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Giuseppe Battelli

Società, Stato
e Chiesa in Italia
Dal tardo Settecento a oggi

Carocci editore Quality Paperbacks


1a edizione, dicembre 2013
© copyright 2013 by Carocci editore S.p.A., Roma

Finito di stampare nel dicembre 2013


da Eurolit, Roma

isbn 978-88-430-7112-8

Riproduzione vietata ai sensi di legge


(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione,


è vietato riprodurre questo volume
anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche per uso interno
o didattico.
Indice

Introduzione 11

1. Dall’Ancien régime allo sconvolgimento


della modernità secolarizzata 17

Il ruolo della Chiesa nel sistema di Ancien régime 17


La risposta cattolica durante la Restaurazione 24
Dalle chiusure di Gregorio xvi al mito di Pio ix 29

2. Gli anni del muro contro muro:


il primo intransigentismo 35

La vittoria dell’intransigentismo 35
Di fronte alla nascita del Regno d’Italia: non expedit 40
«Protestare ed aspettare»: l’“Aventino” cattolico 48

3. Dalla protesta al progetto di riconquista:


il secondo intransigentismo 55

Una decisiva fase di passaggio 55


Chiesa e società moderna nell’ultimo scorcio
dell’Ottocento 60
Cattolici italiani di fine Ottocento: tra priorità religiose
e impegno sociale 65
8 società, stato e chiesa in italia

Instaurare omnia in Christo: le radici


del mito conservatore di Pio x 72

4. Grande guerra e fascismo: l’accordo con lo Stato 81

Chiesa, cattolici e società italiana tra guerra


e dopoguerra 81
Dal ppi all’ac: storia breve di un partito disutile 87
Il rapporto iniziale con lo Stato fascista: tra entusiasmo
e difficoltà 97
La Chiesa del Concordato 101

5. La ricostruzione guelfa dell’Italia: la conquista


dello Stato 107

Pio xii e la crociata per la ricristianizzazione della società 107


Il mondo cattolico italiano si riorganizza 110
Cattolici e democristiani di fronte alla costruzione
della Repubblica 114
Chiesa e cattolici negli anni cinquanta: tra pastorale
di conquista e voci differenziate 121

6. L’imprevisto di Giovanni xxiii e del concilio:


la stagione dell’utopia (cattolica) 129

Giovanni xxiii: papa di transizione… 129


Un concilio che poteva far entrare la Chiesa nel futuro 136
Gli inizi del postconcilio in Italia 141

7. Chiesa e società italiana nel terzo Novecento:


l’incrinatura del potere 147

I difficili anni settanta: dallo slancio al ripiegamento 147


Dall’elezione di un papa non italiano alla crisi storica
dell’utopia (socialista) 155
indice 9

Cattolici italiani di fine Novecento: il crollo


dell’unità partitica 163

8. Nella realtà contemporanea: tra nuovi strumenti


e antichi obiettivi 169

Oltre l’unità partitica dei cattolici: evitare la diaspora 169


Il ruolo centrale della cei: l’unità culturale per rifare
massa d’urto 171
Nuove parole d’ordine per avanzare verso il passato 176
Un nuovo partito cattolico? 180

Note 183

Bibliografia 195

Indice dei nomi 203


Introduzione

Se si osserva la società italiana ormai giunti a metà del secondo decennio


del xxi secolo è difficile sottrarsi alla diffusa sensazione di un declino.
Prima ancora che economico, e certamente lo è, un declino morale, cul-
turale, politico nel significato originario e dunque ampio e impegnativo
del termine. Proliferano le diagnosi. Ma in realtà individuarne le cause
non è semplice: anche perché se alcune di esse sembrano riconducibi-
li a fenomeni relativamente recenti e in quanto tali congiunturali e su-
perabili, non si può affatto escludere che gli stessi abbiano agito come
detonatore finale di processi storici di ben più lontana origine e lunga
durata. Processi storici di grande interesse, che meritano l’attenzione di
chi voglia capire la realtà a noi cronologicamente più vicina.
Obiettivo di questo libro è tentare appunto di offrire alcune chiavi
di lettura che, risalendo nel tempo, permettano di cogliere come si sia
venuto progressivamente delineando il cammino di una nazione che si
è costituita – quale entità statale unitaria sotto il profilo territoriale e
politico – in epoca relativamente recente (lo ricordano le non lontane
celebrazioni del 150° dell’istituzione del Regno d’Italia) e attraverso un
intreccio di problematiche e di opportunità ora colte ora mancate, che se
da un lato consentono nello sviluppo generale del periodo analogie con
il percorso di altre nazioni europee, dall’altro evidenziano condizioni
uniche. Tra le prime è naturale instaurare un parallelo con l’unificazione
tedesca giunta a compimento nel 1871; tra le seconde quella che emerge
in tutta la sua evidenza, sino a costituire pur nel mutare progressivo del-
le condizioni concrete una sorta di filo rosso dell’intera storia unitaria
italiana, è il nesso inscindibile delineatosi tra la nascita/vita complessiva
dello Stato e – all’interno di quello che veniva considerato dai più come
il suo naturale territorio – la presenza della Santa sede: vale a dire del
cuore simbolico, istituzionale e di governo del cattolicesimo mondiale.
La questione è antica, ma non per questo meno stimolante. Anche
12 società, stato e chiesa in italia

perché il problema, così come poteva essere colto agli inizi del Cinque-
cento da un pur finissimo osservatore quale Niccolò Machiavelli, ha as-
sunto una fisionomia via via mutevole alla luce delle problematiche mag-
giori che hanno modificato a partire dal tardo Settecento gli equilibri
continentali dal punto di vista sociale, politico, culturale, determinando
in Europa prima il passaggio tra l’età moderna e l’età contemporanea,
poi nei successivi due secoli i caratteri peculiari di quest’ultima.
È infatti a partire dai molteplici sconvolgimenti portati dalla stagio-
ne rivoluzionaria e in particolare dall’affossamento del sistema di An-
tico regime che si apre uno scenario profondamente diverso rispetto
all’allora recente passato. Uno scenario nel quale si indeboliscono quei
legami tra potere secolare e potere ecclesiastico sui quali si era retta per
secoli l’impalcatura istituzionale prevalente in Europa e la stessa conce-
zione della legitima potestas. Il problema riguardò ampie parti del siste-
ma continentale, seppure con le variegate declinazioni che la storiografia
ha ricostruito. Nel caso tuttavia della penisola italiana esso assunse una
fisionomia particolare alla luce del fatto che su quel territorio insisteva-
no non solo alcune monarchie secolari di dimensione regionale ma an-
che lo Stato governato dalla figura unica del “sovrano pontefice”. La crisi
rivoluzionaria, solo per taluni aspetti ricomposta a Vienna nel 1814-15
dal “concerto europeo” delle potenze antinapoleoniche, lasciava infatti
sul terreno delle questioni future da affrontare l’intricata situazione dei
movimenti nazionali. Situazione che nel caso italiano sarebbe passata
per forza di cose attraverso la spinosa questione dell’esistenza dello Stato
della Chiesa.
In sostanza due diverse problematiche si vennero a sovrapporre, nella
percezione della Roma papale, durante i decenni della Restaurazione.
L’affermarsi progressivo, da un lato, di quegli elementi di secolarizza-
zione delle istituzioni e della mentalità collettiva – perlomeno nei ceti
urbani – che indebolivano il precedente ruolo pubblico svolto dalla reli-
gione cattolica sia nei termini di irradiazione spirituale sia e ancor più di
cemento sociale ed elemento d’ordine; il maturare, dall’altro, di istanze
di unificazione nazionale in misura sempre più estesa (e in taluni casi,
come quelli del Belgio e della Grecia, con il diretto coinvolgimento delle
comunità di fede e dello stesso clero). La nuova stagione rivoluzionaria
del 1848 rappresentò su entrambi i fronti una sorta di spartiacque: per
un verso infatti la relativa articolazione di posizioni riscontrabile nei de-
cenni precedenti all’interno del cattolicesimo assistette all’affermazione
della linea più rigidamente antimoderna denominata “intransigente”;
introduzione 13

mentre per l’altro l’illusione neoguelfa di un processo di unificazione


nazionale in chiave federativa sotto l’egida del papa divenne dapprima
disillusione e poi insanabile rottura.
Il “risorgimento” italiano si sviluppò così secondo canoni laici, quan-
do non palesemente anticlericali, mentre la fine del millenario potere
temporale dei papi per effetto della acquisizione di Roma da parte dello
Stato italiano nel settembre 1870 sarebbe divenuto il simbolo definiti-
vo della sopra richiamata rottura. Rottura, indubbiamente, ma anche
inizio di un cammino in più tappe cui corrisposero – a seconda delle
dinamiche storiche in atto – successive diversificate forme di dialettica
tra Stato italiano e “nazione cattolica”. Si susseguirono pertanto: l’oppo-
sizione cattolica tardo-ottocentesca al formarsi di uno Stato che, sull’e-
sempio di altri Stati europei, poteva divenire effettivamente e non solo
formalmente laico; l’alleanza tattica con quella classe dirigente liberale
cui prima ci si opponeva, per condividere nel primo Novecento l’azio-
ne di contrasto in prospettiva conservatrice all’avanzare elettorale delle
forze parlamentari legate al movimento operaio e contadino; infine il
disimpegno dai princìpi costituzionali dello Stato liberale per accetta-
re – anche in cambio della soluzione della crisi nei rapporti tra Regno
d’Italia e Santa sede scaturita dal processo di unificazione nazionale e so-
prattutto dagli avvenimenti del 1870 prima ricordati (soluzione coincisa
con la stipula dei Patti lateranensi del 1929) – la prospettiva del sostegno
sostanziale alla deriva autoritaria dello Stato fascista.
Con il secondo dopoguerra si aprì invece una fase per molti aspetti
nuova e che, pur con lievi discontinuità, sarebbe perdurata fino all’inizio
degli anni novanta del Novecento: la fase dell’egemonia democristiana,
quindi del più importante e riuscito progetto di costituire in Italia un
partito dei cattolici. Si potrebbe pensare a una mera egemonia parla-
mentare, senza nessun nesso con tutto ciò che non fosse la vita politico-
partitica dello Stato. Ma, com’è noto, si trattò di ben altro. Se volessimo
individuare delle coordinate temporali, dotate anche di un certo rilievo
simbolico, potremmo dire che tra le elezioni vinte con largo margine
dalla dc il 18 aprile 1948 e lo scioglimento del partito cattolico a inizio
anni novanta a seguito delle vicende di Tangentopoli si costruì un siste-
ma, ad un tempo politico, sociale ed economico, che avrebbe contribui­
to in modo essenziale a determinare gran parte dei fattori strutturali
tuttora attivi nella società italiana.
Dietro alla costruzione della suddetta egemonia il ruolo dei vertici
della Chiesa cattolica – intesa sia quale istituzione, che organizzazione
14 società, stato e chiesa in italia

e infine fabbrica del consenso in un paese ancora in ampie aree rurale e


provinciale – è stato più o meno costantemente decisivo. Ma nel consta-
tare questo occorre evitare una lettura troppo semplicistica e generaliz-
zante. Mentre infatti si delineava a livello nazionale il processo storico
di cui si è detto, il cattolicesimo nel suo insieme attraversò dagli anni
sessanta una fase di profondo ripensamento. Almeno tre elementi vanno
ricordati a tal proposito. Innanzitutto la convocazione e svolgimento del
concilio Vaticano ii (1962-65), con la spinta innovativa che ne derivò e
che, in linea con i pontificati “conciliari” di Giovanni xxiii e di Paolo
vi, avrebbe teso anche a riformulare in termini di maggiore disimpegno
il nesso complessivo tra istituzione ecclesiale e società. In secondo luo-
go la progressiva internazionalizzazione degli apparati di vertice della
Santa sede (in sintesi: la Curia romana), confermata/rafforzata al centro
del sistema di governo dalla elezione a partire dal 1978 e sino ad oggi
di tre pontefici di rispettiva provenienza polacca, tedesca e argentina,
dopo secoli di ininterrotta sequenza di papi di origine italiana. Infine la
istituzione anche in Italia, seppure col significativo ritardo di numerosi
decenni rispetto agli altri paesi europei, di un organismo rappresenta-
tivo dei vescovi della nazione (la Conferenza episcopale italiana: cei).
Questo multiforme ripensamento, che come si è detto risultava tra
l’altro portatore di una progressiva deitalianizzazione della Santa sede
e del papato, avrebbe potuto riverberarsi anche nei rapporti con una si-
tuazione italiana che vedeva nel frattempo sopravvenire le fasi dell’in-
crudimento del confronto politico (fino alla duplice deriva terroristica e
della lotta armata), delle trasformazioni di un assetto economico sempre
meno imperniato sullo sviluppo del settore industriale, di una colloca-
zione internazionale quasi mai capace di esprimersi in termini di com-
pleta sovranità nemmeno sul proprio territorio. Al contrario si assistette
a una sorta di progressiva divaricazione tra le istanze generali di evolu-
zione che si stavano sviluppando nell’insieme del cattolicesimo e quello
che invece un po’ alla volta fu il delinearsi di una Chiesa nazionale che
non ha affatto rinunciato a perseguire ulteriormente quelle istanze ege-
moniche cui sopra si è fatto riferimento. Quasi che il mandato strategico
a conservare all’Italia la fisionomia di una sorta di Stato formalmente
laico ma intrinsecamente cattolico fosse passato dalla Santa sede alla
cei. Un mandato che ha assunto i caratteri di una particolare urgenza
e responsabilità da quando, con la crisi della dc di inizio anni novan-
ta, si è pervenuti alla fine della cosiddetta “unità politica dei cattolici” e
al costituirsi di formazioni partitiche cattoliche minori distribuitesi in
introduzione 15

entrambi gli schieramenti nati per far fronte al nuovo sistema elettorale
bipolare.
Da una prospettiva “laica”, applicata al modello di società e alla forma
istituzionale dello Stato, il suddetto problema può sembrare irrilevante.
Osservato invece tenendo conto degli obiettivi storicamente coerenti
del cattolicesimo nazionale lo stesso problema assume una dimensione
non sottovalutabile. La fine della “unità politica dei cattolici” ha infat-
ti prodotto il venir meno di uno strumento essenziale per l’egemonia
prima ricordata ed esercitata dal 1948 in poi per poco meno di mezzo
secolo, spingendo nell’ultimo ventennio della storia politica del paese
ad alleanze di mera opportunità e spesso contraddicenti i valori stessi
della proclamazione ordinaria del messaggio religioso. In questo recen-
te scenario si è venuto a confermare un aspetto pressoché costante nel
susseguirsi delle fasi storiche qui ripercorse: la capacità/disponibilità
da parte dei vertici prima generali e poi nazionali del cattolicesimo ad
adottare strumenti inediti, parole d’ordine rinnovate, ulteriori alleanze
congiunturali, senza tuttavia mai deflettere dall’obiettivo di esercitare –
ora direttamente, ora indirettamente – un influsso forte sulla società e
lo Stato italiani.
In termini specifici e in parte rinnovati rispetto alle epoche storiche
precedenti, il problema si è posto a partire dalla rottura del sistema di
Antico regime sopravvenuta nel tardo Settecento. Là si trovano le radici
del cammino che ha portato fino ad oggi il cattolicesimo a svolgere un
ruolo che è innegabile nella storia unitaria della società e dello Stato ita-
liani: sia che lo si veda come beneficio/baluardo di princìpi, che come
freno rispetto a quei traguardi di laicità effettiva altrove ben più conso-
lidati. Quella che qui si ripercorre è pertanto una delle possibili storie di
questo paese: delle occasioni colte e di quelle mancate; di come è andata,
di come poteva andare e di come potrebbe andare.

Dedico questo libro a Francesco e Lorenza. Non solo in quanto miei amatissimi
figli, ma anche come rappresentanti – assieme ai tanti loro coetanei, italiani
di varia etnia, generazione, fede o non credenza – di quella vasta comunità di
giovani cui auguro di cuore di “farcela” nonostante tutto a resistere con dignità
e sereno coraggio in questo paese.

Trieste, 4 luglio 2013


1
Dall’Ancien régime allo sconvolgimento
della modernità secolarizzata

Il ruolo della Chiesa nel sistema di Ancien régime


La penisola italiana, percorsa da Montesquieu a fine anni venti del Set-
tecento durante il classico grand tour, parve allo scrittore, pensatore
politico e magistrato francese «un paradis des moines»1. L’immagine
era sorretta da lievi pregiudizi. Non tanto riferibili al variegato universo
italiano, cui avrebbe dedicato al ritorno in Francia pagine di riflessione
storica di grande impegno nell’opera Considérations sur les causes de la
grandeur des Romains et de leur décadence, quanto rispetto alla compo-
nente ecclesiastica che egli vi vedeva massicciamente diffusa. Pur assi-
stito infatti da quel sentimento di universale tolleranza che gli avreb-
be consentito le mirabili comparazioni tra civiltà, culture, tradizioni,
contenute nel tardo capolavoro De l’esprit des lois, egli era nondimeno
portatore di una visione fortemente illuminista e razionale della realtà:
dunque poco incline ad accogliere le forme di religiosità, talora intrise
di elementi miracolistici e superstiziosi, riscontrabili in varie parti del
territorio peninsulare.
Due aspetti meritano tuttavia un breve approfondimento, per non
cedere alla tentazione di liquidare con eccessiva rapidità quella sua sin-
golare considerazione.
Il primo. L’intero svolgimento del racconto di viaggio in cui essa
risulta inserita consente di ritenere assai probabile il fatto che il riferi-
mento generico ai monaci nascondesse in realtà un richiamo mirato e
intenzionalmente negativo. Quei moines non erano cioè né i monaci in
senso stretto, vale a dire gli appartenenti al monachesimo cristiano di
epoca tardoantica e altomedievale, come nel caso dei benedettini; né i
componenti degli ordini religiosi mendicanti di origine tardomedievale,
come agostiniani, domenicani, francescani; né infine gli ecclesiastici in
genere: compresi dunque i membri di quel clero secolare che all’epoca
18 società, stato e chiesa in italia

troviamo tuttora disperso in svariate funzioni, ancorché prioritariamen-


te richiesto di impegno nella cura d’anime parrocchiale esigita dalla ri-
forma posta in essere dal concilio di Trento (1545-63).
Quei moines potrebbero piuttosto essere identificati negli appar-
tenenti a quegli ordini di istituzione cinquecentesca che, nel giudizio
espresso da Montesquieu in altri passaggi di quel medesimo racconto di
viaggio, concepivano la religione come strumento di potere e di mante-
nimento della plebe nella più totale inconsapevolezza e subordinazione
sociale. Dovessimo ulteriormente specificare, potremmo concludere che
il vero bersaglio del giudizio del filosofo e pensatore politico francese
erano i gesuiti. Fatto tutt’altro che sorprendente, se si pensa che proprio
il crescente pregiudizio nei loro riguardi avrebbe portato nei decenni
successivi del xviii secolo alla cacciata degli stessi da vari paesi europei
e infine alla soppressione papale della Compagnia di Gesù nel 1773. E
quello che veniva stigmatizzato da Montesquieu era l’influsso che si ri-
teneva esercitassero direttamente e indirettamente sulla società coeva, al
fine della sua immobile conservazione.
Il secondo. Quella considerazione, anche prescindendo dai possibili
sottintesi sopra proposti e riferita complessivamente alla realtà penin-
sulare settecentesca, era tutt’altro che infondata. Nell’Italia, pur suddi-
visa all’epoca nelle diverse entità statali preunitarie, c’era davvero una
rilevantissima quantità di ecclesiastici. Alcuni anni prima, ad esempio, i
rappresentanti più autorevoli dell’aristocrazia di Bologna, città facente
parte allora dello Stato pontificio, si erano recati in visita dall’arcivesco-
vo locale per pregarlo di intervenire presso il papa al seguente scopo:

Affinché in Bologna non fossero più introdotti nuovi Ordini Religiosi né altre
famiglie in altri monasteri delle già esistenti, poiché la Città ne risentiva danni
gravissimi per i dazi che essi non pagavano e per le molte abitazioni che loro
occupavano, le quali potevano venire abitate da cittadini con aumento d’affitto,
di profitto, di popolazione e di circolazione di denaro2.

Quei nobili bolognesi avrebbero vista soddisfatta la propria richiesta,


che come si sarà notato verteva principalmente sulle conseguenze ne-
gative di una massiccia presenza di persone che per un verso non con-
tribuivano ai bilanci pubblici e per l’altro risultavano ininfluenti per la
potenziale crescita economica della città. Ma si trattò appunto di un fre-
no all’ulteriore eventuale aumento della suddetta presenza, non certo di
una sua significativa riduzione. Ancora a fine Settecento, infatti, a Bolo-
dall’ancien régime allo sconvolgimento 19

gna il numero delle persone indossanti a vario titolo un abito religioso


era tale da determinare il rapporto di un clericus ogni 24 abitanti3.
Il fenomeno dell’elevata numerosità di ecclesiastici non era d’altron-
de né il solo né il principale aspetto caratterizzante quella che si è soliti
indicare come la società di Ancien régime. Quegli stessi ecclesiastici, e
soprattutto i membri di alcuni ordini religiosi, avevano infatti un ruolo
sociale assai importante, dato che era spesso nelle loro mani l’istruzione
dei giovani nobili, la conduzione degli ospedali e delle altre istituzioni
di assistenza, l’indirizzo ideologico oltre che religioso delle popolazioni
mediante il periodico svolgimento delle predicazioni quaresimali e delle
missioni popolari. Tutto questo si inseriva poi in un contesto nel quale
vari altri elementi agivano a propria volta nel senso indicato.
Un primo elemento riguardava lo stretto intreccio che si era determi-
nato nel corso dell’età moderna tra legislazione ecclesiastica e legislazio-
ne civile, facendo sì che la seconda ricalcasse largamente la prima in pun-
ti quali il matrimonio, la morale pubblica, la censura sulla stampa. Un
secondo concerneva i forti legami che si erano creati tra la classe dirigen-
te aristocratica del tempo e il mondo ecclesiastico mediante il frequente
accesso di giovani nobili alle carriere che portavano alla guida di abbazie,
all’episcopato, al cardinalato e nel caso di talune specifiche casate nobi-
liari dello Stato pontificio fino al papato. Un terzo apparteneva invece
alle coeve dinamiche patrimoniali e riguardava l’estesa dotazione di beni
che rendevano l’istituzione ecclesiastica, assieme all’aristocrazia, la più
rilevante detentrice di proprietà terriere4. Da ultimo, e a coronamento
dei suddetti vari aspetti, l’autorità religiosa e quella civile si sosteneva-
no reciprocamente nel controllo della società. La prima riconoscendo
alla seconda l’origine divina del suo esercizio; la seconda garantendo alla
prima un controllo sulla vita religiosa e morale delle popolazioni anche
attraverso il ricorso agli strumenti coercitivi e censorii del potere civile.
Nel corso dei secoli precedenti si erano già verificati attacchi a un
tale assetto della società. E gli stessi due cardini di essa, l’istituzione
ecclesiastica e l’istituzione statale, non avevano d’altronde mancato di
scontrarsi, il più delle volte per dilatare le proprie prerogative a scapito
dell’altra. La crisi finale a livello degli Stati europei ufficialmente ricono-
sciuti come cattolici sopravvenne tuttavia a partire dalla seconda metà
del Settecento. L’antefatto fu rappresentato da un modificato atteg-
giamento da parte di quelle autorità civili di orientamento “illumina-
to” che, facendo propri alcuni elementi del pensiero giurisdizionalista
o princìpi egualmente maturati nel quadro dell’illuminismo – come la
20 società, stato e chiesa in italia

libertà religiosa o l’emancipazione degli ebrei –, introdussero riforme o


giunsero a provvedimenti come la cacciata dei gesuiti che incrinavano
profondamente la passata alleanza con l’autorità religiosa. La fase deci-
siva coincise invece, a partire dal 1789, con l’esplodere della Rivoluzione
francese, il delinearsi di stagioni estreme come quella caratterizzata dal
cosiddetto terrore, e infine il disegnarsi progressivo di un nuovo tipo di
società che spazzava via gran parte degli elementi-chiave del sistema di
Ancien régime.
La risposta data dai vertici romani dell’istituzione ecclesiastica al pri-
mo fenomeno seguì come in altre precedenti fasi storiche la via della
trattativa diplomatica e dei pubblici pronunciamenti papali. Ma accanto
a questo, un elemento sostanzialmente inedito venne rappresentato sul
territorio del futuro Stato unitario italiano dall’iniziativa dell’ex gesui­
ta Nicolaus Diessbach5, che a partire dal 1782 organizzò in Piemonte,
all’epoca parte italiana del ducato di Savoia, un gruppo di laici di fede
cattolica e di estrazione aristocratica impegnati a diffondere materiale a
stampa di contenuto ideologico e morale sicuro per contrastare l’azione
antireligiosa della stampa ritenuta di orientamento massonico.
Se ne osserviamo le leggi fondative cogliamo immediatamente il ca-
rattere intellettuale di quella risposta: quasi che i problemi dell’incipien-
te rottura delle antiche secolari alleanze ruotassero in via esclusiva attor-
no al perno delle idee: da suddividere in buone e cattive, naturalmente. Il
fatto che il veicolo essenziale di quell’iniziativa fosse costituito dal libro
è tutt’altro che marginale per comprendere taluni aspetti intrinseci alla
stessa. Ci si trovava, infatti, in una fase storica nella quale la stragrande
maggioranza della popolazione era totalmente o largamente analfabeta.
Proporsi di operare nella società del tempo attraverso lo strumento della
buona lettura era dunque allora, diversamente da quanto sarebbe avve-
nuto per analoghe iniziative di quasi un secolo posteriori, un indizio tra-
sparente della concezione elitaria che impregnava il promotore e i suoi
seguaci, vincolati ai seguenti tre voti:

Non leggere durante quest’anno alcun libro proibito dalle Leggi Ecclesiastiche
[…]. Consacrare durante quest’anno almeno un’ora alla settimana per fare del-
le letture spirituali, adottando per questo scopo solo dei libri ascetici adottati
dall’Amicizia cristiana […]. Obbedire ai Superiori dell’Amicizia Cristiana in
tutto quello che può interessare il buon ordine della nostra Corporazione o
contribuire alla circolazione dei buoni libri, ogni volta che ne sarò richiesto in
virtù del mio voto6.
dall’ancien régime allo sconvolgimento 21

Quel carattere elitario, rafforzato dall’obbligo di segretezza che in tal


senso emulava l’avversario massonico, permise una diffusione del fe-
nomeno assai circoscritta. Eppure, se si prescinde dalle antiche con-
fraternite laicali sorte nel Medioevo e nell’età moderna, le cui finalità
consistevano prevalentemente in pratiche religiose e caritative estranee
a implicazioni di natura ideologica, l’esperienza dell’Amitié chrétienne
può essere considerata, nelle motivazioni, nello spirito di contrapposi-
zione e nella destinazione organizzativa rivolta a non ecclesiastici, come
un lontano ma effettivo antefatto delle esperienze organizzative del lai-
cato cattolico italiano che sarebbero poi sorte nel pieno Ottocento.
Un ultimo aspetto va tuttavia chiarito. L’azione dell’Amicizia cri-
stiana aveva cominciato a dispiegarsi all’interno del contesto prerivo-
luzionario: cioè in una situazione ancora legata al precedente sistema
sociale, e nella speranza di una conservazione dello stesso. Con l’avvento
della stagione rivoluzionaria, invece, la posizione della Chiesa cattolica
risultò complessivamente ben più difficile, e iniziative come quella del
Diessbach, pur prolungando la propria esistenza, persero di incisività o
mutarono in parte la loro originaria funzione.
Lo scenario d’altronde assisteva a rapidi e sostanziali cambiamen-
ti. Il mutuo sostegno tra autorità religiosa e autorità civile era in parte
compromesso, dato che le nuove autorità civili, in primis il Bonaparte,
si apprestavano a far discendere il proprio potere non da Dio bensì da
un mandato ricevuto direttamente dal popolo. Per finanziare le casse
statali si era proceduto alla confisca e alla vendita di una parte rilevante
degli edifici e dei possedimenti terrieri appartenenti a vario titolo alle
istituzioni ecclesiastiche. Gli ordini religiosi erano stati sottoposti a una
drastica riduzione, che aveva colpito soprattutto quelli la cui finalità pre-
valentemente religiosa (si pensi in particolare agli ordini contemplativi)
non appariva di immediato beneficio per il popolo; mentre vennero in
parte risparmiati, per analoga ragione, quelli che si dedicavano all’i-
struzione e all’assistenza. Migliaia di appartenenti agli ordini soppressi
erano di conseguenza stati ridotti alla condizione di preti secolari, in-
grossando in tal modo le fila di un clero che già aveva seri problemi di
sostentamento. Risultarono infine annullati tutti i privilegi di cui l’isti-
tuzione ecclesiastica aveva goduto sino ad allora.
I ritmi di attuazione di quanto sopra descritto furono diversi nelle
varie zone europee a seconda dei tempi impiegati dalla Rivoluzione per
espandersi al di fuori della Francia. Nel caso italiano ciò iniziò a veri-
ficarsi in modo consistente tra il 1796 e il 1799, durante la prima fase
22 società, stato e chiesa in italia

di occupazione francese, che vide la provvisoria nascita di repubbliche


democratiche in varie zone del paese. La stabilizzazione si ebbe poi nel
periodo 1800-14, con il definitivo ritorno degli eserciti d’oltralpe e l’af-
fermarsi del potere personale di Napoleone. Nel corso delle suddette
due fasi l’atteggiamento della istituzione ecclesiastica alternò momenti
di maggiore compattezza ad altri nei quali sembrarono coesistere con
difficoltà posizioni contrastanti.
Nel triennio 1796-99, ad esempio, si ebbero sia le prese di posizione
più concilianti di membri del clero e dello stesso episcopato che ten-
tarono di far convivere i princìpi democratici della Rivoluzione con il
messaggio cristiano; sia le iniziative controrivoluzionarie di altri, che in
varie parti della penisola collegarono saldamente tra loro la tutela della
religione e la difesa della società di Ancien régime, spingendo tra l’altro
la popolazione rurale attorno ad Arezzo a insorgere contro i francesi al
grido di «Viva Maria». Dopo il 1800, al contrario, l’avvento sul fronte
francese del Bonaparte e su quello della Chiesa del papa Pio vii, uno
dei vescovi concilianti del triennio 1796-99, parve inaugurare una nuova
stagione nei rapporti tra autorità religiosa e autorità civile. Una nuova
stagione nella quale, passati almeno in apparenza i giorni di maggiore
radicalizzazione del fenomeno rivoluzionario, sembrava manifestarsi
da entrambe le parti la disponibilità a instaurare una convivenza civile e
magari anche di rispettivo interesse.
Per ciò che riguarda il territorio italiano l’atto più rappresentativo di
questa nuova stagione fu la firma nel 1803 di un concordato tra Pio vii
e la Repubblica italiana, istituita nel 1801 e il cui presidente risultava lo
stesso Napoleone. Alla base di questo accordo erano alcuni elementi che
richiamavano molto da vicino il legame tra autorità religiosa e autorità
civile che sussisteva nel precedente sistema di Ancien régime. Con una
differenza sostanziale, tuttavia, rispetto al passato: la preponderanza
dello Stato sulla Chiesa, dato che Napoleone aveva fatto propri taluni
elementi del già ricordato giurisdizionalismo settecentesco che preve-
devano appunto il suddetto sbilanciamento a favore dello Stato. Da un
lato, infatti, quest’ultimo riconosceva alla Chiesa una serie di privilegi
che ne restauravano in parte il ruolo e il prestigio all’interno della socie-
tà e che avvantaggiavano complessivamente i credenti cattolici rispetto
agli appartenenti alle altre confessioni religiose; ma dall’altro la Chiesa,
oltre a riconoscere nuovamente all’autorità civile un’investitura divina,
era costretta a fare numerose altre concessioni. I rappresentanti del clero,
sia i vescovi che i preti, dovevano infatti prestare un giuramento di fedel-
dall’ancien régime allo sconvolgimento 23

tà allo Stato7. I vescovi erano scelti dall’autorità civile. Infine gli istituti
ecclesiastici a finalità caritativa, quali gli ospedali, gli ospizi ecc., non era-
no più gestiti solo da ecclesiastici ma anche da laici.
I laici, appunto. Il fatto che nel concordato del 1803 non si facesse al-
cun riferimento ai laici come a una componente della Chiesa, ma solo in
quanto controllori del personale ecclesiastico nell’amministrazione di
alcune istituzioni, consente di puntualizzare più aspetti. Innanzitutto,
all’interno della categoria Chiesa erano sostanzialmente compresi solo
gli ecclesiastici, mentre i fedeli dell’epoca rientravano più genericamente
in quella che era chiamata società cristiana o cristianità. Ne derivava che
il laicato cattolico ancora non esisteva come tale, e non era considera-
to come realtà a qualunque titolo organizzata. Pertanto la stessa attività
dell’Amicizia cristiana, per quello che se ne poteva conoscere data la sua
intenzionale segretezza, veniva vista a quel momento come un fenome-
no più bizzarro che pericoloso.
Lo sbilanciato equilibrio del concordato del 1803 non resse a lungo.
Già all’indomani della sua firma lo Stato introdusse norme applicative
che condizionavano ancora più pesantemente la Chiesa. Ma ulteriori
spinte verso una sua sostanziale disattesa da parte delle autorità civili si
ebbero in rapida sequenza a partire dal 1806. Dapprima, infatti, Napo-
leone tentò di ottenere la diretta partecipazione del papa, come un pro-
prio qualsiasi alleato, alla lotta contro l’Inghilterra mediante l’adesione
al decreto di Berlino che sanciva il blocco continentale a danno del com-
mercio britannico. Poi nel novembre 1807 le truppe francesi invasero la
Marca pontificia, il cui territorio corrispondeva alla omonima successiva
regione, con la sostanziale eccezione del ducato di Urbino. Nell’aprile
1808 la stessa Marca fu formalmente annessa al Regno d’Italia, istituito
nel 1805 in sostituzione della precedente Repubblica italiana. Nel mag-
gio 1809 Napoleone dichiarò decaduta la sovranità del papa sui territori
dell’Italia centrale e occupò le restanti parti dello Stato pontificio: vale a
dire la zona corrispondente alle attuali regioni dell’Umbria e del Lazio.
Infine il 5 luglio dello stesso anno il papa Pio vii venne arrestato a Roma
e trasferito in un primo tempo a Savona e in seguito alle porte di Parigi.
Qui si tentò senza successo di ottenere da lui una sorta di ratifica di tutto
ciò che era nel frattempo avvenuto e la firma di un nuovo concordato: il
cosiddetto concordato di Fontainebleau, dal nome della località dove Pio
vii era tenuto a tutti gli effetti prigioniero.
Il tentativo di trovare un nuovo accordo tra autorità religiosa e autori-
tà civile era dunque fallito. La responsabilità maggiore ricadeva certo sul
24 società, stato e chiesa in italia

Bonaparte e sulla sua esplicita volontà di asservire il papato romano ai


propri obiettivi politici e militari. I sostenitori dell’Ancien régime, torna-
ti alla ribalta all’indomani delle sconfitte finali di Napoleone nel 1814-15
e del riassetto dell’Europa disegnato in chiave legittimista dal congresso
di Vienna, vollero tuttavia ricavare da quell’oggettivo fallimento anche
la dimostrazione che lo stesso non era dipeso dalle concrete azioni dei
suoi protagonisti ma dal fatto che non c’era alcuna possibile compatibi-
lità tra i princìpi democratici della Rivoluzione e i valori enunciati dalla
religione cristiana.
Tale deduzione non era in realtà del tutto fondata. L’esperienza fatta
in taluni casi nel corso del triennio 1796-99 dimostrava il contrario. Era
tuttavia difficile negare che il successivo svolgimento della Rivoluzione,
e soprattutto la sua trasformazione col Bonaparte da fenomeno colletti-
vo a esperienza individuale di potere, offriva svariati motivi di rivalsa ai
nostalgici dell’Ancien régime. E questo convincimento avrebbe pesato a
lungo sulla storia dei rapporti tra Chiesa e società nell’età contempora-
nea: sia a livello generale che in rapporto alla situazione italiana.

La risposta cattolica durante la Restaurazione


Con la sconfitta napoleonica e il riassetto europeo operato dal congresso
di Vienna anche i territori italiani ritornarono in larga misura ai sovrani
o perlomeno alle dinastie spodestate dalla stagione rivoluzionaria. L’u-
nica significativa eccezione risultò, com’è noto, il controllo del casato
degli Asburgo d’Austria sul Regno lombardo-veneto: un’entità politico-
territoriale nata nel 1815 dalla unificazione dell’ex ducato di Milano e
della ex repubblica di Venezia. Il clima generale sembrava dunque pre-
ludere a un pieno ritorno del modello di società esistente in Italia pri-
ma del 1796. Tanto più che il sistema di Vienna prolungava la propria
volontà di controllo in chiave conservativa sull’intera area continentale
attraverso la stipula della Santa Alleanza tra le potenze cristiane di Rus-
sia, Austria e Prussia.
Nel caso specifico della Chiesa cattolica il suddetto ritorno al passato
prerivoluzionario appariva ancora più vero. Oltre al ripristino nel 1815
dello Stato pontificio e al suo ritorno sotto il governo del papa, venivano
infatti annullati i provvedimenti che riguardavano la soppressione de-
gli ordini religiosi, l’introduzione dei giuramenti per il clero, le nomine
statali dei vescovi, l’espropriazione dei beni ecclesiastici ecc. La restau-
dall’ancien régime allo sconvolgimento 25

razione, dal nome con il quale sarebbe stato indicato il periodo appros-
simativamente compreso tra il 1815 e il 1830, sembrava perciò dispiegarsi
in tutta la sua pienezza e con la malcelata soddisfazione dei nostalgici
del passato.
In realtà le cose non dovevano risultare così semplici. Altro, infatti,
era cancellare gli effetti militari e territoriali dell’espansione francese:
ed era quello in cui si erano impegnati nel congresso di Vienna e sotto
l’attenta regia del principe di Metternich i ministri plenipotenziari de-
gli Stati che avevano sconfitto Napoleone. Altro, invece, era annullare
l’effetto prodotto per oltre vent’anni dalla circolazione in buona parte
dell’Europa di idee che avevano trasformato i sudditi in cittadini; che
avevano scosso dalle fondamenta il precedente assetto sociale dichia-
rando finiti i privilegi di nascita dei nobili; che avevano secolarizzate,
sottraendole al precedente controllo ecclesiastico, l’istruzione e l’assi-
stenza; che avevano soprattutto consacrato il ruolo guida della classe
borghese nella gestione dello Stato e dell’ordine sociale. Idee che, oltre-
tutto, ancor prima del 1789 erano state largamente diffuse dai pensatori
illuministi.
Tale auspicato annullamento più che un compito arduo era dunque
un traguardo irraggiungibile, per quanto tentato dalle diplomazie attra-
verso l’attivazione di quello che sarebbe stato chiamato in sede storio-
grafica “concerto europeo”. Se ne resero ben presto conto alcuni dei più
acuti rappresentanti del cattolicesimo controrivoluzionario. Scriveva ad
esempio nel 1821 l’abate francese Félicité de Lamennais al nobile savo-
iardo Joseph de Maistre:

Io desidererei di tutto cuore condividere le vostre speranze nell’avvenire ma vi


confesso che la mia debole vista non riesce a intravvedere, in questo mondo che
si dissolve, il germe di una restaurazione completa e durevole. Io cerco invano di
concepire con quale mezzo il genere umano potrebbe guarire dalla malattia di
cui è affetto. Possa io ingannarmi! ma la credo mortale8.

In effetti il cambiamento era avvenuto: e sia che lo si considerasse una


malattia come faceva Lamennais, sia che lo si apprezzasse, restava il fatto
che occorreva misurarsi con esso9. Iniziare, cioè, a misurarsi con quella
che si stava ormai profilando come la moderna e secolarizzata società
borghese. Una società che era tutt’al più disposta a tollerare le pratiche
religiose di una parte dei suoi membri, ma certo non a farsi guidare, né
nell’intimo delle coscienze, né sul piano pubblico delle istituzioni, da
26 società, stato e chiesa in italia

princìpi proclamati da una realtà come la Chiesa che si riteneva legata al


passato e fortemente compromessa con esso10.
Nei vari Stati nei quali risultava tuttora divisa la penisola italiana non
si ebbe, rispetto ai suddetti problemi, un immediato e compatto schie-
rarsi da parte degli ambienti ecclesiastici. Ai vertici dello Stato pontifi-
cio, per esempio, ci si trovava nell’ultimo scorcio del papato di Pio vii e
si contrastavano tra loro le posizioni dei cardinali più tolleranti e quelle
dei cardinali (detti zelanti) più rigidamente ostili al recente cammino
della storia.
Oggetto principale del contrasto di opinioni era la decisione di in-
trodurre o meno nello Stato pontificio delle riforme di natura ammini-
strativa o inerenti ad alcune libertà moderne (come la libertà di stampa)
allo scopo preventivo di attenuare l’insofferenza delle popolazioni e di
rendere meno incombente il desiderio di progetti insurrezionali. Una
decisione che in quegli anni sarebbe stata spesso caldamente e inutil-
mente suggerita a Roma dagli stessi Stati che avevano rimesso il papa sul
suo trono temporale.
A fronte di questa prioritaria preoccupazione di governo, i vescovi
e il clero impegnati nella cura della vita religiosa dei fedeli nelle varie
zone della penisola vivevano invece il problema del nuovo rapporto con
la società da un’altra prospettiva: quella dell’auspicato ritorno a una si-
tuazione di ordine sociale che consentisse la piena ripresa della vita pa-
storale. Dal loro punto di vista, infatti, le grandi questioni ideologico-
istituzionali e le conseguenti prese di posizione a favore o contro la mo-
narchia, a favore o contro i governi che si stavano avviando verso quel
processo di “costituzionalizzazione” degli Stati in progressiva diffusione
in Europa, erano tutto sommato secondarie.
Non nel senso che monarchia assoluta, monarchia costituzionale,
repubblica, fossero per loro equivalenti: essi restavano infatti, per la
maggior parte, dei sostenitori della monarchia assoluta. Ma nel senso
che il problema principale per chi aveva la responsabilità di guidare una
diocesi o una parrocchia era rappresentato nella nuova situazione dal
fatto che le popolazioni, quelle per ora che vivevano nelle città mentre
l’estensione del fenomeno nelle campagne sarebbe avvenuta solo in epo-
ca successiva, iniziavano a dare segni di allontanamento dalla Chiesa: sia
attraverso un affievolirsi della partecipazione ai sacri riti, sia attraverso
l’assimilazione di una mentalità non più impostata sui princìpi della re-
ligione cattolica.
Si stava cioè delineando il fenomeno che nella sua globalità, quindi
dall’ancien régime allo sconvolgimento 27

con riferimento sia agli orientamenti delle classi dirigenti della società
sia al comportamento della gente comune, sarebbe stato denunciato
dai cattolici come scristianizzazione, ma che si sarebbe dovuto più
correttamente chiamare secolarizzazione. Non si trattava, infatti, pro-
priamente dell’abbandono di una data religione (il cristianesimo, ap-
punto), quanto piuttosto di un generale attenuarsi del senso religioso
in vari ambiti attinenti all’esistenza: dal modo di concepire una socie-
tà in profonda trasformazione, per gli effetti di fenomeni di enorme
portata quali la industrializzazione, l’inurbamento, il pauperismo che
ne derivò almeno in una prima lunga fase, ai criteri che guidavano
la popolazione nelle principali scelte della vita o nei più elementari
comportamenti quotidiani. Non si accettava più che il sacro scandisse
come una volta i tempi della vita, né che indicasse i suoi modelli. La
società si stava secolarizzando, diventava cioè autonoma dalla religio-
ne in vari suoi aspetti.
Il problema interpellò direttamente le iniziative del laicato cattolico
che abbiamo visto attivate sin dal 1782. Se allora, tuttavia, l’obiettivo
era per lo più limitato al fronteggiare l’espandersi delle pubblicazioni
massoniche, ora invece occorreva estendere i confini dell’opera di un
tempo: dirigendone l’azione di risposta/contenimento non solo verso
un settore specifico del mondo letterario e pubblicistico del tempo, ben-
sì contro i princìpi base di un’intera società moderna che dal punto di
vista politico, istituzionale e patrimoniale lasciava ancora largo spazio
all’aristocrazia, ma che nelle idee e nei comportamenti era già sostan-
zialmente proiettata verso l’affermazione di classi dirigenti allineate su
modelli borghesi e almeno formalmente liberali.
A questo cambiamento di avversario si affiancò comunque una so-
stanziale continuità nei metodi e talora anche nelle stesse persone che
furono protagoniste di questa nuova stagione di intervento. Molti di
coloro che già avevano militato dalla fine del Settecento nelle Amici-
zie cristiane del Diessbach confluirono infatti ora in una nuova realtà
chiamata Amicizia cattolica. Il suo fondatore era un ecclesiastico, Pio
Brunone Lanteri, già collaboratore del Diessbach. Tra i suoi primi e più
autorevoli membri sarebbe stato annoverato il già ricordato savoiardo
Joseph de Maistre11.
Neanche con le Amicizie cattoliche si poteva peraltro parlare di
un fenomeno di organizzazione su vasta scala del laicato cattolico: sia
perché si trattava tuttora di piccoli gruppi di appartenenti al ceto ari-
stocratico che si raccoglievano attorno a taluni rappresentanti del clero
28 società, stato e chiesa in italia

avverso alla società moderna per difendere allo stesso tempo la religione
e il sistema monarchico; sia perché la loro diffusione rimase per lo più
circoscritta al Piemonte. Al di là di questo va registrata un’importante
differenza rispetto alle Amicizie cristiane: le Amicizie cattoliche erano
infatti un’iniziativa pubblica e non più clandestina.
La stampa fu in ogni caso il terreno principale, se non esclusivo, sul
quale si impostò in quegli anni la reazione cattolica italiana di fronte alla
società borghese che si stava delineando. Accanto infatti alla ricordata
Amicizia cattolica fondata nel 1817, tra il 1821 e il 1822 in chiara risposta
agli eventi insurrezionali del 1821 si ebbe la nascita in diverse città ita-
liane di riviste ostili ad ogni possibile accordo tra la Chiesa e la società
moderna.
In particolare si segnalarono: a Napoli l’“Enciclopedia ecclesiastica e
morale”, a Modena le “Memorie di religione, di morale e di letteratura”,
a Torino “L’Amico d’Italia”. I primi due erano periodici di cultura e di
informazione prevalentemente ecclesiastica, il terzo invece, pur essendo
dello stesso orientamento ideologico, era frutto dell’iniziativa del nobile
torinese Cesare Taparelli d’Azeglio: un aristocratico attorno al quale si
raccoglieva gran parte del locale cattolicesimo conservatore.
Di quell’ambiente c’è rimasta una descrizione, non priva di sarcasmo,
del figlio di Cesare, lo scrittore politico, patriota e poi primo ministro
sabaudo Massimo d’Azeglio:

Dalle vicende del ’21 era nata una recrudescenza di zelo; ed io avevo trovato
Torino piena di società cattoliche, ove si pagava un’inezia, ma che servivano a
far popolo e tenere stretto il fascio gesuitico. Mi faceva ridere, veder certe delle
nostre dame pagare il loro quattrino, e stare con aria tutta compunta in società,
mentre m’era accaduto di vederle in altri momenti con occhi e visi tutt’altro
che mistici12.

Se la Torino degli anni venti e di Carlo Felice può dunque essere consi-
derata come la città nella quale più si era diffuso il primo laicato catto-
lico intransigente, seguita in questo dalla Modena di Francesco iv, nella
Lombardia dello stesso periodo si stava assistendo al formarsi di un’espe-
rienza alternativa: quella di un laicato cattolico anch’esso appartenente
ai ceti sociali più elevati ma di orientamento moderatamente liberale.
Uno dei suoi rappresentanti più significativi era il giovane Alessandro
Manzoni, che già nel 1819 aveva affidato allo scritto Osservazioni sulla
morale cattolica le opinioni che troveremo poi sviluppate negli scritti
dall’ancien régime allo sconvolgimento 29

della maturità e che nel 1823 avrebbe risposto negativamente alla propo-
sta fattagli da Cesare Taparelli d’Azeglio di scrivere per il torinese “L’A-
mico d’Italia”.
La posizione del Manzoni, considerato da Giorgio Candeloro come
l’iniziatore del cattolicesimo liberale italiano13, si differenziava da quelle
dei personaggi sinora ricordati sia per l’atteggiamento meno ostile nei
confronti della società moderna, sia per una visione della religione catto-
lica che lo portava al pari di altri famosi rappresentanti del cattolicesimo
liberale, primo tra tutti l’abate roveretano Antonio Rosmini, autore in
anni successivi dell’importante scritto Delle cinque piaghe della Santa
Chiesa, a immaginare una profonda riforma della Chiesa.
Il primo manifestarsi di queste esperienze alternative già negli anni
venti non deve tuttavia portare a un’interpretazione inesatta. Il fenome-
no che infatti risultò largamente più rappresentativo dell’atteggiamento
dei cattolici italiani negli anni della Restaurazione fu senz’altro quello
che abbiamo ricordato in precedenza. Gli atteggiamenti individuali di
Manzoni o di altri che negli ambienti dell’alta borghesia o dell’aristocra-
zia illuminata milanese la pensavano come lui non spostarono negli anni
venti l’ago di una bilancia cattolica che pendeva nettamente dalla parte
di una risposta negativa e arroccata nei confronti della società moderna.
Perché quella tendenza allora largamente minoritaria trovasse un più
largo terreno di consenso, sino a sfiorare per un breve periodo lo stesso
papato, si sarebbero dovuti attendere i due decenni successivi.

Dalle chiusure di Gregorio xvi


al mito di Pio ix
La svolta si verificò a partire dall’inizio anni trenta e interessò sia il piano
generale dei sistemi di governo di vari Stati europei sia quello, più circo-
scritto ma per noi non meno importante, della circolazione delle idee
all’interno del mondo cattolico. In entrambi i casi l’elemento innescante
venne ancora una volta dalla Francia.
Da un lato attraverso l’insurrezione del luglio 1830 che portò alla fine
della monarchia assoluta di Carlo x e all’instaurazione di un regime mo-
narchico parlamentare guidato da Luigi Filippo d’Orleans: sequenza di
eventi che rappresentò una sorta di antefatto alle successive rivoluzioni
che interessarono sempre nel 1830 il Belgio e la Polonia. Dall’altro lato
30 società, stato e chiesa in italia

mediante la pubblicazione dall’ottobre dello stesso 1830 del settimanale


“L’Avenir”, il cui motto quanto mai indicativo era «Dieu et la liberté».
L’iniziativa era stata presa da quello stesso Lamennais che dopo essere
stato a lungo uno dei pensatori più ascoltati nei circoli del cattolicesimo
intransigente si era progressivamente spostato nella seconda metà degli
anni venti verso posizioni riconducibili al cattolicesimo liberale.
La reazione dei vertici della Chiesa cattolica si sviluppò secondo una
linea di netta continuità con quella chiusura nei confronti della società
moderna di cui abbiamo già ripetutamente parlato. Il fatto anzi che sulla
scena politica e istituzionale di gran parte dell’Europa la classe borghese
stesse ormai definitivamente scalzando quella aristocratica e che gli epi-
sodi insurrezionali si fossero estesi nel 1831 anche a numerose zone dello
Stato pontificio accentuò ulteriormente il giudizio nettamente negativo
che già prevaleva negli ambienti romani.
Con l’enciclica Mirari vos dell’agosto 1832 il nuovo papa Gregorio
xvi, già autore prima di divenire pontefice di uno scritto controrivolu-
zionario dal titolo Il trionfo della Santa Sede, compiva un salto di qualità
all’interno dei giudizi che già i suoi predecessori avevano diffuso rispet-
to agli eventi degli ultimi decenni. Nell’enciclica infatti non ci si limi-
tava a denunciare l’uno o l’altro degli aspetti caratteristici della società
moderna, ma la si giudicava negativamente nella sua globalità.

Diciam cose, Venerabili Fratelli, le quali avete voi pure di continuo sotto gli
occhi vostri e che deploriamo perciò con pianto comune: superba tripudia la
improbità, insolente la scienza, licenziosa la sfrontatezza […]. Echeggiano orri-
bilmente le Accademie e le Scuole di mostruosa novità di opinioni, con cui non
più occultamente e con secrete mine la Cattolica fede si attacca, ma scoperta-
mente sotto gli occhi di tutti orrida e nefanda guerra le si muove. Imperroché
corrotti gli animi dei giovani allievi per gli insegnamenti viziosi, e per i pravi
esempi dei precettori, si è dilatato ampiamente il guasto lacrimevole della Re-
ligione ed il funestissimo pervertimento dei costumi. Scosso per tal maniera il
freno della Santa Religione, che è la sola sopra cui si reggono saldi i Regni, e
ferma si mantiene la forza e l’autorità di ogni dominazione, vedesi aumentare la
sovversione dell’ordine pubblico, la decadenza dei Principati e il disfacimento
di ogni legittima potestà14.

Nell’emettere questo giudizio il papa fissava inoltre i termini dell’atteg-


giamento che di fronte a ciò che stava avvenendo avrebbe dovuto neces-
sariamente prendere la Chiesa: un atteggiamento di inappellabile con-
danna, emblematicamente raffigurato dal richiamo a un versetto biblico
dall’ancien régime allo sconvolgimento 31

nel quale l’apostolo Paolo rivolgendosi ai cristiani di Corinto chiedeva


loro se avrebbe dovuto presentarsi per «domar[li] con il bastone» (vir-
ga compescere).
La presa di posizione di Gregorio xvi risultò indubbiamente una
conferma della contiguità che esisteva tra le idee dei cattolici più con-
servatori e quelle che prevalevano allora a Roma. E l’esplicita condanna
con la quale si respinse nel 1834 il tentativo di dialogo compiuto da La-
mennais attraverso il libro Paroles d’un croyant chiarì ogni residuo dub-
bio sugli orientamenti del papa. Tuttavia, proprio nel momento in cui
si consumavano questi atti i rapporti di forza tra le posizioni presenti
all’interno del mondo cattolico italiano entravano in una fase di pro-
gressiva ridefinizione.
Da un lato, infatti, i principali centri propulsori del cattolicesimo in-
transigente attraversavano una fase di indebolimento, tra la fine degli
anni venti e l’inizio degli anni trenta, a causa di una sequenza di even-
ti che avevano tra l’altro registrato a Torino la chiusura dell’“Amicizia
cattolica” (1828) e della rivista “L’Amico d’Italia” (1829), e a Modena il
passaggio dalle ricordate “Memorie di religione...” alla ben più modesta
e velleitaria “Voce della verità”. Dall’altro lato l’azione dei precedente-
mente sparuti esponenti del cattolicesimo liberale stava allargando i pro-
pri confini coinvolgendo una cerchia sempre più ampia di personalità sia
nel laicato cattolico che negli stessi ambienti ecclesiastici.
Per gran parte degli anni trenta l’azione dei cattolici liberali si svilup-
pò, quasi esclusivamente, sul piano della diffusione delle idee. Vi contri-
buirono in diversi con la propria opera intellettuale. Scrittori quali Ales-
sandro Manzoni e Niccolò Tommaseo. Filosofi come Antonio Rosmini
e Vincenzo Gioberti. Storici quali Cesare Balbo, Luigi Tosti e altri. Ma
all’inizio degli anni quaranta la situazione cambiò in modo sostanziale
per un insieme di circostanze riconducibili alla pubblicazione nel 1843
dello scritto di Gioberti Del primato morale e civile degli italiani, con-
cordemente ritenuto il manifesto e la spina d’innesto del movimento
neoguelfo italiano: cioè di quella corrente di pensiero e anche di pres-
sione sulla opinione pubblica e sui governi degli Stati italiani preunitari
che auspicò il compimento dell’unità territoriale e politica italiana nel
formarsi di una federazione di Stati sottoposti alla presidenza del papa.
Il neoguelfismo non era circoscrivibile alle opinioni del Gioberti. Né
si potevano considerare del tutto coincidenti lo stesso neoguelfismo e il
cattolicesimo liberale: non solo perché vari esponenti del secondo non
condividevano affatto le idee del Gioberti15, ma se non altro perché il pri-
32 società, stato e chiesa in italia

mo si muoveva in una circoscritta ottica di progettualità politica mentre


il cattolicesimo liberale spaziava su un ambito ben altrimenti vasto.
Il loro incontro fu in ogni caso molto importante perché, come ha
chiarito Candeloro, dopo la pubblicazione del Primato

il cattolicesimo liberale divenne un vasto movimento politico. Fu questo il


merito maggiore del Gioberti, il quale intuì che l’ideologia cattolico-liberale
poteva servire ad un’azione politica di grande ampiezza, diretta a rompere il
blocco delle forze reazionarie e a guadagnare al movimento nazionale una parte
notevole di quegli strati sociali, che fino a quel momento erano rimasti incerti,
o inerti, o addirittura ostili16.

Se tuttavia il progetto neoguelfo ruotava attorno al perno essenziale del


papato, la figura di Gregorio xvi, il papa della Mirari vos e di una politi-
ca interna dello Stato pontificio quantomeno poco in linea con i criteri
amministrativi degli Stati moderni, non era particolarmente idonea a
raccogliere su di sé e a dare concreta attuazione al suddetto progetto. Gli
anni che trascorsero tra la pubblicazione dell’opera di Gioberti (1843) e
l’elezione di un nuovo pontefice (1846) assistettero dunque a un acceso
e pubblico dibattito che, al di là del cozzo tra le divergenti opinioni degli
intervenuti, mantenne alto il livello di attesa per i futuri sviluppi della
proposta giobertiana.
È importante sottolineare questo aspetto del problema. E per due
ragioni. Innanzitutto perché nella storia otto-novecentesca del cattoli-
cesimo italiano non accadrà mai più che un programma originariamen-
te concepito all’interno degli ambienti innovativi riscuota, seppur per
breve tempo, un consenso così ampio. In secondo luogo perché senza
tener presente quell’alto livello di attesa non riuscirebbe del tutto facile
spiegare come tra il 1846 e il 1848 si arrivò al cosiddetto mito di Pio ix.
Subentrato infatti a Gregorio xvi nel giugno 1846, Pio ix inaugu-
rò un pontificato che si presentava indubbiamente con segni diversi
rispetto a quello del predecessore. Ma questi segni non venivano tan-
to dal contenuto dottrinale dei suoi primi documenti, come dimostra-
va chiaramente l’enciclica programmatica Qui pluribus, per tanti versi
in linea col magistero di Gregorio xvi, quanto da una serie di atti che
nel clima particolare di cui si è detto ebbero un effetto poco meno che
dirompente: dall’amnistia generale del luglio 1846, all’editto sull’at-
tenuazione della censura sulla stampa del marzo 1847, allo statuto del
marzo 1848.
dall’ancien régime allo sconvolgimento 33

In realtà ciascuno di questi atti presentava una componente innova-


tiva e una componente moderata e tradizionale. Era dunque, con evi-
denza, il clima che si era venuto formando attorno agli esordi di questo
pontificato a farne spesso percepire alle popolazioni solo la prima com-
ponente. Ed era chiaro che tale clima si alimentava soprattutto, se non
esclusivamente, della speranza che ciò che era stato detto nel programma
neoguelfo divenisse una concreta realtà.
L’iniziale invio di truppe pontificie verso il confine settentrionale
dello Stato all’inizio della guerra austro-piemontese nella primavera del
1848 e la pressoché immediata comunicazione da parte di Pio ix che egli
non intendeva in realtà partecipare alla guerra contro l’Austria (allocu-
zione del 29 aprile 1848) rappresentarono, in rapidissima sequenza, la
fugace certezza e la disillusione più amara riguardo al sogno neoguelfo.
Gli eventi che seguirono, con la fuga di Pio ix a Gaeta, il tentativo re-
pubblicano a Roma, la sua repressione per volontà dello stesso pontefice
e il successivo mantenimento di truppe austriache a protezione dei con-
fini settentrionali dello Stato pontificio, rappresentarono il drammatico
e grottesco finale di una stagione nella quale si erano manifestate le più
impensabili e contrastanti situazioni.
Dietro a tutto questo, tuttavia, non crollava solo un mito costruito
più o meno artificiosamente. Veniva piuttosto a smarrirsi e per lungo
tempo, come avrebbe dimostrato la storia successiva, la possibilità di
quell’incontro tra la Chiesa e la società moderna che i cattolici liberali
auspicavano. Quanto al cattolicesimo italiano e ai suoi equilibri interni
l’ago della bilancia si tornava a spostare in modo quanto mai deciso dal-
la parte di coloro (intransigenti) che avevano invece sempre osteggiato
tale incontro. E infine iniziava a profilarsi una specie di antimito di Pio
ix e in generale della Chiesa italiana: quello relativo alla loro ostilità e
resistenza alla unificazione territoriale e politica dell’Italia. Un antimi-
to che avrebbe accompagnato la presenza cattolica in Italia almeno sino
alla vigilia della Prima guerra mondiale.
2
Gli anni del muro contro muro:
il primo intransigentismo

La vittoria dell’intransigentismo
L’orizzonte italiano all’indomani degli eventi del 1848-49 era quanto
mai cupo. Il grande consenso di cui aveva goduto Pio ix anche al di fuo-
ri degli ambienti cattolici si era trasformato in disincanto improvviso,
lasciando il posto a un’amara sensazione di tradimento. Tale condizione
di abbandono riguardava soprattutto coloro che avevano scommesso in
pieno sulla prospettiva neoguelfa, credendovi sinceramente1.
Oltre alla sconfitta politica, questi dovevano ora passare attraverso
le inevitabili ritorsioni degli avversari interni al mondo cattolico: ritor-
sioni che si sarebbero espresse sia con attacchi da parte della stampa e
della pubblicistica di orientamento intransigente, sia con provvedimenti
dell’autorità ecclesiastica quali la messa all’Indice degli scritti di alcuni
dei pensatori che si erano maggiormente esposti (Rosmini e lo stesso
Gioberti, reo tra l’altro di aver alimentato una vivace polemica contro la
Compagnia di Gesù, ritornata in auge e promotrice dal 1850 della fon-
dazione di un periodico – “La Civiltà cattolica” – che avrebbe poi svolto
un ruolo decisivo)2.
La caduta in disgrazia degli esponenti di quel multiforme amalgama
di cattolici liberali, cattolici riformatori ed esponenti del neoguelfismo,
aprì ad altri degli spazi di manovra impensabili sino a poco tempo pri-
ma. Tra questi non c’erano solamente coloro che avevano seguito con
forte preoccupazione la crescita del mito di Pio ix quale protagonista
designato dell’unificazione italiana, ma anche quelli che avevano mal
tollerato persino gli atti di moderata apertura con i quali il papa aveva
inaugurato la propria funzione di sovrano dello Stato pontificio.
Di conseguenza, gran parte degli stessi programmi di ammoderna-
mento amministrativo dello Stato, che nulla avevano a che fare con le
implicazioni politiche e ideologiche del neoguelfismo, vennero tosto
36 società, stato e chiesa in italia

abbandonati o perlomeno ridimensionati3. In una parola: al clima en-


tusiastico e un po’ artificiale del 1846-48 si venne sostituendo un clima
greve, indurito e di forte preoccupazione per il futuro, vista la quantità
di problemi irrisolti che rimaneva sul tappeto.
In questo clima si posero le basi della supremazia dell’intransigenti-
smo4. Cioè il prevalere, su ogni altra prospettiva, di un atteggiamento di
netta chiusura e di muro contro muro nei confronti di coloro che a vario
titolo mettevano in dubbio la correttezza della linea papale: sia in ordi-
ne agli eventi specifici degli ultimi mesi, sia in generale rispetto a come
egli stava impostando i rapporti tra la Chiesa e la società. Si trattava di
un panorama di dissensi, a dire il vero, piuttosto vasto: che andava dagli
ambienti tradizionalmente ostili alla Chiesa, a coloro che da posizioni
liberali moderate ne avevano sperato un sostegno alla causa naziona-
le italiana, ad altri infine che abbiamo già ricordato e che si trovavano
all’interno dello stesso cattolicesimo.
Ma l’intransigentismo non era solo un atteggiamento. Era e si sareb-
be confermato nel tempo, pur con forme di diversificazione che non
vanno trascurate e che vedremo, una mescolanza di vari ingredienti.
Il primo di questi era rappresentato da una posizione ideologica for-
temente conservatrice, i cui elementi principali erano rinvenibili nel
principio di autorità, nel sostegno al legittimismo monarchico e nella
diffidenza verso ogni forma di sistema costituzionale. Col trascorrere
del tempo la simpatia nei confronti della forma monarchica si sarebbe
allentata, sulla base del principio che la Chiesa era sostanzialmente in-
differente alle specifiche forme di governo, fatta salva la tutela dei suoi
diritti; la diffidenza verso i sistemi costituzionali e in genere verso il par-
lamentarismo sarebbe invece rimasta a lungo.
Un secondo ingrediente riguardava la caratteristica religiosità tradi-
zionale e affettiva sostenuta dagli esponenti dell’intransigentismo. Una
religiosità che ruotava pressoché esclusivamente attorno alle devozioni
al Sacro Cuore di Gesù, al Sacro Cuore di Maria e all’Immacolata con-
cezione: il cui dogma venne non a caso promulgato da Pio ix proprio in
quegli anni (8 dicembre 1854). E che avrebbe trovato un ulteriore straor-
dinario sviluppo popolare dopo l’inizio, nel 1858, degli episodi miraco-
losi di cui si proclamò testimone a Lourdes Bernadette Soubirous.
Un terzo ingrediente concerneva la visione gerarchica e accentrata
della Chiesa. Suo presupposto fondamentale era la convinzione che la
stessa Chiesa fosse, a differenza delle società umane, una società perfet-
ta: poiché dotata di tutti gli strumenti necessari al raggiungimento del
gli anni del muro contro muro 37

proprio fine soprannaturale. Tale perfezione si traduceva tra l’altro in


una struttura a piramide, il cui vertice era rappresentato dal papa, il livel-
lo intermedio dai vescovi e quello inferiore dal clero. Sin dall’età antica i
teologi avevano inoltre parlato della infallibilità di cui godeva la Chiesa
nel suo insieme. Ma con Pio ix il concilio Vaticano i (1870) avrebbe
approvato il dogma che riconosceva al papa quella stessa infallibilità pre-
cedentemente attribuita alla Chiesa.
Un ultimo ingrediente era infine riconoscibile nel monolitismo cul-
turale. Fino alla metà del xix secolo, infatti, nell’ambito degli studi ec-
clesiastici si erano confrontate scuole di pensiero tra loro differenziate; e
questo aveva consentito non solo il permanere delle specifiche tradizioni
dei diversi ordini religiosi, ma anche lo svilupparsi di nuove esperienze
di indagine filosofica (Rosmini), teologica (Newman) e storica (scuola
tedesca di Tubinga). Ora invece prevaleva in modo esclusivo il ritorno
al pensiero tardomedievale di Tommaso d’Aquino e il cosiddetto neoto-
mismo – grazie tra l’altro all’esplicito intervento della enciclica Aeterni
Patris, promulgata dal successivo pontefice Leone xiii – diveniva l’uni-
co sistema di pensiero ufficialmente accettato all’interno dei seminari e
delle università ecclesiastiche.
Questo complesso fenomeno, le cui remote origini si trovavano già
in molti aspetti della risposta controrivoluzionaria di fine Settecento e
inizio Ottocento, non aveva più dunque antagonisti di analogo peso e
consenso nel cattolicesimo del dopo 1848 e del secondo Pio ix.
È con tale bagaglio che la Chiesa degli anni cinquanta riprese il pro-
prio confronto con la società moderna. Da un certo punto di vista il pro-
blema era ancora quello sorto all’indomani dello scoppio della Rivolu-
zione francese: in che modo, cioè, avrebbero potuto convivere la Chiesa
e la società in un contesto diverso da quello di Ancien régime? Gli ultimi
avvenimenti avevano fatto cadere ogni dubbio su una possibile convi-
venza che non passasse attraverso precise rinunce da entrambe le parti.
Restavano altre possibili eventualità.
Una prima era la più appetibile nell’ottica del cattolicesimo intran-
sigente: ritornare a una parziale situazione di società cristiana grazie
alla stipula di concordati particolarmente vantaggiosi per la Chiesa (un
esempio tipico, e tra l’altro applicato a territori geograficamente italiani,
sarebbe risultato quello del 1855 con l’Austria). Una seconda era invece
la più lontana dal punto di vista intransigente e consisteva nella piena e
consensuale separazione di interessi, strumenti e finalità tra la Chiesa e
gli Stati che aspiravano a divenire laici (sostanzialmente la proposta che
38 società, stato e chiesa in italia

sarebbe stata formulata dal Cavour alla nascita del Regno d’Italia). Suo
corollario indispensabile era ovviamente il fatto che la Chiesa accettasse
la formale secolarizzazione degli Stati: cioè la fondazione degli stessi su
regole e princìpi essenzialmente laici. Una terza, infine, era l’inevitabile
sbocco del rifiuto della seconda e portava all’impegno costante da parte
cattolica nell’impedire appunto la secolarizzazione degli Stati.
Nella realtà italiana successiva al 1848 un caso particolarmente em-
blematico fu quello del Regno di Sardegna: non solo in sé, ma anche
perché senza che allora lo si potesse prevedere quella esperienza sarebbe
stata una sorta di prova generale rispetto alla situazione nella quale ci si
sarebbe trovati pochi anni dopo con la nascita del Regno d’Italia. Innan-
zitutto, a differenza di quanto era avvenuto dopo il 1848 negli altri Stati
italiani, nel Regno di Sardegna non era stato revocato lo statuto emana-
to da Carlo Alberto il 4 marzo 1848. Tale statuto (all’art. i) riconosceva
certo che la cattolica era l’unica religione dello Stato, ma poi, oltre a
consentire l’esercizio del culto anche alle altre religioni, sviluppava un
discorso istituzionale che andava verso una chiara autonomia dello Stato
da ingerenze confessionali.
Era questa la premessa di un orientamento che negli anni successivi si
sarebbe ulteriormente precisato, come vedremo; e che avrebbe innescata
la vibrata reazione di un mondo cattolico sabaudo nel quale l’antica tra-
dizione conservatrice delle Amicizie del Diessbach e del Lanteri, e poi
di “L’Amico d’Italia” del Taparelli d’Azeglio, aveva trovato un naturale
prolungamento negli scritti di Emiliano Avogadro della Motta e nell’a-
zione politica di Clemente Solaro della Margarita, ministro degli Esteri
e ascoltato consigliere di Carlo Alberto.
La spinta al confronto si ebbe nel 1850, quando agli esordi del regno
di Vittorio Emanuele ii venne presentato un primo progetto di legge, se-
guìto poi da altri nel corso del decennio, riguardante la materia ecclesia-
stica. Tali progetti, che dal cognome del ministro guardasigilli presero il
nome di Leggi Siccardi, andavano decisamente nella linea prima rilevata
a proposito dello Statuto albertino, intendendo eliminare vari privilegi
goduti sino ad allora dal personale ecclesiastico dello Stato.
La storia particolare di quelle leggi non interessa qui direttamente.
Merita invece la nostra attenzione il fatto che da quell’episodio ebbe
inizio un braccio di ferro durato l’intero decennio. Vi si misurarono da
un lato una classe dirigente piemontese che intendeva modernizzare lo
Stato eliminando ogni residuo feudale e dall’altro un cattolicesimo au-
toctono che, intendendo opporsi a tale disegno con ogni mezzo, finì di
gli anni del muro contro muro 39

fatto per marcare una tappa importante nella storia del laicato cattolico
italiano. Sino ad allora, infatti, il dato costante nell’attività dei laici cat-
tolici era consistito nell’uso della stampa quale mezzo per la diffusione
delle proprie idee. Nel Piemonte di metà Ottocento, invece, si giunse
per la prima volta in Italia ad utilizzare gli strumenti previsti dal sistema
parlamentare statutario per partecipare direttamente alla vita politica
dello Stato.
L’occasione si presentò alle elezioni generali del novembre 1857 e fu
sfruttata con grande abilità: dal numero di trenta deputati che il primo
ministro Camillo Benso di Cavour temeva potessero essere eletti tra le
fila dei candidati cattolici si passò infatti alla sessantina del risultato fina-
le. Lo stesso Cavour commentò così, privatamente, l’accaduto:

Il partito clericale ha agito con una coesione, un’intelligenza sorprendente. Si


è organizzato in sordina con l’aiuto dei vescovi e dei curati; ha irreggimentato
gli elettori delle campagne; ha tenuto segreti i suoi orientamenti fino alla vigilia
delle elezioni e il giorno della battaglia è sceso sul terreno elettorale pienamente
organizzato, e i suoi avversari si mostravano fiduciosi e divisi5.

All’interno del gruppo degli eletti non c’erano solo laici ma anche eccle-
siastici. Tra questi ultimi, inizialmente eletto nel collegio sardo di Ori-
stano ma poi escluso per presunti brogli, c’era anche il sacerdote Giaco-
mo Margotti. La circostanza merita di essere sottolineata perché, oltre a
risultare uno dei più accesi esponenti dell’intransigentismo, il Margotti
all’indomani della formazione del Regno d’Italia avrebbe condotto dal-
le pagine torinesi di “L’Armonia” una famosa campagna di stampa a fa-
vore dell’astensione dei cattolici dalle urne.
Su questo tuttavia ritorneremo. Ciò che invece merita di essere no-
tato subito è che l’episodio elettorale del 1857, pur nella sua fisionomia
pionieristica, si inseriva all’interno di una fase storica nella quale da di-
verse parti si pensava ormai alla necessità di organizzare in modo più
sistematico il laicato cattolico attivo nei vari Stati preunitari. Ci avevano
riflettuto in quegli stessi anni i vescovi piemontesi, guidati dall’intran-
sigente monsignor Luigi Fransoni. Un tentativo nel Lombardo-Veneto
era stato effettuato nel 1856 da parte del bresciano Cesare Noy. Ma so-
prattutto si era mosso in tal senso in Sicilia sin dal 1848 il gesuita Luigi
Taparelli d’Azeglio, rispettivamente figlio e fratello dei già ricordati Ce-
sare e Massimo.
Nel suo progetto, dopo essersi chiesto chi potesse rappresentare nella
40 società, stato e chiesa in italia

vita politica siciliana l’interesse religioso e aver concluso per diverse ra-
gioni che né i vescovi, né il clero, né i religiosi, egli dichiarava:

Conviene si trovino alcuni cattolici arditi, periti nelle forme costituzionali, ze-
lanti pel bene della Chiesa, capaci di sagrificar se medesimi per gli interessi di
Dio, i quali assumano l’incarico di farsi motori e di guidare con prudenza e con
fermezza il senso cattolico delle moltitudini, il quale in Sicilia è, la Dio mercé,
vivo e generoso. Quindi si comprende qual è il fine dell’associazione: essa pre-
tende di somministrare al cattolicismo siciliano quel primo impulso senza cui
l’operazione delle moltitudini è impossibile; e dar così ai vescovi uno stromento
laico atto a sostenere fra laici ogni onesta domanda6.

È appena il caso di notare che questo, come gli altri progetti cui si è fatto
cenno, risultava inserito a pieno titolo nell’ottica intransigente: se non
altro per quel senso di separatezza dal resto della società e di tendenza a
raccogliersi in una realtà associativa omogenea che non mi pare fossero
altrettanto diffusi nella mentalità degli esponenti del cattolicesimo li-
berale.

Di fronte alla nascita


del Regno d’Italia: non expedit
Nel breve volgere di un biennio, tuttavia, il confronto tra classe diri-
gente risorgimentale e cattolici intransigenti si spostava dallo scenario
piemontese a quello italiano. Il fattore innescante venne rappresentato
dall’aprirsi della cosiddetta seconda guerra d’indipendenza nazionale,
notoriamente suscitata dal governo piemontese nel quadro di un’allean­
za antiaustriaca con la Francia e in parziale contropartita rispetto alla
partecipazione di truppe piemontesi alla guerra di Crimea di alcuni anni
precedente. In conseguenza infatti della ripresa delle ostilità con il Re-
gno di Sardegna, l’Austria richiamava e destinava alla guerra nel giugno
1859 le truppe che dal 1849 garantivano la difesa dei confini settentrio-
nali dello Stato pontificio.
In tale situazione gli abitanti sia della Legazione delle Romagne che
della Marca pontificia insorgevano contro le guarnigioni papali di stan-
za sul territorio. L’esito fu diversificato. Mentre infatti nelle future Mar-
che la repressione delle truppe pontificie ebbe successo, nella Legazione
delle Romagne, anche grazie all’arrivo di contingenti militari del Regno
gli anni del muro contro muro 41

di Sardegna, venivano al contrario istituite delle municipalità provvi-


sorie, che si incaricarono da un lato di difendere l’indipendenza contro
le truppe papaline e dall’altro di mantenere l’ordine e impedire che la
rivolta contro Roma si tramutasse in un fenomeno rivoluzionario senza
controllo e a tutto vantaggio delle correnti patriottiche più radicali.
Nel marzo 1860 la parte settentrionale dello Stato pontificio, assie-
me alla Toscana e ai ducati dell’Emilia, votava mediante plebiscito l’an-
nessione al Regno di Sardegna. Tra maggio e inizio ottobre l’iniziativa
garibaldina portava alla progressiva liberazione dai Borboni dei territori
dell’Italia meridionale, sancita da plebisciti il 21-22 ottobre. A settembre
nel frattempo le truppe piemontesi occupavano le Marche e l’Umbria,
che sempre attraverso un plebiscito votavano il 4 novembre 1860 la pro-
pria annessione al Regno di Sardegna. Il 14 marzo 1861, infine, veniva
proclamata la nascita del Regno d’Italia.
Del passato Stato pontificio restavano soggetti al controllo papale il
Lazio e al suo interno ovviamente Roma. Non si trattava, dunque, di una
cessazione formale e completa del potere temporale del papa. Era tutta-
via evidente che, sul piano delle dinamiche internazionali e in partico-
lare degli equilibri tra potenze che caratterizzavano dal punto di vista
diplomatico il concerto europeo, il problema stava chiaramente assumen-
do un profilo ben diverso da quello che aveva avuto sino ad allora. Al di
là di questo, restava incombente l’eventualità che l’esercito piemontese
attraversasse nuovamente i confini pontifici per portare a termine l’an-
nessione dell’intero territorio italiano.
Gli anni sessanta sarebbero trascorsi in attesa e ad un tempo in pre-
parazione di questo evento: che com’è noto si sarebbe effettivamente
verificato nel settembre 1870. Nel frattempo il mondo cattolico italiano
si trovò di fronte alla duplice necessità di rispondere agli avvenimenti
che si erano susseguiti a velocità vertiginosa tra la metà del 1859 e la fine
del 1860 e di rapportarsi all’inedita presenza del Regno d’Italia.
Tale regno risultava uno Stato nuovo dal punto di vista formale e ter-
ritoriale, ma era in effetti una dilatazione del Regno di Sardegna. Ciò
significava in concreto l’estensione all’intero territorio italiano, salvo il
Lazio, dei criteri amministrativi e delle leggi già in vigore nello Stato sa-
baudo: come confermava tra l’altro l’assunzione dello Statuto albertino
quale legge costituzionale del nuovo Stato. Accanto a questo anche una
buona parte del personale dirigente dell’ex Regno di Sardegna passava di
fatto a guidare il Regno d’Italia.
Cavour ne era l’esempio più rilevante, dato che dopo essere stato a
42 società, stato e chiesa in italia

lungo primo ministro piemontese egli andava a ricoprire la medesima


carica nel governo italiano. I pochi mesi che trascorsero tra l’assunzione
del nuovo incarico e la sua scomparsa (sopravvenuta il 6 giugno 1861)
non gli avrebbero consentito di completare l’ambizioso disegno di uni-
ficare l’intera Italia, ma furono senz’altro molto importanti dal punto di
vista dei problemi che stiamo qui esaminando. Tali mesi vennero infatti
da lui dedicati, tra l’altro, al tentativo di trovare un accordo con Pio ix
che ratificasse ciò che era di fatto avvenuto nei due anni precedenti e che
mediante la cessione di Roma all’Italia, ne consentisse la destinazione a
capitale del nuovo regno.
Il presupposto da cui partiva Cavour, e che venne da lui ufficialmente
presentato nel parlamento italiano il 27 marzo 1861, era la necessità di
una piena separazione tra la Chiesa e lo Stato e il libero esercizio delle
rispettive funzioni in sfere proprie che non si sarebbero dovute né in-
contrare né tanto meno ostacolare. Nel discorso si diceva tra l’altro:

Ormai, o signori, mi pare che la questione dell’indipendenza del sovrano pon-


tefice, fatta dipendere dal potere temporale, sia un errore dimostrato matemati-
camente ai cattolici di buona fede, ai quali si dirà: il potere temporale è garanzia
d’indipendenza quando somministra a chi lo possiede armi e denari per garan-
tirla; ma quando il potere temporale d’un principe, invece di somministrargli
armi e denari, lo costringe ad andar a mendicare dalle altre potenze armi e de-
nari, egli è evidente che il potere temporale è un argomento non d’indipen-
denza, ma di dipendenza assoluta […]. Rimane a persuadere il pontefice che la
Chiesa può essere indipendente, perdendo il potere temporale. Ma qui mi pare
che, quando noi ci presentiamo al sommo pontefice, e gli diciamo: Santo Pa-
dre, il potere temporale per voi non è più garanzia di indipendenza; rinunziate
ad esso, e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a
tutte le grandi potenze cattoliche; di questa libertà voi avete cercato strapparne
alcune porzioni per mezzo di concordati, con cui voi, o Santo Padre, eravate
costretto a concedere in compenso dei privilegi, anzi, peggio che dei privilegi,
a concedere l’uso delle armi spirituali alle potenze temporali che vi accordava-
no un po’ di libertà; ebbene, quello che voi non avete mai potuto ottenere da
quelle potenze, che si vantavano di essere i vostri alleati e vostri figli devoti, noi
veniamo ad offrirvelo in tutta la sua pienezza; noi siamo pronti a proclamare
nell’Italia questo gran principio: Libera Chiesa in libero Stato7.

Rispetto quindi al problema dei territori che ancora costituivano lo Sta-


to pontificio Cavour proponeva al papa la completa rinuncia al potere
temporale, offrendogli in cambio l’approvazione di una legislazione in
materia ecclesiastica che garantisse allo stesso un altrettanto completo
gli anni del muro contro muro 43

esercizio delle sue funzioni spirituali e che, come nel caso del recente
concordato tra Santa sede e Austria, eliminasse gran parte di quei prin-
cìpi giurisdizionalistici che avevano accentuato in diversi Stati europei la
subordinazione delle gerarchie cattoliche nazionali dal rispettivo Stato8.
Nonostante lo svolgimento delle trattative fosse in corso ormai da
alcuni mesi, coinvolgendo tra l’altro taluni ecclesiastici favorevoli all’u-
nità d’Italia come l’ex gesuita Carlo Passaglia, la risposta papale fu pe-
rentoriamente negativa.
Già alcuni giorni prima del ricordato discorso di Cavour, Pio ix si era
d’altronde rivolto ai cardinali riuniti in concistoro segreto conferman-
do l’assoluta impossibilità di aderire alle richieste di coloro che dopo
avergli proposto di riconciliarsi con la civiltà moderna gli suggerivano
ora di riconciliarsi con l’Italia: «Colla quale audacissima e inaudita ri-
chiesta vorrebbero che questa Apostolica Sede, la quale fu sempre e sarà
il propugnacolo della verità e della giustizia, sancisca che la cosa ingiu-
stamente e violentemente rubata può tranquillamente ed onestamente
possedersi dall’iniquo aggressore»9.
Tale fermezza non sarebbe mai venuta meno e avrebbe rappresentato
uno dei nodi centrali della questione romana: il nome che da allora de-
signò il contenzioso che avrebbe caratterizzato i rapporti tra Santa sede
e Stato italiano sino alla stipula dei Patti lateranensi nel febbraio 1929.
Se messe a confronto con quella del pontefice le posizioni del mondo
cattolico italiano risultavano invece meno definite. Non tanto dal punto
di vista dei princìpi di fondo, rispetto ai quali pochi erano coloro che si
trovavano in reale dissidio con le ragioni addotte dal papa; ma piuttosto
da quello dei comportamenti concreti da tenere. Se da un lato infatti gli
ambienti ecclesiastici applicavano i provvedimenti previsti dallo stesso
Pio ix nel decreto Ad gravissimum, con il quale sin dal giugno 1859 si
erano colpiti con la scomunica coloro che avevano contribuito alle spo-
liazioni dello Stato pontificio, il laicato cattolico non disponeva né degli
strumenti del clero, che poteva negare e spesso negò i sacramenti agli sco-
municati, né di direttive uniformi. La stessa partecipazione alle elezioni,
che aveva offerto riscontri positivi in Piemonte nel 1857, non sembrava a
tutti il mezzo più idoneo per difendere la causa del papato nella situazio-
ne che si era venuta a creare con la nascita del Regno d’Italia.
Ad alcuni, per esempio, come il già ricordato don Margotti, la par-
tecipazione non sembrava affatto utile; e un suo articolo apparso su
“L’Armonia” di Torino nel gennaio 1861 fissò nelle parole «Né eletti,
né elettori» la formula che sarebbe divenuta il simbolo dei sostenito-
44 società, stato e chiesa in italia

ri dell’astensione. Negli ambienti romani, invece, prevalevano in quel


momento atteggiamenti più attendisti. Tanto più che pareva utile avere
rappresentanti cattolici all’interno di un parlamento che stava emanan-
do leggi restrittive in materia ecclesiastica e che, con la pubblicazione a
gennaio 1866 del Codice civile, interveniva di fatto in questioni di in-
teresse comune per la Chiesa e per lo Stato come quelle riguardanti il
matrimonio.
Così, il 1° dicembre 1866, il tribunale della Sacra penitenzieria die-
de responso favorevole al quesito se fosse legittimo o no per i cattolici
diventare membri del parlamento italiano. A parziale salvaguardia dei
princìpi si chiese peraltro agli eventuali eletti di accompagnare il giura-
mento prescritto dallo Stato con le parole: «Fatte salve le leggi divine
ed ecclesiastiche». Tale orientamento fece sì che nel periodo 1867-70
sedessero alla Camera una quindicina di deputati cattolici. Il loro ruolo
non fu particolarmente significativo dal punto di vista della difesa delle
ragioni della Chiesa, ma rappresentò un antefatto delle future allean-
ze parlamentari tra cattolici e liberali moderati che si sarebbero infittite
verso la fine del secolo.
In generale, tuttavia, la tattica che venne di nuovo e più diffusamente
messa in campo fu quella di fare pressione sull’opinione pubblica attra-
verso la stampa periodica e la pubblicazione di scritti di propaganda.
Su questa strada si incamminarono anche gli ambienti già riconosciuti
come cattolico-liberali e che ora venivano indicati come conciliatoristi
per il loro impegno a favore della conciliazione tra la Santa sede e lo Sta-
to italiano; un impegno sintetizzato dalla formula «Cattolici col Papa,
liberali con lo Statuto». Tra le testate espressione di tale orientamento
si distinse ad esempio “Annali cattolici”: fondata a Genova nel 1862, tra-
sferitasi a Firenze dopo aver assunto il nome di “Rivista universale”, per
poi divenire con l’ulteriore nome di “Rassegna nazionale” il periodico
conciliatorista più importante nell’Italia di fine Ottocento.
Questa realtà restava peraltro un fenomeno sostanzialmente elitario:
soprattutto dal punto di vista dei contenuti proposti ai lettori. Niente
a che vedere con il livello medio-popolare mantenuto in genere, faceva
eccezione una rivista di gesuiti di cui diremo tra poco, dalla proposta
quantitativamente ben più massiccia dei settori riconducibili all’intran-
sigentismo. In tale ambito, se Torino e il Piemonte sabaudi erano stati il
terreno d’innesto delle prime esperienze, ora il centro trainante risultava
Bologna. Lì, nei primi anni sessanta, si pubblicavano o contemporanea­
mente o talora come prolungamento l’uno dell’altro ben quattro testate:
gli anni del muro contro muro 45

“Albo cattolico”, “Il Conservatore”, “Il Patriota cattolico”, “L’Eco delle


Romagne”. E sempre in quella città veniva diffusa, con tirature sorpren-
denti per l’epoca, la collana “Piccole letture cattoliche”: un’iniziativa
ricalcata sull’esempio delle torinesi “Letture cattoliche” di don Bosco.
Il movimento intransigente era dunque in crescente fermento; ep-
pure, nonostante questo, risultava ancora di fatto una realtà magmatica
e mancante soprattutto di una linea comune o di direttive precise che
servissero a coordinare il fenomeno a livello nazionale. Un importante
punto di riferimento poteva in certa misura essere rappresentato dall’a-
zione ideologicamente fondamentale che stavano compiendo sin dal
1850 alcuni gesuiti attraverso la ricordata rivista “La Civiltà cattolica”:
di gran lunga il più importante periodico espresso dall’intransigentismo
italiano. Le sue pagine, tuttavia, restavano in prevalenza destinate a let-
tori ecclesiastici o perlomeno forniti di una certa formazione culturale
e religiosa.
Ad offrire quella linea comune intervenne così nuovamente il papa,
pubblicando con data 8 dicembre 1864 l’enciclica Quanta cura e l’allega-
to Syllabus. Quest’ultimo, in particolare, era costituito da una enumera-
zione di ottanta affermazioni che la Chiesa riteneva erronee e che erano
state estratte da scritti o dottrine del tempo. Si trattava in sostanza di una
denuncia a tutto tondo della civiltà moderna: la prima denuncia a essere
formulata in forme così nette e allo stesso tempo sistematiche. La recen-
te situazione italiana sembrava non avere alcun legame con questo do-
cumento, ma in realtà, come ha chiarito lo studioso Giacomo Martina10,
il progetto di stesura aveva subìto una forte accelerazione per volontà
del pontefice proprio a seguito degli eventi italiani del 1859-60. Sarebbe
in ogni caso rimasto un testo simbolo del coevo rapporto tra Chiesa e
società. Vediamone alcuni passaggi più rilevanti della sua pur composi-
ta fisionomia, ricordando che ciò che veniva citato non era il pensiero
papale, ma all’opposto ciò che la Santa sede attribuiva alla elaborazione
ideologica e giuridica degli Stati e che essa riteneva totalmente erroneo:

39. Lo Stato, in quanto origine e fonte di tutti i diritti, gode di un diritto del
tutto illimitato. [...]
42. In un conflitto tra le leggi dei due poteri prevale il diritto civile.
43. Il potere civile ha l’autorità di rescindere, dichiarare e rendere nulle le solen-
ni convenzioni (dette Concordati) stabilite con la Sede Apostolica in ordine ai
diritti relativi alla immunità ecclesiastica; e questo senza il suo consenso e anche
se essa reclama.
46 società, stato e chiesa in italia

44. Il potere civile può entrare in merito a cose che riguardano la religione, i co-
stumi e il governo spirituale. Da questo deriva che esso può giudicare le istruzio-
ni che i pastori della Chiesa pubblicano in ragione del proprio dovere a norma
delle coscienze, così che esso può anche emettere decreti riguardanti l’ammini-
strazione dei sacramenti divini e le disposizioni necessarie per riceverli.
45. L’intera gestione delle scuole pubbliche nelle quali è formata la gioventù
di un qualunque Stato cristiano, eccettuati per qualche ragione solamente i se-
minari episcopali, può e deve essere attribuita all’autorità civile; e attribuita in
modo tale che a nessun’altra autorità sia riconosciuto il diritto di inframmet-
tersi nella disciplina delle scuole, nella gestione degli studi, nell’attribuzione dei
gradi, nella scelta o approvazione dei maestri. [...]
49. L’autorità civile può impedire che i sacri pastori e i popoli fedeli comunichi-
no liberamente e reciprocamente col Romano Pontefice.
50. L’autorità laica detiene il diritto di presentare i Vescovi e può esigere da loro
che inizino l’amministrazione delle diocesi prima che gli stessi ricevano dalla
Santa Sede l’istituzione canonica e le lettere apostoliche.
51. Anzi, il Governo laico ha il diritto di sollevare i Vescovi dall’esercizio del
ministero pastorale, né è tenuto ad obbedire al Romano Pontefice nelle cose che
riguardano l’istituzione dei vescovati e dei vescovi. [...]
54. I Re e i Prìncipi non solo sono esenti dalla giurisdizione della Chiesa, ma nel
dirimere le questioni di giurisdizione sono anche superiori alla Chiesa.
55. La Chiesa va separata dallo Stato e lo Stato dalla Chiesa.[...]
76. L’abrogazione del potere civile che possiede la Sede Apostolica porterebbe
alla libertà della Chiesa ed anche alla più grande felicità.
77. In questa nostra epoca non è più opportuno che si abbia la religione cattoli-
ca come unica religione di Stato ad esclusione degli altri qualsivoglia culti. [...]
80. Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e trovare un accordo con il
progresso, il liberalismo e la civiltà moderna11.

Con la pubblicazione di tale complesso documento poteva dirsi supe-


rata l’ultima barriera che ancora separava la Chiesa cattolica dalla piena
contrapposizione alla società moderna. Il messaggio lanciato agli stessi
cattolici era esplicito e non lasciava margini di equivoco. Non ci si poteva
mescolare con coloro che non condividevano le ragioni papali: sia fuo-
ri che dentro la Chiesa. Era giunto il momento di schierarsi, invitando
semmai i dubbiosi a riconoscere il loro errore e a fare ritorno nel grembo
della Chiesa. Quest’ultima era la vera società perfetta cui avrebbero do-
vuto guardare gli stessi Stati moderni se non volevano essere travolti dal
destino inesorabilmente tragico di coloro che si erano colpevolmente
allontanati dalla verità.
Nel frattempo la parola d’ordine era innalzare un baluardo morale e
propagandistico a difesa del cuore della cattolicità. Di Roma dunque, o
gli anni del muro contro muro 47

ancor più precisamente del prigioniero del Vaticano: come sarebbe stato
spesso chiamato Pio ix negli anni successivi alla presa di Porta Pia. L’in-
vito venne raccolto in varie parti d’Italia, ma in modo particolare ancora
una volta a Bologna e da quei medesimi rappresentanti del locale intran-
sigentismo che già avevano dato un forte impulso alla stampa periodica.
Nell’aprile 1866 Pio ix in persona approvava così la nascita nella città
emiliana della prima organizzazione cattolica italiana di profilo almeno
formalmente nazionale: l’Associazione cattolica italiana per la difesa della
libertà della Chiesa in Italia. La presiedeva Cesare Fangarezzi ma il suo
vero promotore era stato Giovanni Battista Casoni: uno dei sei italiani che
nel 1863 avevano partecipato in Belgio al congresso cattolico di Malines.
Rispetto alle iniziative più remote che abbiamo ricordato gli elemen-
ti di continuità della nuova associazione erano numerosi e tutt’altro che
privi di peso. Innanzitutto risultava affine la collocazione ideologica su
posizioni conservatrici; collocazione che trovava conferma nel fatto che,
pur in epoche diverse, i successivi protagonisti delle esperienze del pri-
mo Ottocento, della Restaurazione e ora degli anni sessanta, guardavano
tutti con grande interesse agli scrittori cattolico-reazionari francesi (De
Maistre e il primo Lamennais da un lato, Louis Veuillot dall’altro). Tra
le possibili ragioni vi era probabilmente la circostanza che l’aristocrazia
continuava a restare di gran lunga il serbatoio privilegiato di reclutamen-
to dei promotori delle suddette iniziative.
Il legame tra queste e la struttura periferica della Chiesa (diocesi e
parrocchie) era minimo; mentre invece non era raro trovare a fianco di
quei laici dei rappresentanti di ordini religiosi: i gesuiti su tutti. Infine,
un ulteriore elemento di continuità era dato dal circoscrivere l’azione al
momento della denuncia: denuncia tardosettecentesca del decadimento
della società; denuncia della vitalità perdurante della rivoluzione negli
anni venti e trenta dell’Ottocento; denuncia da ultimo dei soprusi patiti
dalla Chiesa e dal papa in ordine agli eventi di inizio anni sessanta.
Si potrebbe concluderne che, a parte il carattere nazionale, non c’e-
ra nulla di effettivamente nuovo nell’organizzazione istituita da Caso-
ni e Fangarezzi. Invece in quel quadro di forte continuità si inseriva un
indizio di evoluzione. Un indizio che era rinvenibile nell’ultimo degli
aspetti sopra elencati, l’atteggiamento di denuncia, e che non dipende-
va tanto da una consapevole volontà dei fondatori di introdurre un ele-
mento nuovo rispetto al passato, quanto dai riflessi che aveva sulla loro
iniziativa l’evoluzione del contesto storico. A fine Settecento e anche
negli anni della Restaurazione, infatti, la denuncia era stata per lo più
48 società, stato e chiesa in italia

rivolta contro realtà che si ritenevano nemiche della religione in quanto


tale: come ad esempio l’immoralità dei costumi, l’incredulità, il ritenere
tra loro equivalenti le diverse religioni o le differenti confessioni in cui si
era storicamente articolato il cristianesimo. Ora invece, sotto l’incalzare
degli eventi che avevano portato alla concreta invasione dello Stato pon-
tificio, la denuncia contro quegli antichi avversari della fede non cessava
ma veniva collocata in secondo piano. Al suo posto emergeva con net-
tezza la denuncia contro coloro che avevano attaccato la Chiesa in quan-
to istituzione e il papa come sovrano ad un tempo spirituale e temporale.
La differenza non era affatto marginale, risultava anzi particolar-
mente indicativa del cammino nel frattempo compiuto dal rapporto tra
Chiesa e società: o ancora più precisamente della evoluzione del ruolo
che la prima aveva nella seconda. Nella situazione di società cristiana
di Antico regime, infatti, l’ambito in cui agiva la Chiesa si sovrappo-
neva pressoché perfettamente ai confini della società. Non esistevano
in sostanza zone esterne, sottratte per così dire al controllo della reli-
gione. La denuncia era quindi genericamente rivolta contro l’affievolirsi
dei legami e dei princìpi di fondo che reggevano quella simbiosi. Nella
realtà progressivamente secolarizzata dell’Ottocento, invece, l’ambito
religioso si era come ritratto all’interno di una società che presentava
ora delle aree crescenti di popolazione sottratte al suo controllo. Non
solo, pertanto, non esisteva più la sovrapposizione prima ricordata, ma
erano ben visibili i nuovi confini tra religione e laicità. La Chiesa, intesa
come istituzione, non appariva più dunque come il cuore ecclesiastico
di una società permeata di spirito religioso, ma era essa stessa diventata
una società particolare all’interno della più grande società nazionale e
quindi una realtà più definita sia per chi la volesse colpire che per chi
la intendeva difendere. Non era pertanto casuale che anche nella scel-
ta delle denominazioni si fosse passati da “Amicizia...” a “Associazione...
per la difesa”.

«Protestare ed aspettare»:
l’“Aventino” cattolico
L’associazione di Fangarezzi e Casoni ebbe in ogni caso vita brevissi-
ma. Approvata come s’è detto nell’aprile 1866 essa cessava di vivere due
mesi dopo per effetto di una legge che, in vista della ripresa della guerra
gli anni del muro contro muro 49

contro l’Austria, intendeva neutralizzare preventivamente gli avversari


ideologici interni allo Stato italiano: compresi i più attivi rappresentanti
dell’intransigentismo cattolico. Superata la congiuntura bellica del 1866
gli ambienti cattolici bolognesi ritornavano tuttavia sul progetto di atti-
vare un’associazione nazionale fondando nel maggio 1868 la Gioventù
cattolica italiana (gc).
L’iniziativa era del bolognese Giovanni Acquaderni, che ne assunse
la presidenza, e del marchigiano Mario Fani. Ne scaturì un’associazione
che in breve tempo sarebbe riuscita a ramificarsi in diverse città italiane,
giustificando anche nei fatti questa volta il suo preteso carattere nazio-
nale. Accanto alla maggiore distribuzione geografica la gc possedeva
poi, rispetto alle precedenti esperienze, un carattere più organico. Scatu-
riva infatti dal collegamento tra i singoli circoli fondati nelle varie parti
del paese e all’interno di ciascuno di questi erano attivate quattro com-
missioni aventi l’incarico di coordinare l’attività di altrettanti settori di
intervento: la stampa, la raccolta di denaro da inviare al papa, il culto,
l’istruzione religiosa.
La gc avrebbe avuto una vicenda storica particolarmente lunga e
tortuosa: scandita tra l’altro ora dalla nascita di ulteriori organizza-
zioni ora dalla confluenza in altre sorte nel frattempo. Già tuttavia
all’indomani della sua istituzione essa si trovò inserita in uno scenario
che per il suo ritmo incalzante ricordava il biennio 1859-60. Nuovi e
importanti avvenimenti erano infatti alle porte. Il processo di consoli-
damento interno della Chiesa cattolica, mediante l’ulteriore accentua-
zione del primato del papa e delle sue prerogative, portava nel luglio
1870 alla già ricordata approvazione del dogma dell’infallibilità pa-
pale da parte del concilio Vaticano i. Era un passo avanti decisivo per
il definitivo affermarsi dell’immagine di Chiesa-società perfetta cara
all’intransigentismo. Nel frattempo, tuttavia, lo scoppio della guerra
franco-prussiana costringeva la Francia a ritirare le guarnigioni che
sino ad allora avevano garantito la difesa del Lazio e di Roma dagli
eventuali progetti di occupazione armata da parte del Regno d’Italia.
Venendo così a mancare tale difesa, le truppe italiane attraversavano
a metà settembre le frontiere dello Stato pontificio e il 20 settembre
entravano a Roma. Il 2 ottobre successivo la città veniva unita all’Italia
mediante plebiscito.
Pochi giorni prima di questi ultimi eventi il re d’Italia Vittorio Ema-
nuele ii aveva scritto a Pio ix, nell’estremo tentativo di risolvere in modo
conciliante il problema del passaggio di Roma all’Italia:
50 società, stato e chiesa in italia

La Santità Vostra, liberando Roma dalle truppe straniere, togliendola al pe-


ricolo continuo d’essere il campo di battaglia dei partiti sovversivi, avrà dato
compimento ad un’opera meravigliosa, restituita la pace alla Chiesa, mostrato
all’Europa spaventata dagli orrori della guerra, come si possano vincere grandi
battaglie ed ottenere vittorie immortali con un atto di giustizia, con una sola
parola di affetto12.

Significativo, in tale documento, era soprattutto l’intento di far apparire


la sollecitata decisione del papa come un atto di grande magnanimità
e allo stesso tempo di acume politico: l’Italia, infatti, avrebbe avuto la
sua capitale naturale senza interferenze straniere né atti militari ulterio-
ri, mentre con tale decisione si evitava tra l’altro il ritorno a situazioni
come quelle della Repubblica romana del 1848-49 (ad essa trasparente-
mente ci si riferiva chiamando in causa i «partiti sovversivi»).
Pio ix rispose nei seguenti termini l’11 settembre 1870:

Il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera che a V.M. piacque
dirigermi; ma essa non è degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare
la fede cattolica, e si gloria di regia lealtà. Io non entrerò nei particolari della let-
tera, per non rinnovellare il dolore che una scorsa mi ha cagionato. Io benedico
Iddio, il quale ha sofferto che Vostra Maestà empia di amarezza l’ultimo perio-
do della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse
nella sua lettera, né aderire ai principii che essa contiene13.

La risposta di Pio ix confermava dunque in pieno la posizione di tota-


le indisponibilità già espressa dal papa nel 1859-60. E come allora an-
che adesso, seppure attraverso la forma solenne di un’enciclica, Pio ix
colpì con la scomunica i responsabili politici e gli autori materiali della
occupazione dei territori pontifici, dichiarandosi inoltre costretto alla
prigionia nei palazzi del Vaticano. Non si trattava in effetti di una vera e
propria prigionia, quanto della decisione da parte dello stesso pontefice
di non uscire più dalla propria residenza per non avallare il comporta-
mento delle autorità politiche italiane. L’avrebbe spiegato il cardinale
segretario di Stato Antonelli a Ruggero Bonghi, allora docente di storia
e poi ministro della Pubblica istruzione, precisando inoltre: «Non vi è
che una soluzione possibile: protestare ed aspettare»14.
In quell’esplicita tattica della protesta e dell’attesa, che non risultava
d’altronde inedita nell’atteggiamento tenuto dalla Santa sede dopo il
1859, venne direttamente coinvolto il laicato cattolico italiano. Con due
fattori di novità, peraltro, rispetto al recente passato. Il primo riguardava
gli anni del muro contro muro 51

la mutazione di direttive in ordine alla partecipazione dei cattolici alla


vita politica dello Stato. Fatta salva, infatti, la partecipazione alle ele-
zioni amministrative locali, mediante le quali si mirava ad entrare nelle
amministrazioni provinciali e comunali per condizionarne direttamen-
te il funzionamento, veniva invece ritenuta al momento inopportuna la
partecipazione alle elezioni politiche generali.
A chiarirlo fu un nuovo parere della Sacra Penitenzieria: emesso una
prima volta nel marzo 1871 e poi ripreso in modo ancora più esplicito
nel corso del 1874. Da un’espressione latina di tale parere, «non expe-
dit»15, prese nome il sostanziale divieto che, pur con deroghe a inizio
Novecento, sarebbe rimasto formalmente in vigore sino al 1919: anno
di costituzione del Partito popolare italiano, il primo partito cattolico
italiano che sarebbe nato con l’autorizzazione della Santa sede.
L’introduzione del non expedit si inseriva ovviamente nella scelta
di Pio ix e dei suoi più stretti collaboratori di affidare la reazione della
Chiesa alla totale resistenza sul piano dei princìpi. Impedire ai cattolici
di partecipare alle elezioni politiche dello Stato, tenuto conto che nel si-
stema bicamerale disegnato dallo statuto la Camera dei deputati era elet-
tiva, significava infatti, nelle intenzioni della Santa sede, non riconoscere
come legittimo un complessivo sistema politico ritenuto responsabile
assieme al re del vulnus inferto alla sovranità pontificia.
Tali motivazioni avrebbero poi sorretto altre due decisioni prese
in quel periodo. Il rifiuto da parte di Pio ix di accettare la proposta di
soluzione offerta dal Regno d’Italia mediante la cosiddetta Legge delle
guarentigie del 15 maggio 1871, con la quale si intendeva compensare il
papa per la perdita dei territori già appartenuti allo Stato di cui era fino
ad allora sovrano, e l’atteggiamento assunto dai nuovi vescovi italiani di
fronte all’obbligo di richiedere allo Stato il regio exequatur: vale a dire il
consenso del re d’Italia alla nomina episcopale e all’entrata in possesso
dei beni ad essa relativi, come il palazzo episcopale, il denaro previsto per
l’espletamento della funzione di vescovo ecc. Venivano chiusi, in altre
parole, tutti i canali ufficiali di contatto con le istituzioni dello Stato
italiano.
Come dicevamo prima, tuttavia, accanto all’introduzione del non
expedit si registrò anche una seconda novità nella presenza organizzata
del laicato cattolico italiano dopo il 1870. Tale novità consistette nella
decisione di adottare tra le proprie iniziative l’organizzazione di con-
gressi, sull’esempio già seguìto da altri paesi europei come la Germania
e il Belgio. Se ne incaricò la presidenza della gc, che nell’ambito di
52 società, stato e chiesa in italia

una riunione tenutasi a Venezia nell’ottobre 1871 annunciò la futura


convocazione del primo congresso cattolico italiano nella stessa città
lagunare. Dopo un ritardo di tre anni, dovuto al sovrapporsi di vari
fattori ostativi, il congresso poteva finalmente svolgersi tra il 12 e il 16
giugno 1874.
Pur tra le diverse accentuazioni emerse nell’avvicendarsi dei discor-
si congressuali, appariva comune nei partecipanti la consapevolezza
che occorresse prendere realisticamente atto della fine della stagione
delle illusioni: dell’attesa che gli eventi invertissero da soli la tendenza
che avevano avuta dal 1859 in poi. Era invece necessario rimboccarsi
le maniche e agire senza attendersi che la rivoluzione, il grande nemi-
co che contrastava la Chiesa nella sua azione all’interno della società,
cessasse da lì a poco la sua opera: «Cattolici, preghiamo Iddio che la
rivoluzione muoia domani, ma noi lavoriamo com’essa dovesse vivere
per sempre»16.
L’incontro di Venezia confermava che il laicato di orientamento in-
transigente andava ormai aggregandosi a ritmi sempre più accelerati. Le
prese di posizione del papa e della Santa sede attorno al 1870 fornivano
ora quel quadro di riferimento che prima era parso più oscillante e in
parte suscettibile di interpretazioni diverse. A partire da questa base,
sempre a Venezia si era messa a fuoco una serie di iniziative che segna-
vano anche dal punto di vista della programmazione l’intento di uscire
dalla fase della mera protesta per accedere a quella dell’intervento con-
creto nella realtà sociale italiana. Mancava solo un’organizzazione che
tenesse tutto questo saldamente collegato e che garantisse allo stesso
tempo una direzione continuativa dell’intero movimento. Esigenze en-
trambe cui non poteva rispondere la gc a causa della propria intrinseca
settorializzazione giovanile.
La soluzione venne trovata l’anno successivo a Firenze, quando
nell’ambito di un ulteriore congresso venne ufficialmente deciso di dare
vita a un’organizzazione che si incaricasse dello svolgimento periodico
di tali riunioni e della gestione nazionale dei gruppi che operavano su
base locale. Nacque così l’Opera dei congressi e dei comitati cattolici
(oc): l’organismo che più di ogni altro avrebbe legato la propria vicenda
al cammino dell’intransigentismo ottocentesco italiano, traducendo in
organizzazione e in movimento un fenomeno sino ad allora caratteriz-
zato essenzialmente da idee, atteggiamenti e dottrine17.
La fisionomia di tale organismo restava essenzialmente laicale, ma
due aspetti, da un lato l’organizzazione su base diocesana e parrocchiale,
gli anni del muro contro muro 53

dall’altro la conseguente sottomissione ai vescovi e ai parroci, lo diffe-


renziavano dalle precedenti esperienze e ponevano le basi di un legame
con la componente ecclesiastica che sarebbe poi rimasto tipico delle fu-
ture organizzazioni italiane del laicato cattolico. Per il resto il fatto che
l’iniziale direzione dell’oc venisse assunta dal consiglio direttivo della
gc avrebbe comportato per alcuni anni, anche grazie alla presidenza af-
fidata ad Acquaderni che già era e che rimase presidente della gc, una
sostanziale continuità: sia del personale dirigente, sia della momentanea
leadership bolognese all’interno del laicato cattolico di matrice intran-
sigente.
3
Dalla protesta al progetto di riconquista:
il secondo intransigentismo

Una decisiva fase di passaggio


Dopo lo slancio che nella prima metà degli anni settanta ne aveva porta-
to alla nascita l’oc si avviò verso una fase di assestamento, caratterizzata
per lo più dal tentativo di estendere la propria presenza al di fuori delle
zone della diffusione originaria: zone in larga parte concentrate nell’a-
rea settentrionale del paese.
Si trattò di una fase apparentemente meno vivace della precedente, o
nella quale il lavoro organizzativo sotterraneo e di base prevalse sull’at-
tività pubblica, fino ad allora centrale per dare ai propri affiliati come ai
potenziali avversari la sensazione di una presenza determinata e massic-
cia. Lo conferma la cadenza dei congressi generali. Questi infatti, dopo
aver mantenuta una periodicità annuale tra il 1874 e il 1877, passavano
ora al ritmo meno serrato delle successive convocazioni del 1879, 1883,
1887 e 1890; per poi tornare pressoché annuali sino all’inizio Novecen-
to. Il problema riguardava dunque gli anni ottanta. Occorre approfondi-
re l’analisi di tale fenomeno e tentare di capire come mai proprio in quel
decennio si delineasse una specie di pausa nella crescita che le organizza-
zioni del laicato intransigente avevano registrato per circa un quindicen-
nio a partire dalla metà degli anni sessanta.
Le cause del fenomeno erano sia interne che esterne. Tra le interne
va senz’altro considerato il fatto che iniziavano già a profilarsi quelle
divergenze sulle priorità da assegnare all’oc che sarebbero poi ciclica-
mente riemerse nella storia dell’associazione, sino a determinarne come
vedremo la soppressione. Ma la causa interna più importante era da
ricercare nella situazione dei vertici dell’oc e più specificamente nella
crisi della dirigenza bolognese. Al ritiro di figure storiche quali Alfonso
Rubbiani e Giovanni Acquaderni era infatti subentrata la minore capa-
cità da parte dei loro sostituti, alla presidenza generale o allo stesso co-
56 società, stato e chiesa in italia

ordinamento locale bolognese, nel garantire una guida adeguata all’or-


ganizzazione.
I suddetti ritiri non scaturivano da motivazioni tra loro analoghe. Nel
caso di Rubbiani, ad esempio, si era manifestato il crescente globale rifiu-
to di un certo tipo di presenza del laicato cattolico nella società italiana,
mentre in Acquaderni, che ricoprì per un certo periodo il ruolo di presi-
dente sia della gc che dell’oc, sembrava piuttosto prevalere il desiderio
di tutelare l’autonomia del movimento giovanile e della sua organizza-
zione rispetto al carattere totalizzante che l’oc stava ormai assumendo
rispetto a ogni forma di espressione organizzata del movimento laicale
cattolico. In ogni caso ne scaturì una crisi effettiva, la cui conseguenza,
dopo una transizione di modesto profilo durata alcuni anni, sarebbe sta-
ta la piena affermazione del gruppo dirigente veneto e in particolare del
suo principale esponente Giovanni Battista Paganuzzi. Di questi eventi,
maturati a fine anni ottanta, riparleremo tuttavia in seguito.
Tra le cause esterne, invece, va considerato il clima che venne diffon-
dendosi nel cattolicesimo italiano durante la seconda metà degli anni
settanta. Un clima che risultava meno propizio per chi, in precedenza,
si era trovato pienamente a proprio agio nei momenti caldi del 1859-60
(prima perdita dei territori pontifici), del 1864 (emanazione del Sillabo)
e del 1870 (ingresso a Roma delle truppe del Regno d’Italia). La linea
dura intrapresa da Pio ix nei confronti dello Stato italiano, infatti, po-
teva forse essere apparsa encomiabile dal punto di vista della coerenza
sui princìpi, ma, venuta meno nell’estate dello stesso 1870 la protezione
francese che aveva dato forza politica internazionale alla resistenza della
Santa sede, stava divenendo nel nuovo scenario un fattore di debolezza.
La perdita del sostegno francese, dovuta com’è noto all’esito della guerra
franco-prussiana e al cambiamento di forma di governo (da monarchico a
repubblicano) che ne era seguito in Francia, lasciava ora il papato da solo
a fronteggiare il governo italiano, con effetti sempre meno sostenibili in
taluni essenziali settori dell’istituzione-organizzazione ecclesiastica.
Tra questi, ad esempio, spiccava il fatto che nel paese si registrassero
decine di sedi episcopali vacanti, o che risultavano coperte con grave di-
sagio da parte di vescovi che, non avendo chiesto su esplicita indicazione
della Santa sede l’exequatur al governo italiano1, erano sprovvisti degli
strumenti di natura logistica e finanziaria (tra i quali, come s’è detto, l’u-
so del palazzo vescovile e la dotazione economica prevista per i vescovi)
necessari all’espletamento del proprio incarico, con tutte le conseguenze
che ne derivavano per la vita religiosa e pastorale delle diocesi.
dalla protesta al progetto di riconquista 57

Non pochi, dunque, si attendevano da un futuro avvicendamento


ai vertici della Chiesa l’avvento di un nuovo pontefice che riaffron-
tasse l’intera questione romana con un atteggiamento più duttile. E
alcuni decisero di rilanciare con forza il tema della conciliazione tra
Santa sede e Stato italiano attraverso la pubblicazione di scritti favo-
revoli a quella prospettiva. A questi, in sede storiografica, sarebbe sta-
to dato il nome di conciliatoristi. Tra di essi si segnalò il gesuita Carlo
Maria Curci: già membro del gruppo che nel 1850 aveva fondato la
rivista “La Civiltà cattolica” e allievo dell’altro gesuita Luigi Taparelli
d’Azeglio, che come si è visto nel precedente capitolo aveva svolto in
passato un’importante funzione di pionieristica raccolta del laicato
cattolico.
Proprio dall’applicare al caso italiano alcuni dei princìpi che erano
alla base dell’opera più importante del Taparelli, il Saggio teoretico di di-
ritto naturale appoggiato sul fatto, apparso in versione definitiva nel 1855,
Curci aveva maturato un progressivo allontanamento dalle posizioni in-
transigenti, per giungere poi a negare la necessità del potere temporale
del papa (che ebbe come conseguenza l’espulsione dalla Compagnia di
Gesù) e a pubblicare l’opera Il moderno dissidio tra la Chiesa e l’Italia
considerato per occasione di un fatto particolare.
Era allora la fine del 1877 e, senza ovviamente che lo si potesse preve-
dere, quegli episodi interni al percorso esistenziale del Curci dovevano
rappresentare il fortuito inizio di una sequenza di avvenimenti che in
breve tempo avrebbero ridato spazio e udienza agli eredi conciliatoristi
della tradizione che risaliva al cattolicesimo liberale.
Pochi mesi dopo la pubblicazione dello scritto del Curci sul moder-
no dissidio tra la Chiesa e l’Italia il pontificato romano assisteva infatti
nel febbraio 1878 alla scomparsa di Pio ix e alla elezione del successore
Leone xiii: un papa quest’ultimo certo non rivoluzionario, come vedre-
mo, ma nemmeno incline a proseguire sulla linea di quel «protestare ed
attendere» che era assurto a simbolo della seconda lunga stagione del
pontificato di Pio ix. Tale avvicendamento era stato preceduto di poche
settimane dalla morte del re d’Italia Vittorio Emanuele ii e dalla salita
al trono del figlio Umberto i. Cambiavano dunque simultaneamente
i protagonisti su entrambi i fronti della contesa. Nel corso del 1879, a
Firenze, iniziava le pubblicazioni il periodico “La Rassegna nazionale”
di orientamento conciliatorista. E sempre nel 1879, ma questa volta a
Roma, si tennero infine presso la residenza privata dei conti Campello
una serie di riunioni dirette a fondare un partito che consentisse il pieno
58 società, stato e chiesa in italia

inserimento dei cattolici nella vita politica del paese: sull’esempio del
Zentrum attivo in Prussia sin dal 1871.
I risultati concreti prodotti dall’attività di “La Rassegna nazionale”
o dagli stessi incontri di casa Campello furono a dire il vero piuttosto
scarsi: anche perché, dopo un iniziale interessamento, il nuovo pontefi-
ce ritenne che al momento fosse controproducente per la Santa sede la
nascita di un partito cattolico italiano tendenzialmente troppo vicino
alla classe dirigente dello Stato. Né si può dire che lo scritto del Curci
sopra ricordato o altri che seguirono negli anni successivi smuovessero
in profondità le opinioni degli ambienti vaticani.
Più correttamente si può notare che, nel loro insieme, quelle diverse
iniziative contribuirono al diffondersi di un clima di crescente fiducia
nella possibilità di un’imminente conciliazione, mentre ad alimentarlo
in modo decisivo fu soprattutto lo svolgimento della prima parte del
pontificato di Leone xiii: con una serie di atti, dalla scelta di collabo-
ratori di orientamento moderato alla decisione di aprire agli studiosi gli
archivi vaticani, che favorirono il delinearsi dell’immagine di un papa al-
meno pregiudizialmente non ostile nei confronti della società moderna.
Certo, altra cosa era la rinuncia ad attaccare frontalmente la società
liberale e borghese ottocentesca come avevano fatto gli ultimi due pre-
decessori, e altra cosa era la rinuncia ai diritti che la Santa sede riteneva
di vantare sui territori sottratti dallo Stato italiano. Ma, in parte com’era
già accaduto per il mito di Pio ix, così anche in questo caso il desiderio
di cambiamento produsse nei sostenitori della conciliazione una lettura
impropriamente estensiva delle effettive intenzioni del papa.
L’anno decisivo per questa rivisitazione dello schema illusione-disil-
lusione che abbiamo già visto operante nel biennio 1846-48, con il co-
siddetto mito di Pio ix, fu il 1887. Il parallelo con i sentimenti di allora
lo troviamo anche nella suggestiva ricostruzione storiografica di Arturo
Carlo Jemolo, che si è chiesto come mai si fosse ricaduti in equivoci di
quella natura: «Illusione senza fondamento, più vana che non fossero
stati i sogni, quarant’anni innanzi, di un papa che si facesse promotore
e capo di una guerra nazionale contro gli austriaci; oppure trapelare di
piani elaborati, e che il sopravvenire di cause estrinseche o l’irresolutezza
od il malvolere di qualche uomo, impedì avessero piena attuazione?»2.
Resta il fatto che nei mesi compresi tra la fine del 1886 e la metà del
1887 gli interventi pubblici riconducibili direttamente o indirettamente
agli ambienti vaticani erano stati numerosi, mentre da parte propria an-
che il governo guidato da Agostino Depretis si era mosso nella medesima
dalla protesta al progetto di riconquista 59

direzione. Già nel dicembre 1886, ad esempio, era intervenuto il vescovo


di Cremona Geremia Bonomelli: una delle figure intellettualmente più
acute all’interno di un episcopato italiano che all’epoca risultava di pro-
filo generalmente assai modesto. Egli aveva scritto al papa invitandolo a
favorire la conciliazione e Leone xiii aveva risposto in termini positivi,
provvedendo poi a far pubblicare entrambi i documenti.
Il padre benedettino cassinese Luigi Tosti, protagonista in quei mesi
di contatti riservati con il primo ministro Agostino Depretis, pubblicava
nello stesso periodo un opuscolo dal titolo La conciliazione; opuscolo,
inneggiante al papa princeps pacis, si diceva ispirato da Leone xiii. Con
data 23 maggio 1887, infine, lo stesso pontefice diffondeva l’allocuzione
Episcoporum ordinem nella quale si confermava il desiderio di risolve-
re l’annosa questione con lo Stato italiano, «restando però incolumi la
giustizia e la dignità della Sede Apostolica»3. Ogni cosa sembrava dun-
que spingere in quella direzione, pur tra le sfumature diverse e le cautele
dei documenti ufficiali.
Non era, tuttavia, un’impressione completamente esatta. Pochi gior-
ni prima che venisse diffusa l’allocuzione di Leone xiii le pagine di “La
Civiltà cattolica” avevano infatti ospitato un articolo nel quale, dopo
aver espresso la convinzione che la setta massonica si trovasse alla guida
dello Stato, si concludeva: «Dato ciò, lasciamo pensare a chi legge, se,
finché questa setta governa ed impera nell’Italia, sia sperabile che si pie-
ghi ad una riconciliazione col Papato»4. Era questo un segno di come gli
ambienti legati all’intransigentismo non avessero mai smesso di remare
contro la conciliazione: o perlomeno contro una conciliazione che si
traducesse nella rinuncia al potere temporale.
Fino alla fine di maggio 1887 essi non sembravano tuttavia in grado di
ostacolare il clima favorevole alla conciliazione di cui si è detto. Ma in real-
tà il rovesciamento delle posizioni era vicino. L’avvicendamento avvenuto
ai vertici della Segreteria di Stato vaticana nel giugno 1887, con il subentro
di Mariano Rampolla a Ludovico Jacobini, rappresentava infatti una netta
inversione di tendenza. A fine luglio, ma con data 15 giugno 1887, veniva
pubblicata la lettera Quantumque con la quale Leone xiii riassumeva al
nuovo segretario di Stato le linee portanti del proprio magistero papale e in
particolare la propria definitiva posizione in ordine alla questione romana:
una posizione che ribadiva in pieno la difesa del potere temporale.
Il sogno di approdare alla conciliazione veniva dunque a sfumare.
A differenza che nel 1848 non ci furono generali ritorsioni contro gli
ambienti cattolici che più si erano spesi in quella direzione, ma non man-
60 società, stato e chiesa in italia

cò, seppure a distanza di un paio d’anni, una vittima di quel nuovo malin-
teso: il vescovo di Cremona Bonomelli che abbiamo prima ricordato. Ten-
tando infatti di tener vivo il problema egli avrebbe pubblicato nel 1889 un
opuscolo anonimo dal titolo Roma e l’Italia e la realtà delle cose. Esso non
ebbe alcun particolare effetto sulla soluzione della questione romana, non-
dimeno merita una sintetica analisi perché evidenzia che, pur minoritarie
e storicamente perdenti, si muovevano in quello stesso universo cattolico
italiano idee e visioni se non totalmente antitetiche certo assai divergenti
dalla linea conflittuale che risultò largamente dominante.
Nell’opuscolo Bonomelli – prima di avanzare alcune soluzioni prati-
che tra le quali la nascita di un piccolo Stato pontificio che comprendesse
una parte di Roma e uno sbocco al mare: una proposta almeno in parte
lungimirante se si pensa alla soluzione che sarebbe poi stata adottata nel
1929 con la nascita dello Stato della Città del Vaticano – poneva una que-
stione essenziale: la sussistenza o meno di un effettivo nesso storico tra il
primato spirituale del papa con le sue forme di esercizio da un lato e il prin-
cipato civile come suo strumento necessario dall’altro. Per concludere che
tale nesso non sussisteva, altrimenti il papato inteso come potestà spiritua-
le avrebbe seguito storicamente i tempi del principato civile: non esisten-
do dunque prima della nascita dello Stato pontificio nell’viii secolo d.C.
ed esaurendosi nel 1870 con la cessazione di fatto di quel medesimo Stato.
Tali idee e le connesse proposte possono apparire non particolar-
mente astruse a un osservatore odierno. Nel 1889, tuttavia, in una fase
segnata in Italia dall’incremento di episodi anticlericali e da un generale
indurimento nei confronti della Chiesa da parte del governo guidato dal
nuovo primo ministro Francesco Crispi, l’intera iniziativa del vescovo di
Cremona venne giudicata largamente inopportuna negli ambienti vati-
cani ed egli fu costretto prima ad autodenunciarsi pubblicamente come
autore dell’opuscolo, poi a ritrattarne il contenuto.

Chiesa e società moderna


nell’ultimo scorcio dell’Ottocento
Come si è già rilevato, nonostante l’apparente affinità che si può essere
tentati di vedere tra l’equivoco neoguelfo del 1848 e l’equivoco concilia-
torista del 1887, le situazioni che si vennero a creare all’indomani dei due
eventi erano tra loro profondamente diverse. E non solo per le minori
dalla protesta al progetto di riconquista 61

ritorsioni cui andarono soggetti gli sconfitti del 1887 rispetto a quelli
del 1848, ma soprattutto per la differenza sostanziale che è riscontrabi-
le nelle due circostanze tra l’immagine complessiva offerta dall’uno e
dall’altro pontefice che ne furono protagonisti.
Nel caso di Pio ix, infatti, lo svolgimento della crisi italiana del 1848
si era dilatato nelle sue conseguenze negative al di là dei confini del pae-
se, producendo una chiusura da parte della Chiesa non solo nei confron-
ti di certi ambienti italiani ma dell’intera società moderna. Una chiusura
che conteneva due diversi aspetti: da un lato un giudizio drastico e in-
tegralmente negativo; dall’altro l’assenza di una strategia che rivelasse
almeno l’intento, se non ancora i modi, di riconquistare alla religione
cristiana quella stessa società. Era dunque prevalso sul piano generale
un atteggiamento di mera condanna (Sillabo) e di forte compattamento
interno (dogma dell’infallibilità papale) per meglio attrezzarsi in vista
di quella che si profilava come una sorta di guerra di trincea («protestare
ed attendere»).
Ben diversa era invece la situazione del papato romano dopo la svolta
del 1887. Nel 1848, infatti, assieme al mito neoguelfo era crollata anche
l’immagine complessiva del papa liberale: un problema interno al rap-
porto tra il papato e la situazione politica italiana aveva cioè generato
riflessi negativi sull’intero orientamento del pontificato di Pio ix. Nel
1887, invece, i due piani, quello italiano della questione romana e quello
generale del rapporto tra la Chiesa e la società moderna, erano rimasti
distinti.
In tal modo il venire meno della prospettiva della conciliazione aveva
determinato contraccolpi solo interni alla realtà italiana, mentre l’im-
magine complessiva di Leone xiii come papa non ostile nei confronti
della società moderna era rimasta integra. Leone xiii restava cioè, anche
dopo il 1887, il papa che nell’enciclica Immortale Dei del novembre 1885
aveva disegnato uno scenario nel quale la Chiesa e gli Stati, o meglio
le classi dirigenti degli stessi, avrebbero dovuto cooperare in armonia,
ciascuno nella propria sfera d’influenza soprannaturale o terrena, al be-
nessere della società umana.
Certo, non si trattava di un discorso fondato su princìpi pienamente
liberali. A confermarlo basterebbero le citazioni della Mirari vos di Gre-
gorio xvi e del Sillabo di Pio ix contenute nell’enciclica, o la puntualiz-
zazione che la libertà era legittima solo per il bene e la virtù e non per il
male e il disordine morale. Né si guardava a modelli moderni: dato che
il riferimento ideale era rivolto alla societas christiana che aveva carat-
62 società, stato e chiesa in italia

terizzato l’universo medievale. Ma, nondimeno, in Leone xiii restava


evidente l’intenzione di non alzare barricate tra la Chiesa e la società e di
continuare a sostenere, come si faceva all’inizio della Immortale Dei, che

Quell’immortale opera di Dio misericordioso che è la Chiesa, sebbene in sé e


per sua natura si proponga come scopo la salvezza delle anime e il raggiungi-
mento della felicità celeste, pure anche nel campo delle cose terrene reca tali e
tanti benefici, quali più numerosi e maggiori non potrebbe se fosse stata istituita
al precipuo e prioritario scopo di tutelare e assicurare la prosperità di questa vita
terrena5.

Non bastava tuttavia enunciare tale convinzione: occorreva anche suf-


fragarla con i fatti. Tanto più che, mentre in Italia non mancavano come
si è detto strascichi negativi al fallito accordo del 1887, sul piano inter-
nazionale la Santa sede stava raccogliendo i frutti dell’efficace azione
diplomatica svolta nel precedente quinquennio. Come confermava, tra
l’altro, la fine del duro conflitto (Kulturkampf) con il Reich tedesco del
cancelliere Otto von Bismarck.
L’occasione per dimostrare i benefici che la Chiesa poteva portare
alla società moderna si presentò tra la fine anni ottanta e l’inizio anni
novanta. In vari Stati europei ed extraeuropei a maggiore sviluppo eco-
nomico si stavano infatti registrando gli effetti sociali negativi di una
seconda ondata di industrializzazione che procedeva a ritmi incalzanti,
con una forte crescita di tensione in conseguenza dei conflitti che scop-
piavano sempre più di frequente nelle fabbriche. La preoccupazione del-
le classi dirigenti era altissima, anche perché i lavoratori, a differenza del
primo Ottocento, agivano ormai ovunque in forma organizzata grazie
alla presa di coscienza maturata sull’onda dello svilupparsi del pensiero
rivoluzionario e alla propaganda ideologica svolta dagli attivisti del mo-
vimento operaio e socialista.
Il mondo cattolico aveva già tentato risposte in diversi paesi durante
la fase matura della prima industrializzazione: in particolare nella Fran-
cia (sin dai tempi della monarchia di Luglio), in Germania (per iniziati-
va del vescovo di Mainz Wilhelm von Ketteler), in Svizzera (per opera
di Kaspar Decourtins) e in quello stesso Belgio ben conosciuto da Leone
xiii per esservi stato nunzio dal 1843 al 1846. Mentre in Italia si stava
iniziando a delineare verso la fine degli anni ottanta l’attività di studi so-
ciali del laico cattolico Giuseppe Toniolo. Mancava, tuttavia, una presa
di posizione globale da parte del papato romano: una presa di posizio-
dalla protesta al progetto di riconquista 63

ne che, al di là delle concrete soluzioni di profilo locale, si configurasse


come un impegnativo schierarsi dei vertici della Chiesa sul piano dei
princìpi generali.
Leone xiii ritenne così che fosse giunto il momento di intervenire
direttamente nello scontro che si stava svolgendo. Alcuni ecclesiastici
esperti di questioni sociali, come il gesuita Matteo Liberatore e il do-
menicano Tommaso Zigliara, cui si aggiunse in seguito l’altro gesuita
Camillo Mazzella, stesero tra il 1889 e il 1891 successive versioni di un
documento preparatorio. Dopo varie revisioni, che portarono in genere
ad attenuare l’impianto originario di Liberatore, tale documento venne
pubblicato nel maggio 1891 nelle vesti formali di un’enciclica dal titolo
Rerum novarum.
È difficile capire se il papa volesse assegnare alla stessa un ruolo cen-
trale nel suo magistero. Gli accenni nella parte iniziale dell’enciclica ad
alcuni documenti pubblicati da Leone xiii nel corso degli anni ottan-
ta, quali la già citata Immortale Dei o l’altra enciclica Libertas del 1888,
lascerebbero propendere per l’intenzione di inserirla, senza particolare
preminenza, all’interno di un ciclo di interventi sulla società moderna.
Di fatto, tuttavia, l’enciclica Rerum novarum sarebbe rimasta il docu-
mento di gran lunga più importante ed emblematico di quel pontifica-
to, e anche l’unico a dar vita a un nuovo genere specifico del magistero
cattolico: la “dottrina sociale della Chiesa”. La sua vasta eco al momento
della pubblicazione e lo stesso ruolo che avrebbe poi svolto come punto
di riferimento in apparenza imprescindibile per ogni successiva riflessio-
ne cattolica inerente alle problematiche sociali non era peraltro ricon-
ducibile a contenuti particolarmente rivoluzionari o anche solo decisa-
mente innovativi.
In piena linea con il recupero del pensiero del teologo medievale
Tommaso d’Aquino, quel neotomismo che si era manifestato nel cor-
so dell’Ottocento e che Leone xiii aveva fortemente caldeggiato sin
dal proprio episcopato a Perugia, la Rerum novarum non faceva infatti
che applicare all’intreccio di questioni che a vario titolo ruotavano at-
torno alla condizione operaia le leggi del diritto naturale: vale a dire di
quell’insieme di princìpi che si pensava scaturissero dalle esigenze più
intime e connaturate all’uomo, e che, secondo la stessa enciclica, anda-
vano dal diritto al possesso individuale dei beni (proprietà privata), alla
opportuna distinzione tra le varie classi sociali (derivante dalle maggiori
o minori capacità degli individui), alla naturale tendenza delle medesi-
me classi a convivere pacificamente tra loro (rifiuto della lotta di classe).
64 società, stato e chiesa in italia

La vera novità era dunque altrove ed era rivolta, separatamente e in


modo diverso, alle due classi sociali in lotta: quella degli operai e quella
dei capitalisti. Nei confronti della prima la novità consisteva nel fatto
che per la prima volta un papa prendeva esplicitamente posizione, anche
se talora in modo generico, su aspetti quali il giusto salario dell’operaio,
la difesa della dignità del lavoro, il freno allo sfruttamento del lavoro
delle donne e dei fanciulli.
Si trattava di aspetti che incidevano in modo drammatico sul vissu-
to quotidiano dei lavoratori e che parevano al contrario disconosciuti o
perlomeno sottovalutati da una Chiesa che per decenni si era limitata ad
intervenire secondo i tradizionali canoni dell’assistenza ai poveri o a de-
nunciare come esclusive colpe morali gli squilibri della società in via di
industrializzazione, senza farsi carico di soluzioni che non consistessero
in un semplice invito al ritorno. Ritorno ai salutari princìpi morali del
passato, ritorno al riconoscimento del ruolo sociale della Chiesa, ritorno
infine a un ideale ordine perduto: quello corporativo medievale, come
poi progressivamente apparirà più chiaro.
Quanto alla classe degli imprenditori capitalisti, invece, il discorso
si svolgeva su due piani diversi: quello esplicito (tradizionale) e quel-
lo implicito (contenente la vera novità). L’enciclica, infatti, chiede-
va innanzitutto ed esplicitamente agli imprenditori di non seguire il
criterio del mero profitto, di non speculare sui salari ecc.: richieste
che si rifacevano nei fatti a uno stereotipo, cioè in sostanza l’invito,
che l’istituzione ecclesiastica aveva da sempre rivolto ai ricchi, perché
facessero un uso moralmente legittimo della propria condizione di
privilegiati.
Ma la stessa enciclica lanciava anche loro un segnale implicito di na-
tura ideologica. Lo si poteva rilevare dal lungo e articolato esordio aper-
tamente antisocialista e dalle indicazioni finali riguardanti tra l’altro
la condanna dello sciopero e l’istituzione di organizzazioni del lavoro
miste di capitalisti e operai (sul modello delle corporazioni medievali)
che risultavano sostanzialmente opposte all’idea di sindacati composti
da soli lavoratori.
Il segnale era pertanto traducibile nei seguenti termini: se volete so-
pravvivere come classe dirigente, riconciliatevi con la Chiesa in nome
della comune lotta contro il socialismo. Era questa una dimostrazione di
quanto si asseriva nell’esordio dell’enciclica Immortale Dei: che cioè la
Chiesa, per quanto destinata alla cura delle cose sovrannaturali, poteva
offrire grandi benefici alla società anche sul piano della vita terrena.
dalla protesta al progetto di riconquista 65

Cattolici italiani di fine Ottocento:


tra priorità religiose e impegno sociale
In molte nazioni europee la pubblicazione della Rerum novarum trovò
una sensibilità verso tali problematiche già consolidata e alimentò per-
tanto in breve tempo sia un’ulteriore propensione delle organizzazioni
cattoliche verso le questioni sociali sia delle alleanze politico-elettorali
tra liberali e cattolici. In Italia, invece, l’effetto dell’enciclica si sviluppò
secondo strade in parte diverse e con tempi generalmente più lenti.
Sul piano politico-istituzionale perdurava, infatti, nei rapporti tra la
Santa sede e la classe dirigente che governava il paese il raffreddamento
conseguente alle vicende del 1887. A rafforzarlo intervennero anzi due
ulteriori avvenimenti: il rifiuto opposto da Leone xiii nell’autunno
1894 all’invito del capo del governo Crispi affinché «le due autorità, la
civile e la religiosa [procedessero] d’accordo per ricondurre le plebi tra-
viate sulla via della giustizia e dell’amore»6 e la conferma del non expedit
compiuta dallo stesso pontefice nel giugno 1895.
Rispetto, dunque, al generale tentativo di riavvicinamento con le
classi dirigenti liberali la linea papale si esprimeva in modo diverso a se-
conda che il problema riguardasse l’Italia o altri Stati. La causa di tutto
questo derivava ovviamente dal perdurare della questione romana e non
dalla maggiore o minore vicinanza ideologica con una data forma di go-
verno. Assolutamente emblematica risultava in tal senso la politica di
ralliement con la Francia della Terza repubblica che la Santa sede e in
particolare la segreteria di Stato vaticana stavano attuando in piena con-
comitanza temporale con l’atteggiamento ostile della medesima Santa
sede nei confronti dell’Italia monarchica.
Quanto invece alle organizzazioni cattoliche italiane era intenzio-
ne di Leone xiii dare loro il massimo sviluppo nella direzione indicata
dall’enciclica. Anzi, uno sviluppo anche maggiore rispetto agli altri pae-
si: perché in Italia la Santa sede continuava a rifiutare un legame diretto
con le istituzioni dello Stato (il cosiddetto paese legale) e il perseguìto
rapporto con la società passava dunque in modo pressoché esclusivo at-
traverso il legame con le popolazioni (il paese reale).
A favorire questo legame contribuiva indubbiamente la rete capillare
delle diocesi e all’interno di esse delle parrocchie, e il contatto diretto
sull’intero loro territorio tra il clero curato e i propri parrocchiani. Un
contatto al quale, in un modo o nell’altro, era quasi impossibile sottrarsi:
66 società, stato e chiesa in italia

o per ricevere i sacramenti della vita e della morte o per il ruolo auto-
revole che il prete comunque rivestiva in comunità che ripetevano un
modello sociale statico e uniforme in un paese in prevalenza rurale ed
extraurbano qual era l’Italia di fine Ottocento.
In tale specifico scenario, e nel quadro di una strategia di riconquista
sociale che richiedeva l’impiego di tutte le risorse di cui si poteva di-
sporre, quel clero venne invitato dal papa ad «uscire di sacrestia» per
intervenire nella lotta che si stava profilando. Fu un passaggio estrema-
mente significativo, che non mancò di alimentare accesi dibattiti tra co-
loro che, in sede storiografica, sono stati efficacemente suddivisi tra preti
del sacramento da un lato e preti del movimento dall’altro7. Ma si trat-
tava appunto di una strategia globale cui nulla poteva essere anteposto,
foss’anche il rischio di confondere un’immagine come quella del prete
tridentino che era stata tratteggiata al concilio di Trento di metà Cin-
quecento per ridare slancio a un impegno pastorale ormai inesistente e
dignità a una figura di ecclesiastico che, di fronte alle accuse dei seguaci
della riforma luterana, doveva recuperare tratti eminentemente spiritua-
li e in senso lato religiosi.
In quella strategia globale un ulteriore indizio appare d’altronde non
meno significativo: la riflessione sul ruolo della donna che, a partire da
una precedente enciclica dello stesso Leone xiii8, si sviluppò in quel pe-
riodo. Ne conseguì dapprima una presa di posizione dei vertici dell’oc
che è stata considerata in sede storiografica «il manifesto italiano di
quello che negli anni seguenti accetterà di chiamarsi femminismo cri-
stiano», poi l’aprirsi vero e proprio di un ruolo che lo stesso autore di
quel cosiddetto manifesto avrebbe così esplicitamente ricondotto alla
particolare congiuntura storica di inizio Novecento:

Se, pertanto, in tempi normali la donna dovesse anche restarsene sempre in


casa, oggi, che sono anormali le circostanze, essa deve uscir di casa come il prete
di sacristia; e portare il prezioso contributo della sua fede, della sua attività, del
suo entusiasmo, della sua costanza al trionfo della causa cattolica9.

Dunque, revisione parziale del ruolo del prete e della donna. Ma era
chiaro che il confronto con le organizzazioni socialiste andava combat-
tuto anche e soprattutto sul piano delle organizzazioni che la Rerum
novarum aveva espressamente indicato come alternative a quelle del
movimento operaio e contadino socialista, e che rimanevano all’epoca
laicali e sostanzialmente maschili.
dalla protesta al progetto di riconquista 67

Si profilava pertanto un passaggio particolarmente significativo nella


storia e nella funzione generale delle organizzazioni del laicato catto-
lico italiano che si erano sviluppate nel secondo Ottocento. Da cassa
di risonanza del protestare ed attendere, e da baluardo statico in difesa
della cittadella assediata concepita durante il pontificato di Pio ix, esse
sarebbero dovute divenire ora un concreto strumento di azione sul ter-
reno sociale, una sorta di avanguardia militante protesa verso e operante
all’interno delle popolazioni (secondo il motto di Leone xiii: «Allez
au peuple») al duplice scopo di arginare la penetrazione socialista e di
ristabilire il ruolo sociale della Chiesa.
Se questo tuttavia era l’ambizioso programma di Leone xiii, altra
era la capacità di risposta di un associazionismo cattolico italiano che
proprio allora stava percorrendo una lenta fase di ripresa dopo il perio-
do di stagnazione degli anni ottanta cui si è fatto prima riferimento.
L’organizzazione nazionale più antica allora esistente (la gc) era riu-
scita a salvaguardare la propria autonomia dalla tendenza fagocitante
della più massiccia oc, ma si trovava di fatto in una condizione ormai
lontana dallo slancio originario e avrebbe comunque dovuto convive-
re, come una sorta di doppione, con i comitati giovanili della organiz-
zazione maggiore. Nel 1896, al congresso di Fiesole dell’oc, si sarebbe
arrivati alla fondazione della fuci (Federazione universitaria cattolica
italiana), ma un suo ruolo significativo nel panorama italiano non si sa-
rebbe registrato prima degli anni venti-trenta del Novecento. Restava
dunque l’oc.
Come si è già accennato, la sua uscita dalla crisi era iniziata attor-
no al 1889-90 con l’esordio della presidenza Paganuzzi e la conseguente
affermazione della leadership veneta. Lo stesso spostamento del consi-
glio permanente dell’oc da Bologna a Venezia aveva ratificato questo
definitivo passaggio di consegne. L’oc a direzione veneta aveva ripreso
vigore, ma restava sostanzialmente ancorata ai princìpi che ne avevano
determinata la nascita: vale a dire la difesa del potere temporale del papa
e in generale dei diritti della Chiesa all’interno della società.
Con l’avvento di Leone xiii le cose non erano cambiate e anche dopo
la pubblicazione della Rerum novarum continuava a prevalere al vertice
dell’oc la convinzione che il problema principale cui prestare attenzio-
ne rimanesse la questione romana, vista come nodo a un tempo religioso
e politico. Rispetto invece all’incalzare più recente dei problemi sociali
Paganuzzi e i suoi più stretti collaboratori non ritenevano di dovervi im-
pegnare l’intera oc, preferendo che continuasse a interessarsene, come
68 società, stato e chiesa in italia

d’altronde faceva da tempo con un certo impegno, la ii sezione: quella


che aveva sede a Bergamo e che ruotava attorno all’iniziativa personale
di Stanislao Medolago Albani e Niccolò Rezzara.
Verso la metà anni novanta, ma soprattutto dopo il ricordato nuovo
momento di gelo con il governo italiano del 1894-95, Leone xiii e il se-
gretario di Stato Mariano Rampolla – ormai considerato il principale se
non esclusivo consigliere dell’anziano papa, tanto da esserne non a torto
ritenuto, e da non pochi temuto, come il futuro naturale successore – va-
lutarono che fosse venuto il momento di imprimere all’organizzazione
una svolta che la rendesse esecutrice più malleabile del programma so-
ciale perseguìto dal pontefice.
Per fare questo si operò in una duplice direzione. Da un lato si ac-
centuarono i richiami pubblici all’impegno sociale sia del clero che del
laicato cattolico per confermare senza margini di dubbio i desideri pa-
pali. Dall’altro si favorì l’inserimento alla vicepresidenza dell’oc di un
ecclesiastico di origine piacentina ma di formazione e carriera romana,
Giacomo Maria Radini Tedeschi, per poter meglio seguire dall’interno
l’orientamento generale dell’associazione e garantire un canale diretto
tra i suoi vertici e la segreteria di Stato.
Attivate in occasione del congresso di Fiesole del settembre 1896 e
consolidate nei mesi successivi, queste strategie produssero l’effetto sia
di controbilanciare la leadership di Paganuzzi sia di dare uno slancio ine-
dito all’intero settore delle istituzioni sociali legate all’oc. I due feno-
meni si delinearono tuttavia in tempi diversi.
L’espansione del cosiddetto settore economico-sociale si compì con
significativa celerità nell’arco di circa un anno, tanto che i dati statistici
presentati al successivo congresso di Milano dell’agosto-settembre 1897
segnalarono il numero massimo mai raggiunto di istituzioni economi-
co-sociali aderenti all’oc: 567 casse rurali (ne erano state censite 287
al congresso di Fiesole dell’anno precedente) e 698 società operaie di
mutuo soccorso (contro le 506 computate a Fiesole)10. Crescita oggetti-
vamente rimarchevole, che non compensava tuttavia lo sbilanciamento
geografico a favore di alcune regioni del Nord (Veneto, Lombardia e
Piemonte), probabilmente collegabile a due distinti fattori che concor-
revano al medesimo esito. Da un lato la presenza storicamente più con-
solidata in esse di una rete di organizzazioni cattoliche che traducevano
sul piano concreto una data concezione di militanza sociale cattolica;
dall’altro il fatto che le casse rurali e le società operaie cattoliche, per non
risultare quali piccole cattedrali nel deserto, dovevano necessariamente
dalla protesta al progetto di riconquista 69

insediarsi in un territorio favorevole: se non per orientamento ideologi-


co (aspetto assai delicato, ad esempio, negli antichi possedimenti dello
Stato pontificio) di certo per tessuto sociale e lavorativo (presenza dif-
fusa della piccola e medio-piccola proprietà rurale e di un forte tessuto
artigianale).
Il problema invece della presidenza paganuzziana richiese un’azio-
ne diplomatica più diluita nel tempo. Il presidente dell’oc beneficiava
infatti di un vasto seguito nel suo Veneto, la regione dove tra l’altro le
istituzioni prima ricordate erano diffuse in maggior numero; ed inoltre
godeva negli ambienti romani della fama di fedelissimo alla causa papa-
le: aspetto questo che egli avrebbe astutamente sempre messo innanzi a
difesa della propria linea. Non era dunque facile intervenire a correggere
il tiro delle sue iniziative. Ma non lo si poteva nemmeno procrastinare,
dato che era ormai difficile tenere a freno l’insofferenza manifestata a
riguardo dai settori giovanili della organizzazione.
Radini Tedeschi decise di favorire l’emergere di una via intermedia
tra l’ostinata resistenza del Paganuzzi a introdurre il benché minimo
segnale di cambiamento e l’esigenza dei più giovani di pervenire a mu-
tamenti rapidi e radicali; giovani che avevano visto il recente emerge-
re tra loro della figura trascinatrice del non ancora trentenne sacerdote
marchigiano Romolo Murri. Tale via intermedia ebbe una fase di stal-
lo nel 1898, quando le organizzazioni cattoliche subirono al pari delle
socialiste i provvedimenti repressivi decisi dal governo Rudinì dopo gli
episodi insurrezionali accaduti a Milano nel maggio di quell’anno. Ma
poi riprese con decisione il proprio cammino contando sull’appoggio
sia della segreteria di Stato, dove Radini Tedeschi era ben conosciuto
essendovisi formato in vista di una carriera diplomatica poi da lui stesso
rifiutata, sia di personalità interne all’oc quali i ricordati Medolago Al-
bani e Rezzara.
La svolta si ebbe nell’estate 1902, con la mancata conferma di Pa-
ganuzzi alla presidenza e l’elezione in sua vece dell’emiliano Giovanni
Grosoli, sostenuto dal Radini. La linea sociale, che meglio sembrava ade-
rire al programma di Leone xiii, era dunque risultata vincente. Diverse
erano tuttavia le incognite che pesavano su tale esito e anche sul futuro
dell’oc. Forse troppo ottimisticamente e trionfalisticamente sottovalu-
tate da don Murri in un proprio intervento dall’emblematico titolo Il
crollo di Venezia. Alcune di queste incognite nascevano all’interno del
crogiuolo di istanze e di attese che lo stesso programma di Leone xiii
aveva stimolato e che ora, peraltro, si muovevano secondo direzioni au-
70 società, stato e chiesa in italia

tonome. Altre invece avrebbero riguardato a breve termine gli orienta-


menti generali del papato romano: con l’intreccio di tensioni, aspettati-
ve, vere e proprie lotte di potere, tipiche di ogni fase di passaggio tra un
pontificato lungo e straordinariamente denso come quello che si stava
per concludere e il successivo che veniva ad aprirsi: in continuità o palese
inversione di tendenza con il precedente.
Fra le prime si segnalavano tra l’altro le spinte che, soprattutto nella
seconda metà degli anni novanta, avevano portato una parte di coloro
che erano impegnati nel settore economico-sociale ad allontanarsi pro-
gressivamente dal modello corporativo suggerito dalla Rerum novarum,
per approdare alla proposta di una sorta di sindacalismo cattolico o ad
altre forme di sostegno dei lavoratori. Ne era un emblematico indizio
l’ipotesi di costituzione delle unioni professionali semplici, cioè preclu-
se agli appartenenti al ceto proprietario nei diversi settori economici:
quindi con venature di classismo che sempre sino ad allora erano state
escluse in ogni intervento ecclesiastico attinente alla questione sociale.
Cominciò così a diffondersi a riguardo l’uso dell’espressione demo-
crazia cristiana. Ad utilizzarla era stato lo stesso pontefice Leone xiii,
che se ne era servito all’interno di un documento indirizzato nell’otto-
bre 1898 al cattolico francese di forte sensibilità sociale Léon Harmel.
Ma poi essa era stata ripresa in senso estensivo da Murri e da altri giovani
democratici cristiani che l’assunsero come emblema di una nuova forma
di presenza dei cattolici nella società, tanto da richiedere una precisa-
zione in senso riduttivo da parte di Leone xiii nell’enciclica Graves de
communi del 18 gennaio 1901.
L’enciclica aveva soprattutto lo scopo di frenare lo sviluppo incon-
trollato, e inaccettabile per lo stesso papa, del cosiddetto movimento
democratico cristiano. Ma esprimendo anche un giudizio positivo sul
recente sviluppo in senso economico-sociale compiuto dall’associa-
zionismo cattolico venne di fatto interpretata, nel panorama confuso
di quei mesi, come un apprezzamento della svolta che stava avvenendo
all’interno dell’oc e che avrebbe portato l’anno successivo alla ricordata
sostituzione di Paganuzzi.
Si trattò in realtà di un grave errore di valutazione da parte dei so-
stenitori del rinnovamento. Perché se era certamente vero che negli
ambienti vaticani vicini al pontefice e al segretario di Stato Rampolla
il Paganuzzi non era più visto con grande simpatia, era altrettanto vero
che le posizioni di don Murri e di altri esponenti del movimento de-
mocratico cristiano erano ritenute troppo avanzate. Soprattutto erano
dalla protesta al progetto di riconquista 71

visti con decisa diffidenza quei richiami alla democrazia e alla libertà
che il sacerdote marchigiano avrebbe tra l’altro formulati in un famoso
discorso tenuto a San Marino nell’agosto 1902 e che a molti parvero dif-
ficilmente componibili con i concetti di autorità e di ordine gerarchico
caratteristici della mentalità cattolica del tempo.
Il processo di superamento della stagione paganuzziana in ogni caso
proseguì. Al congresso di Bologna del novembre 1903 la linea del nuovo
presidente Grosoli raccolse, seppure attraverso polemiche, la maggio-
ranza dei consensi e, per iniziativa del già ricordato Radini Tedeschi, si
diede per la prima volta anche spazio all’istituzione di sezioni femminili
dell’oc: come sviluppo di quel ripensamento della figura femminile pri-
ma ricordato. Si trattò tuttavia di una sorta di canto del cigno.
Nel luglio 1904, infatti, di fronte a nuove forme di ostruzionismo
messe in opera all’interno del comitato permanente dell’oc dall’ex pre-
sidente Paganuzzi e dai suoi alleati veneti, Grosoli e Radini Tedeschi
tentarono di ottenere un riconoscimento ufficiale della loro linea da
parte del nuovo papa Pio x, eletto nell’agosto 1903. Il testo che avreb-
be dovuto sancire tale riconoscimento e confermare la piena libertà di
manovra della nuova presidenza dell’oc consisteva in una circolare che
venne diffusa pubblicamente da Grosoli il 15 luglio 1904. In essa, ripo-
nendo eccessiva fiducia nel credito riscosso presso la Santa sede e forse
sottovalutando i legami diretti e indiretti che potevano sussistere tra il
gruppo di Paganuzzi e un pontefice di origine veneta e che aveva svolto
nello stesso Veneto gran parte della propria carriera ecclesiastica fino alla
funzione ultima di patriarca di Venezia, ci si sbilanciò in affermazioni
arrischiate. Vi si diceva, infatti, a proposito della questione romana:

All’infuori di ciò che concerne i diritti imprescrittibili della Santa Sede, i catto-
lici considerano epoche ed avvenimenti storici, come pietre miliari di un cam-
mino in avanti, gelosi che non venga intralciata l’opera dei viventi da questioni
morte nella coscienza nazionale11.

In sede storiografica sussistono dubbi sull’effettiva personale stesura


di quel testo da parte di Grosoli o sul contributo alla stessa da parte di
Radini Tedeschi o di altri rappresentanti di quei settori cattolici che
avevano plaudito alla momentanea uscita di scena del gruppo veneto:
tra di essi il milanese Filippo Meda. Al di là di questo, ciò che rimane
essenziale è la reazione che si registrò da parte degli ambienti vaticani.
Il 19 luglio successivo, infatti, il quotidiano ufficiale della Santa sede,
72 società, stato e chiesa in italia

“L’Osservatore romano”, interveniva direttamente nella questione valu-


tando in modo negativo il contenuto della circolare. Per effetto di questa
pubblica e autorevole sconfessione, il 20 luglio Grosoli presentava le di-
missioni da presidente dell’oc. Le stesse erano accettate senza indugio.
Il 28 luglio una lettera indirizzata ai vescovi italiani dal nuovo segretario
di Stato Raffaele Merry del Val rendeva noto il definitivo scioglimento
dell’organizzazione.

Instaurare omnia in Christo:


le radici del mito conservatore di Pio x
Lo scioglimento dell’oc era un avvenimento senza precedenti nella sto-
ria dell’associazionismo laicale cattolico italiano: che nel corso ormai
pluridecennale della propria vicenda aveva semmai assistito a soppres-
sioni o attacchi provenienti dalle autorità civili del nuovo Stato. Inedita
d’altronde, non in sé ma per il livello di esasperazione che aveva rag-
giunto, era apparsa la gravità della frattura maturata all’interno dell’oc.
Una gravità che era ben superiore a quella manifestatasi durante i dissidi
tra cattolici dei decenni precedenti, perché, con il suo perdurare ormai
da sei anni, rischiava di trasmettersi dai vertici alla periferia dell’intera
organizzazione e di mandare quindi in crisi la stessa rete di istituzioni
economico-sociali che ne garantivano la presenza all’interno della so-
cietà civile. Un rischio, quest’ultimo, che la Santa sede non intendeva
assolutamente correre e che infatti esorcizzò lasciando in vita, come re-
siduo dell’oc, la sola ii sezione: quella appunto che sovrintendeva alle
suddette istituzioni.
Lo scioglimento della maggiore delle organizzazioni nazionali del
laicato cattolico costituiva in ogni caso un indizio assolutamente ine-
quivoco sia del chiudersi dell’intera stagione ottocentesca di quell’espe-
rienza, sia della chiara intenzione da parte di Pio x e dei suoi più stretti
collaboratori di inaugurarne una nuova. Dato che non era per nulla in
discussione la scelta strategica di impiegare il laicato cattolico come testa
di ponte della Chiesa verso la società, la novità non poteva consistere
che in una maggiore subordinazione dello stesso laicato alla gerarchia
ecclesiastica e nella sua eventuale riorganizzazione su basi più compatte
e funzionali a garantire una sua presenza complementare rispetto all’a-
zione ordinaria che sarebbe stata invece svolta dal clero.
dalla protesta al progetto di riconquista 73

Il tutto doveva comunque inserirsi nel quadro di quel ritorno al re-


ligioso suggerito dalla formula che intendeva riassumere il programma
globale del pontificato di Pio x: Instaurare omnia in Christo.
Le energie liberatesi durante il pontificato di Leone xiii non erano
tuttavia destinate a spegnersi o ad autodisciplinarsi a causa degli even-
ti ricordati. Anni di esperienza nella fondazione di casse rurali, società
operaie di mutuo soccorso, unioni professionali, ma anche nell’organiz-
zazione del voto cattolico alle elezioni amministrative, avevano alimen-
tato in molti la consapevolezza di ricoprire comunque un ruolo. Mentre
dunque da parte della Santa sede ci si preparava a risagomare l’associa-
zionismo italiano sulle basi che vedremo tra poco, i settori giovanili che
più si erano impegnati nell’attacco alla linea e alle priorità imposte dalla
vecchia dirigenza veneta dell’oc decisero di non abbandonare il proget-
to di fondare anche in Italia un partito cattolico sul modello già ricorda-
to del Zentrum tedesco.
Accanto a laici quali Giovanni Bertini ed Eligio Cacciaguerra, ci si
impegnarono anche sacerdoti quali il già ricordato Romolo Murri, che
aveva nel frattempo continuato la propria battaglia innovatrice dalle pa-
gine di “Cultura sociale” e di “Il domani d’Italia”, e don Luigi Sturzo:
un giovane sacerdote siciliano destinato a ricoprire in seguito un ruo-
lo di ben noto rilievo nel panorama del cattolicesimo politico italiano.
Quest’ultimo tuttavia lo fece allora soprattutto attraverso un’azione di
propaganda, che si segnalò in particolare nel dicembre 1905 mediante
un discorso tenuto a Caltagirone. Murri invece non si limitò ad appro-
fondire la tematica dal punto di vista teorico e nel novembre dello stesso
1905 fondò a Bologna la Lega democratica nazionale.
Si trattava della prima formazione politica dei cattolici italiani: de-
finirla partito in senso proprio era forse eccessivo. Secondo gli inten-
dimenti dei suoi fondatori, la fede religiosa che pure era alla base di
quell’esperienza e legava i suoi protagonisti non doveva però tradursi in
un fattore confessionale: cioè in un’esplicita subordinazione alla Chiesa
per quanto riguardava le eventuali scelte politiche della nuova forma-
zione. La Lega, dunque, era a tutti gli effetti un’iniziativa di cattolici e si
interessava di questioni riguardanti la Chiesa e la sua presenza nella so-
cietà, ma intendeva percorrere un proprio cammino in autonomia dalla
gerarchia ecclesiastica.
La reazione della Santa sede si fece attendere per alcuni mesi, poi si
espresse in ravvicinata sequenza, a partire dall’enciclica Pieni l’animo,
datata 28 luglio 1906. Tale documento inaugurava la serie di condan-
74 società, stato e chiesa in italia

ne interne al mondo cattolico che avrebbe raggiunto il proprio culmine


l’anno successivo, dapprima con il decreto Lamentabili sane exitu ema-
nato dalla Congregazione del Sant’Uffizio – e costituito, sul modello
del Sillabo, da un elenco di affermazioni erronee, per lo più estratte da
opere del pensatore francese Alfred Loisy – e poi soprattutto con l’en-
ciclica Pascendi Dominici gregis, nella quale si denunciavano in blocco
tutte le forme di modernizzazione che sembravano essersi diffuse all’in-
terno del clero e più in generale della Chiesa.
Fu un passaggio memorabile: sia che lo si considerasse con plauso,
sia che lo si esecrasse. Da un certo punto di vista, infatti, l’antica e appa-
rentemente superata denuncia integrale della società moderna che aveva
trovato in Pio ix il suo campione e nel Sillabo l’atto emblematico, ritro-
vava slancio e credibilità nella nuova condanna integrale che ora Pio x e
l’enciclica Pascendi comminavano a ogni forma di modernità (da cui il
nome di modernismo attribuito a questo fenomeno, che si voleva organi-
co) penetrata nella Chiesa12.
In riferimento specifico all’iniziativa di don Murri l’enciclica Pieni
l’animo prevedeva l’immediata sospensione a divinis per i sacerdoti che
si fossero iscritti alla Lega democratica nazionale. Il primo effetto del
provvedimento fu il naturale trasformarsi della Lega da iniziativa mi-
sta di laici e sacerdoti a esperienza pressoché esclusivamente laicale. Poi
seguì una divisione interna tra coloro che volevano proseguire la linea
di Murri, ormai al di fuori della Chiesa dopo la sospensione a divinis
del 1907 e la scomunica del 1909, e coloro che invece si riavvicinarono
progressivamente alle posizioni ufficiali della Santa sede, rinunciando a
un’attività politica vera e propria.
Ma l’enciclica di Pio x conteneva anche altre affermazioni che, pur ri-
guardando formalmente il clero, chiarivano tuttavia in quale direzione si
stesse orientando il nuovo corso dell’associazionismo cattolico italiano.
Due di quelle affermazioni meritano in particolare la nostra attenzione.
Nella prima, con evidente riferimento al ricordato motto di Leone xiii
«Allez au peuple», si diceva ad esempio: «I sacerdoti, specialmente i
giovani, benché sia lodevole che vadano al popolo, debbono nondime-
no procedere in ciò col dovuto ossequio dell’autorità e ai comandi dei
Superiori ecclesiastici». Nella seconda, con la dichiarata intenzione di
arginare il diffondersi al suo interno delle idee erronee e dello spirito di
indipendenza, si proibiva al clero di far parte di «qualsiasi società che
non [dipendesse] dai Vescovi»13.
L’Instaurare omnia in Christo di Pio x comportava dunque una revi-
dalla protesta al progetto di riconquista 75

sione dei criteri con i quali il pontefice predecessore aveva intrapreso la


riconquista della società da parte della Chiesa. Non era in discussione il
se farlo, quanto il come farlo. Secondo il nuovo papa, infatti, il contatto
col mondo secolarizzato era stato foriero dell’assimilazione di valori e
mentalità laiche da parte di componenti del mondo cattolico e talora
più specificamente ecclesiastiche. Occorreva pertanto intervenire con
contromisure. Per il clero innanzitutto, ma poi anche per quei laici cat-
tolici che intendessero restare fedeli alla Chiesa e soprattutto essere con-
siderati tali dalla stessa. Queste, in estrema sintesi, le contromisure: dal
punto di vista dei criteri di fondo, pieno rispetto del principio dell’ob-
bedienza; dal punto di vista dei meccanismi istituzionali e del concreto
funzionamento della vita associativa, diretta dipendenza di ogni orga-
nizzazione dalla gerarchia ecclesiastica.
Pio x aveva già puntualizzato queste linee nell’enciclica Il fermo
proposito dell’11 giugno 1905 e l’opera di adattamento/ricostruzione
dell’associazionismo laicale cattolico era già pervenuta a inizio 1906 alla
fondazione delle tre organizzazioni che avrebbero dovuto riprendere,
su basi più rassicuranti per la Santa sede, il cammino interrotto a luglio
1904 con la soppressione dell’oc. Esse erano l’Unione economico-so-
ciale, l’Unione popolare e l’Unione elettorale.
La prima era l’unica a possedere già una propria struttura definita.
Si trattava, infatti, con nome mutato, della passata ii sezione dell’oc:
la sola, come s’è detto, che era sopravvissuta al provvedimento del lu-
glio 1904. La totale continuità tra le due era confermata dal fatto che
la sede dell’Unione economico-sociale restava a Bergamo, così come la
presidenza nelle mani di Medolago Albani. L’Unione popolare, la più
generica delle tre unioni, con i suoi compiti di studio, di propaganda e
di organizzazione, aveva invece sede a Firenze ed era affidata alla presi-
denza del Toniolo. L’Unione elettorale infine, coordinante l’attività dei
cattolici nelle elezioni amministrative, aveva sede a Roma ed aveva quale
presidente Filippo Tolli. La riforma, come lo scioglimento del 1904, non
riguardava invece la gc. La sua funzione restava d’altronde ormai solo
quella di preparare i futuri militanti dell’Unione popolare.
Già la scelta del personale direttivo delle tre unioni era indicativa. I
rispettivi presidenti erano infatti persone di indubbio prestigio, ma si
qualificavano anche e soprattutto come laici esemplari per la propria fe-
deltà alla Santa sede. La nuova fisionomia, più accentrata e clericalizzata
nonostante il mantenimento delle presidenze di laici, risultava evidente
dalla istituzione in ciascuna diocesi di direzioni locali che, affiancate dal-
76 società, stato e chiesa in italia

la figura dell’assistente ecclesiastico – un sacerdote appositamente inca-


ricato di seguire le attività diocesane delle varie associazioni – avrebbero
dovuto coordinare a livello periferico l’intero movimento del laicato
cattolico. Tenendo conto che l’attività locale veniva in tal modo del tut-
to sottoposta al controllo dei singoli vescovi appare evidente che non si
sarebbe potuta dare alcuna dialettica tra il centro delle singole unioni e
la loro proiezione periferica. In sostanza: mentre prima la cellulare rete
delle diocesi/parrocchie aveva svolto sul territorio un ruolo di sostegno
alla spontanea diffusione del fenomeno, ora quella medesima rete inglo-
bava nella propria struttura il fenomeno stesso.
Alla stagione di fine Ottocento, caratterizzata dal fermento delle idee,
delle iniziative e anche del confronto tra prospettive diverse, subentrava
ora la stagione dell’inquadramento e dell’ulteriore consolidamento eco-
nomico e istituzionale del mondo cattolico italiano. I dibattiti e anche
i conflitti teorici non sarebbero del tutto cessati: si pensi tra l’altro alla
dialettica tra le posizioni più tradizionaliste di Filippo Crispolti e quelle
più innovative di Guido Miglioli, che si sviluppò con toni particolar-
mente accesi in materia di sindacato e di confessionalità o meno delle or-
ganizzazioni laicali cattoliche al congresso di Modena del 1910 (ultimo
della serie). Ma si trattò anche in questo caso del classico canto del cigno.
Ci si trovava infatti nel pieno della bufera antimodernista, con de-
nunce di scarsa ortodossia che sfioravano ormai anche taluni vescovi di
grande prestigio e fino ad allora di orientamento indiscutibilmente mo-
derato: dall’arcivescovo di Milano Andrea Ferrari al già vicepresidente
dell’oc e ora vescovo di Bergamo Giacomo Radini Tedeschi; dall’ar-
civescovo di Pisa Pietro Maffi all’arcivescovo di Bologna Domenico
Svampa. Era dunque impensabile che alle idee si lasciasse lo spazio di
cui avevano goduto anni prima. Ora l’alternativa si riduceva a questo: o
l’attesa laboriosa di tempi migliori – secondo la proposta di Tommaso
Gallarati Scotti, un giovane aristocratico milanese che sembrava conti-
nuare, pur nella diversità dei contesti e dei problemi, l’antica tradizione
del cattolicesimo liberale lombardo – o il coinvolgimento in una nuova
fase di slancio pratico e organizzativo.
Il netto prevalere di questa seconda ipotesi si tradusse negli anni che
vanno dal 1907 allo scoppio della Grande guerra in un’ulteriore impo-
nente crescita del movimento. Sua caratteristica peculiare in quegli anni
fu la volontà di collegare su base nazionale la miriade delle istituzioni
locali che già esistevano e quelle che continuavano a sorgere.
Nel marzo 1907 fu così istituita la Federazione nazionale degli isti-
dalla protesta al progetto di riconquista 77

tuti popolari cattolici di previdenza. Nel febbraio 1908 la Federazione


nazionale delle cooperative agricole italiane. Nel febbraio 1909 la Fe-
derazione delle banche cattoliche d’Italia e nel settembre dello stesso
anno la Federazione italiana delle casse rurali cattoliche. Nel luglio 1910
entrò in funzione il Segretariato generale delle unioni professionali. E
tale orientamento non preservò nemmeno la stampa cattolica, che nel
1908 vide nascere con la Società editoriale italiana il cosiddetto trust ca-
peggiato dall’ex presidente dell’oc Grosoli: a conferma che le divisioni
e i contrasti di un tempo sembravano ormai meno rilevanti di fronte ai
due nuovi imperativi: coordinare e non disperdere le forze.
All’inizio del secondo decennio del Novecento la presenza massiccia
delle istituzioni cattoliche all’interno della società italiana era un fatto
acquisito. Non si poteva certo parlare di una piena riconquista di quello
che nel secondo Ottocento veniva chiamato il paese reale: anche perché
altro era rappresentare un punto di riferimento finanziario, assicurativo,
sindacale, per alcune categorie sociali come la piccola proprietà rurale,
l’artigianato, un certo proletariato agricolo; e altro era il traguardo della
ricristianizzazione effettiva delle popolazioni, dipendente da ben altri
fattori. Ma era altrettanto indubbio che nello scenario italiano del tem-
po la presenza cattolica non si esprimeva più solamente nei termini della
protesta contro la classe dirigente risorgimentale, né poteva essere igno-
rata nel quadro degli equilibri che si stavano ridisegnando nella società
italiana del tempo.
A collocarla in modo definitivo come interlocutrice stabile tra le
maggiori forze del paese continuava tuttavia a mancare la traduzione di
quell’indubbio peso sociale in termini politici e parlamentari. A que-
sto riguardo Pio x avrebbe unito alla assoluta rigidità in ambito dottri-
nale una ben maggiore duttilità dei propri predecessori. Proveniva tra
l’altro da una regione come il Veneto nella quale la battaglia elettorale
dei cattolici a livello delle elezioni amministrative era una realtà con-
solidata. Ma sussisteva tuttora la preoccupazione che una presenza dei
cattolici nella vita politica del paese affidata al costituirsi di un partito
formalmente confessionale avrebbe poi finito per condizionare gli spa-
zi di manovra che la Santa sede intendeva riservarsi. Altra cosa, infatti,
era servirsi strumentalmente di tale presenza sul territorio per dare forza
contrattuale alle decisioni assunte in Vaticano, e altra cosa era affidare
alla stessa presenza il compito di rappresentare magari anche con una
certa autonomia la linea politica scelta di volta in volta dalla Santa sede.
Nessun partito cattolico, dunque. Semmai la possibilità di stilare con
78 società, stato e chiesa in italia

la classe dirigente del paese, sempre più assillata dalla crescita ora anche
parlamentare dei socialisti, una sorta di patto che prevedesse da un lato
il progressivo allentamento del non expedit per consentire all’elettorato
cattolico di votare taluni candidati governativi e dall’altro lato l’impe-
gno di quegli stessi candidati a sviluppare un’azione legislativa non osti-
le alla Chiesa e alle organizzazioni cattoliche.
La concreta attuazione di questa prospettiva si diluì nel corso de-
gli anni. Alle politiche del 1904 il papa neoeletto consentì una prima
modestissima deroga al non expedit, scelta che tra l’altro produsse in
Lombardia l’elezione di due deputati cattolici14. Nel 1909 il fenomeno
si estese ulteriormente. Nel 1913, infine, esso venne affrontato in termini
semiufficiali attraverso il cosiddetto patto Gentiloni, dal nome del conte
Ottorino Gentiloni, nuovo presidente dell’Unione elettorale.
L’accordo era la concreta estrinsecazione della prospettiva che abbia-
mo visto in precedenza e si basava sulla sottoscrizione di una serie di
clausole che avrebbero vincolato i contraenti: 1. opposizione a ogni pro-
posta di legge ostile verso le congregazioni religiose e che, comunque,
tendesse a turbare la pace religiosa della nazione; 2. tutela dell’insegna-
mento privato, ritenuto fattore di diffusione ed elevazione della cultu-
ra nazionale; 3. garanzie giuridiche e pratiche a sostegno del diritto dei
padri di famiglia ad avere per i propri figli una seria istruzione religiosa
nelle scuole pubbliche; 4. assoluta opposizione al divorzio; 5. garanzia
di rappresentanza nei Consigli di Stato per ogni tipo di associazione
economico-sociale, a prescindere dai princìpi sociali e religiosi procla-
mati; 6. maggiore perequazione nel sistema tributario; 7. sostegno alle
forze economiche e morali del paese, in vista di un incremento del ruolo
italiano sulla scena internazionale.
Al di là di significativi elementi rivelatori della mentalità del tempo,
come il fatto che la scelta relativa all’insegnamento della religione nelle
scuole pubbliche spettasse non alle famiglie ma ai padri di famiglia, il
patto univa temi classicamente cari alla sensibilità cattolica di ogni epo-
ca (enti religiosi, scuola privata e diritto di famiglia) a un motivo stretta-
mente congiunturale: la richiesta di valorizzazione delle forze che erano
in sostanza favorevoli a una politica di potenza italiana nel momento in
cui l’Italia stava uscendo proprio allora dall’operazione coloniale volta
alla conquista militare della Libia. Se lo osserviamo nel suo insieme non
sfugge peraltro la doppia congiunta finalità politica che esso si propone-
va: chiarire al candidato governativo che non avrebbe comunque dovuto
modificare lo statu quo cui si era al momento pervenuti sulla strada del
dalla protesta al progetto di riconquista 79

confronto decennale tra una visione laica dello Stato che era fino ad al-
lora mancata nei suoi obiettivi più ambiziosi e la resistenza cattolica sui
punti lì elencati; dimostrare allo stesso la piena disponibilità cattolica
a sostenere la linea governativa anche su punti quali la politica estera
nella quale il pacifismo socialista avrebbe potuto rappresentare, anche in
proiezione futura (si era non lontani dallo scoppio della Grande guerra
e dal vivacissimo dibattito sull’intervento/non intervento che si sarebbe
in effetti scatenato in Italia per gran parte del 1914), un serio ostacolo
alla eventuale chiamata alle armi popolare.
Resta da capire il perché si sottoscrisse il patto allora e non prima.
Ciò dipese, oltre che da altri fattori, dal fatto che i rischi di sconfitta
della maggioranza parlamentare che sosteneva il governo guidato da
Giovanni Giolitti erano nel 1913 ben maggiori che nel 1904 o nel 1909,
a causa della nuova legge elettorale che nel 1912 aveva introdotto il suf-
fragio universale maschile portando il numero degli elettori italiani da
meno di 3 milioni a quasi 8 milioni e mezzo. A quella maggioranza par-
lamentare, tuttora espressione prevalente di ceti e interessi elitari della
società italiana, occorreva dunque un alleato che avesse una presenza
di massa sul territorio paragonabile per capillarità e peso numerico al
movimento socialista. L’alleato con il suddetto requisito era appunto il
mondo cattolico, con la sua antica rete strutturale di diocesi/parrocchie
ora declinata anche in termini di organizzazione economica e sociale.
4
Grande guerra e fascismo:
l’accordo con lo Stato

Chiesa, cattolici e società italiana


tra guerra e dopoguerra
Quando venne reso noto l’esito elettorale del 1913 le interpretazioni
relative al peso esercitato dal voto cattolico non risultarono concordi.
Contrastavano, soprattutto, la visione entusiastica ed enfatizzante del
presidente dell’Unione elettorale Gentiloni, secondo il quale almeno
228 candidati vicini al governo erano stati eletti col sostanziale contri-
buto cattolico, e quella pacata e minimalista dello stesso Giolitti. Era
chiaro, peraltro, che entrambe si basavano su uno specifico, ancorché
del tutto contrapposto, interesse: aumentare il credito da riscuotere nel
primo caso; diminuirlo, se non addirittura annullarlo, nel secondo.
Al di là di questo, era tuttavia fuori discussione che quel peso c’era
stato e che in futuro non se ne sarebbe potuto non tener conto. Tanto
più che i deputati dell’area di sinistra, nelle varie realtà più moderate o
più massimaliste che la componevano, avevano visto aumentare in mi-
sura di poco inferiore al 50% (dai 65 del 1909 ai 96 del 1913) i propri
eletti, con conseguenze facilmente intuibili per la politica delle alleanze
perseguita da Giolitti negli anni precedenti.
Quell’uscita semiufficiale dei cattolici dall’autoemarginazione politi-
ca cui li aveva vincolati per circa quarant’anni il non expedit (che tuttora
sussisteva, almeno sul piano formale) riaprì ovviamente anche il proble-
ma della fondazione o meno di un partito vero e proprio; un partito che
ricevesse un diretto mandato dagli elettori cattolici per poi rappresen-
tarne gli interessi in parlamento.
In tal senso vari esponenti cattolici si erano mossi anche alla vigilia
delle elezioni del 1913. E a Bergamo, a guida della cui diocesi era nel frat-
tempo stato designato dalla Santa sede monsignor Radini Tedeschi già
vicepresidente nazionale dell’oc, si sfiorò la spaccatura verticale tra le
82 società, stato e chiesa in italia

indicazioni di voto espresse dall’Unione elettorale e quelle che inten-


deva invece dare la direzione diocesana delle organizzazioni cattoliche:
le prime favorevoli ai candidati governativi che avevano sottoscritto il
patto Gentiloni, le seconde orientate al sostegno diretto ed esclusivo a
soli candidati cattolici. Lo scoppio della Grande guerra orientò tuttavia
l’attenzione collettiva su ben altri problemi e il progetto di fondazione
di un vero e proprio partito che fosse espressione del cattolicesimo ita-
liano restò al momento ancora irrealizzato.
La guerra, rispetto agli orientamenti pubblici del mondo cattolico
italiano, poneva innanzitutto un interrogativo: sostenere la neutralità
dello Stato italiano o al contrario alimentare il suo intervento? La que-
stione venne con facilità risolta nel primo senso tra l’estate 1914 e la pri-
mavera 1915: nel periodo, cioè, durante il quale la linea della neutralità
italiana era pressoché generalmente condivisa. Ma risultò ben più irta di
difficoltà e di contrasti dopo l’ingresso in guerra il 24 maggio 1915.
Da un lato, infatti, sussisteva la posizione neutrale della Santa sede:
in sé inevitabile, perché la generalizzazione del conflitto non consenti-
va certo in tale circostanza che venisse applicato l’antico principio della
guerra giusta1. E posizione che avrebbe raggiunto il suo culmine nell’a-
gosto 1917 con la Nota inviata alle potenze in lotta dal nuovo pontefice
Benedetto xv, allo scopo di far concludere quella che veniva da lui defi-
nita una «inutile strage». Dall’altro, invece, si trovavano a collidere tra
loro posizioni assai variegate. Sul versante del non intervento si collo-
cavano ad esempio sia il pacifismo di origine morale e ideale diffuso in
particolare negli ambienti del sindacalismo cattolico di Guido Miglioli,
sia il pacifismo di ordine pratico diffuso in un clero rurale vicino alle
popolazioni che più avrebbero sentito il peso della guerra a causa della
partenza per il fronte dei propri uomini più validi. Sul versante della
partecipazione alla guerra si registravano invece sia l’interventismo op-
portunista di ampi settori dell’alto clero e dei vertici delle organizzazio-
ni cattoliche, che vedevano nella partecipazione alla guerra un definiti-
vo superamento dell’antica fama antipatriottica attribuita ai cattolici nei
decenni più duri della questione romana, sia l’interventismo spontaneo
dei cattolici nazionalisti che già si era espresso durante l’impresa libica
del 1911-12 e più in generale nelle aree di presenza coloniale italiana in
Africa2.
Dopo una fase di indecisione concentratasi nei mesi immediatamen-
te successivi all’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, le posizioni cattoli-
che vennero tuttavia allineandosi al pieno appoggio all’intervento3. Vi
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 83

contribuì senz’altro anche una preoccupazione di ordine ideologico.


Dopo l’entrata in guerra italiana, infatti, le posizioni pacifiste all’inter-
no del mondo cattolico rischiavano di trovarsi in solitaria e imbarazzan-
te compagnia con quelle analoghe dei socialisti.
Avendo sullo sfondo la singolare situazione di un orientamento uffi-
cialmente antibellico da parte del pontefice e nello stesso tempo un or-
mai diffuso contributo al conflitto da parte del mondo cattolico italiano
nelle sue diverse declinazioni istituzionali e organizzative, lo stesso clero
nazionale, all’epoca non esentato dal servizio militare, venne diretta-
mente coinvolto nella guerra4. Dalla metà del 1915 partirono dunque per
il fronte varie migliaia di sacerdoti. Ricoprivano in genere la funzione di
cappellani: destinati sia ad offrire ai soldati italiani il proprio sostegno
morale e religioso, sia ad alimentare negli stessi – non diversamente da
quanto fatto nei diversi paesi belligeranti dal clero delle rispettive nazio-
ni, in nome del radicato nesso tra patria e religione5 – la convinzione di
combattere per una giusta causa. Altre migliaia di sacerdoti prestarono
invece la loro opera presso gli ospedali militari delle retrovie. Altri anco-
ra, appartenenti specialmente a quel clero curato che era rimasto a guida
delle parrocchie, si impegnarono assiduamente nel sostegno ai familiari
dei soldati partiti per il fronte, garantendo tra l’altro in vario modo la
reciproca trasmissione di notizie.
La stampa cattolica non si sottrasse in genere all’opera di sostegno
morale del paese, pur sviluppando nei casi culturalmente più significa-
tivi la distinzione tra l’esasperazione del nazionalismo bellicista e il sano
nazionalismo cattolico6.
Nel giugno 1916 infine il deputato cattolico Filippo Meda, già segna-
latosi tra fine Ottocento e inizio Novecento come esponente dei giovani
democratici cristiani contrari alla presidenza Paganuzzi nell’oc, entrava
a far parte del gabinetto di guerra Boselli in qualità di ministro delle
Finanze.
Ma la guerra non fu per il mondo cattolico italiano solo un modo per
superare, in forma ormai definitiva, gli antichi steccati che lo avevano a
lungo diviso dalle istituzioni e anche da una parte rilevante della società
italiana. Per alcuni osservatori più avvertiti essa fu anche un’occasione
per esaminare in modo meno superficiale i processi sociali che erano in-
tervenuti in Italia negli ultimi anni e che molti continuavano a giudicare
secondo modelli interpretativi formulati decenni prima.
Alla luce di quei modelli si era infatti consolidata la convinzione che
il paese fosse diviso abbastanza nettamente in due parti. Da un lato l’I-
84 società, stato e chiesa in italia

talia delle città: borghese, liberale, più acculturata e quindi immorale


per definizione. Dall’altro l’Italia delle campagne: rurale, ostile ai prin-
cìpi del pensiero liberale, culturalmente debole e pertanto moralmen-
te indenne, sempre per definizione. Ci si rese invece conto che quella
chiave interpretativa andava arricchita di ben altri elementi. Le indagini
di carattere statistico svolte da alcuni vescovi attenti alle problematiche
sociali rivelavano in realtà che la partecipazione dei fedeli alla messa o
la stessa frequenza nell’avvicinarsi ai sacramenti seguivano un andamen-
to che non confermava affatto lo schema città = secolarizzazione da un
lato, e campagna = religiosità diffusa dall’altro.
Iniziava infatti ad emergere con crescente nettezza il fenomeno di
una pratica religiosa ordinaria che era circoscritta ormai pressoché esclu-
sivamente alle donne e ai fanciulli, mentre risultava per converso in pau-
rosa diminuzione presso gli uomini. Se poi si tiene conto che a casa era-
no rimasti soprattutto gli anziani, era naturale concludere che la realtà
futura, con il rientro dei soldati dal fronte, non potesse che peggiorare.
Qual era la causa di tutto questo? Qui l’acutezza dell’analisi che ave-
va consentito di cogliere gli aspetti essenziali del fenomeno si perdeva
nuovamente nei modelli interpretativi più triti. E così, come nel corso
dell’Ottocento la causa era stata semplicisticamente attribuita alla diffu-
sione della cosiddetta rivoluzione liberale presso le classi sociali più ele-
vate, ora la si individuò altrettanto semplicisticamente nella sola azione
scristianizzatrice compiuta dalla propaganda socialista presso le masse
operaie e contadine.
Una rappresentazione esemplare di tale visione era offerta da una let-
tera pastorale del tempo:

Così, mentre le classi abbienti e date alle professioni si sono venute rovinan-
do e scristianizzando, per la istruzione anticristiana loro impartita nelle scuole
secondarie e superiori, il popolo si è scristianizzato per l’ignoranza in cui s’è
lasciato, per la soppressione dell’insegnamento religioso e per l’azione empia ed
irreligiosa del socialismo dominante7.

Se ne concluse che occorreva raccogliere ulteriormente le proprie forze


per contrastare l’opera di quello che ormai, dopo che ripetute prove di
alleanza con le altre componenti della società avevano smussato gli anti-
chi dissidi con le stesse, risultava il maggiore nemico: il socialismo.
Lo strumento del laicato cattolico restava ancora da questo punto di
vista di grande utilità, ma il carattere elefantiaco ormai assunto dall’in-
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 85

sieme del movimento, nelle sue svariate diramazioni propagandistiche,


economico-sociali, elettorali ecc., richiedeva che si procedesse sia a una
semplificazione di tipo strutturale per rendere più agile e manovrabile
l’intera realtà organizzativa, sia ad iniziative come vedremo di altra na-
tura. L’operazione si svolse in fasi diverse e non necessariamente coordi-
nate tra loro, ma tutte apparentemente riconducibili alla generale rimes-
sa a fuoco delle funzioni del laicato cattolico nella nuova situazione che
si stava profilando in Italia tra guerra e dopoguerra.
Una prima fase si concentrò nel febbraio-marzo 1915 con l’istituzione
di un organismo centrale per il coordinamento complessivo delle attivi-
tà delle diverse parti del movimento. Tale organismo, la giunta direttiva
dell’Azione cattolica italiana, era già stato istituito in forma transitoria
nel 1906, ma non aveva in realtà adempiuto al proprio scopo: anche
perché presieduto a rotazione dai presidenti delle diverse unioni. Ora
invece la presidenza era affidata in modo stabile a chi già presiedeva l’U-
nione popolare. Scelta questa di particolare significato, perché al di là
della maggiore continuità nell’opera di coordinamento essa sottintende-
va abbastanza chiaramente l’intento di fare dell’Unione popolare il vero
fulcro dell’intero associazionismo cattolico.
Ma un altro aspetto si qualificava come particolare nei provvedimenti
del 1915. Alla Giunta centrale, composta da membri di diritto e da mem-
bri elettivi per un totale di undici persone, doveva infatti corrispondere
in ogni diocesi una giunta diocesana; a livello ancora inferiore i soci sa-
rebbero poi stati raccolti in gruppi parrocchiali. Veniva così a costituirsi
una struttura piramidale ben più omogenea e razionale rispetto a quella
di ogni altra precedente organizzazione cattolica in Italia. Una piramide
che inoltre si sagomava in modo speculare sul triplice livello di quella
ecclesiastica: Santa sede, diocesi, parrocchie.
Era a tutti gli effetti il preludio all’atto vero e proprio di fondazione
della moderna Azione cattolica (ac). Non in senso formale, dato che
si continuava a parlare di Unioni, e il termine azione cattolica non era
ancora utilizzato come invece avverrà in seguito per denominare uffi-
cialmente una specifica organizzazione, ma certo nella sostanza dei fatti.
Una seconda serie di provvedimenti si concentrò invece tra la prima-
vera del 1918 e l’autunno del 1919. Si iniziò nel marzo 1918, quando le
varie organizzazioni sindacali cattoliche si unirono per dare vita a Roma
alla Confederazione italiana dei lavoratori: la prima istituzione cattolica
di questo genere ad essere fondata in Italia. L’iniziativa rispondeva a due
esigenze.
86 società, stato e chiesa in italia

Da un lato mantenere una propria fisionomia sindacale definita,


dopo che i provvedimenti del 1915 sopra descritti stavano portando l’in-
tero associazionismo cattolico a riconoscersi in modo troppo esclusivo
nella sola Unione popolare e nella nascente ac. Dall’altro dare vita a
un’istituzione che riprendesse il modello della Confederazione genera-
le del lavoro, fondata nel settembre 1906 come raccordo tra le diverse
federazioni e camere del lavoro del movimento socialista, ma che si di-
stinguesse dalla stessa per il rifiuto della lotta di classe e per le proprie
idealità cristiane.
Tra la fine del 1918 e l’inizio del 1919 anche il problema della presenza
politica dei cattolici italiani assisteva poi a una svolta. Ci si ricorderà
degli ostacoli che la Santa sede aveva sempre frapposto alla nascita in
Italia di un partito cattolico vero e proprio: in particolare nel 1879, con
il sostanziale rifiuto dell’iniziativa promossa dalle riunioni di casa Cam-
pello, e nel 1906 con l’ostracismo di Pio x nei confronti della murriana
Lega democratica nazionale. Ora invece, si era nel gennaio 1919, don Lu-
igi Sturzo, che ricopriva a quel momento la funzione di segretario della
giunta direttiva dell’Azione cattolica italiana, pubblicava l’appello e il
programma con i quali nasceva ufficialmente il Partito popolare italiano
(ppi)8. Pochi giorni dopo, a conferma che l’iniziativa trovava piena acco-
glienza negli ambienti vaticani, veniva sciolta l’Unione elettorale. Della
struttura complessiva disegnata a Firenze nel 1906 sulle ceneri dell’oc, e
tenendo conto che la sua crescita di rilievo aveva anche comportato una
conseguente trasformazione dei compiti della Unione popolare, restava
dunque a quel momento la sola Unione economico-sociale. Ma era que-
stione di mesi.
Nel settembre dello stesso 1919 essa veniva a sua volta soppressa, dopo
che nell’ambito della Unione popolare era stato istituito un Segretariato
economico-sociale con compiti simili all’omonima unione. Poche set-
timane dopo infine, il 12 novembre 1919, la Santa sede toglieva ufficial-
mente il non expedit per consentire agli elettori cattolici di sostenere in
modo palese il partito di don Sturzo.
Questo avvenimento, che sanciva dopo quasi cinquant’anni (1871-
1919) la fine ufficiale del rifiuto da parte dei cattolici di partecipare alla
vita politica italiana, sarebbe bastato da solo a scandire l’aprirsi di una
nuova stagione sia nei rapporti tra Chiesa e società italiana, sia nella evo-
luzione delle forme di presenza che la prima intendeva assegnare al lai-
cato cattolico nella sua funzione di strumento per la ricristianizzazione
della seconda.
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 87

Da un certo momento in avanti, soprattutto durante il pontificato


di Leone xiii, quella funzione era sempre esistita: ma era appunto ri-
volta verso la società, verso il paese reale come si diceva. Adesso invece,
accogliendo la nascita di un partito che pur non esibendone il nome era
chiaramente cattolico, la Chiesa dichiarava la propria palese intenzione
di guardare direttamente anche allo Stato, al paese legale, per controllar-
ne ed eventualmente orientarne le scelte secondo i propri princìpi.
Perché proprio adesso? Lo faceva ora perché la classe dirigente risor-
gimentale, tendenzialmente laica e invano protesa verso l’instaurazione
anche in Italia di un sistema sociale fondato sui princìpi di una moderna
società liberale, manifestava chiari segni di esaurimento politico, non
compensato e forse anzi accentuato dalla strategia opportunistica del
primo ministro Giovanni Giolitti. Mentre nel frattempo si profilava
all’orizzonte la preoccupante avanzata, anche in sede parlamentare oltre
che nelle classi sociali più deboli, delle sinistre.
È vero che la Chiesa avversava ufficialmente sia il liberalismo che
il socialismo. Ma molti erano convinti – si era a quel momento sotto
l’effetto suscitato in tutto il mondo dalla rivoluzione russa dell’ottobre
1917, che aveva posto fine al plurisecolare regime zarista e nello stesso
tempo sconfitto l’alternativa socialdemocratica al modello sovietico che
si sarebbe instaurato – che l’eventuale conquista della maggioranza nella
Camera dei deputati da parte delle sinistre avrebbe comportato per la
Chiesa e per la sua corposa presenza nella società un rischio ben maggio-
re che non quello rappresentato dagli ultimi lontani eredi della tradizio-
ne risorgimentale.

Dal ppi all’ac:


storia breve di un partito disutile
Nonostante tutto questo fosse palese, il partito fondato da don Sturzo
avrebbe dovuto adeguarsi da subito a una serie di condizioni e di parziali
nascondimenti che ne avrebbero caratterizzato il nome, la fisionomia, il
programma e la stessa storia. Il nome, innanzitutto. Si trattava di un par-
tito cattolico, se non altro per la presenza di sacerdoti sia nella funzione
di segretario generale (ricoperta dallo stesso don Sturzo) che nei qua-
dri periferici, ma il termine cattolico non doveva apparire. Si disse che
questo era connesso al fatto che le parole “partito” e “cattolico” erano
88 società, stato e chiesa in italia

in contraddizione tra loro: dato che la prima stava a indicare una parte,
mentre la seconda esprimeva l’universalità di un fenomeno. Più proba-
bilmente non si voleva manifestare anche nel nome una peculiarità che
avrebbe finito non tanto per vincolare i componenti il partito quanto
per coinvolgere la Santa sede in modo troppo palese.
Per la stessa ragione, il partito non avrebbe dovuto avere un carattere
confessionale: cioè, espressamente legato a una data confessione religio-
sa. Venne pertanto a cadere anche l’ipotesi di introdurre nel suo nome
l’aggettivo “cristiano”, tanto più se inserito nell’espressione “Democrazia
cristiana”: evocatrice, certo, del movimento politico di inizio Novecento
del quale aveva fatto parte anche don Sturzo, ma capace proprio per que-
sto e per le condanne allora subìte di rialimentare polemiche con la San-
ta sede. Si decise così per Partito popolare italiano: un nome che nasceva
dall’aggiunta della qualifica italiana alla denominazione (Volkspartei)
con la quale il partito cattolico del Trentino, prima che il territorio ve-
nisse annesso all’Italia a seguito degli accordi di pace di Parigi del 1919,
partecipava ai lavori del parlamento di Vienna sotto la guida del giovane
Alcide De Gasperi.
Quanto al programma esso si rifaceva al modello di società che la
Chiesa aveva tratteggiato non molti anni prima mediante le encicliche
di Leone xiii sulla fisionomia degli Stati e sulla soluzione cristiana della
questione sociale.
Questi erano in sintesi i suoi cardini, in parte ricalcanti lo stesso patto
Gentiloni.
– Difesa della famiglia quale cellula essenziale della società e quindi
battaglia contro qualunque legge, in particolare quella relativa all’intro-
duzione del divorzio, che potesse contribuire alla sua disgregazione.
– Tutela ed estensione della libertà di insegnamento, intesa a poten-
ziare la rete degli istituti privati in gran parte gestita da enti e personale
ecclesiastici.
– Difesa del lavoro secondo i princìpi fissati dall’enciclica Rerum no-
varum, riconoscimento delle istituzioni sindacali di qualunque orien-
tamento ideologico e, segno evidente dell’interesse rivolto dai cattolici
al mondo rurale, riforma agraria con incentivi al rafforzamento della
piccola proprietà.
– Riforma dello Stato intesa a favorire il massimo decentramento am-
ministrativo, a conferma dell’antica predilezione cattolica per il modello
medievale dei comuni rispetto allo Stato centralizzato formatosi in età
moderna. Era una concreta derivazione da quel movimento di pensiero
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 89

che si sviluppò in area cattolica tra fine Ottocento e inizio Novecento e


che assunse appunto il nome di medievalismo.
– Riforma del sistema elettorale con passaggio dal maggioritario allora
in vigore al proporzionale, per l’evidente intenzione di condizionare at-
traverso il gioco delle alleanze variabili gli equilibri parlamentari, anche
nella eventualità di non avere numeri particolarmente consistenti.
– Attenzione al problema del Mezzogiorno e delle terre recentemente
annesse all’Italia, probabile concessione alle rispettive preoccupazioni
territoriali del siciliano Sturzo e del trentino De Gasperi.
– Infine, all’art. viii del programma:

Libertà ed indipendenza della Chiesa nella piena esplicazione del suo magistero
spirituale. Libertà e rispetto della coscienza cristiana considerata come fonda-
mento e presidio della vita della Nazione, delle libertà popolari e delle ascen-
denti conquiste della civiltà nel mondo9.

La prima scadenza elettorale affrontata dal nuovo partito diede risultati


confortanti: 20,5% dei voti e 100 deputati. Il ppi risultava il secondo par-
tito alla Camera, dopo il Partito socialista italiano, che aveva ottenuto
il 32,3% dei voti e 156 deputati. La distribuzione regionale dei consensi
dimostrava con chiarezza che quei voti venivano dalla base cattolica e
non ad esempio da elettori che avrebbero potuto vedere in quello di don
Sturzo una sorta di nuovo partito moderato cui affidarsi in alternativa
alle forze politiche che già erano al governo. Le regioni che più avevano
premiato i popolari erano infatti state la Lombardia e il Veneto: vale a
dire le regioni nelle quali da oltre vent’anni risultava più diffusa la pre-
senza associativa del laicato cattolico.
Ma al di là di questo riscontro, peraltro prevedibile, il dato elettorale
più importante era rappresentato dal fatto che i socialisti e i popolari
raccoglievano assieme oltre la metà dell’elettorato italiano che aveva
partecipato al voto10. Questo da un lato confermava l’affermazione dei
cosiddetti partiti di massa, cioè di quei partiti che più che su una cir-
coscritta classe dirigente di notabili contavano su una base sociale assai
larga, in parte coincidente – nel caso del socialismo – con una specifica
classe sociale; e dall’altro lato palesava in modo altrettanto inequivoco la
fine dell’egemonia parlamentare esercitata per oltre mezzo secolo dalla
classe dirigente liberale e laica di tradizione risorgimentale.
Diventava a questo punto assai difficile intuire verso quale scenario
politico si sarebbe potuti andare. Tanto più che il paese attraversava un
90 società, stato e chiesa in italia

momento difficilissimo dal punto di vista sociale: sia per effetto dei con-
traccolpi comportati dalla fine della guerra – assenza di lavoro per molti
dei reduci dal fronte, disoccupazione alimentata dalla complessa con-
versione dei settori industriali siderurgici e metalmeccanici più diretta-
mente coinvolti nella produzione bellica, aumento vertiginoso del costo
della vita a causa della svalutazione monetaria, conseguente paura di
soccombere per i ceti sociali più deboli o precari –, sia per la particolare
condizione psicologica nella quale si trovavano le classi lavoratrici delle
fabbriche e delle stesse campagne dopo che il successo che il proletariato
aveva raccolto in Russia pochi anni prima sembrava rendere possibile
ogni utopica rivoluzione sociale.
Per gestire una situazione così incandescente sarebbe stata forse ne-
cessaria una coalizione delle forze che avevano vinto le recenti elezioni.
Al contrario, attraverso un gioco di veti incrociati, da parte della mag-
gioranza centrista dei popolari contro il nemico socialista e da parte dei
socialisti nei confronti del partito clericale, non venne seriamente consi-
derata l’eventualità di formare una maggioranza costituita dai deputati
dei due partiti di massa (socialisti e popolari). Né per altro verso si riu-
scirono a costruire maggioranze stabili di orientamento moderato tra i
rappresentanti della passata classe dirigente e i popolari. Lo impedì, tra
l’altro, il prezzo che venne di volta in volta chiesto dai cattolici per sor-
reggere i vari primi ministri che si alternarono nel tentativo di governare
il paese senza avere una base parlamentare sicura.
Ci si avviò così verso un periodo critico per instabilità sociale e poli-
tica, reso ancora più incandescente dal ripetersi di scioperi, occupazioni
di fabbrica e di terre, tumulti annonari, che parvero portare il paese a
una condizione cronica e pertanto non transitoria di rivolta sociale11. Lo
stallo nel quale versavano nel frattempo i vertici delle istituzioni favorì
la reazione a tutto questo da parte degli industriali e della grande pro-
prietà terriera: reazione che si espresse in particolare attraverso il soste-
gno finanziario a settori eterogenei dell’Italia postbellica – ma tuttora
pervasi dall’esperienza estrema della guerra: nel quotidiano rapporto
con la morte, con la violenza quale prioritario mezzo di relazione, con
la sospensione della legalità come condizione ordinaria – che vennero
poi abilmente convogliati e raccolti da Benito Mussolini dapprima nel
movimento e successivamente nel partito fascista.
Tra il 1920 e il 1922, con una breve interruzione determinata dalla
stipula nell’agosto 1921 del patto Zaniboni-Acerbo che sanciva una mo-
mentanea tregua tra fascisti e socialisti, l’Italia divenne una sorta di cam-
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 91

po di battaglia sul quale, senza che le forze dell’ordine intervenissero in


modo serio, anzi suscitando l’impressione che lasciassero volutamente
fare, venne perpetrata una vera e propria intimidazione contro le forze
sociali e le organizzazioni i cui rappresentanti avevano vinto le elezioni
del novembre 1919.
I popolari – che pure furono a loro volta colpiti dalle scorrerie fasci-
ste, come avvenne tra l’altro nel luglio 1921 alle sedi delle leghe sindacali
e delle cooperative cattoliche in provincia di Treviso o il 12 luglio 1922
alla residenza privata del deputato della sinistra popolare Guido Miglio-
li – e la stessa gerarchia ecclesiastica italiana oscillarono a lungo tra i sin-
ceri inviti alla pacificazione e la compiaciuta sorpresa per la comparsa di
un inatteso protagonista che, pur nato da quel medesimo grembo poli-
tico12, stava di fatto annientando il movimento socialista nelle fabbriche
e nelle campagne.
La convinzione che risultava generalmente diffusa tra i cattolici era
che, una volta passata in modo naturale l’ondata di violenza, la situazio-
ne politica si sarebbe presentata più facile da gestire. Essa, infatti, sareb-
be stata caratterizzata dai seguenti fattori: uno Stato liberale ormai allo
sfascio, un socialismo largamente ridimensionato e un partito cattolico
che, come forza politica potenzialmente più numerosa alla Camera13,
avrebbe potuto svolgere un ruolo ben altrimenti significativo dal punto
di vista della ricristianizzazione delle istituzioni oltre che della società
civile.
Difficile dire se in quelle considerazioni stesse prevalendo l’opportu-
nismo o l’incapacità di intravvedere altri sbocchi. In ogni caso si trattò
di un grave errore di valutazione. Servendosi, infatti, alternativamente
e in modo spregiudicato della sede parlamentare per lanciare messaggi
rassicuranti ad alcune importanti componenti della società, tra le quali
la gerarchia cattolica, e dell’azione intimidatoria delle squadre fasciste
per continuare l’opera di demolizione degli avversari politici, Mussolini
riusciva a fine ottobre 1922 a raggiungere la guida del governo.
Il fatto che questo obiettivo istituzionale fosse stato raggiunto al-
meno formalmente in modo legittimo attraverso un incarico assegna-
togli dal re Vittorio Emanuele iii, senza peraltro che si dimentichi che
nelle ore precedenti si era avuta la cosiddetta marcia su Roma da parte
di squadre paramilitari fasciste14, consentì ad alcuni rappresentanti dei
vertici del ppi di dichiarare la disponibilità popolare a collaborare con
il governo Mussolini. E di fatto Vincenzo Tangorra assunse l’incarico di
ministro del Tesoro e Stefano Cavazzoni di ministro del Lavoro. La spe-
92 società, stato e chiesa in italia

ranza era ancora quella di contribuire in tal modo alla normalizzazione


del fenomeno fascista.
In realtà la posizione di primo ministro fu sfruttata da Mussolini sia
per trasformare progressivamente il suo mandato in un regime autorita-
rio a tutti gli effetti, sia per togliere ai popolari ogni ragione di esistere.
Se infatti il partito di don Sturzo era nato con il duplice scopo di fare da
argine all’avanzata socialista e di garantire alla Chiesa che lo Stato italia-
no sviluppasse un’azione legislativa e di governo a lei favorevole, il primo
obiettivo era già in gran parte stato realizzato dal fascismo intimidatorio
delle camicie nere e il secondo poteva essere raggiunto dal fascismo par-
lamentare proprio attraverso quel controllo delle istituzioni statali che
ora Mussolini si apprestava ad esercitare.
Di fatto a gennaio 1923 il ministro dell’Istruzione Giovanni Gentile
annunciò il proposito di rendere obbligatoria l’istruzione religiosa nelle
scuole pubbliche. Nello stesso periodo il Consiglio dei ministri delibera-
va di donare al Vaticano l’importante Biblioteca chigiana e di stanziare
un’ingente somma per la ricostruzione delle chiese danneggiate durante
la guerra. Nel febbraio 1923 il massimo organo del fascismo prendeva
posizione contro la massoneria. E, soprattutto, negli stessi mesi Musso-
lini operò attraverso fondi dello Stato per salvare il Banco di Roma, cioè
l’istituto bancario più legato alla Santa sede.
A cosa poteva dunque ancora servire il ppi? Non rappresentava or-
mai solo un ostacolo nei rapporti che si stavano già intessendo diretta-
mente tra il governo Mussolini e la Santa sede? Negli ambienti eccle-
siastici la risposta affermativa era già assai diffusa. Ma anche non pochi
tra gli stessi rappresentanti della destra del partito ne erano convinti e
di fatto stavano passando nelle fila del Partito nazionale fascista. Don
Sturzo tentò ripetutamente tra la fine del 1922 e la prima metà del 1923
di spiegare in occasioni pubbliche le ragioni per le quali la presenza del
ppi rimaneva necessaria. A Torino, nell’aprile 1923, durante il iv con-
gresso dei popolari si scontrarono le varie posizioni di coloro che vole-
vano una piena collaborazione con il governo, di coloro che la riteneva-
no un male minore e di coloro infine che la ritenevano assolutamente
da evitare.
Prevalse in sostanza, al di là delle tante precisazioni e distinguo che
molti o per imbarazzo morale o per convinzione sincera espressero, la
linea intermedia: quella della inevitabile collaborazione. Tra le altre ra-
gioni continuava a sussistere la convinzione che la fase delle illegalità
fasciste dovesse finire per intervento dello stesso Mussolini. Lo affermò
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 93

esplicitamente Achille Grandi, uno dei rappresentanti più in vista del


sindacalismo cattolico di orientamento moderato:

Noi, ciò nonostante, crediamo che coloro che oggi hanno le redini del governo
abbiano nel contempo la volontà di non perpetuare questo stato di cose, perché
sarebbe soprattutto la rovina del nostro paese e sarebbe la loro rovina15.

Era tuttavia troppo tardi per simili considerazioni. Il cerchio rappre-


sentato dal rapporto diretto tra governo Mussolini e Santa sede era già
chiuso attorno all’opportunità della sopravvivenza del partito. Ciò che
accadde nel triennio che va dal congresso di Torino all’inizio novembre
1926, data nella quale il governo avrebbe sciolto tutti i partiti italiani ad
eccezione di quello fascista, sarebbe stata la parabola inevitabile anche se
non priva talora di dignità, come nella battaglia condotta da Giuseppe
Donati dalle pagine di “Il Popolo” o in generale nella scelta di ritirar-
si assieme agli altri partiti dell’opposizione sul cosiddetto Aventino, di
un’esperienza politica che veniva ad esaurirsi. Non tanto o solamente
per debolezza propria ma perché, per quanto ci si fosse sforzati di ne-
garlo, la sua principale ragion d’essere sul piano generale, e quindi indi-
pendentemente dalle convinzioni personali di molti suoi protagonisti,
era inscindibilmente connessa ai criteri, alle priorità e anche alle diverse
stagioni della Chiesa.
A proposito di quest’ultimo aspetto, infatti, non era un caso che la
necessità di costituzione del partito intravista tra la fine del 1918 e l’i-
nizio del 1919 non risultasse più tale nel 1923. Era certamente arrivato il
fenomeno fascista a mutare il quadro politico e sociale italiano, ma non
si può trascurare anche l’avvicendamento che si era avuto nel gennaio-
febbraio 1922: con la morte di Benedetto xv, il papa che aveva consenti-
to la nascita di quell’esperienza, e l’elezione di Pio xi. Il nuovo pontefice
aveva un’altra visione della presenza del laicato cattolico nella società.
Una visione che dava larga precedenza all’associazionismo cattolico tra-
dizionale e subordinato alle gerarchie ecclesiastiche rispetto a espressio-
ni più autonome e quindi meno direttamente orientabili come quella
rappresentata da un partito, che oltretutto, per le ragioni viste in pre-
cedenza, doveva muoversi sempre in un difficile equilibrio tra formale
aconfessionalità delle proposte e sostanziale confessionalità dei fini.
A questo orientamento, per così dire teorico, si affiancava poi una
situazione di fatto. La nascita del ppi quali benefici concreti aveva por-
tato alla Chiesa? Fino ad allora, pochi. Non si stava rivelando molto più
94 società, stato e chiesa in italia

efficace e produttiva la linea del contatto diretto con un governo, e ancor


meglio con un leader politico quale Mussolini, che aveva gli strumen-
ti istituzionali per agire a favore della Chiesa e aveva anche dimostrato
concretamente di volerlo fare? Effettivamente, sì.
Oltre a questo, non esisteva allora in Italia una dirigenza politica cat-
tolica a sé stante. La nascita del ppi e soprattutto la sua necessità di co-
struirsi una dirigenza a livello sia centrale che periferico avevano portato
inevitabilmente ad attingere in parte allo stesso serbatoio umano delle
associazioni cattoliche. La crescita anche organizzativa del partito aveva
dunque condizionato la vitalità e l’incremento del movimento associa-
tivo, che non a caso, anche per effetto di un decollo solo parziale della
riforma del 1915, attraversava ormai da anni una fase di stagnazione. Oc-
correva correre ai ripari.
Pio xi vi provvide sin dall’esordio del proprio pontificato, mettendo
in cantiere una riforma generale del movimento la cui predisposizione si
sarebbe dipanata per la durata di un anno dall’ottobre 1922 all’ottobre
1923. Nel frattempo una specifica attenzione al fenomeno veniva dedica-
ta nell’enciclica inaugurale Ubi arcano Dei del 23 dicembre 1922. In essa,
infatti, dopo aver fissato nel motto Pax Christi in regno Christi il pro-
gramma del proprio pontificato, Pio xi elencava le varie e proficue forme
di collaborazione tra clero e laicato presenti nella Chiesa e concludeva
con un richiamo a «tutto quel complesso di proposte, di istituzioni e di
opere che vengono sotto il nome di Azione Cattolica, la quale è a Noi
carissima»16.
Non solo dunque l’associazionismo laicale cattolico veniva ricor-
dato esplicitamente in un documento papale di natura programmati-
ca, quindi di particolare rilievo, ma il termine azione cattolica usato in
precedenza per indicare genericamente le attività del laicato diventava a
tutti gli effetti il nome ufficiale di un’organizzazione: l’Azione cattolica,
appunto. Anche se taluni studiosi propendono per retrodatare l’evento
almeno sino al 1919, è soprattutto con gli statuti del 1923 che si poteva
dunque ritenere nata la moderna ac.
Dal punto di vista della propria struttura l’organizzazione era sostan-
zialmente simile a quella varata da Benedetto xv nel 1915 e che faceva
perno sull’Unione popolare. Anche nella nuova organizzazione, infatti,
l’aspetto più evidente era rappresentato dalla configurazione a pirami-
de: con al vertice la giunta centrale e poi a scalare le giunte diocesane e i
comitati parrocchiali. Ma altri elementi denotavano nell’ac una fisiono-
mia in parte diversa rispetto all’organizzazione che l’aveva preceduta e
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 95

ormai molto lontana dalle forme attraverso le quali si era espresso l’asso-
ciazionismo cattolico ottocentesco.
Un primo aspetto riguardava la composizione per genere e genera-
zione e non più per campo d’azione della piramide17. Essa non era più
infatti suddivisa sulla base dei diversi settori d’intervento (propagan-
distico, economico-sociale, elettorale ecc.), come era avvenuto nell’oc
e in seguito con le varie Unioni, bensì sulla base della semplice divisio-
ne in uomini, donne, giovani, ragazze, cui corrispondevano altrettanti
rami. Ciascuno di questi, pertanto, non era distinto dagli altri sulla base
delle competenze ma su quello della propria composizione interna: a se-
conda dell’età e del genere dei suoi affiliati. La conseguenza era una ben
maggiore compattezza generale dell’organizzazione e un controllo pra-
ticamente ininterrotto sulla parabola esistenziale dei suoi membri, che
vi entravano da fanciulli per rimanervi teoricamente fino alla vecchiaia
passando da un ramo all’altro in relazione alla propria età.
Il principio gerarchico che regolava i tre diversi livelli della pirami-
de (centro, diocesi, parrocchia) permeava poi ogni settore dell’organiz-
zazione. Così, per quanto la giunta centrale fosse a norma di statuto il
gradino più alto della struttura, venne in realtà delineandosi sul piano
concreto una posizione di netto rilievo del presidente generale dell’ac.
Questi, infatti, aveva rapporti personali e diretti sia con la Santa sede, sia
col governo italiano, sia con altri interlocutori di volta in volta legati in
modo positivo o negativo agli interessi dell’ac. Esemplare, a riguardo,
può essere considerato l’episodio che vide nel maggio 1923 il presidente
dell’organizzazione Luigi Colombo recarsi dal segretario del ppi don
Sturzo per chiedergli lo scioglimento del partito al fine di riassorbirne
la base nelle fila dell’ac. Fatti di questa natura non si sarebbero potuti
verificare nei decenni precedenti: nemmeno nell’oc del presidente ac-
centratore Paganuzzi.
Ma l’aspetto più caratteristico era tutto sommato un altro. Il fenome-
no storico nato oltre un secolo prima dall’iniziativa personale di alcuni
religiosi e di molti laici per difendere gli interessi della religione all’in-
terno di una società che si stava progressivamente secolarizzando, un fe-
nomeno che si era poi delineato in modo sempre più chiaro come essen-
zialmente laicale, anche se mai esclusivamente laicale, appariva adesso
del tutto sottoposto al controllo delle gerarchie ecclesiastiche.
Sia il presidente generale che i presidenti dei vari rami erano infatti
scelti dal papa, così come coloro che a vario titolo facevano parte della
giunta centrale. Il presidente della giunta diocesana era a sua volta scelto
96 società, stato e chiesa in italia

dal vescovo. Apparentemente sembrava più libera la gestione dei comi-


tati parrocchiali: ma era più un fatto di forma che di sostanza. Perché a
tutti i diversi livelli della struttura un ruolo essenziale di supervisione
e talora di veto era assegnato al cosiddetto assistente ecclesiastico: un
sacerdote che aveva l’incarico di vigilare sulla sintonia tra le indicazioni
della Santa sede e l’attività del settore dell’ac a lui affidato. Per non crea­
re situazioni di concorrenza, nelle parrocchie tale funzione era normal-
mente svolta dallo stesso parroco.
Questa forte clericalizzazione della struttura era d’altronde il rifles-
so istituzionale di come ormai veniva concepita negli ambienti vatica-
ni l’antica organizzazione del laicato cattolico. Nel Manuale di Azione
cattolica, pubblicato da monsignor Luigi Civardi in prima edizione nel
1924, vera e propria interpretazione autorizzata del fenomeno, si leggeva
infatti:

L’Azione Cattolica è partecipazione, collaborazione all’apostolato della Gerar-


chia Ecclesiastica. Dunque nella Chiesa vi è l’apostolato gerarchico, che è il
principale, il vero e proprio apostolato [...]; e l’apostolato dei laici, che è seconda-
rio, un ausilio del primo. I laici militanti dell’Azione Cattolica non sono quindi
chiamati a far da sé. Il loro compito è semplicemente quello di aiutare la Gerar-
chia in tutto quello che occorre, in tutto quel che possono18.

Se questa era l’opinione della Santa sede, e tenendo conto che nel frat-
tempo stava procedendo a grandi passi la trasformazione del fascismo da
movimento a partito parlamentare e da questo a partito-Stato di natura
autoritaria, è facile comprendere come la sorte del ppi e anche dello stes-
so sindacato cattolico, la ricordata Confederazione italiana del lavoro,
fosse già segnata. Nel primo caso, come si è detto, la parabola iniziò nel
1923 e venne tra l’altro esemplarmente riassunta il 10 luglio di quell’anno
dalle dimissioni di don Sturzo da segretario generale del partito; anche
se questo non comportò né l’uscita dal partito da parte del sacerdote
siciliano né una sua reale minore incidenza nella guida dello stesso. Nel
secondo caso, invece, la svolta si ebbe quando ad aprile 1926 la Giunta
centrale dell’ac consentì ufficialmente ai propri affiliati di entrare a far
parte dei sindacati fascisti. Nei primi mesi del 1927, infine, un destino si-
mile veniva riservato ai membri della vasta rete delle cooperative cattoli-
che, che furono invitati a loro volta ad aderire all’ente nazionale fondato
dal governo fascista a fine 1926 per raccogliere tutte le iniziative di tale
genere presenti in Italia.
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 97

Il rapporto iniziale con lo Stato fascista:


tra entusiasmo e difficoltà
Dal punto di vista dei fenomeni che stiamo esaminando, il panorama ita-
liano si presentava dunque così attorno al 1927-28. Il fascismo aveva rag-
giunto l’obiettivo di egemonizzare la scena politica del paese: sia per la
scomparsa di forze politiche alternative che per la presenza poco rilevan-
te della monarchia. Il suo controllo dello Stato era pressoché completo
e lo stesso poteva dirsi di molti aspetti della vita associativa nazionale19.
A prescindere dai potentati economici che avevano voluto l’affermazio-
ne del fascismo e l’avevano concretamente aiutata grazie soprattutto al
sostegno finanziario di inizio anni venti, l’unica realtà istituzionale che
manteneva ancora una propria vita autonoma era la Chiesa. Nel mezzo
si trovava l’ac: ultimo residuo ormai, dopo i vari accorpamenti, della
multiforme e talora contrastata esperienza dell’associazionismo cattoli-
co nato nel corso dell’Ottocento.
Nella particolare congiuntura storica di fine anni venti la posizione
dell’ac era tuttavia ben diversa da quella delle organizzazioni che l’ave-
vano preceduta. Esse, infatti, avevano svolto la duplice funzione di ba-
luardo difensivo della Chiesa (soprattutto con Pio ix) e di strumento
per la ricristianizzazione della società (da Leone xiii sino alla fine della
guerra). E si erano inoltre consentite in taluni casi una certa autonomia
operativa dalla Chiesa: sulla base di quel carattere aconfessionale che
aveva distinto dalle altre istituzioni cattoliche il ppi e in parte la Confe-
derazione italiana del lavoro.
L’ac di fine anni venti, invece, più che fare da baluardo alla Chiesa
rispetto allo Stato e ai settori della società che le erano avversi aveva al
contrario necessità di essere difesa dalla Chiesa contro l’attacco finale
del fascismo. Un attacco che mirava sia ad eliminare l’organizzazione
cattolica quale ultima apparente alternativa al pieno controllo fascista
della società oltre che dello Stato, sia a servirsi della stessa Chiesa per
consolidare il consenso verso di sé da parte della popolazione.
Questi due obiettivi si intrecciarono tra loro a fine anni venti, cosic-
ché la ripresa delle pratiche intimidatorie nei confronti del laicato catto-
lico e soprattutto delle associazioni giovanili (nell’aprile 1928 il governo
fascista decise tra l’altro lo scioglimento dell’organizzazione scoutistica
cattolica italiana) venne affiancata dalle trattative segrete che a partire
dal 1926 intercorsero tra governo italiano e Santa sede per la soluzione
98 società, stato e chiesa in italia

della questione romana: il traguardo più ambito della politica di con-


cessioni alla Chiesa che Mussolini aveva inaugurato sin dagli inizi del
proprio incarico di capo del governo.
Come si ricorderà, erano oltre sessant’anni che esisteva il problema:
dalle conquiste militari e successivi referendum popolari che avevano
distaccato dallo Stato pontificio gran parte dei territori non laziali, e so-
prattutto da quando le truppe italiane, entrando a Roma da Porta Pia il
20 settembre 1870, avevano praticamente posto fine al millenario potere
temporale dei papi. E la presenza irrisolta della questione romana aveva
profondamente condizionato per varie generazioni, come si ricorderà,
sia la piena partecipazione cattolica alla vita politica dello Stato (non ex-
pedit) che la stessa compattezza interna della Chiesa (dissidio tra intran-
sigenti e conciliatoristi). Il peso emotivo della controversia si era certo
attenuato nel corso del tempo, ma nonostante questo destò grande sen-
sazione l’annuncio che l’11 febbraio 1929 la questione romana era stata
formalmente chiusa.
Dal punto di vista tecnico il risultato era stato raggiunto attraverso la
ratifica di tre distinti documenti. Con il Trattato il governo italiano ri-
conosceva l’esistenza dello Stato della Città del Vaticano e la Santa sede
riconosceva a propria volta l’esistenza del Regno d’Italia. Con la Con-
venzione finanziaria veniva versata alla Santa sede una ingente somma
a completo risarcimento dei danni che essa aveva subìto per la perdita
dei territori annessi all’Italia. Infine con il Concordato si regolavano i
rapporti tra Santa sede e Stato italiano in ordine all’esercizio sul suolo
nazionale delle attività religiose della Chiesa cattolica e delle istituzioni
da essa dipendenti e riconosciute come tali.
Al di là tuttavia dei suoi aspetti formali ciò che era di gran lunga più
significativo era il fatto in sé rappresentato dalla stipula di quell’accordo,
e il ritorno d’immagine estremamente positivo che ne sarebbe venuto a
Mussolini di fronte alla larga maggioranza del mondo cattolico italiano:
da allora frequentemente indicato nei documenti e nei discorsi pubblici
della gerarchia cattolica come l’Uomo della Provvidenza o in alternativa
l’Uomo mandato da Dio20.
La crescita di consenso di cui beneficiarono Mussolini e di riflesso il
fascismo per avere definitivamente risolto l’annosa questione romana si
sviluppò peraltro in due fasi distinte. Una prima fase, assai breve, che si
estese per pochi mesi dopo la stipula degli accordi; e una seconda fase,
ben più lunga, che si sviluppò nella parte centrale degli anni trenta e che
segnò, come vedremo, il periodo di maggiore consonanza nei rapporti
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 99

tra regime fascista e Chiesa italiana. In mezzo a tali fasi, tuttavia, si veri-
ficò la crisi probabilmente più difficile all’interno dei suddetti rapporti.
Al suo innesco contribuì in maniera determinante il desiderio di Mus-
solini di risolvere una volta per tutte il problema posto dall’esistenza in
Italia di un’organizzazione cattolica numericamente forte e compatta
sul piano dei princìpi come l’ac: del tutto simile, al di là naturalmente
degli orientamenti ideologici e delle finalità dichiarate, a quell’insieme
di associazioni che il regime aveva appositamente costruito allo scopo di
permeare di sé ogni momento della vita dei cittadini italiani.
Egli riteneva con ogni probabilità che da un lato le pressioni sulla
Santa sede e dall’altro le intimidazioni, le distruzioni materiali e le ag-
gressioni, capaci negli anni precedenti di far scomparire quasi tutte le
altre forme di presenza del laicato cattolico a vantaggio delle analoghe
organizzazioni fasciste, avrebbero riscosso ancora una volta pieno suc-
cesso. Tanto più che la recente stipula dei Patti lateranensi aveva larga-
mente confermato le buone disposizioni del governo fascista nei con-
fronti della Santa sede; e quindi, come già era accaduto nel caso del ppi,
si pensava di poter dimostrare alla Chiesa che non le era più necessaria
quella sorta di appendice proiettata verso la società.
Questa volta, tuttavia, fu Mussolini a prendere un abbaglio sull’ef-
fettiva intenzione del papa di accettare, come in altri precedenti casi, o
il fatto compiuto o la strada di una protesta che si era peraltro rivelata
sostanzialmente indolore per l’immagine anche internazionale dell’Ita-
lia e della sua attuale dirigenza. Di fronte al ripetersi in varie zone del
paese di assalti fascisti alle sedi dell’ac e soprattutto dei circoli giova-
nili, ancora una volta nel mirino fascista, Pio xi prese infatti la decisio-
ne di pubblicare a fine giugno 1931 un’enciclica dal titolo Non abbiamo
bisogno. I toni del documento erano singolarmente duri. In circa dieci
anni, quelli trascorsi da quando il re Vittorio Emanuele iii aveva affi-
dato a Mussolini l’incarico di capo del governo, era la prima volta che il
papa reagiva con tanta veemenza alle aggressioni dei gruppi armati del
fascismo.
Non lo aveva fatto né agli esordi del proprio pontificato, quando
Mussolini, ancora non a capo del governo, aizzava le camicie nere contro
le sedi delle organizzazioni socialiste e anche, seppure in minor misura,
cattoliche; né a fine agosto 1923, quando il sacerdote ferrarese don Gio-
vanni Minzoni era morto dopo un’aggressione fascista; né nelle svariate
occasioni che avevano assistito alla progressiva limitazione delle libertà
per gli avversari politici dell’arrembante dittatura.
100 società, stato e chiesa in italia

Se lo faceva adesso non era, d’altronde, perché gli episodi più recenti
fossero più gravi di quelli passati, ma solo perché negli ambienti vaticani
si riteneva più alta la posta in gioco. Accettare quest’ultimo assalto alla
presenza organizzata del laicato cattolico in Italia avrebbe infatti avuto
un significato duplice. Innanzitutto avrebbe creato un pericoloso pre-
cedente sul piano generale della presenza del cattolicesimo all’interno
dei vari Stati. L’ac non era infatti un fenomeno solo italiano, come le
precedenti associazioni laicali del nostro paese, ma un modello di pre-
senza ormai diffuso, seppure con adattamenti alle situazioni locali, nei
vari continenti. In secondo luogo avrebbe comportato la rinuncia a ogni
futura possibilità di orientare a favore della Chiesa la lotta per la supre-
mazia ideologica, morale e culturale in Italia, lasciando alla propaganda
fascista piena libertà di formare secondo i propri criteri le future genera-
zioni. Fino a che sopravviveva l’ac sarebbe invece stato possibile, anche
se con fatica, continuare per la Chiesa quella lotta, e riuscire anche a
penetrare nella stessa struttura dello Stato fascista per bilanciarne even-
tuali sviluppi che fossero in palese contrasto con la dottrina cattolica. Si
badi: con la dottrina cattolica, non con i princìpi dello Stato di diritto o
del costituzionalismo occidentale.
Lo scontro fu duro. Ma né la Santa sede né il governo fascista in-
tendevano comunque assumersi la piena responsabilità di una rottura
unilaterale degli accordi sanciti da poco più di un biennio. Si ripresero
quindi le trattative: questa volta per risolvere in modo definitivo il con-
trasto che continuava a riguardare le residue organizzazioni cattoliche.
Il nodo essenziale poteva essere così sintetizzato. Mussolini rivendicava
innanzitutto all’Opera nazionale balilla, istituita nel 1926 per raccoglie-
re e avvicinare al fascismo la gioventù italiana, la medesima condizione
di monopolio esercitato nei rispettivi ambiti dai sindacati fascisti, dal
partito fascista, dall’ente fascista per la cooperazione ecc. Nella visione
mussoliniana, lo Stato fascista doveva cioè controllare attraverso l’Ope-
ra quell’aspetto delicatissimo dal punto di vista della sua futura soprav-
vivenza che era costituito dall’orientamento complessivo delle nuove
generazioni: andava infatti dagli otto ai diciotto anni l’età degli affiliati
all’Opera nazionale balilla. Da un ulteriore punto di vista, poi, l’Azione
cattolica, con la sua struttura ad un tempo estremamente centralizzata
e distribuita capillarmente su tutto il territorio nazionale, era ritenuta
da Mussolini un pericolo perché potenzialmente capace di conservare
al proprio interno i germi politici che già erano stati del ppi, e quindi
di trasformarsi improvvisamente, come effettivamente sarebbe in parte
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 101

avvenuto nel secondo dopoguerra, in una imponente forza politica al-


ternativa al fascismo.
Gli accordi vennero sottoscritti nel settembre 1931. La Santa sede li
sviluppò poi autonomamente in una nuova formulazione degli statuti
dell’ac che sarebbe stata approvata il 30 dicembre dello stesso anno. I
punti essenziali di tale revisione erano due. Da un lato si puntualizza-
va che il compito esclusivo dei militanti di ac era di natura religiosa
e non politica. Dall’altro si operava leggermente sulla struttura per
attenuare la sensazione di forte accentramento della stessa mediante
la scomparsa della giunta direttiva, sostituita da un meno appariscen-
te ufficio centrale, e con lo sviluppo di quella che gli studiosi hanno
efficacemente chiamata la diocesanizzazione dell’ac: cioè il passaggio
almeno apparente dei poteri direttivi dal centro romano alla periferia
diocesana e quindi all’episcopato. Al di là poi di questi interventi mi-
rati a rassicurare il governo fascista e a mettere l’ac al riparo da ulte-
riori attacchi, si ebbe di fatto un ulteriore passo avanti sulla strada del
controllo ecclesiastico a tutti i livelli, salvo in parte quello parrocchia-
le, dell’organizzazione. Da una situazione di carattere congiunturale,
vale a dire le difficoltà con il governo fascista, scaturiva pertanto un
aspetto che sarebbe poi divenuto congenito nella realtà dell’associa-
zionismo cattolico italiano.

La Chiesa del Concordato


«La crisi [del 1931] ha esorcizzato lo spettro di peggiori lacerazioni; è
stata, in un certo senso, la reale ratifica del Concordato»21. Tale giudizio
coglie effettivamente nel segno. Gli anni successivi assistettero, infatti,
a una pressoché assoluta sintonia ai vertici tra governo fascista e Santa
sede. A livello periferico, al contrario, non mancarono talora dei con-
trasti riguardanti nuovamente l’organizzazione del laicato cattolico; si
trattò peraltro di episodi minori e comunque nemmeno lontanamente
paragonabili agli incidenti che avevano preceduto la crisi del 1931. Né
per altro verso si può considerare come espressamente antifascista, ma
semmai afascista, l’attività culturale interna svolta in quegli anni dalla
fuci sotto la guida del presidente Igino Righetti e dell’assistente eccle-
siastico Giovanni Battista Montini: il futuro papa Paolo vi.
Un antifascismo esplicito, che comportò anche un periodo seppur
breve di carcere, fu invece certamente quello di Piero Malvestiti e del
102 società, stato e chiesa in italia

Movimento guelfo da lui fondato a fine anni venti; o l’altro, ancora più
netto, dei movimenti che a vario titolo facevano riferimento alla sinistra
cristiana e che sarebbero sorti a Roma e in Toscana a fine anni trenta. Ma
anche queste esperienze, sulle quali ritorneremo più avanti esaminando
il pluralismo politico dei cattolici registrabile negli anni conclusivi della
Seconda guerra mondiale, risultarono più significative sul piano ideale
che non su quello concreto, e non ebbero, in ogni caso, un raggio d’azio-
ne sufficiente a scuotere anche solo per breve tempo gli equilibri generali
dei quali si è detto.
Si delineò così una fase storica nella quale sembravano sussistere tutte
le condizioni ideali perché il mondo cattolico potesse operare su vasta
scala contro i processi di secolarizzazione che avevano segnato la società
italiana negli ultimi cento-centotrent’anni e a favore del riformarsi di
un tessuto sociale cristiano. Non potendo peraltro operare direttamen-
te sulle istituzioni, visto il geloso monopolio esercitato sulle stesse dal
fascismo, la Chiesa si rivolse di preferenza verso le masse: tentando di
sfruttare al meglio sia gli strumenti formali offerti dal Concordato, sia
la disponibilità da parte del regime a collaborare concretamente in tal
senso.
I livelli di intervento adottati dalla Chiesa furono sostanzialmente
due. Il primo operò per così dire nel quotidiano e consistette nella si-
stematica rieducazione della gente a un sistema di vita imperniato sulla
famiglia e sugli elementi che secondo la stessa Chiesa dovevano carat-
terizzarla in senso cattolico: vale a dire la fedeltà coniugale, una prole
numerosa, la consuetudine a svolgervi delle pratiche devote domestiche
(come la recita comune del rosario) e la partecipazione all’apostolato
nelle forme e attraverso gli organismi periferici dell’ac.
Il luogo privilegiato nel quale si operò tale intervento sarebbe risul-
tata la parrocchia, già indicata da Pio xi ai giovani cattolici come «una
famiglia, non una città, non un villaggio, ma il primo nucleo della vita
religiosa, nella grande famiglia sociale»22. I suoi tramiti essenziali fu-
rono invece la predicazione del clero e l’attività di formazione dei laici
che si teneva settimanalmente all’interno dei circoli parrocchiali di
ac. Questo primo livello di intervento non costituiva però una novità
rispetto al passato. Anche nel corso dei decenni precedenti, infatti, no-
nostante le difficoltà frapposte dall’ambiente circostante dapprima per
l’affermarsi soprattutto nelle città dei princìpi laico-borghesi e liberali,
poi per il sopravvenire della propaganda socialista, non era di fatto
mai venuta meno la proposta familista del clero. Adesso, semmai, essa
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 103

poteva giovarsi dell’ulteriore sostegno educativo offerto dalle organiz-


zazioni del laicato.
Il secondo livello di intervento, fondato in prevalenza su eventi ecce-
zionali o comunque non legati alla vita religiosa ordinaria delle parroc-
chie, era invece inusuale nella recente storia italiana, data la conflittuali-
tà che era esistita tra la Chiesa e la classe dirigente borghese e liberale che
aveva governato lo Stato dalla sua nascita sino al primo dopoguerra. Per
ritrovarlo si sarebbe dovuti risalire a ritroso almeno agli anni della Re-
staurazione. Esso consistette, infatti, nella nuova e vistosissima visibilità
che venne data alla pratica pubblica del culto, grazie a cerimonie o ma-
nifestazioni religiose che si svolgevano alla presenza di gerarchi fascisti
dei diversi gradi e che si trasformavano, secondo il costume del tempo,
nelle cosiddette adunate oceaniche: riunioni di migliaia e migliaia di per-
sone durante le quali la tradizionale dimensione devota e le esigenze del
consenso tipiche di una moderna società di massa si mescolavano tra
loro in una miscela emotiva di sacro e profano che finiva per annullare i
rispettivi confini23.
Esemplare a riguardo può essere considerata la seguente descrizione
di una cerimonia tenutasi a Bologna nel 1927. Essa si svolse nell’ambi-
to del congresso eucaristico nazionale, alla presenza del podestà locale
Leandro Arpinati, dell’arcivescovo bolognese e del cardinale rappresen-
tante del papa. Dal punto di vista strettamente cronologico non si era
ancora all’interno della stagione concordataria, ma lo scenario descritto
prefigura già largamente la situazione degli anni successivi e potrebbe fa-
cilmente applicarsi a numerose altre circostanze dello stesso genere che
si susseguirono nell’Italia di metà anni trenta:

Mentre la folla plaudiva senza fine, mentre sul mare di teste si agitavano in
frenetica gioia fazzoletti, veli, cappelli, ogni cosa che può essere sventolata in
segno di festa, un episodio gentile si svolgeva nel palco delle autorità, presso ai
due Cardinali, il Legato e l’Arcivescovo. Leandro Arpinati presentava all’uno
e all’altro la vecchia mamma, una semplice modesta donna della gente nostra,
una di quelle donne che sole, raccogliendo nel cuore interno la forte e pura
tradizione di fede e di morale cristiana del popolo italiano, possono dare alla
Patria nostra le sue ed auspicate nuove generazioni. I due Porporati si effusero
in ogni buona parola, e la mamma del Podestà si inchinò a loro e dalle sue umili
parole traspariva tutta la gioia che il suo cuore provava nel vedere quel suo caro
e forte figliuolo vicino alle più alte autorità della Chiesa, partecipe di un rito
così solenne, associato a così alto trionfo della fede cattolica in Bologna e in
tutta Italia24.
104 società, stato e chiesa in italia

Quella descrizione, apparsa sull’organo di stampa ufficiale di una delle


maggiori diocesi italiane e avente come suo estensore un rappresentante
del clero locale, esemplifica in modo più eloquente dei numerosi docu-
menti cui ci si potrebbe riferire il clima che venne diffondendosi in Italia
nei primi anni della stagione concordataria. E non fu un clima alimen-
tato, come nel caso bolognese che abbiamo visto in precedenza, solo da
celebrazioni religiose che sembravano acquisire più risonanza pubblica
per la presenza delle autorità civili. Ci fu, e ben corposo, anche un rove-
scio della medaglia: a conferma di come, in una sorta di rivisitazione dei
più remoti schemi di Antico regime, anche il mondo ecclesiastico dava
pieno sostegno pubblico al governo dello Stato.
Ai congressi eucaristici e ad altre cerimonie religiose come quella bo-
lognese si affiancò, infatti, l’ampia partecipazione del clero rurale alle
cosiddette battaglie del grano: iniziative assunte dal regime fascista dap-
prima per ridurre le importazioni dall’estero e in seguito per fronteggia-
re il blocco commerciale imposto nel 1935 all’Italia dalla Società delle
nazioni a sanzione della condanna internazionale per l’attacco militare
italiano all’Etiopia. Si ebbe poi il pieno sostegno della gerarchia episco-
pale sia alla propaganda fascista in favore dell’impresa coloniale in Etio-
pia appena ricordata che all’intervento di soldati italiani a fianco delle
truppe franchiste nella guerra civile che si combatté in Spagna a partire
dal 1936. Infine, la decisione da parte di Mussolini di far entrare il paese
in guerra nel giugno 1940 non diede adito tra i cattolici a nessuna signi-
ficativa forma di propaganda antinterventista: a differenza di ciò che era
inizialmente avvenuto nel 1914-15, quando a portare l’Italia in guerra
doveva eventualmente essere il governo liberale.
Una puntualizzazione va tuttavia fatta a proposito di quest’ultimo
aspetto del complessivo e privilegiato rapporto che si instaurò in Italia
tra Chiesa e fascismo. Altro, cioè, fu l’atteggiamento del mondo catto-
lico, sia laico che ecclesiastico: in gran parte disposto a fare propria la
visione patriotticamente retorica dell’evento25. Altro, e ben più cauto e
riservato, fu invece l’atteggiamento della Santa sede e dello stesso nuovo
papa Pio xii. La diplomazia vaticana aveva infatti informazioni suffi-
cienti per intuire quanto, dietro la propaganda militarista alimentata nel
paese, ci fosse una sostanziale inadeguatezza ad affrontare la guerra e che
soprattutto ci si illudesse nel volerla credere, e far credere alla gente, ra-
pida e facilmente conclusa a favore dell’Italia e dei suoi alleati.
Ma al di là di questo sussisteva ormai dal 1938 – e in parte già dal
palesarsi dell’intenzione italiana di aggredire militarmente l’Etiopia
grande guerra e fascismo: l’accordo con lo stato 105

nel 1935 – una nuova fase di tensione tra regime e Santa sede. L’avvi-
cinamento progressivo del governo italiano alla Germania nazista che
si era compiuto nel corso di quell’anno, portando tra l’altro all’intro-
duzione anche in Italia di leggi antiebraiche, lasciava infatti presagire
come incombente il rischio che i provvedimenti con i quali Hitler stava
attaccando il cattolicesimo tedesco potessero trovare facile imitazione
in Italia. Anche perché il governo guidato da Mussolini aveva già nel
frattempo ripresa l’antica diffidenza nei confronti dell’ac, sulla base del-
le relazioni di alcuni prefetti che segnalavano come nella fase tranquilla
di metà anni trenta l’organizzazione cattolica, lungi dal ripiegarsi in una
gestione di routine, avesse registrato una crescita quantitativa e un parti-
colare attivismo locali.
A parziale differenza di quanto avvenuto nel 1931, quando solo dopo
le ripetute aggressioni fasciste si era giunti a una trattativa dalla quale
erano poi scaturiti i nuovi statuti dell’ac, la Santa sede decise questa
volta di giocare d’anticipo. Senza pertanto aspettare un peggioramento
eccessivo dei rapporti con il regime, che già erano arrivati a una soglia
piuttosto delicata nell’inverno del 1938, il 22 aprile 1939 essa comuni-
cava ufficialmente la notizia che la guida dell’ac veniva affidata all’alta
direzione di tre cardinali (l’arcivescovo di Genova Pietro Boetto, l’arci-
vescovo di Palermo Luigi Lavitrano e il patriarca di Venezia Adeodato
Piazza) in vista di una revisione degli statuti che si sarebbe di fatto con-
clusa il 6 giugno 1940.
La scelta di affidare ufficialmente la direzione generale dell’orga-
nizzazione ai suddetti cardinali, come anche lo stesso contenuto della
revisione, erano certo motivati da una necessità di natura contingente:
cioè, di fronte all’addensarsi di nuove nubi, offrire all’ac una copertura
ancora più solida di quella offerta dagli statuti del 1931. Ma dato che tale
difesa venne attuata sottolineando in modo ancora maggiore che nel re-
cente passato il legame/dipendenza dell’ac rispetto alla gerarchia eccle-
siastica, di fatto quei provvedimenti rappresentarono l’ultimo passo di
quella clericalizzazione degli organi direttivi del movimento intrapresa
sin dall’esordio del pontificato di Pio xi.
Solo apparente era invece la centralizzazione. I tre cardinali sopra ri-
cordati non erano infatti dei cardinali di curia, dei prelati impegnati cioè
a Roma in incarichi direttivi, ma dei vescovi residenziali, cioè alla guida di
vere e proprie diocesi. Quindi, anche se in forma indiretta, veniva confer-
mata la diocesanizzazione prevista dagli statuti del dicembre 1931 e richie-
sta ancora prima dagli accordi con il fascismo del settembre precedente.
5
La ricostruzione guelfa dell’Italia:
la conquista dello Stato

Pio xii e la crociata


per la ricristianizzazione della società
Al termine della guerra di liberazione antitedesca, avvenuto com’è noto
nell’ultima decade dell’aprile 1945 con la successiva insurrezione di varie
grandi città del Nord Italia, lo scenario politico e sociale del paese risul-
tava profondamente mutato rispetto a quello che, esattamente cinque
anni prima, aveva visto il paese iniziare l’avventura bellica sorretto dal-
la piena fiducia nei propri mezzi e dalla roboante retorica nazionalista.
Due date aiutano a fissare i passaggi fondamentali di quella svolta: il 25
luglio e l’8 settembre 1943.
La prima coincise con il momento nel quale Mussolini, dopo averlo
ininterrottamente mantenuto per vent’anni e otto mesi, venne solleva-
to dall’incarico di capo del governo. L’evento non comportò la fine del
fascismo e nemmeno la sua rinuncia a egemonizzare la vita italiana. L’a-
vrebbero confermato nei due anni successivi i sostenitori irriducibili del
regime, dando vita sotto la guida dello stesso Mussolini e con l’appoggio
essenziale della Germania nazista all’esperienza della Repubblica sociale
italiana (comunemente conosciuta come Repubblica di Salò dal nome
della località sulle rive del Garda dove ebbe la sua sede centrale). Ma
quell’evento segnò senz’altro la fine della particolare situazione politica
che si era iniziata a predisporre nel 1922 per poi inverarsi tra il 1923 e il
1926.
La seconda data, invece, rappresentò il momento nel quale l’Italia
ormai postfascista accettò la sconfitta militare firmando l’armistizio,
reso pubblicamente noto l’8 settembre. Negli stessi giorni nei quali usci-
va formalmente dal conflitto mondiale il paese veniva però interessato
dalla progressiva occupazione delle truppe tedesche e costretto così ad
ingaggiare sul proprio territorio una nuova guerra, della durata di circa
108 società, stato e chiesa in italia

due anni, che avrebbe assunto una duplice fisionomia: da un lato guerra
di liberazione contro i tedeschi e dall’altro guerra civile tra gli italiani
che lottavano per impedire il ritorno della dittatura fascista e quelli che
al contrario intendevano ripristinarla.
Rispetto ad entrambe l’8 settembre 1943 avrebbe segnato l’inizio
di un fenomeno molto importante per capire la fase immediatamente
successiva alla fine vera e propria delle ostilità in Italia nell’aprile 1945:
vale a dire il formarsi di un fronte antifascista che vide tra loro affiancati
gli esponenti di quelle forze politico-sociali cattoliche e socialcomuni-
ste che si erano lungamente combattute dalla fine dell’Ottocento in poi
sino a quando l’affermarsi del regime fascista aveva annullato ogni spa-
zio di contesa parlamentare.
Le due date che abbiamo ricordato segnarono altrettanti momenti
decisivi anche rispetto alla presenza dei cattolici nella realtà italiana. Ma
su questo ritorneremo tra poco. Per cogliere invece appieno le peculia-
rità secondo le quali tale presenza si sarebbe sviluppata negli anni del
secondo dopoguerra sia dal punto di vista delle sue motivazioni più pro-
fonde che da quello dei modi concreti di manifestazione, modi che non
erano certo gli unici possibili, è necessario partire più a monte. Occorre
cioè risalire a ritroso sino al Natale del 1942. In quella circostanza, infat-
ti, il pontefice Pio xii diffuse un radiomessaggio che gli studiosi ritengo-
no a ragione decisivo per conoscere i fondamenti di natura religiosa ma
anche ideologica che avrebbero guidato i cattolici italiani alla conquista
dell’egemonia nelle strutture dello Stato e in vari settori strategici della
società civile. Un’egemonia che, com’è noto, si sarebbe di fatto prolun-
gata per vari decenni sino agli anni ottanta del Novecento.
I punti chiave del radiomessaggio erano essenzialmente quattro. In-
nanzitutto (primo elemento), riprendendo dal libro del profeta Gere-
mia un giudizio biblico, si chiariva che il destino inesorabile di colo-
ro che abbandonavano Dio era il cadere nella polvere, cioè di fatto il
soccombere sulla scena della storia. Tale esito non riguardava soltanto
e principalmente i singoli individui, ma si estendeva all’intero gene-
re umano e al suo passaggio attraverso le diverse epoche storiche. Era
appunto (secondo elemento) ciò che stava avvenendo con la guerra in
corso, che confermava infatti la decadenza dell’umanità a causa del suo
abbandono di Dio.
Fin qui la chiave di lettura sottesa al documento papale non presen-
tava novità particolari. Si trattava, anzi, della ripresa di un motivo as-
solutamente tradizionale nel pensiero cattolico: la guerra come segno
la ricostruzione guelfa dell’italia 109

della perversione del genere umano e come evento consentito da Dio in


una prospettiva palingenetica. Va da sé che in questa interpretazione di
profilo volutamente generale, priva di qualunque riferimento esplicito al
corso recente degli eventi, non c’era spazio per giudizi particolari sulle
responsabilità specifiche di una o dell’altra delle parti che componevano
il genere umano e che ora erano in conflitto tra loro. Non c’era cioè di-
stinzione tra aggressori e aggrediti, e nemmeno tra oppressori e vittime.
Lo confermava il passo del radiomessaggio nel quale s’invitava a non la-
mentarsi né per il presente né per il passato. Come d’altronde potevano
esserci le suddette distinzioni se i cattolici di ciascun paese, in Germania
come in Francia, in Italia come in Belgio, invocavano l’aiuto divino sulla
propria patria, e quindi contro le altre?
Una distinzione tuttavia c’era: fondamentale, ma non di natura po-
litica, bensì di carattere religioso. Era la distinzione tra quella parte del
genere umano che aveva causato con la propria perversione il giudizio
di Dio e quindi la guerra, e quella parte alla quale sarebbe spettato il
compito storico di riportare lo stesso genere umano sulla retta via. Chi
erano i componenti di questa seconda parte? Il messaggio di Pio xii
parlava esplicitamente dei «migliori e più eletti membri della cristiani-
tà» e considerando che per cristianità si intendeva in genere il mondo
occidentale cristianizzato non era difficile riconoscere quei membri nei
cattolici raccolti nelle varie organizzazioni nazionali. A loro (terzo ele-
mento) spettava dunque la responsabilità storica di lanciarsi in una cro-
ciata, che, al grido di «Dio lo vuole» come già quelle medievali, andasse
alla conquista di una nuova Terra Santa: la vittoria dei princìpi cristiani
sugli errori del tempo attuale. Non si trattava peraltro di un’impresa che
doveva esaurire il suo compito sul piano spirituale. Tali princìpi (quar-
to elemento) avrebbero dovuto, infatti, rappresentare le solide basi sulle
quali fondare le costruzioni sociali, cioè gli Stati e le altre strutture della
società, all’indomani della fine della guerra.
Fin qui il contenuto letterale del radiomessaggio del papa.
Fuori di metafora, tutto il documento era un invito esplicito ai catto-
lici perché si preparassero a intervenire direttamente e in modo concre-
to, «Non lamento, ma azione è il precetto dell’ora», nella ricostruzione
sociale del dopoguerra. Perché tuttavia tanta fretta, tenuto conto che ci
si trovava alla fine del 1942? La ragione è probabilmente da trovarsi nelle
informazioni sull’andamento della guerra di cui disponeva il Vaticano
e secondo le quali la sconfitta tedesca e quindi anche italiana era ormai
cosa certa, al di là dei suoi tempi di svolgimento.
110 società, stato e chiesa in italia

Questa eventualità era motivo di forte preoccupazione per la Santa


sede. Non in sé, per una sorta di nostalgia nei confronti dei regimi to-
talitari che si sarebbero così esauriti, ma piuttosto perché essa avrebbe
potuto spalancare le porte dell’Europa occidentale all’espansione della
Russia sovietica e quindi del comunismo, con tutte le conseguenze ne-
gative che se ne paventavano per la presenza del cattolicesimo: in parte
a ragione e in parte per effetto di timori ingigantiti ad arte dalla propa-
ganda anticomunista1.
Comunque sia, il radiomessaggio del dicembre 1942 divenne in Italia
una sorta di manifesto per l’avvio, o in alcuni casi per l’accelerazione,
delle operazioni che ancora prima della fine della guerra di liberazione
avrebbero portato il laicato cattolico al rapido ripristino di varie delle
istituzioni che erano state soppresse a metà anni venti in conseguenza
dell’affermarsi del fascismo e che ora diventavano fondamentali stru-
menti per la crociata indetta da Pio xii.

Il mondo cattolico italiano si riorganizza


Il primo a rinascere in ordine cronologico fu il partito cattolico. Lo ave-
vano d’altronde preparato varie iniziative clandestine che si erano svi-
luppate già prima del dicembre 1942 e che avevano messo in contatto
rappresentanti dell’ex ppi quali lo stesso De Gasperi, membri del Movi-
mento guelfo di Piero Malvestiti e altri giovani intellettuali come Giu-
seppe Dossetti e Giorgio La Pira.
Il 25 luglio 1943, lo stesso giorno nel quale cessava l’incarico di capo
del governo di Mussolini, veniva edita a Milano una prima versione del
programma del nuovo partito cattolico. A gennaio 1944 tale program-
ma riceveva un’ulteriore messa a punto attraverso lo scritto Idee rico-
struttive della Democrazia cristiana, pubblicato da Alcide De Gasperi sul
quotidiano cattolico “Il Popolo” con lo pseudonimo di Demofilo. I due
eventi segnarono la nascita, per quanto ancora semiclandestina, della
Democrazia cristiana (dc). Il nuovo partito conservava lo stesso simbo-
lo del ppi di don Sturzo (lo scudo crociato), ma ne cambiava il nome per
rispecchiare meglio la diversificata provenienza di partito o movimento
e anche l’intreccio di generazioni dei suoi membri.
La storia successiva, prolungatasi come vedremo per circa mezzo se-
colo, avrebbe visto raccogliersi attorno a quel partito l’intera vicenda
politica del mondo cattolico italiano. Ma in quegli anni la cosiddetta
la ricostruzione guelfa dell’italia 111

unità politica dei cattolici, cioè il loro identificarsi con un solo partito,
non era affatto vista come indispensabile: tanto che nel 1944 la rivista
dei gesuiti italiani “La Civiltà cattolica”, spesso portavoce ufficiosa degli
orientamenti vaticani, aveva esplicitamente affermato che tra i cattolici
avrebbero potuto sorgere più partiti «lecitamente discordanti sul piano
politico»2.
E in effetti, nel pieno della guerra di liberazione e in un clima di so-
stanziale collaborazione antifascista tra cattolici ed esponenti delle forze
politiche sia socialiste che comuniste, almeno altre due formazioni com-
poste da laici cattolici, ma che videro talora anche il sostegno di sacerdo-
ti, risultarono pienamente attive sebbene non molto rilevanti dal punto
di vista della forza numerica.
La prima era il Movimento cristiano-sociale, fondato da Gerardo
Bruni nel 1939 e trasformatosi poi in Partito cristiano-sociale: denomi-
nazione con la quale si sarebbe presentato alle elezioni per l’Assemblea
costituente del 1946 e alle politiche del 18 aprile 1948. La seconda era la
cosiddetta Sinistra cristiana: nata anch’essa come movimento clandesti-
no alla fine degli anni trenta e poi passata attraverso varie trasformazioni
all’esperienza dei cattolici comunisti, per approdare nel settembre 1944
alla fondazione del Partito della sinistra cristiana e infine sciogliersi nel
dicembre 1945, facendo confluire nel pci buona parte dei propri soste-
nitori.
Se la prima esperienza visse in gran parte attorno alla figura e alla
evoluzione del proprio leader Bruni – che partecipò tra l’altro anche ai
lavori dell’Assemblea costituente, votando in modo contrapposto ai col-
leghi costituenti della dc sulla questione dell’art. 7 che esamineremo tra
poco –, la seconda vide invece svilupparsi un’esperienza più articolata
attraverso i percorsi politici dei vari Franco Rodano, Adriano Ossicini,
Felice Balbo ecc. Alla base di entrambe, peraltro, stava un elemento co-
mune: vale a dire una visione rivoluzionaria del cattolicesimo che ben
poco aveva da spartire con i programmi che nello stesso periodo veniva-
no elaborando per la futura dc De Gasperi e lo stesso Malvestiti. Una
visione rivoluzionaria che, guardando anche alle esperienze passate del
cattolicesimo politico italiano, sembrava tutt’al più avvicinabile alle idee
della sinistra popolare di Guido Miglioli o al Partito cristiano del lavoro
fondato nel 1921 da Giuseppe Speranzini e Giorgio Luigi Colombo.
Nel frattempo anche il settore sindacale cattolico si veniva riorganiz-
zando grazie all’opera di Achille Grandi. La sua intenzione era duplice.
Da un lato non sottrarsi al clima di collaborazione con le sinistre che
112 società, stato e chiesa in italia

caratterizzava, come si è detto, i mesi successivi all’8 settembre 1943;


dall’altro mantenere ai sindacalisti cattolici e in genere ai lavoratori che
si sarebbero potuti affidare alla tutela degli stessi una certa autonomia di
movimento e soprattutto una precisa connotazione ideologica derivata
dai princìpi cristiani e dalle indicazioni del magistero della Chiesa.
Grandi aderì di conseguenza al Patto di Roma, con il quale uffi-
cialmente il 3 giugno 1944 (ma in realtà alcuni giorni più tardi) le tre
componenti sindacali comunista, socialista e cattolica davano vita a un
sindacato unico chiamato cgil (Confederazione generale italiana del
lavoro); nello stesso tempo, tuttavia, egli predispose la nascita di un’ap-
posita organizzazione del lavoro che rispondesse alle ulteriori esigenze
sopra descritte. Durante un congresso convocato a Roma a fine agosto
dello stesso anno nascevano così le acli (Associazioni cristiane lavora-
tori italiani). A conferma del carattere integrativo che doveva avere tale
organizzazione dal punto di vista cattolico, Grandi, che già aveva sot-
toscritto il Patto di Roma quale leader della componente cattolica della
cgil, assunse anche la presidenza delle acli.
A questa particolarissima attenzione al mondo del lavoro, che se da
un lato poteva ritenersi erede della dottrina sociale della Chiesa dall’altro
era senza dubbio alimentata dalla preoccupazione per il possibile espan-
dersi del consenso nei confronti del comunismo, era poi riconducibile
la nascita tra il 1944 e il 1945 della Confederazione generale dei colti-
vatori diretti (comunemente chiamata Coldiretti). Il nome sembrava
richiamare in tale confederazione una fisionomia aconfessionale, ma la
realtà era ben diversa. Si trattava infatti dell’organizzazione con la quale
Paolo Bonomi, già segnalatosi come capace esponente dei gruppi giova-
nili dell’ac, era stato incaricato da De Gasperi e Giuseppe Spataro (altro
fondatore della dc) di coordinare la fitta rete di piccoli proprietari ter-
rieri che sino all’avvento del fascismo avevano costituito un vasto retro-
terra di consenso sociale per i cattolici, che al problema della difesa della
piccola proprietà avevano dedicato uno specifico interesse anche nello
statuto del partito fondato da don Sturzo.
La provenienza di Bonomi dagli ambienti dell’ac era ad un tempo na-
turale ed esemplare. Naturale perché era ovvio che dovendo predisporre
in poco tempo i quadri dirigenti di molteplici istituzioni mediante le
quali tentare di incidere sui settori portanti della società, oltre che dello
Stato, il mondo cattolico si servisse come serbatoio privilegiato di reclu-
tamento dell’organizzazione che durante il fascismo era stata «la grande
riserva ideologica e organizzativa del movimento cattolico, dove si erano
la ricostruzione guelfa dell’italia 113

formati uomini, si erano elaborate idee, si erano sviluppate strutture in


posizioni di relativa autonomia nei confronti del regime»3. Esemplare
perché ora quella riserva – nelle sue diverse articolazioni interne: come
confermavano ad esempio la provenienza di Bonomi dalla dirigenza del
settore giovanile, quella del personale politico dal settore laureati e così
via – veniva impiegata direttamente per la conquista cattolica dei set-
tori chiave dello Stato e della società, secondo una serie di intrecci, di
reciproci sostegni e di scambi talora anche di personale, che segnavano
ormai in modo caratteristico il quadro complessivo del mondo cattolico
italiano nella fase di passaggio dalla guerra internazionale alla guerra di
liberazione e da questa al dopoguerra.
La differenza rispetto alla situazione di inizio anni venti, prima cioè
che l’avvento del fascismo imprimesse una svolta autoritaria alla vita po-
litica e sociale italiana, era palese. Allora infatti i tre principali tramiti
attraverso i quali si manifestava la presenza cattolica nel paese (la Chiesa,
l’associazionismo laicale, il partito) non risultavano certo privi di colle-
gamenti tra loro, ma non erano nemmeno in piena simbiosi. Bastereb-
be ricordare: il tentativo di controllo diretto e completo che il mondo
ecclesiastico tentava di svolgere sull’associazionismo cattolico senza
peraltro ancora riuscirvi; la stessa articolazione interna di quell’associa-
zionismo, tuttora diviso nelle varie Unioni; il non facile rapporto tra
queste e il nascente ppi; il carattere volutamente aconfessionale di esso e
la parabola discendente che avrebbe disegnato il sostegno allo stesso da
parte della Santa sede.
A metà anni quaranta, invece, il mondo cattolico appariva ed era in
effetti infinitamente più compatto. Esso aveva infatti una organizzazio-
ne laicale fortemente omogenea al proprio interno e saldamente con-
trollata dalla gerarchia ecclesiastica: aspetti entrambi che si erano venuti
delineando con chiarezza già nel corso dei primi decenni del secolo e
che ora avrebbero ricevuto ulteriore conferma dai nuovi statuti approva-
ti nell’ottobre 19464. Il partito cattolico, al di là della pretesa autonomia
che vi hanno visto alcuni studiosi con riferimento precipuo alla segre-
teria De Gasperi (1944-53), era in realtà assai più attento alle direttive
che venivano dalla Santa sede di quanto non lo fosse stato il partito di
don Sturzo, ricevendo per converso e come vedremo un decisivo soste-
gno elettorale sia dal mondo ecclesiastico romano e periferico (diocesi e
parrocchie) che dall’ac. Infine la Chiesa, nel complesso scenario offerto
in quegli anni dalla realtà del paese, stava svolgendo un ruolo diretto e
sostanziale: sia per la mai smentita intenzione di orientarne il cammino
114 società, stato e chiesa in italia

secondo i propri princìpi, sia perché, nel vuoto istituzionale che si era
venuto a creare in Italia nella parte conclusiva della guerra, essa era stata
scelta dagli Stati Uniti come interlocutore privilegiato rispetto alle vi-
cende interne del nostro paese.
È noto, infatti, che gli Alleati (Stati Uniti e Gran Bretagna, princi-
palmente) avevano deciso di lasciare che gli italiani scegliessero alme-
no apparentemente da soli l’assetto da dare al paese dopo la fine della
guerra, senza cioè che venisse prolungata la presenza di eserciti stranieri
(per quanto adesso amici). Ma si voleva, in ogni caso, che tale assetto
non rappresentasse una rottura completa col passato e tanto meno che
aprisse le porte all’ulteriore avanzata in Europa del comunismo sovieti-
co. La Chiesa, al di là della sua natura e vocazione di fondo, divenne così
un interlocutore ideale per questo disegno politico e sociale di carattere
moderato-conservatore. Essa era infatti ideologicamente avversa al co-
munismo, esercitava tuttora una larghissima influenza su ampi settori
del popolo italiano e aveva nell’ac e nel partito della dc due strumenti
già in gran parte pronti a condurre in porto, per usare l’acuta immagine
di Jemolo, «l’inattesa realizzazione di uno Stato guelfo a cento anni dal
crollo delle speranze neoguelfe»5.

Cattolici e democristiani
di fronte alla costruzione della Repubblica
Tra l’8 settembre 1943 e il 12 maggio 1947, giorno nel quale finì l’espe-
rienza della coalizione di governo tra i partiti democristiano, comunista
e socialista, prevalse seppure con scricchiolii nell’ultimo periodo la soli-
darietà tra cattolici e uomini della sinistra che si era sviluppata nel corso
della guerra di liberazione. Anche dopo il 25 aprile 1945 essa aveva dato
frutti significativi, consentendo tra l’altro a un’Italia ancora estrema-
mente fragile dal punto di vista politico e sociale il passaggio attraverso
il delicato scoglio della scelta tra monarchia e repubblica.
Tale scelta, avvenuta mediante un referendum popolare tenutosi il 12
giugno 1946 e conclusosi con la vittoria di stretta misura dell’opzione
repubblicana, coincise anche con le votazioni per la scelta dei membri
dell’assemblea che avrebbe dovuto redigere la costituzione repubblicana
del nuovo Stato: l’Assemblea costituente, appunto, o più semplicemente
la Costituente.
la ricostruzione guelfa dell’italia 115

Quelle per la Costituente furono le prime elezioni libere a tenersi


in Italia dopo l’avvento del fascismo – oltre che le prime che videro la
partecipazione femminile – e, per quanto non si trattasse di un voto fi-
nalizzato alla formazione del nuovo parlamento o delle amministrazioni
locali, esse ebbero un importante effetto chiarificatore sul peso numeri-
co delle forze in campo e sugli orientamenti complessivi dell’elettorato
nazionale. Ne uscirono largamente vincitori i cosiddetti partiti di massa.
La dc ebbe infatti 207 membri alla Costituente, il Partito socialista ita-
liano di unità proletaria 115 e il Partito comunista italiano 104. Le altre
forze politiche che potevano in varia misura ricollegarsi alla classe diri-
gente liberale che aveva governato l’Italia sino all’avvento del fascismo
ebbero risultati assai meno significativi.
Si creò così da subito la situazione che avrebbe poi caratterizzato, con
oscillazioni non decisive, la vita politica italiana dei decenni successivi:
con un partito cattolico detentore del maggior numero di voti, con una
sinistra divisa in socialisti e comunisti che sommati tra loro avrebbero
potuto superare i voti cattolici e con una serie di partiti minori di tradi-
zione laica che da soli, tuttavia, non avrebbero mai più potuto riprendere
il controllo dello Stato. Gli eredi della classe politica che aveva unificato
l’Italia dovevano dunque cedere in ogni caso la mano.
Il delinearsi di quello che Jemolo ha indicato con felice definizione
lo Stato guelfo iniziò proprio durante i lavori dell’Assemblea costituente
e, per quanto la cosa possa sorprendere, questo avvenne con l’appoggio
decisivo del voto comunista. L’articolo 5 del progetto di costituzione
(divenuto poi art. 7 nella stesura finale) prevedeva infatti che il nuovo
testo costituzionale contenesse al proprio interno un richiamo esplicito
ai Patti lateranensi stipulati l’11 febbraio 1929 tra la Santa sede e il go-
verno di Mussolini. Lo scopo era quello di mantenerne intatta l’efficacia
anche dopo che l’Italia avrebbe cambiato la propria forma politica, tra-
sformandosi da regno in repubblica. I costituenti cattolici condussero
una vera e propria battaglia a difesa dell’articolo. Vi si opposero invece i
socialisti, i rappresentanti di alcuni dei partiti laici e l’unico membro del
Partito della sinistra cristiana (Bruni), adducendo come ragione l’inop-
portunità di introdurre un articolo che avrebbe leso sin dalle sue fonda-
menta il carattere laico del nuovo Stato.
Il pci non aveva alcun interesse ideale per la questione, ma politico
certamente sì. Decise, quindi, attraverso l’impegno in prima persona del
proprio segretario Palmiro Togliatti di votare nella medesima direzione
dei costituenti cattolici: ufficialmente per rispettare le tradizioni religio-
116 società, stato e chiesa in italia

se del popolo italiano e garantire nel nuovo Stato repubblicano la libertà


religiosa, in realtà anche per mostrare un atteggiamento di disponibilità
nei confronti della Chiesa e di quel partito cattolico con il quale allora
esso condivideva le sorti del governo. I 350 voti raccolti dal sì all’articolo
7 contro i 149 no confermarono il peso decisivo avuto dai 104 voti di cui
disponevano i costituenti comunisti.
L’approvazione dell’articolo avvenne il 25 marzo 1947. Meno di due
mesi dopo, il 13 maggio, il governo tripartito (cattolici, socialisti, co-
munisti) retto dal segretario della dc De Gasperi diede le dimissioni e
venne sostituito dallo stesso De Gasperi con un nuovo governo di coa­
lizione nel quale la indiscussa guida della dc risultava affiancata dai co-
siddetti partiti laici minori, secondo una prassi che poi si sarebbe a lungo
stabilizzata nella storia politica del paese. Finiva così la storica alleanza
nata in nome della guerra di liberazione e si inaugurava una fase, che
sarebbe poi durata circa quindici anni, durante la quale nessuno dei due
partiti di massa della sinistra sarebbe più stato ammesso a far parte dei
governi italiani.
Gli studiosi si sono a lungo confrontati, propendendo ora sul carat-
tere assolutamente conseguente di quei due eventi – ipotesi che porte-
rebbe a sostenere l’uso strumentale del voto comunista fatto dai costi-
tuenti democristiani, che se ne sarebbero serviti cioè per l’approvazione
dell’art. 7 della Costituzione per poi sciogliere l’alleanza di governo
con i comunisti –, ora sulla loro sostanziale e reciproca estraneità. Così
come, ad eccezione della storiografia di parte cattolica, si è molto insi-
stito sul legame che vi sarebbe stato tra un lungo soggiorno compiuto
da De Gasperi negli Stati Uniti (gennaio 1947) e gli eventi politici ita-
liani dei mesi successivi. Comunque si vogliano interpretare i suddetti
episodi, resta tuttavia il fatto che il clima internazionale volgeva ormai
nettamente verso la cosiddetta guerra fredda tra il blocco orientale gui-
dato dall’Unione Sovietica e il blocco occidentale facente capo agli Stati
Uniti sul piano mondiale e sulla Gran Bretagna in Europa, e la situazio-
ne interna dell’Italia non avrebbe comunque potuto non risentirne.
La lunga campagna elettorale che preparò le prime elezioni politiche
repubblicane fissate per il 18 aprile 1948 fu un esempio particolarmente
illuminante sia del clima generale che ormai si respirava a pochissimi
anni di distanza dalla solidarietà antifascista e antinazista di buona parte
delle forze politiche italiane ed europee, sia della forza propagandistica
che era in grado di mettere in campo il mondo cattolico italiano attra-
verso l’impegno congiunto del clero, dell’ac e da ultimo, solo da ultimo
la ricostruzione guelfa dell’italia 117

a causa della sua esilità strutturale, del partito della dc. Ben più degli
interventi dei politici contarono infatti l’azione capillare condotta so-
prattutto nelle campagne dal clero curato e le missioni religioso-sociali
predicate in tutta Italia tra la fine del 1947 e la primavera del 1948 da
attivisti dell’ac sostenuti in alcuni casi anche dal supporto logistico di
apparecchiature per la proiezione di materiale propagandistico offerte
direttamente da Pio xii.
Piuttosto che un confronto tra programmi, o al limite tra i leader po-
litici dei diversi schieramenti, il 18 aprile 1948 divenne per effetto di una
campagna elettorale nettamente ideologizzata lo scontro tra due conce-
zioni contrapposte dello Stato, della società e anche in fin dei conti dello
stesso individuo. Quella, da un lato, del Fronte popolare raggruppante le
forze di sinistra: basata su uno Stato centralizzato, una società fortemen-
te solidaristica e una visione dell’individuo prettamente laica. E quella,
dall’altro, delle forze moderate e conservatrici raccolte attorno alla dc:
fondata su uno Stato decentrato, una società imperniata sull’intreccio
di pubblico e di privato ma con prevalenza di quest’ultimo, una visione
dell’individuo modellata almeno per i cattolici inseriti nella coalizione
sui princìpi religiosi.
Ma già entrare nel merito delle suddette distinzioni è in qualche
modo nobilitare impropriamente l’ottica secondo la quale l’elettorato
italiano venne indotto a scegliere. Se osserviamo infatti i manifesti elet-
torali affissi dai Comitati civici di Luigi Gedda, una sorta di organiz-
zazione elettorale scaturita dall’ac e appunto guidata dal presidente di
uno dei suoi rami, vediamo che l’alternativa proposta agli elettori era
esemplificata più dalle seguenti raffigurazioni che dalle differenze di
fondo prima accennate6.
Primo manifesto, di destinazione generale. Un bivio (le elezioni del
18 aprile) con due strade: a destra una strada rettilinea e in perfette con-
dizioni di manutenzione che aveva come suo traguardo la chiesa, la fa-
miglia e il lavoro; a sinistra una strada a forma di curva, con un percorso
reso accidentato da sassi e buche e con il triplice risultato di portare alle
agitazioni, alla guerra e alla miseria. Anche i particolari erano curatissi-
mi e ideologicamente funzionali: i pilastrini della strada democristiana
erano infatti di colore bianco, mentre quelli della strada delle sinistre
erano ovviamente rossi!
Secondo manifesto, chiaramente destinato a elettori delle zone rurali.
Al centro una graziosa fattoria contornata da campi e frutteti, intorno, a
sua difesa, un recinto senza aperture formato dalle schede elettorali con
118 società, stato e chiesa in italia

scritto «voto», dai quattro lati altrettanti artigli con il simbolo comu-
nista (falce e martello) che tentavano di entrare nel recinto, il tutto so-
vrastato dalla scritta «Difendi il frutto dei tuoi sudori». In questo caso,
dunque, la scelta dello schieramento era accompagnata da un pressante
invito a non astenersi dal votare. Forte era infatti il timore, divenuto poi
congenito nelle forze moderate italiane, che la superiore compattezza di
partito dei comunisti potesse trarre vantaggio dal maggiore distacco dei
settori politicamente meno impegnati della società.
Le elezioni videro l’affermazione complessiva del blocco moderato e
conservatore, ma il dato più significativo venne rappresentato dalla per-
centuale di voti che premiavano il partito cattolico consentendogli alla
Camera di ottenere la maggioranza assoluta dei deputati e al Senato di
raggiungere comunque la maggioranza relativa. La dc dunque non solo
si confermava come il partito più forte in parlamento, dato questo già
delineatosi nelle elezioni per la Costituente, ma sfiorava da sola con una
percentuale del 48,5% la maggioranza assoluta.
Ad un’analisi interna del voto, volta a esaminare il contributo dato a
quell’esito complessivo dalle diverse aree del paese, risultava peraltro che
la forza del partito democristiano non era distribuita uniformemente su
tutto il paese (il centro dell’Italia aveva ad esempio votato in prevalenza
a sinistra, mentre al Sud restava forte la presenza dell’elettorato monar-
chico) e che la vistosa entità numerica di quel voto non dipendeva solo
dal consenso proveniente dagli ambienti cattolici ma assorbiva anche
una parte non piccola di elettorato semplicemente anticomunista.
In ogni caso, tuttavia, pur con queste particolarità interne il risultato
non presentava nella sua globalità possibili letture alternative: un partito
cattolico aveva acquisito per la prima volta la possibilità di guidare le
sorti dello Stato italiano. Restava da vedere, ed era una delle principali
incognite sottese alla nuova stagione che si andava ad aprire, in che mi-
sura avrebbero pesato sulla dc e sulla sua linea politica le esigenze del
suo maggiore procacciatore di voti: l’istituzione ecclesiale cattolica. Era
infatti evidente, come già si era riscontrato a proposito delle pressioni
che erano state fatte sui costituenti democristiani in vista della discus-
sione dell’art. 7, che la Chiesa vedeva nel partito democristiano non
tanto una delle espressioni della vita politica del paese, magari anche la
più vicina ai propri princìpi, ma lo strumento politico di cui servirsi per
raggiungere i due scopi per essa prioritari: la lotta contro il comunismo
e la ricristianizzazione del paese. Ma c’era anche una seconda incognita,
come vedremo tra poco: cioè il peso che avrebbe avuto sulla fisionomia
la ricostruzione guelfa dell’italia 119

di organizzazioni dalle finalità formalmente religiose quali l’ac un coin-


volgimento così diretto nelle questioni elettorali e politiche come quel-
lo verificatosi nella primavera 1948 e già prima, nel giugno 1946, per la
Costituente.
Il politico che più di altri risultò il protagonista della prima fase di
questo tentativo di governo dei cattolici fu l’ex popolare Alcide De Ga-
speri: indiscusso leader del partito democristiano dal 1944 alla propria
morte nell’agosto 1954, e nel frattempo capo dei governi che si avvicen-
darono nel corso della prima legislatura (aprile 1948-giugno 1953). La
sua linea di governo si espresse nel centrismo, vale a dire in un progetto
politico mirato a mantenere lontane dalle leve del potere sia le forze di
sinistra che quelle di destra. Un progetto che per la propria realizzazione
si servì alternativamente di compagini di governo talora a monocolore
democristiano e talaltra, preferibilmente, allargate ai partiti minori di
orientamento laico e moderato (liberali, repubblicani e socialdemocra-
tici); e che ebbe una triplice fisionomia: quella politica di De Gasperi,
quella economica del liberale Luigi Einaudi e quella repressiva del mini-
stro degli Interni democristiano Mario Scelba. Questo progettato equi-
librio al centro non fu peraltro facile da mantenere e, in ultima analisi,
risultò più teorico che concreto. Al di là infatti delle personali opinioni
di De Gasperi, che restava in ogni caso un uomo dalle idee moderate
come avrebbe mostrato la sua azione per arginare l’estendersi nella dc
del consenso maturato attorno ai princìpi portati avanti da Giuseppe
Dossetti, esistevano sia all’interno sia soprattutto all’esterno del partito
dei sostanziosi elementi di disturbo.
Le organizzazioni di varia natura che sostenevano la Democrazia
cristiana dal di fuori del parlamento garantendole il consenso di ampi
settori del mondo rurale e dei ceti impiegatizi (istituzione ecclesiasti-
ca, ac, Coldiretti, acli) spingevano infatti con forza verso una ben più
netta chiusura a sinistra che non a destra: sulla base di quello stesso an-
ticomunismo che cementava i rapporti del partito democristiano con la
parte non cattolica del proprio elettorato. E tale spinta non si limitò a
pressioni di natura verbale, ma si tradusse in atti che miravano in modo
esplicito ad alzare una barriera attorno ai partiti di sinistra e soprattutto
a quello comunista. Tra questi atti se ne possono ricordare almeno tre
che per la loro diversa provenienza e ambito di esercizio confermano
l’ampia diffusione del fenomeno.
Il primo in ordine cronologico riguardò il mondo sindacale. Come
si ricorderà, nel giugno 1944 si era raggiunta con il Patto di Roma l’u-
120 società, stato e chiesa in italia

nificazione delle varie componenti sindacali nell’unica cgil. I rapporti


interni tra la maggioranza di sinistra e la minoranza cattolica non erano
mai stati particolarmente facili e la stessa nascita delle acli all’indomani
del Patto era già indizio di una disponibilità condizionata. Di fatto nel
luglio 1948, a causa di un ulteriore episodio nel quale ritennero che si fa-
cesse un uso politico del sindacato (la cgil aveva proclamato lo sciopero
generale perché il leader del Partito comunista italiano Palmiro Togliatti
aveva subìto un attentato), i cattolici denunciarono la rottura del Patto,
uscirono dalla cgil e fondarono in via provvisoria una nuova formazio-
ne sindacale che già nel nome, ottenuto con la sola aggiunta dell’agget-
tivo “libera” davanti al nome cgil (da cui la sigla lcgil), sottolineava
l’intento provocatorio nei confronti degli ex colleghi di sindacato. La
nascita nel 1950 del nuovo effettivo sindacato cattolico, la Confedera-
zione italiana sindacati lavoratori (cisl), avrebbe poi ulteriormente san-
cito la rottura dell’unità sindacale, caratterizzando in modo definitivo la
cgil come sindacato a larga prevalenza comunista.
Il secondo ebbe invece come protagonista la Santa sede e riguardò la
sfera della pratica religiosa. Il 14 luglio 1949 (ma con data 1° luglio), in-
fatti, la Congregazione del Sant’Uffizio emanava un decreto con il quale
venivano dichiarati scomunicati, cioè impediti a ricevere i sacramenti e
partecipare in genere alla vita ecclesiale, coloro che sostenevano il Partito
comunista italiano. Il provvedimento non aveva ovviamente nessun par-
ticolare effetto sui sostenitori non credenti del partito, ma introduceva
un gravissimo problema di coscienza in quelli che invece erano cattolici
e allo stesso tempo simpatizzavano per i programmi sociali del partito
di sinistra. Si pensi tra l’altro a coloro che a fine 1945, come abbiamo già
ricordato, passarono dalle fila del disciolto Partito della sinistra cristiana
a quelle del Partito comunista italiano.
Il terzo, infine, fu particolarmente significativo perché esemplificò in
maniera quanto mai lineare l’intreccio tra fattori ecclesiali, ideologici
e politici, cui poteva portare l’anticomunismo cattolico del tempo. Mi
riferisco alla cosiddetta operazione Sturzo. In vista delle elezioni am-
ministrative che si dovevano tenere a Roma nel corso del 1952, infatti,
gli ambienti vaticani, altri settori del mondo ecclesiastico romano e la
presidenza dell’ac, progettarono un’alleanza tra la dc e le forze politi-
che della destra, tra le quali i monarchici e i neofascisti del Movimento
sociale italiano, per formare un blocco conservatore contro le sinistre.
Quale mediatore dell’iniziativa venne ufficialmente designato l’anziano
ex segretario del ppi don Luigi Sturzo, da cui prese il nome l’intero pro-
la ricostruzione guelfa dell’italia 121

getto. Ad impedirne l’attuazione – oltre a quelle dello stesso De Gaspe-


ri – intervennero le perplessità degli alleati nazionali della dc (liberali,
repubblicani, socialdemocratici), ma il solo fatto che si fosse pensato se-
riamente a tale operazione elettorale è fortemente indicativo del livello
di disinvoltura ideologica cui poteva portare l’anticomunismo ecclesia-
stico e più generalmente cattolico nell’Italia di inizio anni cinquanta.

Chiesa e cattolici negli anni cinquanta:


tra pastorale di conquista e voci differenziate
Ho insistito abbastanza lungamente sull’anticomunismo come aspet-
to qualificante della politica democristiana e degasperiana di fine anni
quaranta-inizio anni cinquanta perché esso consente di capire assai bene
due fenomeni altrimenti difficilmente spiegabili7.
Il primo era la crescita, o perlomeno la stabilizzazione, del consenso
che si raccolse attorno al partito cattolico in una stagione storica nella
quale, al contrario, la pratica religiosa continuava a scendere. Ciò con-
fermava, con evidenza, che votavano dc non solo i cattolici praticanti,
ma anche coloro che vedevano rappresentati sempre più chiaramente in
quel partito non tanto gli ideali religiosi, quanto le posizioni ideologi-
che degli ambienti moderati del paese.
Il secondo, invece, era la compattezza complessiva del mondo catto-
lico che si confermò quasi sempre in occasione delle scadenze elettorali
degli anni cinquanta nonostante non mancassero al suo interno chiari
indizi di insofferenza rispetto ad alcune delle caratteristiche che il cat-
tolicesimo italiano era venuto assumendo durante il pontificato di Pio
xii. La principale di esse consisteva nella pastorale di conquista con la
quale la Chiesa del secondo dopoguerra aveva intrapreso il compito di
ricristianizzare la società italiana.
Gli antefatti più lontani e le motivazioni originarie di questo atteg-
giamento pastorale erano forse già rinvenibili nello slancio organizzati-
vo che abbiamo visto svilupparsi nell’oc di Leone xiii. È chiaro, tutta-
via, che rispetto al contesto sociale degli anni quaranta-cinquanta del
Novecento, egemonizzato in larga misura da fenomeni che iniziavano
appena ad intravvedersi a fine Ottocento, gli innesti ravvicinati erano
piuttosto altri. Da un lato, il percorso che aveva portato l’Azione cat-
tolica a diventare con Pio xi un’organizzazione di massa. Dall’altro,
122 società, stato e chiesa in italia

quanto ai contenuti ideologici, i messaggi proclamati da Pio xii e so-


prattutto l’utilizzo da parte sua di un linguaggio e di categorie che si
adattavano perfettamente al carattere della crociata da lui bandita sin
dal radiomessaggio natalizio del dicembre 1942, che abbiamo visto in
precedenza.
Non stupisce pertanto che nei raduni dei giovani di ac si cantasse-
ro inni papali dai toni così simpaticamente bellicosi come il seguente.
E chissà se i suoi autori nell’usare il termine “arditi” erano incorsi solo
inavvertitamente in un esplicito richiamo alle truppe speciali italiane
che avevano partecipato alla Grande guerra, per poi rappresentare uno
dei punti cardine delle milizie fasciste degli anni venti:

Bianco Padre che da Roma


ci sei meta, luce e guida,
in ciascun di noi confida,
su noi tutti puoi contar.
Siamo arditi della fede,
siamo araldi della Croce,
a un tuo cenno, alla tua voce,
un esercito ha l’altar8.

Comunque sia, l’idea della mobilitazione generale, dello scontro deci-


sivo pro o contro la civiltà cristiana, di una presenza pubblica insistita e
tanto più apprezzata quanto numericamente massiccia e quindi visibile,
rappresentarono in quegli anni il modo principale attraverso il quale il
mondo cattolico italiano nella sua globalità – quindi non solo attraverso
le organizzazioni del laicato, ma anche riguardo alla linea pastorale per-
seguita da molti vescovi nelle proprie diocesi – si propose all’Italia per
conseguire quell’obiettivo della ricristianizzazione che in una prospet-
tiva di lungo periodo continuava a rappresentare, pur nel mutare delle
vesti e delle strategie, il vero obiettivo della Chiesa.
Una tale ottica comportava ovviamente l’adeguamento degli stru-
menti tradizionali di presenza cattolica. Quanto all’ac non esistevano
necessità particolari. Essa era infatti cresciuta assieme all’affermarsi di
quei criteri e quindi, anche a prescindere dal fatto che i nuovi statuti
fossero stati approvati solo nel 1946, non si richiedevano aggiustamenti
strutturali di particolare rilievo. Si trattava tutt’al più di orientare verso
l’applicazione fedele dei criteri sopra ricordati la mentalità delle nuove
generazioni che entravano a farne parte.
la ricostruzione guelfa dell’italia 123

Vedremo tra poco come andarono in realtà le cose. Diversa e ben più
complessa da affrontare risultava invece la realtà dell’istituzione eccle-
siale periferica. La parrocchia, in particolare, indicata già nei programmi
di Pio xi e della sua ac come il centro essenziale della vita religiosa, non
era adatta al tipo di pastorale che immaginavano i crociati di Pio xii. Essa
andava pertanto attrezzata come una sorta di cittadella cristiana, il cui
modello ideale veniva così descritto in un periodico dell’ac:

Il tempio (col battistero e col campanile), la sacrestia, la casa dei sacerdoti, l’uf-
ficio parrocchiale, i locali per l’Azione Cattolica, i locali per l’insegnamento
del catechismo, una gran sala (per teatro, cinematografo, adunanze solenni),
un cortile per i piccoli, un campo sportivo per i grandi, delle sale per le opere di
carità spirituale e materiale (biblioteca, sala di lettura, ambulatorio medico, cu-
cina del popolo e simili), locali per eventuali altre opere (circolo acli, palestra,
cortile coperto per l’inverno, sala di prova per la banda, doposcuola e simili)9.

Pastorale di mobilitazione e parrocchia/cittadella erano, dunque, gli


elementi chiave di quella particolare proposta religiosa. E se guardiamo
ancora oggi alle manifestazioni pubbliche maggiori che furono organiz-
zate dalla Chiesa in quegli anni – dalle celebrazioni per l’Anno santo
1950, alla crociata per il grande ritorno con cui si tentò nello stesso anno
di favorire la conversione dei comunisti, alle varie iniziative che fecero
capo al gesuita Riccardo Lombardi e alla sua crociata per un mondo mi-
gliore – o a come vennero concepiti anche dal punto di vista architetto-
nico i complessi parrocchiali nati negli anni cinquanta, non possiamo
non ricavarne che proprio quella risultò la linea vincente.
Vincente, però, non nel senso che essa fu realmente capace di arrestare
i processi di secolarizzazione che coinvolgevano a ritmi sempre più acce-
lerati le masse, ma perché apparve senza dubbio dominante e capace di
saldare tra loro in un quadro di sostegni e di scambi incrociati le varie ar-
ticolazioni del mondo cattolico. Sia che si trattasse da parte del governo a
guida democristiana di alimentare massicciamente il supporto finanziario
dello Stato alle istituzioni ecclesiali attraverso, ad esempio, lo stanziamen-
to di somme destinate alla ricostruzione degli edifici sacri danneggiati dal-
la guerra. Sia che si trattasse da parte di tali istituzioni di garantire al gover-
no il proprio fondamentale sostegno alle scadenze elettorali. Sia infine che
si trattasse da parte delle organizzazioni del laicato cattolico di costituire
una sorta di mano d’opera più o meno generica utile ora all’azione politica
del partito ora all’azione religiosa delle istituzioni ecclesiali.
124 società, stato e chiesa in italia

Tra i molti interrogativi che si sono presentati agli studiosi del feno-
meno, quelli perlomeno che sono rimasti indenni dalla difesa entusia-
stica e compiaciuta di quella poderosità cattolica così come all’opposto
dalla sua demonizzazione preconcetta, uno in particolare merita di es-
sere qui riproposto: se, cioè, la decisione di ergersi a principale baluardo
contro il comunismo, non solo dal punto di vista ideologico generale,
ma come movimento, partito, sindacato, organizzazione elettorale,
centro sociale di intrattenimento ecc., non abbia talmente modellati la
Chiesa e il cattolicesimo italiano di quegli anni da snaturarne le finalità
ad essi proprie e la loro stessa presenza all’interno della società.
Già prima degli studiosi se lo chiesero d’altronde alcuni settori, certo
minoritari ma non per questo non meritevoli di attenzione, di quella
stessa Chiesa.
All’interno del laicato, ad esempio, l’eccessivo coinvolgimento
dell’organizzazione in questioni di natura prettamente politica che si
era accentuato nella seconda metà degli anni quaranta, in vista delle ele-
zioni per la Costituente del 2 giugno 1946 e poi delle politiche del 18
aprile 1948, aveva alimentato un crescente malcontento all’interno degli
ambienti della Gioventù italiana di azione cattolica (giac) e una evi-
dente disapprovazione della linea tenuta dal presidente generale dell’ac
Luigi Gedda. La crisi raggiunse il culmine nel biennio 1952-54, quando
si registrarono in breve sequenza la fine della presidenza di Carlo Car-
retto, le dimissioni imposte al suo successore Mario Rossi (aprile 1954)
e l’allontanamento di gran parte dei quadri dirigenti dell’associazione
giovanile10.
Non c’erano, per quella generazione di cattolici, degli esempi recenti
che ricordassero un intervento così duro da parte dei vertici dell’ac e
della stessa Santa sede, che non poteva ovviamente non esserne stata resa
partecipe. Ma per i più anziani ritornava probabilmente alla memoria la
stagione di inizio Novecento, quando una cinquantina di anni prima i
gruppi giovanili raccolti attorno a don Murri avevano dovuto sentire il
peso della repressione voluta da Pio x nel quadro della lotta al moderni-
smo. Allora tuttavia si era colpita l’iniziativa politica di un sacerdote che
andava contro i progetti della Santa sede intesi a non intrecciare almeno
sul piano formale politica e religione, ora invece la situazione era rove-
sciata: si colpivano infatti dei dirigenti laici (ma anche qualche sacerdo-
te: don Arturo Paoli, viceassistente nazionale della giac) che volevano
mantenere distinte la politica e la religione, non coinvolgendo la Chiesa
nelle competizioni della prima.
la ricostruzione guelfa dell’italia 125

Ed era interessante che le stesse ragioni addotte in passato dalla Santa


sede per non autorizzare la nascita di un partito formalmente cattolico,
il carattere cioè universale della Chiesa cattolica, trovasse ora una eco
nelle parole scritte dal presidente della giac Rossi pochi mesi prima di
essere costretto a dimettersi:

I giovani cattolici vogliono che la politica si faccia con scelte politiche e non con
scelte religiose; la religione deve ispirare la politica senza sostituirsi ad essa. Per-
ciò i laici facciano i laici a loro rischio personale senza usare la Chiesa a sostegno
di una tesi di partito. La Chiesa è al di là della parte e l’amore più grande che
possiamo dimostrarle è quello di non coinvolgerla in competizioni di parte11.

Da un diverso punto di vista partiva invece la critica di alcuni sacerdoti


che avevano pienamente fatto proprio lo slancio con il quale Pio xii ave-
va dato il via all’autocandidatura dei cattolici alla guida della ricostru-
zione postbellica. Un parroco del mantovano in particolare, don Primo
Mazzolari, che a fine anni quaranta aveva già alle spalle un lungo percor-
so di speranze giovanili maturate all’ombra degli ultimi anni di episco-
pato del vescovo Bonomelli, l’antico difensore dell’idea di conciliazione
tra la Chiesa e lo Stato italiano, di contrasti con il fascismo, di scritti
che gli avevano procurato delle censure ecclesiastiche, aveva addirittura
partecipato con propri discorsi alla campagna elettorale democristiana
per le politiche del 18 aprile 1948. Non si poteva dunque imputargli né
alcuna simpatia per il comunismo, né una minore disponibilità a farsi
coinvolgere nel progetto complessivo della Chiesa di Pio xii.
Eppure dalle pagine del quindicinale “Adesso”, le cui pubblicazioni
iniziarono a gennaio 1949, egli combatté una battaglia progressivamente
sempre più dura contro un cattolicesimo politico italiano che perdeva
vistosamente, man mano che procedeva sulla strada dell’acquisizione
del potere, quel carattere profetico e rivoluzionario che aveva preteso
di esibire alla vigilia del 18 aprile 1948 per presentarsi come la vera forza
innovativa che avrebbe potuto salvare il paese. Quella di Mazzolari non
era dunque una critica alle commistioni tra religione e politica, sulla li-
nea di quelle che avrebbero formulato Rossi e i giovani della giac, bensì
al progressivo imborghesimento cui stava andando soggetto il partito
cattolico.
Egli non condannava pertanto la presunta confessionalità della dc,
ma semmai l’incapacità o la non volontà di tradurre il messaggio religio-
so in una politica che fosse realmente dalla parte dei poveri e in genere
126 società, stato e chiesa in italia

dei più deboli. Una politica, per intenderci, come quella che seppure sul
piano della più circoscritta amministrazione di una città avrebbe tentato
di effettuare il sindaco di Firenze Giorgio La Pira: autore nel 1950 di uno
scritto dall’emblematico titolo L’attesa della povera gente e già membro
della Costituente e del parlamento italiano nelle fila del gruppo che si
raccoglieva attorno alla figura di Giuseppe Dossetti. Proprio le esperien-
ze di Dossetti e di La Pira stavano tuttavia a confermare, nonostante la
diversità dei rispettivi esiti (ritiro dalla dc e dalla vita politica nel primo
caso, possibilità per il secondo di attuare le proprie idee non a livello
politico nazionale ma a livello amministrativo locale), quanto abbiamo
detto in precedenza a proposito del carattere vincente della linea che,
pur con tutti i distinguo che una parte della storiografia ha opportu-
namente introdotto, soprattutto in relazione all’autonomia di governo
tentata da De Gasperi rispetto alle pressioni degli ambienti vaticani o
dell’ac, fu comune a Pio xii, allo stesso De Gasperi, a Gedda ecc.
Per prese di posizione come quelle di Carretto e di Rossi non c’e-
ra in realtà alcuno spazio all’interno della compatta e tetragona ac di
Gedda. Così come i vertici del partito cattolico e lo stesso De Gasperi
non erano disposti a tollerare né la presenza dialettica di Dossetti, né la
polemica che avrebbe voluto essere costruttiva della rivista di Mazzolari:
alla quale infatti fu imposto nel 1951 di sospendere le pubblicazioni, per
poi riprenderle in seguito con infinite cautele e con lo stesso Mazzolari
costretto a scrivervi sotto vari pseudonimi per non incorrere in ulteriori
condanne.
E, a conferma del clima generale che si respirava nella Chiesa italia-
na12, anche in una diocesi come quella di Firenze retta da un vescovo di
eccezionale levatura religiosa quale Elia Dalla Costa scattavano provve-
dimenti punitivi o perlomeno miranti all’isolamento nei confronti di
sacerdoti ritenuti problematici come don Lorenzo Milani.
Non si saprebbe come giudicare in altro modo la decisione, presa
dall’anziano Dalla Costa nell’autunno 1954 ma già sospesa nell’aria da
vario tempo, di allontanare l’allora meno che trentenne don Milani dal-
la popolosa parrocchia contadina e operaia di San Donato a Calenzano
(non distante da Firenze) nella quale svolgeva le funzioni di cappellano
per inviarlo a ricoprire il ruolo di parroco di Barbiana, una località sper-
duta dell’Appennino toscano già destinata alla chiusura per lo scarsis-
simo numero di parrocchiani e della quale, a conferma di questo, don
Milani sarebbe di fatto rimasto a tutt’oggi l’ultimo parroco.
È peraltro interessante notare come al momento della sua destina-
la ricostruzione guelfa dell’italia 127

zione a Barbiana don Milani non fosse ancora stato né l’autore del libro
Esperienze pastorali, edito nel 1958 e poco dopo ritirato dal commercio
per decisione del Sant’Uffizio; né l’estensore della Lettera ai cappella-
ni militari, che gli sarebbe valsa nel 1965 un processo per istigazione al
reato avendo difeso gli obiettori di coscienza in un periodo nel quale
l’obiezione non era ancora tutelata da un’apposita legge e i suoi fautori
finivano in carcere; né il regista e probabile effettivo redattore di quel-
la Lettera a una professoressa che avrebbe rappresentato nella primavera
1967 una sorta di antefatto del movimento culturale, politico e di rivolta
generazionale denominato Sessantotto.
I principali addebiti che gli potevano essere mossi a tutto il 1954 pre-
scindevano dunque dagli eventi che nel decennio successivo avrebbe-
ro effettivamente guadagnato a don Milani la fama di prete scomodo.
Quegli addebiti potevano tutt’al più riguardare il suo aver richiamato
l’attenzione, in alcuni brevi articoli pubblicati sulla rivista di Mazzolari
“Adesso” o in altre sedi, sul problema pastorale del progressivo distacco
dei poveri dalla Chiesa cogliendone la causa nel coinvolgimento del-
la stessa con le classi sociali superiori; o per altro verso il suo non aver
accettato l’ordine interno diffuso dalla Curia fiorentina di far votare la
popolazione anche a favore di candidati non cattolici ma comunque go-
vernativi invece di suggerire, come fece Milani, il solo voto a candidati
cattolici. Questioni, pertanto, che riguardavano in entrambe le circo-
stanze più la sfera politica e ideologica che non quella strettamente reli-
giosa, e che in ogni caso non avrebbero certo dovuto attirare sul giovane
prete toscano, come invece avvenne, la nomea del prete che, seppure in
buona fede, favoriva con il proprio comportamento l’ulteriore afferma-
zione del comunismo nell’ambiente contadino e operaio di Calenzano.
Ma il clima era quello, né sarebbe cambiato nella seconda metà de-
gli anni cinquanta nonostante vari elementi dello scenario complessivo,
come vedremo tra poco, stessero lentamente orientando in altre direzio-
ni il corso della vicenda del cattolicesimo italiano.
L’ultima e più singolare conferma del permanere di questa sorta di
sindrome ideologica si ebbe nel febbraio 1957 e coinvolse inaspettata-
mente un ecclesiastico di alto rango nella gerarchia cattolica, il cardinale
patriarca di Venezia Angelo Roncalli, che, a differenza delle figure sopra
ricordate, aveva sempre avuto alle proprie spalle un curriculum assolu-
tamente irreprensibile e semmai comprovante, secondo l’opinione che
si era diffusa negli ambienti vaticani, una sua ben modesta dotazione di
talento. Egli, dunque, il 12 febbraio di quell’anno colse l’occasione del-
128 società, stato e chiesa in italia

lo svolgimento a Venezia del congresso nazionale del Partito socialista


italiano per rivolgere ai suoi partecipanti un saluto tanto fermo nella
distinzione dei princìpi quanto aperto e magnanimo sul piano dell’o-
spitalità13.
L’episodio rimbalzò a Roma e Roncalli fu costretto a chiarire la man-
canza da parte propria di ogni intenzione di favorire l’apertura a sinistra
dei cattolici, cioè quella possibilità di estendere l’alleanza di governo
anche alla sinistra ideologicamente meno estremista (i socialisti) della
quale si parlava da tempo in taluni settori della dc. Il malinteso, per
quanto esemplare, non ebbe comunque strascichi particolari. L’anno
successivo, infatti, lo stesso patriarca di Venezia veniva eletto papa con
un’implicita motivazione che non faceva altro che tradurre il giudizio di
sostanziale modestia che lo accompagnava da tempo: il convincimento,
diffuso negli ambienti ecclesiastici romani, che egli avrebbe offerto un
papato di transizione, vale a dire poco problematico e soprattutto meno
impegnativo per i suoi stessi collaboratori della Curia romana rispetto a
quello del predecessore Pio xii.
Ed effettivamente, rispetto ai fattori che avevano caratterizzato il
pontificato e la personalità di Pio xii, cioè l’abilità diplomatica, l’uso
accorto delle tecniche per ottenere il consenso in una società di massa,
l’utilizzazione pressoché globale delle risorse umane e organizzative del
cattolicesimo italiano nella battaglia contro il comunismo, la tendenza
a dare a tal fine una valenza politica a molti degli aspetti della stessa vita
religiosa, il nuovo pontefice Giovanni xxiii era per un verso non par-
ticolarmente provveduto e per l’altro consapevolmente non allineato.
Nel discorso tenuto durante la cerimonia dell’incoronazione a papa, il 4
novembre 1958, aveva infatti pubblicamente chiarito:

C’è infatti chi aspetta nel pontefice l’uomo di Stato, il diplomatico, lo scien-
ziato, l’organizzatore della vita collettiva, ovvero colui il quale abbia l’animo
aperto a tutte le norme di progresso della vita moderna, senza alcuna eccezione.
O venerabili fratelli e diletti figli, tutti costoro sono fuori dal retto cammino da
seguire, poiché si formano del sommo pontefice un concetto che non è piena-
mente conforme al vero ideale. Il nuovo papa, attraverso il corso delle vicende
della vita, è come il figlio di Giacobbe, che incontrandosi coi suoi fratelli di
umana sventura, scopre loro la tenerezza del cuor suo, e scoppiando in pianto
dice: Sono io…, il vostro fratello, Giuseppe14.
6
L’imprevisto di Giovanni xxiii e del concilio:
la stagione dell’utopia (cattolica)

Giovanni xxiii: papa di transizione…


Il pontificato di Giovanni xxiii durò meno di cinque anni, dall’ottobre
1958 al giugno 1963, troppo poco dunque perché durante il suo svolgi-
mento si potessero determinare modificazioni profonde a livello della
struttura istituzionale della Chiesa. Ciò nonostante, la ventata di novità
che portò quel pontificato si sarebbe rivelata di straordinario e indiscus-
so effetto sia sull’intera Chiesa che all’interno del mondo cattolico ita-
liano, anche se con maggiore lentezza in questo secondo ambito. Non
sono mancati infine coloro che ne hanno colto anche l’effetto al di fuori
degli ambiti puramente cristiani e in generale religiosi. Quasi che a fron-
te del bisecolare e non di rado inefficace sforzo cattolico di penetrare
nell’animo della società moderna per inserirvi i propri fondamenti etici,
culturali e sociali, ben di più avesse ottenuto – forse a prescindere dalle
proprie stesse intenzioni – un ecclesiastico di ottant’anni, ormai alla fine
della parabola esistenziale.
Tenendo peraltro conto delle opinioni divergenti che sono state
espresse in sede storiografica a proposito del carattere realmente o al
contrario solo apparentemente innovativo della stagione giovannea,
giudizi che sono scaturiti sia dall’esame diretto di tale stagione, sia so-
prattutto dal suo confronto con i pontificati che l’hanno preceduta (Pio
xii) e seguìta (Paolo vi)1, è opportuno mettere a fuoco alcuni aspetti
essenziali di quella singolare esperienza di governo papale. Ciò consen-
tirà tra l’altro di cogliere meglio le conseguenze dirette e indirette che
essa ebbe e avrebbe potuto avere sui fenomeni che stiamo esaminando
più da vicino.
Una prima considerazione riguarda il carattere particolare di quella
ventata di novità: ciò che, in sostanza, la distinse da altri fenomeni inno-
vativi verificatisi nel corso della storia della Chiesa. Non si trattò, infatti,
130 società, stato e chiesa in italia

di novità legate per lo più a scelte di rilievo da un punto di vista espres-


samente dottrinale. E, d’altronde, non poteva essere che così. Giovanni
xxiii veniva infatti da un percorso ecclesiastico assolutamente tradizio-
nale; e in anni non lontani, quando era stato nunzio a Parigi (1944-53),
non si era rivelato particolarmente sensibile nemmeno alle nuove ten-
denze teologiche o pastorali diffusesi in Francia, seppure a fatica e attra-
verso ripetute condanne, durante la stagione dottrinalmente chiusa che
aveva caratterizzato il pontificato del suo predecessore Pio xii2.
Sarebbe anzi facile trovare all’interno dei documenti e in alcuni de-
gli stessi atti pontificali di Giovanni xxiii una piena conferma a questo
giudizio. Si pensi tra l’altro all’intera celebrazione del sinodo romano,
tenutosi nel gennaio del 1960 e approdato a risultati per lo più modesti;
all’enciclica sociale Mater et magistra, pubblicata nel maggio del 1961
in occasione del settantesimo anniversario della Rerum novarum e per
larga parte in linea con i contenuti più tradizionali della dottrina socia-
le della Chiesa; alla promulgazione nel febbraio del 1962 della Veterum
sapientia, un documento che sosteneva in pieno la conservazione della
lingua latina all’interno della Chiesa pochi mesi prima che il concilio
iniziasse ad esaminare quel documento sulla riforma liturgica che avreb-
be invece portato alla introduzione delle varie lingue nazionali nella ce-
lebrazione dei riti cattolici.
Il nuovo tuttavia c’era e lo si era già percepito nel discorso di inco-
ronazione che abbiamo ricordato in chiusura al precedente capitolo3.
Nuovo, e assolutamente inedito rispetto soprattutto all’immagine pa-
pale che era stata impressa in quelle generazioni dal tratto aristocratico
e sostanzialmente distaccato di Pio xii, era l’atteggiamento semplice, lo
stile privo di paternalismo, con il quale Giovanni xxiii si rivolgeva ai
propri interlocutori: senza che la loro appartenenza al ceto ecclesiastico
o al mondo cattolico in genere o infine alla vasta cerchia dei non cattolici
e dei non credenti, costituisse in sé, in positivo o in negativo, un impor-
tante elemento di distinzione.
Questo stile, oltre a mettere garbatamente ma direttamente in di-
scussione un’immagine di Chiesa che aveva evidenziato di recente tratti
arcigni e tetragoni, avrebbe cambiato o potuto cambiare in modo pro-
fondo il precedente modo di porsi di quella stessa Chiesa nei confronti
della società. Un modo di porsi che, come abbiamo visto, risaliva a ri-
troso perlomeno sino alla stagione rivoluzionaria di fine Settecento e
che si era progressivamente delineato nelle varie fasi del fenomeno che
abbiamo chiamato intransigentismo.
l’imprevisto di giovanni xxiii e del concilio 131

A dire il vero Giovanni xxiii non poteva essere considerato del tut-
to insensibile a taluni elementi di quel fenomeno. In lui, ad esempio,
restava radicata la convinzione che solo la religione cattolica possedesse
la verità sui punti fondamentali che riguardavano l’origine e il destino
dell’uomo, lo svolgimento della storia, la natura intrinseca del mondo.
Ma tutto questo, e qui stava una delle differenze essenziali rispetto alle
forme più o meno rigide che aveva assunto l’intransigentismo nel suo
lungo cammino storico, non gli impediva di nutrire pieno rispetto per lo
sforzo compiuto anche dai non cattolici e dai non credenti nel tentativo
di raggiungere comunque una propria conoscenza, una propria visione
della vita. Anche a loro infatti, mediante il ricorso alla formula estensiva
“tutti gli uomini di buona volontà”, era indirizzata l’enciclica forse più
rappresentativa di questa nuova concezione espressa dal pontefice: la
Pacem in terris.
Si trattava d’altronde della diretta conseguenza di uno dei princìpi
chiave del messaggio religioso di Giovanni xxiii: «Cercare quello che
unisce e non quello che divide». La contrapposizione ideologica che
aveva condizionato così pesantemente il cattolicesimo degli anni qua-
ranta-cinquanta del Novecento e che tanto aveva gravato sulle stesse at-
tività delle organizzazioni laicali, dal partito all’ac al sindacato, poteva
dunque prolungare la sua egemonia rispetto ad altre priorità e preoccu-
pazioni, ma senza più contare sulla massiccia e talora concreta solidarie-
tà manifestata a suo tempo da Pio xii.
L’ideologia e la politica lasciavano infatti il passo, nel governo del
nuovo papa, alla pastorale e a messaggi e atti di natura pressoché esclu-
sivamente religiosa. Messaggi e atti che, proprio a causa della egemoni-
ca mentalità ideologizzata formatasi negli anni precedenti, non sempre
vennero visti nella luce corretta. Come accadde, ad esempio, nel marzo
1963 in occasione dell’udienza concessa da Giovanni xxiii ai coniugi
sovietici Alexis e Rada Adjubei: rispettivamente genero e figlia del segre-
tario del Partito comunista sovietico Nikita Chruščëv. Un atto che, nel
clima preelettorale italiano di quelle settimane, venne interpretato da
certa stampa moderata e conservatrice come un sostegno intenzionale
offerto dal papa all’alleanza tra cattolici e socialisti che stava maturando,
come vedremo, in quel periodo.
Il suddetto fraintendimento non rappresentò peraltro un fatto iso-
lato. Da un certo punto di vista, anzi, possiamo dire che l’intera novità
roncalliana fu soggetta a reazioni contrastanti. Da un lato infatti essa
suscitò entusiasmi pressoché immediati negli ambienti cattolici che già
132 società, stato e chiesa in italia

da tempo attendevano il superamento dell’immagine e della realtà della


Chiesa-baluardo. Dall’altro si manifestarono invece diffidenze e talora
anche vere e proprie resistenze particolarmente gravi all’interno della
stessa Curia romana, cioè da parte dei principali collaboratori del ponte-
fice, rispetto al comportamento di un papa che, senza introdurre alcuna
esplicita riforma istituzionale o dottrinale, come abbiamo già notato,
stava in effetti ridisegnando l’immagine della Chiesa e il suo modo di
porsi nei confronti della società.
La compresenza di queste diverse reazioni, e lo stesso ampio credito
riscosso negli ambienti vaticani dalle preoccupazioni dei settori mode-
rati e conservatori, fecero sì che la svolta arrivasse a lambire le organizza-
zioni del laicato cattolico solo a ritmi particolarmente lenti. Fenomeno,
d’altra parte, che era probabilmente inevitabile se si pensa a quanto a
lungo e quanto intensamente quelle organizzazioni fossero state esposte
ai richiami della crociata, della mobilitazione di massa, della battaglia
ideologico-propagandistica contro il comunismo.
Tutti quegli aspetti, comunque li si voglia giudicare, avevano infatti
contribuito a compattare tra loro e a far spesso interagire i diversi set-
tori dell’intero movimento, inserendoli inoltre in modo perfettamen-
te organico all’interno del più vasto orizzonte della Chiesa di Pio xii.
L’autonomia d’azione era stata poca, e di conseguenza era stata scarsa
anche la necessità di pensare, di studiare una propria linea di intervento.
L’imperativo lanciato da Pio xii sin dal Natale 1942 era stato d’altronde
quello dell’azione e nei quindici anni successivi ogni voce dissonante era
stata prima o poi ridotta al silenzio, oppure emarginata.
Si era persa dunque, in genere ma soprattutto in Italia, l’abitudine a
costruire una propria peculiare forma di presenza. Lo confermavano an-
che i vescovi che, chiamati tra il 1959 e il 1960 ad avanzare proposte sugli
argomenti da affrontare nel concilio annunciato da Giovanni xxiii, ave-
vano rivelato, ben più dei confratelli delle altre nazioni, quanto l’essersi
limitati negli anni precedenti a fare da cassa di risonanza alle continue
prese di posizione di Pio xii li avesse di fatto resi in larga misura incapaci
di esprimere degli orientamenti originali o perlomeno concepiti autono-
mamente4.
In questo clima, favorevole a un ripensamento degli atteggiamenti
e delle scelte del passato, il settore del mondo cattolico italiano che si
seppe muovere con maggiore tempestività fu quello del partito. Ciò non
dipese, tuttavia, da una sua presunta capacità di assimilare le indicazioni
roncalliane in tempi più rapidi rispetto ad altri settori del cattolicesimo
l’imprevisto di giovanni xxiii e del concilio 133

nazionale, quanto dal fatto che la maggiore autonomia di cui in parte


godeva ora il partito nei confronti delle richieste di sostegno avanzate
dalla Chiesa consentiva di fatto alla nuova dirigenza democristiana che
si era affermata dopo la morte di De Gasperi (1954), e che ebbe quali
suoi principali esponenti Amintore Fanfani e la corrente denominata
Iniziativa democratica, di portare a termine la trasformazione della dc
iniziata sin dalla metà degli anni cinquanta5.
Alla luce di tale trasformazione la dc cessava innanzitutto di incarna-
re quella prevalente fisionomia di partito dei cattolici che essa aveva avu-
to nei primi dieci anni della sua esistenza e che era già stata propria della
formazione politica guidata da Sturzo a inizio anni venti. La dc guidata
dalla segreteria di Fanfani si era infatti ormai trasformata in un partito
che, pur conservando la propria etichetta confessionale, rappresentava
in realtà da vari punti di vista gli interessi dei ceti medi italiani. Al comu-
ne sentire ideale si era cioè sostituito il comune sentire ideologico.
In secondo luogo essa non era più un partito di soli quadri dirigenti,
cui il clero e le organizzazioni del laicato cattolico avevano offerto un
fondamentale sostegno organizzativo in vista delle scadenze elettorali.
La dc della seconda metà degli anni cinquanta possedeva già infatti,
come gli altri partiti del paese, una propria struttura centrale e periferica
che la rendeva organizzativamente autosufficiente.
In terzo luogo, infine, l’appoggio degli elettori non era più raccol-
to in modo pressoché esclusivo attraverso la mediazione del clero o il
sostegno di organizzazioni quali la Coldiretti, come era accaduto in
precedenza, ma direttamente: grazie a un progressivo uso dell’ammini-
strazione dello Stato mirata a creare nei confronti del partito nuove aree
di consenso in settori del paese, soprattutto le regioni del Mezzogiorno,
prima controllate dal punto di vista elettorale da notabili locali.
I fattori sopra ricordati erano sintomo evidente della crescente lai-
cizzazione della mentalità e dell’atteggiamento di settori non secondari
della dc. Alla lunga non potevano mancare conseguenze specifiche an-
che nel rapporto tra il partito e la Chiesa. Se da un lato infatti il voto dei
cattolici continuò ad essere orientato in larghissima parte dagli ambienti
ecclesiastici verso la dc, sulla base della difesa ad oltranza del principio
dell’unità politica dei cattolici, il partito non si sottrasse ovviamente del
tutto a un rapporto che gli garantiva una cospicua base elettorale ma
diminuì nel corso del tempo il proprio impegno rispetto ai due obiettivi
essenziali che gli aveva assegnato Pio xii e che avrebbero ancora voluto
assegnargli numerosi vescovi italiani e diverse personalità importanti del
134 società, stato e chiesa in italia

Vaticano: vale a dire, un solido contributo alla ricristianizzazione della


società italiana e la costante partecipazione alla battaglia ideologica con-
tro il comunismo.
È in relazione a questa minore risposta da parte del partito che tra
la fine anni cinquanta e i primi anni sessanta si segnalarono varie prese
di posizione del mondo ecclesiastico italiano e vaticano contro la linea
tenuta dalla dirigenza democristiana. Due, in particolare, avrebbero su-
scitato una eco maggiore di altre: la lettera collettiva del marzo 1960 con
la quale i vescovi italiani attiravano l’attenzione sui rischi del laicismo e
della connessa convinzione che la Chiesa non dovesse interferire nella
sfera sociale e politica degli Stati; l’articolo anonimo Punti fermi, appar-
so nel maggio dello stesso 1960 sul quotidiano della Santa sede “L’Os-
servatore romano”, con il quale si denunciava il tentativo dei vertici della
dc di trovare nuovi alleati nella sinistra moderata italiana.
Non si trattava in realtà di una denuncia a vuoto. Da qualche tempo,
infatti, i vertici della dc si erano resi conto che l’area centrista che si era
raccolta attorno al partito durante la leadership di De Gasperi, e che gli
aveva consentito di governare il paese con maggioranze relativamente
ampie, si era andata assottigliando in modo preoccupante. Occorreva,
pertanto, cercare un allargamento della base parlamentare per evitare di
cadere in una situazione di ingovernabilità.
Aldo Moro, divenuto segretario del partito nel marzo 1959 suben-
trando a Fanfani, scelse così la strada del cosiddetto centrosinistra: basa-
ta su una alleanza tra la dc e quel Partito socialista italiano che sin dalla
metà degli anni cinquanta, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria (ot-
tobre 1956), si era venuto allontanando dall’antico alleato comunista.
La linea di Moro venne ufficialmente presentata al partito nel congresso
nazionale democristiano di Napoli del gennaio 1962, per poi diventare
operativa nel primo effettivo governo di centrosinistra a fine 1963.
Tra questo esito e le linee portanti del pontificato di Giovanni xxiii,
che si era nel frattempo concluso con la morte del papa il 3 giugno 1963,
non sussisteva un legame diretto. Nondimeno, era assai difficile imma-
ginare quell’esito politico al di fuori di una stagione storica, come quella
di inizio anni sessanta, nella quale il coincidere di almeno tre fattori fa-
vorevoli aveva consentito l’attenuazione della cosiddetta guerra fredda
tra l’Occidente capitalista e il blocco delle nazioni comuniste: la presen-
za di un papa apolitico come Giovanni xxiiii alla guida del cattolicesi-
mo; l’assunzione della presidenza degli Stati Uniti da parte di John F.
Kennedy quale candidato del Partito democratico; la presenza di Nikita
l’imprevisto di giovanni xxiii e del concilio 135

Chruščëv quale segretario del Partito comunista sovietico con il conse-


guente ulteriore allontanamento dalla pesante eredità staliniana.
Diretto era invece il legame tra il clima instauratosi durante il pon-
tificato roncalliano e la situazione che si era venuta a creare all’interno
del variegato panorama rappresentato da un lato dalle organizzazioni
tradizionali del laicato e dall’altro dai gruppi cattolici cosiddetti non
conformisti, ma con effetti sostanzialmente opposti: scombussolamento
e incertezza nel primo caso, rinvigorimento e maggiore audacia nel se-
condo. A fare le spese della prima condizione era stata soprattutto l’ac.
Come è stato giustamente rilevato in sede storiografica6, Giovanni xxiii
non aveva in realtà introdotto nessuna riforma specifica che la riguardas-
se; né aveva ritenuto di porre mano a un’ennesima revisione degli statuti,
che restavano dunque quelli approvati da Pio xii nel 1946. Nel 1959 c’era
sì stato il passaggio dell’associazione sotto il controllo della Commissio-
ne episcopale per l’Azione cattolica, emanazione della nascente Con-
ferenza episcopale italiana (cei), ma questo provvedimento non aveva
comportato delle significative novità rispetto al passato.
Il problema era altrove e consisteva nel vistoso spostamento delle
priorità cui si era assistito con il salto dalla stagione pacelliana a quella
roncalliana. Si era infatti passati in breve tempo da un forte impegno
ideologico e organizzativo, accompagnato dal diretto sostegno al partito
cattolico, all’allentamento dello scontro ideologico e allo slancio pasto-
rale e religioso. Nella maggiore delle associazioni del laicato cattolico
italiano si era verificata di conseguenza una profonda crisi di motivazio-
ni e di identità. Una crisi sintetizzata in modo particolarmente emble-
matico dalla fine della presidenza di Luigi Gedda (1959), ma resa ben più
allarmante dal fenomeno del calo verticale del numero degli aderenti.
All’opposto, le iniziative e i gruppi sorti di recente e non di rado in
contrasto con la fisionomia tetragona della Chiesa del secondo dopo-
guerra vennero resi «più audaci dagli impulsi dati dal pontificato gio-
vanneo»7. Rispetto all’ultimo scorcio della stagione di Pio xii si assiste-
va anzi a una sorta di rovesciamento nei giudizi. Diversi degli ecclesiastici
che avevano subìto allora dei provvedimenti disciplinari, come i ricorda-
ti Mazzolari e Milani, assistevano infatti non solo a una riabilitazione di
fatto da parte della Chiesa roncalliana, ma sarebbero divenuti negli anni
successivi, attraverso scritti quali la milaniana Lettera a una professoressa,
tra i principali punti di riferimento della stagione postconciliare.
Questo non significava che i settori che si erano impegnati a fondo
nelle crociate del secondo dopoguerra accettassero di aver esaurito il
136 società, stato e chiesa in italia

proprio ruolo, né tanto meno che fossero disposti a rinunciare troppo


facilmente alla posizione di preminenza della quale avevano goduto tra
la fine degli anni quaranta e la fine degli anni cinquanta. Ma indubbia-
mente il pontificato roncalliano ne aveva significativamente ridotto il
credito, segnando l’aprirsi di una fase storica nella quale l’egemonia del-
la visibilità e della mobilitazione era stata fortemente scossa a tutto bene-
ficio di altri valori, per la messa a fuoco dei quali Giovanni xxiii aveva
tra l’altro convocato il concilio ecumenico Vaticano ii.

Un concilio che poteva far entrare


la Chiesa nel futuro
Pur essendo l’evento culminante del pontificato roncalliano, il concilio
si svolse in gran parte dopo la morte del papa che l’aveva voluto e che ne
aveva guidata con grande discrezione la fase di avvio tra l’ottobre e il di-
cembre 1962. Il compito di riprenderlo nel 1963 e di condurlo a termine
nel dicembre 1965 sarebbe dunque spettato al suo successore Paolo vi.
Questa situazione ha suggerito agli studiosi di dividerne lo svolgimento
complessivo in due parti: quella introduttiva, rispecchiante più da vici-
no le caratteristiche di profetica discontinuità del pontificato di Giovan-
ni xxiii, e l’altra, centrale e conclusiva, legata invece agli orientamenti
dottrinali e alla sensibilità politico-ecclesiale di Paolo vi8.
Il suddetto criterio aiuta certamente a cogliere numerosi aspetti
dell’evoluzione del concilio, ma nella prospettiva di queste pagine ri-
sulta più funzionale descrivere il fenomeno conciliare mettendo rapida-
mente a fuoco tre distinti livelli: l’evento vero e proprio, con le sue dina-
miche interne e con il suo stretto legame con il generale contesto della
Chiesa; i documenti che vennero approvati durante i lavori conciliari e
che rappresentano il contributo del Vaticano ii al deposito dottrinale
complessivo del cattolicesimo; infine il clima di attesa e di speranza che
venne suscitato dal concilio e che si prolungò ben oltre il dicembre 1965
in quella che è abitualmente denominata come la stagione postconciliare.
Prima tuttavia di procedere nel senso sopraddetto è necessario pun-
tualizzare che l’assoluta autonomia nei lavori che venne garantita dall’at-
teggiamento papale non va intesa nei termini di una totale assenza di
indicazioni offerte dallo stesso pontefice. Il discorso di apertura dell’11
ottobre 1962 conteneva infatti almeno tre punti nevralgici su cui orien-
l’imprevisto di giovanni xxiii e del concilio 137

tare il futuro lavoro: il giudizio negativo nei confronti di quei «profeti


di sventura» che in una prospettiva di cosmico pessimismo paventava-
no scenari di grande ulteriore crisi; la distinzione tra il deposito della
fede e le sue enunciazioni (il primo intangibile, il secondo aggiornabile
sulla base dello sviluppo storico); la scelta della «medicina della miseri-
cordia» invece del ricorso alla condanna9.
Nel suo concreto svolgimento il concilio si aprì con una fase prolun-
gatasi per alcuni mesi nella quale i settori dell’episcopato europeo più
sensibili alle istanze di rinnovamento manifestate da Giovanni xxiii (in
particolare i vescovi di Belgio, Francia, Germania e Olanda) tentarono
di sottrarre la guida dei lavori alla Curia romana, che tra il 1961 e il 1962
aveva predisposto i materiali da discutere durante il concilio, definendo-
ne così in anticipo l’agenda, e ai suoi alleati conservatori che si trovavano
all’interno degli stessi organismi conciliari.
Il successo del tentativo effettuato dai suddetti episcopati portò al
formarsi di due schieramenti contrapposti: una maggioranza di orien-
tamento innovativo, con al proprio interno varie tendenze, distribuite
in una vasta gamma tra il moderatismo riformatore e la disponibilità a
cambiamenti più radicali, che rifletteva l’aspettativa di rinnovamento
diffusa in ampi settori della base sia ecclesiastica che laicale della Chie-
sa; una compatta minoranza conservatrice, intenzionata ad utilizzare la
maestosa autorevolezza dell’evento conciliare per dare ulteriore cogenza
a gran parte delle definizioni dottrinali, delle prese di posizione ideolo-
giche e delle condanne emanate nel corso degli ultimi pontificati. Fatta
eccezione, naturalmente, per quello di Giovanni xxiii, che da tali con-
danne si era astenuto.
Nella parte centrale dei lavori del Vaticano ii (1963-64) tale situazio-
ne di contrasto alternò momenti di vera e propria tensione a fasi meno
incandescenti. La maggioranza riuscì in ogni caso a consolidare la sua
supremazia, attirando dalla propria parte numerosi vescovi inizialmente
indecisi sul da farsi. Ciò consentì, tra l’altro, di approvare documenti di
grande rilievo pastorale: come la costituzione conciliare Sacrosanctum
concilium, sulla quale si sarebbe fondata la concreta riforma della liturgia
intrapresa sin dal 1964; o di forte contenuto ecclesiologico, come la co-
stituzione Lumen gentium, nella quale tra l’altro, e rispetto alle proble-
matiche qui esaminate, come tra poco ribadiremo, veniva introdotta la
definizione di Chiesa quale unico popolo di Dio, stemperando di molto
il peso della antica e peraltro sempre incombente distinzione tra compo-
nente clericale e componente laica dell’indivisa entità ecclesiale.
138 società, stato e chiesa in italia

Anche la fase conclusiva del concilio (1965) assistette all’approva-


zione di svariati documenti. Ma ciò avvenne sotto il peso della fretta
di concluderne i lavori e sullo sfondo dell’intenzione sempre più evi-
dente nel papa Paolo vi di condurre in porto un concilio che, pur
connotandosi come moderatamente innovativo, si mantenesse – se-
condo un principio che è di fondamentale importanza per chi voglia
capire dall’esterno delle problematiche religiose la mentalità che opera
ai livelli più profondi nel mondo cattolico tradizionale – in totale con-
tinuità con il deposito dottrinale della Chiesa cattolica accumulatosi
in precedenza. Ne conseguì il recupero, all’interno dei vari documenti
approvati, di quella parte del magistero otto-novecentesco e anche più
remoto che la Curia romana aveva inserito negli schemi stilati durante
la fase preparatoria e che era stata poi accolta con non poche perples-
sità dalla maggioranza dei vescovi durante i dibattiti conciliari veri e
propri.
Ciò alimentò in diversi esponenti dei settori teologicamente e social-
mente più aperti della Chiesa la sensazione che il risultato conclusivo
raggiunto dal Vaticano ii rappresentasse a tutti gli effetti un compro-
messo: tra gli obiettivi assegnatigli dalla progettualità di Giovanni xxiii
e i limiti invalicabili tracciati invece dalla massiccia azione di conteni-
mento svolta dalla Curia sia durante il periodo preparatorio che nel cor-
so dello svolgimento vero e proprio dei lavori conciliari. Questo giudizio
era in realtà fondato, ma nello stesso tempo eccessivo. Era certamente
fondato se ci si riferiva come punto di partenza al clima di fiducia e di
libertà che i vescovi avevano respirato con Giovanni xxiii nell’autunno
del 1962. Era invece eccessivo se si guardava alla situazione nella quale
si trovava la Chiesa ancora alla fine del pontificato di Pio xii, dunque
attorno al 1958.
Rispetto, ad esempio, alle questioni interne alle dinamiche sia inter-
religiose che interconfessionali il contributo di documenti quali Digni-
tatis humanae (sulla libertà religiosa), Unitatis redintegratio (sull’ecume-
nismo), Nostra aetate (sul rapporto con l’ebraismo e le altre religioni),
sarebbe risultato di enorme significato teologico, pur nella concreta
debolezza del loro effettivo impatto sul vissuto quotidiano della pratica
cattolica.
Viceversa, dal punto di vista delle problematiche che qui stiamo esa-
minando più da vicino almeno due erano i punti rispetto ai quali le af-
fermazioni contenute nei documenti del concilio sarebbero apparse im-
pensabili anche solo poco tempo prima del suo svolgimento: il rapporto
l’imprevisto di giovanni xxiii e del concilio 139

tra la Chiesa e la società contemporanea; il ruolo dei laici nella Chiesa e


la loro funzione come cristiani all’interno della società.
Al primo dei due aspetti era dedicata la costituzione Gaudium et
spes. In essa i temi tradizionali della condanna della società moderna
e dell’invito a rivolgersi alla Chiesa come all’unica àncora di salvezza,
temi che erano stati per oltre un secolo tra i cavalli di battaglia dell’in-
transigentismo, lasciavano il posto a un atteggiamento di rispetto nei
confronti dell’uomo e del suo cammino storico, anche quando non il-
luminato dalla luce della fede. Certo su alcuni punti, come la presa di
posizione della Chiesa nei confronti della guerra, il documento appa-
riva singolarmente reticente e comunque meno coraggioso – soprattut-
to per ciò che attiene al classico dibattito sulla legittimità o meno della
cosiddetta “guerra giusta”10 – dell’enciclica di Giovanni xxiii Pacem
in terris che abbiamo già ricordata. Ma nello stesso tempo, e tenendo
conto delle forti resistenze che ormai si erano diffuse all’interno del
concilio per paura di affermazioni ritenute troppo lontane dalla tradi-
zione cattolica, il messaggio di tolleranza e reciproco rispetto mandato
dal Vaticano ii al mondo contemporaneo era indubbiamente rilevante
e innovativo.
Lo ha giustamente sottolineato il teologo domenicano francese
Marie-Dominique Chenu, chiarendo in particolare come la Gaudium
et spes portasse una novità essenziale riguardo alla classica categoria dot-
trina sociale della Chiesa. Al termine entrato nel linguaggio comune dei
documenti ecclesiastici dopo la pubblicazione della Rerum novarum si
sostituiva infatti ora quello di «insegnamento sociale del Vangelo»:
passaggio molto importante sia perché invece di dottrina si parlava di
insegnamento, sia perché il punto di riferimento tornava ad essere indi-
viduato nel Vangelo11.
Di profilo essenzialmente intraecclesiale erano invece i documen-
ti che, come la già ricordata costituzione Lumen gentium e il decreto
Apostolicam actuositatem, affrontavano in parte o nella loro integralità il
ruolo del laicato nella Chiesa. Attraverso di essi il concilio operava una
trasformazione fondamentale di quel ruolo. All’immagine tradizionale
del fedele, privo di una propria funzione autonoma e bisognoso dell’i-
ninterrotta guida del clero, si sostituiva infatti quella del credente che, in
virtù della propria appartenenza al sacerdozio comune a tutti i battezzati
nel nome di Gesù Cristo, acquisiva una dignità pari a quella di coloro
che erano stati chiamati nella Chiesa a ricoprire il ruolo di ministri del
culto (cioè i rappresentanti del clero). Diverse e reciprocamente auto-
140 società, stato e chiesa in italia

nome erano tuttavia le funzioni proprie del clero e del laicato, pur nella
comune missione di evangelizzare il mondo:

C’è nella chiesa diversità di ministero ma unità di missione. Gli apostoli e i loro
successori hanno avuto da Cristo l’ufficio di insegnare, santificare e governare in
suo nome e con la sua autorità. Ma i laici, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale,
profetico e regale di Cristo, nella missione di tutto il popolo di Dio assolvono
compiti propri nella chiesa e nel mondo12.

Dal punto di vista teorico-dottrinale si trattava di una novità molto


importante. Da quello concreto, invece, non erano ancora intuibili con
precisione i cambiamenti che sarebbero dovuti intervenire all’interno
della Chiesa per ratificare tale riconoscimento. Per un verso, infatti,
l’azione del laicato cattolico si era andata enormemente sviluppando,
come abbiamo visto, nel corso dell’Ottocento e della prima metà del
Novecento. Per un altro verso, però, quello stesso sviluppo era parso sino
ad allora più favorito dalla impossibilità-inopportunità per il clero di
intervenire direttamente nel sociale che non dalla volontà in positivo da
parte della Chiesa di assegnare un ruolo specifico e autonomo ai laici.
Occorreva dunque verificare, in questo come in altri ambiti toccati
dai documenti conciliari, cosa sarebbe concretamente accaduto all’in-
domani della chiusura del concilio, quando i vescovi delle varie parti del
mondo sarebbero tornati alla guida delle rispettive diocesi. E soprattut-
to cosa sarebbe accaduto negli anni che avrebbero dovuto registrare la
cosiddetta ricezione del Vaticano ii: vale a dire, il passaggio delle riforme
del concilio dalla formulazione teorica delle costituzioni e dei decreti
alla vita pratica e quotidiana della Chiesa. Era infatti su questo piano
che si giocava l’alternativa tra il carattere reale o solamente virtuale della
svolta del Vaticano ii.
Nel caso italiano tale verifica era ancora più ricca di incognite rispet-
to ad altre realtà nazionali, e per due ragioni: una di tipo congenito, l’al-
tra congiunturale.
La ragione congenita era rappresentata dal carattere assolutamente
unico che aveva la situazione italiana a causa della presenza del papato,
della Curia romana e in genere di tutti gli organismi connessi alla Santa
sede. È chiaro, infatti, che la maggiore o minore vicinanza da Roma po-
teva tradursi in quegli anni in una maggiore o minore autonomia delle
singole Chiese nazionali nell’applicazione del concilio.
La ragione congiunturale era invece legata al ruolo sostanzialmente
l’imprevisto di giovanni xxiii e del concilio 141

marginale, con l’eccezione di alcuni vescovi sulla cui vicenda postconci-


liare in parte ritorneremo, che venne svolto durante l’intero Vaticano ii
dall’episcopato italiano. Un ruolo che, proprio per la sua scarsa autono-
mia e originalità, rendeva difficilmente valutabile quale impegno avreb-
be profuso quello stesso episcopato nel far applicare le direttive concilia-
ri nel vissuto quotidiano e nel tessuto istituzionale delle proprie diocesi.
Soprattutto là dove quelle direttive avrebbero richiesto la nascita di or-
ganismi, come i consigli presbiterale (relativo al clero) e pastorale (aper-
to sia al clero che al laicato), che pur dotati di carattere essenzialmente
consultivo avrebbero dato maggiore spazio al clero diocesano e al laicato
nelle questioni riguardanti il governo della diocesi e delle parrocchie.

Gli inizi del postconcilio in Italia


Le suddette ragioni congenite e congiunturali si intrecciarono in effetti
tra loro e così, sia per la precisa volontà del pontefice Paolo vi che per la
scarsa determinazione della maggior parte dell’episcopato, si venne a de-
lineare una situazione postconciliare nella quale l’unica realizzazione uf-
ficiale e autorizzata dei princìpi del Vaticano ii fu rappresentata in Italia
dal modello della cosiddetta chiesa montiniana, dal cognome (Montini)
del papa. Tipico esempio storico di riforma dall’alto.
Tale disegno, pur contenendo elementi che sembravano apparente-
mente derivati ora dal pontificato di Pio xii (il papa che aveva avuto
Montini quale suo collaboratore nella Curia romana), ora da quello di
Giovanni xxiii (il papa che gli aveva conferito il cardinalato e probabil-
mente anche candidato alla successione papale), rifletteva in realtà il ca-
ratteristico percorso dello stesso Paolo vi: un ecclesiastico di estrazione
borghese, con una cultura teologica più profonda della media del clero
italiano, di orientamento politico-sociale moderatamente aperto13, buon
conoscitore – per esperienza diretta, in quanto assistente della fuci tra
fine anni venti e inizio anni trenta – dell’associazionismo cattolico, dif-
fidente per carattere verso ogni forma di radicalizzazione.
In varie altre fasi della stagione storica otto-novecentesca la chiesa
montiniana sarebbe stata certamente e universalmente giudicata come
portatrice di una indiscussa ventata di novità. Ma nel clima euforico e
di forte spinta innovativa che il pontificato di Giovanni xxiii e l’evento
conciliare avevano alimentato in ampi settori della Chiesa durante gli
anni sessanta, essa suscitò invece reazioni contrastanti. Taluni, infatti,
142 società, stato e chiesa in italia

l’apprezzarono per la riforma moderata che stava introducendo in vari


settori dell’istituzione ecclesiastica. Ad altri, al contrario, essa sembrò lo
strumento con il quale Paolo vi, per effetto delle pressioni esercitate su
di lui dagli ambienti conservatori della Curia romana ma anche per sua
personale convinzione, intendeva imporre all’intera Chiesa una propria
visione edulcorata, e secondo taluni senz’altro riduttiva, delle direttive
del Vaticano ii.
Un’interpretazione, quest’ultima, che si era già diffusa a concilio an-
cora aperto di fronte al ripetersi di interventi papali mirati a riequilibra-
re in senso conservatore la rotta seguita dall’assemblea dei vescovi.
Al di là tuttavia delle opinioni, quali erano in realtà dal punto di vi-
sta del nostro argomento gli elementi chiave di tale proposta? Rispetto
al rapporto tra Chiesa e società la recezione delle indicazioni del Vati-
cano ii, volte a costruire un clima di tolleranza e di reciproca fiducia,
poteva dirsi sostanzialmente piena. Lo confermavano, tra l’altro, le af-
fermazioni del pontefice contenute nel discorso tenuto all’onu mentre
il concilio volgeva ormai al termine (4 ottobre 1965) e nell’enciclica Po-
pulorum progressio del marzo 1967. Nel discorso all’onu, in particolare,
con toni che riecheggiavano lo stile di Giovanni xxiii, Paolo vi aveva
affermato:

Questo incontro, voi tutti lo comprendete, segna un momento semplice e gran-


de. Semplice, perché voi avete davanti un uomo come voi; egli è vostro fratello,
e fra voi, rappresentanti di Stati sovrani, uno dei più piccoli, rivestito lui pure,
se così vi piace considerarci, d’una minuscola, quasi simbolica sovranità tempo-
rale, quanto Gli basta per essere libero di esercitare la sua missione spirituale, e
per assicurare chiunque tratta con lui, che egli è indipendente da ogni sovranità
di questo mondo. Egli non ha alcuna potenza temporale, né alcuna ambizione
di competere con voi; non abbiamo infatti alcuna cosa da chiedere, nessuna
questione da sollevare; se mai un desiderio da esprimere e un permesso da chie-
dere, quello di potervi servire in ciò che a Noi è dato di fare, con disinteresse,
con umiltà e amore14.

In questa prospettiva di servizio diversi degli elementi che erano stati


parte integrante del precedente atteggiamento di conquista nei con-
fronti della società dovevano evidentemente essere riformati. Tra questi
c’erano anche gli strumenti concreti dei quali si era servita la Chiesa per
tentare di riconquistare un proprio spazio nella vita sociale del paese.
Il problema posto dal partito democristiano, con la raggiunta autono-
mia e le trasformazioni delle quali abbiamo già detto, non era ormai più
l’imprevisto di giovanni xxiii e del concilio 143

gestibile nei termini del passato. Il discorso riguardava invece in pieno


le organizzazioni del laicato cattolico: esse dovevano necessariamente
rivedere il proprio ruolo e i propri modi di presenza.
È appunto ciò che avvenne alla maggiore di tali organizzazioni, l’ac,
che già da tempo, come si ricorderà, attraversava una sorta di crisi di
identità a causa della svolta che era sopravvenuta con l’avvento di Gio-
vanni xxiii. La riforma dell’ac avrebbe portato solo nel 1969 alla revi-
sione degli statuti. Ma tale revisione – che avrebbe condotto al ripristino
del criterio elettivo per la scelta del personale dirigente, una maggiore
democratizzazione della vita interna, la scomparsa delle tradizionali
divisioni di ramo tra settori maschili e femminili, un rapporto con il
mondo ecclesiastico basato su una più marcata autonomia – sarebbe
stata l’approdo finale di un percorso iniziato perlomeno dal 1963-64
grazie all’iniziativa personale del nuovo presidente Vittorio Bachelet
e dell’assistente ecclesiastico centrale Franco Costa: entrambi destinati
alle rispettive cariche da Paolo vi, che li conosceva a fondo per la loro
precedente attività all’interno della fuci.
Punto cardine e vera e propria parola d’ordine di tale percorso sareb-
be diventata la cosiddetta scelta religiosa: vale a dire, la presa di coscien-
za del primato delle finalità religiose su ogni altra possibile motivazione
di ordine ideologico, politico, sociale ecc. Tale primato era certo stato
suggerito dal concilio, ma, come avrebbe precisato lo stesso Bachelet nel
corso del 1968, esso sarebbe comunque stato imposto all’organizzazione
dai bisogni più profondi dell’età contemporanea15.
Questo riferimento ai bisogni dell’epoca non era un’affermazione
generica. Ci si trovava, infatti, a un crocevia storico particolarmente
delicato e i suoi sintomi – uno in particolare: il rifiuto sistematico di
ogni aspetto istituzionale della realtà – stavano attraversando, con con-
seguenze più o meno gravi, sia la società che lo stesso mondo cattolico
italiano di fine anni sessanta. Nella società il fenomeno più eclatante
sarebbe stato in seguito ricordato come il Sessantotto: con riferimento
all’anno nel quale iniziò in Francia, per poi diffondersi in altri paesi e
nella stessa Italia, la rivolta studentesca che più di altri rimase l’aspetto
emblematico di quella profonda crisi generazionale. Nel mondo cattoli-
co invece, oltre a un’ulteriore perdita di consenso da parte delle organiz-
zazioni tradizionali – la stessa ac, nonostante il rinnovamento in atto
al suo interno, vide ridursi ulteriormente il numero dei suoi aderenti –,
si registrò il vistoso diffondersi di iniziative dalla provenienza dispara-
ta e spesso dalle finalità tra loro diverse, ma accomunate dal medesimo
144 società, stato e chiesa in italia

slancio verso un’esperienza religiosa libera dalle strutture, dagli atteggia-


menti consolidati e dalle strettoie dottrinali della Chiesa ufficiale.
Nel breve volgere di pochi anni si diffuse così in Italia la consuetudi-
ne di organizzare riunioni di laici finalizzate alla lettura del Vangelo. Da
iniziative più remote come quella dei focolari di Chiara Lubich si svi-
luppò la nuova esperienza dei gruppi Gen. Il processo di rinnovamento
cui erano sottoposti i sacri riti alimentò un po’ ovunque il desiderio di
sperimentazioni spontanee che portarono tra l’altro all’introduzione di
un repertorio di canti liturgici non di rado influenzato – non nei testi
ma nell’andamento melodico – dalla musica popolare contemporanea.
Nella Messa si giunse talora a praticare una predicazione di tipo collet-
tivo, con interventi spontanei dei fedeli a fianco del commento ai brani
biblici fatto dal sacerdote celebrante. La pratica della confessione indivi-
duale e privata entrò in crisi a causa della forte spinta alla socializzazione
diffusa in quegli anni.
Queste e altre espressioni di quella che possiamo chiamare l’applica-
zione dal basso del concilio Vaticano ii, ma che spesso tradivano disagi
e attese che con il concilio in senso stretto non avevano nulla a che fare
come è stato giustamente rilevato in sede storiografica16, alimentarono
la sensazione che si stesse rischiando il crollo di ogni punto di riferi-
mento religioso. Tale sensazione si diffuse inizialmente nei settori più
tradizionalisti della Chiesa, che ne approfittarono per mettere in atto
una denuncia a tutto tondo degli effetti del concilio e anche per solleva-
re indirettamente il problema della sprovvedutezza con la quale, a loro
giudizio, Giovanni xxiii aveva involontariamente dato spazio a tutto
ciò che stava avvenendo. Ma poi quella sensazione di crollo generalizza-
to dei valori della tradizione cattolica si estese anche agli ambienti mo-
derati, finendo per condizionare pesantemente lo stesso papa Paolo vi.
La sua reazione – che in anni successivi sarebbe giunta a formulare
richiami al “fumo di Satana” penetrato nella Chiesa17 – si espresse per lo
più attraverso la pubblicazione di documenti che ribadivano il valore del
sacerdozio ministeriale (enciclica Sacerdotalis coelibatus, giugno 1967),
che riassumevano le verità di fede della religione cattolica (professione
di fede del 30 giugno 1968) o che confermavano le posizioni negative
della Chiesa in ordine alle pratiche anticoncezionali più recenti (encicli-
ca Humanae vitae, luglio 1968). Nel clima di fortissima spinta anticon-
ciliare che ormai sussisteva negli ambienti vaticani tra il 1967 e il 1968,
tuttavia, maturò anche la decisione di intervenire contro le sperimenta-
zioni portate avanti da alcuni autorevoli vescovi.
l’imprevisto di giovanni xxiii e del concilio 145

Il caso più clamoroso, ma non unico, dato l’esito in parte simile che
interessò in anni successivi gli episcopati del vescovo Salvatore Baldas-
sarri a Ravenna (terminato nel 1975) e del cardinale Michele Pellegrino
a Torino (conclusosi nel 1976), si verificò a Bologna. Là, sin dagli anni
iniziali del concilio, si era venuta sviluppando attorno all’arcivescovo
Giacomo Lercaro una fervorosa attività di rinnovamento che non era
peraltro mai sfociata in esperienze disapprovate dal papa. Durante la
parte centrale e finale del Vaticano ii era stato anzi lo stesso Paolo vi a
valorizzare l’impegno del presule bolognese affidandogli assieme ad altri
tre cardinali la guida effettiva dei lavori conciliari e poi incaricandolo dal
1964 di presiedere personalmente alla riforma liturgica.
All’indomani della conclusione del Vaticano ii questa fiducia era
stata formalmente ribadita a Lercaro dalla richiesta papale di restare
alla guida della diocesi bolognese, nonostante lo stesso Lercaro avesse
raggiunto i limiti di età (75 anni) che secondo una recente normativa
ne avrebbero previsto il ritiro. Ma poi, nel breve volgere di alcuni mesi
(primavera-inverno del 1967), la situazione avrebbe subìto un totale ro-
vesciamento, fino a sfociare (gennaio 1968) nella richiesta vaticana che
l’arcivescovo di Bologna rassegnasse in breve tempo le dimissioni dalla
guida della diocesi, dichiarando peraltro pubblicamente di terminare il
proprio incarico per ragioni di salute.
Anche a causa della relativa incompletezza delle fonti a tutt’oggi
disponibili non esistono ancora delle ricostruzioni storiografiche con-
clusive sull’intera vicenda e soprattutto sulle ragioni di quel repentino
mutamento di giudizio da parte del papa18. Al di là di questo tuttavia, e
anche a prescindere dalla gravità in sé stessa del provvedimento che col-
piva Lercaro, era chiaro che la chiesa montiniana – fedele in questo alla
più classica manifestazione del primato del papa sull’autorità dei vesco-
vi, nonostante proprio il Vaticano ii avesse approvato il principio della
collegialità episcopale con il quale si mirava a dare maggiore rilievo che
in passato al ruolo dei vescovi – intendeva affermare il proprio disegno
di riforma conciliare – una riforma più interiore e dunque individuale,
che non dottrinale e istituzionale della Chiesa – senza tollerare, almeno
in Italia, la sperimentazione di vie potenzialmente alternative ad esso.
Tanto più se queste erano autorevolmente portate avanti da vescovi che
avevano conquistato nel recente concilio un prestigio dottrinale e uma-
no difficilmente contestabile.
7
Chiesa e società italiana nel terzo Novecento:
l’incrinatura del potere

I difficili anni settanta:


dallo slancio al ripiegamento
La destituzione di Lercaro, alcuni interventi papali in materia dottrinale
e altre iniziative vaticane come l’Istruzione sulla liturgia del settembre
1970, con la quale «la riforma liturgica veniva riaffermata, ma veniva
racchiusa in limiti precisi e ben controllabili dalla gerarchia»1, confer-
marono l’intento di tenere saldamente in mano l’applicazione del Vati-
cano ii e semmai di accentuarne l’orientamento moderato-conservatore
rispetto allo stesso contenuto dei documenti conciliari. Ciò non valse
tuttavia a impedire l’estendersi del fenomeno che spiccava con maggiore
evidenza nel mondo cattolico italiano all’inizio degli anni settanta: la
frammentazione e la pluralità delle esperienze.
A qualunque giudizio si approdasse nell’osservare quella situazio-
ne – giudizio negativo per taluni, a causa della dispersione di energie;
giudizio positivo secondo altri, per la libertà e la diversificazione delle
iniziative che la caratterizzavano –, ciò che risultava palese a tutti era la
profonda trasformazione che gli anni sessanta avevano portato in quel-
lo scenario. Una trasformazione che si manifestava in pieno già rispetto
allo stato delle cose che era presente all’esordio del pontificato di Gio-
vanni xxiii, ma che appariva addirittura impensabile se il confronto
veniva stabilito con il cattolicesimo italiano dell’inizio anni cinquanta:
quando, cioè, la Chiesa, la dc, l’ac, le acli, la Coldiretti ecc. erano a
tutti gli effetti saldamente collegate e i loro membri concretamente soli-
dali nel raggiungimento di un obiettivo comune, cioè gestire, in quanto
cattolici, la ricostruzione della società e dello Stato italiani.
A inizio anni settanta invece, prescindendo dal carattere particola-
re della Coldiretti che continuava soprattutto a fungere da serbatoio di
voti per la dc, la Chiesa poteva esercitare un controllo pressoché totale
148 società, stato e chiesa in italia

solo su ciò che rimaneva dell’ac dopo la crisi e le revisioni di indirizzo


che recentemente erano intervenute.
L’ac guidata dal presidente Bachelet e dall’assistente ecclesiastico
Costa non era più tuttavia, come ai tempi della presidenza di Gedda,
una sorta di milizia da lanciare nelle crociate ideologiche o elettorali.
Operando secondo una linea fortemente voluta dallo stesso Paolo vi,
essa era ormai soprattutto un’organizzazione nella quale cercare una
data esperienza di vita spirituale e di formazione cristiana dell’indivi-
duo. La militanza agguerrita e in particolare la scontata disponibilità a
fare proprie le parole d’ordine del mondo ecclesiastico italiano non era-
no quindi più tra i suoi fini primari. Lo si sarebbe toccato con mano in
occasione del referendum sul divorzio del 12 maggio1974. Ma su questo
ritorneremo in seguito.
Il crescente disimpegno della maggiore organizzazione del laicato ri-
spetto ai conflitti ideologici e politici del paese non si traduceva però
ancora in una sua formale rinuncia a sostenere elettoralmente la dc.
D’altra parte, nonostante il partito democristiano avesse ancora in atto
quel tentativo di centrosinistra che certo non aveva riscosso il plauso ge-
neralizzato degli ambienti ecclesiastici italiani, l’unità politica dei catto-
lici era tuttora pienamente ribadita dai vescovi raccolti nella Conferen-
za episcopale italiana – l’ultima conferma si era avuta alla vigilia delle
elezioni politiche del maggio 1968 – e gli aderenti all’ac continuavano
a rispettare, almeno sul piano delle dichiarazioni ufficiali, questa tradi-
zionale consegna.
Ben diverso era invece l’orientamento che stava maturando in quegli
stessi anni all’interno di altre due importanti realtà del laicato cattoli-
co nazionale: le acli, l’organizzazione istituita nel 1944 dopo la firma
dell’accordo di Roma che sanciva la nascita del sindacato unico, e la
fuci, che raccoglieva come s’è detto gli universitari. Per entrambe la
fine degli anni sessanta segnò infatti una svolta decisiva, connessa allo
svolgimento di alcuni convegni: per le acli quelli di Torino (1969) e di
Vallombrosa (1970), per la fuci quello di Verona (1969). Comune alle
due associazioni fu la decisione di rivendicare una maggiore autonomia
dalle gerarchie ecclesiastiche in ordine al proprio impegno nelle realtà
temporali e con specifico riferimento all’ambito della politica.
Conclusione inevitabile fu il rifiuto di aderire in futuro al principio
dell’unità politica dei cattolici, lasciando liberi i propri aderenti di fare
delle scelte dettate dalla sensibilità personale di ciascuno. Tra le conse-
guenze che ne derivarono possono essere ricordate la nascita di movi-
chiesa e società italiana nel terzo novecento 149

menti quali i Cristiani per il socialismo, al cui formarsi (1973) contribui­


rono in modo determinante anche quelle Comunità di base delle quali
parleremo tra poco, e in generale uno spostamento verso il pci di un
numero non irrilevante di giovani elettori cattolici. Tale esito si ripeté
anche nel sindacato cattolico (cisl), dopo che una parte dei quadri di-
rigenti del settore metalmeccanico di tale sindacato aveva inutilmente
tentato, attraverso la fondazione del Movimento politico dei lavoratori
(mpl), di dare vita all’interno dello stesso mondo cattolico a un’alterna-
tiva di sinistra alla dc.
L’aspetto generazionale era risultato decisivo in questi fenomeni. E
probabilmente esso offriva una chiave di lettura utile anche a spiegare
lo svuotamento numerico dell’ac. In tutte queste realtà, infatti, gli anni
sessanta avevano determinato una sorta di spartiacque: tra il vissuto
quotidiano, la mentalità, le urgenze degli anni del secondo dopoguerra,
e quelle più in linea con un’epoca in costante e rapida evoluzione. Ne
era conseguita una netta separazione tra due visioni della storia e del
proprio impegno di fronte ad essa, per cui le generazioni più anziane
non avevano avuto un ricambio generazionale che desse continuità alle
varie organizzazioni di cui stiamo parlando. L’ac si era dunque assotti-
gliata non solo e soprattutto per l’uscita di suoi aderenti ma anche per
la mancanza di nuove adesioni che supplissero alla naturale cessazione
delle precedenti; mentre nelle acli e nella fuci le nuove generazioni
avevano saputo imporre il proprio orientamento avendo di fronte una
più blanda resistenza interna.
Elemento comune a queste nuove generazioni, e in genere a quella
particolare stagione storica, fu la forte sensibilità antistituzionale. Vi ab-
biamo già fatto cenno, ma è necessario riparlarne. Tale aspetto non fu
infatti esclusivo di un particolare settore del cattolicesimo, e nemmeno
circoscritto a talune componenti del laicato; ma al contrario attraversò
in quel periodo pressoché tutti gli ambienti del mondo cattolico. Ne era
sintomo, tra l’altro, la crisi di vocazioni ecclesiastiche che colpì indiffe-
rentemente il clero secolare, gli ordini religiosi maschili e gli ordini reli-
giosi femminili, portando a percentuali di abbandono dell’abito eccle-
siastico che in Italia furono meno elevate che in altri paesi (dove a volte
si raggiunse il 10%) ma superarono in ogni caso qualunque precedente
rilievo statistico a riguardo2.
Accanto a questo fenomeno, certamente negativo dal punto di vista
della comunità cattolica anche se talora utile a scremare le vocazioni più
solide da quelle meno vagliate, ne maturò tuttavia un altro che avrebbe
150 società, stato e chiesa in italia

segnato una svolta caratteristica nella vicenda del laicato cattolico ita-
liano: il passaggio dalla fase dell’egemonia delle organizzazioni di più
antica istituzione a quella del loro affiancamento e talora anche supera-
mento da parte di nuove realtà sorte spontaneamente e orientate verso
ambiti di impegno spesso estranei alla tradizione più consolidata del cat-
tolicesimo nazionale.
Erano questi dei movimenti, dei gruppi e anche delle organizzazioni
dai nomi inediti nella realtà italiana, ma talora già affermatisi altrove ne-
gli anni precedenti. Due di questi, Cammino neocatecumenale e Movi-
mento carismatico cattolico, portavano nel nostro paese rispettivamente
dal 1968 e dal 1971 i criteri della introduzione alla vita cristiana che si ri-
tenevano, in tutto o in parte, praticati nella Chiesa delle origini. Vari al-
tri, quali il Gruppo Abele, Emmaus, la Comunità di Sant’Egidio, erano
impegnati nell’assistenza agli emarginati di alcune grandi città italiane.
Altri ancora, come Operazione Mato Grosso e Mani tese, raccoglieva-
no fondi e sensibilizzavano l’opinione pubblica verso le popolazioni del
Terzo mondo. Ed altri infine, sull’esempio di esperienze molto diffuse
in particolare nell’America Latina, diedero vita alle cosiddette comunità
di base: gruppi informali di credenti «che si [raccoglievano] per vivere
una fede cristiana ispirata in modo radicale al Vangelo e alle indicazioni
conciliari»3.
In molti di essi la partecipazione militante ai riti, alle iniziative e
anche alle battaglie pubbliche suscitate dalla Chiesa cattolica, aspetto
caratteristico delle organizzazioni tradizionali, lasciava il posto a un vis-
suto religioso nel quale l’esperienza di fede, talora desacralizzata, si tra-
duceva piuttosto in un impegno sociale praticato collettivamente. E il
momento essenziale di tali fenomeni, talvolta anche a prescindere dalle
finalità specifiche di ciascuno di essi, era proprio il fare gruppo, il ritro-
varsi spontaneamente attorno a qualcosa (un impegno, un’attività assi-
stenziale ecc.) che si era scelto assieme e che sfuggiva del tutto a quello
che sembrava ai più il rigido irreggimentamento dell’ac. Un ritrovarsi,
inoltre, nel quale non esistevano più distinzioni gerarchiche tra chierici
e laici, ma dove le eventuali leadership erano anch’esse una manifestazio-
ne naturale della vita di gruppo.
Diverse di queste istanze erano presenti anche alla base del movimen-
to che avrebbe poi fatto più strada nel cattolicesimo italiano dei due de-
cenni successivi, cambiando la propria iniziale fisionomia di organizza-
zione giovanile, nata dalla crisi che colpì a fine anni sessanta la milanese
Gioventù studentesca, in quella di una realtà multiforme, estesa a ogni
chiesa e società italiana nel terzo novecento 151

ceto sociale e classe anagrafica, e con una propria rete di istituzioni so-
ciali, economiche, culturali e da ultimo politiche che ne avrebbero fatto
a partire dagli anni ottanta un autonomo e importante gruppo di pres-
sione all’interno del mondo cattolico italiano.
Negli anni sessanta tale movimento, chiamato poi Comunione e li-
berazione (cl, da cui il nome di ciellini abitualmente utilizzato per indi-
care i suoi aderenti), non venne accolto con particolare entusiasmo dalla
Chiesa italiana. Gli si rimproverava soprattutto la singolare fisionomia
di una organizzazione retta sì da un sacerdote, don Luigi Giussani, senza
tuttavia che le autorità ecclesiastiche, i vescovi in specie, ne avessero mai
riconosciuta ufficialmente l’esistenza e avessero anzi tentato tra il 1964 e
il 1966, quando ancora il movimento era denominato Gioventù studen-
tesca, di inquadrarla nell’ac.
Nel clima di inizio anni settanta, tuttavia, cl si presentava anche
come una delle poche espressioni del laicato cattolico che andando del
tutto controcorrente a) non difendesse il concilio, b) non chiedesse au-
tonomia dalle gerarchie ecclesiastiche ma ne invocasse al contrario un
pieno riconoscimento, c) si muovesse all’interno di un quadro ideologi-
co che, pur nel ricorso a un linguaggio permeato di toni e termini rivo-
luzionari e antistituzionali4, guardava certamente più a destra che non
a sinistra.
Da vari punti di vista, dunque, tale movimento risultava un’insperata
risposta alla crisi del laicato cattolico che tuttora perdurava e rispetto al
cui superamento non tutti riponevano nell’ac e nella sua scelta religiosa
la stessa fiducia di Paolo vi. E proprio a metà anni settanta, di fronte alla
decisiva circostanza rappresentata dal referendum per l’abrogazione del-
la legge sul divorzio, si segnò un parziale spostamento di fiducia e di sim-
patia da parte del mondo ecclesiastico italiano. L’ac lasciò infatti liberi
i propri aderenti di votare secondo coscienza, mentre cl ancorò invece
saldamente il proprio voto alle direttive della gerarchia ecclesiastica, che
aveva chiesto ai cattolici di votare sì per ottenere l’annullamento della
legge.
Ma il referendum del 1974 non fu solo un’occasione perché i nuovi
intransigenti di cl crescessero rapidamente nella stima di coloro che cer-
cavano una piena rivincita sul concilio. Esso rappresentò soprattutto un
brusco disvelamento della mentalità prevalente degli italiani agli occhi
di chi, sul fronte cattolico, aveva voluto il referendum nella convinzio-
ne che potesse tradursi in una rivisitazione delle crociate della Chiesa
pacelliana del secondo dopoguerra. Il margine di vittoria del no, che
152 società, stato e chiesa in italia

manteneva in vigore la legge, fu infatti assai grande (all’incirca il 60%,


contro il 40% dei sì); ed era tanto più rilevante se si tiene conto che
a favore dell’abolizione della legge si erano mobilitate, oltre alla dc e
ad altre organizzazioni cattoliche, anche le forze politiche dell’estrema
destra (in particolare quel Movimento sociale italiano di diretta ascen-
denza fascista).
Quel margine chiariva, inoltre, che non si era trattato di un voto di
natura politica (le forze di sinistra, o comunque di opposizione al gover-
no a guida democristiana, erano infatti numericamente ben inferiori a
quella percentuale del 60%), bensì di mentalità: mentalità civile e laica
secondo la visione positiva dei difensori del divorzio; mentalità laicista e
anticlericale secondo la lettura negativa dei cattolici antidivorzisti.
A prescindere da queste divergenze di interpretazione, era eviden-
te che i processi di modernizzazione che avevano coinvolto l’Italia
durante i trent’anni seguiti alla fine della guerra, trasformandola da
paese a prevalente economia rurale in moderna realtà industriale, ur-
banizzata e anche fortemente consumistica, avevano ulteriormente
approfondito la secolarizzazione dei costumi, delle convinzioni e de-
gli obiettivi della gente comune. Ne conseguiva che, come il numero
degli elettori della dc non coincideva più da tempo con quello dei
cattolici praticanti, così il numero dei praticanti non era più equi-
valente a quello di coloro che erano disposti a seguire con assoluta
fedeltà le indicazioni della Chiesa in ordine alla morale, alle opzioni
ideologiche ecc. Ma al di là di questi aspetti interni al mondo catto-
lico, il fenomeno di gran lunga più vistoso era rappresentato dal fatto
che l’Italia si stava sempre più secolarizzando e, nello stesso tempo,
forse anche per effetto dell’onda lunga del Sessantotto, si spostava
elettoralmente a sinistra. La conferma venne dalle elezioni politiche
del giugno 1976, nelle quali il pci, pur senza togliere alla dc la mag-
gioranza relativa, sfiorò il 35% dei voti.
In anni lontani questa situazione avrebbe suscitato un vero e proprio
allarme nella dirigenza democristiana, tanto più che in quella stessa cir-
costanza alcuni intellettuali cattolici presentarono la propria candida-
tura come indipendenti nelle liste del pci, sottraendo dunque ulteriori
voti alla dc. Ma a metà degli anni settanta la via italiana al comunismo
perseguita dal segretario Enrico Berlinguer stava portando alla fine della
storica alleanza del Partito comunista italiano con la Russia sovietica e al
progressivo abbandono della dura opposizione ai governi democristia-
ni praticata nei decenni precedenti. Si apriva pertanto la possibilità di
chiesa e società italiana nel terzo novecento 153

rivedere globalmente la linea della dc rispetto alla presenza in Italia del


maggiore partito comunista occidentale.
In tale contesto Aldo Moro, a quel momento presidente della dc,
ritenne inevitabile la caduta della pregiudiziale anticomunista che, dalla
sua attivazione nel 1947, aveva sempre impedito al pci di poter parteci-
pare anche solo nei termini dell’appoggio esterno al governo italiano.
Ciò che rendeva necessario tale passaggio, secondo il politico democri-
stiano, era sia l’evoluzione in atto nella maggiore forza politica di oppo-
sizione sia soprattutto la crisi che stava attraversando il paese dal punto
di vista economico e sociale.
Si trattava infatti di una crisi che, per la sua inedita gravità – si tenga
conto che era già tra l’altro iniziata a quel momento la serie di attentati
che sarebbero poi stati definiti stragi di Stato a causa del coinvolgimento
in esse di alcuni settori deviati degli apparati di sicurezza dello stesso Sta-
to: dalla strage della Banca dell’Agricoltura a Milano (1969) a quelle di
piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus (entrambe nel 1974) –,
richiedeva per il suo superamento il contributo di tutte le forze politi-
che democratiche del paese, e che per questo avrebbe assunto il nome di
solidarietà nazionale.
Dopo averla lasciata intravvedere più o meno velatamente nel corso
di alcuni anni, Aldo Moro propose infine ai dirigenti del proprio partito
la nuova linea politica il 28 febbraio 1978. Essa avrebbe dovuto consen-
tire alla dc, senza perdere la propria specifica identità e nemmeno la sua
centralità nel sistema politico italiano, di inserirsi in uno schieramento
di maggioranza più ampio di tutti quelli sinora praticati; uno schiera-
mento che, per larghissime linee, sembrava ripetere l’alleanza tra i grandi
partiti popolari che aveva dato origine nel 1945 alla pur breve esperienza
del governo tripartito composto da democristiani, comunisti e socialisti.
La proposta di Moro avrebbe in effetti prodotto la formula dei governi
di solidarietà nazionale, ma non tanto per la sua forza intrinseca quanto
per l’ulteriore aggravamento della crisi che si verificò nelle settimane suc-
cessive al discorso del 28 febbraio. Il 16 marzo 1978 infatti, nel quadro di
una complessa situazione rispetto alla quale non si potevano escludere
interventi internazionali riconducibili alle dinamiche della coeva guerra
fredda, lo stesso Moro veniva rapito da una organizzazione terroristica di
estrema sinistra: le Brigate rosse. Seguirono circa due mesi di trattative tra
i brigatisti, che chiedevano in prima istanza di essere riconosciuti come
interlocutori politici, e lo Stato, che attraverso il governo mantenne una
posizione di fermo rifiuto. Il 9 maggio, infine, il corpo senza vita di Aldo
154 società, stato e chiesa in italia

Moro venne ritrovato nel centro di Roma, in un’auto intenzionalmente


parcheggiata a poca distanza dalle sedi centrali della dc e del pci.
La morte violenta di Moro fu innanzitutto una tragedia umana e una
grave perdita politica per il suo partito, nonostante le forti tensioni fra le
personalità di maggiore spicco che ne condividevano la guida5. Ma per
taluni settori del mondo cattolico italiano quell’evento drammatico ebbe
anche un altro risvolto. Diversi degli appartenenti alle organizzazioni cat-
toliche degli anni trenta-quaranta del Novecento lo avevano infatti cono-
sciuto come membro e poi presidente della fuci. Tra questi c’era lo stesso
Paolo vi, che proprio in nome di quella antica amicizia avrebbe rivolto il
21 aprile un accorato appello agli uomini delle Brigate rosse per ottenere
la liberazione dello statista democristiano. Umanamente drammatica fu
poi la situazione nella quale si trovò Benigno Zaccagnini, amico personale
di Moro e rappresentante allo stesso tempo di quel fronte della fermezza
che impedì l’eventuale accordo con le Brigate rosse.
Due anni dopo, il 12 febbraio 1980, la stessa organizzazione terroristi-
ca assassinava Vittorio Bachelet. Egli non era certo stato ucciso per aver
ricoperto in passato la carica di presidente dell’ac, quanto per essere a
quel momento il vicepresidente del Consiglio superiore della magistra-
tura: dunque un importante bersaglio per chi, in un’ottica di chiara vo-
lontà destabilizzatrice delle istituzioni, intendeva colpire gli uomini più
rappresentativi dello Stato. Nondimeno, era nuovamente il mondo cat-
tolico a essere colpito e a percepire che con la scomparsa violenta di que-
sti suoi protagonisti veniva a chiudersi un’epoca. L’epoca che aveva assi-
stito dalla fine degli anni cinquanta a una tale quantità di cambiamenti
(sociali, politici, religiosi) da rendere del tutto evidente la sensazione che
ci si fosse definitivamente staccati dalla stagione di metà Novecento per
avvicinarsi a velocità vertiginosa alla società di fine secolo.
Un altro evento, non drammaticamente imprevedibile come l’uc-
cisione di Moro ma egualmente capace di scandire la fine di un’epoca,
perlomeno nell’ambito della Chiesa cattolica, era infine stata nell’ago-
sto 1978 la morte di Paolo vi: il papa che se in una prospettiva generale
aveva avuto il principale merito di portare a termine il concilio voluto
da Giovanni xxiii, dal punto di vista della realtà italiana aveva tentato
di interpretare i contenuti del Vaticano ii dando vita a un’esperienza,
che spesso viene evocata come la chiesa montiniana, basata su un equili-
brio, non sempre in verità mantenuto, tra le tendenze più radicalmente
innovative e quelle più o meno vistosamente anticonciliari del mondo
cattolico nazionale.
chiesa e società italiana nel terzo novecento 155

Alcuni degli aspetti più significativi della Chiesa italiana degli anni
settanta erano il frutto di questa linea. Così la scelta religiosa dell’ac,
che abbiamo già ricordato; la segreteria della Conferenza episcopale ita-
liana esercitata dal 1972 al 1976 dal vescovo di Lucca Enrico Bartoletti
nel rispetto dello spirito oltre che della letterale formulazione dei do-
cumenti del Vaticano ii; la decisione di convocare periodicamente dei
convegni nazionali (come a Roma, nel 1976, sul tema Evangelizzazione
e promozione umana) per tracciare le direttrici del futuro impegno del
cattolicesimo italiano6.
La scomparsa di Paolo vi non rappresentava la fine di tutto questo.
Se non altro perché durante il suo pontificato si era formata una genera-
zione di quadri dirigenti, ecclesiastici e laici, che avrebbero poi prolun-
gato nel decennio successivo la presenza della suddetta linea ecclesiale.
Ma quella scomparsa avrebbe comunque segnato l’interruzione di un fe-
nomeno che sembrava inesauribile e in certa misura scontato: vale a dire,
la presenza ai vertici della Chiesa cattolica di un papa di origine italiana,
con tutte le conseguenze di diretto coinvolgimento e maggiore interesse,
che ne erano tradizionalmente derivate per la situazione ecclesiale e più
latamente religiosa del paese.
Invece, dopo l’esaurirsi pressoché immediato dell’esperienza papale
del successore di Paolo vi, il patriarca di Venezia Albino Luciani manca-
to nella generale costernazione a poche settimane di distanza dalla pro-
pria ascesa al soglio pontificio, il nuovo conclave sceglieva un pontefice
di origine polacca: l’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyła, che avrebbe
assunto il nome di Giovanni Paolo ii.

Dall’elezione di un papa non italiano


alla crisi storica dell’utopia (socialista)
Con l’avvento del nuovo papa la vita interna della Chiesa e ancor più
l’atteggiamento della stessa nei confronti della società assistettero a un
sostanziale cambiamento di stile: particolarmente vistoso se confronta-
to con la problematicità e le cautele cui aveva abituato la presenza discre-
ta e quasi amletica di Paolo vi:

Giorni or sono, un ecclesiastico di grande animo Ci confidava una sua impres-


sione, condivisa, egli diceva, da altre persone attente e pensose circa la scena
contemporanea della vita della Chiesa; l’impressione che la Chiesa al suo cen-
156 società, stato e chiesa in italia

tro, ed anche il Papa stesso, fossero presi da certa sfiducia su l’andamento gene-
rale del periodo postconciliare, e si mostrassero timidi ed incerti, piuttosto che
franchi e risoluti. Questa osservazione Ci ha obbligati a riflettere. Saremmo Noi
stessi presi dalla sfiducia? Homo sum; e per sé non vi sarebbe niente di strano.
Anche Pietro, o meglio Simone, fu debole e incostante, alternando atteggia-
menti di entusiasmo e di paura7.

Giovanni Paolo ii esprimeva, al contrario, i tratti caratteristici del pu-


gnace cattolicesimo polacco. Un cattolicesimo che, al di là delle proprie
caratteristiche di lungo periodo, era stato segnato negli ultimi decenni
dalla lunga lotta sostenuta per poter svolgere la propria attività religiosa
in un paese a guida comunista. Non era casuale, a tale proposito, che
la figura più significativa della recente storia religiosa polacca fosse il
cardinale Stefan Wyszynski: un prelato che nel pieno della guerra fred-
da era stato anche incarcerato. Così come emblematica, nel corso degli
anni ottanta, sarebbe stata la lotta condotta contro il regime comunista
dal locale sindacato indipendente Solidarnošč, sotto la guida del leader
sindacale cattolico Lech Walesa e con il massiccio sostegno dello stesso
Giovanni Paolo ii.
Quello del nuovo papa era, in sintesi, un cattolicesimo sensibile
all’imperativo della visibilità sociale, della presenza pubblica; poco in-
cline alle novità teologiche e semmai orientato dal punto di vista dot-
trinale verso posizioni moderate e talvolta anche conservatrici; salda-
mente ancorato a una religiosità di tipo tradizionale, il cui principale
punto di riferimento era la devozione a Maria; fortemente impegnato
in uno slancio missionario, e in parte conquistatore, nei confronti della
società; per nulla disattento alle dinamiche della politica internazionale,
soprattutto nelle aree dell’Europa orientale che erano sottoposte ai regi-
mi comunisti o nell’America Latina dove si era sviluppata la cosiddetta
teologia della liberazione.
Il suo interessamento diretto alla situazione italiana e ai problemi in-
terni del cattolicesimo nazionale fu inevitabilmente minore di quello
dei suoi predecessori e, da ultimo, di Paolo vi. Ma la sua visione della
Chiesa, e soprattutto la sua convinzione che la fede dovesse esprimersi
in una esplicita presenza dei cattolici nella società, finì con il favorire
uomini di Chiesa, come poi vedremo, e movimenti italiani che più si
riconoscevano in quella linea.
Tra questi ultimi ne trasse vantaggio innanzitutto cl, che, nel de-
cennio compreso tra la fine degli anni settanta e la fine degli anni ottan-
chiesa e società italiana nel terzo novecento 157

ta, avrebbe largamente consolidata la propria struttura, trasformandola


come abbiamo già rilevato da originario movimento giovanile a organiz-
zazione multiforme, dotata di una crescente forza di pressione all’inter-
no della Chiesa italiana e degli stessi ambienti vaticani.
Una forza di pressione che sarebbe stata via via alimentata dall’atti-
vità pubblicistica della casa editrice Jaka Book e dalle campagne di opi-
nione del settimanale “Il Sabato” e del mensile “Trenta giorni”8; da ini-
ziative pubbliche quali i meeting annuali organizzati a Rimini a partire
dall’agosto 1980 e ben presto divenuti una vera e propria passerella delle
autorità ecclesiastiche e soprattutto politiche più vicine al movimento
(in particolare l’esponente democristiano Giulio Andreotti); dalla con-
cessione di incarichi di rilievo, e persino dalla nomina episcopale, a sa-
cerdoti notoriamente simpatizzanti per la stessa cl; infine dalla nascita
di una formazione politica, il Movimento popolare, che ambiva ad en-
trare nella costellazione delle correnti interne della dc per orientarne gli
indirizzi generali a favore della propria linea di presenza nel paese.
La crescita di cl era certo legata alla maggiore disponibilità che si
nutriva ora, rispetto al passato – li si considerava, anche ai vertici della
Santa sede, come il frutto migliore della stagione seguita al Vaticano ii –,
nei confronti dei cosiddetti movimenti. Di quelle realtà, cioè, nelle
quali alla fisionomia più strutturata delle organizzazioni tradizionali
si sostituiva la libera espressione delle potenzialità religiose personali:
i carismi, secondo un termine molto in voga all’epoca e che riprendeva
un’espressione caratteristica del linguaggio neotestamentario presente
nelle lettere di San Paolo. Era tuttavia palese che la recente fortuna del
movimento guidato da don Luigi Giussani non dipendeva solo da que-
sto. Lo confermava la ben peggiore accoglienza riservata da Roma e dalla
gerarchia ecclesiastica italiana ad altre esperienze che, pur configuran-
dosi come movimento, erano tuttavia legate al dissenso cattolico degli
anni settanta.
A favore di cl giocava con chiara evidenza il suo proporsi come
espressione tipica di quell’integralismo cattolico che attaccava più o
meno esplicitamente il concilio Vaticano ii e che, come già gli esponen-
ti dell’intransigentismo ottocentesco, vedeva nuovamente nella Chiesa
cattolica l’unica àncora di salvezza per una società altrimenti destinata al
baratro della definitiva secolarizzazione.
Tale prospettiva, con ogni probabilità, sarebbe risultata perdente in
altri periodi. Ma era invece destinata a raccogliere un crescente credito
in un contesto, come quello del mondo cattolico italiano di inizio anni
158 società, stato e chiesa in italia

ottanta, nel quale alla breve distanza di un mese l’uno dall’altro (maggio
e giugno 1981) due episodi avevano fortemente impressionato gli am-
bienti sia moderati che marcatamente conservatori. Vale a dire: la scon-
fitta dei cattolici nel referendum indetto per abrogare la legge sull’abor-
to, una sconfitta ancora più vistosa (68% contro 32%) di quella sofferta
nel referendum del 1974; l’assunzione della carica di capo del governo da
parte di un politico non cattolico (il repubblicano Giovanni Spadolini),
dopo che dalla formazione del primo governo postbellico retto da De
Gasperi (dicembre 1945) quella carica era stata appannaggio esclusivo di
rappresentanti della dc.
Certo, anche nel corso del pontificato di Paolo vi non erano mancati
esempi di quella volontà di ritorno al passato e in particolare alla stagio-
ne, al linguaggio e alle idee preconciliari. Ma fatta eccezione per alcuni
casi più vistosi come quello francese del vescovo Marcel Lefebvre, che
dopo essersi a lungo trascinato nel tempo sarebbe sfociato nel 1988 in
un vero e proprio scisma con conseguente scomunica del suo principale
protagonista, il tutto si era limitato al tentativo di far pressione sullo
stesso papa Montini, non sempre capace di sottrarsi (come dimostrava
tra l’altro la ricordata vicenda di Lercaro del 1968), per indurlo a un at-
teggiamento di fermezza nei confronti di coloro ai quali si rimproverava
una visione troppo radicale ed estensiva del concilio.
Ora, invece, soffiava un po’ dovunque un forte vento di restaurazione
dottrinale. Un vento che sembrava poter lambire anche i vertici della
Chiesa, spingendoli a produrre un’autorevole messa in discussione dei
capisaldi del concilio Vaticano ii. Sebbene infatti, a stretto rigore, si po-
tessero riconoscere in Giovanni Paolo ii e nei documenti da lui emanati
sino a quel momento degli orientamenti più moderatamente tradiziona-
listi che non esplicitamente anticonciliari, questo fatto non era in sé del
tutto rassicurante tenuto conto che il pontefice era stato a lungo meno-
mato in quegli anni dalle conseguenze dell’attentato subìto il 13 maggio
1981.
Alla vigilia del sinodo straordinario dei vescovi, convocato a Roma
per l’autunno del 1985 in occasione dei vent’anni trascorsi dalla fine del
concilio, molti difensori dell’eredità del Vaticano ii ebbero reali moti-
vi di preoccupazione. Due eventi, in particolare, la giustificavano. Nel
corso di quello stesso anno il futuro pontefice Benedetto xvi, allora
prefetto dell’ex Congregazione del Sant’Uffizio, aveva pubblicato un
volume-intervista dal titolo Rapporto sulla fede nel quale si denunciava
la crisi dell’esperienza cristiana e se ne individuava in alcuni aspetti e
chiesa e società italiana nel terzo novecento 159

atteggiamenti riconducibili al concilio una delle cause principali9. Ad


aprile, sempre del 1985, opinioni non tanto dissimili da quelle espresse
da Joseph Ratzinger erano emerse a Loreto, nell’ambito del convegno
organizzato dalla cei sul tema Riconciliazione cristiana e comunità degli
uomini. Ed esse erano contenute tra l’altro nel discorso tenuto in quella
circostanza da papa Wojtyła10.
Se quella eventualità di riflusso venne almeno in parte scongiurata, e
se il sinodo straordinario finì in sostanza per ratificare gli esiti dottrinali
e pastorali del Vaticano ii, lo si dovette soprattutto alla coraggiosa azio-
ne di alcuni presuli quali l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini e
altri. Questi dimostrarono con i propri interventi che la scomparsa della
generazione dei protagonisti diretti dei lavori del concilio aveva lasciato
spazio non solo ai nuovi propugnatori delle teorie conservatrici che era-
no già state il cavallo di battaglia della minoranza conciliare, ma anche
a un gruppo di autorevoli prelati intesi ad opporsi alle pesanti iniziative
revisioniste mirate ad attaccare l’eredità del Vaticano ii.
Per gran parte degli anni ottanta gli equilibri interni al mondo catto-
lico italiano vennero condizionati dal confronto tra queste due diverse
anime. Da un lato quella che, pur con varietà di posizioni, si richiamava
complessivamente al concilio e aveva quale riferimento alcuni prestigio-
si rappresentanti dell’episcopato (il già ricordato Martini, il patriarca di
Venezia Marco Cé, il vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi), un’ac che anda-
va ricostruendo il proprio tessuto organizzativo dopo la crisi degli anni
sessanta, altre organizzazioni del laicato che si erano nel frattempo assai
sviluppate (in particolare la già ricordata romana Comunità di Sant’E-
gidio), e infine alcune residue esperienze del dissenso. Dall’altro lato, in-
vece, quella che intendeva chiudere definitivamente la stagione concilia-
re e che, oltre a rappresentanti conservatori dell’episcopato nazionale e
al prolungamento in Italia di organizzazioni internazionali quali l’Opus
Dei (la cui forza in Vaticano era pienamente confermata in quel periodo
dalla concessione della prelatura nullius, che la rendeva autonoma dal
vescovo nelle diocesi in cui era presente), aveva in cl e nelle sue varie
ramificazioni uno dei propri strumenti più agguerriti.
Per un certo periodo il confronto non trascese i limiti del dibattito
e di una ragionevole divergenza di idee. Poi, nella seconda metà degli
anni ottanta, si registrò un crescendo di provocazioni da parte ciellina.
I primi accenni si registrarono tra il marzo 1985 e l’aprile 1986, con una
serie di attacchi contro l’allora presidente dell’ac Alberto Monticone.
Ma il picco di tensione si ebbe in seguito, grazie a due più gravi episodi
160 società, stato e chiesa in italia

che meritano di essere ripercorsi: sia per il loro significato intrinseco, sia
per le implicazioni più ampie che ebbero a livello del mondo cattolico
italiano.
Il primo episodio maturò a fine estate 1987 e venne innescato dalla
pubblicazione sul settimanale ciellino “Il Sabato” di quattro successivi
articoli nei quali, con il titolo Tredici anni della nostra storia, veniva pro-
posta una ricostruzione della vicenda del movimento cattolico italiano
dai giorni del referendum abrogativo della legge sul divorzio (maggio
1974) sino alla più vicina attualità. Ne erano autori Roberto Fontolan e
Antonio Socci. Lo stile degli articoli, apparentemente asettico e corro-
borato dal rinvio a fatti e documenti, nascondeva in effetti una finalità
ad un tempo delatoria e apologetica. La ricostruzione mirava, infatti, a
convincere il lettore che la crisi del cattolicesimo italiano era dovuta alla
cattiva linea perseguita da alcuni suoi leader e da talune organizzazio-
ni cattoliche laicali. Tra i primi veniva indicato in particolare Giuseppe
Lazzati: dal 1968 al 1983 rettore dell’Università cattolica di Milano e dal
1964 presidente dell’ac milanese, oltre che antico compagno di Giusep-
pe Dossetti. Tra le seconde l’ac: con la cui struttura milanese guidata da
Lazzati l’organizzazione Gioventù studentesca di don Luigi Giussani,
diretto antefatto storico come si ricorderà della stessa cl, aveva ingag-
giato a metà anni sessanta una vera e propria competizione per la guida
dei gruppi cattolici giovanili della città11. A fronte della suddetta cattiva
linea stava invece la corretta linea dottrinale e pastorale praticata da cl.
Non si trattava, a ben vedere, di una legittima manifestazione di dis-
senso da una certa modalità di presenza dei cattolici: in particolare dalla
scelta religiosa dell’ac di Montini, Bachelet e Costa di cui abbiamo già
parlato. Bensì di una vera e propria opera di demolizione della figura di
Lazzati, scelto certamente come bersaglio specifico12 ma di un attacco
che però intendeva evidentemente scagliare pietre in un raggio storica-
mente ben più ampio e soprattutto servire a un disegno ravvicinato che
guardava più al futuro che al passato. Si era, infatti, in quelle settimane,
alla vigilia dei lavori del sinodo dei vescovi e l’argomento prescelto per
l’assemblea di quell’anno era singolarmente intrecciato con gli argo-
menti affrontati negli articoli di “Il Sabato”. Si sarebbe infatti discusso
sul tema Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent’an-
ni dal Concilio Vaticano ii. La pubblicazione e il contenuto degli articoli
erano dunque a dir poco tempestivi.
Le reazioni degli ambienti cattolici italiani vicini a Lazzati, e più in
generale sensibili alla tradizione di cui egli era stato un autorevole in-
chiesa e società italiana nel terzo novecento 161

terprete, si espressero sia attraverso la stampa sia attraverso la richiesta


di provvedimenti canonici nei confronti degli autori e della rivista che
aveva ospitato gli articoli. Al di là tuttavia degli aspetti interni della vi-
cenda13, merita attenzione il fatto che il contrasto tra le due anime del
cattolicesimo italiano di cui ho parlato in precedenza e al cui interno si
inseriva anche l’episodio di “Il Sabato” avrebbe assistito a una ben più
rilevante ripresa durante i lavori del sinodo su La vocazione e la missione
dei laici nella Chiesa e nel mondo.
In esso, infatti, grazie tra l’altro agli interventi da un lato dell’arcive-
scovo di Milano Martini e dall’altro del fondatore di cl don Giussani,
riemergevano in tutta la loro incompatibilità due opposte visioni della
situazione della società e due non meno opposte strategie di intervento
da parte dei cattolici.
Per l’arcivescovo di Milano il fenomeno della secolarizzazione anda-
va affrontato nel rispetto del principio della laicità delle realtà terrene
e potenziando, attraverso un adeguamento al nuovo spirito missiona-
rio richiesto dai tempi moderni, gli strumenti tradizionali della Chiesa
locale: le parrocchie da un lato, le organizzazioni del laicato quali l’ac
dall’altro. Per don Giussani, invece, la secolarizzazione era intrinseca-
mente maligna e rappresentava l’effetto nefasto degli errori compiuti
dagli stessi cattolici, soprattutto di quelli che avevano favorito una sorta
di “protestantizzazione” del cattolicesimo. Secondo il fondatore di cl,
la secolarizzazione andava in ogni caso combattuta attraverso la piena
valorizzazione di quei carismi che risultavano presenti nei movimenti e
invece ormai atrofizzati nella struttura tradizionale delle diocesi14.
Il confronto tra le due posizioni non era destinato ad esaurirsi nel
corso del sinodo dei vescovi, anche perché vi erano sottese delle diver-
genze di ordine ecclesiologico che riguardavano la stessa interpretazio-
ne e applicazione del concilio, con particolare riguardo all’autorità dei
vescovi da un lato e del papa dall’altro. Nel frattempo il cosiddetto caso
Lazzati prolungava per vari mesi il proprio corso, per concludersi alme-
no formalmente nel giugno 1988 con la riappacificazione tra l’arcivesco-
vo di Milano, che era stato a sua volta coinvolto nelle polemiche, e don
Giussani.
Il suo stesso coinvolgimento, tuttavia, con la progressiva chiamata in
causa di tutti i diversi settori del cattolicesimo italiano, e con la presa in
esame di aspetti che andavano anche a toccare la linea politica seguita in
certi periodi dalla dc, lasciava intravvedere che il progressivo articolar-
si e potenziarsi di cl all’interno del mondo cattolico italiano avrebbe
162 società, stato e chiesa in italia

suscitato nuovi scontri: soprattutto là dove il movimento avesse avuto


sentore di trovare ostacoli alla propria ulteriore espansione.
È quanto accadde di fatto nell’estate 1989, quando nell’ambito
dell’annuale meeting di cl organizzato a Rimini venne aperta una viva-
ce polemica contro i settori di sinistra del partito democristiano, ritenuti
responsabili di un complotto mirato ad ostacolare l’attività di un’istitu-
zione, la cooperativa romana La Cascina, facente parte della Compagnia
delle opere: l’articolazione economica del movimento. Si trattava in sé
di una polemica apparentemente delimitata, ma che in effetti conquistò
un peso ben maggiore di quanto ci si potesse attendere perché all’in-
terno della dc era in atto una sorta di resa dei conti tra i settori della
sinistra (guidati da Ciriaco De Mita) e quelli del centrodestra (richia-
mantesi alla leadership di Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani e Antonio
Gava): resa dei conti iniziata nei mesi precedenti, quando l’ala sinistra,
per effetto di un gioco di accordi interni ed esterni al partito, aveva perso
simultaneamente la segreteria del partito e la carica di capo del governo.
L’episodio di Rimini, in parte imprevedibilmente tenuto conto delle
coperture di cui godeva il movimento all’interno degli ambienti vati-
cani, suscitò la reazione negativa di “L’Osservatore romano”. Invece di
smorzare la polemica, il settimanale ciellino “Il Sabato” reagì in modo
provocatorio, pubblicando un numero dalle pagine completamente
bianche in segno di protesta per il silenzio che sembrava imposto dall’al-
to. Ai vertici di cl si percepì, tuttavia, il rischio che avrebbe comportato
un ulteriore inasprimento della vicenda. Non si trattava, infatti, come
era accaduto in altre circostanze, di combattere contro avversari che,
per quanto autorevoli come nel caso di alcuni vescovi, avrebbero poi co-
munque dovuto sottoporsi alle valutazioni e alle mediazioni romane.
Qui si era varcata la soglia degli stessi ambienti romani e non era facile
capire fino in fondo da quale autorità provenisse la sconfessione apparsa
sulle pagine del quotidiano della Santa sede.
Si preferì dunque compiere un atto che voleva essere di chiarimento
– la separazione ufficiale di responsabilità tra il movimento e “Il Saba-
to”, che anche nei mesi successivi non avrebbe mancato di confermare,
con un pesante attacco rivolto per ragioni politiche il 4 novembre 1989
contro il cardinale vicario di Roma Poletti, la propria volontà di soprav-
vivere scegliendosi il ruolo di mero strumento degli ambienti reazionari
del paese – ma che suonò in realtà come un’evidente presa d’atto che era
finita, almeno per il momento, la stagione delle coperture di cui aveva
goduto l’organizzazione ciellina nelle sue ripetute azioni polemiche a
chiesa e società italiana nel terzo novecento 163

tutto campo: dal Vaticano ii, all’episcopato di orientamento conciliare,


alle organizzazioni cattoliche viste come proprie concorrenti, ai politici
democristiani non in sintonia con i progetti ciellini di intervento nella
società italiana.
Era un fatto tutt’altro che secondario rispetto agli equilibri che si
erano venuti consolidando nel mondo cattolico italiano durante gli
anni ottanta. Ma il suo effetto sull’opinione pubblica cattolica fu rela-
tivamente modesto. Ben altri eventi, il più emblematico dei quali sareb-
be risultato l’abbattimento nel novembre 1989 del cosiddetto muro di
Berlino, si stavano infatti ormai profilando sulla scena internazionale e
la stessa storia interna del cattolicesimo italiano ne avrebbe subìto, nel
corso della prima metà degli anni novanta, un influsso notevole.
Il periodico dei gesuiti italiani “La Civiltà cattolica” commentò così
ciò che stava avvenendo:

Il 1989 si chiude con avvenimenti di eccezionale portata storica che hanno un


carattere particolare: quello di essere avvenimenti rivoluzionari, ma pacifici. È
infatti una delle poche volte nella storia umana che una rivoluzione così dram-
matica e straordinaria come quella che sta avvenendo nell’Unione sovietica e
nei Paesi dell’Est non comporti spargimento di sangue. Certo, non sappiamo
quello che nei prossimi mesi e anni potrà accadere, poiché il processo che si è
messo in moto è molto difficile e non esente da rischi. Non possiamo, tuttavia,
non rallegrarci che per milioni di uomini si prospetti un’era di libertà e di pro-
gresso, e quindi di rispetto e di promozione della persona umana, che è poi, in-
sieme, il fine dell’attività politica e il clima in cui la società umana deve vivere15.

Cattolici italiani di fine Novecento:


il crollo dell’unità partitica
L’impressionante accelerazione dei processi storici che avvenivano in
diverse parti d’Europa, in connessione con la svolta maturata in Unio-
ne Sovietica per effetto della revisione ideologica operata dal segretario
del partito comunista sovietico Mikhail Gorbaciov, non ebbe almeno
in apparenza conseguenze dirette e immediate sulla situazione italia-
na. Il fatto tuttavia che il maggiore partito d’opposizione, il pci, stesse
maturando a propria volta una revisione ideologica, avvicinandosi alle
posizioni delle socialdemocrazie occidentali, non avrebbe mancato di
incidere alla lunga sull’intero assetto politico del paese e quindi sullo
stesso comportamento della dc.
164 società, stato e chiesa in italia

Al suo interno continuavano a scontrarsi le posizioni di coloro che


avevano già fatto resistenza alle proposte di apertura a sinistra avanza-
te da Aldo Moro nella seconda metà degli anni settanta e coloro che
invece intendevano restare fedeli a quella consegna. Tanto più che la
già ricordata esperienza della solidarietà nazionale aveva consentito
allo Stato, tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta, di
far fronte e di sconfiggere l’azione terroristica dei gruppi dell’estrema
sinistra.
A dare maggiore forza alle correnti interne contrarie alla linea che
era già stata di Moro era tuttavia intervenuto, nel corso degli anni ot-
tanta, un nuovo partner politico: il Partito socialista italiano guidato
da Bettino Craxi. Questi infatti, dopo aver conquistato nel 1976 la se-
greteria del partito, aveva perseguito un duplice obiettivo: a) trasfor-
mare ideologicamente la linea tradizionale e fondativa del psi, con
spostamento da posizioni socialdemocratiche a un apparente centrismo
che talora, soprattutto in materia di politiche sociali e del lavoro, pre-
sentava addirittura marcate venature conservatrici, riconducibili al co-
evo tatcherismo e reaganismo; b) collocare strategicamente il partito in
una posizione baricentrica rispetto all’intero sistema politico italiano,
mediante un gioco di alleanze effettive e di possibili alleanze minaccia-
te che consentirono al psi di diventare l’ago della bilancia parlamentare
e al suo segretario di ricoprire continuativamente la carica di capo del
governo dal 1983 al 1987.
Fatto quest’ultimo che ebbe conseguenze specifiche anche nel rap-
porto tra Chiesa e Stato italiano, perché nel febbraio 1984 sarebbe sta-
to proprio Craxi, come già Mussolini nel 1929 nella circostanza della
stipula dei Patti lateranensi, a firmare per l’Italia il nuovo concordato
– redatto secondo linee necessariamente distanti dal contesto monar-
chico-fascista del 1929, e sensibile ai princìpi della libertà religiosa pro-
clamati dallo stesso concilio16, ma senz’altro garantista nei confronti di
gran parte degli aspetti più vicini alla sensibilità cattolica in materia di
insegnamento privato, famiglia e istituzioni cattoliche –, a riceverne per
qualche tempo un positivo ritorno d’immagine agli occhi del mondo
cattolico nazionale e soprattutto degli ambienti ecclesiastici italiano e
vaticano.
A inizio anni novanta, dopo una fase nella quale all’interno del par-
tito democristiano aveva ripreso quota con De Mita la posizione della
sinistra, la situazione sembrava nuovamente stabilizzata a beneficio dei
due maggiori fautori dell’alleanza tra la dc e il psi: Andreotti e Forlani.
chiesa e società italiana nel terzo novecento 165

Da cui la denominazione di caf (Craxi, Andreotti, Forlani) data al pat-


to personalmente ratificato dai tre politici.
Questa nuova fase era peraltro destinata a durare poco tempo. Men-
tre infatti il Partito comunista italiano portava a compimento la propria
trasformazione dando vita a una nuova forza politica chiamata Partito
democratico della sinistra, un episodio di apparente routine giudiziaria
avvenuto nel febbraio 1992, l’arresto per corruzione di Mario Chiesa,
amministratore socialista di un istituto di assistenza di Milano, inne-
scava in realtà una sequenza di indagini della magistratura milanese che
avrebbe portato alla scoperta di tangentopoli: vale a dire della prassi me-
diante la quale soprattutto i due maggiori partiti di governo ottenevano
finanziamenti occulti dagli imprenditori privati ricorrendo a una vera e
propria forma di tassazione, espressa in termini di tangente, e promet-
tendo in cambio commesse statali e altri benefici garantiti dalla media-
zione dei leader politici coinvolti.
Per il psi di Craxi e per la stessa dc era l’inizio di una battaglia giu-
diziaria e politica durata diversi mesi, ma destinata a concludersi con la
caduta dell’intero vertice dirigente dei due partiti. Il segretario sociali-
sta, dopo aver invano tentato una minimizzazione della gravità morale e
politica del proprio comportamento sulla base del principio «tutti face-
vano così», riparò all’estero. I principali dirigenti democristiani abban-
donarono le cariche ricoperte nella speranza di attenuare in tal modo le
possibili conseguenze che le indagini della magistratura potevano avere
sull’immagine e quindi sulla stessa sopravvivenza del partito.
L’impatto sull’opinione pubblica, già tra l’altro sensibilizzata da anni
sulla cosiddetta questione morale, cioè sulla necessità della massima cor-
rettezza e trasparenza da parte dei politici, era tuttavia ormai troppo for-
te. Si decise così di tentare la stessa strada della trasformazione praticata
dall’ex partito comunista, solo che nel caso democristiano, per evidente
timore di perdere una parte rilevante del consenso del partito legato al
nome e al simbolo storico dello scudo crociato, si scelse la soluzione del
ritorno al passato: un passato che potesse consentire allo stesso tempo di
non perdere il legame storico con le proprie radici e di tagliare i ponti
con la classe politica degli ultimi anni.
La dc scomparve per ridare vita, almeno attraverso il nome, al ppi
e all’esperienza politica di don Luigi Sturzo. A gestire il passaggio, pre-
annunziato sin dal luglio 1993 ma formalizzato dalla nascita del nuovo
partito il 18 gennaio 1994, era tuttavia stata in primo luogo l’ala sinistra
dell’ex partito, rimasta per lo più estranea al fenomeno di Tangentopoli.
166 società, stato e chiesa in italia

Così tra i settori più legati alla dirigenza Forlani-Andreotti alcuni se-
guirono i compagni di partito nella nuova esperienza, altri invece, tra i
quali il delfino di Forlani Pierferdinando Casini, decisero di staccarsi e
di dare vita a una propria forza politica di orientamento più conservato-
re: il Centro cristiano democratico (ccd), guidato dallo stesso Casini.
La decisione presa da Casini e da altri ex democristiani apriva dunque
il problema, sino ad allora inedito, della compresenza nella vita politica
italiana di due partiti che si richiamavano formalmente alla tradizione
cristiana. Un precedente a dire il vero c’era già stato, anche prescinden-
do da quello del mpl, alla fine del 1990, quando il giovane politico si-
ciliano Leoluca Orlando aveva deciso di uscire dalla dc e di fondare la
Rete, un’esperienza a metà strada tra il movimento ecclesiale e il partito
e che si proponeva come forza di rinnovamento anche ad elettori tra-
dizionalmente non democristiani. Ma l’iniziativa di Orlando, originale
anche per il supporto ideologico-dottrinale offertogli da alcuni gesuiti
attivi a Palermo (padre Pintacuda e padre Sorge), non era destinata ad
andare molto al di là dei confini regionali nei quali aveva avuto origine.
La divisione tra i nuovi popolari e coloro che avevano seguìto Casini era
invece destinata a estendersi a tutto il territorio nazionale e a consolidar-
si negli anni successivi.
Anche per questa ragione gli ambienti ecclesiastici nazionali e lo stes-
so Vaticano, rimasti fino ad allora in sostanziale silenzio di fronte agli
avvenimenti che avevano portato alla scomparsa della dc, ripresero la
tradizionale attenzione ai problemi connessi all’attività politica dei cat-
tolici italiani. Lo stesso pontefice, interrompendo una linea di riserbo
estesasi per gran parte del suo pontificato, indirizzava in proposito, il 6
gennaio 1994, una lettera ai vescovi italiani nella quale il richiamo all’u-
nità politica dei cattolici era così formulato:

I laici cristiani non possono dunque proprio in questo decisivo momento sto-
rico, sottrarsi alle loro responsabilità. Devono piuttosto testimoniare con co-
raggio la loro fiducia in Dio, Signore della storia, e il loro amore per l’Italia
attraverso una presenza unita e coerente e un servizio onesto e disinteressato nel
campo sociale e politico17.

È difficile a questo punto capire se vi furono connessioni dirette, ed


eventualmente quali, tra quell’intervento papale e il successivo svolgi-
mento delle vicende politiche dei cattolici. Di fatto, la nascita del nuovo
ppi venne formalizzata, come s’è detto, il 18 gennaio 1994: pochi giorni
chiesa e società italiana nel terzo novecento 167

dopo la diffusione del documento papale. Forse quel documento inten-


deva fermare in extremis il progetto di fondazione del nuovo partito,
essendo giunta notizia in Vaticano dell’intenzione di non aderirvi da
parte di alcuni settori della disciolta dc?
La divisione in ogni caso seguì il proprio corso, ponendo anzi le basi
perché pochi mesi dopo se ne verificasse un’altra. All’interno del neo­
istituito ppi vennero infatti rapidamente riemergendo i contrasti tra
una linea più vicina alle posizioni della sinistra ex democristiana e una
linea più marcatamente conservatrice. Dopo varie reciproche sconfes-
sioni, elezioni interne dichiarate non valide da una delle due parti, de-
nunce alla magistratura, contese per l’attribuzione del simbolo storico
del partito e addirittura, in un crescendo di inedito squallore, anche per
la spartizione dei locali della sede della disciolta dc, si giungeva infine
all’uscita dal ppi dell’ala di destra.
Per effetto di questa ulteriore scissione nasceva così in breve tempo
il terzo partito cattolico italiano (Cristiani democratici uniti), con un
nome e soprattutto una sigla, cdu, certo non casualmente ricondotti
al partito tedesco Christlich-demokratische Union avente quale leader
l’allora cancelliere Helmut Kohl. Alla guida dei Cristiani democratici
uniti si poneva Rocco Buttiglione: un filosofo cattolico da sempre vici-
no al movimento di cl e in generale agli ambienti ecclesiastici tradizio-
nalisti.
Quest’ultimo aspetto introduceva un elemento di novità rispetto
alle vicende passate dei vari partiti cattolici che si erano succeduti nella
storia italiana del Novecento. Mai, infatti, si era verificata una corrispon-
denza per taluni versi così evidente tra le diverse posizioni dottrinali e
pastorali presenti nella Chiesa italiana e l’orientamento ideologico delle
formazioni politiche cattoliche del paese.
Né il ppi di Sturzo, né la dc di De Gasperi e tanto meno dei successivi
leader, avevano infatti mai rappresentato una posizione ecclesiale parti-
colare. Ora, invece, il nuovo ppi dei vari Beniamino Andreatta, Gerardo
Bianco, Rosy Bindi, Mino Martinazzoli ecc. sembrava richiamarsi e tro-
vare sostegno nei settori ecclesiali moderatamente innovativi dei vescovi
conciliari ricordati in precedenza, dell’ac ecc.; mentre il partito guidato
da Buttiglione aveva manifeste connessioni con i settori anticonciliari
del cattolicesimo nazionale.
Le alleanze stabilite dalle tre formazioni politiche cattoliche nelle più
immediate elezioni del paese, quelle generali del 21 aprile 1996, avreb-
bero pienamente confermato questa impressione. La necessità di dare
168 società, stato e chiesa in italia

vita a due grandi raggruppamenti, richiesta dal nuovo sistema di voto


maggioritario, portava infatti i partiti di Casini e Buttiglione a confluire
nella coalizione di centrodestra (Polo delle libertà) facente capo a Silvio
Berlusconi e al leader della destra storica e postfascista Gianfranco Fini,
mentre i popolari entravano a far parte della coalizione di centrosinistra
(Ulivo) guidata dal cattolico dossettiano Romano Prodi ma ruotante
attorno al Partito democratico della sinistra e avente il sostegno, tra l’al-
tro, di Rifondazione comunista (il partito interprete della componente
massimalista del disciolto pci).
Alla luce di quegli eventi non si può concludere che la fine dell’uni-
tà politica dei cattolici italiani a metà anni novanta risultasse l’esito di
una evoluzione perseguita con tenacia e vista quasi come una sorta di
traguardo ideale, di svincolo da un modello di presenza ormai arcaico.
A ben vedere infatti, nonostante in passato varie volte si fosse sollevato
il problema in una prospettiva di rinnovamento e di maturazione del
mondo cattolico italiano, ci si era arrivati solo accidentalmente: a causa
di una inarrestabile crisi di immagine della dc e più in generale della
classe politica italiana degli anni ottanta. Si trattava in sostanza della
declinazione in chiave cattolica di quella che da allora si sarebbe spesso
evocata come la fine della prima repubblica.
A non pochi esponenti degli ambienti ecclesiastici italiani e dello
stesso Vaticano tale situazione non sembrò peraltro soddisfacente. Lo
confermavano i ripetuti accenni all’auspicabile nascita di un nuovo par-
tito di centro, il cui perno sarebbe stato ovviamente rappresentato da un
ricompattamento delle forze cattoliche. Erano proprie queste, tuttavia,
a dimostrare quanto varia e difficilmente riaggregabile sotto un’unica
bandiera apparisse ormai in quella fase la realtà del cattolicesimo poli-
tico italiano.
Come non di rado accade nella storia, l’esito finale di un processo di
rottura di antiche consolidate prassi ed equilibri di potere portava alla
luce incompatibilità latenti che, attive da lungo tempo, erano peraltro
rimaste sopite sotto la tunica inconsutile non tanto della fede cristiana
condivisa ma del comune obiettivo/interesse a non perdere quel con-
trollo su una parte maggioritaria della società italiana acquisito all’in-
domani della Seconda guerra mondiale e mantenuto, pur con alterne
vicende, per mezzo secolo.
8
Nella realtà contemporanea:
tra nuovi strumenti e antichi obiettivi

Oltre l’unità partitica dei cattolici:


evitare la diaspora
In linea teorica, le opzioni a portata di mano in quella delicata con-
giuntura potevano sembrare molteplici. Tra di esse: la pur amara presa
d’atto dell’esaurirsi di una cinquantennale stagione storica, caratteriz-
zata dall’affermarsi di quello che, riprendendo l’immagine di Jemolo,
abbiamo denominato modello guelfo; il tentativo all’opposto di tenerla
in vita, con operazioni tattiche più o meno palesi, volte alla conservazio-
ne dello status quo; una sorta di ripensamento generale del ruolo e degli
obiettivi del cattolicesimo nazionale rispetto alla società italiana, ripen-
samento che sarebbe in effetti risultato in linea con le istanze conciliari e
con la scelta religiosa che ne era per qualche tempo seguìta; una reazio-
ne mirata al contrario all’arroccamento e alla riorganizzazione delle fila
cattoliche, per riprendere con strumenti più moderni la battaglia che,
perlomeno dal primo Ottocento, poteva definirsi la battaglia di sempre.
In effetti tuttavia quella molteplicità di opzioni era più apparente che
reale. Almeno uno degli elementi essenziali dello scenario sopra descrit-
to, il concilio, era infatti sempre più lontano. Lontano non tanto dal
punto di vista cronologico: la storia della ricezione del concilio di Tren-
to attesta che il cattolicesimo è rimasto saldamente legato a uno speci-
fico modello di riflessione teologica e di declinazione pastorale anche
per più secoli. Lontano piuttosto quanto alla volontà di considerarlo un
reale punto di riferimento, per ciò che esso era davvero stato; e non il
terreno di esercizio di una continua reinterpretazione del suo significato
e delle sue acquisizioni, tesa prima a consolidare alcuni aspetti del suo la-
scito a scapito di vari decisivi altri1, poi addirittura disponibile nella par-
te conclusiva dello scorso decennio a favorire la lunga trattativa con la
Fraternité sacerdotale Saint Pie x, per lo più improntata alla progressiva
170 società, stato e chiesa in italia

rinuncia da parte dei rappresentanti della Santa sede a sostenere sul pia-
no teologico la difesa del concilio contro l’attacco, talvolta anche intel-
lettualmente violento, portato al Vaticano ii dai vertici della Fraternité2.
Il tutto si è venuto dipanando mentre il modello di presenza cattolica
che si era ormai riconsolidato in Italia a quasi vent’anni dalla fine del
pontificato montiniano e del suo progetto prudentemente conciliare di
Chiesa italiana, sembrava ritrovare, pur nell’ovvia evoluzione di tempi,
protagonisti e contesti, il filo di un discorso singolarmente consonante
con l’età di Pio xii del secondo dopoguerra. Quasi che riecheggiasse ne-
gli anni novanta il vibrante appello non al lamento ma all’azione che dal
ricordato radiomessaggio pontificio del Natale 1942 aveva accompagna-
to fino ai primi anni sessanta il serrate le fila del cattolicesimo nazionale.
D’altronde, anche l’intreccio tra modernità dei mezzi e conservazione
dei contenuti, tipico della stagione ecclesiale pacelliana, presenta singo-
lari affinità con la situazione più recente.
Tornando alla metà anni novanta, va notato che sul piano concreto
non trascorsero che pochi mesi tra l’invito all’unità dei cattolici rivolto
ai vescovi italiani nella già richiamata lettera papale del 6 gennaio 1994
e il discorso pronunciato dallo stesso Giovanni Paolo ii a Palermo il 23
novembre 1995, durante i lavori del iii convegno decennale organizza-
to dalla Conferenza episcopale italiana. In tale discorso, dopo aver tra
l’altro preso atto che «negli anni più recenti gli assetti politici del Paese
[erano] molto mutati e contestualmente [era] cambiata, facendosi più
differenziata, la collocazione dei cattolici»3, si precisava:

La Chiesa non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schiera-
mento politico o di partito, come del resto non esprime preferenze per l’una o
l’altra soluzione istituzionale o costituzionale, che sia rispettosa dell’autentica
democrazia.

Era indubbiamente una svolta4. Non nel senso tuttavia della rinuncia a
svolgere un dato ruolo alla luce della tradizionale concezione del rap-
porto tra Chiesa e società, quanto nella repentina trasformazione degli
strumenti e in parte degli attori maggiori da mettere in campo. Il ponte-
fice chiariva infatti immediatamente dopo:

Ma ciò nulla ha a che fare con una “diaspora” culturale dei cattolici, con un loro
ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede, o anche con
una loro facile adesione a forze politiche e sociali che si oppongano, o non pre-
nella realtà contemporanea 171

stino sufficiente attenzione, ai princìpi della dottrina sociale della Chiesa sulla
persona e sul rispetto della vita umana, sulla famiglia, sulla libertà scolastica, la
solidarietà, la promozione della giustizia e della pace.

Si passava dunque dall’unità del riferimento partitico dei cattolici a una


sorta di unità politica e trans-partitica su fondamenti valoriali. Un’unità
politica intesa come azione e presenza che si sarebbero certo concretizzate
nelle varie articolazioni e forme di espressione del sistema sociale, ma rima-
nendo saldamente unite tra loro nella visione complessiva del ruolo del cat-
tolicesimo rispetto alla società italiana e anche negli obiettivi concreti (in
primis: famiglia, scuola privata, assistenza) in cui quella visione si sarebbe
dovuta declinare. Occorreva peraltro che tale nuova forma di unità dei cat-
tolici – nuova beninteso rispetto ai decenni dell’egemonia democristiana,
non in assoluto: si ricordino le antiche iniziative del movimento cattolico
durante il pontificato tardo-ottocentesco di Leone xiii, quando mancava
in Italia un partito cattolico cui affidarne anche formalmente il compito –
trovasse un importante, autorevole e visibile punto di riferimento.
Ritengo sia nata dalla suddetta esigenza l’ideazione del cosiddetto
Progetto culturale, in cui si impegnarono da allora con assoluta dedizione
i vertici della cei e in particolare il suo presidente Camillo Ruini.
Annunciato da quest’ultimo già nei mesi precedenti – durante i lavori
del Consiglio permanente della Conferenza – e poi ufficialmente ripropo-
sto nel corso del 1995 al ricordato convegno di Palermo, tale progetto rap-
presentava in effetti una piattaforma organica di idee e soprattutto di saldi
princìpi, mentre nel contempo si proponeva lo scopo di impedire quella
diaspora evocata nel discorso del papa a Palermo. Diaspora di valori, certo,
ma anche identitaria: nella smarrita percezione che per la prima volta in
circa quarant’anni non era più possibile per la platea degli appartenenti a
vario titolo al mondo cattolico italiano tuttora elettori della dc sentirsi rap-
presentata da un’entità partitica unica, di consolidate tradizioni di potere
e non da ultimo direttamente rapportata alla Segreteria di Stato vaticana5.

Il ruolo centrale della cei:


l’unità culturale per rifare massa d’urto
La reazione all’imprevista congiuntura politica di metà anni novanta fu
dunque pressoché immediata. Il Progetto culturale ne risultava in certa mi-
sura il programma. La cei, presieduta dal cardinal Ruini con una determi-
172 società, stato e chiesa in italia

nazione e volontà egemonica più simile a quella esibita tra il 1959 e il 1965
dal predecessore Siri che non a quella dei successivi presidenti, ne costitu-
iva il motore e l’indiscusso referente istituzionale. Il tutto in un amalgama
che non a torto è stato definito come scelta istituzionale-sociale6, in asso-
nante distinzione dalla scelta religiosa caratteristica degli anni settanta; o
descritto come «pastorale integrata […] in un processo che collega diocesi,
parrocchie, clero, laici, movimenti, organizzazioni popolari, avendo come
punto di riferimento le istituzioni centrali della Chiesa italiana»7.
Ne sarebbero fra l’altro conseguite varie operazioni, atte a ricompat-
tare monoliticamente l’associazionismo cattolico italiano e a ridefinirne
il ruolo di massa d’urto nella dialettica sviluppatasi in Italia attorno ad
alcuni temi e soprattutto in vista di azioni di mobilitazione. Tra queste
operazioni possono essere ricordate: il richiamo insistito all’ac perché
ritrovasse un congruo ruolo di antemurale, in linea con una storia che
aveva mostrato la sua capacità di esprimere con «forza la voce del laicato
cattolico attorno ai grandi temi che si agitano nella società e che coin-
volgono l’autentica visione della persona e della comunità nel mondo
(quali la vita, la famiglia, la libertà educativa…)»8; il riavvicinamento
tra cl e ac sancito ad agosto 2004 durante l’annuale meeting ciellino di
Rimini sotto i benevoli auspici del segretario generale della cei Giusep-
pe Betori; l’elaborazione negli stessi mesi di un’ipotesi di accordo che
sanciva formalmente la collaborazione continua tra la stessa ac, la fuci
e altre associazioni cattoliche di settore.
Ben più di qualsiasi interpretazione che potrebbe essere formulata
riguardo alle intenzioni sottese all’insieme delle iniziative sopra richia-
mate, risultano particolarmente emblematiche le parole pronunciate a
Palermo dal segretario generale della cei Betori il 24 novembre 2005. Si
trattava di tracciare in quella circostanza un bilancio del periodo inter-
corso tra il convegno decennale della cei tenutosi nella stessa Palermo
dieci anni prima e il successivo e imminente di Verona 2006. Lo si faceva
a partire dal significato del Progetto culturale:

Orizzonte di quest’ultimo era, ed è, il riconoscimento delle sfide cruciali che la


cultura pone oggi alla fede, nella convinzione che solo raccogliendo queste sfide
la fede esprime la propria energia creativa e alimenta il rinnovamento dell’uomo e
della società. L’obiettivo è quello di costruire, con le categorie di oggi, una visione
del mondo cristiana, consapevole delle proprie radici e della propria pertinenza
nelle questioni vitali, fiduciosa circa le proprie potenzialità nel dialogo con la cul-
tura contemporanea per renderci capaci, tutti, di dire in modo originale e plausi-
nella realtà contemporanea 173

bile la nostra fede. Vi è un’intuizione di fondo dietro al progetto, che può essere
così sintetizzata: far passare l’evangelizzazione della Chiesa italiana, cioè il suo
compito proprio e naturale, attraverso un rinnovato e più intenso confronto cri-
tico con le forme della cultura diffusa, per dare continuità anche per il futuro alla
valorizzazione dell’eredità cristiana che ha alimentato e costruito la nostra civiltà9.

Se obiettivo essenziale di queste pagine fosse l’addentrarsi nelle dina-


miche della Chiesa italiana, nel quadro inevitabile dei suoi nessi con la
Santa sede, allora sarebbe indispensabile chiarire che lì si compì anche
un’operazione politico-ecclesiastica la cui messa a fuoco è molto impor-
tante per cogliere le peculiarità di quell’intero periodo della storia del-
la Chiesa italiana, e anche probabilmente del successivo. La presidenza
Ruini, iniziata nel marzo 1991 ma già anticipata dal ruolo di segretario
generale della stessa Conferenza da lui ricoperto a partire dal giugno
1986 sempre per mandato fiduciario del pontefice Giovanni Paolo ii10,
trovava infatti nella svolta del 1995 l’ulteriore rafforzamento di un ruo-
lo che si sarebbe forse dispiegato comunque, ma privo di quel carattere
di urgenza e di inesorabilità di cui Ruini al contrario poté avvalersi nel
successivo decennio in più direzioni. Ad esempio nei confronti di un
episcopato nazionale che ancora a Loreto nel 1985 aveva riconosciuta la
non sottovalutabile autorevolezza del cardinal Martini, anche a specifica
protezione dell’eredità del concilio Vaticano ii. Poi nei riguardi di quel
complesso ed estremamente multiforme sistema di realtà istituzionali e
associative che risultavano operanti nel paese e che con poche eccezioni
vennero indotte, come si è visto, a compattarsi sulle linee di pensiero e
di azione tracciate dalla Conferenza episcopale. Infine nei rapporti con
quello Stato italiano che, per effetto della revisione concordataria effet-
tuata nel 1984, aveva ora nella presidenza della cei un interlocutore di-
retto e dotato anche sul piano formale di poteri di negoziato11.
Seguendo invece il filo rosso del ruolo che nel corso dell’Ottocen-
to-Novecento è stato di volta in volta richiesto/attribuito/sottratto al
laicato cattolico nazionale sullo sfondo delle dinamiche sopra descritte,
occorre rilevare che la nuova congiuntura aperta dalla fine della dc to-
glieva nei fatti a quel laicato uno strumento assai delicato rispetto alla
possibilità per il laicato stesso di svolgere un ruolo pubblico specifico
e decisivo nella secolare dialettica tra Chiesa e società italiana. Il ruolo
cioè di mediatore politico unico e dunque in certa misura inaggirabile:
sia per la Santa sede e la cei nei confronti dello Stato, sia per la società
italiana nei confronti dei vertici della Chiesa cattolica. Società italiana
174 società, stato e chiesa in italia

qui intesa non come aggregato della popolazione nazionale, ma piutto-


sto quale articolato sistema di corpi intermedi operanti nei settori dell’e-
conomia, della cultura e appunto della politica.
Ciò non comportò il venir meno del ruolo di singoli leader politici
cattolici, ma questi non poterono più operare come autorevoli guide di
un partito della forza e della tradizione della dc, bensì e tutt’al più come
attori non protagonisti chiamati a una tattica di schieramento nel nuovo
sistema parlamentare maggioritario.
La lista dei suddetti leader potrebbe essere lunga: da Pierferdinando
Casini a Clemente Mastella, da Roberto Formigoni a Rocco Buttiglio-
ne, in un intreccio non privo di emblematicità fra ex democristiani, ciel-
lini prestati alla politica e intellettuali cattolici vicini al pontefice. E non
meno lunga la serie di eventi che assistettero tra la metà degli anni no-
vanta e la fine del successivo decennio a scissioni, aggregazioni, passaggi
da uno schieramento all’altro del sistema maggioritario: tutto questo
nella condivisa e spesso reciprocamente antagonista intenzione di ridare
vita sotto nuove spoglie al partito unico dei cattolici, geneticamente col-
locato al centro della vita politica e sociale del paese.
Ma che ciò costituisse più che un segno di vitalità il disvelamento del-
la modesta caratura di un ceto politico forse mai asceso oltre il livello del
dignitoso affiancamento degli antichi leader, trova conferma nel fatto
che in quello stesso arco di tempo i vertici sia della cei che della Segre-
teria di Stato vaticana12 hanno operato direttamente sulla vita politica
italiana, rafforzando o indebolendo con le proprie prese di posizione i
governi nazionali da allora succedutisi.
Aspetto degno di un certo interesse, per meglio comprendere sia le
priorità che i fattori di giudizio che hanno alimentato la suddetta linea,
è il fatto che essa si è concretamente sviluppata senza alcun nesso con l’ef-
fettiva appartenenza o meno di un capo di governo alle fila del cattolice-
simo nazionale. Quasi che l’indifferenza che è stata nel corso del tempo
ripetutamente teorizzata dai vertici della Santa sede e poi dalla stessa cei,
riguardo alla natura dei governi degli Stati di volta in volta assunti come in-
terlocutori, si estendesse alla persona del capo di governo: cattolico o non
cattolico, asceta o epicureo che fosse. In tal senso la storia italiana soprat-
tutto successiva al 2001 rappresenta un caso straordinariamente significati-
vo. Basti pensare al sostegno più o meno coerentemente offerto ai governi
Berlusconi sviluppatisi tra il 2001-06 e il 2008-11, a fronte della evidente
idiosincrasia per il governo Prodi del 2006-08, fino alla sua caduta di fine
gennaio 2008 certamente non sgradita alla passata presidenza cei13.
nella realtà contemporanea 175

Sul piano congiunturale la spiegazione può apparire ovvia: i governi


di centrodestra, e le corrispettive maggioranze parlamentari, hanno cer-
tamente operato – se per condivisione di valori o per opportunismo è
questione aperta – per rassicurare gli obiettivi tradizionali della Chiesa
italiana in materia di famiglia, scuola privata, sostegno finanziario me-
diante il cosiddetto 8 per mille (gestito dalla stessa cei); mentre il se-
condo governo Prodi (dopo il primo del 1996-98) si è altrettanto chiara-
mente incamminato, in nome di un’accentuazione del profilo laico dello
Stato italiano esigito in prevalenza dalla componente di sinistra della sua
coalizione, su strade particolarmente delicate per la sensibilità cattolica
più tradizionale: come i pacs e i dico14, e prima ancora la legge 194
(relativa all’interruzione di gravidanza) e il referendum sulla legge 40
(fecondazione assistita).
Se tuttavia esaminiamo tutto questo in una prospettiva di più lun-
go periodo è possibile formulare l’ipotesi che, mutatis mutandis, si è
riproposta una linea tutto sommato analoga a quanto già avvenuto in
Italia all’indomani della Prima guerra mondiale, quando il Partito po-
polare pochi anni dopo la sua fondazione da parte di don Sturzo venne
sacrificato sull’altare del più funzionale diretto negoziato con il governo
fascista. Poco importò allora che tale governo avesse di fatto posto la
parola fine a un sistema politico parlamentare e dunque sostanzialmente
democratico, ancorché fondato su tradizioni elitarie; così come poco ha
importato in epoca recente lo scenario in cui si è delineata la parabola
pubblica e privata del capo del governo negli anni 2001-06 e 2008-11.
E questo mentre si riorganizzavano con tenace determinazione le orga-
nizzazioni del laicato cattolico in vista della difesa, per riprendere le già
citate parole di Betori, di:

una visione del mondo cristiana, consapevole delle proprie radici e della propria
pertinenza nelle questioni vitali, fiduciosa circa le proprie potenzialità nel dia-
logo con la cultura contemporanea per renderci capaci, tutti, di dire in modo
originale e plausibile la nostra fede.

Se questo si è verificato15, allora davanti al riemergere ciclico di tale me-


todica occorre chiedersi quale sia la vera concezione che la componente
ecclesiastica ha avuto e forse tuttora ha del ruolo del laicato all’interno del
mondo cattolico italiano nel suo complesso. È chiaro infatti che le vicende
sopra ricordate supportano la sensazione che il suddetto ruolo continui a
essere visto come meramente complementare e sussidiario rispetto a quel-
176 società, stato e chiesa in italia

lo tradizionalmente centrale svolto dalla componente ecclesiastica stessa.


Laddove complementare e sussidiario non vanno intesi nel senso di super-
fluo, ma senza dubbio nel senso di subordinato e bisognoso di indirizzo.
In ambiti concernenti la ritualità, la sacramentalità, l’ambito liturgico
in genere, questo fenomeno improntato a centralità degli uni e comple-
mentarità degli altri può apparire ovvio: se non altro all’interno della plu-
risecolare tradizione del pensiero e della prassi cattolica. Che questo tutta-
via si estenda alle problematiche sociali, politiche e in genere a quelle che in
ambito teologico verrebbero evocate come realtà terrene sembra piuttosto
una recente involuzione, il ritorno a un passato che si immaginava superato
in via definitiva: se non altro dalle linee ben diversamente orientate che
si svilupparono maggioritariamente nel dibattito vero e proprio, e anche
seppure in forma più edulcorata nei testi del concilio Vaticano ii.
Sul piano meramente lessicale è certamente vero che la formula «co-
operazione all’apostolato gerarchico» presente nel rinnovato statuto
dell’ac del 2003 non è per nulla inedita, richiamando anzi categorie del
tutto tradizionali e che abbiamo incontrato nell’evoluzione del rappor-
to tra componente ecclesiastica e componente laicale organizzata del
cattolicesimo italiano già negli anni venti del Novecento. Il problema,
però, è rappresentato dal come poi concretamente declinare tutto que-
sto. A tal proposito, ad esempio, si potrebbe sottolineare che anche il
principio secondo il quale il laico cattolico possa ritenersi adulto risul-
ta reiteratamente ribadito in documenti pubblici appartenenti alla fase
storica successiva al concilio (tra l’altro espressamente richiamantisi a
testi del Vaticano ii) e protrattasi seppure nelle diverse forme sopra trat-
teggiate fino ai giorni più recenti.
Eppure quanto ciò sia effettivamente riconosciuto, soprattutto quan-
do il principio s’incrocia con il problema della formulazione di autono-
me linee di azione connesse all’esercizio di eventuali funzioni pubbliche
in ambito sociale o politico, è questione tutt’altro che risolta16.

Nuove parole d’ordine


per avanzare verso il passato
Ormai giunti alla fine di questa complessiva sintesi, per focalizzare con
maggiore chiarezza quali siano le idee di fondo che si stanno confron-
tando tra loro e che orientano tuttora le scelte maggiori del mondo cat-
nella realtà contemporanea 177

tolico ben al di là della minuta cronaca degli ultimi anni e anche del più
ravvicinato presente, può essere utile metterne a fuoco da ultimo alcuni
aspetti essenziali, i cui contorni sono più facilmente inquadrabili in una
prospettiva di lungo periodo che non appunto nel continuo scorrere del-
la dialettica quotidiana.
Quella che venne vissuta dalla maggioranza degli appartenenti alla
Chiesa cattolica di fine Settecento e di buona parte dell’Ottocento
come una vera e propria catastrofe, vale a dire l’avvento nelle sue diverse
forme della modernità nel sistema occidentale, aveva trovato nel corso
della fase che va dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del Novecento
una risposta progressivamente sempre più definita, sia dal punto di vista
tattico che strategico: il superamento della logica del muro contro muro
tipica del primo intransigentismo, per accedere all’utilizzo degli stru-
menti del sistema parlamentare e liberale al fine di sconfiggere i processi
di secolarizzazione e ricristianizzare la società stessa. Nel caso italiano,
poi, l’acquisizione nel secondo dopoguerra del controllo della vita poli-
tica e dunque dello Stato grazie al ruolo saldamente baricentrico del par-
tito cattolico sembrò costituire un passaggio per taluni versi definitivo,
e per conseguenza da mantenere il più a lungo possibile. In tal senso gli
esiti della stagione rivoluzionaria tardosettecentesca sembravano tutto
sommato contenibili e di fatto contenuti.
In ultima analisi, e seppure nel quadro generale di una profonda tra-
sformazione dei sistemi politici e sociali, era stato ricostituito il ruolo
che il cattolicesimo aveva acquisito nel suo lungo percorso storico per
effetto di lontanissimi avvenimenti sulla cui base si era fondata, in suc-
cessione, la cristianizzazione altomedievale di un’Europa sopravvissuta
allo sfaldamento dell’impero universalistico romano, la costituzione di
una monarchia territoriale pontificia, l’emergere dell’universalismo pa-
pale come riferimento politico-religioso, il costituirsi in età moderna di
quel legame tra trono e altare che avrebbe accompagnato fino agli albori
dell’età contemporanea quell’Ancien régime messo infine in crisi dalla
stagione rivoluzionaria tardosettecentesca e dall’avvento, appunto, della
multiforme modernità.
A mettere in crisi sul piano dei princìpi quella sorta di riacquisito
equilibrio – che si presentava in realtà come la ricostruzione, con un’a-
bilità e una spregiudicatezza politica che non possono essere sottostima-
te, di un ruolo storico di lunghissima gittata e valenza – sarebbe arrivato
il concilio Vaticano ii: il cui concepimento venne giudicato dall’allo-
ra presidente della cei Giuseppe Siri come «un quarto d’ora di follia
178 società, stato e chiesa in italia

di Giovanni xxiii»17. Non tanto e non solo per il contenuto dei suoi
documenti ufficiali – per un verso assai significativi, per l’altro frutto
come si è detto di una meticolosa intersezione tra elementi innovativi e
di conservazione –, quanto per alcune idee-chiave che interpellano di-
rettamente le problematiche che abbiamo esaminato e che rompevano,
soprattutto nella percezione dell’evento da parte dei suoi contempora-
nei, la spessa coltre ideologica sulla quale il suddetto ruolo storico del
cattolicesimo si era venuto fondando e mantenendo in vita nei secoli.
Una di tali idee era connessa alla cosiddetta fine dell’età costantinia-
na: cioè della più che millenaria concezione di una Chiesa del tutto in-
serita a guida, ora direttamente ora indirettamente, delle società. Una
seconda era imperniata sul dialogo con la contemporaneità, anche nelle
sue forme di laicità meno vicine al mondo cattolico. Una terza, operante
dentro la Chiesa, volta a dare dignità e fisionomia adulta alla presenza
del laicato all’interno di un’istituzione da sempre incentrata sulla figura
del chierico, ad eccezione del periodo delle sue origini e in rari ancorché
significativi momenti e contesti della sua evoluzione storica.
Appare dunque evidente che il concilio Vaticano ii non ha solo rap-
presentato un momento di svolta ineguagliato nella storia del cattolice-
simo contemporaneo. Proprio per il ruolo svolto si è infatti aperta at-
torno ad esso una battaglia interpretativa di portata globale e giocata in
forme diverse: talvolta con le armi dell’attacco frontale, talaltra in modo
più felpato e ambiguo.
La reazione anticonciliare più eclatante è fenomeno sul quale molta
importante storiografia si è già cimentata: lo abbiamo ricordato. Tanto
più che nel corso dell’ultimo decennio si è avuta la sorprendente ripresa,
con prospettive di auspicata soluzione, del caso Lefebvre. Ciò che meri-
ta invece una maggiore attenzione è il come si stia sviluppando paralle-
lamente un processo di meno appariscente rimessa in discussione delle
idee-chiave scaturite dal Vaticano ii e sopra evocate.
In questo 2013 ricorrerà il diciassettesimo centenario della svolta del
313 d.C. con la quale l’imperatore Costantino riconobbe la liceità della
pubblica professione della fede cristiana all’interno dell’impero roma-
no, dando così vita a quella che poi in sede storiografica sarebbe stata
appunto definita come l’età costantiniana della Chiesa. Sarà natural-
mente di grande interesse vedere nei prossimi mesi come tale ricorrenza
verrà declinata rispetto a tematiche quali le radici cristiane dell’Europa,
il contributo del cattolicesimo alla costruzione della civiltà occidentale
e così via.
nella realtà contemporanea 179

Cruciale, e non da ora, appare invece il tema della laicità, intesa come
principio fondativo e di costante riferimento per definire i limiti entro
cui uno Stato che si concepisca come non confessionale operi a tutela
di tutti i propri cittadini, senza forme di discriminazione derivanti dal-
la fede religiosa. Il problema è antico, ma ha ricevuto ulteriore recente
sollecitazione perché nel corso degli ultimi anni alla classica diatriba tra
confessionalismo e laicità nel rapporto tra cattolicesimo e Stato si è in-
serito con forza il problema dei massicci fenomeni migratori che hanno
accentuato sul territorio nazionale una reazione identitaria con venature
xenofobe, rispetto alla quale – soprattutto per ciò che attiene allo svi-
lupparsi di una crescente manifestazione pubblica della pratica religiosa
islamica – il mondo cattolico nelle sue diverse sfaccettature ha espresso
orientamenti piuttosto articolati. In tale scenario non è mancato chi, sia
sul piano politico che su quello religioso, ha costruito l’idea di una nuo-
va laicità, altrimenti definita come sana o legittima18.
È tuttavia soprattutto sull’uso generalizzato del termine nuovo che
vorrei soffermarmi. Se da un lato infatti sarebbe improponibile negare
che la storia abbia registrato negli ultimi decenni diversi passaggi crucia-
li, è altrettanto evidente che passaggi altrettanto cruciali e ben più dram-
matici si siano verificati in altre precedenti fasi della storia dell’Otto-
cento-Novecento. Perché dunque ribadire con tanta coerente insistenza
il concetto di novità applicato invariabilmente, nel contesto cattolico,
all’età più recente? La sensazione è che il lavorio diffuso nel trasmettere
l’idea di novità sia non tanto funzionale a un approfondimento ulterio-
re e progressivo in vista di auspicati traguardi futuri, quanto la via per
scavalcare a ritroso le stagioni indubbiamente problematiche costituite,
non solo ma anche dentro il cattolicesimo, dagli anni sessanta e settanta.
In fondo non è difficile vedere in questo eventuale disegno una certa
coerenza: ritorno della centralità della istituzione ecclesiale; forte accen-
tuazione della dimensione missionaria/proselitistica del ruolo del laica-
to, una volta definiti i temi chiave su cui organizzarne il lavoro culturale/
formativo; ruolo subordinato/funzionale del laicato stesso rispetto alla
componente ecclesiastica; recupero della centralità del messaggio reli-
gioso in funzione identitaria e distintiva sia nei confronti tradizionali
della laicità dello Stato di matrice occidentale sia nei riguardi più recenti
di antagonisti portatori di un diverso credo religioso e cosiddetto mo-
dello di civiltà.
È difficile invece trovare un insieme di idee e obiettivi che, nella loro
piena e legittima appartenenza al patrimonio di pensiero e prassi cat-
180 società, stato e chiesa in italia

tolica, non risultino anche più lontani dallo spirito che sorresse la con-
vocazione e almeno in parte lo svolgimento del Vaticano ii. Rispetto al
percorso storico che qui si è tentato di sintetizzare mi pare si tratti di un
significativo balzo verso il passato.

Un nuovo partito cattolico?


Guardando all’intero arco storico entro il quale abbiamo ripercorso il
dialettico rapporto tra cattolicesimo e società – e tenendo inoltre pre-
senti i princìpi generali e le diverse forme di concreta prassi messe in
opera riguardo alla vicenda italiana prima dai settori di vertice della San-
ta sede compresi i pontefici, e poi a partire dalla stagione postconciliare
da una Conferenza episcopale pervenuta alla sua composizione plenaria
attuale –, si può da ultimo tentare una provvisoria valutazione finale su
cosa sia accaduto negli ultimi mesi e cosa stia tuttora avvenendo in que-
sta fase di delicatissimo passaggio di una storia italiana che ancora una
volta sembra arrivata a un proprio decisivo crocevia.
La fine del iv governo Berlusconi avvenuta il 12 novembre 2011 è stata
certamente indotta dall’intervento del capo dello Stato, svolto nel qua-
dro delle proprie prerogative costituzionali di garante del sistema. De-
noterebbe tuttavia una certa semplificazione di lettura il non tenere in
debito conto che ciò è avvenuto anche a fronte della massiccia riduzione
di consenso nei confronti del governo che ha interessato negli ultimi
tempi vari settori del mondo cattolico italiano. Senza addentrarsi nel re-
ticolo di prese di posizione più o meno negativamente allusive da parte
di esponenti della Chiesa, peraltro bilanciate da altre di segno opposto e
da immediate controinterpretazioni prontamente messe in campo dallo
stesso governo per confondere le acque di uno scenario che invece assu-
meva ormai i connotati di un vero e proprio cambiamento di clima, uno
degli elementi simbolicamente più significativi su cui soffermarsi è stato
senz’altro lo svolgimento a Todi, il 16 e 17 ottobre 2011, del cosiddetto
Forum delle persone e delle associazioni di ispirazione cattolica nel mondo
del lavoro19.
Già la struttura dell’evento, pur in un’estrema concentrazione dei
lavori che sembrava confermare la volontà di inviare un messaggio più
che l’intenzione di approfondire tematiche in sé non prive di comples-
sità, dava la netta sensazione di un progetto tutt’altro che improvvisato.
Prolusione del presidente cei, il successore di Ruini cardinale Angelo
nella realtà contemporanea 181

Bagnasco. A seguire tre sezioni di lavoro. La prima: coordinata da Ber-


nhard Scholz (Compagnia delle Opere) e Andrea Olivero (acli), dal
titolo Ripartire dai valori per fare comunità, con relatore principale il ret-
tore dell’Università Cattolica Lorenzo Ornaghi. La seconda: moderata
da Sergio Marini (Coldiretti) e Giorgio Guerrini (Confartigianato), dal
titolo Leve per una stagione di sviluppo, con gli interventi di Corrado
Passera (all’epoca ceo di Intesa San Paolo) e Stefano Zamagni (presi-
dente dell’Agenzia per il terzo settore). La terza: coordinata da Luigi
Marino (Confcooperative) e Carlo Costalli (mcl), sul tema Costruire
una politica orientata al futuro, relatori Vittorio Emanuele Parsi (Uni-
versità Cattolica) e Giuseppe De Rita, presidente del censis. Interven-
to conclusivo di Raffaele Bonanni, segretario generale della cisl20.
Dunque: valori, economia, politica. Evidente era il nesso con la situa-
zione italiana di quei mesi, caratterizzata appunto: dal degrado morale
suggerito dal continuo emergere di evidenze a carico del capo del gover-
no; dalla patente situazione di stallo del governo medesimo di fronte
alla speculazione finanziaria in atto dall’inizio estate, con pesanti conse-
guenze sulle dinamiche del finanziamento pubblico mediante emissio-
ne di titoli di Stato; dalla precarietà di una maggioranza parlamentare
ormai politicamente inesistente e ostaggio di logiche di mera sopravvi-
venza legate alla protezione, a prescindere, dell’unico effettivo collante,
lo stesso Silvio Berlusconi con il relativo impero mediatico-finanziario.
Il messaggio non poteva essere più chiaro. E non a caso nella succes-
siva compagine di governo allestita dal nuovo incaricato Mario Mon-
ti sarebbero entrati sia partecipanti ufficiali all’incontro di Todi come
Corrado Passera che appartenenti a quella medesima area – per quanto
decisamente più coinvolti in forme di impegno cattolico diversamente
declinato – come Andrea Riccardi. Il tutto sotto l’esplicita benedizione
della Conferenza episcopale, rappresentata a Todi il 17 ottobre 2011 dal
suo presidente.
Tuttavia, è proprio esaminando l’intervento svolto in quella circo-
stanza dal cardinal Bagnasco che è possibile rendersi conto di quanto
l’intero sviluppo delle vicende di quei mesi, con le dimissioni di Berlu-
sconi, l’assunzione dell’incarico di governo da parte di Mario Monti,
l’aprirsi di una stagione nella quale molti hanno avuto la sensazione di
un cambiamento quasi epocale – se epocale poteva definirsi quella che
venne diffusamente percepita come la fine del berlusconismo –, nascon-
desse perlomeno rispetto alle attese dei non cattolici una sorta di pesan-
te equivoco: quasi che ciò che stava avvenendo rappresentasse una sorta
182 società, stato e chiesa in italia

di palingenesi di un’Italia che finalmente, oltre a ritrovare un indubbio


insieme di stile, dignità, equilibrio, fosse riorientata verso un cammino
di modernità.
In realtà l’intervento di Bagnasco ripresentava, con toni magari più
sfumati rispetto ad altri prelati ma comunque in totale sintonia con va-
rie affermazioni del medesimo tenore formulate da papa Benedetto xvi,
pressoché l’intero armamentario che ha storicamente caratterizzato il
cattolicesimo tardonovecentesco: riproposizione insistita del diritto na-
turale come fonte primaria per la individuazione del modello antropo-
logico corretto; laicità dello Stato interpretata alla luce delle aggettiva-
zioni “vera laicità” e “laicità positiva”; attacco contro modelli di società
ritenuti portatori di una cultura cinica e forse antiumana; difesa dei co-
siddetti valori non negoziabili. Per affermare, a fondamento dell’intero
discorso:

Senza questa visione, paragonabile al tesoro nascosto nel campo o alla perla pre-
ziosa, l’ordine sociale e civile si deforma e progressivamente si allontana dall’uo-
mo. È con questo patrimonio universale che la comunità cristiana deve animare
i settori prepolitici nei quali maturano mentalità e si affinano competenze, dove
si fa cultura sociale e politica21.

La vera novità, che certamente sussisteva, era dunque riassunta se non


esaurita nell’abbandono dell’ormai consunta e impresentabile partner-
ship berlusconiana, per ritrovare il piglio delle fasi in cui il cattolicesimo
ha deciso di riprendere in mano le sorti della nazione, facendo leva sulla
propria indiscussa ramificata presenza di massa.
A costo di sembrare ripetitivi, è di nuovo il radiomessaggio pontificio
del Natale 1942 a far trasalire, che lo si veda con occhio partecipe o pre-
occupato. Ed è proprio quella specifica congiuntura storica a ricordare
che nel cammino dell’Italia, prima che arrivasse il 25 aprile, dopo il 25
luglio venne l’8 settembre.
Note

1
Dall’Ancien régime allo sconvolgimento
della modernità secolarizzata
1.  Ch. L. de Montesquieu, Viaggio in Italia, a cura di G. Macchia e M. Colesanti, La-
terza, Bari 1971, p. 124.
2.  Citato in L. Meluzzi, I vescovi e gli arcivescovi di Bologna, s.n., Bologna 1975, p. 464.
3.  Il dato in G. Battelli, Fra età moderna e contemporanea (secoli xix e xx), in P. Prodi, L.
Paolini (a cura di), Storia della Chiesa di Bologna, Bolis, Bergamo 1997, p. 288.
4.  Il fenomeno sarebbe stato rilevato tra l’altro durante il viaggio in Sicilia compiuto
da Alexis de Tocqueville nel 1827, con una sottolineatura che aggiungeva elementi di
discredito a carico di quegli stessi moines già evocati da Montesquieu: «I soli grandi
proprietari fondiari sono in Sicilia i nobili e più ancora le comunità monastiche, due
classi incuranti di ogni miglioria e da tempo abituate ai redditi di loro spettanza […].
Quanto ai monaci, abitudinari per natura, consumano tranquillamente i loro redditi
senza pensare di accrescerli» (A. de Tocqueville, Viaggi, a cura di U. Coldagelli, Bollati
Boringhieri, Torino 1997, p. 11).
5. Ex non per sua volontaria uscita dall’ordine, ma per la ricordata soppressione della
Compagnia di Gesù sancita da papa Clemente xiv nel luglio 1773.
6.  Citato in C. Bona, Le «Amicizie». Società segrete e rinascita religiosa (1770-1830),
Deputazione subalpina di storia patria, Torino 1962, p. 479.
7.  «Io giuro e prometto su i Santi Evangelj ubbidienza e fedeltà al Governo della Repub-
blica Italiana. Similmente prometto che non terrò alcuna intelligenza, non interverrò in
alcun consiglio, e non prenderò parte in alcuna unione sospetta, o dentro o fuori della Re-
pubblica, che sia pregiudizievole alla pubblica tranquillità: e manifesterò al Governo ciò
ch’io sappia trattarsi o nella mia Diocesi o altrove in pregiudizio dello Stato» (citato in C.
Capra, L’età rivoluzionaria e napoleonica in Italia 1796-1815, Loescher, Torino 1986, p. 185).
8.  Citato in G. Miccoli, Chiesa e società in Italia tra Ottocento e Novecento: il mito della
cristianità, in Id., Fra mito della cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-
società nell’età contemporanea, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 25.
9.  Rimangono di grande interesse a tale proposito le acute considerazioni di E. Poulat,
Chiesa contro borghesia. Introduzione al divenire del cattolicesimo contemporaneo, Ma-
rietti, Casale Monferrato 1984.
184 società, stato e chiesa in italia

10.  Uno sguardo complessivo al fenomeno in P. Gay, Il secolo inquieto. La formazione


della cultura borghese (1815-1915), Carocci, Roma 2002.
11.  Su tutto questo si veda D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Einau-
di, Torino 1993, pp. 15 ss.
12.  Citato in G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma
19743, p. 17.
13.  Ivi, p. 26.
14. Gregorio xvi, Mirari vos, 15 agosto 1832, in E. Momigliano e G. M. Casolari (a cura
di), Tutte le encicliche dei Sommi pontefici, vol. i, Dall’Oglio, Milano 19905, pp. 187-8.
15.  Reazioni negative si ebbero ad esempio da parte degli intellettuali raccolti attorno a
Gian Pietro Vieusseux nell’omonimo Gabinetto scientifico letterario fondato a Firenze
nel 1820. Fra di essi, il sopra citato Niccolò Tommaseo.
16. Candeloro, Il movimento cattolico, cit., p. 51.

2
Gli anni del muro contro muro:
il primo intransigentismo
1.  Sul caso specifico di Tommaseo cfr. G. Verucci, Il cattolicesimo liberale e sociale di Nic-
colò Tommaseo, in Id., Cattolicesimo e laicismo nell’Italia contemporanea, FrancoAngeli,
Milano 2001, pp. 117-33.
2.  Pagine tuttora di grande validità in F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religio-
ne e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese, Marzorati, Milano 1970.
3.  Uno di questi, che avrebbe avuto un certo rilievo nella futura vicenda della perdita dei
territori emiliano-romagnoli da parte papale nel 1859-60, fu l’unificazione nel 1850 delle
quattro precedenti legazioni di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna, nell’unica Legazione
delle Romagne con capitale Bologna. Le Legazioni pontificie erano i territori settentrio-
nali dello Stato della Chiesa: così chiamate perché il loro diretto governo era affidato a un
delegato del papa (il Legato, appunto). Tra le “riforme” che nel 1847 avevano alimentato
speranze di venature costituzionaliste nello Stato pontificio vi era invece l’attivazione di
una Consulta di Stato composta da rappresentanti territoriali anche laici scelti dal papa ma
sulla base di terne proposte dalle amministrazioni locali, e l’attivazione di un Consiglio dei
ministri – peraltro di integrale composizione ecclesiastica – costituito da nove dicasteri.
4.  La più suggestiva ricostruzione rimane quella proposta in G. Miccoli, Chiesa e socie-
tà in Italia tra Ottocento e Novecento: il mito della cristianità, in Id., Fra mito della cristia-
nità e secolarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-società nell’età contemporanea, Marietti,
Casale Monferrato 1985, pp. 42 ss.
5.  In G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 19743, p. 92
(in francese nell’originale).
6.  Citato in G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età
giolittiana, Laterza, Bari 19722, p. 34.
7.  Discorsi parlamentari del conte Camillo di Cavour. Raccolti e pubblicati per ordine
della Camera dei Deputati, vol. xi, Botta, Torino 1872, pp. 345-6.
note 185

8.  In effetti, fatta salva la tradizionale nomina dei vescovi riservata all’imperatore, l’in-
sieme del concordato del 1855 giustifica la seguente considerazione di Jemolo: «Il modo
con cui l’opinione liberale pubblica europea, senza eccezioni, giudicò il Concordato,
qualificato come abdicazione dello Stato alla Chiesa, era sufficiente a mostrare quale
vittoria esso costituisse per Roma» (A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi
cento anni, nuova ed. riveduta e ampliata, Einaudi, Torino 1963, p. 294).
9. Pio ix, Allocuzione Iamdudum cernimus, 18 marzo 1861, in “La Civiltà cattolica”, 12,
1861, serie iv, vol. x, p. 12.
10.  G. Martina, Pio ix (1851-1866), Pontificia Università Gregoriana, Roma 1986, p. 293.
11. Pio ix, Syllabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores, 8 dicembre 1864, in
“La Civiltà cattolica”, 16, 1865, serie vi, vol. i, pp. 23 ss. Una recente riedizione, con
commento e analisi storica, in L. Sandoni (a cura di), Il Sillabo di Pio ix, introd. di D.
Menozzi, clueb, Bologna 2012.
12.  In P. Renouvin (a cura di), Storia politica del mondo, vol. v, Vallecchi, Firenze 1974,
p. 522.
13. Ivi.
14.  Citato in De Rosa, Il movimento cattolico in Italia, cit., p. 45.
15.  L’espressione completa era: «attentis omnibus circumstantiis non expedit…» (te-
nuto conto di tutte le circostanze non è opportuno…).
16.  Dal discorso di Giuseppe Sacchetti, cit. in De Rosa, Il movimento cattolico in Italia,
cit., p. 83.
17.  È da qui che prenderà le mosse una proposta storiografica divenuta classica – e non
estranea, da posizioni laiche, a una evidente volontà di risultare alternativa rispetto alle
ricostruzioni di matrice cattolico-liberale e gramsciana offerte rispettivamente da Jemo-
lo e da Candeloro (le si trova citate nelle note di queste pagine) – del ruolo dell’associa-
zionismo cattolico intransigente di fine Ottocento: G. Spadolini, L’opposizione cattolica
da Porta Pia al ’98, Mondadori, Milano 1954 e varie successive riedizioni.

3
Dalla protesta al progetto di riconquista:
il secondo intransigentismo
1.  In sostanza, l’autorizzazione formale a operare sul territorio corrispondente alla cir-
coscrizione diocesana mediante i classici strumenti della conduzione della vita religio-
sa: emanazione di lettere pastorali, celebrazione di riti pubblici ecc.
2.  A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, nuova ed. riveduta e
ampliata, Einaudi, Torino 1963, p. 294.
3.  Citato ivi, p. 297.
4.  Per la soluzione del problema romano. Proposte e criterii, in “La Civiltà cattolica”, 38, 1887,
serie xiii, vol. vi, p. 400. L’intervento era peraltro in linea con le reiterate denunce contro
la massoneria fatte dallo stesso pontefice Leone xiii. Cfr. tra l’altro l’enciclica Humanus
genus dell’aprile 1885. Su questo si veda G. Miccoli, Leone xiii e la massoneria, in G. M.
Cazzaniga (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. 21, Einaudi, Torino 2006, pp. 193-243.
186 società, stato e chiesa in italia

5. Leone xiii, Immortale Dei, 1° novembre 1885, in http://www.vatican.va/holy_fa-


ther/leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_01111885_immortale-dei_it.html.
6.  In G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 19743, p. 258.
7.  A. Erba, Preti del sacramento e preti del movimento. Il clero torinese tra azione cattolica
e tensioni sociali in età giolittiana, FrancoAngeli, Milano 1984.
8. L’enciclica Arcanum divinae sapientiae, 10 febbraio 1880, per il cui testo cfr.
http://www.vatican.va/holy_father/leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_
enc_10021880_arcanum_it.html.
9.  G. M. Radini Tedeschi, Azione femminile cattolica, cit. in G. Battelli, Il prete e la
donna. Tracce dall’immaginario ecclesiastico di fine Ottocento inizio Novecento, in G.
Vecchio (a cura di), Mazzolari, la Chiesa del Novecento e l’universo femminile, Morcel-
liana, Brescia 2006, p. 40. Il riferimento al manifesto dello stesso Radini è contenuto in
P. Gaiotti De Biase, Le origini del movimento cattolico femminile, Morcelliana, Brescia
1963, p. 22 (nuova ed. 2002).
10.  A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei congressi (1874-1904). Contributo
per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Pontificia Università Gregoriana, Roma
1958, pp. 716-7.
11.  Cit. in R. Sgarbanti, Ritratto politico di Giovanni Grosoli, Cinque Lune, Roma 1959,
p. 354.
12.  Per una recente sintesi dell’intera problematica cfr. G. Vian, Il modernismo. La
Chiesa cattolica in conflitto con la modernità, Carocci, Roma 2012.
13. Pio x, Pieni l’animo, 28 luglio 1906, in E. Momigliano, G. M. Casolari (a cura di),
Tutte le encicliche dei Sommi pontefici, vol. i, Dall’Oglio, Milano 19905, p. 572. Nel sito del-
la Santa sede che propone online i documenti dei papi da Leone xiii in poi il testo risulta
al momento disponibile nella sola versione inglese: http://www.vatican.va/holy_father/
pius_x/encyclicals/documents/hf_p-x_enc_28071906_pieni-l%27animo_en.html.
14.  Per quanto bicamerale, il parlamento italiano dell’epoca prevedeva elezioni solo
per la Camera dei deputati: si accedeva al Senato per nomina regia.

4
Grande guerra e fascismo:
l’accordo con lo Stato
1.  Su tutto questo D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegitti-
mazione religiosa dei conflitti, il Mulino, Bologna 2008, in particolare pp. 15-46.
2.  Sul nesso religione-patria nella presenza di religiosi italiani in Somalia cfr., ad es.,
L. Ceci, Il vessillo e la croce. Colonialismo, missioni cattoliche e islam in Somalia (1903-
1924), Carocci, Roma 2006.
3.  Una recente sintesi in E. Gentile, La Grande guerra e la rivoluzione fascista, in A.
Melloni (a cura di), Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, vol. i, Istituto
della Enciclopedia italiana, Roma 2011, pp. 247-59.
4.  A riguardo si veda R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e
preti-soldati (1915-1919), Studium, Roma 1980.
note 187

5.  Per uno specifico raccordo F. De Giorgi, Il soldato di Cristo (e il soldato di Cesare), in
M. Franzinelli, R. Bottoni (a cura di), Chiesa e guerra. Dalla benedizione delle armi alla
«Pacem in terris», il Mulino, Bologna 2005, pp. 129-61.
6.  Nazionalismo e amor di patria secondo la dottrina cattolica, in “La Civiltà cattolica”,
66, 1915, vol. i, pp. 129-44. Più in generale, sul contributo di tale stampa al conflitto, cfr.
P. Giovannini, Cattolici nazionali e impresa giornalistica. Il trust della stampa cattolica
(1907-1918), Edizioni Unicopli, Milano 2001, pp. 261-305.
7.  I cattolici militanti e la preparazione sociale dei cattolici nell’ora presente. Lettera pa-
storale dell’episcopato della regione Flaminia, 1° marzo 1916, s.n., Bologna 1916, p. 14.
8.  Sulla questione, ripetutamente analizzata in sede storiografica, della diffidenza dei
cattolici italiani per la forma partito F. Traniello, La figura del partito nella cultura po-
litica del primo Novecento, in Id., Città dell’uomo. Cattolici, partito e Stato nella storia
d’Italia, il Mulino, Bologna 1990, pp. 99-137, spec. 104 ss.
9.  In G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 19743, p. 387.
10.  Il sistema elettorale italiano del tempo non prevedeva il voto femminile. Sarebbe
stato introdotto all’indomani della seconda guerra mondiale.
11.  Una ricostruzione complessiva in R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Ita-
lia dalla grande guerra alla marcia su Roma, 2 voll., il Mulino, Bologna 1991.
12.  È naturalmente noto che l’indiscusso modellatore e leader del fascismo aveva diret-
to fino al novembre 1914 il quotidiano del psi “Avanti!”, per venirne espulso a causa del
passaggio dal completo precedente antinterventismo dell’Italia nella Grande guerra a
posizioni opposte.
13.  Le elezioni anticipate che si erano tenute nel maggio 1921 avevano confermato il
20,5% per i popolari, mentre i socialisti per effetto della scissione dell’ala sinistra del
partito (Livorno, 1921), ma anche a causa delle intimidazioni fasciste, erano già scesi
in poco più di un anno dal 32,3% al 24,7% e il calo sembrava tutt’altro che destinato a
interrompersi.
14.  Una recente messa a punto storiografica in G. Albanese, La marcia su Roma, Later-
za, Roma-Bari 2008.
15.  Cit. in G. De Rosa, Il Partito popolare italiano, Laterza, Roma-Bari 19764, p. 217.
16. Pio xi, Ubi arcano Dei, 23 dicembre 1922, in http://www.vatican.va/holy_father/
pius_xi/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_19221223_ubi-arcano-dei-consilio_it.html.
17.  Ne conseguì, tra l’altro, un processo di ulteriore assimilazione delle altre associazio-
ni storiche del laicato cattolico, come ad es. la fuci. Sulla cui vicenda in quegli anni e
sul tentativo di resistere all’inglobamento da parte dell’ac si veda R. Moro, La forma-
zione della classe dirigente cattolica (1929-1937), il Mulino, Bologna 1979.
18.  Cit. in L. Ferrari, Una storia dell’Azione cattolica. Gli ordinamenti statutari da Pio xi
a Pio xii, Marietti, Genova 1989, p. 35.
19.  E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista,
nuova ed., Carocci, Roma 2008.
20.  Si apriva il periodo che in sede storiografica è stato ripetutamente denominato
come “gli anni del consenso”. Cfr. tra l’altro R. De Felice, Mussolini il duce. i: Gli anni
del consenso 1929-1936, Einaudi, Torino 1974.
21. Ferrari, Una storia, cit., pp. 84-5. Si veda inoltre M. C. Giuntella, I fatti del 1931 e la
formazione della “seconda generazione”, in P. Scoppola, F. Traniello (a cura di), I cattolici
tra fascismo e democrazia, il Mulino, Bologna 1975, pp. 185-233.
188 società, stato e chiesa in italia

22. Pio xi, Discorso ai soci della Gioventù cattolica romana, 19 ottobre 1923. Il discorso
si tenne all’indomani della promulgazione del nuovo statuto dell’ac.
23.  Su questo cfr. tra l’altro E. Gentile, Il culto del Littorio. La sacralizzazione della po-
litica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1993. Pagine interessanti in M. Paiano, Li-
turgia e regime fascista: l’apostolato liturgico di Emanuele Caronti tra le due guerre, in D.
Menozzi, R. Moro (a cura di), Cattolicesimo e totalitarismo. Chiese e culture religiose tra
le due guerre mondiali (Italia, Spagna, Francia), Morcelliana, Brescia 2004, pp. 127-69.
24.  Citato in Il ix congresso Eucaristico Nazionale, Bologna 6-11 settembre 1927, in “Bol-
lettino della diocesi di Bologna”, 18, 1927, p. 241.
25.  F. Malgeri, Chiesa, clero e laicato cattolico tra guerra e resistenza, in G. De Rosa (a
cura di), Storia dell’Italia religiosa, vol. iii: L’età contemporanea, Laterza, Roma-Bari
1995, pp. 301-34.

5
La ricostruzione guelfa dell’Italia:
la conquista dello Stato
1.  Sul ruolo complessivo del fenomeno nella percezione del cattolicesimo novecente-
sco Ph. Chenaux, L’ultima eresia. La Chiesa cattolica e il comunismo in Europa da Lenin
a Giovanni Paolo ii, Carocci, Roma 2011.
2.  Cit. in G. Verucci, La Chiesa nella società contemporanea. Dal primo dopoguerra al
concilio Vaticano ii, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 213.
3.  Ivi, p. 209.
4.  Non mancò chi, in riferimento a quella situazione e in particolare agli anni cin-
quanta, parlò a riguardo di «clero di riserva» (G. F. Poggi, Il clero di riserva. Studio
sociologico sull’Azione Cattolica durante la presidenza Gedda, Feltrinelli, Milano 1963).
5.  A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, nuova ed. riveduta e
ampliata, Einaudi, Torino 1963, p. 548.
6.  Per una raccolta di tali manifesti cfr. l’Appendice al volume di M. Casella, 18 aprile
1948. La mobilitazione delle organizzazioni cattoliche, Congedo editore, Galatina 1992.
7.  Per un inquadramento di tale prospettiva nella storia complessiva dell’Italia del se-
condo Novecento si vedano R. Gualtieri, L’Italia dal 1943 al 1992. dc e pci nella storia
della Repubblica, Carocci, Roma 2006, e G. Scirè, La democrazia alla prova. Cattolici e
laici nell’Italia repubblicana degli anni Cinquanta e Sessanta, prefazione di M. G. Rossi,
Carocci, Roma 2005.
8.  Cit. in G. Miccoli, La Chiesa di Pio xii nella società italiana del dopoguerra, in Storia
dell’Italia repubblicana, vol. i: La costruzione della democrazia, Einaudi, Torino 1994,
p. 566.
9.  L. Palma, Metodo dell’apostolato capillare, in “Iniziativa”, dicembre 1951.
10.  Sulla vicenda, e ancor più sull’intera parabola della gc del periodo, cfr. F. Piva,
“La Gioventù cattolica in cammino…”. Memoria e storia del gruppo dirigente (1946-1954),
FrancoAngeli, Milano 2003.
11.  M. Rossi, Gli italiani hanno votato, in “Gioventù”, 14 giugno 1953.
note 189

12.  Un clima che avrebbe tra l’altro spinto Giovanni Battista Montini, già brillan-
te funzionario della Curia romana e da poco trasferito a Milano come arcivescovo, a
dichiarare privatamente attorno al 1955: «Tempi difficili corrono. Tempi in cui non
basta neppure la prudenza, ma la prudenza deve divenire astuzia» (cit. in N. Fallaci,
Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Milano libri edizioni, Milano
19774, p. 247, n 27).
13.  Se ne veda una valutazione ad uso personale che Roncalli affidò alle proprie agende
private. Cfr. la monumentale edizione critica A. G. Roncalli-Giovanni xxiii, Pace e
Vangelo. Agende del patriarca, vol. ii: 1956-1958, ed. critica e annotazione a cura di Enrico
Galavotti, Istituto per le scienze religiose-Fondazione per le scienze religiose Giovanni
xxiii, Bologna 2008, p. 322 e note.
14. Giovanni xxiii, Discorso di incoronazione, 4 novembre 1958, in A. Alberigo, G.
Alberigo, Giovanni xxiii: profezia nella fedeltà, Queriniana, Brescia 1978, p. 264.

6
L’imprevisto di Giovanni xxiii e del concilio:
la stagione dell’utopia (cattolica)
1.  Per tale impostazione cfr., ad es., A. Riccardi, Il potere del papa. Da Pio xii a Paolo vi,
Laterza, Roma-Bari 1988.
2.  E. Fouilloux, Straordinario ambasciatore? Parigi 1944-1953, in G. Alberigo (a cura
di), Papa Giovanni, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 67-95.
3.  Anche se non si tratta della problematica qui più direttamente affrontata, si veda in
proposito G. Ruggieri, Appunti per una teologia in papa Giovanni, ivi, pp. 245-71.
4.  A tale riguardo G. Miccoli, Sul ruolo di Roncalli nella Chiesa italiana, ivi, pp.
175-209.
5.  Un’analisi complessiva in A. Giovagnoli, Il partito italiano. La dc dal 1942 al 1994,
Laterza, Roma-Bari 1996.
6.  L. Ferrari, L’Azione cattolica in Italia dalle origini al pontificato di Paolo vi, Querinia-
na, Brescia 1982, p. 55.
7.  G. Verucci, La Chiesa postconciliare, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. ii/2, Ei-
naudi, Torino 1995, p. 305.
8.  La più importante ricostruzione storiografica complessiva del concilio è costituita, a
tutt’oggi, da A. Melloni (a cura di), Storia del concilio Vaticano ii, diretta da G. Alberigo,
5 voll., Peeters/il Mulino, Bologna 1995-2001.
9.  Sull’importanza e il contenuto del documento rimane di grande rilievo il contributo
a quattro mani di G. Alberigo, A. Melloni, L’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia di Gio-
vanni xxiii (11 ottobre 1962), in Fede tradizione profezia. Studi su Giovanni xxiii e sul
Vaticano ii, Paideia, Brescia 1984, pp. 187-283.
10.  Su questo si veda ora D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una
delegittimazione religiosa dei conflitti, il Mulino, Bologna 2008, spec. pp. 257 ss.
11.  M.-D. Chenu, La dottrina sociale della Chiesa. Origine e sviluppo (1891-1971), Que-
riniana, Brescia 19822, p. 48.
190 società, stato e chiesa in italia

12.  Conc. Vaticano ii, decreto Apostolicam actuositatem, 18 novembre 1965, in Enchiri-
dion Vaticanum, vol. i, Documenti del concilio Vaticano ii, edb, Bologna 1979, p. 523. Per
un’analisi approfondita del suo contenuto cfr. H. Sauer, Il concilio alla scoperta dei laici,
in Melloni, Storia del concilio Vaticano ii, cit., vol. iv, pp. 259-91.
13.  In particolare connessione con le linee di pensiero di J. Maritain, per ciò che attiene
al cosiddetto umanesimo integrale, ed E. Mounier, relativamente al personalismo comu-
nitario.
14. Paolo vi, Discorso all’onu, 4 ottobre 1965, in: http://www.vatican.va/holy_father/
paul_vi/speeches/1965/documents/hf_p-vi_spe_19651004_united-nations_it.html.
15.  V. Bachelet, La partecipazione dell’aci nella costruzione e missione della Chiesa oggi
in Italia, aprile 1968, in Ferrari, L’Azione cattolica in Italia, cit., p. 160.
16.  G. Martina, Storia della Chiesa. Da Lutero ai nostri giorni, nuova ediz. riveduta e
ampliata, vol. iv, L’età contemporanea, Morcelliana, Brescia 1995, p. 364.
17.  In particolare nella omelia del 29 giugno 1972. Se ne veda un resoconto con citazio-
ni in: http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1972/documents/hf_p-
vi_hom_19720629_it.html.
18.  Sul possibile nesso tra la linea tenuta dal card. Lercaro in merito ai bombardamenti
americani sul Vietnam del nord e l’intervento romano cfr. G. Battelli, Lercaro, Dossetti,
la pace e il Vietnam: “1° gennaio 1968”, in N. Buonasorte (a cura di), Araldo del Vangelo.
Studi sull’episcopato e sull’archivio di Giacomo Lercaro a Bologna 1952-1968, il Mulino,
Bologna 2004, pp. 185-304.

7
Chiesa e società italiana nel terzo Novecento:
l’incrinatura del potere
1.  G. Verucci, La Chiesa postconciliare, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. ii/2, Ei-
naudi, Torino 1995, p. 320.
2.  Numerosi dati, affiancati dal tentativo di cogliere le cause del fenomeno, sono rac-
colti in A. D’Urso, Le vocazioni sacerdotali in Italia. Studio teologico-pastorale con docu-
mentazione statistica (1946-1974), edb, Bologna 1975.
3. Verucci, La Chiesa postconciliare, cit., p. 331.
4.  Caratteristica spesso rilevata in opere sul movimento: S. Bianchi, A. Turchini (a
cura di), Gli estremisti di centro. Il neo-integralismo cattolico degli anni ’70. Comunione e
liberazione, Guaraldi, Rimini-Firenze 1975; F. Ottaviano, Gli estremisti bianchi. Comu-
nione e liberazione un partito nel partito, una chiesa nella chiesa, Datanews, Roma 1986.
5.  Su questo cfr. A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, il Mulino,
Bologna 2005.
6.  Da qui, come vedremo, sarebbero scaturite le importanti assise di Loreto 1985 (Ri-
conciliazione cristiana e comunità degli uomini), Palermo 1995 (Il Vangelo della carità per
una nuova società in Italia), Verona 2006 (Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo).
7. Paolo vi, Discorso in udienza generale, 10 settembre 1969, in: http://www.vatican.
va/holy_father/paul_vi/audiences/1969/documents/hf_p-vi_aud_19690910_it.html.
note 191

8.  Di quel think tank fecero tra l’altro parte figure del giornalismo e della politica ita-
liana che ritroveremo in seguito in ruoli di un certo rilievo nello schieramento di cen-
trodestra: tra di essi Roberto Formigoni, Maurizio Lupi, Paolo Liguori, Antonio Socci.
9.  J. Ratzinger, Rapporto sulla fede, a cura di V. Messori, Edizioni Paoline, Cinisello
Balsamo 1985.
10.  Discorso di Giovanni Paolo ii al convegno della Chiesa italiana, 11 aprile 1985, in:
http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1985/april/documents/
hf_jp-ii_spe_19850411_convegno-loreto_it.html.
11.  Vari elementi in proposito nel volume di M. Malpensa, A. Parola, Lazzati. Una
sentinella nella notte (1909-1986), il Mulino, Bologna 2005, pp. 669 ss.
12.  Negli anni finali del rettorato di Lazzati alla Università Cattolica anche lo scontro
con la componente ciellina che egemonizzava le assemblee studentesche fu di partico-
lare durezza.
13.  Per un’efficace ricostruzione dell’intera vicenda si veda D. Menozzi, La Chiesa cat-
tolica e la secolarizzazione, Einaudi, Torino 1993, pp. 232-63.
14.  I rispettivi interventi in G. Caprile, Il Sinodo dei vescovi. Settima Assemblea generale
ordinaria (1-30 ottobre 1987), Edizioni La Civiltà Cattolica, Roma 1989, pp. 281-3 (in-
tervento di Giussani) e 318-20 (intervento di Martini).
15.  “La Civiltà cattolica”, 140, 1989, vol. iv, p. 521.
16. Nel Protocollo addizionale, che accompagnava il testo vero e proprio del concorda-
to interpretandone i punti di possibile equivoco, veniva espressamente dichiarato: «Si
considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranen-
si, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano». Cfr. http://www.
governo.it/Presidenza/USRI/confessioni/accordo_indice.html.
17.  Giovanni Paolo ii, Lettera ai vescovi italiani, 6 gennaio 1994, in: http://www.
vatican.­va/holy_father/john_paul_ii/letters/documents/hf_jp-ii_let_06011994_re-
spons-catholic-people_it.html.

8
Nella realtà contemporanea:
tra nuovi strumenti e antichi obiettivi
1.  Riguardo al fondamentale contributo dato in tal senso dallo stesso pontefice Gio-
vanni Paolo ii si veda G. Miccoli, In difesa della fede. La Chiesa di Giovanni Paolo ii e
Benedetto xvi, Rizzoli, Milano 2007, spec. pp. 18 ss. Ma sono innumerevoli i riferimenti
anche recenti al Vaticano ii, da parte dei vertici della cei come delle varie organizzazio-
ni cattoliche, che ne evocano astrattamente il ruolo senza tener in particolare conto ciò
che realmente vi accadde e quale posta fosse in gioco.
2.  Negoziato conclusosi nel gennaio 2009 con la revoca della scomunica comminata una
ventina di anni prima al fondatore Marcel Lefebvre e ai quattro vescovi da lui ordinati
senza l’autorizzazione romana. Per l’intera vicenda cfr. G. Miccoli, La Chiesa dell’anti-
concilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma, Laterza, Roma-Bari 2011. Sulla sua fase
d’impianto si veda L. Perrin, Il caso Lefebvre, a cura di D. Menozzi, Marietti, Genova 1991.
192 società, stato e chiesa in italia

3.  Questa e le successive citazioni del documento sono ricavate da: http://www.va-
tican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1995/november/documents/hf_jp-ii_
spe_19951123_palermo_it.html.
4.  G. Formigoni ha parlato ancora più nettamente di «brusca svolta», per concludere
che «senza grandi ripensamenti teorici, lo schema è cambiato profondamente» (La
lunga stagione di Ruini, in “il Mulino”, 54, 2005, n 5, p. 841).
5.  Che si temesse anche un disorientamento identitario sembra confermato da un pas-
saggio essenziale del documento cui venne affidato nel 1997 il compito di formalizzare
il crescere concreto del progetto: «Per andare oltre una generica tensione in campo cul-
turale, bisogna chiarire le finalità di questo progetto, che vuole stimolare la dimensione
culturale presente nel vissuto di fede dei credenti, perché acquisti certezza delle proprie
radici, consapevolezza della propria ragionevole pertinenza sulle questioni vitali del no-
stro tempo, fiducia nelle proprie potenzialità nel dialogo e nel confronto con le culture
correnti» (Progetto culturale orientato in senso cristiano. Una prima proposta di lavoro,
a cura della Presidenza della cei, 28 gennaio 1997, in: http://www.progettoculturale.
it/progetto_culturale/cos_e_il_progetto_culturale/00030007_Cos_e_il_progetto_
culturale.html). Al di là del ruolo promozionale/comunicativo svolto dal sito appena
citato, è interessante notare come le pubblicazioni su carta che accompagnarono e tut-
tora accompagnano l’iniziativa abbiano visto il contributo di svariate case editrici cat-
toliche: quasi a rappresentare anche in tale forma l’articolazione e allo stesso tempo la
coesione delle concrete espressioni della cultura cattolica in Italia.
6.  Più ampiamente: «Potremmo azzardare per la prospettiva ruiniana l’etichetta di
“scelta istituzionale-sociale”, centrata sull’ambizione della Chiesa istituzione, grazie alla
sua presenza sociale e alla sua creatività culturale, di riplasmare una identità credibile
nella civiltà italiana (e occidentale in generale)» (Formigoni, La lunga stagione, cit.,
p. 842).
7.  F. Sportelli, Vescovi/3: La cei e la collegialità italiana, in A. Melloni (a cura di), Cri-
stiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, vol. ii, Istituto della Enciclopedia italia-
na, Roma 2011, p. 848.
8.  Il passo è ricavato dalla lettera inviata nel gennaio 1999 da Ruini alla presidente na-
zionale ac Bignardi all’indomani della sua assunzione dell’incarico. Se ne veda il testo
in: http://www.chiesacattolica.it/documenti/2011/11/00015511_scambio_di_lettere_
in_occasione_della_nom.html.
9. Il testo in http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new/bd_edit_doc_txt.edit_
documento?p_id=11193.
10.  Nella storia pluridecennale della cei – fatta eccezione per la sua fase d’im-
pianto del 1952 nella quale la composizione della Conferenza era circoscritta a un
ristretto gruppo di prelati presidenti delle regioni conciliari e durante la quale funse
da segretario per alcuni mesi Giovanni Urbani, poi presidente per un triennio nel
1966-69 – quello di Ruini risulta essere a tutt’oggi l’unico caso di passaggio da se-
gretario generale a presidente, per un totale inoltre di più di vent’anni di presenza
a vario titolo ai vertici della Conferenza.
11.  La revisione concordataria del 1984 prevedeva che quanto già inserito nell’ac-
cordo del 1929 ma non previsto nel nuovo testo decadesse automaticamente. Per il
futuro tuttavia si prescriveva quanto segue, all’art. 13 c. 2: «Ulteriori materie per
le quali si manifesti l’esigenza di collaborazione tra la Chiesa cattolica e lo Stato
note 193

potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti sia con intese tra le
competenti autorità dello Stato e la Conferenza Episcopale Italiana». A riguardo
lo Statuto della cei, approvato in nuova parziale stesura nel 2000, riconosceva poi
al presidente quel compito: «Nel rispetto delle debite competenze e per il tramite
della Presidenza, la Conferenza tratta con le Autorità civili le questioni di carattere
nazionale che interessano le relazioni tra la Chiesa e lo Stato in Italia, anche in vista
della stipulazione di intese che si rendessero opportune su determinate materie»
(art. 5, §3).
12.  Prescindendo da considerazioni di merito sugli orientamenti individuali dei
responsabili pro tempore delle due strutture, si noti la continuità dei rispettivi
mandati. Presidenza cei: card. Ruini 1991-2007, card. Bagnasco dal 2007 ad oggi;
vertice Segreteria di Stato: card. Sodano 1991-2006, card. Bertone dal 2006 all’ot-
tobre 2013. In relazione alla suddetta tempistica si presti attenzione allo snodo
cronologico fondamentale intervenuto nella primavera 2005 con la successione
papale tra Giovanni Paolo ii e Benedetto xvi. Il card. Bertone, nel periodo 1995-
2002, aveva affiancato l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della
fede (ex Sant’Uffizio) card. Ratzinger in qualità di segretario della Congregazione
medesima.
13.  La presidenza Ruini si era conclusa da meno di un anno, nel marzo 2007.
14.  Rispettivamente: Patto civile di solidarietà, Diritti e doveri delle persone sta-
bilmente conviventi. Si trattava in entrambi i casi di forme di riconoscimento delle
cosiddette “coppie di fatto” e delle garanzie civili da estendere ai componenti delle
stesse, in analogia con le famiglie tradizionali.
15.  Si vedano a riguardo le reazioni di certa parte del cattolicesimo nazionale at-
torno al 2003-04, dunque prima che si delineassero in epoca successiva le censure
anche riferite alla vita privata del capo di governo (Formigoni, La lunga stagione,
cit., p. 840 e note).
16.  Si veda a riguardo il caso suscitato dalla presa di posizione di Romano Prodi di
fronte al referendum sulla legge 40 del 2005. La circostanza venne ricordata dallo
stesso Prodi in una intervista del 2008 al quotidiano francese “La Croix” (M. F.
Masson, Romano Prodi: les adieux du Professore, in “La Croix”, 17 maggio 2008).
17.  N. Buonasorte, Siri. Tradizione e Novecento, il Mulino, Bologna 2006, p. 261, n
2, cit. in Miccoli, In difesa della fede, cit., p. 19.
18.  Sulla “nuova laicità” si veda tra l’altro l’intervista all’allora patriarca di Venezia
e ora arcivescovo di Milano Angelo Scola, apparsa su “Il Corriere della Sera”, 17 lu-
glio 2005. Per le altre forme di richiamo, largamente diffuse nei testi del magistero
ecclesiastico contemporaneo, cfr. Miccoli, In difesa della fede, cit., pp. 323 ss.
19.  Le associazioni formalmente promotrici risultavano: Movimento cristiano la-
voratori, Confartigianato, Confcooperative, Compagnia delle Opere, cisl, acli,
Coldiretti. L’iniziativa, intesa a stabilizzare nel tempo la propria presenza e azione,
ha istituito un proprio sito: http://www.forumlab.org.
20. http://www.avvenire.it/politica/pagine/programma-todi.aspx.
21.  L’intero discorso è pubblicato nel sito del quotidiano diretto da Giuliano Fer-
rara: http://www.ilfoglio.it/soloqui/10783.
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Indice dei nomi

Acquaderni Giovanni, 49, 53, 5-6 Bianchi Sandro, 190


Adjubei Alexis, 131 Bianco Gerardo, 167
Adjubei Rada, 131 Bignardi Paola, 192
Albanese Giulia, 187 Bindi Rosy, 167
Alberigo Angelina, 189 Bismarck Otto von, 62
Alberigo Giuseppe, 189 Boetto Pietro, 105
Andreatta Beniamino, 167 Boggiani Tommaso Pio, 103
Andreotti Giulio, 157, 162, 164-5 Bona Carlo, 183
Antonelli Giacomo, 50 Bonanni Raffaele, 181
Arpinati Leandro, 103 Bonaparte Napoleone, 21-5
Avogadro della Motta Emiliano, 38 Bonghi Ruggero, 50
Azeglio Massimo d’, 28, 39 Bonomelli Geremia, 59-60, 125
Bonomi Paolo, 112-3
Bosco Giovanni, 45
Bachelet Vittorio, 143, 148, 154, 160, Bottoni Riccardo, 187
190 Bruni Gerardo, 111, 115
Bagnasco Angelo, 180-2, 193 Buonasorte Nicla, 190, 193
Balbo Cesare, 31 Buttiglione Rocco, 167-8, 174
Balbo Felice, 111
Baldassarri Salvatore, 145
Bartoletti Enrico, 155 Cacciaguerra Eligio, 73
Battelli Giuseppe, 183, 186, 190 Candeloro Giorgio, 29, 32, 184-7
Benedetto xv, 82-3, 93-4 Capra Carlo, 183
Benedetto xvi ( Joseph Ratzinger), Caprile Giovanni, 191
158-9, 182, 191, 193 Carlo x, 29
Berlinguer Enrico, 152 Carlo Alberto, 38
Berlusconi Silvio, 168, 174 Carlo Felice, 28
Bertini Giovanni, 73 Caronti Emanuele, 188
Bertone Tarcisio, 193 Carretto Carlo, 124, 126
Betori Giuseppe, 172, 175 Casella Mario, 188
Bettazzi Luigi, 159 Casini Pierferdinando, 166, 168, 174
204 società, stato e chiesa in italia

Casolari Gabriele Maria, 184, 186 Einaudi Luigi, 119


Casoni Giovanni Battista, 47-8 Erba Achille, 186
Cavazzoni Stefano, 91
Cavour Camillo Benso, 38-9, 41-3,
184 Fallaci Neera, 189
Cazzaniga Gian Mario, 185 Fanfani Amintore, 133-4
Cè Marco, 159 Fangarezzi Cesare, 47-8
Ceci Lucia, 186 Fani Mario, 49
Chenaux Philippe, 188 Ferrara Giuliano, 193
Chenu Marie-Dominique, 139, 189 Ferrari Andrea, 76
Chiesa Mario, 165 Ferrari Liliana, 187, 189-90
Chruščëv Nikita, 131, 135 Fini Gianfranco, 168
Civardi Luigi, 96 Fontolan Roberto, 160
Clemente xiv, 183 Forlani Arnaldo, 162, 164-6
Coldagelli Umberto, 183 Formigoni Guido, 192-3
Colesanti Massimo, 183 Formigoni Roberto, 174, 191
Colombo Giorgio Luigi, 111 Fouilloux Etienne, 189
Colombo Luigi, 95 Francesco iv, 28
Costa Franco, 143, 148, 160 Fransoni Luigi, 39
Costalli Carlo, 181 Franzinelli Mimmo, 187
Costantino, 178
Craxi Bettino, 164-5
Crispi Francesco, 60, 65 Gaiotti de Biase Paola, 186
Crispolti Filippo, 76 Galavotti Enrico, 189
Curci Carlo Maria, 58 Gallarati Scotti Tommaso, 76
Gambasin Angelo, 186
Gava Antonio, 162
Dalla Costa Elia, 126 Gay Peter, 184
Decourtins Kaspar, 62 Gedda Luigi, 117, 124, 126, 135, 148,
De Felice Renzo, 187 188
De Gasperi Alcide, 88-9, 110-3, 116, Gentile Emilio, 186-8
119, 121, 126, 133-4, 158, 167 Gentile Giovanni, 92
De Giorgi Fulvio, 187 Gentiloni Ottorino, 78, 81
De Mita Ciriaco, 162, 164 Geremia, 108
Depretis Agostino, 58-9 Gesù di Nazareth, 36, 139, 190
De Rita Giuseppe, 181 Giacobbe, 128
De Rosa Gabriele, 184-5, 187-8 Gioberti Vincenzo, 31-2, 35
Diessbach Nicolaus, 20-1, 27, 38 Giolitti Giovanni, 79, 81, 87
Donati Giuseppe, 93 Giovagnoli Agostino, 189-90
Dossetti Giuseppe, 110, 119, 126, 160, Giovanni xxiii (Angelo Roncalli),
190 14, 127-32, 134-9, 141-4, 147, 154,
D’Urso Adriano, 190 178, 189
indice dei nomi 205

Giovannini Paolo, 187 Lupi Maurizio, 191


Giovanni Paolo i (Albino Luciani), Lutero Martin, 190
155
Giovanni Paolo ii (Karol Wojtyla),
155-6, 158-9, 166, 170-1, 173, 188, 191, Macchia Giovanni, 183
193 Machiavelli Niccolò, 12
Giulio Cesare, 187 Maffi Pietro, 76
Giuntella Maria Cristina, 187 Maistre Joseph de, 25, 27, 47
Giuseppe, figlio di Giacobbe, 128 Malgeri Francesco, 188
Giussani Luigi, 151, 157, 160-1, 191 Malpensa Marcello, 191
Grandi Achille, 93, 111-2 Malvestiti Piero, 101, 110-1
Gregorio xvi, 29-2, 61, 184 Manzoni Alessandro, 28-9, 31
Grosoli Giovanni, 69, 71-2, 77, 186 Margotti Giacomo, 39, 43
Gualtieri Roberto, 188 Maria di Nazareth, 22, 36, 156
Guerrini Giorgio, 181 Marini Sergio, 181
Marino Luigi, 181
Maritain Jacques, 190
Harmel Léon, 70 Martina Giacomo, 45, 185, 190
Martinazzoli Mino, 167
Martini Carlo Maria, 159, 161, 173,
Jacobini Ludovico, 59 191
Jemolo Arturo Carlo, 58, 114-5, 169, Masson Marie-Françoise, 193
185, 188 Mastella Clemente, 174
Mazzella Camillo, 63
Mazzolari Primo, 125-7, 135, 186
Kennedy John Fitzgerald, 134 Meda Filippo, 71, 83
Ketteler Wilhelm von, 62 Medolago Albani Stanislao, 68-9, 75
Kohl Helmut, 167 Melloni Alberto, 186, 189, 192
Lamennais Félicité de, 25, 30-1, 47 Meluzzi Luigi, 183
Lanteri Brunone, 27, 38 Menozzi Daniele, 184-6, 188-9, 191
La Pira Giorgio, 110, 126 Merry del Val Rafael, 72
Lavitrano Luigi, 105 Messori Vittorio, 191
Lazzati Giuseppe, 160, 191 Metternich Klemens von, 25
Lefebvre Marcel, 158 Miccoli Giovanni, 183-5, 188-9, 191,
Leone xiii, 37, 58-9, 61, 63, 65-70, 73-4, 193
87-8, 97, 121, 171, 185-6 Miglioli Guido, 76, 82, 91, 111
Lercaro Giacomo, 145, 158, 190 Milani Lorenzo, 126-7, 135, 189
Liberatore Matteo, 63 Minzoni Giovanni, 99
Liguori Paolo, 191 Momigliano Eucardio, 184, 186
Loisy Alfred, 74 Montesquieu Charles-Louis de Se-
Lombardi Riccardo, 123 condat, 17, 18, 183
Lubich Chiara, 144 Monti Mario, 181
206 società, stato e chiesa in italia

Monticone Alberto, 159 Pio vii, 22, 23, 26


Moro Aldo, 134, 153-4, 164 Pio ix, 29, 32, 33, 35-7, 42-3, 45, 47,
Moro Renato, 187-8 49-52, 56-8, 61, 67, 74, 97, 185
Morozzo della Rocca Roberto, 186 Pio x, 71-5, 77-8, 86, 124, 186
Mounier Emanuel, 190 Pio xi, 93-4, 99, 102, 105, 121, 123, 187-
Murri Romolo, 69-70, 73-4, 124 8
Mussolini Benito, 90-2, 94, 98-100, Pio xii (Eugenio Pacelli), 104, 107-10,
104-5, 107, 110, 115, 164, 187 117, 121-3, 125-6, 128-33, 135, 138, 141,
187-9
Pintacuda Ennio, 166
Napolitano Giorgio, 180 Piva Francesco, 188
Nasalli Rocca Giovanni Battista, 103 Poggi Gian Franco, 188
Newman John Henry, 37 Poletti Ugo, 162
Noy Cesare, 39 Ponza di San Martino Gustavo, 50
Poulat Emile, 183
Prodi Paolo, 183
Olivero Andrea, 181 Prodi Romano, 168, 174, 193
Orlando Leoluca, 166
Orleans Luigi Filippo d’, 29
Ornaghi Lorenzo, 181 Radini Tedeschi Giacomo Maria, 68-9,
Ossicini Adriano, 111 71, 76, 81, 186
Ottaviano Franco, 190 Rampolla Mariano, 59, 68, 70
Renouvin Pierre, 185
Rezzara Niccolò, 68-9
Paganuzzi Giovanni Battista, 56, 67-71, Riccardi Andrea, 189
95 Righetti Igino, 101
Paiano Maria, 188 Rodano Franco, 111
Paoli Arturo, 124 Rosmini Antonio, 29, 31, 35, 37
Palma Luigi, 188 Rossi Mario, 124-6, 188
Paolini Lorenzo, 183 Rossi Mario Giuseppe, 188
Paolo vi (Giovanni Battista Monti- Rubbiani Alfonso, 55-6
ni), 14, 101, 129, 136, 138, 141-5, 148, Ruggieri Giuseppe, 189
151, 154-6, 158, 160, 189-90 Ruini Camillo, 171, 173, 180, 192-3
Paolo di Tarso, santo, 31, 157
Parola Alessandro, 191
Parsi Vittorio Emanuele, 181 Sacchetti Giuseppe, 185
Passaglia Carlo, 43 Sandoni Luca, 185
Passera Corrado, 181 Sauer Hanjo, 190
Pellegrino Michele, 145 Scelba Mario, 119
Perrin Luc, 191 Scholz Bernhard, 181
Piazza Adeodato, 105 Scirè Giambattista, 188
Pietro (Simone), 156 Scola Angelo, 193
indice dei nomi 207

Scoppola Pietro, 187 Tosti Luigi, 31, 59


Sgarbanti Romeo, 186 Traniello Francesco, 184, 187
Siri Giuseppe, 172, 177, 193 Turchini Angelo, 190
Socci Antonio, 160, 191
Sodano Angelo, 193
Solaro della Margarita Clemente, 38 Umberto i, 57
Sorge Bartolomeo, 166 Urbani Giovanni, 192
Soubirous Bernadette, 36
Spadolini Giovanni, 158, 185
Spataro Giuseppe, 112 Vecchio Giorgio, 186
Speranzini Giuseppe, 111 Verucci Guido, 184, 188-90
Sportelli Francesco, 192 Veuillot Louis, 47
Sturzo Luigi, 73, 86-7, 89, 92, 95-6, Vian Giovanni, 186
110, 113, 132, 165, 167, 175 Viesseux Gian Pietro, 184
Svampa Domenico, 76 Vittorio Emanuele ii, 38, 49, 57
Vittorio Emanuele iii, 91, 99
Vivarelli Roberto, 187
Tangorra Vincenzo, 91
Taparelli d’Azeglio Cesare, 28-9, 38-9
Taparelli d’Azeglio Luigi, 39, 57 Walesa Lech, 156
Tocqueville Alexis de, 183 Wyszynski Stefan, 156
Togliatti Palmiro, 115, 120
Tolli Filippo, 75
Tommaseo Niccolò, 31, 184 Zaccagnini Benigno, 154
Tommaso d’Aquino, 37, 63 Zamagni Stefano, 181
Toniolo Giuseppe, 62, 75 Zigliara Tommaso, 63

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