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di civiltà musicale
LoGisma editore
3
ADUIM Conferenza nazionale
Associazione fra dei Direttori dei
Docenti Universitari Conservatori di Musica
Italiani di Musica
ISBN 978-88-94926-17-0
Printed in Italy
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INDICE
Saluti istituzionali
Elena Ferrara . . . . . . 7
Lorenzo Bianconi . . . . . 8
Renato Meucci . . . . . 10
Francesco Passadore . . . . . 10
Franco Piperno . . . . . . 12
Agostino Ziino . . . . . . 14
***
GUIDO SALVETTI
La ricerca musicologica nell’AFAM . . . . 29
GIORGIO ADAMO
Recenti sviluppi e stato attuale della ricerca etnomusicologica in Italia 37
VIRGILIO BERNARDONI
Gli istituti e i centri di ricerca . . . . 47
DINKO FABRIS
I diplomi accademici di formazione alla ricerca nel sistema AFAM:
il problematico dottorato per musicisti in italia . . 55
5
GIUSEPPINA LA FACE
Pedagogia musicale e didattica della musica nell’Università . 75
RENATO MEUCCI
Gli studi organologici in Italia . . . . . 81
FRANCO PIPERNO
Edizioni critiche e finanziamento pubblico della ricerca . . 89
***
APPENDICE
Memorandum sulla ricerca musicologica in Italia . . 105
6
FABRIZIO DELLA SETA
LA RICERCA MUSICOLOGICA NELL’UNIVERSITÀ
1
Fonte: http://cercauniversita.cineca.it/php5/docenti/vis_docenti.php. Al momento della
stesura finale del presente contributo (28/02/2018) il numero totale risulta di 117 docenti, di
cui 100 appartenenti al SSD L-ART/07 – Musicologia e Storia della musica, 17 a L-ART/08 –
Etnomusicologia.
2
Fonte: http://www.prin.miur.it/ (consultato il 28/02/2018).
21
medio 0,63 e 0,61.3 Queste cifre collocano le discipline musicologiche nella
fascia più alta dell’area di appartenenza, la 10, il cui voto medio è 0,57, e al
primo posto tra le discipline ricomprese nel Sub-GEV Arte, Musica e Spet-
tacolo (L-ART da 01 a 08).
3
Fonte: http://www.anvur.org/rapporto-2016/ (consultato il 28/02/2018).
4
«Rivista italiana di musicologia», «Il Saggiatore musicale», «Studi musicali».
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numero degli studiosi che si dedicano con rigore scientifico all’ambito della
popular music contemporanea (un settore che sta a cavallo tra gli studi stori-
ci e quelli etnomusicologici, nel cui seno si è sviluppato ma da cui si sta de-
cisamente rendendo autonomo). Un segnale preoccupante è semmai il decli-
no d’interesse per i secoli precedenti il XVII, motivato forse dalla forte im-
pronta ideologica (per dirla chiaramente: religiosa) che in passato aveva
condizionato gli studi sulla musica medievale e rinascimentale, ma sicura-
mente anche da ragioni di spendibilità di tali studi sul mercato accademico.
Caratteristica della musicologia italiana contemporanea è una genuina
propensione al dialogo, a volte corrisposto a volte un po’ faticoso, con le di-
scipline affini. Ne cito alcuni esempi fra i temi di più diffuso interesse.
L’abbondanza di musiche che intonano testi poetici (italiani ma non solo)
impone il confronto con le discipline linguistico-letterarie. La storia e la teo-
ria dell’opera in musica rientrano di diritto fra le scienze dello spettacolo.
L’etnomusicologia riconosce da sempre la propria affinità con le discipline
demo-etno-antropologiche. Assai vivace è il contributo degli studi di estetica
musicale, intesa soprattutto come storia delle idee estetiche (mentre
l’approccio teoretico sembra riservato piuttosto ai filosofi en titre). I proble-
mi della comunicazione musicale generano un sempre più vivo interesse per
il ruolo della musica nel mutevole mondo dei media audiovisivi (cinema, ra-
dio, televisione e oltre), con indagini a cavallo tra semiotica, filosofia del
linguaggio e sociologia. Risalgono agli anni ’70, ma hanno conosciuto un
notevole incremento recente, l’attenzione ai problemi di pedagogia e di di-
dattica della musica e il conseguente confronto con le relative discipline spe-
cialistiche (questo soprattutto a seguito dell’attivazione delle SISS, alle quali
l’università ha dato un apporto non trascurabile).
Per citare alcuni esempi di ambiti che viceversa non sembrano aver fi-
nora suscitato attenzione adeguata all’importanza dei problemi, si può notare
che l’interesse per la psicologia della musica, pur non assente tra i musicolo-
gi, sembra oggi monopolizzato piuttosto dagli addetti alle neuroscienze. Po-
co coltivata, nonostante una certa illustre tradizione, è pure la sociologia del-
la musica. Un settore importantissimo nel mondo anglosassone, quello della
teoria musicale e dell’analisi, intese come discipline relativamente
indipendenti dalla storia, non ha mai trovato grande spazio nelle università,
che l’hanno delegato all’ambito degli studi conservatoriali come cosa che
riguarda soprattutto i compositori (mentre un lavoro eccellente è stato e
viene fatto nel campo della storia delle teorie musicali); tuttavia finora non è
troppo attecchita neppure la tendenza che dagli anni ’80 ha contestato e
quasi soppiantato il prevalere degli studi teorico-analitici nelle università
anglo-americane, quella degli ‘studi culturali’ (di genere, postcoloniali, sulle
minoranze etniche eccetera).
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Poiché il quadro tracciato finora può sembrare fin troppo lusinghiero,
passo alle note meno positive. La situazione attuale, e ancor più quella che ci
si presenta in prospettiva, è tutt’altro che incoraggiante, in parte per cause
comuni a tutto il comparto universitario e in particolare a quello umanistico,
in parte per specificità del settore musicologico. Il numero dei docen-
ti/ricercatori si è drammaticamente ridotto negli ultimi dieci anni (erano 134
nel 2007) e ancor più si ridurrà nei prossimi a causa dei pensionamenti. Que-
sto calo è solo in parte compensato dall’immissione di nuovi ricercatori a
tempo determinato. Il fenomeno che poc’anzi ho menzionato come motivo di
vanto, il successo all’estero dei nostri migliori giovani, si sta delineando, mi
si scusi per l’espressione abusata, come una vera e propria fuga dei cervelli
non compensata da un movimento contrario, tanto meno da rientri. C’è di
peggio: mentre fino a poco tempo fa i nostri migliori laureati cercavano di
ottenere in Italia il titolo dottorale per poi tentare l’avventura fuori dei confi-
ni nazionali, la consapevolezza della realtà del mercato del lavoro li spinge
ormai a completare il loro ciclo di studi direttamente nei luoghi dove il tran-
sito dalla formazione ai primi incarichi lavorativi è, se non garantito, istitu-
zionalmente previsto per i più meritevoli (e quasi sempre essi rientrano fra
questi). La conseguenza inevitabile è stato un oggettivo calo della qualità
media dei dottorandi, benché quella dell’offerta formativa a livello dottorale
sia, credo di poterlo dire senza sembrare superbo, all’altezza delle migliori
realtà straniere, pur nel divario di risorse disponibili.
Per quanto riguarda i finanziamenti, la ricerca musicologica ha risenti-
to fortemente della riduzione generalizzata dei fondi disponibili. Nel penul-
timo bando Prin (2012) un solo progetto è rientrato nella ristrettissima fa-
scia di quelli finanziati, nessuno nell’ultimo (2015), sebbene ne fossero
stati proposti diversi, alcuni dei quali avrebbero dovuto portare a compi-
mento ricerche finanziate in passato.5 Accedere ai finanziamenti europei è
molto difficile, soprattutto perché uno dei criteri che vengono considerati
imprescindibili è quello dell’innovatività metodologica e tecnologica. Oc-
corre però dire chiaramente che in ambito umanistico, e in particolare nelle
scienze storiche, la continuità della tradizione non è di per sé un limite, al
contrario è un valore: le metodologie della ricerca storico-filologica non
mutano e non possono mutare troppo rapidamente seguendo le mode, come
purtroppo avviene. Infatti la maggior parte delle proposte che vogliono
darsi una vernice di novità puntano molto o tutto sull’applicazione di tec-
nologie digitali. Fermo restando che tutte le novità tecnologiche che ren-
dono il lavoro più efficiente e consentono di accumulare grandi quantità di
dati sono sempre benvenute, va ribadito che non in esse consiste l’aspetto
innovativo della ricerca: i fondamenti concettuali su cui si basa la produ-
5
Il 27 dicembre 2017 è stato emanato il bando relativo al Prin 2017.
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zione di cataloghi tematici e di edizioni critiche, nonché le analisi storiche
dei dati acquisititi, non cambiano per il fatto di essere supportati da stru-
menti digitali. Conta piuttosto la novità delle domande che si pongono ai
fatti e delle conoscenze che se ne ricavano.6
Se questo stato di cose è comune, come ho detto, alla maggior parte
della ricerca umanistica, anzi, a dire il vero, della ricerca ‘pura’, non im-
mediatamente orientata al rientro economico, occorre dire che essa incide
maggiormente sulle discipline numericamente minoritarie e di più recente
insediamento accademico. Fra queste, le discipline musicologiche soffrono
di uno handicap in più, che ha radici profonde di ordine storico-culturale.
L’Italia ama presentarsi come il paese della musica, quello che ha dato al
mondo alcuni tra i maggiori geni di quest’arte, ma sappiamo tutti che a
questa autorappresentazione non corrisponde la realtà dei fatti: basti consi-
derare lo stato in cui versano le biblioteche e i musei che conservano il pa-
trimonio musicale, i teatri e le istituzioni concertistiche che dovrebbero tra-
smetterlo, gli istituti deputati alla formazione dei musicisti (e non certo, sia
ben chiaro, per colpa di chi ci lavora). Soprattutto, manca un’educazione
musicale diffusa che dovrebbe formare la base che fruisca, e fruisca consa-
pevolmente, dei prodotti artistici; basti ricordare che la storia della musica
non è compresa tra i saperi che si suppone debbano appartenere al cittadino
acculturato: prova ne sia che nella scuola secondaria l’insegnamento ne è
previsto solo nei programmi del liceo musicale e coreutico, deputato alla
formazione dei professionisti.
Tutto ciò è stato detto molte volte e fuoriesce dal tema più particolare di cui
parliamo oggi. Ma solo apparentemente, perché questa situazione deplorevole, e
continuamente ma invano deplorata, ha conseguenze pesanti sullo sviluppo della
ricerca. Conseguenze di ordine culturale, ma anche economico in quanto si tra-
ducono in occasioni mancate di creare spazi nel mercato del lavoro.
Per la persona di cultura media, per chi abbia compiuto gli studi se-
condari superiori, non è difficile comprendere che differenza c’è tra un po-
eta e uno studioso di letteratura, tra un pittore e uno storico dell’arte: figu-
re, le seconde che quanto meno gli/le saranno familiari nelle vesti di pro-
fessori di scuola. Invece anche per chi abbia una formazione superiore,
persino per un laureato in lettere, riesce difficile capire che il mestiere del
musicologo è diverso da quello del musicista, cantante, strumentista o
compositore, e che il fenomeno musicale può e deve essere oggetto di ri-
flessione teorica e storica, oltre che di produzione e di riproduzione. Di
6
Questo tema importantissimo, qui trattato in maniera necessariamente sommaria, è og-
getto di un’acuta e approfondita analisi in un libro apparso negli stessi giorni di questa giorna-
ta di studi: LORENZO TOMASIN, L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia, Roma,
Carocci, 2017, che riprende temi già affrontati in numerosi articoli apparsi nel supplemento
domenicale de «Il Sole 24 ore».
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conseguenza, il cittadino normale avrà difficoltà a comprendere che si deb-
bano spendere soldi pubblici per conservare il patrimonio formato da parti-
ture manoscritte e a stampa antiche e moderne, da trattati di musica, da
strumenti, da quadri di soggetto musicale, nonché per formare personale
specializzato all’uopo; che tale patrimonio debba essere valorizzato e dif-
fuso grazie a edizioni che rispondono a criteri scientifici internazionalmen-
te condivisi, per realizzare le quali è necessario ma non sufficiente avere
un’ottima preparazione musicale; che a parlare e scrivere di musica in ra-
dio e televisione, nei media, sulla stampa periodica e sui programmi di sala
debbano essere persone dotate di una formazione specifica e non, come
perlopiù avviene, dilettanti che, quando non dicono sciocchezze, ripetono
luoghi comuni assai datati (a volte anche grandi artisti, che però sono tali
per altri meriti, che non conferiscono loro ipso facto l’autorevolezza per
spiegare cose che richiedono uno studio diverso).
Dato questo stato di cose, non meraviglia che la quota di finanziamenti
destinati a sostenere la ricerca sulla musica sia irrisoria, anche rispetto al
già esiguo investimento che lo stato destina al sostegno e alla promozione
della cultura. Mi sia consentito menzionare un campo di cui ho una cono-
scenza personale ravvicinata (ne tratta più ampiamente Franco Piperno nel-
la sua relazione). In Italia si pubblicano edizioni scientifiche delle opere
complete di alcuni dei nostri musicisti maggiori: Monteverdi, Frescobaldi,
Carissimi, Vivaldi, Pergolesi, Boccherini, Paganini, Rossini, Donizetti,
Bellini, Verdi, Puccini, oltre a collane dedicate a repertori territoriali. A
pochissime di esse è stato riconosciuto lo status di edizioni nazionali (e qui
sarebbe il caso di discutere, ma non ne ho il tempo, i criteri con cui tale ri-
conoscimento viene assegnato e con cui vengono distribuiti i finanziamen-
ti, peraltro sempre più esigui). La maggior parte, pubblicata da editori spe-
cializzati o da fondazioni dotate di autonomia finanziaria, sopravvive con
finanziamenti incerti e discontinui, a volte di enti locali, praticamente mai
di privati. L’edizione in migliori condizioni di salute è per ora quella delle
opere di Verdi, non a caso prodotta in coedizione da un editore italiano e
da uno statunitense e che si sostiene coi finanziamenti del National Endo-
wment for the Humanities (che però il presidente Trump ha minacciato di
abolire). Altre edizioni, per esempio quelle in corso o progettate delle ope-
re di Francesco Cavalli, di Luca Marenzio e di Carlo Gesualdo da Venosa,
sono pubblicate all’estero ma con un sostanzioso contributo intellettuale
italiano.
Nella già citata ultima procedura VQR era prevista una valutazione
specifica relativa alle attività di trasferimento della conoscenza e divulga-
zione, la cosiddetta terza missione, tra le quali rientrano quelle di «produ-
zione e gestione dei beni culturali». Gli ambiti ai quali si applicano i criteri
di valutazione di queste ultime (a loro volta ricompresse nella «produzione
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di beni pubblici di natura sociale, educativa e culturale») sono: «scavo e
fruizione di beni archeologici»; «conservazione e gestione di beni musea-
li»; «gestione e manutenzione di edifici storici».7
Premesso che manufatti d’interesse musicale si possono identificare in
ciascuno di questi tre ambiti (ma chi li ha stabiliti non ci pensava di certo), è
notevole che nessuno abbia pensato che le edizioni musicali scientifiche so-
no per definizione oggetti che trasferiscono la conoscenza. Senza contare che
costituiscono o costituirebbero occasioni di lavoro per giovani studiosi per
decenni e che avrebbero anche un certo ritorno economico se fosse attuata
un’oculata politica per favorire il loro impiego di parte di teatri ed enti con-
certistici.
Ignoro quale sia la cifra complessiva impegnata dallo stato italiano per
sostenere tali edizioni. Sono però note le cifre erogate dallo stato tedesco,
attraverso l’Unione delle Accademie Tedesche delle Scienze, per finanziare
analoghe imprese relative ai maggiori compositori germanici, da Gluck a Ri-
chard Strauss, senza trascurare neppure protagonisti delle avanguardie quali
Schönberg e Zimmerman: 6.550.000 euro nel 2016.8 Temo che il confronto
sarebbe impietoso.
7
Fonte: http://www.anvur.org/rapporto-2016/files/Rapporto_CETM.pdf, pp. 58-59
(consultato il 28/02/2018).
8
Fonte: Union der Deutschen Akademien der Wissenschaften vertreten durch die Aka-
demie der Wissenschaften und der Literatur, Mainz. Musikwissenschaftliche Editionen. Jah-
resbericht 2016, Mainz, [Akademie der Wissenschaften und der Literatur], 2017, p. 89.
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di civiltà musicale
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