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Carocci editore
Società, Stato
e Chiesa in Italia
Dal tardo Settecento a oggi
isbn 978-88-430-7112-8
Introduzione 11
La vittoria dell’intransigentismo 35
Di fronte alla nascita del Regno d’Italia: non expedit 40
«Protestare ed aspettare»: l’“Aventino” cattolico 48
Note 183
Bibliografia 195
perché il problema, così come poteva essere colto agli inizi del Cinque-
cento da un pur finissimo osservatore quale Niccolò Machiavelli, ha as-
sunto una fisionomia via via mutevole alla luce delle problematiche mag-
giori che hanno modificato a partire dal tardo Settecento gli equilibri
continentali dal punto di vista sociale, politico, culturale, determinando
in Europa prima il passaggio tra l’età moderna e l’età contemporanea,
poi nei successivi due secoli i caratteri peculiari di quest’ultima.
È infatti a partire dai molteplici sconvolgimenti portati dalla stagio-
ne rivoluzionaria e in particolare dall’affossamento del sistema di An-
tico regime che si apre uno scenario profondamente diverso rispetto
all’allora recente passato. Uno scenario nel quale si indeboliscono quei
legami tra potere secolare e potere ecclesiastico sui quali si era retta per
secoli l’impalcatura istituzionale prevalente in Europa e la stessa conce-
zione della legitima potestas. Il problema riguardò ampie parti del siste-
ma continentale, seppure con le variegate declinazioni che la storiografia
ha ricostruito. Nel caso tuttavia della penisola italiana esso assunse una
fisionomia particolare alla luce del fatto che su quel territorio insisteva-
no non solo alcune monarchie secolari di dimensione regionale ma an-
che lo Stato governato dalla figura unica del “sovrano pontefice”. La crisi
rivoluzionaria, solo per taluni aspetti ricomposta a Vienna nel 1814-15
dal “concerto europeo” delle potenze antinapoleoniche, lasciava infatti
sul terreno delle questioni future da affrontare l’intricata situazione dei
movimenti nazionali. Situazione che nel caso italiano sarebbe passata
per forza di cose attraverso la spinosa questione dell’esistenza dello Stato
della Chiesa.
In sostanza due diverse problematiche si vennero a sovrapporre, nella
percezione della Roma papale, durante i decenni della Restaurazione.
L’affermarsi progressivo, da un lato, di quegli elementi di secolarizza-
zione delle istituzioni e della mentalità collettiva – perlomeno nei ceti
urbani – che indebolivano il precedente ruolo pubblico svolto dalla reli-
gione cattolica sia nei termini di irradiazione spirituale sia e ancor più di
cemento sociale ed elemento d’ordine; il maturare, dall’altro, di istanze
di unificazione nazionale in misura sempre più estesa (e in taluni casi,
come quelli del Belgio e della Grecia, con il diretto coinvolgimento delle
comunità di fede e dello stesso clero). La nuova stagione rivoluzionaria
del 1848 rappresentò su entrambi i fronti una sorta di spartiacque: per
un verso infatti la relativa articolazione di posizioni riscontrabile nei de-
cenni precedenti all’interno del cattolicesimo assistette all’affermazione
della linea più rigidamente antimoderna denominata “intransigente”;
introduzione 13
entrambi gli schieramenti nati per far fronte al nuovo sistema elettorale
bipolare.
Da una prospettiva “laica”, applicata al modello di società e alla forma
istituzionale dello Stato, il suddetto problema può sembrare irrilevante.
Osservato invece tenendo conto degli obiettivi storicamente coerenti
del cattolicesimo nazionale lo stesso problema assume una dimensione
non sottovalutabile. La fine della “unità politica dei cattolici” ha infat-
ti prodotto il venir meno di uno strumento essenziale per l’egemonia
prima ricordata ed esercitata dal 1948 in poi per poco meno di mezzo
secolo, spingendo nell’ultimo ventennio della storia politica del paese
ad alleanze di mera opportunità e spesso contraddicenti i valori stessi
della proclamazione ordinaria del messaggio religioso. In questo recen-
te scenario si è venuto a confermare un aspetto pressoché costante nel
susseguirsi delle fasi storiche qui ripercorse: la capacità/disponibilità
da parte dei vertici prima generali e poi nazionali del cattolicesimo ad
adottare strumenti inediti, parole d’ordine rinnovate, ulteriori alleanze
congiunturali, senza tuttavia mai deflettere dall’obiettivo di esercitare –
ora direttamente, ora indirettamente – un influsso forte sulla società e
lo Stato italiani.
In termini specifici e in parte rinnovati rispetto alle epoche storiche
precedenti, il problema si è posto a partire dalla rottura del sistema di
Antico regime sopravvenuta nel tardo Settecento. Là si trovano le radici
del cammino che ha portato fino ad oggi il cattolicesimo a svolgere un
ruolo che è innegabile nella storia unitaria della società e dello Stato ita-
liani: sia che lo si veda come beneficio/baluardo di princìpi, che come
freno rispetto a quei traguardi di laicità effettiva altrove ben più conso-
lidati. Quella che qui si ripercorre è pertanto una delle possibili storie di
questo paese: delle occasioni colte e di quelle mancate; di come è andata,
di come poteva andare e di come potrebbe andare.
Dedico questo libro a Francesco e Lorenza. Non solo in quanto miei amatissimi
figli, ma anche come rappresentanti – assieme ai tanti loro coetanei, italiani
di varia etnia, generazione, fede o non credenza – di quella vasta comunità di
giovani cui auguro di cuore di “farcela” nonostante tutto a resistere con dignità
e sereno coraggio in questo paese.
Affinché in Bologna non fossero più introdotti nuovi Ordini Religiosi né altre
famiglie in altri monasteri delle già esistenti, poiché la Città ne risentiva danni
gravissimi per i dazi che essi non pagavano e per le molte abitazioni che loro
occupavano, le quali potevano venire abitate da cittadini con aumento d’affitto,
di profitto, di popolazione e di circolazione di denaro2.
Non leggere durante quest’anno alcun libro proibito dalle Leggi Ecclesiastiche
[…]. Consacrare durante quest’anno almeno un’ora alla settimana per fare del-
le letture spirituali, adottando per questo scopo solo dei libri ascetici adottati
dall’Amicizia cristiana […]. Obbedire ai Superiori dell’Amicizia Cristiana in
tutto quello che può interessare il buon ordine della nostra Corporazione o
contribuire alla circolazione dei buoni libri, ogni volta che ne sarò richiesto in
virtù del mio voto6.
dall’ancien régime allo sconvolgimento 21
tà allo Stato7. I vescovi erano scelti dall’autorità civile. Infine gli istituti
ecclesiastici a finalità caritativa, quali gli ospedali, gli ospizi ecc., non era-
no più gestiti solo da ecclesiastici ma anche da laici.
I laici, appunto. Il fatto che nel concordato del 1803 non si facesse al-
cun riferimento ai laici come a una componente della Chiesa, ma solo in
quanto controllori del personale ecclesiastico nell’amministrazione di
alcune istituzioni, consente di puntualizzare più aspetti. Innanzitutto,
all’interno della categoria Chiesa erano sostanzialmente compresi solo
gli ecclesiastici, mentre i fedeli dell’epoca rientravano più genericamente
in quella che era chiamata società cristiana o cristianità. Ne derivava che
il laicato cattolico ancora non esisteva come tale, e non era considera-
to come realtà a qualunque titolo organizzata. Pertanto la stessa attività
dell’Amicizia cristiana, per quello che se ne poteva conoscere data la sua
intenzionale segretezza, veniva vista a quel momento come un fenome-
no più bizzarro che pericoloso.
Lo sbilanciato equilibrio del concordato del 1803 non resse a lungo.
Già all’indomani della sua firma lo Stato introdusse norme applicative
che condizionavano ancora più pesantemente la Chiesa. Ma ulteriori
spinte verso una sua sostanziale disattesa da parte delle autorità civili si
ebbero in rapida sequenza a partire dal 1806. Dapprima, infatti, Napo-
leone tentò di ottenere la diretta partecipazione del papa, come un pro-
prio qualsiasi alleato, alla lotta contro l’Inghilterra mediante l’adesione
al decreto di Berlino che sanciva il blocco continentale a danno del com-
mercio britannico. Poi nel novembre 1807 le truppe francesi invasero la
Marca pontificia, il cui territorio corrispondeva alla omonima successiva
regione, con la sostanziale eccezione del ducato di Urbino. Nell’aprile
1808 la stessa Marca fu formalmente annessa al Regno d’Italia, istituito
nel 1805 in sostituzione della precedente Repubblica italiana. Nel mag-
gio 1809 Napoleone dichiarò decaduta la sovranità del papa sui territori
dell’Italia centrale e occupò le restanti parti dello Stato pontificio: vale a
dire la zona corrispondente alle attuali regioni dell’Umbria e del Lazio.
Infine il 5 luglio dello stesso anno il papa Pio vii venne arrestato a Roma
e trasferito in un primo tempo a Savona e in seguito alle porte di Parigi.
Qui si tentò senza successo di ottenere da lui una sorta di ratifica di tutto
ciò che era nel frattempo avvenuto e la firma di un nuovo concordato: il
cosiddetto concordato di Fontainebleau, dal nome della località dove Pio
vii era tenuto a tutti gli effetti prigioniero.
Il tentativo di trovare un nuovo accordo tra autorità religiosa e autori-
tà civile era dunque fallito. La responsabilità maggiore ricadeva certo sul
24 società, stato e chiesa in italia
razione, dal nome con il quale sarebbe stato indicato il periodo appros-
simativamente compreso tra il 1815 e il 1830, sembrava perciò dispiegarsi
in tutta la sua pienezza e con la malcelata soddisfazione dei nostalgici
del passato.
In realtà le cose non dovevano risultare così semplici. Altro, infatti,
era cancellare gli effetti militari e territoriali dell’espansione francese:
ed era quello in cui si erano impegnati nel congresso di Vienna e sotto
l’attenta regia del principe di Metternich i ministri plenipotenziari de-
gli Stati che avevano sconfitto Napoleone. Altro, invece, era annullare
l’effetto prodotto per oltre vent’anni dalla circolazione in buona parte
dell’Europa di idee che avevano trasformato i sudditi in cittadini; che
avevano scosso dalle fondamenta il precedente assetto sociale dichia-
rando finiti i privilegi di nascita dei nobili; che avevano secolarizzate,
sottraendole al precedente controllo ecclesiastico, l’istruzione e l’assi-
stenza; che avevano soprattutto consacrato il ruolo guida della classe
borghese nella gestione dello Stato e dell’ordine sociale. Idee che, oltre-
tutto, ancor prima del 1789 erano state largamente diffuse dai pensatori
illuministi.
Tale auspicato annullamento più che un compito arduo era dunque
un traguardo irraggiungibile, per quanto tentato dalle diplomazie attra-
verso l’attivazione di quello che sarebbe stato chiamato in sede storio-
grafica “concerto europeo”. Se ne resero ben presto conto alcuni dei più
acuti rappresentanti del cattolicesimo controrivoluzionario. Scriveva ad
esempio nel 1821 l’abate francese Félicité de Lamennais al nobile savo-
iardo Joseph de Maistre:
con riferimento sia agli orientamenti delle classi dirigenti della società
sia al comportamento della gente comune, sarebbe stato denunciato
dai cattolici come scristianizzazione, ma che si sarebbe dovuto più
correttamente chiamare secolarizzazione. Non si trattava, infatti, pro-
priamente dell’abbandono di una data religione (il cristianesimo, ap-
punto), quanto piuttosto di un generale attenuarsi del senso religioso
in vari ambiti attinenti all’esistenza: dal modo di concepire una socie-
tà in profonda trasformazione, per gli effetti di fenomeni di enorme
portata quali la industrializzazione, l’inurbamento, il pauperismo che
ne derivò almeno in una prima lunga fase, ai criteri che guidavano
la popolazione nelle principali scelte della vita o nei più elementari
comportamenti quotidiani. Non si accettava più che il sacro scandisse
come una volta i tempi della vita, né che indicasse i suoi modelli. La
società si stava secolarizzando, diventava cioè autonoma dalla religio-
ne in vari suoi aspetti.
Il problema interpellò direttamente le iniziative del laicato cattolico
che abbiamo visto attivate sin dal 1782. Se allora, tuttavia, l’obiettivo
era per lo più limitato al fronteggiare l’espandersi delle pubblicazioni
massoniche, ora invece occorreva estendere i confini dell’opera di un
tempo: dirigendone l’azione di risposta/contenimento non solo verso
un settore specifico del mondo letterario e pubblicistico del tempo, ben-
sì contro i princìpi base di un’intera società moderna che dal punto di
vista politico, istituzionale e patrimoniale lasciava ancora largo spazio
all’aristocrazia, ma che nelle idee e nei comportamenti era già sostan-
zialmente proiettata verso l’affermazione di classi dirigenti allineate su
modelli borghesi e almeno formalmente liberali.
A questo cambiamento di avversario si affiancò comunque una so-
stanziale continuità nei metodi e talora anche nelle stesse persone che
furono protagoniste di questa nuova stagione di intervento. Molti di
coloro che già avevano militato dalla fine del Settecento nelle Amici-
zie cristiane del Diessbach confluirono infatti ora in una nuova realtà
chiamata Amicizia cattolica. Il suo fondatore era un ecclesiastico, Pio
Brunone Lanteri, già collaboratore del Diessbach. Tra i suoi primi e più
autorevoli membri sarebbe stato annoverato il già ricordato savoiardo
Joseph de Maistre11.
Neanche con le Amicizie cattoliche si poteva peraltro parlare di
un fenomeno di organizzazione su vasta scala del laicato cattolico: sia
perché si trattava tuttora di piccoli gruppi di appartenenti al ceto ari-
stocratico che si raccoglievano attorno a taluni rappresentanti del clero
28 società, stato e chiesa in italia
avverso alla società moderna per difendere allo stesso tempo la religione
e il sistema monarchico; sia perché la loro diffusione rimase per lo più
circoscritta al Piemonte. Al di là di questo va registrata un’importante
differenza rispetto alle Amicizie cristiane: le Amicizie cattoliche erano
infatti un’iniziativa pubblica e non più clandestina.
La stampa fu in ogni caso il terreno principale, se non esclusivo, sul
quale si impostò in quegli anni la reazione cattolica italiana di fronte alla
società borghese che si stava delineando. Accanto infatti alla ricordata
Amicizia cattolica fondata nel 1817, tra il 1821 e il 1822 in chiara risposta
agli eventi insurrezionali del 1821 si ebbe la nascita in diverse città ita-
liane di riviste ostili ad ogni possibile accordo tra la Chiesa e la società
moderna.
In particolare si segnalarono: a Napoli l’“Enciclopedia ecclesiastica e
morale”, a Modena le “Memorie di religione, di morale e di letteratura”,
a Torino “L’Amico d’Italia”. I primi due erano periodici di cultura e di
informazione prevalentemente ecclesiastica, il terzo invece, pur essendo
dello stesso orientamento ideologico, era frutto dell’iniziativa del nobile
torinese Cesare Taparelli d’Azeglio: un aristocratico attorno al quale si
raccoglieva gran parte del locale cattolicesimo conservatore.
Di quell’ambiente c’è rimasta una descrizione, non priva di sarcasmo,
del figlio di Cesare, lo scrittore politico, patriota e poi primo ministro
sabaudo Massimo d’Azeglio:
Dalle vicende del ’21 era nata una recrudescenza di zelo; ed io avevo trovato
Torino piena di società cattoliche, ove si pagava un’inezia, ma che servivano a
far popolo e tenere stretto il fascio gesuitico. Mi faceva ridere, veder certe delle
nostre dame pagare il loro quattrino, e stare con aria tutta compunta in società,
mentre m’era accaduto di vederle in altri momenti con occhi e visi tutt’altro
che mistici12.
Se la Torino degli anni venti e di Carlo Felice può dunque essere consi-
derata come la città nella quale più si era diffuso il primo laicato catto-
lico intransigente, seguita in questo dalla Modena di Francesco iv, nella
Lombardia dello stesso periodo si stava assistendo al formarsi di un’espe-
rienza alternativa: quella di un laicato cattolico anch’esso appartenente
ai ceti sociali più elevati ma di orientamento moderatamente liberale.
Uno dei suoi rappresentanti più significativi era il giovane Alessandro
Manzoni, che già nel 1819 aveva affidato allo scritto Osservazioni sulla
morale cattolica le opinioni che troveremo poi sviluppate negli scritti
dall’ancien régime allo sconvolgimento 29
della maturità e che nel 1823 avrebbe risposto negativamente alla propo-
sta fattagli da Cesare Taparelli d’Azeglio di scrivere per il torinese “L’A-
mico d’Italia”.
La posizione del Manzoni, considerato da Giorgio Candeloro come
l’iniziatore del cattolicesimo liberale italiano13, si differenziava da quelle
dei personaggi sinora ricordati sia per l’atteggiamento meno ostile nei
confronti della società moderna, sia per una visione della religione catto-
lica che lo portava al pari di altri famosi rappresentanti del cattolicesimo
liberale, primo tra tutti l’abate roveretano Antonio Rosmini, autore in
anni successivi dell’importante scritto Delle cinque piaghe della Santa
Chiesa, a immaginare una profonda riforma della Chiesa.
Il primo manifestarsi di queste esperienze alternative già negli anni
venti non deve tuttavia portare a un’interpretazione inesatta. Il fenome-
no che infatti risultò largamente più rappresentativo dell’atteggiamento
dei cattolici italiani negli anni della Restaurazione fu senz’altro quello
che abbiamo ricordato in precedenza. Gli atteggiamenti individuali di
Manzoni o di altri che negli ambienti dell’alta borghesia o dell’aristocra-
zia illuminata milanese la pensavano come lui non spostarono negli anni
venti l’ago di una bilancia cattolica che pendeva nettamente dalla parte
di una risposta negativa e arroccata nei confronti della società moderna.
Perché quella tendenza allora largamente minoritaria trovasse un più
largo terreno di consenso, sino a sfiorare per un breve periodo lo stesso
papato, si sarebbero dovuti attendere i due decenni successivi.
Diciam cose, Venerabili Fratelli, le quali avete voi pure di continuo sotto gli
occhi vostri e che deploriamo perciò con pianto comune: superba tripudia la
improbità, insolente la scienza, licenziosa la sfrontatezza […]. Echeggiano orri-
bilmente le Accademie e le Scuole di mostruosa novità di opinioni, con cui non
più occultamente e con secrete mine la Cattolica fede si attacca, ma scoperta-
mente sotto gli occhi di tutti orrida e nefanda guerra le si muove. Imperroché
corrotti gli animi dei giovani allievi per gli insegnamenti viziosi, e per i pravi
esempi dei precettori, si è dilatato ampiamente il guasto lacrimevole della Re-
ligione ed il funestissimo pervertimento dei costumi. Scosso per tal maniera il
freno della Santa Religione, che è la sola sopra cui si reggono saldi i Regni, e
ferma si mantiene la forza e l’autorità di ogni dominazione, vedesi aumentare la
sovversione dell’ordine pubblico, la decadenza dei Principati e il disfacimento
di ogni legittima potestà14.
La vittoria dell’intransigentismo
L’orizzonte italiano all’indomani degli eventi del 1848-49 era quanto
mai cupo. Il grande consenso di cui aveva goduto Pio ix anche al di fuo-
ri degli ambienti cattolici si era trasformato in disincanto improvviso,
lasciando il posto a un’amara sensazione di tradimento. Tale condizione
di abbandono riguardava soprattutto coloro che avevano scommesso in
pieno sulla prospettiva neoguelfa, credendovi sinceramente1.
Oltre alla sconfitta politica, questi dovevano ora passare attraverso
le inevitabili ritorsioni degli avversari interni al mondo cattolico: ritor-
sioni che si sarebbero espresse sia con attacchi da parte della stampa e
della pubblicistica di orientamento intransigente, sia con provvedimenti
dell’autorità ecclesiastica quali la messa all’Indice degli scritti di alcuni
dei pensatori che si erano maggiormente esposti (Rosmini e lo stesso
Gioberti, reo tra l’altro di aver alimentato una vivace polemica contro la
Compagnia di Gesù, ritornata in auge e promotrice dal 1850 della fon-
dazione di un periodico – “La Civiltà cattolica” – che avrebbe poi svolto
un ruolo decisivo)2.
La caduta in disgrazia degli esponenti di quel multiforme amalgama
di cattolici liberali, cattolici riformatori ed esponenti del neoguelfismo,
aprì ad altri degli spazi di manovra impensabili sino a poco tempo pri-
ma. Tra questi non c’erano solamente coloro che avevano seguito con
forte preoccupazione la crescita del mito di Pio ix quale protagonista
designato dell’unificazione italiana, ma anche quelli che avevano mal
tollerato persino gli atti di moderata apertura con i quali il papa aveva
inaugurato la propria funzione di sovrano dello Stato pontificio.
Di conseguenza, gran parte degli stessi programmi di ammoderna-
mento amministrativo dello Stato, che nulla avevano a che fare con le
implicazioni politiche e ideologiche del neoguelfismo, vennero tosto
36 società, stato e chiesa in italia
sarebbe stata formulata dal Cavour alla nascita del Regno d’Italia). Suo
corollario indispensabile era ovviamente il fatto che la Chiesa accettasse
la formale secolarizzazione degli Stati: cioè la fondazione degli stessi su
regole e princìpi essenzialmente laici. Una terza, infine, era l’inevitabile
sbocco del rifiuto della seconda e portava all’impegno costante da parte
cattolica nell’impedire appunto la secolarizzazione degli Stati.
Nella realtà italiana successiva al 1848 un caso particolarmente em-
blematico fu quello del Regno di Sardegna: non solo in sé, ma anche
perché senza che allora lo si potesse prevedere quella esperienza sarebbe
stata una sorta di prova generale rispetto alla situazione nella quale ci si
sarebbe trovati pochi anni dopo con la nascita del Regno d’Italia. Innan-
zitutto, a differenza di quanto era avvenuto dopo il 1848 negli altri Stati
italiani, nel Regno di Sardegna non era stato revocato lo statuto emana-
to da Carlo Alberto il 4 marzo 1848. Tale statuto (all’art. i) riconosceva
certo che la cattolica era l’unica religione dello Stato, ma poi, oltre a
consentire l’esercizio del culto anche alle altre religioni, sviluppava un
discorso istituzionale che andava verso una chiara autonomia dello Stato
da ingerenze confessionali.
Era questa la premessa di un orientamento che negli anni successivi si
sarebbe ulteriormente precisato, come vedremo; e che avrebbe innescata
la vibrata reazione di un mondo cattolico sabaudo nel quale l’antica tra-
dizione conservatrice delle Amicizie del Diessbach e del Lanteri, e poi
di “L’Amico d’Italia” del Taparelli d’Azeglio, aveva trovato un naturale
prolungamento negli scritti di Emiliano Avogadro della Motta e nell’a-
zione politica di Clemente Solaro della Margarita, ministro degli Esteri
e ascoltato consigliere di Carlo Alberto.
La spinta al confronto si ebbe nel 1850, quando agli esordi del regno
di Vittorio Emanuele ii venne presentato un primo progetto di legge, se-
guìto poi da altri nel corso del decennio, riguardante la materia ecclesia-
stica. Tali progetti, che dal cognome del ministro guardasigilli presero il
nome di Leggi Siccardi, andavano decisamente nella linea prima rilevata
a proposito dello Statuto albertino, intendendo eliminare vari privilegi
goduti sino ad allora dal personale ecclesiastico dello Stato.
La storia particolare di quelle leggi non interessa qui direttamente.
Merita invece la nostra attenzione il fatto che da quell’episodio ebbe
inizio un braccio di ferro durato l’intero decennio. Vi si misurarono da
un lato una classe dirigente piemontese che intendeva modernizzare lo
Stato eliminando ogni residuo feudale e dall’altro un cattolicesimo au-
toctono che, intendendo opporsi a tale disegno con ogni mezzo, finì di
gli anni del muro contro muro 39
fatto per marcare una tappa importante nella storia del laicato cattolico
italiano. Sino ad allora, infatti, il dato costante nell’attività dei laici cat-
tolici era consistito nell’uso della stampa quale mezzo per la diffusione
delle proprie idee. Nel Piemonte di metà Ottocento, invece, si giunse
per la prima volta in Italia ad utilizzare gli strumenti previsti dal sistema
parlamentare statutario per partecipare direttamente alla vita politica
dello Stato.
L’occasione si presentò alle elezioni generali del novembre 1857 e fu
sfruttata con grande abilità: dal numero di trenta deputati che il primo
ministro Camillo Benso di Cavour temeva potessero essere eletti tra le
fila dei candidati cattolici si passò infatti alla sessantina del risultato fina-
le. Lo stesso Cavour commentò così, privatamente, l’accaduto:
All’interno del gruppo degli eletti non c’erano solo laici ma anche eccle-
siastici. Tra questi ultimi, inizialmente eletto nel collegio sardo di Ori-
stano ma poi escluso per presunti brogli, c’era anche il sacerdote Giaco-
mo Margotti. La circostanza merita di essere sottolineata perché, oltre a
risultare uno dei più accesi esponenti dell’intransigentismo, il Margotti
all’indomani della formazione del Regno d’Italia avrebbe condotto dal-
le pagine torinesi di “L’Armonia” una famosa campagna di stampa a fa-
vore dell’astensione dei cattolici dalle urne.
Su questo tuttavia ritorneremo. Ciò che invece merita di essere no-
tato subito è che l’episodio elettorale del 1857, pur nella sua fisionomia
pionieristica, si inseriva all’interno di una fase storica nella quale da di-
verse parti si pensava ormai alla necessità di organizzare in modo più
sistematico il laicato cattolico attivo nei vari Stati preunitari. Ci avevano
riflettuto in quegli stessi anni i vescovi piemontesi, guidati dall’intran-
sigente monsignor Luigi Fransoni. Un tentativo nel Lombardo-Veneto
era stato effettuato nel 1856 da parte del bresciano Cesare Noy. Ma so-
prattutto si era mosso in tal senso in Sicilia sin dal 1848 il gesuita Luigi
Taparelli d’Azeglio, rispettivamente figlio e fratello dei già ricordati Ce-
sare e Massimo.
Nel suo progetto, dopo essersi chiesto chi potesse rappresentare nella
40 società, stato e chiesa in italia
vita politica siciliana l’interesse religioso e aver concluso per diverse ra-
gioni che né i vescovi, né il clero, né i religiosi, egli dichiarava:
Conviene si trovino alcuni cattolici arditi, periti nelle forme costituzionali, ze-
lanti pel bene della Chiesa, capaci di sagrificar se medesimi per gli interessi di
Dio, i quali assumano l’incarico di farsi motori e di guidare con prudenza e con
fermezza il senso cattolico delle moltitudini, il quale in Sicilia è, la Dio mercé,
vivo e generoso. Quindi si comprende qual è il fine dell’associazione: essa pre-
tende di somministrare al cattolicismo siciliano quel primo impulso senza cui
l’operazione delle moltitudini è impossibile; e dar così ai vescovi uno stromento
laico atto a sostenere fra laici ogni onesta domanda6.
È appena il caso di notare che questo, come gli altri progetti cui si è fatto
cenno, risultava inserito a pieno titolo nell’ottica intransigente: se non
altro per quel senso di separatezza dal resto della società e di tendenza a
raccogliersi in una realtà associativa omogenea che non mi pare fossero
altrettanto diffusi nella mentalità degli esponenti del cattolicesimo li-
berale.
esercizio delle sue funzioni spirituali e che, come nel caso del recente
concordato tra Santa sede e Austria, eliminasse gran parte di quei prin-
cìpi giurisdizionalistici che avevano accentuato in diversi Stati europei la
subordinazione delle gerarchie cattoliche nazionali dal rispettivo Stato8.
Nonostante lo svolgimento delle trattative fosse in corso ormai da
alcuni mesi, coinvolgendo tra l’altro taluni ecclesiastici favorevoli all’u-
nità d’Italia come l’ex gesuita Carlo Passaglia, la risposta papale fu pe-
rentoriamente negativa.
Già alcuni giorni prima del ricordato discorso di Cavour, Pio ix si era
d’altronde rivolto ai cardinali riuniti in concistoro segreto conferman-
do l’assoluta impossibilità di aderire alle richieste di coloro che dopo
avergli proposto di riconciliarsi con la civiltà moderna gli suggerivano
ora di riconciliarsi con l’Italia: «Colla quale audacissima e inaudita ri-
chiesta vorrebbero che questa Apostolica Sede, la quale fu sempre e sarà
il propugnacolo della verità e della giustizia, sancisca che la cosa ingiu-
stamente e violentemente rubata può tranquillamente ed onestamente
possedersi dall’iniquo aggressore»9.
Tale fermezza non sarebbe mai venuta meno e avrebbe rappresentato
uno dei nodi centrali della questione romana: il nome che da allora de-
signò il contenzioso che avrebbe caratterizzato i rapporti tra Santa sede
e Stato italiano sino alla stipula dei Patti lateranensi nel febbraio 1929.
Se messe a confronto con quella del pontefice le posizioni del mondo
cattolico italiano risultavano invece meno definite. Non tanto dal punto
di vista dei princìpi di fondo, rispetto ai quali pochi erano coloro che si
trovavano in reale dissidio con le ragioni addotte dal papa; ma piuttosto
da quello dei comportamenti concreti da tenere. Se da un lato infatti gli
ambienti ecclesiastici applicavano i provvedimenti previsti dallo stesso
Pio ix nel decreto Ad gravissimum, con il quale sin dal giugno 1859 si
erano colpiti con la scomunica coloro che avevano contribuito alle spo-
liazioni dello Stato pontificio, il laicato cattolico non disponeva né degli
strumenti del clero, che poteva negare e spesso negò i sacramenti agli sco-
municati, né di direttive uniformi. La stessa partecipazione alle elezioni,
che aveva offerto riscontri positivi in Piemonte nel 1857, non sembrava a
tutti il mezzo più idoneo per difendere la causa del papato nella situazio-
ne che si era venuta a creare con la nascita del Regno d’Italia.
Ad alcuni, per esempio, come il già ricordato don Margotti, la par-
tecipazione non sembrava affatto utile; e un suo articolo apparso su
“L’Armonia” di Torino nel gennaio 1861 fissò nelle parole «Né eletti,
né elettori» la formula che sarebbe divenuta il simbolo dei sostenito-
44 società, stato e chiesa in italia
39. Lo Stato, in quanto origine e fonte di tutti i diritti, gode di un diritto del
tutto illimitato. [...]
42. In un conflitto tra le leggi dei due poteri prevale il diritto civile.
43. Il potere civile ha l’autorità di rescindere, dichiarare e rendere nulle le solen-
ni convenzioni (dette Concordati) stabilite con la Sede Apostolica in ordine ai
diritti relativi alla immunità ecclesiastica; e questo senza il suo consenso e anche
se essa reclama.
46 società, stato e chiesa in italia
44. Il potere civile può entrare in merito a cose che riguardano la religione, i co-
stumi e il governo spirituale. Da questo deriva che esso può giudicare le istruzio-
ni che i pastori della Chiesa pubblicano in ragione del proprio dovere a norma
delle coscienze, così che esso può anche emettere decreti riguardanti l’ammini-
strazione dei sacramenti divini e le disposizioni necessarie per riceverli.
45. L’intera gestione delle scuole pubbliche nelle quali è formata la gioventù
di un qualunque Stato cristiano, eccettuati per qualche ragione solamente i se-
minari episcopali, può e deve essere attribuita all’autorità civile; e attribuita in
modo tale che a nessun’altra autorità sia riconosciuto il diritto di inframmet-
tersi nella disciplina delle scuole, nella gestione degli studi, nell’attribuzione dei
gradi, nella scelta o approvazione dei maestri. [...]
49. L’autorità civile può impedire che i sacri pastori e i popoli fedeli comunichi-
no liberamente e reciprocamente col Romano Pontefice.
50. L’autorità laica detiene il diritto di presentare i Vescovi e può esigere da loro
che inizino l’amministrazione delle diocesi prima che gli stessi ricevano dalla
Santa Sede l’istituzione canonica e le lettere apostoliche.
51. Anzi, il Governo laico ha il diritto di sollevare i Vescovi dall’esercizio del
ministero pastorale, né è tenuto ad obbedire al Romano Pontefice nelle cose che
riguardano l’istituzione dei vescovati e dei vescovi. [...]
54. I Re e i Prìncipi non solo sono esenti dalla giurisdizione della Chiesa, ma nel
dirimere le questioni di giurisdizione sono anche superiori alla Chiesa.
55. La Chiesa va separata dallo Stato e lo Stato dalla Chiesa.[...]
76. L’abrogazione del potere civile che possiede la Sede Apostolica porterebbe
alla libertà della Chiesa ed anche alla più grande felicità.
77. In questa nostra epoca non è più opportuno che si abbia la religione cattoli-
ca come unica religione di Stato ad esclusione degli altri qualsivoglia culti. [...]
80. Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e trovare un accordo con il
progresso, il liberalismo e la civiltà moderna11.
ancor più precisamente del prigioniero del Vaticano: come sarebbe stato
spesso chiamato Pio ix negli anni successivi alla presa di Porta Pia. L’in-
vito venne raccolto in varie parti d’Italia, ma in modo particolare ancora
una volta a Bologna e da quei medesimi rappresentanti del locale intran-
sigentismo che già avevano dato un forte impulso alla stampa periodica.
Nell’aprile 1866 Pio ix in persona approvava così la nascita nella città
emiliana della prima organizzazione cattolica italiana di profilo almeno
formalmente nazionale: l’Associazione cattolica italiana per la difesa della
libertà della Chiesa in Italia. La presiedeva Cesare Fangarezzi ma il suo
vero promotore era stato Giovanni Battista Casoni: uno dei sei italiani che
nel 1863 avevano partecipato in Belgio al congresso cattolico di Malines.
Rispetto alle iniziative più remote che abbiamo ricordato gli elemen-
ti di continuità della nuova associazione erano numerosi e tutt’altro che
privi di peso. Innanzitutto risultava affine la collocazione ideologica su
posizioni conservatrici; collocazione che trovava conferma nel fatto che,
pur in epoche diverse, i successivi protagonisti delle esperienze del pri-
mo Ottocento, della Restaurazione e ora degli anni sessanta, guardavano
tutti con grande interesse agli scrittori cattolico-reazionari francesi (De
Maistre e il primo Lamennais da un lato, Louis Veuillot dall’altro). Tra
le possibili ragioni vi era probabilmente la circostanza che l’aristocrazia
continuava a restare di gran lunga il serbatoio privilegiato di reclutamen-
to dei promotori delle suddette iniziative.
Il legame tra queste e la struttura periferica della Chiesa (diocesi e
parrocchie) era minimo; mentre invece non era raro trovare a fianco di
quei laici dei rappresentanti di ordini religiosi: i gesuiti su tutti. Infine,
un ulteriore elemento di continuità era dato dal circoscrivere l’azione al
momento della denuncia: denuncia tardosettecentesca del decadimento
della società; denuncia della vitalità perdurante della rivoluzione negli
anni venti e trenta dell’Ottocento; denuncia da ultimo dei soprusi patiti
dalla Chiesa e dal papa in ordine agli eventi di inizio anni sessanta.
Si potrebbe concluderne che, a parte il carattere nazionale, non c’e-
ra nulla di effettivamente nuovo nell’organizzazione istituita da Caso-
ni e Fangarezzi. Invece in quel quadro di forte continuità si inseriva un
indizio di evoluzione. Un indizio che era rinvenibile nell’ultimo degli
aspetti sopra elencati, l’atteggiamento di denuncia, e che non dipende-
va tanto da una consapevole volontà dei fondatori di introdurre un ele-
mento nuovo rispetto al passato, quanto dai riflessi che aveva sulla loro
iniziativa l’evoluzione del contesto storico. A fine Settecento e anche
negli anni della Restaurazione, infatti, la denuncia era stata per lo più
48 società, stato e chiesa in italia
«Protestare ed aspettare»:
l’“Aventino” cattolico
L’associazione di Fangarezzi e Casoni ebbe in ogni caso vita brevissi-
ma. Approvata come s’è detto nell’aprile 1866 essa cessava di vivere due
mesi dopo per effetto di una legge che, in vista della ripresa della guerra
gli anni del muro contro muro 49
Il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera che a V.M. piacque
dirigermi; ma essa non è degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare
la fede cattolica, e si gloria di regia lealtà. Io non entrerò nei particolari della let-
tera, per non rinnovellare il dolore che una scorsa mi ha cagionato. Io benedico
Iddio, il quale ha sofferto che Vostra Maestà empia di amarezza l’ultimo perio-
do della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse
nella sua lettera, né aderire ai principii che essa contiene13.
inserimento dei cattolici nella vita politica del paese: sull’esempio del
Zentrum attivo in Prussia sin dal 1871.
I risultati concreti prodotti dall’attività di “La Rassegna nazionale”
o dagli stessi incontri di casa Campello furono a dire il vero piuttosto
scarsi: anche perché, dopo un iniziale interessamento, il nuovo pontefi-
ce ritenne che al momento fosse controproducente per la Santa sede la
nascita di un partito cattolico italiano tendenzialmente troppo vicino
alla classe dirigente dello Stato. Né si può dire che lo scritto del Curci
sopra ricordato o altri che seguirono negli anni successivi smuovessero
in profondità le opinioni degli ambienti vaticani.
Più correttamente si può notare che, nel loro insieme, quelle diverse
iniziative contribuirono al diffondersi di un clima di crescente fiducia
nella possibilità di un’imminente conciliazione, mentre ad alimentarlo
in modo decisivo fu soprattutto lo svolgimento della prima parte del
pontificato di Leone xiii: con una serie di atti, dalla scelta di collabo-
ratori di orientamento moderato alla decisione di aprire agli studiosi gli
archivi vaticani, che favorirono il delinearsi dell’immagine di un papa al-
meno pregiudizialmente non ostile nei confronti della società moderna.
Certo, altra cosa era la rinuncia ad attaccare frontalmente la società
liberale e borghese ottocentesca come avevano fatto gli ultimi due pre-
decessori, e altra cosa era la rinuncia ai diritti che la Santa sede riteneva
di vantare sui territori sottratti dallo Stato italiano. Ma, in parte com’era
già accaduto per il mito di Pio ix, così anche in questo caso il desiderio
di cambiamento produsse nei sostenitori della conciliazione una lettura
impropriamente estensiva delle effettive intenzioni del papa.
L’anno decisivo per questa rivisitazione dello schema illusione-disil-
lusione che abbiamo già visto operante nel biennio 1846-48, con il co-
siddetto mito di Pio ix, fu il 1887. Il parallelo con i sentimenti di allora
lo troviamo anche nella suggestiva ricostruzione storiografica di Arturo
Carlo Jemolo, che si è chiesto come mai si fosse ricaduti in equivoci di
quella natura: «Illusione senza fondamento, più vana che non fossero
stati i sogni, quarant’anni innanzi, di un papa che si facesse promotore
e capo di una guerra nazionale contro gli austriaci; oppure trapelare di
piani elaborati, e che il sopravvenire di cause estrinseche o l’irresolutezza
od il malvolere di qualche uomo, impedì avessero piena attuazione?»2.
Resta il fatto che nei mesi compresi tra la fine del 1886 e la metà del
1887 gli interventi pubblici riconducibili direttamente o indirettamente
agli ambienti vaticani erano stati numerosi, mentre da parte propria an-
che il governo guidato da Agostino Depretis si era mosso nella medesima
dalla protesta al progetto di riconquista 59
cò, seppure a distanza di un paio d’anni, una vittima di quel nuovo malin-
teso: il vescovo di Cremona Bonomelli che abbiamo prima ricordato. Ten-
tando infatti di tener vivo il problema egli avrebbe pubblicato nel 1889 un
opuscolo anonimo dal titolo Roma e l’Italia e la realtà delle cose. Esso non
ebbe alcun particolare effetto sulla soluzione della questione romana, non-
dimeno merita una sintetica analisi perché evidenzia che, pur minoritarie
e storicamente perdenti, si muovevano in quello stesso universo cattolico
italiano idee e visioni se non totalmente antitetiche certo assai divergenti
dalla linea conflittuale che risultò largamente dominante.
Nell’opuscolo Bonomelli – prima di avanzare alcune soluzioni prati-
che tra le quali la nascita di un piccolo Stato pontificio che comprendesse
una parte di Roma e uno sbocco al mare: una proposta almeno in parte
lungimirante se si pensa alla soluzione che sarebbe poi stata adottata nel
1929 con la nascita dello Stato della Città del Vaticano – poneva una que-
stione essenziale: la sussistenza o meno di un effettivo nesso storico tra il
primato spirituale del papa con le sue forme di esercizio da un lato e il prin-
cipato civile come suo strumento necessario dall’altro. Per concludere che
tale nesso non sussisteva, altrimenti il papato inteso come potestà spiritua-
le avrebbe seguito storicamente i tempi del principato civile: non esisten-
do dunque prima della nascita dello Stato pontificio nell’viii secolo d.C.
ed esaurendosi nel 1870 con la cessazione di fatto di quel medesimo Stato.
Tali idee e le connesse proposte possono apparire non particolar-
mente astruse a un osservatore odierno. Nel 1889, tuttavia, in una fase
segnata in Italia dall’incremento di episodi anticlericali e da un generale
indurimento nei confronti della Chiesa da parte del governo guidato dal
nuovo primo ministro Francesco Crispi, l’intera iniziativa del vescovo di
Cremona venne giudicata largamente inopportuna negli ambienti vati-
cani ed egli fu costretto prima ad autodenunciarsi pubblicamente come
autore dell’opuscolo, poi a ritrattarne il contenuto.
ritorsioni cui andarono soggetti gli sconfitti del 1887 rispetto a quelli
del 1848, ma soprattutto per la differenza sostanziale che è riscontrabi-
le nelle due circostanze tra l’immagine complessiva offerta dall’uno e
dall’altro pontefice che ne furono protagonisti.
Nel caso di Pio ix, infatti, lo svolgimento della crisi italiana del 1848
si era dilatato nelle sue conseguenze negative al di là dei confini del pae-
se, producendo una chiusura da parte della Chiesa non solo nei confron-
ti di certi ambienti italiani ma dell’intera società moderna. Una chiusura
che conteneva due diversi aspetti: da un lato un giudizio drastico e in-
tegralmente negativo; dall’altro l’assenza di una strategia che rivelasse
almeno l’intento, se non ancora i modi, di riconquistare alla religione
cristiana quella stessa società. Era dunque prevalso sul piano generale
un atteggiamento di mera condanna (Sillabo) e di forte compattamento
interno (dogma dell’infallibilità papale) per meglio attrezzarsi in vista
di quella che si profilava come una sorta di guerra di trincea («protestare
ed attendere»).
Ben diversa era invece la situazione del papato romano dopo la svolta
del 1887. Nel 1848, infatti, assieme al mito neoguelfo era crollata anche
l’immagine complessiva del papa liberale: un problema interno al rap-
porto tra il papato e la situazione politica italiana aveva cioè generato
riflessi negativi sull’intero orientamento del pontificato di Pio ix. Nel
1887, invece, i due piani, quello italiano della questione romana e quello
generale del rapporto tra la Chiesa e la società moderna, erano rimasti
distinti.
In tal modo il venire meno della prospettiva della conciliazione aveva
determinato contraccolpi solo interni alla realtà italiana, mentre l’im-
magine complessiva di Leone xiii come papa non ostile nei confronti
della società moderna era rimasta integra. Leone xiii restava cioè, anche
dopo il 1887, il papa che nell’enciclica Immortale Dei del novembre 1885
aveva disegnato uno scenario nel quale la Chiesa e gli Stati, o meglio
le classi dirigenti degli stessi, avrebbero dovuto cooperare in armonia,
ciascuno nella propria sfera d’influenza soprannaturale o terrena, al be-
nessere della società umana.
Certo, non si trattava di un discorso fondato su princìpi pienamente
liberali. A confermarlo basterebbero le citazioni della Mirari vos di Gre-
gorio xvi e del Sillabo di Pio ix contenute nell’enciclica, o la puntualiz-
zazione che la libertà era legittima solo per il bene e la virtù e non per il
male e il disordine morale. Né si guardava a modelli moderni: dato che
il riferimento ideale era rivolto alla societas christiana che aveva carat-
62 società, stato e chiesa in italia
o per ricevere i sacramenti della vita e della morte o per il ruolo auto-
revole che il prete comunque rivestiva in comunità che ripetevano un
modello sociale statico e uniforme in un paese in prevalenza rurale ed
extraurbano qual era l’Italia di fine Ottocento.
In tale specifico scenario, e nel quadro di una strategia di riconquista
sociale che richiedeva l’impiego di tutte le risorse di cui si poteva di-
sporre, quel clero venne invitato dal papa ad «uscire di sacrestia» per
intervenire nella lotta che si stava profilando. Fu un passaggio estrema-
mente significativo, che non mancò di alimentare accesi dibattiti tra co-
loro che, in sede storiografica, sono stati efficacemente suddivisi tra preti
del sacramento da un lato e preti del movimento dall’altro7. Ma si trat-
tava appunto di una strategia globale cui nulla poteva essere anteposto,
foss’anche il rischio di confondere un’immagine come quella del prete
tridentino che era stata tratteggiata al concilio di Trento di metà Cin-
quecento per ridare slancio a un impegno pastorale ormai inesistente e
dignità a una figura di ecclesiastico che, di fronte alle accuse dei seguaci
della riforma luterana, doveva recuperare tratti eminentemente spiritua-
li e in senso lato religiosi.
In quella strategia globale un ulteriore indizio appare d’altronde non
meno significativo: la riflessione sul ruolo della donna che, a partire da
una precedente enciclica dello stesso Leone xiii8, si sviluppò in quel pe-
riodo. Ne conseguì dapprima una presa di posizione dei vertici dell’oc
che è stata considerata in sede storiografica «il manifesto italiano di
quello che negli anni seguenti accetterà di chiamarsi femminismo cri-
stiano», poi l’aprirsi vero e proprio di un ruolo che lo stesso autore di
quel cosiddetto manifesto avrebbe così esplicitamente ricondotto alla
particolare congiuntura storica di inizio Novecento:
Dunque, revisione parziale del ruolo del prete e della donna. Ma era
chiaro che il confronto con le organizzazioni socialiste andava combat-
tuto anche e soprattutto sul piano delle organizzazioni che la Rerum
novarum aveva espressamente indicato come alternative a quelle del
movimento operaio e contadino socialista, e che rimanevano all’epoca
laicali e sostanzialmente maschili.
dalla protesta al progetto di riconquista 67
visti con decisa diffidenza quei richiami alla democrazia e alla libertà
che il sacerdote marchigiano avrebbe tra l’altro formulati in un famoso
discorso tenuto a San Marino nell’agosto 1902 e che a molti parvero dif-
ficilmente componibili con i concetti di autorità e di ordine gerarchico
caratteristici della mentalità cattolica del tempo.
Il processo di superamento della stagione paganuzziana in ogni caso
proseguì. Al congresso di Bologna del novembre 1903 la linea del nuovo
presidente Grosoli raccolse, seppure attraverso polemiche, la maggio-
ranza dei consensi e, per iniziativa del già ricordato Radini Tedeschi, si
diede per la prima volta anche spazio all’istituzione di sezioni femminili
dell’oc: come sviluppo di quel ripensamento della figura femminile pri-
ma ricordato. Si trattò tuttavia di una sorta di canto del cigno.
Nel luglio 1904, infatti, di fronte a nuove forme di ostruzionismo
messe in opera all’interno del comitato permanente dell’oc dall’ex pre-
sidente Paganuzzi e dai suoi alleati veneti, Grosoli e Radini Tedeschi
tentarono di ottenere un riconoscimento ufficiale della loro linea da
parte del nuovo papa Pio x, eletto nell’agosto 1903. Il testo che avreb-
be dovuto sancire tale riconoscimento e confermare la piena libertà di
manovra della nuova presidenza dell’oc consisteva in una circolare che
venne diffusa pubblicamente da Grosoli il 15 luglio 1904. In essa, ripo-
nendo eccessiva fiducia nel credito riscosso presso la Santa sede e forse
sottovalutando i legami diretti e indiretti che potevano sussistere tra il
gruppo di Paganuzzi e un pontefice di origine veneta e che aveva svolto
nello stesso Veneto gran parte della propria carriera ecclesiastica fino alla
funzione ultima di patriarca di Venezia, ci si sbilanciò in affermazioni
arrischiate. Vi si diceva, infatti, a proposito della questione romana:
All’infuori di ciò che concerne i diritti imprescrittibili della Santa Sede, i catto-
lici considerano epoche ed avvenimenti storici, come pietre miliari di un cam-
mino in avanti, gelosi che non venga intralciata l’opera dei viventi da questioni
morte nella coscienza nazionale11.
la classe dirigente del paese, sempre più assillata dalla crescita ora anche
parlamentare dei socialisti, una sorta di patto che prevedesse da un lato
il progressivo allentamento del non expedit per consentire all’elettorato
cattolico di votare taluni candidati governativi e dall’altro lato l’impe-
gno di quegli stessi candidati a sviluppare un’azione legislativa non osti-
le alla Chiesa e alle organizzazioni cattoliche.
La concreta attuazione di questa prospettiva si diluì nel corso de-
gli anni. Alle politiche del 1904 il papa neoeletto consentì una prima
modestissima deroga al non expedit, scelta che tra l’altro produsse in
Lombardia l’elezione di due deputati cattolici14. Nel 1909 il fenomeno
si estese ulteriormente. Nel 1913, infine, esso venne affrontato in termini
semiufficiali attraverso il cosiddetto patto Gentiloni, dal nome del conte
Ottorino Gentiloni, nuovo presidente dell’Unione elettorale.
L’accordo era la concreta estrinsecazione della prospettiva che abbia-
mo visto in precedenza e si basava sulla sottoscrizione di una serie di
clausole che avrebbero vincolato i contraenti: 1. opposizione a ogni pro-
posta di legge ostile verso le congregazioni religiose e che, comunque,
tendesse a turbare la pace religiosa della nazione; 2. tutela dell’insegna-
mento privato, ritenuto fattore di diffusione ed elevazione della cultu-
ra nazionale; 3. garanzie giuridiche e pratiche a sostegno del diritto dei
padri di famiglia ad avere per i propri figli una seria istruzione religiosa
nelle scuole pubbliche; 4. assoluta opposizione al divorzio; 5. garanzia
di rappresentanza nei Consigli di Stato per ogni tipo di associazione
economico-sociale, a prescindere dai princìpi sociali e religiosi procla-
mati; 6. maggiore perequazione nel sistema tributario; 7. sostegno alle
forze economiche e morali del paese, in vista di un incremento del ruolo
italiano sulla scena internazionale.
Al di là di significativi elementi rivelatori della mentalità del tempo,
come il fatto che la scelta relativa all’insegnamento della religione nelle
scuole pubbliche spettasse non alle famiglie ma ai padri di famiglia, il
patto univa temi classicamente cari alla sensibilità cattolica di ogni epo-
ca (enti religiosi, scuola privata e diritto di famiglia) a un motivo stretta-
mente congiunturale: la richiesta di valorizzazione delle forze che erano
in sostanza favorevoli a una politica di potenza italiana nel momento in
cui l’Italia stava uscendo proprio allora dall’operazione coloniale volta
alla conquista militare della Libia. Se lo osserviamo nel suo insieme non
sfugge peraltro la doppia congiunta finalità politica che esso si propone-
va: chiarire al candidato governativo che non avrebbe comunque dovuto
modificare lo statu quo cui si era al momento pervenuti sulla strada del
dalla protesta al progetto di riconquista 79
confronto decennale tra una visione laica dello Stato che era fino ad al-
lora mancata nei suoi obiettivi più ambiziosi e la resistenza cattolica sui
punti lì elencati; dimostrare allo stesso la piena disponibilità cattolica
a sostenere la linea governativa anche su punti quali la politica estera
nella quale il pacifismo socialista avrebbe potuto rappresentare, anche in
proiezione futura (si era non lontani dallo scoppio della Grande guerra
e dal vivacissimo dibattito sull’intervento/non intervento che si sarebbe
in effetti scatenato in Italia per gran parte del 1914), un serio ostacolo
alla eventuale chiamata alle armi popolare.
Resta da capire il perché si sottoscrisse il patto allora e non prima.
Ciò dipese, oltre che da altri fattori, dal fatto che i rischi di sconfitta
della maggioranza parlamentare che sosteneva il governo guidato da
Giovanni Giolitti erano nel 1913 ben maggiori che nel 1904 o nel 1909,
a causa della nuova legge elettorale che nel 1912 aveva introdotto il suf-
fragio universale maschile portando il numero degli elettori italiani da
meno di 3 milioni a quasi 8 milioni e mezzo. A quella maggioranza par-
lamentare, tuttora espressione prevalente di ceti e interessi elitari della
società italiana, occorreva dunque un alleato che avesse una presenza
di massa sul territorio paragonabile per capillarità e peso numerico al
movimento socialista. L’alleato con il suddetto requisito era appunto il
mondo cattolico, con la sua antica rete strutturale di diocesi/parrocchie
ora declinata anche in termini di organizzazione economica e sociale.
4
Grande guerra e fascismo:
l’accordo con lo Stato
Così, mentre le classi abbienti e date alle professioni si sono venute rovinan-
do e scristianizzando, per la istruzione anticristiana loro impartita nelle scuole
secondarie e superiori, il popolo si è scristianizzato per l’ignoranza in cui s’è
lasciato, per la soppressione dell’insegnamento religioso e per l’azione empia ed
irreligiosa del socialismo dominante7.
in contraddizione tra loro: dato che la prima stava a indicare una parte,
mentre la seconda esprimeva l’universalità di un fenomeno. Più proba-
bilmente non si voleva manifestare anche nel nome una peculiarità che
avrebbe finito non tanto per vincolare i componenti il partito quanto
per coinvolgere la Santa sede in modo troppo palese.
Per la stessa ragione, il partito non avrebbe dovuto avere un carattere
confessionale: cioè, espressamente legato a una data confessione religio-
sa. Venne pertanto a cadere anche l’ipotesi di introdurre nel suo nome
l’aggettivo “cristiano”, tanto più se inserito nell’espressione “Democrazia
cristiana”: evocatrice, certo, del movimento politico di inizio Novecento
del quale aveva fatto parte anche don Sturzo, ma capace proprio per que-
sto e per le condanne allora subìte di rialimentare polemiche con la San-
ta sede. Si decise così per Partito popolare italiano: un nome che nasceva
dall’aggiunta della qualifica italiana alla denominazione (Volkspartei)
con la quale il partito cattolico del Trentino, prima che il territorio ve-
nisse annesso all’Italia a seguito degli accordi di pace di Parigi del 1919,
partecipava ai lavori del parlamento di Vienna sotto la guida del giovane
Alcide De Gasperi.
Quanto al programma esso si rifaceva al modello di società che la
Chiesa aveva tratteggiato non molti anni prima mediante le encicliche
di Leone xiii sulla fisionomia degli Stati e sulla soluzione cristiana della
questione sociale.
Questi erano in sintesi i suoi cardini, in parte ricalcanti lo stesso patto
Gentiloni.
– Difesa della famiglia quale cellula essenziale della società e quindi
battaglia contro qualunque legge, in particolare quella relativa all’intro-
duzione del divorzio, che potesse contribuire alla sua disgregazione.
– Tutela ed estensione della libertà di insegnamento, intesa a poten-
ziare la rete degli istituti privati in gran parte gestita da enti e personale
ecclesiastici.
– Difesa del lavoro secondo i princìpi fissati dall’enciclica Rerum no-
varum, riconoscimento delle istituzioni sindacali di qualunque orien-
tamento ideologico e, segno evidente dell’interesse rivolto dai cattolici
al mondo rurale, riforma agraria con incentivi al rafforzamento della
piccola proprietà.
– Riforma dello Stato intesa a favorire il massimo decentramento am-
ministrativo, a conferma dell’antica predilezione cattolica per il modello
medievale dei comuni rispetto allo Stato centralizzato formatosi in età
moderna. Era una concreta derivazione da quel movimento di pensiero
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 89
Libertà ed indipendenza della Chiesa nella piena esplicazione del suo magistero
spirituale. Libertà e rispetto della coscienza cristiana considerata come fonda-
mento e presidio della vita della Nazione, delle libertà popolari e delle ascen-
denti conquiste della civiltà nel mondo9.
momento difficilissimo dal punto di vista sociale: sia per effetto dei con-
traccolpi comportati dalla fine della guerra – assenza di lavoro per molti
dei reduci dal fronte, disoccupazione alimentata dalla complessa con-
versione dei settori industriali siderurgici e metalmeccanici più diretta-
mente coinvolti nella produzione bellica, aumento vertiginoso del costo
della vita a causa della svalutazione monetaria, conseguente paura di
soccombere per i ceti sociali più deboli o precari –, sia per la particolare
condizione psicologica nella quale si trovavano le classi lavoratrici delle
fabbriche e delle stesse campagne dopo che il successo che il proletariato
aveva raccolto in Russia pochi anni prima sembrava rendere possibile
ogni utopica rivoluzione sociale.
Per gestire una situazione così incandescente sarebbe stata forse ne-
cessaria una coalizione delle forze che avevano vinto le recenti elezioni.
Al contrario, attraverso un gioco di veti incrociati, da parte della mag-
gioranza centrista dei popolari contro il nemico socialista e da parte dei
socialisti nei confronti del partito clericale, non venne seriamente consi-
derata l’eventualità di formare una maggioranza costituita dai deputati
dei due partiti di massa (socialisti e popolari). Né per altro verso si riu-
scirono a costruire maggioranze stabili di orientamento moderato tra i
rappresentanti della passata classe dirigente e i popolari. Lo impedì, tra
l’altro, il prezzo che venne di volta in volta chiesto dai cattolici per sor-
reggere i vari primi ministri che si alternarono nel tentativo di governare
il paese senza avere una base parlamentare sicura.
Ci si avviò così verso un periodo critico per instabilità sociale e poli-
tica, reso ancora più incandescente dal ripetersi di scioperi, occupazioni
di fabbrica e di terre, tumulti annonari, che parvero portare il paese a
una condizione cronica e pertanto non transitoria di rivolta sociale11. Lo
stallo nel quale versavano nel frattempo i vertici delle istituzioni favorì
la reazione a tutto questo da parte degli industriali e della grande pro-
prietà terriera: reazione che si espresse in particolare attraverso il soste-
gno finanziario a settori eterogenei dell’Italia postbellica – ma tuttora
pervasi dall’esperienza estrema della guerra: nel quotidiano rapporto
con la morte, con la violenza quale prioritario mezzo di relazione, con
la sospensione della legalità come condizione ordinaria – che vennero
poi abilmente convogliati e raccolti da Benito Mussolini dapprima nel
movimento e successivamente nel partito fascista.
Tra il 1920 e il 1922, con una breve interruzione determinata dalla
stipula nell’agosto 1921 del patto Zaniboni-Acerbo che sanciva una mo-
mentanea tregua tra fascisti e socialisti, l’Italia divenne una sorta di cam-
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 91
Noi, ciò nonostante, crediamo che coloro che oggi hanno le redini del governo
abbiano nel contempo la volontà di non perpetuare questo stato di cose, perché
sarebbe soprattutto la rovina del nostro paese e sarebbe la loro rovina15.
ormai molto lontana dalle forme attraverso le quali si era espresso l’asso-
ciazionismo cattolico ottocentesco.
Un primo aspetto riguardava la composizione per genere e genera-
zione e non più per campo d’azione della piramide17. Essa non era più
infatti suddivisa sulla base dei diversi settori d’intervento (propagan-
distico, economico-sociale, elettorale ecc.), come era avvenuto nell’oc
e in seguito con le varie Unioni, bensì sulla base della semplice divisio-
ne in uomini, donne, giovani, ragazze, cui corrispondevano altrettanti
rami. Ciascuno di questi, pertanto, non era distinto dagli altri sulla base
delle competenze ma su quello della propria composizione interna: a se-
conda dell’età e del genere dei suoi affiliati. La conseguenza era una ben
maggiore compattezza generale dell’organizzazione e un controllo pra-
ticamente ininterrotto sulla parabola esistenziale dei suoi membri, che
vi entravano da fanciulli per rimanervi teoricamente fino alla vecchiaia
passando da un ramo all’altro in relazione alla propria età.
Il principio gerarchico che regolava i tre diversi livelli della pirami-
de (centro, diocesi, parrocchia) permeava poi ogni settore dell’organiz-
zazione. Così, per quanto la giunta centrale fosse a norma di statuto il
gradino più alto della struttura, venne in realtà delineandosi sul piano
concreto una posizione di netto rilievo del presidente generale dell’ac.
Questi, infatti, aveva rapporti personali e diretti sia con la Santa sede, sia
col governo italiano, sia con altri interlocutori di volta in volta legati in
modo positivo o negativo agli interessi dell’ac. Esemplare, a riguardo,
può essere considerato l’episodio che vide nel maggio 1923 il presidente
dell’organizzazione Luigi Colombo recarsi dal segretario del ppi don
Sturzo per chiedergli lo scioglimento del partito al fine di riassorbirne
la base nelle fila dell’ac. Fatti di questa natura non si sarebbero potuti
verificare nei decenni precedenti: nemmeno nell’oc del presidente ac-
centratore Paganuzzi.
Ma l’aspetto più caratteristico era tutto sommato un altro. Il fenome-
no storico nato oltre un secolo prima dall’iniziativa personale di alcuni
religiosi e di molti laici per difendere gli interessi della religione all’in-
terno di una società che si stava progressivamente secolarizzando, un fe-
nomeno che si era poi delineato in modo sempre più chiaro come essen-
zialmente laicale, anche se mai esclusivamente laicale, appariva adesso
del tutto sottoposto al controllo delle gerarchie ecclesiastiche.
Sia il presidente generale che i presidenti dei vari rami erano infatti
scelti dal papa, così come coloro che a vario titolo facevano parte della
giunta centrale. Il presidente della giunta diocesana era a sua volta scelto
96 società, stato e chiesa in italia
Se questa era l’opinione della Santa sede, e tenendo conto che nel frat-
tempo stava procedendo a grandi passi la trasformazione del fascismo da
movimento a partito parlamentare e da questo a partito-Stato di natura
autoritaria, è facile comprendere come la sorte del ppi e anche dello stes-
so sindacato cattolico, la ricordata Confederazione italiana del lavoro,
fosse già segnata. Nel primo caso, come si è detto, la parabola iniziò nel
1923 e venne tra l’altro esemplarmente riassunta il 10 luglio di quell’anno
dalle dimissioni di don Sturzo da segretario generale del partito; anche
se questo non comportò né l’uscita dal partito da parte del sacerdote
siciliano né una sua reale minore incidenza nella guida dello stesso. Nel
secondo caso, invece, la svolta si ebbe quando ad aprile 1926 la Giunta
centrale dell’ac consentì ufficialmente ai propri affiliati di entrare a far
parte dei sindacati fascisti. Nei primi mesi del 1927, infine, un destino si-
mile veniva riservato ai membri della vasta rete delle cooperative cattoli-
che, che furono invitati a loro volta ad aderire all’ente nazionale fondato
dal governo fascista a fine 1926 per raccogliere tutte le iniziative di tale
genere presenti in Italia.
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 97
tra regime fascista e Chiesa italiana. In mezzo a tali fasi, tuttavia, si veri-
ficò la crisi probabilmente più difficile all’interno dei suddetti rapporti.
Al suo innesco contribuì in maniera determinante il desiderio di Mus-
solini di risolvere una volta per tutte il problema posto dall’esistenza in
Italia di un’organizzazione cattolica numericamente forte e compatta
sul piano dei princìpi come l’ac: del tutto simile, al di là naturalmente
degli orientamenti ideologici e delle finalità dichiarate, a quell’insieme
di associazioni che il regime aveva appositamente costruito allo scopo di
permeare di sé ogni momento della vita dei cittadini italiani.
Egli riteneva con ogni probabilità che da un lato le pressioni sulla
Santa sede e dall’altro le intimidazioni, le distruzioni materiali e le ag-
gressioni, capaci negli anni precedenti di far scomparire quasi tutte le
altre forme di presenza del laicato cattolico a vantaggio delle analoghe
organizzazioni fasciste, avrebbero riscosso ancora una volta pieno suc-
cesso. Tanto più che la recente stipula dei Patti lateranensi aveva larga-
mente confermato le buone disposizioni del governo fascista nei con-
fronti della Santa sede; e quindi, come già era accaduto nel caso del ppi,
si pensava di poter dimostrare alla Chiesa che non le era più necessaria
quella sorta di appendice proiettata verso la società.
Questa volta, tuttavia, fu Mussolini a prendere un abbaglio sull’ef-
fettiva intenzione del papa di accettare, come in altri precedenti casi, o
il fatto compiuto o la strada di una protesta che si era peraltro rivelata
sostanzialmente indolore per l’immagine anche internazionale dell’Ita-
lia e della sua attuale dirigenza. Di fronte al ripetersi in varie zone del
paese di assalti fascisti alle sedi dell’ac e soprattutto dei circoli giova-
nili, ancora una volta nel mirino fascista, Pio xi prese infatti la decisio-
ne di pubblicare a fine giugno 1931 un’enciclica dal titolo Non abbiamo
bisogno. I toni del documento erano singolarmente duri. In circa dieci
anni, quelli trascorsi da quando il re Vittorio Emanuele iii aveva affi-
dato a Mussolini l’incarico di capo del governo, era la prima volta che il
papa reagiva con tanta veemenza alle aggressioni dei gruppi armati del
fascismo.
Non lo aveva fatto né agli esordi del proprio pontificato, quando
Mussolini, ancora non a capo del governo, aizzava le camicie nere contro
le sedi delle organizzazioni socialiste e anche, seppure in minor misura,
cattoliche; né a fine agosto 1923, quando il sacerdote ferrarese don Gio-
vanni Minzoni era morto dopo un’aggressione fascista; né nelle svariate
occasioni che avevano assistito alla progressiva limitazione delle libertà
per gli avversari politici dell’arrembante dittatura.
100 società, stato e chiesa in italia
Se lo faceva adesso non era, d’altronde, perché gli episodi più recenti
fossero più gravi di quelli passati, ma solo perché negli ambienti vaticani
si riteneva più alta la posta in gioco. Accettare quest’ultimo assalto alla
presenza organizzata del laicato cattolico in Italia avrebbe infatti avuto
un significato duplice. Innanzitutto avrebbe creato un pericoloso pre-
cedente sul piano generale della presenza del cattolicesimo all’interno
dei vari Stati. L’ac non era infatti un fenomeno solo italiano, come le
precedenti associazioni laicali del nostro paese, ma un modello di pre-
senza ormai diffuso, seppure con adattamenti alle situazioni locali, nei
vari continenti. In secondo luogo avrebbe comportato la rinuncia a ogni
futura possibilità di orientare a favore della Chiesa la lotta per la supre-
mazia ideologica, morale e culturale in Italia, lasciando alla propaganda
fascista piena libertà di formare secondo i propri criteri le future genera-
zioni. Fino a che sopravviveva l’ac sarebbe invece stato possibile, anche
se con fatica, continuare per la Chiesa quella lotta, e riuscire anche a
penetrare nella stessa struttura dello Stato fascista per bilanciarne even-
tuali sviluppi che fossero in palese contrasto con la dottrina cattolica. Si
badi: con la dottrina cattolica, non con i princìpi dello Stato di diritto o
del costituzionalismo occidentale.
Lo scontro fu duro. Ma né la Santa sede né il governo fascista in-
tendevano comunque assumersi la piena responsabilità di una rottura
unilaterale degli accordi sanciti da poco più di un biennio. Si ripresero
quindi le trattative: questa volta per risolvere in modo definitivo il con-
trasto che continuava a riguardare le residue organizzazioni cattoliche.
Il nodo essenziale poteva essere così sintetizzato. Mussolini rivendicava
innanzitutto all’Opera nazionale balilla, istituita nel 1926 per raccoglie-
re e avvicinare al fascismo la gioventù italiana, la medesima condizione
di monopolio esercitato nei rispettivi ambiti dai sindacati fascisti, dal
partito fascista, dall’ente fascista per la cooperazione ecc. Nella visione
mussoliniana, lo Stato fascista doveva cioè controllare attraverso l’Ope-
ra quell’aspetto delicatissimo dal punto di vista della sua futura soprav-
vivenza che era costituito dall’orientamento complessivo delle nuove
generazioni: andava infatti dagli otto ai diciotto anni l’età degli affiliati
all’Opera nazionale balilla. Da un ulteriore punto di vista, poi, l’Azione
cattolica, con la sua struttura ad un tempo estremamente centralizzata
e distribuita capillarmente su tutto il territorio nazionale, era ritenuta
da Mussolini un pericolo perché potenzialmente capace di conservare
al proprio interno i germi politici che già erano stati del ppi, e quindi
di trasformarsi improvvisamente, come effettivamente sarebbe in parte
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 101
Movimento guelfo da lui fondato a fine anni venti; o l’altro, ancora più
netto, dei movimenti che a vario titolo facevano riferimento alla sinistra
cristiana e che sarebbero sorti a Roma e in Toscana a fine anni trenta. Ma
anche queste esperienze, sulle quali ritorneremo più avanti esaminando
il pluralismo politico dei cattolici registrabile negli anni conclusivi della
Seconda guerra mondiale, risultarono più significative sul piano ideale
che non su quello concreto, e non ebbero, in ogni caso, un raggio d’azio-
ne sufficiente a scuotere anche solo per breve tempo gli equilibri generali
dei quali si è detto.
Si delineò così una fase storica nella quale sembravano sussistere tutte
le condizioni ideali perché il mondo cattolico potesse operare su vasta
scala contro i processi di secolarizzazione che avevano segnato la società
italiana negli ultimi cento-centotrent’anni e a favore del riformarsi di
un tessuto sociale cristiano. Non potendo peraltro operare direttamen-
te sulle istituzioni, visto il geloso monopolio esercitato sulle stesse dal
fascismo, la Chiesa si rivolse di preferenza verso le masse: tentando di
sfruttare al meglio sia gli strumenti formali offerti dal Concordato, sia
la disponibilità da parte del regime a collaborare concretamente in tal
senso.
I livelli di intervento adottati dalla Chiesa furono sostanzialmente
due. Il primo operò per così dire nel quotidiano e consistette nella si-
stematica rieducazione della gente a un sistema di vita imperniato sulla
famiglia e sugli elementi che secondo la stessa Chiesa dovevano carat-
terizzarla in senso cattolico: vale a dire la fedeltà coniugale, una prole
numerosa, la consuetudine a svolgervi delle pratiche devote domestiche
(come la recita comune del rosario) e la partecipazione all’apostolato
nelle forme e attraverso gli organismi periferici dell’ac.
Il luogo privilegiato nel quale si operò tale intervento sarebbe risul-
tata la parrocchia, già indicata da Pio xi ai giovani cattolici come «una
famiglia, non una città, non un villaggio, ma il primo nucleo della vita
religiosa, nella grande famiglia sociale»22. I suoi tramiti essenziali fu-
rono invece la predicazione del clero e l’attività di formazione dei laici
che si teneva settimanalmente all’interno dei circoli parrocchiali di
ac. Questo primo livello di intervento non costituiva però una novità
rispetto al passato. Anche nel corso dei decenni precedenti, infatti, no-
nostante le difficoltà frapposte dall’ambiente circostante dapprima per
l’affermarsi soprattutto nelle città dei princìpi laico-borghesi e liberali,
poi per il sopravvenire della propaganda socialista, non era di fatto
mai venuta meno la proposta familista del clero. Adesso, semmai, essa
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 103
Mentre la folla plaudiva senza fine, mentre sul mare di teste si agitavano in
frenetica gioia fazzoletti, veli, cappelli, ogni cosa che può essere sventolata in
segno di festa, un episodio gentile si svolgeva nel palco delle autorità, presso ai
due Cardinali, il Legato e l’Arcivescovo. Leandro Arpinati presentava all’uno
e all’altro la vecchia mamma, una semplice modesta donna della gente nostra,
una di quelle donne che sole, raccogliendo nel cuore interno la forte e pura
tradizione di fede e di morale cristiana del popolo italiano, possono dare alla
Patria nostra le sue ed auspicate nuove generazioni. I due Porporati si effusero
in ogni buona parola, e la mamma del Podestà si inchinò a loro e dalle sue umili
parole traspariva tutta la gioia che il suo cuore provava nel vedere quel suo caro
e forte figliuolo vicino alle più alte autorità della Chiesa, partecipe di un rito
così solenne, associato a così alto trionfo della fede cattolica in Bologna e in
tutta Italia24.
104 società, stato e chiesa in italia
nel 1935 – una nuova fase di tensione tra regime e Santa sede. L’avvi-
cinamento progressivo del governo italiano alla Germania nazista che
si era compiuto nel corso di quell’anno, portando tra l’altro all’intro-
duzione anche in Italia di leggi antiebraiche, lasciava infatti presagire
come incombente il rischio che i provvedimenti con i quali Hitler stava
attaccando il cattolicesimo tedesco potessero trovare facile imitazione
in Italia. Anche perché il governo guidato da Mussolini aveva già nel
frattempo ripresa l’antica diffidenza nei confronti dell’ac, sulla base del-
le relazioni di alcuni prefetti che segnalavano come nella fase tranquilla
di metà anni trenta l’organizzazione cattolica, lungi dal ripiegarsi in una
gestione di routine, avesse registrato una crescita quantitativa e un parti-
colare attivismo locali.
A parziale differenza di quanto avvenuto nel 1931, quando solo dopo
le ripetute aggressioni fasciste si era giunti a una trattativa dalla quale
erano poi scaturiti i nuovi statuti dell’ac, la Santa sede decise questa
volta di giocare d’anticipo. Senza pertanto aspettare un peggioramento
eccessivo dei rapporti con il regime, che già erano arrivati a una soglia
piuttosto delicata nell’inverno del 1938, il 22 aprile 1939 essa comuni-
cava ufficialmente la notizia che la guida dell’ac veniva affidata all’alta
direzione di tre cardinali (l’arcivescovo di Genova Pietro Boetto, l’arci-
vescovo di Palermo Luigi Lavitrano e il patriarca di Venezia Adeodato
Piazza) in vista di una revisione degli statuti che si sarebbe di fatto con-
clusa il 6 giugno 1940.
La scelta di affidare ufficialmente la direzione generale dell’orga-
nizzazione ai suddetti cardinali, come anche lo stesso contenuto della
revisione, erano certo motivati da una necessità di natura contingente:
cioè, di fronte all’addensarsi di nuove nubi, offrire all’ac una copertura
ancora più solida di quella offerta dagli statuti del 1931. Ma dato che tale
difesa venne attuata sottolineando in modo ancora maggiore che nel re-
cente passato il legame/dipendenza dell’ac rispetto alla gerarchia eccle-
siastica, di fatto quei provvedimenti rappresentarono l’ultimo passo di
quella clericalizzazione degli organi direttivi del movimento intrapresa
sin dall’esordio del pontificato di Pio xi.
Solo apparente era invece la centralizzazione. I tre cardinali sopra ri-
cordati non erano infatti dei cardinali di curia, dei prelati impegnati cioè
a Roma in incarichi direttivi, ma dei vescovi residenziali, cioè alla guida di
vere e proprie diocesi. Quindi, anche se in forma indiretta, veniva confer-
mata la diocesanizzazione prevista dagli statuti del dicembre 1931 e richie-
sta ancora prima dagli accordi con il fascismo del settembre precedente.
5
La ricostruzione guelfa dell’Italia:
la conquista dello Stato
due anni, che avrebbe assunto una duplice fisionomia: da un lato guerra
di liberazione contro i tedeschi e dall’altro guerra civile tra gli italiani
che lottavano per impedire il ritorno della dittatura fascista e quelli che
al contrario intendevano ripristinarla.
Rispetto ad entrambe l’8 settembre 1943 avrebbe segnato l’inizio
di un fenomeno molto importante per capire la fase immediatamente
successiva alla fine vera e propria delle ostilità in Italia nell’aprile 1945:
vale a dire il formarsi di un fronte antifascista che vide tra loro affiancati
gli esponenti di quelle forze politico-sociali cattoliche e socialcomuni-
ste che si erano lungamente combattute dalla fine dell’Ottocento in poi
sino a quando l’affermarsi del regime fascista aveva annullato ogni spa-
zio di contesa parlamentare.
Le due date che abbiamo ricordato segnarono altrettanti momenti
decisivi anche rispetto alla presenza dei cattolici nella realtà italiana. Ma
su questo ritorneremo tra poco. Per cogliere invece appieno le peculia-
rità secondo le quali tale presenza si sarebbe sviluppata negli anni del
secondo dopoguerra sia dal punto di vista delle sue motivazioni più pro-
fonde che da quello dei modi concreti di manifestazione, modi che non
erano certo gli unici possibili, è necessario partire più a monte. Occorre
cioè risalire a ritroso sino al Natale del 1942. In quella circostanza, infat-
ti, il pontefice Pio xii diffuse un radiomessaggio che gli studiosi ritengo-
no a ragione decisivo per conoscere i fondamenti di natura religiosa ma
anche ideologica che avrebbero guidato i cattolici italiani alla conquista
dell’egemonia nelle strutture dello Stato e in vari settori strategici della
società civile. Un’egemonia che, com’è noto, si sarebbe di fatto prolun-
gata per vari decenni sino agli anni ottanta del Novecento.
I punti chiave del radiomessaggio erano essenzialmente quattro. In-
nanzitutto (primo elemento), riprendendo dal libro del profeta Gere-
mia un giudizio biblico, si chiariva che il destino inesorabile di colo-
ro che abbandonavano Dio era il cadere nella polvere, cioè di fatto il
soccombere sulla scena della storia. Tale esito non riguardava soltanto
e principalmente i singoli individui, ma si estendeva all’intero gene-
re umano e al suo passaggio attraverso le diverse epoche storiche. Era
appunto (secondo elemento) ciò che stava avvenendo con la guerra in
corso, che confermava infatti la decadenza dell’umanità a causa del suo
abbandono di Dio.
Fin qui la chiave di lettura sottesa al documento papale non presen-
tava novità particolari. Si trattava, anzi, della ripresa di un motivo as-
solutamente tradizionale nel pensiero cattolico: la guerra come segno
la ricostruzione guelfa dell’italia 109
unità politica dei cattolici, cioè il loro identificarsi con un solo partito,
non era affatto vista come indispensabile: tanto che nel 1944 la rivista
dei gesuiti italiani “La Civiltà cattolica”, spesso portavoce ufficiosa degli
orientamenti vaticani, aveva esplicitamente affermato che tra i cattolici
avrebbero potuto sorgere più partiti «lecitamente discordanti sul piano
politico»2.
E in effetti, nel pieno della guerra di liberazione e in un clima di so-
stanziale collaborazione antifascista tra cattolici ed esponenti delle forze
politiche sia socialiste che comuniste, almeno altre due formazioni com-
poste da laici cattolici, ma che videro talora anche il sostegno di sacerdo-
ti, risultarono pienamente attive sebbene non molto rilevanti dal punto
di vista della forza numerica.
La prima era il Movimento cristiano-sociale, fondato da Gerardo
Bruni nel 1939 e trasformatosi poi in Partito cristiano-sociale: denomi-
nazione con la quale si sarebbe presentato alle elezioni per l’Assemblea
costituente del 1946 e alle politiche del 18 aprile 1948. La seconda era la
cosiddetta Sinistra cristiana: nata anch’essa come movimento clandesti-
no alla fine degli anni trenta e poi passata attraverso varie trasformazioni
all’esperienza dei cattolici comunisti, per approdare nel settembre 1944
alla fondazione del Partito della sinistra cristiana e infine sciogliersi nel
dicembre 1945, facendo confluire nel pci buona parte dei propri soste-
nitori.
Se la prima esperienza visse in gran parte attorno alla figura e alla
evoluzione del proprio leader Bruni – che partecipò tra l’altro anche ai
lavori dell’Assemblea costituente, votando in modo contrapposto ai col-
leghi costituenti della dc sulla questione dell’art. 7 che esamineremo tra
poco –, la seconda vide invece svilupparsi un’esperienza più articolata
attraverso i percorsi politici dei vari Franco Rodano, Adriano Ossicini,
Felice Balbo ecc. Alla base di entrambe, peraltro, stava un elemento co-
mune: vale a dire una visione rivoluzionaria del cattolicesimo che ben
poco aveva da spartire con i programmi che nello stesso periodo veniva-
no elaborando per la futura dc De Gasperi e lo stesso Malvestiti. Una
visione rivoluzionaria che, guardando anche alle esperienze passate del
cattolicesimo politico italiano, sembrava tutt’al più avvicinabile alle idee
della sinistra popolare di Guido Miglioli o al Partito cristiano del lavoro
fondato nel 1921 da Giuseppe Speranzini e Giorgio Luigi Colombo.
Nel frattempo anche il settore sindacale cattolico si veniva riorganiz-
zando grazie all’opera di Achille Grandi. La sua intenzione era duplice.
Da un lato non sottrarsi al clima di collaborazione con le sinistre che
112 società, stato e chiesa in italia
secondo i propri princìpi, sia perché, nel vuoto istituzionale che si era
venuto a creare in Italia nella parte conclusiva della guerra, essa era stata
scelta dagli Stati Uniti come interlocutore privilegiato rispetto alle vi-
cende interne del nostro paese.
È noto, infatti, che gli Alleati (Stati Uniti e Gran Bretagna, princi-
palmente) avevano deciso di lasciare che gli italiani scegliessero alme-
no apparentemente da soli l’assetto da dare al paese dopo la fine della
guerra, senza cioè che venisse prolungata la presenza di eserciti stranieri
(per quanto adesso amici). Ma si voleva, in ogni caso, che tale assetto
non rappresentasse una rottura completa col passato e tanto meno che
aprisse le porte all’ulteriore avanzata in Europa del comunismo sovieti-
co. La Chiesa, al di là della sua natura e vocazione di fondo, divenne così
un interlocutore ideale per questo disegno politico e sociale di carattere
moderato-conservatore. Essa era infatti ideologicamente avversa al co-
munismo, esercitava tuttora una larghissima influenza su ampi settori
del popolo italiano e aveva nell’ac e nel partito della dc due strumenti
già in gran parte pronti a condurre in porto, per usare l’acuta immagine
di Jemolo, «l’inattesa realizzazione di uno Stato guelfo a cento anni dal
crollo delle speranze neoguelfe»5.
Cattolici e democristiani
di fronte alla costruzione della Repubblica
Tra l’8 settembre 1943 e il 12 maggio 1947, giorno nel quale finì l’espe-
rienza della coalizione di governo tra i partiti democristiano, comunista
e socialista, prevalse seppure con scricchiolii nell’ultimo periodo la soli-
darietà tra cattolici e uomini della sinistra che si era sviluppata nel corso
della guerra di liberazione. Anche dopo il 25 aprile 1945 essa aveva dato
frutti significativi, consentendo tra l’altro a un’Italia ancora estrema-
mente fragile dal punto di vista politico e sociale il passaggio attraverso
il delicato scoglio della scelta tra monarchia e repubblica.
Tale scelta, avvenuta mediante un referendum popolare tenutosi il 12
giugno 1946 e conclusosi con la vittoria di stretta misura dell’opzione
repubblicana, coincise anche con le votazioni per la scelta dei membri
dell’assemblea che avrebbe dovuto redigere la costituzione repubblicana
del nuovo Stato: l’Assemblea costituente, appunto, o più semplicemente
la Costituente.
la ricostruzione guelfa dell’italia 115
a causa della sua esilità strutturale, del partito della dc. Ben più degli
interventi dei politici contarono infatti l’azione capillare condotta so-
prattutto nelle campagne dal clero curato e le missioni religioso-sociali
predicate in tutta Italia tra la fine del 1947 e la primavera del 1948 da
attivisti dell’ac sostenuti in alcuni casi anche dal supporto logistico di
apparecchiature per la proiezione di materiale propagandistico offerte
direttamente da Pio xii.
Piuttosto che un confronto tra programmi, o al limite tra i leader po-
litici dei diversi schieramenti, il 18 aprile 1948 divenne per effetto di una
campagna elettorale nettamente ideologizzata lo scontro tra due conce-
zioni contrapposte dello Stato, della società e anche in fin dei conti dello
stesso individuo. Quella, da un lato, del Fronte popolare raggruppante le
forze di sinistra: basata su uno Stato centralizzato, una società fortemen-
te solidaristica e una visione dell’individuo prettamente laica. E quella,
dall’altro, delle forze moderate e conservatrici raccolte attorno alla dc:
fondata su uno Stato decentrato, una società imperniata sull’intreccio
di pubblico e di privato ma con prevalenza di quest’ultimo, una visione
dell’individuo modellata almeno per i cattolici inseriti nella coalizione
sui princìpi religiosi.
Ma già entrare nel merito delle suddette distinzioni è in qualche
modo nobilitare impropriamente l’ottica secondo la quale l’elettorato
italiano venne indotto a scegliere. Se osserviamo infatti i manifesti elet-
torali affissi dai Comitati civici di Luigi Gedda, una sorta di organiz-
zazione elettorale scaturita dall’ac e appunto guidata dal presidente di
uno dei suoi rami, vediamo che l’alternativa proposta agli elettori era
esemplificata più dalle seguenti raffigurazioni che dalle differenze di
fondo prima accennate6.
Primo manifesto, di destinazione generale. Un bivio (le elezioni del
18 aprile) con due strade: a destra una strada rettilinea e in perfette con-
dizioni di manutenzione che aveva come suo traguardo la chiesa, la fa-
miglia e il lavoro; a sinistra una strada a forma di curva, con un percorso
reso accidentato da sassi e buche e con il triplice risultato di portare alle
agitazioni, alla guerra e alla miseria. Anche i particolari erano curatissi-
mi e ideologicamente funzionali: i pilastrini della strada democristiana
erano infatti di colore bianco, mentre quelli della strada delle sinistre
erano ovviamente rossi!
Secondo manifesto, chiaramente destinato a elettori delle zone rurali.
Al centro una graziosa fattoria contornata da campi e frutteti, intorno, a
sua difesa, un recinto senza aperture formato dalle schede elettorali con
118 società, stato e chiesa in italia
scritto «voto», dai quattro lati altrettanti artigli con il simbolo comu-
nista (falce e martello) che tentavano di entrare nel recinto, il tutto so-
vrastato dalla scritta «Difendi il frutto dei tuoi sudori». In questo caso,
dunque, la scelta dello schieramento era accompagnata da un pressante
invito a non astenersi dal votare. Forte era infatti il timore, divenuto poi
congenito nelle forze moderate italiane, che la superiore compattezza di
partito dei comunisti potesse trarre vantaggio dal maggiore distacco dei
settori politicamente meno impegnati della società.
Le elezioni videro l’affermazione complessiva del blocco moderato e
conservatore, ma il dato più significativo venne rappresentato dalla per-
centuale di voti che premiavano il partito cattolico consentendogli alla
Camera di ottenere la maggioranza assoluta dei deputati e al Senato di
raggiungere comunque la maggioranza relativa. La dc dunque non solo
si confermava come il partito più forte in parlamento, dato questo già
delineatosi nelle elezioni per la Costituente, ma sfiorava da sola con una
percentuale del 48,5% la maggioranza assoluta.
Ad un’analisi interna del voto, volta a esaminare il contributo dato a
quell’esito complessivo dalle diverse aree del paese, risultava peraltro che
la forza del partito democristiano non era distribuita uniformemente su
tutto il paese (il centro dell’Italia aveva ad esempio votato in prevalenza
a sinistra, mentre al Sud restava forte la presenza dell’elettorato monar-
chico) e che la vistosa entità numerica di quel voto non dipendeva solo
dal consenso proveniente dagli ambienti cattolici ma assorbiva anche
una parte non piccola di elettorato semplicemente anticomunista.
In ogni caso, tuttavia, pur con queste particolarità interne il risultato
non presentava nella sua globalità possibili letture alternative: un partito
cattolico aveva acquisito per la prima volta la possibilità di guidare le
sorti dello Stato italiano. Restava da vedere, ed era una delle principali
incognite sottese alla nuova stagione che si andava ad aprire, in che mi-
sura avrebbero pesato sulla dc e sulla sua linea politica le esigenze del
suo maggiore procacciatore di voti: l’istituzione ecclesiale cattolica. Era
infatti evidente, come già si era riscontrato a proposito delle pressioni
che erano state fatte sui costituenti democristiani in vista della discus-
sione dell’art. 7, che la Chiesa vedeva nel partito democristiano non
tanto una delle espressioni della vita politica del paese, magari anche la
più vicina ai propri princìpi, ma lo strumento politico di cui servirsi per
raggiungere i due scopi per essa prioritari: la lotta contro il comunismo
e la ricristianizzazione del paese. Ma c’era anche una seconda incognita,
come vedremo tra poco: cioè il peso che avrebbe avuto sulla fisionomia
la ricostruzione guelfa dell’italia 119
Vedremo tra poco come andarono in realtà le cose. Diversa e ben più
complessa da affrontare risultava invece la realtà dell’istituzione eccle-
siale periferica. La parrocchia, in particolare, indicata già nei programmi
di Pio xi e della sua ac come il centro essenziale della vita religiosa, non
era adatta al tipo di pastorale che immaginavano i crociati di Pio xii. Essa
andava pertanto attrezzata come una sorta di cittadella cristiana, il cui
modello ideale veniva così descritto in un periodico dell’ac:
Il tempio (col battistero e col campanile), la sacrestia, la casa dei sacerdoti, l’uf-
ficio parrocchiale, i locali per l’Azione Cattolica, i locali per l’insegnamento
del catechismo, una gran sala (per teatro, cinematografo, adunanze solenni),
un cortile per i piccoli, un campo sportivo per i grandi, delle sale per le opere di
carità spirituale e materiale (biblioteca, sala di lettura, ambulatorio medico, cu-
cina del popolo e simili), locali per eventuali altre opere (circolo acli, palestra,
cortile coperto per l’inverno, sala di prova per la banda, doposcuola e simili)9.
Tra i molti interrogativi che si sono presentati agli studiosi del feno-
meno, quelli perlomeno che sono rimasti indenni dalla difesa entusia-
stica e compiaciuta di quella poderosità cattolica così come all’opposto
dalla sua demonizzazione preconcetta, uno in particolare merita di es-
sere qui riproposto: se, cioè, la decisione di ergersi a principale baluardo
contro il comunismo, non solo dal punto di vista ideologico generale,
ma come movimento, partito, sindacato, organizzazione elettorale,
centro sociale di intrattenimento ecc., non abbia talmente modellati la
Chiesa e il cattolicesimo italiano di quegli anni da snaturarne le finalità
ad essi proprie e la loro stessa presenza all’interno della società.
Già prima degli studiosi se lo chiesero d’altronde alcuni settori, certo
minoritari ma non per questo non meritevoli di attenzione, di quella
stessa Chiesa.
All’interno del laicato, ad esempio, l’eccessivo coinvolgimento
dell’organizzazione in questioni di natura prettamente politica che si
era accentuato nella seconda metà degli anni quaranta, in vista delle ele-
zioni per la Costituente del 2 giugno 1946 e poi delle politiche del 18
aprile 1948, aveva alimentato un crescente malcontento all’interno degli
ambienti della Gioventù italiana di azione cattolica (giac) e una evi-
dente disapprovazione della linea tenuta dal presidente generale dell’ac
Luigi Gedda. La crisi raggiunse il culmine nel biennio 1952-54, quando
si registrarono in breve sequenza la fine della presidenza di Carlo Car-
retto, le dimissioni imposte al suo successore Mario Rossi (aprile 1954)
e l’allontanamento di gran parte dei quadri dirigenti dell’associazione
giovanile10.
Non c’erano, per quella generazione di cattolici, degli esempi recenti
che ricordassero un intervento così duro da parte dei vertici dell’ac e
della stessa Santa sede, che non poteva ovviamente non esserne stata resa
partecipe. Ma per i più anziani ritornava probabilmente alla memoria la
stagione di inizio Novecento, quando una cinquantina di anni prima i
gruppi giovanili raccolti attorno a don Murri avevano dovuto sentire il
peso della repressione voluta da Pio x nel quadro della lotta al moderni-
smo. Allora tuttavia si era colpita l’iniziativa politica di un sacerdote che
andava contro i progetti della Santa sede intesi a non intrecciare almeno
sul piano formale politica e religione, ora invece la situazione era rove-
sciata: si colpivano infatti dei dirigenti laici (ma anche qualche sacerdo-
te: don Arturo Paoli, viceassistente nazionale della giac) che volevano
mantenere distinte la politica e la religione, non coinvolgendo la Chiesa
nelle competizioni della prima.
la ricostruzione guelfa dell’italia 125
I giovani cattolici vogliono che la politica si faccia con scelte politiche e non con
scelte religiose; la religione deve ispirare la politica senza sostituirsi ad essa. Per-
ciò i laici facciano i laici a loro rischio personale senza usare la Chiesa a sostegno
di una tesi di partito. La Chiesa è al di là della parte e l’amore più grande che
possiamo dimostrarle è quello di non coinvolgerla in competizioni di parte11.
dei più deboli. Una politica, per intenderci, come quella che seppure sul
piano della più circoscritta amministrazione di una città avrebbe tentato
di effettuare il sindaco di Firenze Giorgio La Pira: autore nel 1950 di uno
scritto dall’emblematico titolo L’attesa della povera gente e già membro
della Costituente e del parlamento italiano nelle fila del gruppo che si
raccoglieva attorno alla figura di Giuseppe Dossetti. Proprio le esperien-
ze di Dossetti e di La Pira stavano tuttavia a confermare, nonostante la
diversità dei rispettivi esiti (ritiro dalla dc e dalla vita politica nel primo
caso, possibilità per il secondo di attuare le proprie idee non a livello
politico nazionale ma a livello amministrativo locale), quanto abbiamo
detto in precedenza a proposito del carattere vincente della linea che,
pur con tutti i distinguo che una parte della storiografia ha opportu-
namente introdotto, soprattutto in relazione all’autonomia di governo
tentata da De Gasperi rispetto alle pressioni degli ambienti vaticani o
dell’ac, fu comune a Pio xii, allo stesso De Gasperi, a Gedda ecc.
Per prese di posizione come quelle di Carretto e di Rossi non c’e-
ra in realtà alcuno spazio all’interno della compatta e tetragona ac di
Gedda. Così come i vertici del partito cattolico e lo stesso De Gasperi
non erano disposti a tollerare né la presenza dialettica di Dossetti, né la
polemica che avrebbe voluto essere costruttiva della rivista di Mazzolari:
alla quale infatti fu imposto nel 1951 di sospendere le pubblicazioni, per
poi riprenderle in seguito con infinite cautele e con lo stesso Mazzolari
costretto a scrivervi sotto vari pseudonimi per non incorrere in ulteriori
condanne.
E, a conferma del clima generale che si respirava nella Chiesa italia-
na12, anche in una diocesi come quella di Firenze retta da un vescovo di
eccezionale levatura religiosa quale Elia Dalla Costa scattavano provve-
dimenti punitivi o perlomeno miranti all’isolamento nei confronti di
sacerdoti ritenuti problematici come don Lorenzo Milani.
Non si saprebbe come giudicare in altro modo la decisione, presa
dall’anziano Dalla Costa nell’autunno 1954 ma già sospesa nell’aria da
vario tempo, di allontanare l’allora meno che trentenne don Milani dal-
la popolosa parrocchia contadina e operaia di San Donato a Calenzano
(non distante da Firenze) nella quale svolgeva le funzioni di cappellano
per inviarlo a ricoprire il ruolo di parroco di Barbiana, una località sper-
duta dell’Appennino toscano già destinata alla chiusura per lo scarsis-
simo numero di parrocchiani e della quale, a conferma di questo, don
Milani sarebbe di fatto rimasto a tutt’oggi l’ultimo parroco.
È peraltro interessante notare come al momento della sua destina-
la ricostruzione guelfa dell’italia 127
zione a Barbiana don Milani non fosse ancora stato né l’autore del libro
Esperienze pastorali, edito nel 1958 e poco dopo ritirato dal commercio
per decisione del Sant’Uffizio; né l’estensore della Lettera ai cappella-
ni militari, che gli sarebbe valsa nel 1965 un processo per istigazione al
reato avendo difeso gli obiettori di coscienza in un periodo nel quale
l’obiezione non era ancora tutelata da un’apposita legge e i suoi fautori
finivano in carcere; né il regista e probabile effettivo redattore di quel-
la Lettera a una professoressa che avrebbe rappresentato nella primavera
1967 una sorta di antefatto del movimento culturale, politico e di rivolta
generazionale denominato Sessantotto.
I principali addebiti che gli potevano essere mossi a tutto il 1954 pre-
scindevano dunque dagli eventi che nel decennio successivo avrebbe-
ro effettivamente guadagnato a don Milani la fama di prete scomodo.
Quegli addebiti potevano tutt’al più riguardare il suo aver richiamato
l’attenzione, in alcuni brevi articoli pubblicati sulla rivista di Mazzolari
“Adesso” o in altre sedi, sul problema pastorale del progressivo distacco
dei poveri dalla Chiesa cogliendone la causa nel coinvolgimento del-
la stessa con le classi sociali superiori; o per altro verso il suo non aver
accettato l’ordine interno diffuso dalla Curia fiorentina di far votare la
popolazione anche a favore di candidati non cattolici ma comunque go-
vernativi invece di suggerire, come fece Milani, il solo voto a candidati
cattolici. Questioni, pertanto, che riguardavano in entrambe le circo-
stanze più la sfera politica e ideologica che non quella strettamente reli-
giosa, e che in ogni caso non avrebbero certo dovuto attirare sul giovane
prete toscano, come invece avvenne, la nomea del prete che, seppure in
buona fede, favoriva con il proprio comportamento l’ulteriore afferma-
zione del comunismo nell’ambiente contadino e operaio di Calenzano.
Ma il clima era quello, né sarebbe cambiato nella seconda metà de-
gli anni cinquanta nonostante vari elementi dello scenario complessivo,
come vedremo tra poco, stessero lentamente orientando in altre direzio-
ni il corso della vicenda del cattolicesimo italiano.
L’ultima e più singolare conferma del permanere di questa sorta di
sindrome ideologica si ebbe nel febbraio 1957 e coinvolse inaspettata-
mente un ecclesiastico di alto rango nella gerarchia cattolica, il cardinale
patriarca di Venezia Angelo Roncalli, che, a differenza delle figure sopra
ricordate, aveva sempre avuto alle proprie spalle un curriculum assolu-
tamente irreprensibile e semmai comprovante, secondo l’opinione che
si era diffusa negli ambienti vaticani, una sua ben modesta dotazione di
talento. Egli, dunque, il 12 febbraio di quell’anno colse l’occasione del-
128 società, stato e chiesa in italia
C’è infatti chi aspetta nel pontefice l’uomo di Stato, il diplomatico, lo scien-
ziato, l’organizzatore della vita collettiva, ovvero colui il quale abbia l’animo
aperto a tutte le norme di progresso della vita moderna, senza alcuna eccezione.
O venerabili fratelli e diletti figli, tutti costoro sono fuori dal retto cammino da
seguire, poiché si formano del sommo pontefice un concetto che non è piena-
mente conforme al vero ideale. Il nuovo papa, attraverso il corso delle vicende
della vita, è come il figlio di Giacobbe, che incontrandosi coi suoi fratelli di
umana sventura, scopre loro la tenerezza del cuor suo, e scoppiando in pianto
dice: Sono io…, il vostro fratello, Giuseppe14.
6
L’imprevisto di Giovanni xxiii e del concilio:
la stagione dell’utopia (cattolica)
A dire il vero Giovanni xxiii non poteva essere considerato del tut-
to insensibile a taluni elementi di quel fenomeno. In lui, ad esempio,
restava radicata la convinzione che solo la religione cattolica possedesse
la verità sui punti fondamentali che riguardavano l’origine e il destino
dell’uomo, lo svolgimento della storia, la natura intrinseca del mondo.
Ma tutto questo, e qui stava una delle differenze essenziali rispetto alle
forme più o meno rigide che aveva assunto l’intransigentismo nel suo
lungo cammino storico, non gli impediva di nutrire pieno rispetto per lo
sforzo compiuto anche dai non cattolici e dai non credenti nel tentativo
di raggiungere comunque una propria conoscenza, una propria visione
della vita. Anche a loro infatti, mediante il ricorso alla formula estensiva
“tutti gli uomini di buona volontà”, era indirizzata l’enciclica forse più
rappresentativa di questa nuova concezione espressa dal pontefice: la
Pacem in terris.
Si trattava d’altronde della diretta conseguenza di uno dei princìpi
chiave del messaggio religioso di Giovanni xxiii: «Cercare quello che
unisce e non quello che divide». La contrapposizione ideologica che
aveva condizionato così pesantemente il cattolicesimo degli anni qua-
ranta-cinquanta del Novecento e che tanto aveva gravato sulle stesse at-
tività delle organizzazioni laicali, dal partito all’ac al sindacato, poteva
dunque prolungare la sua egemonia rispetto ad altre priorità e preoccu-
pazioni, ma senza più contare sulla massiccia e talora concreta solidarie-
tà manifestata a suo tempo da Pio xii.
L’ideologia e la politica lasciavano infatti il passo, nel governo del
nuovo papa, alla pastorale e a messaggi e atti di natura pressoché esclu-
sivamente religiosa. Messaggi e atti che, proprio a causa della egemoni-
ca mentalità ideologizzata formatasi negli anni precedenti, non sempre
vennero visti nella luce corretta. Come accadde, ad esempio, nel marzo
1963 in occasione dell’udienza concessa da Giovanni xxiii ai coniugi
sovietici Alexis e Rada Adjubei: rispettivamente genero e figlia del segre-
tario del Partito comunista sovietico Nikita Chruščëv. Un atto che, nel
clima preelettorale italiano di quelle settimane, venne interpretato da
certa stampa moderata e conservatrice come un sostegno intenzionale
offerto dal papa all’alleanza tra cattolici e socialisti che stava maturando,
come vedremo, in quel periodo.
Il suddetto fraintendimento non rappresentò peraltro un fatto iso-
lato. Da un certo punto di vista, anzi, possiamo dire che l’intera novità
roncalliana fu soggetta a reazioni contrastanti. Da un lato infatti essa
suscitò entusiasmi pressoché immediati negli ambienti cattolici che già
132 società, stato e chiesa in italia
nome erano tuttavia le funzioni proprie del clero e del laicato, pur nella
comune missione di evangelizzare il mondo:
C’è nella chiesa diversità di ministero ma unità di missione. Gli apostoli e i loro
successori hanno avuto da Cristo l’ufficio di insegnare, santificare e governare in
suo nome e con la sua autorità. Ma i laici, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale,
profetico e regale di Cristo, nella missione di tutto il popolo di Dio assolvono
compiti propri nella chiesa e nel mondo12.
Il caso più clamoroso, ma non unico, dato l’esito in parte simile che
interessò in anni successivi gli episcopati del vescovo Salvatore Baldas-
sarri a Ravenna (terminato nel 1975) e del cardinale Michele Pellegrino
a Torino (conclusosi nel 1976), si verificò a Bologna. Là, sin dagli anni
iniziali del concilio, si era venuta sviluppando attorno all’arcivescovo
Giacomo Lercaro una fervorosa attività di rinnovamento che non era
peraltro mai sfociata in esperienze disapprovate dal papa. Durante la
parte centrale e finale del Vaticano ii era stato anzi lo stesso Paolo vi a
valorizzare l’impegno del presule bolognese affidandogli assieme ad altri
tre cardinali la guida effettiva dei lavori conciliari e poi incaricandolo dal
1964 di presiedere personalmente alla riforma liturgica.
All’indomani della conclusione del Vaticano ii questa fiducia era
stata formalmente ribadita a Lercaro dalla richiesta papale di restare
alla guida della diocesi bolognese, nonostante lo stesso Lercaro avesse
raggiunto i limiti di età (75 anni) che secondo una recente normativa
ne avrebbero previsto il ritiro. Ma poi, nel breve volgere di alcuni mesi
(primavera-inverno del 1967), la situazione avrebbe subìto un totale ro-
vesciamento, fino a sfociare (gennaio 1968) nella richiesta vaticana che
l’arcivescovo di Bologna rassegnasse in breve tempo le dimissioni dalla
guida della diocesi, dichiarando peraltro pubblicamente di terminare il
proprio incarico per ragioni di salute.
Anche a causa della relativa incompletezza delle fonti a tutt’oggi
disponibili non esistono ancora delle ricostruzioni storiografiche con-
clusive sull’intera vicenda e soprattutto sulle ragioni di quel repentino
mutamento di giudizio da parte del papa18. Al di là di questo tuttavia, e
anche a prescindere dalla gravità in sé stessa del provvedimento che col-
piva Lercaro, era chiaro che la chiesa montiniana – fedele in questo alla
più classica manifestazione del primato del papa sull’autorità dei vesco-
vi, nonostante proprio il Vaticano ii avesse approvato il principio della
collegialità episcopale con il quale si mirava a dare maggiore rilievo che
in passato al ruolo dei vescovi – intendeva affermare il proprio disegno
di riforma conciliare – una riforma più interiore e dunque individuale,
che non dottrinale e istituzionale della Chiesa – senza tollerare, almeno
in Italia, la sperimentazione di vie potenzialmente alternative ad esso.
Tanto più se queste erano autorevolmente portate avanti da vescovi che
avevano conquistato nel recente concilio un prestigio dottrinale e uma-
no difficilmente contestabile.
7
Chiesa e società italiana nel terzo Novecento:
l’incrinatura del potere
segnato una svolta caratteristica nella vicenda del laicato cattolico ita-
liano: il passaggio dalla fase dell’egemonia delle organizzazioni di più
antica istituzione a quella del loro affiancamento e talora anche supera-
mento da parte di nuove realtà sorte spontaneamente e orientate verso
ambiti di impegno spesso estranei alla tradizione più consolidata del cat-
tolicesimo nazionale.
Erano questi dei movimenti, dei gruppi e anche delle organizzazioni
dai nomi inediti nella realtà italiana, ma talora già affermatisi altrove ne-
gli anni precedenti. Due di questi, Cammino neocatecumenale e Movi-
mento carismatico cattolico, portavano nel nostro paese rispettivamente
dal 1968 e dal 1971 i criteri della introduzione alla vita cristiana che si ri-
tenevano, in tutto o in parte, praticati nella Chiesa delle origini. Vari al-
tri, quali il Gruppo Abele, Emmaus, la Comunità di Sant’Egidio, erano
impegnati nell’assistenza agli emarginati di alcune grandi città italiane.
Altri ancora, come Operazione Mato Grosso e Mani tese, raccoglieva-
no fondi e sensibilizzavano l’opinione pubblica verso le popolazioni del
Terzo mondo. Ed altri infine, sull’esempio di esperienze molto diffuse
in particolare nell’America Latina, diedero vita alle cosiddette comunità
di base: gruppi informali di credenti «che si [raccoglievano] per vivere
una fede cristiana ispirata in modo radicale al Vangelo e alle indicazioni
conciliari»3.
In molti di essi la partecipazione militante ai riti, alle iniziative e
anche alle battaglie pubbliche suscitate dalla Chiesa cattolica, aspetto
caratteristico delle organizzazioni tradizionali, lasciava il posto a un vis-
suto religioso nel quale l’esperienza di fede, talora desacralizzata, si tra-
duceva piuttosto in un impegno sociale praticato collettivamente. E il
momento essenziale di tali fenomeni, talvolta anche a prescindere dalle
finalità specifiche di ciascuno di essi, era proprio il fare gruppo, il ritro-
varsi spontaneamente attorno a qualcosa (un impegno, un’attività assi-
stenziale ecc.) che si era scelto assieme e che sfuggiva del tutto a quello
che sembrava ai più il rigido irreggimentamento dell’ac. Un ritrovarsi,
inoltre, nel quale non esistevano più distinzioni gerarchiche tra chierici
e laici, ma dove le eventuali leadership erano anch’esse una manifestazio-
ne naturale della vita di gruppo.
Diverse di queste istanze erano presenti anche alla base del movimen-
to che avrebbe poi fatto più strada nel cattolicesimo italiano dei due de-
cenni successivi, cambiando la propria iniziale fisionomia di organizza-
zione giovanile, nata dalla crisi che colpì a fine anni sessanta la milanese
Gioventù studentesca, in quella di una realtà multiforme, estesa a ogni
chiesa e società italiana nel terzo novecento 151
ceto sociale e classe anagrafica, e con una propria rete di istituzioni so-
ciali, economiche, culturali e da ultimo politiche che ne avrebbero fatto
a partire dagli anni ottanta un autonomo e importante gruppo di pres-
sione all’interno del mondo cattolico italiano.
Negli anni sessanta tale movimento, chiamato poi Comunione e li-
berazione (cl, da cui il nome di ciellini abitualmente utilizzato per indi-
care i suoi aderenti), non venne accolto con particolare entusiasmo dalla
Chiesa italiana. Gli si rimproverava soprattutto la singolare fisionomia
di una organizzazione retta sì da un sacerdote, don Luigi Giussani, senza
tuttavia che le autorità ecclesiastiche, i vescovi in specie, ne avessero mai
riconosciuta ufficialmente l’esistenza e avessero anzi tentato tra il 1964 e
il 1966, quando ancora il movimento era denominato Gioventù studen-
tesca, di inquadrarla nell’ac.
Nel clima di inizio anni settanta, tuttavia, cl si presentava anche
come una delle poche espressioni del laicato cattolico che andando del
tutto controcorrente a) non difendesse il concilio, b) non chiedesse au-
tonomia dalle gerarchie ecclesiastiche ma ne invocasse al contrario un
pieno riconoscimento, c) si muovesse all’interno di un quadro ideologi-
co che, pur nel ricorso a un linguaggio permeato di toni e termini rivo-
luzionari e antistituzionali4, guardava certamente più a destra che non
a sinistra.
Da vari punti di vista, dunque, tale movimento risultava un’insperata
risposta alla crisi del laicato cattolico che tuttora perdurava e rispetto al
cui superamento non tutti riponevano nell’ac e nella sua scelta religiosa
la stessa fiducia di Paolo vi. E proprio a metà anni settanta, di fronte alla
decisiva circostanza rappresentata dal referendum per l’abrogazione del-
la legge sul divorzio, si segnò un parziale spostamento di fiducia e di sim-
patia da parte del mondo ecclesiastico italiano. L’ac lasciò infatti liberi
i propri aderenti di votare secondo coscienza, mentre cl ancorò invece
saldamente il proprio voto alle direttive della gerarchia ecclesiastica, che
aveva chiesto ai cattolici di votare sì per ottenere l’annullamento della
legge.
Ma il referendum del 1974 non fu solo un’occasione perché i nuovi
intransigenti di cl crescessero rapidamente nella stima di coloro che cer-
cavano una piena rivincita sul concilio. Esso rappresentò soprattutto un
brusco disvelamento della mentalità prevalente degli italiani agli occhi
di chi, sul fronte cattolico, aveva voluto il referendum nella convinzio-
ne che potesse tradursi in una rivisitazione delle crociate della Chiesa
pacelliana del secondo dopoguerra. Il margine di vittoria del no, che
152 società, stato e chiesa in italia
Alcuni degli aspetti più significativi della Chiesa italiana degli anni
settanta erano il frutto di questa linea. Così la scelta religiosa dell’ac,
che abbiamo già ricordato; la segreteria della Conferenza episcopale ita-
liana esercitata dal 1972 al 1976 dal vescovo di Lucca Enrico Bartoletti
nel rispetto dello spirito oltre che della letterale formulazione dei do-
cumenti del Vaticano ii; la decisione di convocare periodicamente dei
convegni nazionali (come a Roma, nel 1976, sul tema Evangelizzazione
e promozione umana) per tracciare le direttrici del futuro impegno del
cattolicesimo italiano6.
La scomparsa di Paolo vi non rappresentava la fine di tutto questo.
Se non altro perché durante il suo pontificato si era formata una genera-
zione di quadri dirigenti, ecclesiastici e laici, che avrebbero poi prolun-
gato nel decennio successivo la presenza della suddetta linea ecclesiale.
Ma quella scomparsa avrebbe comunque segnato l’interruzione di un fe-
nomeno che sembrava inesauribile e in certa misura scontato: vale a dire,
la presenza ai vertici della Chiesa cattolica di un papa di origine italiana,
con tutte le conseguenze di diretto coinvolgimento e maggiore interesse,
che ne erano tradizionalmente derivate per la situazione ecclesiale e più
latamente religiosa del paese.
Invece, dopo l’esaurirsi pressoché immediato dell’esperienza papale
del successore di Paolo vi, il patriarca di Venezia Albino Luciani manca-
to nella generale costernazione a poche settimane di distanza dalla pro-
pria ascesa al soglio pontificio, il nuovo conclave sceglieva un pontefice
di origine polacca: l’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyła, che avrebbe
assunto il nome di Giovanni Paolo ii.
tro, ed anche il Papa stesso, fossero presi da certa sfiducia su l’andamento gene-
rale del periodo postconciliare, e si mostrassero timidi ed incerti, piuttosto che
franchi e risoluti. Questa osservazione Ci ha obbligati a riflettere. Saremmo Noi
stessi presi dalla sfiducia? Homo sum; e per sé non vi sarebbe niente di strano.
Anche Pietro, o meglio Simone, fu debole e incostante, alternando atteggia-
menti di entusiasmo e di paura7.
ottanta, nel quale alla breve distanza di un mese l’uno dall’altro (maggio
e giugno 1981) due episodi avevano fortemente impressionato gli am-
bienti sia moderati che marcatamente conservatori. Vale a dire: la scon-
fitta dei cattolici nel referendum indetto per abrogare la legge sull’abor-
to, una sconfitta ancora più vistosa (68% contro 32%) di quella sofferta
nel referendum del 1974; l’assunzione della carica di capo del governo da
parte di un politico non cattolico (il repubblicano Giovanni Spadolini),
dopo che dalla formazione del primo governo postbellico retto da De
Gasperi (dicembre 1945) quella carica era stata appannaggio esclusivo di
rappresentanti della dc.
Certo, anche nel corso del pontificato di Paolo vi non erano mancati
esempi di quella volontà di ritorno al passato e in particolare alla stagio-
ne, al linguaggio e alle idee preconciliari. Ma fatta eccezione per alcuni
casi più vistosi come quello francese del vescovo Marcel Lefebvre, che
dopo essersi a lungo trascinato nel tempo sarebbe sfociato nel 1988 in
un vero e proprio scisma con conseguente scomunica del suo principale
protagonista, il tutto si era limitato al tentativo di far pressione sullo
stesso papa Montini, non sempre capace di sottrarsi (come dimostrava
tra l’altro la ricordata vicenda di Lercaro del 1968), per indurlo a un at-
teggiamento di fermezza nei confronti di coloro ai quali si rimproverava
una visione troppo radicale ed estensiva del concilio.
Ora, invece, soffiava un po’ dovunque un forte vento di restaurazione
dottrinale. Un vento che sembrava poter lambire anche i vertici della
Chiesa, spingendoli a produrre un’autorevole messa in discussione dei
capisaldi del concilio Vaticano ii. Sebbene infatti, a stretto rigore, si po-
tessero riconoscere in Giovanni Paolo ii e nei documenti da lui emanati
sino a quel momento degli orientamenti più moderatamente tradiziona-
listi che non esplicitamente anticonciliari, questo fatto non era in sé del
tutto rassicurante tenuto conto che il pontefice era stato a lungo meno-
mato in quegli anni dalle conseguenze dell’attentato subìto il 13 maggio
1981.
Alla vigilia del sinodo straordinario dei vescovi, convocato a Roma
per l’autunno del 1985 in occasione dei vent’anni trascorsi dalla fine del
concilio, molti difensori dell’eredità del Vaticano ii ebbero reali moti-
vi di preoccupazione. Due eventi, in particolare, la giustificavano. Nel
corso di quello stesso anno il futuro pontefice Benedetto xvi, allora
prefetto dell’ex Congregazione del Sant’Uffizio, aveva pubblicato un
volume-intervista dal titolo Rapporto sulla fede nel quale si denunciava
la crisi dell’esperienza cristiana e se ne individuava in alcuni aspetti e
chiesa e società italiana nel terzo novecento 159
che meritano di essere ripercorsi: sia per il loro significato intrinseco, sia
per le implicazioni più ampie che ebbero a livello del mondo cattolico
italiano.
Il primo episodio maturò a fine estate 1987 e venne innescato dalla
pubblicazione sul settimanale ciellino “Il Sabato” di quattro successivi
articoli nei quali, con il titolo Tredici anni della nostra storia, veniva pro-
posta una ricostruzione della vicenda del movimento cattolico italiano
dai giorni del referendum abrogativo della legge sul divorzio (maggio
1974) sino alla più vicina attualità. Ne erano autori Roberto Fontolan e
Antonio Socci. Lo stile degli articoli, apparentemente asettico e corro-
borato dal rinvio a fatti e documenti, nascondeva in effetti una finalità
ad un tempo delatoria e apologetica. La ricostruzione mirava, infatti, a
convincere il lettore che la crisi del cattolicesimo italiano era dovuta alla
cattiva linea perseguita da alcuni suoi leader e da talune organizzazio-
ni cattoliche laicali. Tra i primi veniva indicato in particolare Giuseppe
Lazzati: dal 1968 al 1983 rettore dell’Università cattolica di Milano e dal
1964 presidente dell’ac milanese, oltre che antico compagno di Giusep-
pe Dossetti. Tra le seconde l’ac: con la cui struttura milanese guidata da
Lazzati l’organizzazione Gioventù studentesca di don Luigi Giussani,
diretto antefatto storico come si ricorderà della stessa cl, aveva ingag-
giato a metà anni sessanta una vera e propria competizione per la guida
dei gruppi cattolici giovanili della città11. A fronte della suddetta cattiva
linea stava invece la corretta linea dottrinale e pastorale praticata da cl.
Non si trattava, a ben vedere, di una legittima manifestazione di dis-
senso da una certa modalità di presenza dei cattolici: in particolare dalla
scelta religiosa dell’ac di Montini, Bachelet e Costa di cui abbiamo già
parlato. Bensì di una vera e propria opera di demolizione della figura di
Lazzati, scelto certamente come bersaglio specifico12 ma di un attacco
che però intendeva evidentemente scagliare pietre in un raggio storica-
mente ben più ampio e soprattutto servire a un disegno ravvicinato che
guardava più al futuro che al passato. Si era, infatti, in quelle settimane,
alla vigilia dei lavori del sinodo dei vescovi e l’argomento prescelto per
l’assemblea di quell’anno era singolarmente intrecciato con gli argo-
menti affrontati negli articoli di “Il Sabato”. Si sarebbe infatti discusso
sul tema Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’an-
ni dal Concilio Vaticano ii. La pubblicazione e il contenuto degli articoli
erano dunque a dir poco tempestivi.
Le reazioni degli ambienti cattolici italiani vicini a Lazzati, e più in
generale sensibili alla tradizione di cui egli era stato un autorevole in-
chiesa e società italiana nel terzo novecento 161
Così tra i settori più legati alla dirigenza Forlani-Andreotti alcuni se-
guirono i compagni di partito nella nuova esperienza, altri invece, tra i
quali il delfino di Forlani Pierferdinando Casini, decisero di staccarsi e
di dare vita a una propria forza politica di orientamento più conservato-
re: il Centro cristiano democratico (ccd), guidato dallo stesso Casini.
La decisione presa da Casini e da altri ex democristiani apriva dunque
il problema, sino ad allora inedito, della compresenza nella vita politica
italiana di due partiti che si richiamavano formalmente alla tradizione
cristiana. Un precedente a dire il vero c’era già stato, anche prescinden-
do da quello del mpl, alla fine del 1990, quando il giovane politico si-
ciliano Leoluca Orlando aveva deciso di uscire dalla dc e di fondare la
Rete, un’esperienza a metà strada tra il movimento ecclesiale e il partito
e che si proponeva come forza di rinnovamento anche ad elettori tra-
dizionalmente non democristiani. Ma l’iniziativa di Orlando, originale
anche per il supporto ideologico-dottrinale offertogli da alcuni gesuiti
attivi a Palermo (padre Pintacuda e padre Sorge), non era destinata ad
andare molto al di là dei confini regionali nei quali aveva avuto origine.
La divisione tra i nuovi popolari e coloro che avevano seguìto Casini era
invece destinata a estendersi a tutto il territorio nazionale e a consolidar-
si negli anni successivi.
Anche per questa ragione gli ambienti ecclesiastici nazionali e lo stes-
so Vaticano, rimasti fino ad allora in sostanziale silenzio di fronte agli
avvenimenti che avevano portato alla scomparsa della dc, ripresero la
tradizionale attenzione ai problemi connessi all’attività politica dei cat-
tolici italiani. Lo stesso pontefice, interrompendo una linea di riserbo
estesasi per gran parte del suo pontificato, indirizzava in proposito, il 6
gennaio 1994, una lettera ai vescovi italiani nella quale il richiamo all’u-
nità politica dei cattolici era così formulato:
I laici cristiani non possono dunque proprio in questo decisivo momento sto-
rico, sottrarsi alle loro responsabilità. Devono piuttosto testimoniare con co-
raggio la loro fiducia in Dio, Signore della storia, e il loro amore per l’Italia
attraverso una presenza unita e coerente e un servizio onesto e disinteressato nel
campo sociale e politico17.
rinuncia da parte dei rappresentanti della Santa sede a sostenere sul pia-
no teologico la difesa del concilio contro l’attacco, talvolta anche intel-
lettualmente violento, portato al Vaticano ii dai vertici della Fraternité2.
Il tutto si è venuto dipanando mentre il modello di presenza cattolica
che si era ormai riconsolidato in Italia a quasi vent’anni dalla fine del
pontificato montiniano e del suo progetto prudentemente conciliare di
Chiesa italiana, sembrava ritrovare, pur nell’ovvia evoluzione di tempi,
protagonisti e contesti, il filo di un discorso singolarmente consonante
con l’età di Pio xii del secondo dopoguerra. Quasi che riecheggiasse ne-
gli anni novanta il vibrante appello non al lamento ma all’azione che dal
ricordato radiomessaggio pontificio del Natale 1942 aveva accompagna-
to fino ai primi anni sessanta il serrate le fila del cattolicesimo nazionale.
D’altronde, anche l’intreccio tra modernità dei mezzi e conservazione
dei contenuti, tipico della stagione ecclesiale pacelliana, presenta singo-
lari affinità con la situazione più recente.
Tornando alla metà anni novanta, va notato che sul piano concreto
non trascorsero che pochi mesi tra l’invito all’unità dei cattolici rivolto
ai vescovi italiani nella già richiamata lettera papale del 6 gennaio 1994
e il discorso pronunciato dallo stesso Giovanni Paolo ii a Palermo il 23
novembre 1995, durante i lavori del iii convegno decennale organizza-
to dalla Conferenza episcopale italiana. In tale discorso, dopo aver tra
l’altro preso atto che «negli anni più recenti gli assetti politici del Paese
[erano] molto mutati e contestualmente [era] cambiata, facendosi più
differenziata, la collocazione dei cattolici»3, si precisava:
La Chiesa non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schiera-
mento politico o di partito, come del resto non esprime preferenze per l’una o
l’altra soluzione istituzionale o costituzionale, che sia rispettosa dell’autentica
democrazia.
Era indubbiamente una svolta4. Non nel senso tuttavia della rinuncia a
svolgere un dato ruolo alla luce della tradizionale concezione del rap-
porto tra Chiesa e società, quanto nella repentina trasformazione degli
strumenti e in parte degli attori maggiori da mettere in campo. Il ponte-
fice chiariva infatti immediatamente dopo:
Ma ciò nulla ha a che fare con una “diaspora” culturale dei cattolici, con un loro
ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede, o anche con
una loro facile adesione a forze politiche e sociali che si oppongano, o non pre-
nella realtà contemporanea 171
stino sufficiente attenzione, ai princìpi della dottrina sociale della Chiesa sulla
persona e sul rispetto della vita umana, sulla famiglia, sulla libertà scolastica, la
solidarietà, la promozione della giustizia e della pace.
nazione e volontà egemonica più simile a quella esibita tra il 1959 e il 1965
dal predecessore Siri che non a quella dei successivi presidenti, ne costitu-
iva il motore e l’indiscusso referente istituzionale. Il tutto in un amalgama
che non a torto è stato definito come scelta istituzionale-sociale6, in asso-
nante distinzione dalla scelta religiosa caratteristica degli anni settanta; o
descritto come «pastorale integrata […] in un processo che collega diocesi,
parrocchie, clero, laici, movimenti, organizzazioni popolari, avendo come
punto di riferimento le istituzioni centrali della Chiesa italiana»7.
Ne sarebbero fra l’altro conseguite varie operazioni, atte a ricompat-
tare monoliticamente l’associazionismo cattolico italiano e a ridefinirne
il ruolo di massa d’urto nella dialettica sviluppatasi in Italia attorno ad
alcuni temi e soprattutto in vista di azioni di mobilitazione. Tra queste
operazioni possono essere ricordate: il richiamo insistito all’ac perché
ritrovasse un congruo ruolo di antemurale, in linea con una storia che
aveva mostrato la sua capacità di esprimere con «forza la voce del laicato
cattolico attorno ai grandi temi che si agitano nella società e che coin-
volgono l’autentica visione della persona e della comunità nel mondo
(quali la vita, la famiglia, la libertà educativa…)»8; il riavvicinamento
tra cl e ac sancito ad agosto 2004 durante l’annuale meeting ciellino di
Rimini sotto i benevoli auspici del segretario generale della cei Giusep-
pe Betori; l’elaborazione negli stessi mesi di un’ipotesi di accordo che
sanciva formalmente la collaborazione continua tra la stessa ac, la fuci
e altre associazioni cattoliche di settore.
Ben più di qualsiasi interpretazione che potrebbe essere formulata
riguardo alle intenzioni sottese all’insieme delle iniziative sopra richia-
mate, risultano particolarmente emblematiche le parole pronunciate a
Palermo dal segretario generale della cei Betori il 24 novembre 2005. Si
trattava di tracciare in quella circostanza un bilancio del periodo inter-
corso tra il convegno decennale della cei tenutosi nella stessa Palermo
dieci anni prima e il successivo e imminente di Verona 2006. Lo si faceva
a partire dal significato del Progetto culturale:
bile la nostra fede. Vi è un’intuizione di fondo dietro al progetto, che può essere
così sintetizzata: far passare l’evangelizzazione della Chiesa italiana, cioè il suo
compito proprio e naturale, attraverso un rinnovato e più intenso confronto cri-
tico con le forme della cultura diffusa, per dare continuità anche per il futuro alla
valorizzazione dell’eredità cristiana che ha alimentato e costruito la nostra civiltà9.
una visione del mondo cristiana, consapevole delle proprie radici e della propria
pertinenza nelle questioni vitali, fiduciosa circa le proprie potenzialità nel dia-
logo con la cultura contemporanea per renderci capaci, tutti, di dire in modo
originale e plausibile la nostra fede.
tolico ben al di là della minuta cronaca degli ultimi anni e anche del più
ravvicinato presente, può essere utile metterne a fuoco da ultimo alcuni
aspetti essenziali, i cui contorni sono più facilmente inquadrabili in una
prospettiva di lungo periodo che non appunto nel continuo scorrere del-
la dialettica quotidiana.
Quella che venne vissuta dalla maggioranza degli appartenenti alla
Chiesa cattolica di fine Settecento e di buona parte dell’Ottocento
come una vera e propria catastrofe, vale a dire l’avvento nelle sue diverse
forme della modernità nel sistema occidentale, aveva trovato nel corso
della fase che va dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del Novecento
una risposta progressivamente sempre più definita, sia dal punto di vista
tattico che strategico: il superamento della logica del muro contro muro
tipica del primo intransigentismo, per accedere all’utilizzo degli stru-
menti del sistema parlamentare e liberale al fine di sconfiggere i processi
di secolarizzazione e ricristianizzare la società stessa. Nel caso italiano,
poi, l’acquisizione nel secondo dopoguerra del controllo della vita poli-
tica e dunque dello Stato grazie al ruolo saldamente baricentrico del par-
tito cattolico sembrò costituire un passaggio per taluni versi definitivo,
e per conseguenza da mantenere il più a lungo possibile. In tal senso gli
esiti della stagione rivoluzionaria tardosettecentesca sembravano tutto
sommato contenibili e di fatto contenuti.
In ultima analisi, e seppure nel quadro generale di una profonda tra-
sformazione dei sistemi politici e sociali, era stato ricostituito il ruolo
che il cattolicesimo aveva acquisito nel suo lungo percorso storico per
effetto di lontanissimi avvenimenti sulla cui base si era fondata, in suc-
cessione, la cristianizzazione altomedievale di un’Europa sopravvissuta
allo sfaldamento dell’impero universalistico romano, la costituzione di
una monarchia territoriale pontificia, l’emergere dell’universalismo pa-
pale come riferimento politico-religioso, il costituirsi in età moderna di
quel legame tra trono e altare che avrebbe accompagnato fino agli albori
dell’età contemporanea quell’Ancien régime messo infine in crisi dalla
stagione rivoluzionaria tardosettecentesca e dall’avvento, appunto, della
multiforme modernità.
A mettere in crisi sul piano dei princìpi quella sorta di riacquisito
equilibrio – che si presentava in realtà come la ricostruzione, con un’a-
bilità e una spregiudicatezza politica che non possono essere sottostima-
te, di un ruolo storico di lunghissima gittata e valenza – sarebbe arrivato
il concilio Vaticano ii: il cui concepimento venne giudicato dall’allo-
ra presidente della cei Giuseppe Siri come «un quarto d’ora di follia
178 società, stato e chiesa in italia
di Giovanni xxiii»17. Non tanto e non solo per il contenuto dei suoi
documenti ufficiali – per un verso assai significativi, per l’altro frutto
come si è detto di una meticolosa intersezione tra elementi innovativi e
di conservazione –, quanto per alcune idee-chiave che interpellano di-
rettamente le problematiche che abbiamo esaminato e che rompevano,
soprattutto nella percezione dell’evento da parte dei suoi contempora-
nei, la spessa coltre ideologica sulla quale il suddetto ruolo storico del
cattolicesimo si era venuto fondando e mantenendo in vita nei secoli.
Una di tali idee era connessa alla cosiddetta fine dell’età costantinia-
na: cioè della più che millenaria concezione di una Chiesa del tutto in-
serita a guida, ora direttamente ora indirettamente, delle società. Una
seconda era imperniata sul dialogo con la contemporaneità, anche nelle
sue forme di laicità meno vicine al mondo cattolico. Una terza, operante
dentro la Chiesa, volta a dare dignità e fisionomia adulta alla presenza
del laicato all’interno di un’istituzione da sempre incentrata sulla figura
del chierico, ad eccezione del periodo delle sue origini e in rari ancorché
significativi momenti e contesti della sua evoluzione storica.
Appare dunque evidente che il concilio Vaticano ii non ha solo rap-
presentato un momento di svolta ineguagliato nella storia del cattolice-
simo contemporaneo. Proprio per il ruolo svolto si è infatti aperta at-
torno ad esso una battaglia interpretativa di portata globale e giocata in
forme diverse: talvolta con le armi dell’attacco frontale, talaltra in modo
più felpato e ambiguo.
La reazione anticonciliare più eclatante è fenomeno sul quale molta
importante storiografia si è già cimentata: lo abbiamo ricordato. Tanto
più che nel corso dell’ultimo decennio si è avuta la sorprendente ripresa,
con prospettive di auspicata soluzione, del caso Lefebvre. Ciò che meri-
ta invece una maggiore attenzione è il come si stia sviluppando paralle-
lamente un processo di meno appariscente rimessa in discussione delle
idee-chiave scaturite dal Vaticano ii e sopra evocate.
In questo 2013 ricorrerà il diciassettesimo centenario della svolta del
313 d.C. con la quale l’imperatore Costantino riconobbe la liceità della
pubblica professione della fede cristiana all’interno dell’impero roma-
no, dando così vita a quella che poi in sede storiografica sarebbe stata
appunto definita come l’età costantiniana della Chiesa. Sarà natural-
mente di grande interesse vedere nei prossimi mesi come tale ricorrenza
verrà declinata rispetto a tematiche quali le radici cristiane dell’Europa,
il contributo del cattolicesimo alla costruzione della civiltà occidentale
e così via.
nella realtà contemporanea 179
Cruciale, e non da ora, appare invece il tema della laicità, intesa come
principio fondativo e di costante riferimento per definire i limiti entro
cui uno Stato che si concepisca come non confessionale operi a tutela
di tutti i propri cittadini, senza forme di discriminazione derivanti dal-
la fede religiosa. Il problema è antico, ma ha ricevuto ulteriore recente
sollecitazione perché nel corso degli ultimi anni alla classica diatriba tra
confessionalismo e laicità nel rapporto tra cattolicesimo e Stato si è in-
serito con forza il problema dei massicci fenomeni migratori che hanno
accentuato sul territorio nazionale una reazione identitaria con venature
xenofobe, rispetto alla quale – soprattutto per ciò che attiene allo svi-
lupparsi di una crescente manifestazione pubblica della pratica religiosa
islamica – il mondo cattolico nelle sue diverse sfaccettature ha espresso
orientamenti piuttosto articolati. In tale scenario non è mancato chi, sia
sul piano politico che su quello religioso, ha costruito l’idea di una nuo-
va laicità, altrimenti definita come sana o legittima18.
È tuttavia soprattutto sull’uso generalizzato del termine nuovo che
vorrei soffermarmi. Se da un lato infatti sarebbe improponibile negare
che la storia abbia registrato negli ultimi decenni diversi passaggi crucia-
li, è altrettanto evidente che passaggi altrettanto cruciali e ben più dram-
matici si siano verificati in altre precedenti fasi della storia dell’Otto-
cento-Novecento. Perché dunque ribadire con tanta coerente insistenza
il concetto di novità applicato invariabilmente, nel contesto cattolico,
all’età più recente? La sensazione è che il lavorio diffuso nel trasmettere
l’idea di novità sia non tanto funzionale a un approfondimento ulterio-
re e progressivo in vista di auspicati traguardi futuri, quanto la via per
scavalcare a ritroso le stagioni indubbiamente problematiche costituite,
non solo ma anche dentro il cattolicesimo, dagli anni sessanta e settanta.
In fondo non è difficile vedere in questo eventuale disegno una certa
coerenza: ritorno della centralità della istituzione ecclesiale; forte accen-
tuazione della dimensione missionaria/proselitistica del ruolo del laica-
to, una volta definiti i temi chiave su cui organizzarne il lavoro culturale/
formativo; ruolo subordinato/funzionale del laicato stesso rispetto alla
componente ecclesiastica; recupero della centralità del messaggio reli-
gioso in funzione identitaria e distintiva sia nei confronti tradizionali
della laicità dello Stato di matrice occidentale sia nei riguardi più recenti
di antagonisti portatori di un diverso credo religioso e cosiddetto mo-
dello di civiltà.
È difficile invece trovare un insieme di idee e obiettivi che, nella loro
piena e legittima appartenenza al patrimonio di pensiero e prassi cat-
180 società, stato e chiesa in italia
tolica, non risultino anche più lontani dallo spirito che sorresse la con-
vocazione e almeno in parte lo svolgimento del Vaticano ii. Rispetto al
percorso storico che qui si è tentato di sintetizzare mi pare si tratti di un
significativo balzo verso il passato.
Senza questa visione, paragonabile al tesoro nascosto nel campo o alla perla pre-
ziosa, l’ordine sociale e civile si deforma e progressivamente si allontana dall’uo-
mo. È con questo patrimonio universale che la comunità cristiana deve animare
i settori prepolitici nei quali maturano mentalità e si affinano competenze, dove
si fa cultura sociale e politica21.
1
Dall’Ancien régime allo sconvolgimento
della modernità secolarizzata
1. Ch. L. de Montesquieu, Viaggio in Italia, a cura di G. Macchia e M. Colesanti, La-
terza, Bari 1971, p. 124.
2. Citato in L. Meluzzi, I vescovi e gli arcivescovi di Bologna, s.n., Bologna 1975, p. 464.
3. Il dato in G. Battelli, Fra età moderna e contemporanea (secoli xix e xx), in P. Prodi, L.
Paolini (a cura di), Storia della Chiesa di Bologna, Bolis, Bergamo 1997, p. 288.
4. Il fenomeno sarebbe stato rilevato tra l’altro durante il viaggio in Sicilia compiuto
da Alexis de Tocqueville nel 1827, con una sottolineatura che aggiungeva elementi di
discredito a carico di quegli stessi moines già evocati da Montesquieu: «I soli grandi
proprietari fondiari sono in Sicilia i nobili e più ancora le comunità monastiche, due
classi incuranti di ogni miglioria e da tempo abituate ai redditi di loro spettanza […].
Quanto ai monaci, abitudinari per natura, consumano tranquillamente i loro redditi
senza pensare di accrescerli» (A. de Tocqueville, Viaggi, a cura di U. Coldagelli, Bollati
Boringhieri, Torino 1997, p. 11).
5. Ex non per sua volontaria uscita dall’ordine, ma per la ricordata soppressione della
Compagnia di Gesù sancita da papa Clemente xiv nel luglio 1773.
6. Citato in C. Bona, Le «Amicizie». Società segrete e rinascita religiosa (1770-1830),
Deputazione subalpina di storia patria, Torino 1962, p. 479.
7. «Io giuro e prometto su i Santi Evangelj ubbidienza e fedeltà al Governo della Repub-
blica Italiana. Similmente prometto che non terrò alcuna intelligenza, non interverrò in
alcun consiglio, e non prenderò parte in alcuna unione sospetta, o dentro o fuori della Re-
pubblica, che sia pregiudizievole alla pubblica tranquillità: e manifesterò al Governo ciò
ch’io sappia trattarsi o nella mia Diocesi o altrove in pregiudizio dello Stato» (citato in C.
Capra, L’età rivoluzionaria e napoleonica in Italia 1796-1815, Loescher, Torino 1986, p. 185).
8. Citato in G. Miccoli, Chiesa e società in Italia tra Ottocento e Novecento: il mito della
cristianità, in Id., Fra mito della cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-
società nell’età contemporanea, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 25.
9. Rimangono di grande interesse a tale proposito le acute considerazioni di E. Poulat,
Chiesa contro borghesia. Introduzione al divenire del cattolicesimo contemporaneo, Ma-
rietti, Casale Monferrato 1984.
184 società, stato e chiesa in italia
2
Gli anni del muro contro muro:
il primo intransigentismo
1. Sul caso specifico di Tommaseo cfr. G. Verucci, Il cattolicesimo liberale e sociale di Nic-
colò Tommaseo, in Id., Cattolicesimo e laicismo nell’Italia contemporanea, FrancoAngeli,
Milano 2001, pp. 117-33.
2. Pagine tuttora di grande validità in F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religio-
ne e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese, Marzorati, Milano 1970.
3. Uno di questi, che avrebbe avuto un certo rilievo nella futura vicenda della perdita dei
territori emiliano-romagnoli da parte papale nel 1859-60, fu l’unificazione nel 1850 delle
quattro precedenti legazioni di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna, nell’unica Legazione
delle Romagne con capitale Bologna. Le Legazioni pontificie erano i territori settentrio-
nali dello Stato della Chiesa: così chiamate perché il loro diretto governo era affidato a un
delegato del papa (il Legato, appunto). Tra le “riforme” che nel 1847 avevano alimentato
speranze di venature costituzionaliste nello Stato pontificio vi era invece l’attivazione di
una Consulta di Stato composta da rappresentanti territoriali anche laici scelti dal papa ma
sulla base di terne proposte dalle amministrazioni locali, e l’attivazione di un Consiglio dei
ministri – peraltro di integrale composizione ecclesiastica – costituito da nove dicasteri.
4. La più suggestiva ricostruzione rimane quella proposta in G. Miccoli, Chiesa e socie-
tà in Italia tra Ottocento e Novecento: il mito della cristianità, in Id., Fra mito della cristia-
nità e secolarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-società nell’età contemporanea, Marietti,
Casale Monferrato 1985, pp. 42 ss.
5. In G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 19743, p. 92
(in francese nell’originale).
6. Citato in G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età
giolittiana, Laterza, Bari 19722, p. 34.
7. Discorsi parlamentari del conte Camillo di Cavour. Raccolti e pubblicati per ordine
della Camera dei Deputati, vol. xi, Botta, Torino 1872, pp. 345-6.
note 185
8. In effetti, fatta salva la tradizionale nomina dei vescovi riservata all’imperatore, l’in-
sieme del concordato del 1855 giustifica la seguente considerazione di Jemolo: «Il modo
con cui l’opinione liberale pubblica europea, senza eccezioni, giudicò il Concordato,
qualificato come abdicazione dello Stato alla Chiesa, era sufficiente a mostrare quale
vittoria esso costituisse per Roma» (A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi
cento anni, nuova ed. riveduta e ampliata, Einaudi, Torino 1963, p. 294).
9. Pio ix, Allocuzione Iamdudum cernimus, 18 marzo 1861, in “La Civiltà cattolica”, 12,
1861, serie iv, vol. x, p. 12.
10. G. Martina, Pio ix (1851-1866), Pontificia Università Gregoriana, Roma 1986, p. 293.
11. Pio ix, Syllabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores, 8 dicembre 1864, in
“La Civiltà cattolica”, 16, 1865, serie vi, vol. i, pp. 23 ss. Una recente riedizione, con
commento e analisi storica, in L. Sandoni (a cura di), Il Sillabo di Pio ix, introd. di D.
Menozzi, clueb, Bologna 2012.
12. In P. Renouvin (a cura di), Storia politica del mondo, vol. v, Vallecchi, Firenze 1974,
p. 522.
13. Ivi.
14. Citato in De Rosa, Il movimento cattolico in Italia, cit., p. 45.
15. L’espressione completa era: «attentis omnibus circumstantiis non expedit…» (te-
nuto conto di tutte le circostanze non è opportuno…).
16. Dal discorso di Giuseppe Sacchetti, cit. in De Rosa, Il movimento cattolico in Italia,
cit., p. 83.
17. È da qui che prenderà le mosse una proposta storiografica divenuta classica – e non
estranea, da posizioni laiche, a una evidente volontà di risultare alternativa rispetto alle
ricostruzioni di matrice cattolico-liberale e gramsciana offerte rispettivamente da Jemo-
lo e da Candeloro (le si trova citate nelle note di queste pagine) – del ruolo dell’associa-
zionismo cattolico intransigente di fine Ottocento: G. Spadolini, L’opposizione cattolica
da Porta Pia al ’98, Mondadori, Milano 1954 e varie successive riedizioni.
3
Dalla protesta al progetto di riconquista:
il secondo intransigentismo
1. In sostanza, l’autorizzazione formale a operare sul territorio corrispondente alla cir-
coscrizione diocesana mediante i classici strumenti della conduzione della vita religio-
sa: emanazione di lettere pastorali, celebrazione di riti pubblici ecc.
2. A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, nuova ed. riveduta e
ampliata, Einaudi, Torino 1963, p. 294.
3. Citato ivi, p. 297.
4. Per la soluzione del problema romano. Proposte e criterii, in “La Civiltà cattolica”, 38, 1887,
serie xiii, vol. vi, p. 400. L’intervento era peraltro in linea con le reiterate denunce contro
la massoneria fatte dallo stesso pontefice Leone xiii. Cfr. tra l’altro l’enciclica Humanus
genus dell’aprile 1885. Su questo si veda G. Miccoli, Leone xiii e la massoneria, in G. M.
Cazzaniga (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. 21, Einaudi, Torino 2006, pp. 193-243.
186 società, stato e chiesa in italia
4
Grande guerra e fascismo:
l’accordo con lo Stato
1. Su tutto questo D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegitti-
mazione religiosa dei conflitti, il Mulino, Bologna 2008, in particolare pp. 15-46.
2. Sul nesso religione-patria nella presenza di religiosi italiani in Somalia cfr., ad es.,
L. Ceci, Il vessillo e la croce. Colonialismo, missioni cattoliche e islam in Somalia (1903-
1924), Carocci, Roma 2006.
3. Una recente sintesi in E. Gentile, La Grande guerra e la rivoluzione fascista, in A.
Melloni (a cura di), Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, vol. i, Istituto
della Enciclopedia italiana, Roma 2011, pp. 247-59.
4. A riguardo si veda R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e
preti-soldati (1915-1919), Studium, Roma 1980.
note 187
5. Per uno specifico raccordo F. De Giorgi, Il soldato di Cristo (e il soldato di Cesare), in
M. Franzinelli, R. Bottoni (a cura di), Chiesa e guerra. Dalla benedizione delle armi alla
«Pacem in terris», il Mulino, Bologna 2005, pp. 129-61.
6. Nazionalismo e amor di patria secondo la dottrina cattolica, in “La Civiltà cattolica”,
66, 1915, vol. i, pp. 129-44. Più in generale, sul contributo di tale stampa al conflitto, cfr.
P. Giovannini, Cattolici nazionali e impresa giornalistica. Il trust della stampa cattolica
(1907-1918), Edizioni Unicopli, Milano 2001, pp. 261-305.
7. I cattolici militanti e la preparazione sociale dei cattolici nell’ora presente. Lettera pa-
storale dell’episcopato della regione Flaminia, 1° marzo 1916, s.n., Bologna 1916, p. 14.
8. Sulla questione, ripetutamente analizzata in sede storiografica, della diffidenza dei
cattolici italiani per la forma partito F. Traniello, La figura del partito nella cultura po-
litica del primo Novecento, in Id., Città dell’uomo. Cattolici, partito e Stato nella storia
d’Italia, il Mulino, Bologna 1990, pp. 99-137, spec. 104 ss.
9. In G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 19743, p. 387.
10. Il sistema elettorale italiano del tempo non prevedeva il voto femminile. Sarebbe
stato introdotto all’indomani della seconda guerra mondiale.
11. Una ricostruzione complessiva in R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Ita-
lia dalla grande guerra alla marcia su Roma, 2 voll., il Mulino, Bologna 1991.
12. È naturalmente noto che l’indiscusso modellatore e leader del fascismo aveva diret-
to fino al novembre 1914 il quotidiano del psi “Avanti!”, per venirne espulso a causa del
passaggio dal completo precedente antinterventismo dell’Italia nella Grande guerra a
posizioni opposte.
13. Le elezioni anticipate che si erano tenute nel maggio 1921 avevano confermato il
20,5% per i popolari, mentre i socialisti per effetto della scissione dell’ala sinistra del
partito (Livorno, 1921), ma anche a causa delle intimidazioni fasciste, erano già scesi
in poco più di un anno dal 32,3% al 24,7% e il calo sembrava tutt’altro che destinato a
interrompersi.
14. Una recente messa a punto storiografica in G. Albanese, La marcia su Roma, Later-
za, Roma-Bari 2008.
15. Cit. in G. De Rosa, Il Partito popolare italiano, Laterza, Roma-Bari 19764, p. 217.
16. Pio xi, Ubi arcano Dei, 23 dicembre 1922, in http://www.vatican.va/holy_father/
pius_xi/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_19221223_ubi-arcano-dei-consilio_it.html.
17. Ne conseguì, tra l’altro, un processo di ulteriore assimilazione delle altre associazio-
ni storiche del laicato cattolico, come ad es. la fuci. Sulla cui vicenda in quegli anni e
sul tentativo di resistere all’inglobamento da parte dell’ac si veda R. Moro, La forma-
zione della classe dirigente cattolica (1929-1937), il Mulino, Bologna 1979.
18. Cit. in L. Ferrari, Una storia dell’Azione cattolica. Gli ordinamenti statutari da Pio xi
a Pio xii, Marietti, Genova 1989, p. 35.
19. E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista,
nuova ed., Carocci, Roma 2008.
20. Si apriva il periodo che in sede storiografica è stato ripetutamente denominato
come “gli anni del consenso”. Cfr. tra l’altro R. De Felice, Mussolini il duce. i: Gli anni
del consenso 1929-1936, Einaudi, Torino 1974.
21. Ferrari, Una storia, cit., pp. 84-5. Si veda inoltre M. C. Giuntella, I fatti del 1931 e la
formazione della “seconda generazione”, in P. Scoppola, F. Traniello (a cura di), I cattolici
tra fascismo e democrazia, il Mulino, Bologna 1975, pp. 185-233.
188 società, stato e chiesa in italia
22. Pio xi, Discorso ai soci della Gioventù cattolica romana, 19 ottobre 1923. Il discorso
si tenne all’indomani della promulgazione del nuovo statuto dell’ac.
23. Su questo cfr. tra l’altro E. Gentile, Il culto del Littorio. La sacralizzazione della po-
litica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1993. Pagine interessanti in M. Paiano, Li-
turgia e regime fascista: l’apostolato liturgico di Emanuele Caronti tra le due guerre, in D.
Menozzi, R. Moro (a cura di), Cattolicesimo e totalitarismo. Chiese e culture religiose tra
le due guerre mondiali (Italia, Spagna, Francia), Morcelliana, Brescia 2004, pp. 127-69.
24. Citato in Il ix congresso Eucaristico Nazionale, Bologna 6-11 settembre 1927, in “Bol-
lettino della diocesi di Bologna”, 18, 1927, p. 241.
25. F. Malgeri, Chiesa, clero e laicato cattolico tra guerra e resistenza, in G. De Rosa (a
cura di), Storia dell’Italia religiosa, vol. iii: L’età contemporanea, Laterza, Roma-Bari
1995, pp. 301-34.
5
La ricostruzione guelfa dell’Italia:
la conquista dello Stato
1. Sul ruolo complessivo del fenomeno nella percezione del cattolicesimo novecente-
sco Ph. Chenaux, L’ultima eresia. La Chiesa cattolica e il comunismo in Europa da Lenin
a Giovanni Paolo ii, Carocci, Roma 2011.
2. Cit. in G. Verucci, La Chiesa nella società contemporanea. Dal primo dopoguerra al
concilio Vaticano ii, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 213.
3. Ivi, p. 209.
4. Non mancò chi, in riferimento a quella situazione e in particolare agli anni cin-
quanta, parlò a riguardo di «clero di riserva» (G. F. Poggi, Il clero di riserva. Studio
sociologico sull’Azione Cattolica durante la presidenza Gedda, Feltrinelli, Milano 1963).
5. A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, nuova ed. riveduta e
ampliata, Einaudi, Torino 1963, p. 548.
6. Per una raccolta di tali manifesti cfr. l’Appendice al volume di M. Casella, 18 aprile
1948. La mobilitazione delle organizzazioni cattoliche, Congedo editore, Galatina 1992.
7. Per un inquadramento di tale prospettiva nella storia complessiva dell’Italia del se-
condo Novecento si vedano R. Gualtieri, L’Italia dal 1943 al 1992. dc e pci nella storia
della Repubblica, Carocci, Roma 2006, e G. Scirè, La democrazia alla prova. Cattolici e
laici nell’Italia repubblicana degli anni Cinquanta e Sessanta, prefazione di M. G. Rossi,
Carocci, Roma 2005.
8. Cit. in G. Miccoli, La Chiesa di Pio xii nella società italiana del dopoguerra, in Storia
dell’Italia repubblicana, vol. i: La costruzione della democrazia, Einaudi, Torino 1994,
p. 566.
9. L. Palma, Metodo dell’apostolato capillare, in “Iniziativa”, dicembre 1951.
10. Sulla vicenda, e ancor più sull’intera parabola della gc del periodo, cfr. F. Piva,
“La Gioventù cattolica in cammino…”. Memoria e storia del gruppo dirigente (1946-1954),
FrancoAngeli, Milano 2003.
11. M. Rossi, Gli italiani hanno votato, in “Gioventù”, 14 giugno 1953.
note 189
12. Un clima che avrebbe tra l’altro spinto Giovanni Battista Montini, già brillan-
te funzionario della Curia romana e da poco trasferito a Milano come arcivescovo, a
dichiarare privatamente attorno al 1955: «Tempi difficili corrono. Tempi in cui non
basta neppure la prudenza, ma la prudenza deve divenire astuzia» (cit. in N. Fallaci,
Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Milano libri edizioni, Milano
19774, p. 247, n 27).
13. Se ne veda una valutazione ad uso personale che Roncalli affidò alle proprie agende
private. Cfr. la monumentale edizione critica A. G. Roncalli-Giovanni xxiii, Pace e
Vangelo. Agende del patriarca, vol. ii: 1956-1958, ed. critica e annotazione a cura di Enrico
Galavotti, Istituto per le scienze religiose-Fondazione per le scienze religiose Giovanni
xxiii, Bologna 2008, p. 322 e note.
14. Giovanni xxiii, Discorso di incoronazione, 4 novembre 1958, in A. Alberigo, G.
Alberigo, Giovanni xxiii: profezia nella fedeltà, Queriniana, Brescia 1978, p. 264.
6
L’imprevisto di Giovanni xxiii e del concilio:
la stagione dell’utopia (cattolica)
1. Per tale impostazione cfr., ad es., A. Riccardi, Il potere del papa. Da Pio xii a Paolo vi,
Laterza, Roma-Bari 1988.
2. E. Fouilloux, Straordinario ambasciatore? Parigi 1944-1953, in G. Alberigo (a cura
di), Papa Giovanni, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 67-95.
3. Anche se non si tratta della problematica qui più direttamente affrontata, si veda in
proposito G. Ruggieri, Appunti per una teologia in papa Giovanni, ivi, pp. 245-71.
4. A tale riguardo G. Miccoli, Sul ruolo di Roncalli nella Chiesa italiana, ivi, pp.
175-209.
5. Un’analisi complessiva in A. Giovagnoli, Il partito italiano. La dc dal 1942 al 1994,
Laterza, Roma-Bari 1996.
6. L. Ferrari, L’Azione cattolica in Italia dalle origini al pontificato di Paolo vi, Querinia-
na, Brescia 1982, p. 55.
7. G. Verucci, La Chiesa postconciliare, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. ii/2, Ei-
naudi, Torino 1995, p. 305.
8. La più importante ricostruzione storiografica complessiva del concilio è costituita, a
tutt’oggi, da A. Melloni (a cura di), Storia del concilio Vaticano ii, diretta da G. Alberigo,
5 voll., Peeters/il Mulino, Bologna 1995-2001.
9. Sull’importanza e il contenuto del documento rimane di grande rilievo il contributo
a quattro mani di G. Alberigo, A. Melloni, L’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia di Gio-
vanni xxiii (11 ottobre 1962), in Fede tradizione profezia. Studi su Giovanni xxiii e sul
Vaticano ii, Paideia, Brescia 1984, pp. 187-283.
10. Su questo si veda ora D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una
delegittimazione religiosa dei conflitti, il Mulino, Bologna 2008, spec. pp. 257 ss.
11. M.-D. Chenu, La dottrina sociale della Chiesa. Origine e sviluppo (1891-1971), Que-
riniana, Brescia 19822, p. 48.
190 società, stato e chiesa in italia
12. Conc. Vaticano ii, decreto Apostolicam actuositatem, 18 novembre 1965, in Enchiri-
dion Vaticanum, vol. i, Documenti del concilio Vaticano ii, edb, Bologna 1979, p. 523. Per
un’analisi approfondita del suo contenuto cfr. H. Sauer, Il concilio alla scoperta dei laici,
in Melloni, Storia del concilio Vaticano ii, cit., vol. iv, pp. 259-91.
13. In particolare connessione con le linee di pensiero di J. Maritain, per ciò che attiene
al cosiddetto umanesimo integrale, ed E. Mounier, relativamente al personalismo comu-
nitario.
14. Paolo vi, Discorso all’onu, 4 ottobre 1965, in: http://www.vatican.va/holy_father/
paul_vi/speeches/1965/documents/hf_p-vi_spe_19651004_united-nations_it.html.
15. V. Bachelet, La partecipazione dell’aci nella costruzione e missione della Chiesa oggi
in Italia, aprile 1968, in Ferrari, L’Azione cattolica in Italia, cit., p. 160.
16. G. Martina, Storia della Chiesa. Da Lutero ai nostri giorni, nuova ediz. riveduta e
ampliata, vol. iv, L’età contemporanea, Morcelliana, Brescia 1995, p. 364.
17. In particolare nella omelia del 29 giugno 1972. Se ne veda un resoconto con citazio-
ni in: http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1972/documents/hf_p-
vi_hom_19720629_it.html.
18. Sul possibile nesso tra la linea tenuta dal card. Lercaro in merito ai bombardamenti
americani sul Vietnam del nord e l’intervento romano cfr. G. Battelli, Lercaro, Dossetti,
la pace e il Vietnam: “1° gennaio 1968”, in N. Buonasorte (a cura di), Araldo del Vangelo.
Studi sull’episcopato e sull’archivio di Giacomo Lercaro a Bologna 1952-1968, il Mulino,
Bologna 2004, pp. 185-304.
7
Chiesa e società italiana nel terzo Novecento:
l’incrinatura del potere
1. G. Verucci, La Chiesa postconciliare, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. ii/2, Ei-
naudi, Torino 1995, p. 320.
2. Numerosi dati, affiancati dal tentativo di cogliere le cause del fenomeno, sono rac-
colti in A. D’Urso, Le vocazioni sacerdotali in Italia. Studio teologico-pastorale con docu-
mentazione statistica (1946-1974), edb, Bologna 1975.
3. Verucci, La Chiesa postconciliare, cit., p. 331.
4. Caratteristica spesso rilevata in opere sul movimento: S. Bianchi, A. Turchini (a
cura di), Gli estremisti di centro. Il neo-integralismo cattolico degli anni ’70. Comunione e
liberazione, Guaraldi, Rimini-Firenze 1975; F. Ottaviano, Gli estremisti bianchi. Comu-
nione e liberazione un partito nel partito, una chiesa nella chiesa, Datanews, Roma 1986.
5. Su questo cfr. A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, il Mulino,
Bologna 2005.
6. Da qui, come vedremo, sarebbero scaturite le importanti assise di Loreto 1985 (Ri-
conciliazione cristiana e comunità degli uomini), Palermo 1995 (Il Vangelo della carità per
una nuova società in Italia), Verona 2006 (Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo).
7. Paolo vi, Discorso in udienza generale, 10 settembre 1969, in: http://www.vatican.
va/holy_father/paul_vi/audiences/1969/documents/hf_p-vi_aud_19690910_it.html.
note 191
8. Di quel think tank fecero tra l’altro parte figure del giornalismo e della politica ita-
liana che ritroveremo in seguito in ruoli di un certo rilievo nello schieramento di cen-
trodestra: tra di essi Roberto Formigoni, Maurizio Lupi, Paolo Liguori, Antonio Socci.
9. J. Ratzinger, Rapporto sulla fede, a cura di V. Messori, Edizioni Paoline, Cinisello
Balsamo 1985.
10. Discorso di Giovanni Paolo ii al convegno della Chiesa italiana, 11 aprile 1985, in:
http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1985/april/documents/
hf_jp-ii_spe_19850411_convegno-loreto_it.html.
11. Vari elementi in proposito nel volume di M. Malpensa, A. Parola, Lazzati. Una
sentinella nella notte (1909-1986), il Mulino, Bologna 2005, pp. 669 ss.
12. Negli anni finali del rettorato di Lazzati alla Università Cattolica anche lo scontro
con la componente ciellina che egemonizzava le assemblee studentesche fu di partico-
lare durezza.
13. Per un’efficace ricostruzione dell’intera vicenda si veda D. Menozzi, La Chiesa cat-
tolica e la secolarizzazione, Einaudi, Torino 1993, pp. 232-63.
14. I rispettivi interventi in G. Caprile, Il Sinodo dei vescovi. Settima Assemblea generale
ordinaria (1-30 ottobre 1987), Edizioni La Civiltà Cattolica, Roma 1989, pp. 281-3 (in-
tervento di Giussani) e 318-20 (intervento di Martini).
15. “La Civiltà cattolica”, 140, 1989, vol. iv, p. 521.
16. Nel Protocollo addizionale, che accompagnava il testo vero e proprio del concorda-
to interpretandone i punti di possibile equivoco, veniva espressamente dichiarato: «Si
considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranen-
si, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano». Cfr. http://www.
governo.it/Presidenza/USRI/confessioni/accordo_indice.html.
17. Giovanni Paolo ii, Lettera ai vescovi italiani, 6 gennaio 1994, in: http://www.
vatican.va/holy_father/john_paul_ii/letters/documents/hf_jp-ii_let_06011994_re-
spons-catholic-people_it.html.
8
Nella realtà contemporanea:
tra nuovi strumenti e antichi obiettivi
1. Riguardo al fondamentale contributo dato in tal senso dallo stesso pontefice Gio-
vanni Paolo ii si veda G. Miccoli, In difesa della fede. La Chiesa di Giovanni Paolo ii e
Benedetto xvi, Rizzoli, Milano 2007, spec. pp. 18 ss. Ma sono innumerevoli i riferimenti
anche recenti al Vaticano ii, da parte dei vertici della cei come delle varie organizzazio-
ni cattoliche, che ne evocano astrattamente il ruolo senza tener in particolare conto ciò
che realmente vi accadde e quale posta fosse in gioco.
2. Negoziato conclusosi nel gennaio 2009 con la revoca della scomunica comminata una
ventina di anni prima al fondatore Marcel Lefebvre e ai quattro vescovi da lui ordinati
senza l’autorizzazione romana. Per l’intera vicenda cfr. G. Miccoli, La Chiesa dell’anti-
concilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma, Laterza, Roma-Bari 2011. Sulla sua fase
d’impianto si veda L. Perrin, Il caso Lefebvre, a cura di D. Menozzi, Marietti, Genova 1991.
192 società, stato e chiesa in italia
3. Questa e le successive citazioni del documento sono ricavate da: http://www.va-
tican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1995/november/documents/hf_jp-ii_
spe_19951123_palermo_it.html.
4. G. Formigoni ha parlato ancora più nettamente di «brusca svolta», per concludere
che «senza grandi ripensamenti teorici, lo schema è cambiato profondamente» (La
lunga stagione di Ruini, in “il Mulino”, 54, 2005, n 5, p. 841).
5. Che si temesse anche un disorientamento identitario sembra confermato da un pas-
saggio essenziale del documento cui venne affidato nel 1997 il compito di formalizzare
il crescere concreto del progetto: «Per andare oltre una generica tensione in campo cul-
turale, bisogna chiarire le finalità di questo progetto, che vuole stimolare la dimensione
culturale presente nel vissuto di fede dei credenti, perché acquisti certezza delle proprie
radici, consapevolezza della propria ragionevole pertinenza sulle questioni vitali del no-
stro tempo, fiducia nelle proprie potenzialità nel dialogo e nel confronto con le culture
correnti» (Progetto culturale orientato in senso cristiano. Una prima proposta di lavoro,
a cura della Presidenza della cei, 28 gennaio 1997, in: http://www.progettoculturale.
it/progetto_culturale/cos_e_il_progetto_culturale/00030007_Cos_e_il_progetto_
culturale.html). Al di là del ruolo promozionale/comunicativo svolto dal sito appena
citato, è interessante notare come le pubblicazioni su carta che accompagnarono e tut-
tora accompagnano l’iniziativa abbiano visto il contributo di svariate case editrici cat-
toliche: quasi a rappresentare anche in tale forma l’articolazione e allo stesso tempo la
coesione delle concrete espressioni della cultura cattolica in Italia.
6. Più ampiamente: «Potremmo azzardare per la prospettiva ruiniana l’etichetta di
“scelta istituzionale-sociale”, centrata sull’ambizione della Chiesa istituzione, grazie alla
sua presenza sociale e alla sua creatività culturale, di riplasmare una identità credibile
nella civiltà italiana (e occidentale in generale)» (Formigoni, La lunga stagione, cit.,
p. 842).
7. F. Sportelli, Vescovi/3: La cei e la collegialità italiana, in A. Melloni (a cura di), Cri-
stiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, vol. ii, Istituto della Enciclopedia italia-
na, Roma 2011, p. 848.
8. Il passo è ricavato dalla lettera inviata nel gennaio 1999 da Ruini alla presidente na-
zionale ac Bignardi all’indomani della sua assunzione dell’incarico. Se ne veda il testo
in: http://www.chiesacattolica.it/documenti/2011/11/00015511_scambio_di_lettere_
in_occasione_della_nom.html.
9. Il testo in http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new/bd_edit_doc_txt.edit_
documento?p_id=11193.
10. Nella storia pluridecennale della cei – fatta eccezione per la sua fase d’im-
pianto del 1952 nella quale la composizione della Conferenza era circoscritta a un
ristretto gruppo di prelati presidenti delle regioni conciliari e durante la quale funse
da segretario per alcuni mesi Giovanni Urbani, poi presidente per un triennio nel
1966-69 – quello di Ruini risulta essere a tutt’oggi l’unico caso di passaggio da se-
gretario generale a presidente, per un totale inoltre di più di vent’anni di presenza
a vario titolo ai vertici della Conferenza.
11. La revisione concordataria del 1984 prevedeva che quanto già inserito nell’ac-
cordo del 1929 ma non previsto nel nuovo testo decadesse automaticamente. Per il
futuro tuttavia si prescriveva quanto segue, all’art. 13 c. 2: «Ulteriori materie per
le quali si manifesti l’esigenza di collaborazione tra la Chiesa cattolica e lo Stato
note 193
potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti sia con intese tra le
competenti autorità dello Stato e la Conferenza Episcopale Italiana». A riguardo
lo Statuto della cei, approvato in nuova parziale stesura nel 2000, riconosceva poi
al presidente quel compito: «Nel rispetto delle debite competenze e per il tramite
della Presidenza, la Conferenza tratta con le Autorità civili le questioni di carattere
nazionale che interessano le relazioni tra la Chiesa e lo Stato in Italia, anche in vista
della stipulazione di intese che si rendessero opportune su determinate materie»
(art. 5, §3).
12. Prescindendo da considerazioni di merito sugli orientamenti individuali dei
responsabili pro tempore delle due strutture, si noti la continuità dei rispettivi
mandati. Presidenza cei: card. Ruini 1991-2007, card. Bagnasco dal 2007 ad oggi;
vertice Segreteria di Stato: card. Sodano 1991-2006, card. Bertone dal 2006 all’ot-
tobre 2013. In relazione alla suddetta tempistica si presti attenzione allo snodo
cronologico fondamentale intervenuto nella primavera 2005 con la successione
papale tra Giovanni Paolo ii e Benedetto xvi. Il card. Bertone, nel periodo 1995-
2002, aveva affiancato l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della
fede (ex Sant’Uffizio) card. Ratzinger in qualità di segretario della Congregazione
medesima.
13. La presidenza Ruini si era conclusa da meno di un anno, nel marzo 2007.
14. Rispettivamente: Patto civile di solidarietà, Diritti e doveri delle persone sta-
bilmente conviventi. Si trattava in entrambi i casi di forme di riconoscimento delle
cosiddette “coppie di fatto” e delle garanzie civili da estendere ai componenti delle
stesse, in analogia con le famiglie tradizionali.
15. Si vedano a riguardo le reazioni di certa parte del cattolicesimo nazionale at-
torno al 2003-04, dunque prima che si delineassero in epoca successiva le censure
anche riferite alla vita privata del capo di governo (Formigoni, La lunga stagione,
cit., p. 840 e note).
16. Si veda a riguardo il caso suscitato dalla presa di posizione di Romano Prodi di
fronte al referendum sulla legge 40 del 2005. La circostanza venne ricordata dallo
stesso Prodi in una intervista del 2008 al quotidiano francese “La Croix” (M. F.
Masson, Romano Prodi: les adieux du Professore, in “La Croix”, 17 maggio 2008).
17. N. Buonasorte, Siri. Tradizione e Novecento, il Mulino, Bologna 2006, p. 261, n
2, cit. in Miccoli, In difesa della fede, cit., p. 19.
18. Sulla “nuova laicità” si veda tra l’altro l’intervista all’allora patriarca di Venezia
e ora arcivescovo di Milano Angelo Scola, apparsa su “Il Corriere della Sera”, 17 lu-
glio 2005. Per le altre forme di richiamo, largamente diffuse nei testi del magistero
ecclesiastico contemporaneo, cfr. Miccoli, In difesa della fede, cit., pp. 323 ss.
19. Le associazioni formalmente promotrici risultavano: Movimento cristiano la-
voratori, Confartigianato, Confcooperative, Compagnia delle Opere, cisl, acli,
Coldiretti. L’iniziativa, intesa a stabilizzare nel tempo la propria presenza e azione,
ha istituito un proprio sito: http://www.forumlab.org.
20. http://www.avvenire.it/politica/pagine/programma-todi.aspx.
21. L’intero discorso è pubblicato nel sito del quotidiano diretto da Giuliano Fer-
rara: http://www.ilfoglio.it/soloqui/10783.
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