoltre osservato che il tempo
occorrente per sostituire le guarnizioni dei freni a disco è molto inferiore (= 1/3) di quello
necessario per sostituire le guarnizioni dei freni a tamburo.
La forma costruttiva dei freni a disco è più semplice di quella dei freni a tamburo. Il
numero di componenti che costituiscono un freno a disco è circa la metà di quello costituente
un freno a tamburo: il peso è quindi inferiore nella misura del 20-50%.
In sintesi, i maggiori vantaggi dei freni a disco sono:
• regolarità di funzionamento, anche in condizioni severe di esercizio;
• assenza di surriscaldamenti e distorsioni dell’organo rotante;
• uguale efficacia nei due versi di rotazione;
• assenza di fenomeni di autofrenatura;
• modesti (o quasi nulli) carichi sui cuscinetti;
• possibilità di utilizzare guarnizioni di tipo idoneo ad ogni particolare condizione di
esercizio;
• usura uniforme delle guarnizioni e possibilità di recupero automatico dei giochi;
• peso modesto, a parità di coppia di frenatura;
• facilità di sostituzione delle guarnizioni;
• possibilità di sopportare cicli di funzionamento ad alta frequenza.
Fra i principali svantaggi:
• modesta efficacia intrinseca;
• corsa di lavoro elevata, tenuto conto delle grandi dimensioni dei pistoni di azionamento;
• difficoltà di realizzare un doppio comando (idraulico e meccanico).
4.7. VOLANI
I volani sono dispositivi meccanici atti a regolarizzare i moti rotatori delle macchine, in
particolare quelli periodici. Il punto di partenza per il loro dimensionamento è l’equazione
fondamentale della dinamica per le macchine rotanti:
dω
Mm − Mu − Mp = J
dt
ove Mm indica il momento motore, Mu il momento resistente utile, Mp il momento resistente
passivo e J il momento d’inerzia delle masse rotanti. Posto per semplicità Mu + Mp = Mr, con
90
CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
dω
Mr momento resistente complessivo, ne segue che nei casi in cui è Mm > Mr, è pure >0 e
dt
quindi la velocità angolare è crescente, mentre il contrario si verifica quando è Mm < Mr.
Supponendo per semplicità che il momento resistente si mantenga costante, con riferimento
alla figura 4.7.1 si può affermare che la velocità angolare è crescente da ωmin a ωmax fra gli
istanti t1 e t2 e decrescente da ωmax a ωmin fra gli istanti t2 e t3. Il periodo del moto è T = t3-t1.
Scopo dei volani è appunto quello di contenere entro limiti opportuni lo scarto di velocità
angolare (ωmax a ωmin) nel periodo, in modo da uniformare il moto.
M
Mm
Mr
t1 t2 t3 t
ω
ωmax
ωmed
ωmin
t1 t2 t3 t
Tuttavia, tenendo conto che lo scarto di velocità deve essere piuttosto modesto, si può
effettuare l’approssimazione:
ωmax + ωmin
ωmed =
2
Sulla base dell’equazione generale delle macchine, si può affermare che nell’intervallo
di tempo intercorrente da t1 a t2 si ha un incremento di energia cinetica
91
CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO
1
∆E max = J (ω2max − ω2min ) pari all’eccesso di lavoro motore ∆Lmax sul lavoro resistente. Si può
2
allora scrivere:
1
∆L max = J (ω2max − ω2min )
2
Tenendo adesso conto della definizione del grado di irregolarità, si ha che:
ωmax + ωmin
∆L max = J (ωmax − ωmin ) = Jδω2med
2
da cui:
∆L max
δ=
Jω2med
che è la relazione fondamentale per il calcolo dei volani. Da essa infatti si deduce che, poiché
∆Lmax è una caratteristica propria della macchina e non può essere modificata, per contenere il
grado di irregolarità nel periodo occorre aumentare il momento d’inerzia delle masse rotanti.
Quando il valore di J relativo alle masse rotanti della macchina non è sufficiente ad assicurare
il grado di irregolarità previsto per l’impiego della macchina stessa, - è ad esempio δ = 1/40-
1/30 per i motori veloci a combustione interna - si deve ricorrere all’aggiunta di un volano,
ossia di un rotante assialsimmetrico avente momento d’inerzia Jv tale che l’intero sistema
abbia un’inerzia J’ = J + Jv tale da assicurare il grado di irregolarità desiderato. Detto δ0 tale
grado di irregolarità, dovrà pertanto aversi:
∆L max
δ0 =
(J + J v )ω2med
da cui si ricava il momento d’inerzia che dovrà possedere il volano:
∆L max
Jv = −J
δ 0 ω2med
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