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I EDIZIONE - Settembre 2009


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A.N.M.I.G. - Sezione di ODERZO

A.N.C.R. - Sezione di ORMELLE


MEMORANDA
2
Anni di guerra e di fame
Storie di reduci, storie di vita

A cura di
Simone Menegaldo

7
Prefazione

Non mi è facile trovare le parole adeguate per introdurre


questo libro, un libro che non vuole essere solo una
raccolta delle avventure e delle sofferenze di guerra di
queste persone, ma soprattutto un ringraziamento nei
loro confronti, perché le loro vite così povere e piene
di sacrifici, hanno permesso alle generazioni venute
al mondo dopo il grande conflitto mondiale di crescere
nel benessere e nella ricchezza.
Ora questo mondo di antichi valori, questo piccolo
mondo antico povero ma onesto, sincero e cordiale,
va scomparendo dinanzi all’egoismo della società
contemporanea, un’egoismo tanto più dannoso poiché
dimentico delle proprie origini umili e contadine, in
un’epoca in cui essere contadini significava amore
incondizionato per la terra e la natura, madre di vita
per tutti. Ecco perché quando accettai di fare questo
libro volli chiedere a queste persone, prima di ogni
altra cosa, “com’era vivere una volta?” … come se “una
volta” fosse un tempo remotissimo, cinque, sei, otto
secoli fa… invece si tratta di soli ottant’anni!
Otto decenni durante i quali il mondo è cambiato “da
sera à matina!”, come dicono questi valorosi guerrieri
della vita; sì perché vivere ai loro tempi significava
veramente “una guera ogni dì par magnar!”.
Non mi resta altro da fare che augurare a ciascuno di
voi che leggerete, non di divertirvi o sentirvi commossi
per quanto queste persone hanno vissuto, ma che
attraverso queste letture possiate imparare qualcosa
di nuovo, che vi aiuterà ad affrontare con nuovo spirito

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la vita, con coraggio, senza darvi per vinti, proprio
come hanno fatto loro. Anche perché, come queste
41 persone mi hanno avvisato, “ormai no se torna pì
indrio!”.

Dott. Simone Menegaldo


Madorbo, domenica 27 settembre 2009

Simone Menegaldo è laureato in Storia della Società Europea


all’Università Cà Foscari di Venezia con il massimo dei voti. ha
collaborato per un anno con il Comune di Cimadolmo nella gestione
della Biblioteca Comunale, e ha curato la risistemazione delle
Sezioni Belliche e l’inventariazione dei reperti in Magazzino del
Museo della Bonifica di San Donà di Piave.
Ha contribuito all’organizzazione di diverse mostre come “I passi
barca della Piave” nel 2007 a Falzè di Piave, “La Grande Guerra”
nel 2008 a Roncadelle e “L’iconografia romanica sulle vie del
pellegrinaggio” a Tempio di Ormelle, sempre nel 2008. Scrittore di
numerosi saggi storici sul territorio, si è impegnato nell’estate 2008
nella raccolta delle testimonianze di tutti i reduci di guerra viventi
dei Comuni di Ormelle e Cimadolmo, lavoro di cui questo libro è
testimonianza.
Ioti (Emilio Zanardo)

Nell’ascoltare la vita avventurosa di Emilio Zanardo,


conosciuto con il soprannome di Ioti, reduce di
Russia, combattente in Albania, operaio in Trentino,
marito e padre, viene spontaneo rimanere in silenzio,
senza aprire bocca se non per pregarlo di continuare
a raccontare. Numerosi uomini e donne hanno
attraversato lo scorso secolo portando con sé grandi
ricordi, ma purtroppo molti di loro ci hanno lasciato
senza la possibilità di registrarne la vita, la propria
storia personale, le fatiche e i sacrifici. Quando ci
troviamo di fronte a persone come Emilio Zanardo,
però, capiamo d’improvviso quanto abbiamo perduto
quando persone come lui ci hanno lasciato e ci rendiamo
conto che non possiamo permetterci di perdere ancora

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una volta la loro memoria. Raccontare la vita di Emilio
Zanardo significa ricordare tutti gli altri, che, come
lui hanno patito le assurdità della seconda guerra
mondiale, che si sono dovuti fare in quattro alla fine
del conflitto perché il lavoro qui non c’era.
Poter ascoltare la sua storia mi ripaga solo in parte
della perdita di ricordi preziosi come quelli dei
miei nonni, ma al tempo stesso mi riempie di gioia
e speranza; la gioia di aver avuto la fiducia di una
persona di 89 anni che reca dentro di sé una grande
voglia di vivere e raccontare, insegnare, la speranza
che chiunque leggerà con attenzione la sua vicenda,
capisca quanto male fu fatto dall’uomo verso l’uomo in
quegli anni, e finalmente non ne ripeta gli errori.

Nascere nel primo dopoguerra

Emilio Zanardo nacque a Roncadelle il 16 novembre


1919 nello stesso luogo in cui abita ancor oggi, che al
tempo era una piccola baracca costruita durante la
guerra del 1915-1918. In famiglia erano in nove: Emilio
era il terzultimo di sette fratelli, che erano rimasti
orfani di padre nel 1930. All’epoca aveva undici anni
e fu uno dei pochi in paese a riuscire a frequentare la
quinta elementare.
A Roncadelle quest’ultima classe non c’era, così chi
avesse voluto e potuto terminare gli studi elementari
doveva andare a Oderzo oppure a Negrisia. Emilio
completò la sua formazione scolastica proprio a
Negrisia, visto che da casa distava pochi chilometri.

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<<Si insegnava di più e meglio di adesso - racconta
Emilio - tanta storia da Nabucodonosor alla prima
guerra mondiale, tutte le guerre, tanta geografia,
sapevo le capitali di tutti i paesi del mondo; tanta
ginnastica dopo, perché dovevi essere forte e poco le
scienze invece il ministro dell’Istruzione era Giovanni
Gentile, il filosofo, che dava tanta importanza a queste
cose>>.
La situazione italiana nell’anno in cui nacque Emilio
non era affatto tranquilla. La Grande Guerra aveva
lasciato degli strascichi molto gravosi sulle famiglie
italiane e venete in particolare, la disoccupazione
era molto alta, i terreni agricoli presso le sponde
della Piave devastati dai bombardamenti, le uniche
fabbriche rimaste in funzione, quelle di armi e bombe,
furono chiuse perché non più utili in tempo di pace, e
l’industria manifatturiera si bloccò di colpo.
C’era il problema dei reduci di guerra, ai quali era
stato promesso un lotto di terra da coltivare che non
videro mai, e che non potevano più tornare a lavorare
nelle aziende in cui prestavano servizio prima della
guerra perché il loro posto era stato preso da altri.
In questo clima di grave disagio sociale nel paese
cominciarono a formarsi due grosse fazioni contrastanti:
quella di chi pretendeva che il Governo mantenesse le
promesse fatte, e che si polarizzerà attorno al Partito
Socialista, e quella della Vittoria Mutilata, termine
coniato da D’Annunzio per rivendicare territori che
l’Italia avrebbe perduto con la guerra e in realtà non ha
mai avuto, che si concentrò attorno agli interventisti
come il poeta vate, Mussolini, gli arditi, l’alta borghesia.
In poche parole il futuro partito nazionale fascista.

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La situazione negli anni che seguirono il primo
conflitto mondiale fu caratterizzata da intensi scontri
interni: scioperi collettivi, occupazione delle fabbriche,
un periodo quello 1919-1920, che gli storici hanno
ribattezzato “Biennio rosso”.
Il Governo italiano si dimostrò incapace di riconvertire
l’economia di guerra e le fasce più colpite da questa
mancanza furono proprio quelle che sino ad allora
avevano rappresentato la struttura portante dello
Stato: la piccola e media borghesia e i piccoli proprietari
terrieri. Già durante la guerra il carico fiscale che le
colpì si aggravò fino a diventare particolarmente critico,
sino alla rovina di diverse aziende, mentre alcuni
industriali, che avevano investito sulla macchina
bellica, si arricchirono a dismisura partendo dal nulla,
sostituendosi alla vecchia borghesia che finì quasi con
lo sparire dalla scena.
L’Italia cominciò a dipendere fortemente dai prestiti
statunitensi, aumentando il suo debito pubblico e la
povertà della popolazione che nel 1919 prese d’assalto
i magazzini alimentari di grandi e piccole città per
riuscire a sfamarsi.
Il calmiere dei prezzi, pensato dal Governo per evitare
che i generi di prima necessità diventassero oggetto
di strozzinaggio, non ottenne i risultati sperati e la
smobilitazione troppo rapida dell’esercito voluta da
Nitti riversò enormi quantitativi di disoccupati su un
mercato del lavoro invece già saturo.
Dobbiamo sempre tener presente, infatti, come l’Italia
più degli altri Stati coinvolti nel conflitto avesse difficoltà
nell’assicurare un lavoro ai propri cittadini, essendo
una nazione prevalentemente agricola. Il problema più

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grosso era soprattutto la disoccupazione dei braccianti
agricoli, specie nel Lombardo-Veneto, disoccupazione
che portò le organizzazioni dei contadini (anche quelle
cattoliche) a programmare in tutta Italia occupazioni
di terreni agricoli da ridistribuire ai braccianti, come
lo Stato aveva promesso senza mantenere.
Queste furono piccole rivoluzioni, a volte maldestre,
che ottennero l’unico risultato di aumentare i
contrasti e le divisioni fra le fasce sociali italiane. La
prima conseguenza fu il successo dei socialisti nelle
elezioni politiche del novembre 1919, che divennero
il primo partito in Italia, seguito dai popolari, mentre
i vecchi governanti, che avevano portato il paese in
guerra, furono rispediti a casa dal voto del popolo,
decretandone la sonora bocciatura.
Il 1919, anno di nascita di Emilio Zanardo, terminò
così con la formazione di un governo retto dal Psi e
dal Partito popolare di don Luigi Sturzo, ma il 23
marzo dello stesso anno era nato un movimento che
i politici sconfitti presto appoggeranno per tornare
al governo: i Fasci Italiani di Combattimento, 870
gli aderenti iniziali. Non ottennero alcun seggio alle
elezioni e questo provocò la svolta in seno al partito
sansepolcrista: le squadre, aventi a capo gli Arditi
reduci dalla Grande Guerra, si mettevano al soldo dei
proprietari terrieri del Nord per realizzare spedizioni
punitive ai danni delle organizzazioni e dei movimenti
socialisti e cattolici. Il loro militantesimo fece lievitare
le adesioni: 217.000 iscritti nel 1921.
Nel 1921 il movimento si ribattezzò Partito nazionale
fascista, avente come obiettivo principale la difesa
della nazione e l’antiparlamentarismo.

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Di lì a poco sarebbe giunta la marcia su Roma.
La violenza fascista raggiunse il vertice dopo le
elezioni del 1921. In appena due anni (1920-1921)
Nitti e Giolitti abbandonarono il loro incarico di
presidente del Consiglio incapaci di affrontare i gravi
disordini sociali che attraversavano il paese e il Nord
in particolare, dove le squadre fasciste erano assurte
a vero e proprio contro-Stato.
Il malcontento della popolazione verso i fascisti tuttavia
cresceva incessantemente: a Parma vi furono cinque
giorni di guerra tra fascisti e la popolazione civile che
si spense con la vittoria dei primi grazie all’intervento
dell’esercito regio (primo indizio delle simpatie della
corona per Mussolini).
Le elezioni segnalano una netta spaccatura nel paese:
socialisti, popolari e comunisti (partito nato da una
costola del Psi nel 1921) da una parte e fascisti dall’altro.
I governanti, pur essendo spariti dall’elettorato,
continuano però a governare (anomalie italiane!); così
a Bonomi succede Facta.
La violenza fascista imperversa nel paese: azioni
intimidatorie, sabotaggi, assalti alle sedi dei giornali,
di associazioni democratiche e cattoliche, pestaggi a
parlamentari e preti.
Il Partito socialista tentò l’ultimo disperata carta per
difendere la patria dall’ascesa fascista: lo sciopero
generale del 1° agosto 1921, il cui esito fu però
disastroso. I fascisti, aiutati e armati da diverse frange
dell’esercito, assaltarono con atti di vero e proprio
terrorismo, le amministrazioni socialiste del Nord di
più grande tradizione operaia: Torino, Milano, Genova
e appunto Parma.

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Il fascismo aveva così cancellato l’opposizione.
Le camicie nere marciarono su Roma il 26 ottobre 1922;
le autorità di polizia non rispondono all’avanzata e il
28, quando entrò in città la parata fascista, il primo
ministro Facta diede le dimissioni dopo che il re Vittorio
Emanuele III aveva rifiutato la proclamazione dello
stato d’assedio. Il premio per la violenza di Mussolini fu
l’incarico regio della formazione di un nuovo governo.
Uno dei primi provvedimenti, la legge Acerbo, che
oggi chiameremmo legge “ad personam”, stabilì che il
partito che avesse superato il 25% alle elezioni avrebbe
ottenuto i due terzi dei seggi in Parlamento. Come
assicurarsi il 25%? Inserire nelle liste fasciste tutti
quei parlamentari sconfitti da Sturzo e dai socialisti di
Treves alle elezioni del 1919. Ed ecco che la dittatura
ebbe inizio con la benedizione dello Stato.
Ma con il nuovo Papa, Pio XI, anche il Vaticano,
nonostante le vibranti proteste di don Sturzo, si schierò
con Mussolini. I diritti democratici dei cittadini italiani
sono abrogati, le opposizioni politiche e i sindacati
fuorilegge: 10.000 persone arrestate e confinate solo
nei primi tre anni di dittatura.
Il regime, per aumentare gli iscritti, si curò anche di
preparare i giovani “balilla”.
<<Erano anni duri quelli - racconta Emilio Zanardo -
era difficile trovare lavoro e ognuno doveva arrangiarsi
come poteva. Io, finito le scuole, ho cominciato a servire
da Marson. Poi, dopo uno-due anni, mia mamma,
quando sono arrivato a compiere 16 anni, si è accordata
con il padrone per lavorare con una paga di sei secchi di
pannocchie l’anno, e quell’anno che c’è stato tempesta
non ho preso neanche quelli, ho lavorato e ci ho rimesso

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la paga.
Dovevi stare attento a quello che dicevi, e non era come
adesso che potevi mangiare quello che volevi. I fascisti
ti davano ogni anno una scheda annonaria per poter
acquistare il cibo, ma potevamo mangiare solo quello
che era scritto nella scheda, non si poteva consumare
più di quello che stabilivano per te. Così tutti sapevano
quanto povero eri e ti tenevano sotto controllo. Poi
un buon lavoro lo trovai mettendomi in società con
Malandrini, uno qua di Roncadelle anche lui; abbiamo
comprato un mulo e un carretto con le ruote di ferro e
andavamo a raccogliere le vinacce e i fondi del vino
casa per casa il periodo delle vendemmie. Poi sono
andato a lavorare da Floriani, alla cantina di Oderzo,
così riuscivo a portare a casa qualcosa di più, sempre
tutto in nero.
E poi tutti i sabati c’era il corso per militare obbligatorio
a Ormelle. Dovevi passare tutte le categorie: balilla,
tredici-quattordici anni avanguardista, sedici-diciotto
giovane fascista e poi fascista. Tutti i sabati andavi
a fare la scuola militare e non si poteva mica saltare!
Venivano a prenderti i carabinieri a casa se non c’eri!
Mi hanno fatto fare pure un corso di alfabeto morse
a Oderzo e a vent’anni son partito per andare sotto le
armi!
Poi tutte le leggi che facevano o le cose che ti
costringevano a fare, non si pensava mica a niente:
eravamo stati abituati così, a obbedire senza discutere.
Non si scherzava con i fascisti o ti abituavi o le prendevi.
Se eri contro di loro ti facevano bere l’olio di ricino,
venivano a prelevarti a casa per prenderti a botte. Il
prete di Roncadelle fu bastonato perché aveva ospitato

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dei profughi e a Orazio Cella bruciarono la casa
durante la Resistenza perché era un capo partigiano. In
quegli anni là dovevi solo pagare la tessere e tacere.....e
vincere! >>.
“Credere, obbedire, combattere”; questo era il motto
che Emilio e gli altri ragazzi della sua età dovevano
ripetere durante le marce.
Una noticina sulla scuola, sugli studi di Emilio Zanardo:
il giovane Emilio si formò secondo la visione fascista
della scuola, per la quale in tutte le materie doveva
essere esaltata la superiorità del genio italiano, si
insegnava la storia della rivoluzione fascista, le classi
rigidamente divise per sesso, lettura obbligatoria era
il resoconto della trasvolata di Italo Balbo.
Il 1° settembre del 1939 i Nazisti invasero la Polonia.
Comincia la seconda guerra mondiale. Il 10 giugno
anche l’Italia entra ufficialmente in guerra a fianco
della Germania nazista, ma in realtà la mobilitazione
era cominciata già l’anno prima, con l’occupazione
dell’Albania.
Ma a voler essere ancora più precisi, la data corretta
sarebbe il 2 febbraio 1940.

Da Scutari all’inverno russo

<<Sono partito il 2 febbraio del 1940 - continua Emilio


- dopo un mese di viaggio arrivammo a Durazzo, in
Albania, il primo di marzo.
L’addestramento era durato solo venti giorni, a Osoppo,
dai primi di febbraio al 27 dello stesso mese.

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Facevo parte della Divisione Julia Gruppo Conegliano,
nel Comando Gruppo agli ordini del Colonnello
Domenico Rossotto, una bravissima persona, con noi
era come un padre di famiglia.
Siamo arrivati in Albania per nave da Bari, un
migliaio di soldati circa eravamo. Il mare era calmo e
siamo dovuti sbarcare coi barconi a causa della bassa
marea. Siamo stati accolti dai nostri soldati anziani,
dai veterani italiani in Albania. Gli Albanesi non ci
vedevano bene, non ci hanno mai accettato, li avevamo
invasi e con loro non c’era nessun rapporto, anzi erano
gelosi e penso che ci odiavano.
Poi ci spostarono a Scutari, alla caserma Scanderberg,
dove ricevemmo istruzioni militari per prepararci alla
guerra, era un piccolo addestramento, accompagnato
da mesi di marce continue in tutta l’Albania.
Tutta l’ho vista, di città in città: Valona, Pogradez,
l’abbiamo girata tutta a piedi perché dovevamo
prepararci per la guerra in Grecia, che per noi è
cominciata il 28 ottobre del 1940. Non c’erano strade,
il territorio è completamente montagnoso, nessuna
ferrovia, niente di niente, solo montagne, fango,
mulattiere, sentieri e pidocchi, tanti pidocchi, finché
ne volevi. In compenso i rapporti tra noi ragazzi erano
ottimi, come tra fratelli.
Eravamo armati con fucili e bombe a mano, ognuno
con il suo pezzo. Io conoscevo l’alfabeto morse e facevo
l’eliografista; la macchina che usavo era uno strumento
per trasmettere gli ordini, poteva funzionare sia a
batteria che con la luce.
C’erano gli eliografisti e i radiografisti; l’eliografo era
una specie di cassa dove erano messi delle serie di

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specchi che riflettevano la luce sui tasti: battendo i tasti
si aprivano le lamette e la luce filtrava: punto – linea
– punto – eccetera. Dopo tutti questi anni so ancora
come funziona! Durante l’addestramento in Albania
facevamo marce continue, senza sosta, sempre avanti,
e tiri al poligono.
Conducemmo il primo assalto alle quattro del mattino,
a Erseke, in Grecia, contro le casermette delle guardie
confinarie, noi del Gruppo Conegliano. Eravamo mal
preparati però per affrontarlo: infatti avevamo viveri
solamente per quattro giorni e invece siamo avanzati
per dodici giorni prima di poterci nuovamente fermare.
Abbiamo passato otto giorni senza mangiare niente,
eravamo stanchi e avevamo fame.
Ci avevano circondato e non c’era modo di rompere
l’assedio. Non c’era neanche paura in quelle situazioni,
si pensava solo a sopravvivere, tornare a casa, ai
genitori, alla morosa chi l’aveva. Io non ce l’avevo
neanche, quindi un problema in meno. Bastava venire
fuori. Alle sette della sera del nove novembre ci siamo
ritrovati sperduti su una montagna e circondati dai
Greci. Mamma mia, mi ricorderò sempre le scene
di quella notte! Tutti urlavano, c’erano quelli che
piangevano perché i Greci ci assaltavano con le bombe a
mano e non sapevamo come fare per scappare. Fortuna
che avevamo gli ufficiali che erano lì presenti a dare
ordini, gli ufficiali alpini ben s’intende, soprattutto
Rossotto, il nostro Tenente Colonnello. A un certo punto
mi giro perché sento uno che grida: “Aiuto, aiuto, sono
ferito, aiuto!” ed era Antonio Cattelan di Roncadelle,
mio compaesano, partito con me anche lui.
E allora là c’era un cavallo, l’ho caricato su e ci siamo

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buttati in mezzo ai Greci per fare un varco e passare
con tutti i feriti per farli scappare via. E ci siamo
fermati per riposare ma quelli subito hanno attaccato
di nuovo, sotto un inferno che pioveva e nevicava che
non si vedeva niente. Eravamo tutti bagnati e con
tanto freddo addosso fin dentro alle ossa. A un certo
punto riesco a ripararmi dai colpi dietro un masso
e son scivolato cadendo in uno strapiombo, su uno
sperone di roccia. E allora lì ho visto che c’era una
grotta e avevo tanto freddo ed ero tanto stanco che mi
son messo a dormire là dentro tutto bagnato e sono
riuscito a dormire a lungo. La mattina dopo mi sveglio
e non si sente niente tutto attorno, nulla neanche un
rumore di animale, deserto più completo! Mi alzo e
vedo che sotto scorre un torrente e che c’è un sentiero
che va giù che non si vedeva la notte col scuro. Scendo
per bere e c’era di là dall’altra parte una donna greca
che lavava i vestiti nel fiume. E quella là mi vede e
scappa via. Ho pensato subito: “Quella va ad avvertire
i Greci, meglio che scappo via da qua!”. Non erano
cattivi i Greci, un pochi ne ho anche conosciuti, non
erano malvagi, ma il nemico è il nemico, faceva paura
a noi e a loro facevamo paura noi. Avevano tanti mortai
che erano armi micidiali perché sparavano a raffica,
ma no cattivi, no cattiva gente. La guerra è la guerra.
purtroppo.
E va ben... allora continuo sempre lungo ‘sto sentiero,
e dopo un’ora o anche più che marciavo trovo sulla
mulattiera gli Italiani che sono stati fatti prigionieri
dai Greci la sera prima, che li scortavano giù. Sono
dovuto scappare di nuovo, che quelli non mi hanno
visto, altrimenti mi prendevano.

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Sono arrivato così su un paese che era completamente
bruciato dalla guerra, che non era rimasto più niente
in piedi: non so chi aveva bruciato tutte le case, non si
vedeva niente, c’era fumo tutto attorno al paesetto. Ho
incontrato una pattuglia degli alpini del battaglione
Gemona, un sergente con quattro-cinque soldati, che
anche loro si erano persi, ma non erano dei miei e
allora ho continuato a andare avanti.
Dopo il paese c’era una mulattiera che andava su, in
cima alla montagna, con tutte le impronte degli zoccoli
sulla neve, perché ne era caduta tanta quella notte! E
si vedevano bene che andavano in cima e le ho seguite.
Vado, giro una curva e trovo un alpino di Maserada
seduto su un sasso che mangia carne di mulo crudo
dalla gavetta. Allora son andato lì vicino e gli ho fatto:
“Compare, posso averne un po’ anche io?” e quello lì
mi ha dato un po’ di carne e mi ha fatto segno col dito
di andare avanti, e più avanti c’era il maggiore della
divisione alpina sua con altre due soldati, dispersi
anche loro. Sembra di no se non l’hai mai mangiata
cruda la carne ma è buona. Dopo dieci giorni che passi
senza mettere in bocca niente puoi mangiare anche il
pelo e lo trovavi buono lo stesso.
Ho fatto rapporto al maggiore del genio misto alpino
e gli ho raccontato tutto, che i miei compagni sono stati
catturati, ma quello mi fa di no, e mi dice, “prosegui
che i tuoi compagni li ritrovi in cima”. Sono andato
avanti e ci siamo ritrovati: “Zanardo dove eri stato fino
adesso? Pensavamo fossi già stato fatto prigioniero!”
“Chi mi? Mi no eh!” e ci hanno radunato per andare a
fare l’attacco al monte Golico.
Solo che io ero stato ferito e allora ho marcato visita e

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mi hanno mandato a visitarmi all’ospedale più vicino,
che era quello di Durazzo. Monto su un treno con la
gamba sinistra tutta fasciata e vado a Durazzo dove
trovo in caserma i carabinieri: “Bombardano qua?” gli
faccio. “Sì, anche dieci volte al giorno” mi risponde.
“Eh no che vado via dal fronte per rischiar di prendermi
le bombe in ospedale!” dico e ho ripreso il treno e sono
andato a Tirana, dove sono entrato su un bar. Là c’era
il coprifuoco alle 9 di sera, tutto era chiuso e non si
poteva andare da nessuna parte, e mi toccava aspettare
il giorno dopo per andare a fare la visita.
Ho chiesto alla signora là al banco se potevo mettermi,
che ero un soldato, e allora potevo mangiare un panino
gratis perché ero un soldato, e ho buttato giù la coperta
e lo zaino vicino alla stufa per dormire. A un certo
punto mi son sentito tutti i pidocchi che correvano da
tutte le parti col caldo e allora mi son messo a petto
nudo e mi grattavo per colpa dei pidocchi, un prurito
maledetto!Finché a un certo punto entra un tenente che
stava facendo la ronda notturna, che mi vede buttato
là per terra conciato a quel modo: “Di dove vieni te?”
“Dal fronte!”“Come mai sei qui?”
“Eh – gli mostro il bollettino della visita – dovevo
andare in ospedale che ho la gamba tutta fasciata ma
son arrivato in ritardo, devo andare in ospedale. Avevo
voglia di mangiare son venuto a mangiare”.
“Hai mangiato?” “Sì sior, ho mangiato una tazzina”.
“Vuoi mangiare ancora?” “Sì signore, se ce ne fosse
un’altra la mangerei!” Va là dalla signorina e le fa:
“Dagli da mangiare a questo soldato tutto quello che
vuole!” “Un’altre due scodelle!” urlo io. Mi sono buttato
giù là vicino al fuoco, di fianco alla stufa e non sentivo

24
più neanche i pidocchi. La mattina dopo avevo una
pancia grossa così, e son andato in ospedale. Là su
una camerata c’era uno della classe del 1901, vecchio
combattente, della contraerea. Aveva un figlia a casa
che voleva darla da morosa a me che avevo sette anni
di meno, era qua da Montebelluna. In quella passa il
professore con infermieri e dottori e mi guardano la
gamba. Tolgono le fasciature, medicano, non dicono
niente, guardano. La mattina dopo passano, fanno
lo stesso lavoro, dopo tre quattro giorni che ero là mi
domanda: “Da dove sei?” “Son dalle parti di Treviso!”
“ Io son di Padova, adesso il fronte è calmo, se posso
che c’è un posto libero in aereo, ti faccio imbarcare e
tornare in Italia”. “Grazie!”
Però dopo tre giorni mi arriva di nuovo e fa:
“Mi dispiace, mi dispiace proprio ma non posso proprio.
Sai cosa facciamo? Ti do due mesi di convalescenza,
intanto tra due mesi spero che la guerra vada finita e
te ne torni a casa!”
Va ben allora, mi manda su un convalescenziario e là
stavo un benone, ma dopo otto giorni mi capita fra i
piedi un maresciallo, Brondani, maresciallo per merito
di guerra, volontario di Spagna, un fascistone... Mi
vede là disteso: “Ehi, Zanardo come mai qua?”
“Eh, mi hanno dato due mesi di convalescenza per la
gamba!” “Cosa? Guarda che noi abbiamo bisogno di te
là! Ci manca l’eliografista!” “Ma proprio da mi l’ha da
vegner?” Il capitano che comandava là era un friulano,
tutti e due, erano paesani, e gli fa:
“Passami fermo qua due giorni e dopo andiamo su al
fronte insieme!” fa a me... io ero mona, ma non vado al
fronte con lui, perché maresciallo maggiore aiutante di

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Battaglia, voleva dire più di un capitano, se andavo con
lui mi trovavo sicuro in mezzo alla battaglia, diretto
non è che lo facevano aspettare. E allora sapete cosa ho
fatto? Vado dentro in ufficio e fatto fare il passaggio che
rientravo nel corpo e son partito per conto mio, ancora
quel giorno eh! Vado fuori dalla città e trovo camion
che portano su al fronte e monto su. Ogni tappa che
faceva il camion io mi fermavo e stavo là una giornata.
Allora avevo la licenza e quando arrivavo mi mettevano
“visto arrivare” e quando partivo “visto partire” così
ero sicuro... otto giorni ci ho messo prima di trovare
il fronte...e quando son arrivato me lo sono ritrovato
davanti: “Dove sei stato Zanardo in ‘sti giorni? Come
mai che non mi hai aspettato?”
“E ... ormai avevo deciso di andare via per conto mio e
tornare prima coi miei compagni...”
“Ma come hai fatto? Dove sei stato che io con un giorno
ero qua!” “Eh capo, qua è la licenza che parla! A lei è un
maresciallo, un aiutante di battaglia lo caricano tutti,
e io invece mi caricano quando che vogliono..” e basta
con quella l’ho fregato, perché era così per davvero, e
me la sono cavata.
Dopo son arrivato là sul fronte da novo, è là c’erano
ancora ‘sti Greci che ci sparavano dall’alto, perché
erano sopra al monte, che era il punto più alto e
loro occupavano la cima e noi dovevamo risalire per
combattere. Mi ricordo che sono serviti tre o quattro
attacchi per riuscire a conquistare la cima. Perché noi
alpini andavamo su e conquistavamo il monte, poi
arrivava il battaglione delle camicie nere, che erano i
fascisti, quelli proprio più convinti, che lo perdevano
subito. E noi lo abbiamo riconquistato di nuovo. Poi

26
loro volevano rimettersi là e li abbiamo lasciati, ma
quegli incompetenti l’hanno perso di nuovo e abbiamo
dovuto riprenderlo. E allora là abbiamo anche litigato
perché volevano stare loro lì in cima ma dovevamo
sempre arrivare noi a salvarli. E’ mancato poco che si
finiva a spararsi eh!
Quella volta è andata che il Golico era l’osservatorio
dei Greci, su in alto dove loro sparavano, e i nostri non
erano capaci di individuarne il punto perché tutti i
movimenti che faceva la nostra truppa loro sparavano
giusto, sempre dove eravamo. Da là sopra loro
dominavano tutta la Val Clusura, la strada che va ad
Argirocastro e da Argirocastro va al lago di Giannina
dove è finita la guerra. Allora per scoprire dove si erano
messi gli artiglieri alpini hanno portato su a spalle,
pensa te, un cannone 75/13 che solo la testata pesa un
quintale e dieci e 90 kg la bocca da fuoco.
In tutta la notte l’hanno portato a spalle su di nascosto,
sul punto che da là hanno colpito d’improvviso i Greci,
senza che se ne accorgessero, e hanno distrutto il loro
osservatorio, e da là è finita la guerra perché si sono
trovati che non sapevano più dove sparare, ed é venuto
l’armistizio. Dopo siamo passati a combattere ad
Argirocastro, al lago di Giannina, Atene. Poi la Grecia
ha chiesto l’armistizio, che c’è stato il 6 di aprile del
1941, e allora si sono arresi, e noi ci hanno mandato
nel Peloponneso; Corinto, Patrasso, Argo.
Ho avuto allora un mese di licenza dopo che erano
ventisette mesi che ero sempre sul campo di guerra.
In due siamo andati del mio gruppo, ti mandavano
dieci massimo alla volta, uno o due per divisione.
Siamo arrivati a Durazzo, poi in nave fino a Brindisi

27
per tornare a casa, ma dopo poco è arrivato subito un
contrordine, perché tutta la divisione Julia è stata
richiamata in Italia e doveva andare ad Osoppo, dove
c’era il comando. Lì ci mandano a Gorizia, e abbiamo
capito che dovevamo partire di nuovo, perché ci hanno
fatto consegnare tutto il nostro materiale e ce hanno
dato di nuovo; abbiamo consegnato i vestiti di tela e ci
hanno dato quelli di panno.
Anche un paio di scarpe, mamma mia, sembravano
belle ma erano fatte di cartone, perdevano le suole
dopo poco tempo.
Il cappotto col pelo poi ce l’hanno portato solo a
dicembre dopo che morivamo di freddo già da tre
mesi, e neanche a tutti, perché siccome non bastavano
la divisione Vicenza era rimasta senza. Eravamo
orgogliosi di partire. Si partiva cantando perché ci
avevano inculcato l’amor patrio, che andavamo a
combattere per l’Italia, non per il duce>>.

Ci fu anche chi compose una triste canzone.

Sul Ponte di Perati

Sul ponte di Perati bandiera nera


È il lutto degli alpini che va alla guerra.
E’ il lutto degli Alpini che va alla guerra;
la mejo gioventù la va sotto terra.

Quelli che son partiti non son tornati;


sui campi della Grecia son restati.
Sui monti della Grecia c’è la Vojussa,
col sangue degli Alpin s’è fatta rossa….

28
L’inferno di ghiaccio

<<Dopo quindici giorni di viaggio di tradotta,


schiacciati come bestie, e aver attraversato Germania,
Polonia e Ucraina, ci siamo fermati su una stazione,
e abbiamo proseguito a piedi per altri quattro cinque
giorni fino al fronte del Don.
Mi ricordo che c’era una grande collina e coi boschi
enormi tutti intorno, ovunque guardavi solo neve,
neve e distese interminabili di boschi, sempre uguale,
nessuna strada, solo piste fangose che facevi una fatica
a camminare!
Appena arrivati ci ordinano di scavare grandi buche
per terra perché dovevamo prepararci all’inverno, che
avrebbe fatto tanto freddo, ci hanno detto...i vestiti non
servivano a niente per scaldarci; ci davano un toscano
al giorno perchè erano finite le sigarette e ci avevano
promesso un pacchetto di sigarette al giorno, quando
andavi fuori di vedetta ti davano un cucchiaino di
cognac che restava attaccato alla lingua per il freddo.
Cosa vuoi che contasse un cucchiaino di cognac con
40° di freddo. Ma peggio del freddo era il vento, la bora
siberiana, che ti spazzava via con pezzi di ghiaccio che
si conficcavano sulla pelle, che sanguinavi dal viso che
rimaneva tutto pieno di ghiaccio e rotto da tutte le parti.
Quando pisciavamo non arrivava niente per terra, si
attaccava alla pelle appena usciva era già ghiaccio.
Non dico cosa bisognava fare per andar di corpo... .
Nel frattempo c’era stata anche qualche sparatoria,
lancio di bombe a mano qua e là, uno due cannonate.
Ma i Russi aspettavano l’inverno, il fronte era calmo.

29
Noi dovevamo scrivere che andava tutto bene e
che eravamo contenti, che il morale era alto, che si
mangiava bene e così perchè le lettere erano aperte e
controllate, cancellavano le righe, oppure bruciavano
le lettere.
Improvvisamente, che noi non li avevamo mai visti,
i Russi con una grande offensiva sfondano il fronte
tedesco-rumeno e arriva la notizia: “Hanno distrutto la
divisione Pusteria, prepararsi a combattere!” e ci viene
dato il contrordine di andar fuori dalle buche tutta la
divisione Julia in aiuto degli altri che scappavano, a
40° gradi sotto lo zero, un freddo che morivi congelato
se stavi fuori, perché avevano circondato il nostro corpo
d’armata.
Al 15 di dicembre, dopo che ho camminato tutta la
notte e mi sono riparato sotto una tettoia a Columbaja,
dove ho dormito su un po’ di paglia, i Russi pare che si
fermano, non li abbiamo più visti per un mese.
Siamo andati avanti col freddo e col gelo che la mattina
quando ti svegliavi la coperta era rigida per il gelo, e il
9 di gennaio mi sveglio con la febbre che non ce la faccio
neanche a camminare. Mi fanno dormire tra due muli
per tenermi al caldo, mi visita il medico e mi dà tre
giorni di riposo e una pastiglia, non so neanche cosa
fosse. Il giorno dopo eravamo accerchiati: i soldati non
sapevano niente, ma gli ufficiali sì, perché si stavano
preparando a scappare.
La mattina dopo arriva il tenente medico: “Zanardo
preparati che c’è un’ambulanza che porta feriti e
congelati all’ospedale di Podgronoje e c’è un posto
libero”. Salgo sull’ambulanza e ho fatto un viaggio
di quattro ore fra il ghiaccio e la neve e il freddo

30
che ti ammazzava. Arriviamo di fronte all’ospedale
che c’era un lungo viale di alberi e spuntano fuori
degli apparecchi russi, due aerei che cominciano un
bombardamento là davanti. Sento l’ambulanza che va
destra e sinistra dagli spostamenti di aria, poi vedo
gli autisti che scappano via e mi lasciano là in mezzo.
Allora a quel punto gli apparecchi hanno fatto due tre
giri e sono andati via. Tornano gli autisti e mi portano
dentro, ma l’ospedale è tutto occupato! Ci sono feriti
e congelati dappertutto, per terra, sui letti, i corridoi
piena di gente che urla, congelati. Mi danno una
coperta e mi dicono di mettermi in corridoio che non
c’è più posto e trovo un amico, Biasi di Lutrano.
Alle quattro della sera mi portano il termometro per
misurarmi la febbre, ce l’avevo a 38.7. Dopo altre due
ore entra il maggiore medico che urla: “Chi si sente di
camminare venga con me! Chi si sente di camminare
venga con me! Chi si sente di camminare venga con
me!”. Tre volte lo ha detto, e nessuno risponde.
Allora faccio all’amico: “Scappiamo, scappiamo!” e
quello mi fa: “Ma no sei matto? Hai la febbre, fuori
sono 40° sotto lo zero..” e allora là gli ho detto che
se scappa il capo vuol dire che ci ammazzano tutti e
siamo scappati....in due. Giriamo tutto l’ospedale ma
non c’è nessuno che vuole scappare, andati via tutti i
medici, solo feriti e congelati che piangono, urla. Siamo
scappati via noi due e gli altri sono rimasti tutti là e
sono morti, sicuro.
In quella sono passati gli alpini sciatori della
Tridentina, che scappavano anche loro passando
veloci, il maggiore medico mi vede mi fa: “Cosa hai che
sei ricoverato?” e intanto tutti che correvano, gli dico

31
che ho la febbre. “Quanta?” “38.7”
“Te la senti di camminare stanotte?” “Signorsì!”
“Allora butta via tutto quello che ti dà peso, tieniti solo
la roba da vestire!”
Sono scappato con loro, ho camminato tutta la notte,
ho riposato un poco, poi camminato di nuovo. Era così
freddo che se non dormivi dentro a qualcosa, una isba,
morivi eh! La mattina dopo mi sveglio alle sette, che
i soldati della sanità ci mettevano troppo a caricare
i muli e le slitte e gli ho fatto all’amico Biasi: “Qua è
meglio che scappiamo che se ci prendono ci fanno fuori
tutti!”
Scappiamo ancora e in quella passa la Tridentina
e ci uniamo a loro. Dopo quattro ore che marciamo
arrivano quattro carri russi enormi, grandi, giganti,
cominciano a mitragliare e a bombardare la colonna,
e pianti e urla, io non ce la facevo più a correre, non
avevo più fiato e mi son attaccato alla coda di un mulo.
Il conducente mi vede e mi fa: “Lascia la coda!”
“Lascia la coda? E vuoi che resto qua a morire? E no eh!”
E quello mi accusa che ritardo la marcia, intanto due
carri entrano nella foresta e non sparano più. Arriva
il capo: “Cos’è questa confusione?” “Lui rallenta la
marcia!” Quello allora mi guardia e vede che non sono
del battaglione suo perché abbiamo la mostrina diversa
sul cappello: “Da dove vieni te?” “Julia Conegliano!”
“Cosa fai qua?” “Sono scappato dall’ospedale con la
febbre, non ce la facevo più e mi son appeso al mulo.
Lui protesta, giusto, ma io non ce la faccio più...”
Allora quello capisce che sto male; c’era uno spazio
sulla slitta e ordina al conducente di mettersi lui il
mio zaino e caricare me sulla slitta, e mi sono fatto

32
due giorni in slitta così. Ma erano spariti i comandi, la
disfatta era completa, e il conducente a un certo punto
mi fa: “O scendi dalla slitta o ti butto giù!” e sono sceso
perché quello là doveva scappare. Per fortuna passa un
tenente con sei soldati sbandati anche loro come tutti
gli altri, e abbiamo camminato finché non abbiamo
trovato un posto per dormire perché là fuori si moriva.
La notte era gelata e tutti urlavano, incendiavano le
isbe per fare caldo, e c’erano quelli che chiamavano i
reparti: Julia, Tolmezzo, Gemona e alla fine alla sera
finalmente uno chiama Conegliano; urca Conegliano,
presente! Faccio io. Era Guglielmo Faè di Oderzo:
“Guarda chi si vede, Zanardo! Pensavamo che fossi
già morto!” e allora là gli ho raccontato tutte le mie
avventure. Nel frattempo avevo perso Biasi, non so che
fine ha fatto ma anche lui era riuscito poi a tornare,
perché ci siamo rivisti in Italia.
Passiamo due giorni assieme sempre in marcia sulla
neve e sul ghiaccio e siamo arrivati fino a una casa
dove abbiamo dormito su una soffitta. La mattina
dopo mi sveglio con tutti i piedi gonfi, congelati che
facevano un male da farmi venire da piangere e allora
ho pianto perchè non potevo mettere le scarpe e fuori
c’erano 35, 40 gradi sotto lo zero. “Senti, se mi dai le
scarpe, io che le ho finite, ti prometto che ti rubo un
mulo e ti porto fuori!” E quello là è stato di parola,
ha rubato un mulo che era là legato, lì vicino, mi ha
caricato e il 7 di gennaio mi ha portato fuori, ma non
era mica finita ancora.
Il 27 di gennaio1943 c’è stata la battaglia di Nikolajevka;
eravamo 50 mila, 60 mila su una piana, noi da una
parte i Russi da quell’altra. Eravamo schierati sui due

33
lati di una ferrovia, quella mattina hanno bombardato
gli aerei, che mitragliavano di continuo e urla e morti
e il finimondo tutto il giorno!
Alle cinque della sera il generale della Tridentina
parla dall’altoparlante: “Avanti tutti in massa se
non volete morire!” e andiamo avanti tutti in branco,
feriti, congelati, sfondiamo per passare con gli altri
che sparavano addosso, e ancora morti, feriti, e fine
del mondo per 40 km che siamo scappati, fino a che il
generale si sente di nuovo: “Coraggio siamo fuori dal
massacro!” Senza mangiare per sette-otto giorni a un
certo punto Faè mi fa sedere sulla slitta e mi dice che
torna subito. Lo vedo che entra in una isba e torna
fuori con quattro galline. Poi viene fuori una russa
piangendo che aveva cinque figli e come faceva a vivere.
Gli faccio all’amico: “Senti dai due a lei e due le tieni
per noi!” Facciamo a metà con lei, ero seduto sulla slitta
che non potevo neanche muovermi che avevo le mani e
le dita tutte congelate, ho cominciato a spellarle con
la bocca. Poi Faè ha trovato un vaso e ci siamo trovati
la sera in sei-sette su una isba e con le galline e un po’
di patate dentro al vaso abbiamo fatto una gavetta a
testa di brodo.
Partiamo di nuovo la mattina a camminare e a un certo
punto trovo Ernesto Franceschet di Vazzola, che stava
nelle Grave di Vazzola, che aveva una mucca olandese
bianca e nera che l’aveva ammaestrata. Mi vede in
quelle condizioni e mi fa: “Zanardo! Prestami il mulo,
te monti sulla mucca in groppa che io vado a vedere su
quel paesino là se c’è qualcosa da mangiare!”
Scendo e monto sulla mucca, e quello parte per il paese,
tutto armato, mitra a tracolla, e torna con un vitello.

34
Siamo tutti contenti ci fermiamo su una isba a mangiare
e preparare le bistecche: “Te Zanardo che non puoi fare
niente – su ogni isba c’è un forno con un tavolaccio
sopra – stai là al caldo tranquillo.”
In quella entra dalla porta Ghizzo Ivo, di Col San
Martino. “Zanardo vutu che te spare?” “Ih! No te
scherzarà mia?” Quello mi spara davvero, perché
faceva per scherzo ma non pensava che dentro col caldo
si sgelava il grilletto perché fuori non sparava niente.
Mi ha appena sfiorato, per poco non mi ammazzava!
Il mattino dopo prima di partire il vecchio Cici Faè
ha trovato in magazzino una botticella di vodka da
cinque litri e me l’ha messa tra le ginocchia.
Gli ufficiali invece mangiavano bene loro, e noi
dovevamo buttar via le provviste per non lasciarle ai
Russi. I Tedeschi invece avevano i mezzi per andar
via, ma se ti attaccavi ti rompevano le mani finché non
mollavi la presa, ti lasciavano là a morire e passavano
sopra coi carri.
La sera arriviamo a dormire dentro una scuola e in
una stanza abbiamo trovato dentro una donna, sarà
stata la bidella.
Quella là prende una paura quando ha visto ‘sti due
fantasmi sporchi, pieni di pidocchi. “Siamo Italiani!”
diciamo e le offriamo un po’ do cognac, della vodka e
quella là ne beve una gamella.
Ci mettiamo a dormire io e Faè per terra, ma a un
certo punto sentiamo quella là che russa che non ci fa
dormire e allora Gigi si alza e mi fa:
“Ma vuoi che quella là ubriaca dorme sulla branda e
russa e noi per terra?” Così la togliamo piano senza
che si svegli dalla branda e dormiamo in due su quella

35
al posto suo. La mattina dopo arrivano i camion per
i congelati e allora mi è toccato lasciare Faè perchè
mi hanno portato in infermeria, dove c’erano medici
tedeschi e italiani che curavano i congelati. Mi hanno
visto i piedi che me li ero infagottati con una coperta
tagliata con la baionetta e mi tirano via tutto per farmi
la medicazione e poi mi fanno montare di nuovo su un
camion, e siamo partiti un’altra volta>>.

Ritorno a casa

La caparbietà e la forza d’animo salvarono Emilio in


più d’una situazione. Anche la fortuna gli diede una
mano, facendogli incontrare persone generose come i
suoi compagni di fuga, che lo supportarono per tutto

36
il viaggio. Ma molti altri, la grande maggioranza, non
tornarono più dalla Russia, e quelli che tornarono,
sperando che per loro la guerra fosse conclusa, si
trovarono presto fra l’incudine e il martello: giunse
l’armistizio dell’8 settembre 1943, e di colpo, da paese
occupante, passammo a essere paese occupato.
<<Sono arrivato a Minsk con il camion dei congelati,
dove mi hanno visitato e dato un pacchetto di sigarette
e tre cetrioli sottaceto. Medicato dai Tedeschi con le
garze di carta igienica...pensa ti! Ci ritornano caricare
su un treno di bestiame fino a Gomel, dove gli interpreti
ci urlano:
“Italiani non muovetevi, che passiamo a darvi una
minestra di miglio!” Ma Franceschet non è stato buono
di star fermo, è smontato dal treno ed è andato a prendere
dal magazzino due scodelle, una per me e una per lui,
solo che passando per i binari si è fatto vedere da tutti
con le tazzine in mano, e tutti sono scesi dai vagoni
per andare a prendere la roba dalla dispensa e allora
i Tedeschi hanno chiuso tutto..tutti senza! Scoppia
baruffa in treno: “Causa tua che sei andato giù, è colpa
tua, no non è vero...” e via baruffa ancora. Andiamo
col treno, ci fanno fare un giro che non finisce più
perché non possiamo passare per la Germania, non ci
lasciavano perché potevamo portare il tifo pidocchioso.
Siamo finiti in Lituania per la disinfestazione. Qua ci
hanno fatto stare in un capannone nudi completi e ci
hanno fatto le medicazioni ai piedi.
Poi ci hanno portato i vestiti ma non è che ce li davano;
ci buttavano la roba a mucchi e bisognava prenderseli,
arrangiarsi. Sono riuscito a tirar fuori dei mutandoni,
una giacca e una camicia ma non avevo le braghe.

37
C’erano là le crocerossine tedesche e gli faccio capire
che mi servono le braghe. Una ride e poi capisce e me
ne porta un paio. Ci fanno risalire di nuovo su un
treno fino a Dresda dove c’è l’ospedale e mi curano là
per quindici giorni. Poi dovevo partire su dei carri di
bestiame dalla stazione, ma è arrivato un contrordine
che dovevo andare a Monaco in ambulanza perché là
si erano messi d’accordo che siccome stava arrivando
da Napoli un treno ospedaliero carico di Tedeschi feriti
dalla Tunisia, scaricavano là e caricavano gli Italiani
e si tornava in Italia.
All’altoparlante della stazione del Brennero passa una
voce che dice: “Chi ha soldi tedeschi di occupazione
può cambiarli!” Io non avevo una lira in tasca, zero,
niente. Franceschet invece a un certo punto tira fuori
dalla giacca due mazzette di soldi; perché quelli della
cassaforte durante la ritirata avevano buttato via
tutta la roba pensando che non contava più niente,
e invece Franceschet ne aveva presi su due rotoli per
scaramanzia! Solo che erano troppi e allora li ha
distribuiti a tutti, è stato gentile, chi due, tre, cinque
lire è toccato un po’ a tutti. E a me ha dato cinque lire.
Alla stazione di Bronzolo ha fermato di nuovo il treno
ospedaliero, e c’era là una donna di Tezze, di Vascellari,
che avevano beni là a Bronzolo, vicino a Bolzano. Era
una crocerossina, e mi ha fatto un panino, e mi ha fatto
anche fare un telegramma per casa.
Arriviamo a Verona e Franceschet, che aveva un altro
fratello in Russia, mi diceva di continuo:
“Chissà dove che sarà me fradel...” mi diceva sempre e
in quella l’altoparlante dice che sta arrivando un altro
treno ospedaliero dalla Russia, mette la testa fuori e

38
vede suo fratello Raffaele che arriva. Si incontrano e
gli dà dei soldi e una fiasca di vino, di Chianti e lo
mandano a Montecatini, mentre io in convalescenza
a Cesenatico per un mese. Quando siamo arrivati a
Cesenatico c’era un cordone di fascisti che doveva
evitare che qualcuno vedesse come eravamo ridotti;
era stato dato ordine alla popolazione di non uscire di
casa, nessuno doveva arrivare in stazione e avevano
preparato tutto perché il nostro arrivo fosse segreto.
Non dovevano far vedere come ci avevano mandato
a morire insomma. Là in ospedale mi danno tre mesi
di convalescenza più altri tre di proroga e mi fanno
inabile alle fatiche di guerra; mi hanno fatto fare tanti
bagni di acqua calda, tagliato la barba e i capelli.
Partiti per la Russia in 16 da Roncadelle, tornati 2….
Torno a casa, ma non faccio neanche a tempo perché
mi richiamano alla leva a Osoppo ma ho rifiutato,
perché volevo andare a Tolmezzo coi pochi compagni
che erano tornati con me dalla Russia.
Siamo partiti di nuovo per la Jugoslavia quando è
arrivato l’armistizio l’8 settembre, era di mercoledì. Il
sabato sera ci tocca scappare di nuovo alle 9 di notte;
ero assieme con Dalla Cia di San Fior ma era difficile
scappare di notte perché non si vedeva niente e non
conoscevamo la strada, ma siamo riusciti in qualche
modo ad arrivare a Udine. Qua ci separiamo perché ci
sono i Tedeschi che ci danno la caccia, e sono entrato in
una casa a mezzo giorno con la speranza di mangiare
qualcosa: “Delinquente, traditore della patria”
“Orco can!” penso io, il padrone che aveva anche un
mulino era un fascista e gli faccio: “Come traditore? Io
ho fatto la Russia...” e allora gli ho raccontato tutta la

39
mia storia, ma non ci credeva mica quello là! Fortuna
che la moglie dice al marito di lasciar perdere e capisce;
mi porta un piattino di minestra e una patata lessa,
poi ci salutiamo e riparto.
Alla notte arrivo in un paesino dove busso in una casa e
trovo una donna che conoscevo, perché era da Negrisia
proma di sposarsi ed era andata lì a stare col marito
che era in Canada. Allora mi fa entrare e dormire di
sopra. La notte sento che mi bussa la porta e mi avvisa:
“Non aver paura, sono due miei amici partigiani”.
Entrano i partigiani che volevano le mie armi: il fucile,
due bombe a mano e due caricatori: “Sì, ve le do!”
“Tu stai qua fino domani mattina alle otto che veniamo a
prenderti e ti facciamo attraversare il Tagliamento!”
Il ponte era occupato dai Tedeschi; la mattina arrivano
in bicicletta, uno si carica lo zaino e l’altro mi fa salire
sul bastone e sono riuscito a passare il Tagliamento.
Vado avanti e trovo due padovani con un carretto:
“Alpino, alpino, aiuta a spingere!”
“Sì, io aiuto a spingere se dopo mi caricate!”
E allora sono andato con loro perché dovevano andare
a Padova ma non conoscevano le strade e non si poteva
passare per il ponte di Motta perchè era controllato
dai Tedeschi. Allora li ho fatti passare per quello di
Terme Acque che non era controllato e in cambio mi
hanno portato fino a Roncadelle, e poi sul Madorbo,
dove hanno attraversato e li ho salutati e sono tornato
a casa>>.
Purtroppo per Emilio, le disavventure erano lungi
dall’essere finite: presto cominciò la guerra civile fra
partigiani e repubblichini di Salò, e lo scontro coi
Nazisti, che si resero immediatamente protagonisti

40
di feroci rastrellamenti, come ci racconta lo stesso
Emilio:
<<Diverse volte sono venuti da me i partigiani a
chiedermi se andavo a combattere, ma gli dicevo che
ormai ne avevo abbastanza, passate troppe! Andavano
casa per casa a chiedere chi voleva unirsi. Un giorno
il prete in Chiesa durante l’omelia ci avvisa tutti
che stava arrivando un comando tedesco alle scuole
elementari qua a Roncadelle, che bisognava andare
tutti per giorni a lavorare sulla Piave perché avevano
detto che cercavano lavoratori!
“Meglio andare, meglio andare” pensiamo tutti e al
mattino dopo io e altri tre ci presentiamo per andare a
lavorare e invece ci troviamo i Tedeschi che facevano il
rastrellamento. 150 persone, giovani e non giovani, ci
prendono e ci portano sulla Postumia per andare a Faè.
Fortuna che avevo con me la bicicletta in mano; passato
il cimitero dove sta Argenta c’è una casa sulla destra
in strada che fa una strettoia e una semicurva che va
dentro in via Trattori. Avevo tre Tedeschi davanti e tre
dietro col mitra spianato e ho pensato: “Quelli davanti
non si voltano mai, quelli dietro guardano sempre per
terra...mi ghe prove!” Arrivo alla casa, monto sulla bici
e comincio a spingere sui pedali giù per la stradina
di terra, sento che non mi sparano, non si è accorto
nessuno. Di tutti quelli là solo io sono scappato, gli
altri non so più che fine hanno fatto. So che alcuni
sono tornati perché li avevano catturati per controllare
i documenti, altri li hanno mandati a far lavori forzati
a Ponte della Priula e il resto chi lo sa!>>.
Cominciò la guerra civile: per due anni due parti
contrapposte del paese si ammazzarono a vicenda,

41
sino al prevalere delle forze partigiane nell’aprile del
1945. La testimonianza drammatica di Emilio Zanardo
introduce un aspetto non secondario della guerra
civile, quella che gli storici hanno chiamato “fascia
grigia”, ovvero chi non si è schierato né coi partigiani
né coi fascisti, perché desiderava solo stare in pace con
la sua famiglia, poter ricominciare a vivere, lavorare,
sognare una vita migliore con la propria amata (Emilio
si era da poco fidanzato con Danira, futura consorte).
Tutte queste persone, vissero gli ultimi anni di
guerra tra mille difficoltà, accusati dai partigiani di
essere filofascisti ne subivano le ruberie, accusati dai
fascisti di essere filopartigiani venivano incarcerati,
deportati, nella peggiore delle ipotesi torturati e uccisi.
Tutte queste furono scelte di vita che non possiamo
comprendere sino in fondo se non realizziamo nelle
nostre menti cosa significasse vivere durante una
guerra lunga e atroce come fu quella del 1939-1945.
Ci fu chi scelse di lavorare e guadagnarsi da vivere
per metter su famiglia. Come Emilio:
<<C’era una compagnia tedesca, la Todt che pagava
bene. Una offriva 5 lire al giorno, la Todt 10, ma erano
lavori più pesanti, però ho detto andiamo dalla Todt
che si prende di più. C’era un ingegnere bolzanino che
parlava due lingue a comandare e lavorava con me
tal Moro Furlanetto del Madorbo. Anche lui come me
non aveva un soldo, era preso male e aveva accettato
di andare a lavorare per guadagnare qualcosa. Siamo
andati a costruire i bunker di Maserada e Candelù
e tutta quella zona là. Il 25 di aprile, giorno della
Liberazione, avanzavo ancora la paga di giorni di
lavoro, 100 lire insomma. Ormai ero convinto di averli

42
persi, perché i Tedeschi erano in fuga, ma mi hanno
detto: “Guarda che ci sono ancora là a pagare”, allora
prendiamo noi due andiamo là, troviamo il custode
che ci urla dietro: “Schnell, schnell...”
“Eh, mamma mia, qua i ne copa tuti!”
Gli mostriamo allora il cartellino con gli orari:
“Papier, papier!” “Ah, ja, ja...” fa quello là che ci porta
dal comandante. Il comandante ci dà 100 lire a testa,
ci dà i soldi e torniamo a casa, ma abbiamo rischiato
perché potevano anche spararti! Tornando a casa ci
siamo fermati in una osteria e abbiamo bevuto un caffè
corretto e due grappe a testa...se parea i pì siori de tuta
Roncade! >>.
Ma la Liberazione del 25 aprile 1945 pose fine alla
guerra, non ai problemi: non c’era lavoro.

Vivere dopo la guerra

La sezione che si apre ora, esula dai racconti di


guerra tema principale di questa piccola ricerca, ma
era doveroso inserirla. Doveroso perché testimonia
i sacrifici affrontati dalle persone che uscirono dal
conflitto per costruirsi una nuova vita, una famiglia,
una casa. Oggi alle generazioni di ventenni, me incluso,
sembra tutto facile e scontato, ma non è così.
Le difficoltà ci sono anche oggi, ma nulla in contrario a
ciò che dovettero affrontare i nostri nonni sessant’anni
fa. Emilio Zanardo è solo uno dei milioni di esempi
di ragazzi italiani che nell’immediato dopo guerra
lasciarono le proprie case “a catar fortuna”; un

43
esempio del nostro paese, un modello a cui ispirarsi,
un inestimabile bagaglio di saggezza per le giovani
generazioni. L’Italia uscì distrutta e divisa dal conflitto.
Il referendum del 2 giugno 1946 segnò la vittoria della
Repubblica con un vantaggio nettissimo (51% contro
43%), ma la votazione aveva anche mostrato un paese
spaccato in due: il nord filo-repubblicano e il sud filo-
monarchico. Pensò l’Assemblea Costituente a mettere
fine alle questioni con l’entrata in vigore della nostra
carta costituzionale il 1° gennaio 1948:
La sfida per la giovine Italia repubblicana era enorme,
e ancor più grande quella dei milioni di Italiani che si
trovarono a lottare per costruirsi un futuro.
Come Emilio Zanardo, appunto:
<<Tornato a casa, dopo la Liberazione non si trovava
lavoro. “Cossa fae qua? Qua no se cata lavoro...!” Non
c’era niente, ventitrè, ventiquattro anni quasi, senza
un lavoro, senza soldi. Poi mi dicono che a Bolzano
stanno facendo i lavori per fare la galleria per la
centrale elettrica. Ho detto, qua non c’è niente, parto.
Vado via per arrivare là a Bolzano ma alla sera non ci
sono più le coincidenze per Merano, e mi sono fermato
là a dormire su una panchina della stazione fino
alle sei della mattina dopo che arrivava il treno per
Castelbello. Arrivo alla centrale là dagli uffici c’era una
coda di gente che non finiva più; 400 e passa operai là
ad aspettare l’assunzione. Esce il capo e ci fa a tutti:
“Stamattina non si assume più nessuno!” Io insisto,
resto là, gli altri vanno via che erano quasi tutti
meridionali. Son rimasto e il pomeriggio ho trovato
un operaio che lavorava fuori dagli uffici e gli faccio:
“Chi è che assume qua?” e mi dice di andare a chiedere

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del geometra Tettamanzi. Mi presento da ‘sto geometra,
lui mi guarda: “Da dove sei te?”
“Dalle parti di Treviso di là dalla Piave!”
“Hai i documenti?” “Signorsì!”
“Allora porta i documenti in ufficio che domani mattina
cominci a lavorare in galleria!”
Così ho fatto due anni di lavoro là nella galleria, un
lavoraccio perché c’erano tutte le infiltrazioni, c’erano i
posti che pioveva dentro e altri asciutti. Fino a che mi
arriva il capo davanti: “Zanardo, guarda che ormai
i lavori qua stanno per finire. Se vuoi stare qua a
lavorare devi andare a Plasco, che c’è lavoro per un
anno, ma devi andar là subito perché non ci sono né
strade né sentieri. C’è da fare l’ultima condotta che fa
funzionare le turbine della centrale”. Ciò, cosa faccio?
Prendo, carico i bagagli sulla teleferica e vado su a piedi.
Tre, quattro ore di cammino sotto la neve per lavorare
lassù che eri sotto una tettoia grande, con sopra la neve
che cadeva; c’era freddo e neve a 30-40 centimetri, era
dura lassù. Facevo le gabbie per i ferraioli in pratica.
Ogni giorno passava l’ingegnere della Montecatini che
dirigeva i lavori e io facevo il manovale. Dopo un po’ di
tempo hanno tolto un ferraiolo e hanno messo me da
manovale a ferraiolo, che prendevo più soldi, perché era
arrivato l’ingegnere che mi aveva detto: “Te hai fatto
carriera ragazzo. Io ho posto per te, io ti ho visto, ti ho
conosciuto, ti ho valutato, considerato e sono sicuro”.
In quel periodo là gli operai, eravamo in 600 sulle
baracche, hanno cominciato a lamentarsi del direttore
della mensa, un padovano, che non mangiavano bene,
che c’era l’acqua nel vino e cose così. Finché un giorno
lo hanno trovato con una bottiglia di olio rubata alla

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mensa e lo hanno licenziato e l’ingegnere mi propone
il posto di direttore di mensa, perché dice che si fida.
Avevo due operai sotto di me per il carico della slitta,
andavamo a fare approvvigionamento di pasta, carne,
vino, formaggio, pane, tutta la roba che serviva e là ho
fatto un altro anno di lavoro a controllare il mangiare
e distribuirlo. Poi l’ingegnere sempre mi domanda
se voglio andare a Rovereto a far su case, ma dovevo
arrangiarmi per il dormire. Ben allora gli faccio che
siccome era novembre ho detto “Torno a casa!” Tre mesi,
perché qua non c’era niente, solo piccole imprese che
pagavano in nero, e son dovuto ripartire in marzo.
Son tornato su a Bolzano che avevo una mia cugina
che aveva sposato un fratello di un frate là di Bolzano,
direttore del convento di Bolzano, padre Sebastiano
Calcinotto. E allora mi son detto: “Parto e vado a
dormir dal frate!” e così faccio. Arrivo lassù da loro,
vien fuori il frate: “Guarda chi si vede...Emilio! Come
mai qua?” “Cerco lavoro!”
“Entra, te dormi qua!” Vado a dormire e quando lui
ritorna dopo un’ora mi dice che mi ha trovato un lavoro
sull’impresa del cavalier Bona, che aveva gli uffici là
in via Dante, vicino alle carceri. La mattina dopo mi
presento all’autista, che era di Quinto di Treviso, carico
coperte sul camion per andare sul passo di Costa Lunga,
a Pontenovo. Là facevamo i muraglioni per le dighe,
tagliati con lo scalpello a blocchi di 80-90 kg che facevi
fatica in due a portarli. Poi a Pasqua tutti tornano
a casa, io no perché ero appena arrivato, ho detto
non torno a casa, resto qua e mi sono arrangiato con
qualche panino così. Intanto che sono là però scoprono
che il cuoco aveva rubato roba dalla dispensa, perché

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dentro a una valigia gli avevano trovato pasta, riso e
zucchero. Era di Chioggia, il capo lo ha chiamato, ha
telefonato al direttore che preparasse il conto e lo ha
mandato via. Licenziato.
Martedì tornano a lavorare tutti gli operai senza il
cuoco, 49 operai senza il cuoco. Arriva il capocantiere:
“Chi se la sente, chi se la sente?” “Chi se la sente di
cucinare?” “El prove a domandarghe al trevisan!”
“Sa cucinare lei, se la sente di cucinare?”
“Signorsì” gli ho fatto, e ho lavorato là otto anni come
cuoco. Però avevo voglia di tornare a casa, perché il
24 novembre 1951 mi ero sposato dopo dieci anni di
fidanzamento con Danira e nel 1953 era nato il primo
figlio, e allora gli ho chiesto al padrone di tornare a casa
e i primi lavoretti erano quelli delle cantine quegli anni
là. Così ho fatto tre anni alle cantine di Roncadelle, e
poi altri venticinque in cotonificio a Conegliano. Fino
a 65 anni ho lavorato.
La strada la facevo in moto i primi dieci anni da qua
a Conegliano, col freddo e tutto...e mi fermavo a far la
tappa in fornace a Tezze, da Bortot a scaldarmi un poco
e fare quattro parole. Poi sono arrivate le macchine e
ne ho presa una anche io per andare al lavoro.
E questa la racconto anche questa. Nel 1969 ho fatto
un anno di ospedale operato ai polmoni... otto ore di
operazione. Mi hanno dato due anni di convalescenza,
ma ho rinunciato alla convalescenza e dopo un mese
ero già là che lavoravo e adesso sono l’unico reduce di
Russia del paese ancora in vita....pensa!>>.

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Berto Battistella

Dalle Alpi ai Balcani

<<Sono partito il 2 di febbraio del 1940. Presentato a


Osoppo, sono stato destinato artigliere di montagna del
Gruppo Conegliano. Il primo di marzo eravamo già in
Grecia, a Scutari, perché gli Italiani nel 1939 avevano
occupato l’Albania e noi dovevamo occupare la Grecia
allo stesso modo. Ma le cose si sono messe male sin da
subito per noi: il 28 ottobre del 1940 fummo accerchiati
dai Greci che ci tennero quasi imprigionati sino al 17
novembre, come in una morsa.
Ci sono stati moltissimi morti, prigionieri, di tutto...
ad un certo punto siamo riusciti a distruggere una

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linea nemica, e un pochi sono riusciti a scappare, ma
era veramente tragico là in mezzo, perché quando
dovevano darci da mangiare a noi e ai muli, capitava
che i nostri passavano in mezzo ai Greci perché
eravamo tutti ammucchiati là, per giorni è andata
avanti così...allora sono riuscito a entrare in una casa,
dove ho trovato delle scatolette di sardine e gli ho detto
a un mio compagno che venisse a mangiare con me,
mangiavamo sotto la neve. Siamo scappati durante la
notte, e ci siamo fermati a dormire sotto un porticato
e la mattina dopo ci siamo ritrovati, quando ci siamo
svegliati, un greco buttato per terra con un fucile ficcato
in pancia. Dovevano avere combattuto di notte, perché
prima non c’era, ma noi non ci siamo accorti di niente
tanto si era stanchi!
Durante il giorno i nostri buttavano giù il mangiare
per noi, ma invece di cadere da noi finiva dai Greci
perché eravamo tutti ammucchiati. Così ho detto a un
mio amico di mangiare due scatolette sotto un pino.
Erano quattro giorni che nevicava, abbiamo messo
il telo per terra e la notte c’è stato il disastro: chi ha
tentato di scappare è stato ucciso, gli altri sono stati
portati prigionieri a Creta.
La mattina passava uno che prendeva a calci i corpi per
sapere se eri vivo, e siamo andati giù per una mulattiera;
fortuna che era nebbia, così non ci vedevano. Allora
siamo venuti giù, verso un paese là che non mi ricordo
più il nome e ci dicono:
“Dovete stare qua!” “Va ben”. “Tutta la notte!”
Così ci disse uno che aveva fatto la guerra in Africa nel
1935. A Valona poi era arrivato ancora il rifornimento
di uomini e muli, e siamo andati su sul Golico a

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Tepelenj sul ponte del Perati. Là c’è stato un flagello
di morti. Al 9 di marzo abbiamo portato su munizioni
e granate da Valona al fronte, dietro le minacce di un
ufficiale che diceva di ucciderci se non obbedivamo,
perché al fronte erano rimasti senza.
Il tenente Mario Candotti ci faceva correre con la
pistola in mano dietro di noi a minacciare, e mano a
mano che ci avvicinavamo, i Greci ci vedevano. Quando
sono arrivato i Greci hanno tirato sulla linea e hanno
distrutto un cannone e fatto sette morti, uno da Breda
anche, un ragazzino; ero a soli venti metri, avevo fatto
appena in tempo a scappare. Eravamo tutti ragazzini
e il capitano era dentro sul bunker che dava gli ordini:
è partita una scaglia dentro e gli è saltata via la testa
completa. L’abbiamo sepolto là, ma era un fetente,
ci comandava sempre con la pistola minacciando di
sparare! Ce n’erano anche tanti di bravi comunque!
E così, quando arriva il 25 aprile la guerra è finita.
Fortuna che i Tedeschi sono venuti in Grecia e hanno
preso i prigionieri, perchè noi eravamo finiti ormai
e dovevamo andar su in Italia. Finiamo la guerra e
andiamo a fare la sfilata a Terni.
Ma la prima volta che eravamo riusciti a venire fuori
dall’accerchiamento ci avevano detto di star là fermi,
avevamo trovato un bidone di quelli grandi. Eravamo
in dodici; là le botteghe erano tutte chiuse. Abbiamo
trovato fagioli, pasta, e così abbiamo buttato tutto
assieme e fatto un minestrone.
E io e un altro poi avevamo trovato un sacco di noci e le
avevamo portate là. La mattina vado in cerca del mulo
perché lo avevo portato fuori io, lo cerco per la spesa e
trovo il tenente Candotti che comandava e ci dice che

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bisognava andar via perché stavano venendo i Greci.
Allora prendo io e il mio amico e dividiamo le noci,
un po’ per uno perché lo zaino era pieno di mutande,
bombe a mano, munizioni e tutto quanto, e ci siamo
spartiti le noci. Candotti era stato via a studiar da
prete prima, e mi fa: “Cos’hai là Battistella?”
“Tenente el sa quanta fame che ven patì! Ho un sac de
nose, le ven trovae e see vemo divise perchè sul zaino no
e me stea pì!” ne avevo dappertutto, anche sacchettini
su per le braccia perché nello zaino non stava niente,
e mi dice allora: “Dalle a lui!” “Perché ho da darghee?
Un poche posse darghee parchè sen amici, ma qua roba
ghi n’è fin che voen.” “Dalle a lui altrimenti ti sparo!”
Io mi sposto per andare a vedere del mulo perché se i
muli erano ancora là mi riparavo, ma non c’erano più
perché lì avevano presi per andare a far la spesa; lui
prende, tira fuori la pistola e mi spara un colpo qua, sul
polso sinistro ed è rimasta dentro la pallottola! Allora
ho camminato tutta la notte e alla fine il colonnello
Rossotto gli ha fatto la ramanzina, che non si potevano
fare queste cose nel Gruppo. Alla sera arriviamo a
Ersecke e vado dentro a medicarmi e mi tirano fuori la
pallottola. Al colonnello dell’ospedale racconto quello
che mi è successo: “No se pol farghe un verbal a questo
qua che el me ha sparà!” “E cò comanda un ufficiale
bisogna sempre tacere!” E allora mi è toccato tacere
e avanti, così alla fine della guerra di Grecia siamo
andati a far la sfilata a Permet.
Dopo siamo andati nel Peloponneso e là ci hanno tenuto
fino alla primavera del 1942 e dopo ci hanno fatto
ripartire e i muli li hanno mandati per treno attraverso
la Jugoslavia, e noi altri accampati a Patrasso.

52
Gli Americani sapevano che venivamo in Italia, e
avevano promesso che tutti non saremmo riusciti a
partire da là. Viene il lunedì di Pasqua, lunedì santo
che era una bella giornata e siamo montati sulla nave;
e allora siamo andati lungo la costa greca che avevamo
i sommergibili che ci sorvegliavano, poi siamo passati
per quello lo stretto di Corfù dall’acqua greca a quella
italiana e là gli Americani hanno mollato un siluro.
Avevano attentato la Piemonte! E invece di prendere
la Piemonte hanno presa la nave di dietro, la Galilea
che c’era su l’Ottavo Alpini, divisione Gemona; erano
in 2700, se ne saranno salvati 150 a nuoto. Hanno
sbagliato per fortuna, perché l’obiettivo era la nave
nostra.
Arriviamo in Italia e mi hanno mandato a casa otto-
dieci giorni in licenza; e allora dopo presentarsi a
Gorizia, e a Gorizia ci siamo presentati là nel 1942 in
Caserma Savoia, e tirati due colpi di cannone ancora
siamo partiti e andati in Russia al 13 di agosto del
1942>>.

La Russia...di nuovo

Inserito nello stesso gruppo di Joti, il Gruppo Julia


Conegliano, 3° reggimento di Artiglieria da montagna,
15° batteria. Umberto nacque il 4 marzo 1920 a San
Michele Di Piave, frazione di Cimadolmo, il paese in
cui tutt’ora risiede, nella frazione di Stabiuzzo.
Fu arruolato nell’esercito a soli 19 anni, il 16 gennaio
1939. Arrivò anche per lui l’estate del 1942, quella

53
della spedizione di Russia.
Nel corso del resoconto della sua avventura, Berto
ripeterà più volte “ghe vol nient a contarla, zinque
anni de guera se pol contarli in zinque minuti...ma
viverli l’è n’altra roba!”

<<Siamo andati, abbiamo attraversato Austria,


Germania e Polonia. Siamo arrivati sino a metà,
perché l’anno prima i Tedeschi erano andati fino
sul Volga, di là del Don e avevano preso per andare
a Mosca, ma poi i Russi sono tornati e allora hanno
perso mezza Polonia e allora per arrivare al Don ci
siamo fermati là a metà, perché le ferrovie erano tutte
rotte, e abbiamo camminato per dieci-dodici giorni
e poi siamo arrivati in riva al Don, e siamo stati là,
abbiamo fatto i bunker in riva al Don; noi andavamo a
prendere l’acqua da bere sul Don perché il Don era come
quattro volte la Negrisia qua che passa qua dietro e i
Russi erano di là dal fiume perché l’offensiva doveva
venire in primavera. E allora al 17 loro hanno provato
a rompere la linea dove c’eravamo noi della Julia con
quelli della Tridentina, ma non sono stati capaci di
romperla; e con quella, dopo si sono fermati. C’era un
ufficiale da Treviso: “”E allora te vedarà, Battistea,
cossa che succede: lori i ha tirà via le truppe verso el
centro, li ha portadi su a Stalingrado e sul Caucaso, li
romperà dae bande e i ne serarà rento!”
E infatti così era successo: i Russi avevano visto che
da noi non passavano, e hanno attaccato le ali. E
allora il colonnello Rossotto, era il 16 di gennaio, era
notte ormai ma era anche 42 gradi sotto dello zero ci
dice: “Ragazzi imbastire i muli, caricare i cannoni...

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se arriviamo a saltare il paese siamo fuori, e sennò ci
hanno circondato!”.
Ormai loro ci avevano chiuso dentro; avevano messo
una mitraglia sui carri armati e sparavano da due
lati: chi passava passava e gli altri restavano là morti,
ma si era Italiani, Ungheresi, Tedeschi, Rumeni e ora
avanti e avevo trovato un mulo! E con questo mulo e
una slitta, e un mio amico di Breda, Condotta e uno da
Vigonovo del ’21, abbiamo fatto la pista insieme.
Dopo due giorni le scarpe non si aprivano più, pareva
che avessero buttato dentro due cazzuolate di cemento!
Taglio le scarpe e c’era ghiaccio, i piedi avevano
cominciato a congelarsi e allora ho legato un pezzo
di coperta per piede e ho camminato sempre su sulla
neve, in cima così con gli stracci. C’erano morti tutto
in mezzo alla neve, congelati, squarciati, mozzati alla
testa e ai piedi, e piangevano...aiuto di qua, aiuto di là,
un finimondo... . Quello di Vigonovo che era via con me
gli dico: “Butta via le scarpe, vara che te te congea!”
“Vara Berto che la colonna prosegue...”
“No riven fora...no riven fora!” gli ripetevo.
E perché avevo coraggio ed ero magro e forte, così
quando andavo a vedere di prendere qualcosa per le
case che alle prime non trovavi niente di solito perché
passavano gli altri che erano davanti prima, e allora
andavo su quelle in fondo che non ci passava nessuno
perché erano più distanti e lui si metteva a piangere
perché aveva paura che lo abbandonassi là e allora
avanti e avanti con un freddo che quando pisciavi
non arrivava neanche in terra, si ghiacciava prima
appena usciva. E piangeva ancora e gli taglio le scarpe
che aveva i piedi bianchi come i muli, così piangeva

55
ancora: “Veditu cossa che l’è success?”
L’ho caricato sulla slitta e l’ho portato avanti e avanti
fino a che è arrivata un’autocolonna che portava via i
congelati e i feriti, e ho caricato su anche lui e con quella
li hanno portati in Italia e a lui hanno tagliato via un
piede da sopra la caviglia e l’altro mezzo perché era
rimasto congelato! Io e quello da Breda siamo andati
a trovarlo quando siamo tornati poveretto, e abbiamo
trovato sua madre e suo padre che non sapevano cosa
farci perché se non era per me e per lui restava là dentro
ecco ed era figlio unico e gli hanno tagliato via i piedi.
Non avevamo niente da mangiare, perché gli Italiani
bisognerebbe bastonarli perché i Tedeschi dal Capitano
in giù mangiavano tutti nella gavetta coi soldati,
invece gli Italiani, gli ufficiali si tiravano fuori la parte
migliore del rancio per loro, soprattutto la carne, e
avevano anche le troie. Io e un altro in Russia abbiamo
fatto la guardia alla tenda di un colonnello che scopava
con una prostituta mentre i miei compagni morivano
al fronte, mi ricordo che entrava con la pancia piena
perché si faceva metter via il mangiare e una volta il
mio compagno fa: “Adesso vado dentro e lo uccido!”
“Assame star, no stà andar rento che sinò dopo i me
fusia tuti e dò!” gli risposi. Poi questo qua quando
siamo tornati ha anche avuto il coraggio di mandarmi
a notare che andassi a iscrivermi ai partigiani, mi ha
scritto tre quattro volte, ma non sono mai andato...
dovevo andare a sbugiardarlo quell’opportunista, ne
ha combinata una peggio dell’altra!
E quando facevano carne e brodo, facevano due mense,
a loro i mestoli di brodo e la carne fino all’osso, a noi
il brodo con l’osso. Alla sera facevano il minestrone

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con verze, fagioli, ceci. E le verze avevano i vermi, li
toglievano con la “cazzabusi” dalla fame che avevamo
mangiavamo il brodo anche guasto sulla gavetta.
La mia teneva due litri, perché serviva per la montagna
che doveva starci più roba dentro; ci davano la roba e
facevamo da mangiare dentro. Anche la roba da vestire
faceva pena, a tanti hanno dovuto fare la scarpe prima
di partire perché mancavano le misure, oppure erano
più grandi o più piccole! La gavetta invece ce l’ho
ancora, è l’unica cosa che sono riuscito a portar fuori
dalla Russia. Gli ufficiali non c’erano più durante la
ritirata, non c’era più nessuno che comandava ma gli
è stata bene che sia successa: uno ha tentato di salire
sulla slitta mia, ma l’ho buttato in mezzo alla neve
perché quando comandavano loro guai se parlavi,
bisognava arrangiarsi, solo se c’era l’ufficiale buono
stavi con lui e ti portava per le case, ma non c’era più
nessuno che comandava! Eravamo tutti uno per uno,
ma a vedere tutti quei morti giovani non era facile!
Ho visto tre Tedeschi morti abbracciati per tentare
di scaldarsi, parevano tre bambini, tutti di ventitrè-
ventiquattro anni. Io non auguro a nessuno che facciano
la guerra, e quelli che la fanno che vadano via i capi!
Sono settanti anni che penso a come ho fatto a venirne
fuori e che sono ancora qua; sangue dappertutto, sono
robe dell’altro mondo, quello lì da Rai, Meneghel, era
insieme a me, un mio carissimo amico, lui ti prendeva
la bocca da fuoco, aveva di quelle braccia che la
portava da solo, ma tante volte la portavamo in due e
mi diceva sempre: “Berto quande ‘ndene casa? Quande
‘ndene casa a bever vin raboso?” “Và, và...’ndaren sì
‘na volta!”

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A Nikolajewka, il peggior combattimento, è venuto là
ed era là assieme a me; noi eravamo alti sulla ferrovia,
come a Conegliano, e dovevamo venire giù come verso
Stabiuzzo per modo di dire no? I Russi ci sparavano
addosso, sparavano tre quattro colpi tra di noi perché
eravamo messi fissi così per arrivare in paese. Ero a
venti metri da lui, e hanno ucciso cinque sei uomini e
muli e lui chiamava “Aiuto, aiuto, aiuto...” e guardo e
vedo che aveva preso una scheggia nello stomaco. Ma io
non gli ho chiesto come stava o che lo medicassero, ho
pensato solo a caricarlo sulla slitta e portarlo via e così
quando sono arrivate le due di notte, che dormivamo
in un paese dove i Tedeschi erano andati via, inseguiti
dai Russi, chiamo:
“Silvio...Silvio...” mi vengono ancora le lacrime, ed era
morto, l’ho tirato giù, messo attaccato un muro, buttato
sopra la coperta e lasciato là e io guardo sempre la sua
fotografia ancora oggi aveva solo vent’anni, ditemi voi
perché?
Bisognerebbe che provassero quelli che fanno la guerra
cosa voleva dire tutti quei morti in mezzo alla neve. I
Russi ci passavano sopra con i carri armati, non so
come ne sono venuto fuori, perché si son salvati in
pochi. A raccontare la mia vita a quelli che governano
adesso, ai pacifisti cosa direbbero? Che sono stato un
ignorante? Se non andavi a fare la guerra una volta
ti fucilavano, non come oggi che partivi volontario,
una volta eri traditore della patria se non andavi
via in guerra, ti fucilavano! Questo è il discorso! E in
guerra ti toccava obbedire e tacere: quando dovevamo
mangiare gli ufficiali tiravano giù il pezzo di carne
migliore, poi la roba passava ai sotto ufficiali, e noi

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niente e camminare in mezzo al fango, portare lo zaino,
raccogliere la legna da metter sotto terra, scavare buco
attorno che non entrasse l’acqua e “taser sù”! A contarli
zinque ani i è pochi, ma a farli i è tanti!
C’è chi ha avuto fortuna di fare a tempo a prendere il
treno per venir fuori dalla Russia, io invece l’ho fatta
tutta a piedi. C’era anche mio fratello del ’22 via insieme,
ma erano indietro 100 km dal fronte, e avevano i muli
con cui andavano a prendere il frumento dalle chiese.
Erano fuori della sacca, lui con uno di Maserada e un
altro di San Michele; ci siamo trovati a Nikolajevka, e
lui è tornato a casa prima.
E allora avanti; dopo ci hanno preso su a un certo punto,
e siamo andati casa in due tre, e poi siamo andati via
ancora, a Tolmezzo, Villa Santina, e prima eravamo
insieme ai Tedeschi, dopo qua è caduto Mussolini
e i Tedeschi si sono rivoltati contro e dicevano che li
avevamo traditi, e che se ci ritiravamo bene sennò
loro ci prendevano prigionieri e allora siamo arrivati
a difenderci a Udine dopo aver camminato tutta la
notte, e là abbiamo messo i muli e i cannoni a cerchio
per difenderci: un pochi sono scappati alla sera e noi
alla mattina dopo.
I Tedeschi erano sulle strade col carro armato e la
mitragliatrice, perché se ti vedevano ti uccidevano.
Facevamo come le lepri, correvamo, ci nascondevamo
nei fossi, scappavamo e con quella dopo siamo venuti
casa i due tre rimasti.
“I ne a portà come i tori al macello noialtri! El re
co l’ha vist la malparata l’è scampà a Brindisi, e
Mussolini io ha ciapà e picà a Mian coa Petacci, come
in fotografia!”

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Finìa a guera?

Anche per Berto, finita la ritirata della Russia,


l’armistizio significò una scelta: combattere con
i fascisti, fuggire in montagna coi partigiani o
scegliere di non tornare in battaglia. Ma quest’ultima
scelta significava subire le vessazioni giornaliere di
entrambe le parti; costretto a lavorare per i fascisti
sotto la minaccia della pena di morte, poteva essere
malmenato anche dai partigiani che lo accusavano di

60
collaborazionismo con il nemico.
Per dei ventenni non poteva essere una scelta facile: chi
era sopravvissuto ai disastri militari italiani in Grecia
e in Russia, non aveva alcuna intenzione di tornare
a combattere; voleva ricostruirsi una vita, recuperare
amicizie perdute, lavorare per avere in tasca qualche
soldo per aiutare i genitori, che avevano vissuto per
anni in condizioni ristrettissime a causa del conflitto.

<<Prima di partire per la guerra noi eravamo fortunati


anche se eravamo sette fratelli e nove coi genitori,
avevamo da mangiare e da vivere abbastanza bene,
perché avevamo lavoro da far ceste, ho fatto quattro
cinque anni prima di andar via, trentacinque in
tutto; gli altri paesi invece non avevano niente perché
non c’erano fabbriche, nè niente una volta e dopo il
2 febbraio del 1940 mi hanno mandato la cartolina e
sono partito a fare il militare, così è successa.
Ma qua non si stava comunque tranquilli: io non
ero fascista, comunque andavamo a fare le prove da
militari ogni sabato a Cimadolmo davanti alle scuole
medie, e là c’era Piero Carraro che comandava, un
fascistone, e Leone Moro che istruiva, Monego da San
Michele e un altro dalla Guizza.
Una mattina chiamano il contrappello per vedere chi
mancava il giorno prima e hanno chiamato uno vecchio
come me, che la moglie è ancora viva, la Rita: “Paladin
Mario!” “Presente!” “Dove sei stato sabato?”
“A Feltre, a cior tabacco da naso!”
Il sabato prima avevano chiamato dentro Marino
Manganel, zio dei Celotto, Antonio era via con me tra
i Bersaglieri, e lo avevano chiamato dentro senza dirlo

61
a nessuno a gli hanno dato l’olio di ricino; Carraro è
stato. E allora sono andato là dentro e gli ho fatto:
“Che el sepie che a quei de Stabiuzz no la pì da
permetterse de darghe l’oio, parché noaltri gheo den à
lù!” “Quando ho finito con lui tocca a te!”
“Cossa? No stà vegner qua à romper i corni che ghi
né anca massa!” ed è andato via, solo che dopo sono
venuti in quattro cinque per casa a prendermi quando
dovevo partire e mi sono presentato da Carraro con la
cartolina: “Varda che i me ha ciamà a far el militar!”
“Te à cinque lire dea tessera dei fascisti da pagar!”
“Sti quà saeo cossa che fae? Sti quà me i beve tuti daea
contentezza che son dat fora dai pie de un zinghen!” e
me ne sono uscito dalla porta e non ci siamo più visti.
Ea un fetente di quelli che da solo non ti toccava, e poi
in quattro o cinque ti faceva bere l’olio, comandavano
loro. Tre-quattro anni fa hanno fatto grandi premi
per i carabinieri morti, li hanno trattati come eroi e
riempiti di decorazioni; a noi quando siamo tornati
dalla Russia non ci hanno dato niente, ci hanno preso
a sputi in faccia, che eravamo ridotti come bestie per
colpa del fascismo, ma per la gente eravamo noi che
avevamo tradito la patria!
Ci davano mille lire al giorno finita la guerra, 15 euro
adesso perché abbiamo fatto il fronte. Uno che ha
provato a vedere cosa gli vengono le vertigini!
Dove vado a parlare di queste cose mi dicono che parlo
troppo, ce ne sarebbero tante da dire invece, di come ci
trattavano e di come ci hanno trattato dopo!
Era dura veramente dopo l’armistizio star qua, perché
se potevano i Tedeschi ti sparavano subito, anche i
fascisti comunque, se sapevano che non eri uno che

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pagava la tessera. Qua da noi avevano fatto i bunker
sul Piave perché avevano paura che arrivassero gli
Americani, avevano tagliato giù l’argine tutto bene,
avevamo uno di noi che andava là a lavorare, Tito, e io
e mio fratello Gino quel giorno lì eravamo sul campo
a piantare le patate quando arrivano cinque fascisti,
comandati da un caporale piccolino con la falce in
mano: “Com’é che non siete a lavorare sotto i Tedeschi?”
“Ven un fradel chel và...noaltri ven l’esonero par star
casa, ven fat a Russia.” “Venite via con noi!”
“Scoltame qua: ho fat l’Albania, a Grecia, a Russia,
son quà par miracoeo e mi via no vegne!”
Lui allora prende e mi tira un pugno sul muso, e dopo
mi spara un colpo in mezzo alle gambe, che pensavo
mi avesse bucato, invece ha preso solo i pantaloni:
“Attaccati al muro!”
Ci hanno messi con le mani sul muro e perquisito tutti,
con gli altri due col mitra che volevano spararci. Per
fortuna che in quella è uscito mio padre:
“Pian, pian vanti copar! Che la guera l’ho fata anca mì
prima de v’altri, bisogna giudicarla!” e allora hanno
sospeso l’esecuzione, hanno rimandato mio fratello a
casa e preso me in ostaggio. Mi hanno fatto montare
sulla bicicletta, che me l’ero comprata a Faé quando
sono tornato a casa; mi era costata 1300 franchi
(lire), che tutti dicevano: “Vara Berto che sior che l’é
a Stabiuzz!” Io invece se qualcuno mi avesse dato una
bigna di pane l’avrei comprata a 10000 lire perché
erano anni che pativo la fame! Mi hanno portato nelle
scuole di Roncadelle dove c’era il Comando tedesco e
là il Tedesco mi ha detto una roba che non ho capito
niente, e un fascista, ‘sto sacramento, fa che il Tedesco

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vuole che vado a lavorare sul Piave, mi ha detto che
avevano fatto mille prigionieri, non lo so se era vero,
e mi hanno portato all’asilo di Ormelle prigioniero.
Là c’era Nino Mastelletta preso prigioniero come me
e altri anche; era lunedì e giovedì dovevano fare una
festa a un Tedesco, non so se compiva gli anni e allora
al martedì mattina io e un altro ci hanno mandato a
Tempio a prendere due damigiane di vino per la festa, e
un sacco di patate, e la sera potevamo andare a casa in
cambio, anche se la mattina dopo avevamo l’obbligo di
ritornare perché altrimenti venivano a prenderti a casa
per ammazzarti, lo facevano con tutti, se lavoravi per
loro bon, se no ti facevano lo scherzo così, e la mattina
dopo se non andavi venivano ucciderti a casa... la sera
alle quattro il Tedesco mi fa: “Sei libero, puoi andare a
casa!” “Vee ‘na bicicleta mi quà!” “Eh, hanno tirato via
la ruota, vieni domani no?”
Il venerdì mattina vado là, trovo questo qua col mitra
spianato, Roth, mi pare che si chiamava:
“Dove vai?” “A cior la bicicleta!” “Che bicicletta?” e mi
pianta il mitra addosso per uccidermi.
Ha voluto che entrassi nella stanza dove spaccavano la
legna, mi ha fatto prendere un’accetta e mi ha costretto
a spaccare la legna, perché tutti quelli che andavano a
domandare qualcosa li prendeva a li metteva a rompere
la legna, ciocche di platano grosse così, uno con la
mazza e l’altro con l’accetta; poi prende in mano un
badile e mi fa: “Non sai che io con questa ti prendo la
testa e la butto in aria e dopo torna giù e te la riattacco
ancora?” e là devi solo star zitto se non vuoi rischiare
le botte.
Dopo viene giù il colonnello davanti, che gli dice di

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darmi la bicicletta, allora il Tedesco me la butta
addosso, e poi con la pistola in mano mi fa:
“Corri sempre e non voltarti mai indietro!” e là a
Ormelle c’è l’osteria là in piazza, e sono venuto fuori
per i campi di Giol guardando sempre indietro che non
mi tirassero, son scappato a piedi, la bici non me l’ha
fatta mica prendere!
Dopo vengo casa e ho raccontato tutto a mio fratello, e
lui mi fa di andare dal Comando Tedesco a Cimadolmo,
e là hanno fatto una lettera e sono andati a prenderla,
e così hanno riconsegnato la bici a mio fratello>>.
“I ne à portà come tori al macello!” è questo l’amaro
commento di Berto su quanto accadde in quei giorni
infernali, “robe dell’altro mondo”; mandati a morire
nella neve, a 40 gradi sotto lo zero, con scarpe di
cartone, senza vestiti adatti ad affrontare il gelo, con
ufficiali che approfittavano di qualsiasi occasione per
arraffare il meglio per sé stessi e lasciare gli scarti alle
truppe, volatilizzati nei giorni della rotta. Tornati a
casa e trattati da traditori dopo aver dato il sangue e
la vita per il paese, finita la guerra.
Alcuni di quelli che tornarono ci andarono in montagna
fra i partigiani, altri si arruolarono coi repubblichini di
Salò, ma la grande maggioranza scelse di rimanerne
fuori, ne aveva viste troppe come Berto ci ricorda, un
monito che risuona vibratamente nell’aria come le
pietre delle leggi sacre:
<<Ottanta otto anni sono tanti ma dico che se mi
dicessero: “Vuoi tornare indietro ai vent’anni?” direi
no; perché se non ho provato quello che provato sì,
altrimenti preferisco andar subito ai cento anni, perché
uno che ha provato quello che ha provato io, se sapessi

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che tutte quelle cose che mi sono capitate non mi
succedono più, tornerei indietro con gli anni, ma così
andrei solo avanti, perché ne ho provate troppe!>>.
“Ne ho provate troppe!”. lo sottolineo: come dice Berto,
non ci vuole niente a raccontare cinque anni di guerra,
si sta in un attimo. Viverli però è un’altra cosa.

66
Antonio Sartor

Anche Antonio Sartor partì per il fronte quel lontano


1941, quello jugoslavo per la precisione, forse quello
meno considerato da chi si occupa di seconda guerra
mondiale, perchè di esso ci si ricorda solo per le foibe.
Ma tutto quello che ci fu prima?
L’opera di recupero della memoria che andiamo a fare
con questo racconto è importantissima per capire oggi
quel fenomeno; un fenomeno di reazione alla nostra
invasione, brutale, vergognoso, ma non diverso da
quanto noi Italiani facemmo a loro sei anni prima: li
scacciammo dalle loro case, dalle loro terre, dalla loro
vita e poi i nostri soldati, quei giovani che non sapevano
nulla di quanto accadeva al fronte perchè come radio
avevano la sola propaganda fascista, vennero inviati

67
a sorvegliare treni e ponti, stazioni, obiettivi sensibili
del terrorismo slavo. Terrorismo per il regime, lotta
di liberazione partigiana per i nostri nemici, che
difendevano con ogni mezzo la Patria invasa. Nel
mezzo, centinaia di soldati che combattevano per una
causa che non era la loro, costretti a impugnare un
fucile avendo come alternativa il carcere o la forca.
Ma lasciamo che sia Antonio a raccontarcelo.

Prima di partire

<<Sono nato il 27 marzo 1920 a Roncadelle, qua dove


sto ancora. Ho fatto le scuole qua, a sei anni sono andato
e c’era la maestra Luigina Pullini, che era tanto una
brava donna. Ho fatto fino alla quarta dopo basta,
perché era fino alla quarta a Roncadelle, e quando ho
finito son andato a lavorar nei campi come tutti.
Coi fascisti solite cose, prima balilla, dopo
avanguardista e a sedici anni eri giovane fascista,
se mi ricordo bene si andava a fare il pro militare a
Ormelle, sino al febbraio del 1940 l’ho fatto e venivano
a prenderti a casa se non eri là eh!
Al ’38, mi pare, sì mi ricordo che era di settembre del
1938, noi avanguardisti di Ormelle siamo andati a
vedere il Duce a Treviso; la classe del 1919 al 1921, ci
avevano obbligato quelli della Lega fascista di Ormelle,
e siamo dovuti andare ad applaudire Mussolini giù a
Treviso. E così stessa storia fin al 16 di marzo del 1940,
quando sono partito per Gorizia a far le prove per il
militare, e dopo a Bipacco, che è in Slovenia adesso,

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quella volta invece era italiana perchè noi l’avevamo
invasa, e insomma ero nella 23° GAF, la Guardia
Forestiera, che poi ci hanno aggregato agli Alpini e là
siamo stati sino al primo di aprile del 1941.
Prima di partire qua, cosa posso dire, lavoro poco,
niente, se avevi campi bene altrimenti poco lavoro. Noi
i più piccoli aiutavamo in casa a fare i mestieri che
si sapeva fare, più di quello non è che facevi, anche
se nel 1932, ho cominciato a fare il cariota, pensa te,
a dodici anni a portar sassi coi Menegaldo, andavi
giù nelle Grave e tornavi su con carretti pieni di roba,
di sabbia di terra, di sassi, di tutto: con Antonio e
Aristide Menegaldo andavamo in giro per i Comuni
qua della zona a portar fuori la terra per fare le strade,
la sabbia per fare le case, facevamo tutto a mano coi
cavalli, partivamo la notte col scuro che non si vedeva,
col carro pieno di roba fino anche Fontanelle, Oderzo,
alla fornace di Merlo, sì perchè i due fratelli Menegaldo
c’era grande amicizia tra di noi, poi tornato dalla
guerra ho anche sposato una loro sorella, si lavorava
tanto però, perchè era un mestiere duro, partire alla
sera col carro pieno, tornare la notte e svegliarsi presto
per caricare di nuovo, io non lavoravo tanto con la
calce, perchè erano Aristide e Antonio esperti del
lavoro con le fornaci, col trasporto della calce erano
i meglio, lavoravano per Bortot, che aveva la fornace
nel Madorbo, e poi è venuto di qua a Roncadelle e a
San Michele, quanta strada, ma a portar via la calce
andavo poche volte, erano loro che avevano l’affare con
le fornaci e fino al 1948, ho fatto questo, ho fatto ora a
vedermi il bombardamento di Treviso, perchè eravamo
là nelle Grave quando è stato, non coi Menegaldo, però,

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perchè erano prigionieri, Toni in Albania e Aristide
in Marocco poi mi son messo a fare il contadino, e
nel 1950 ho sposato Lea Menegaldo, sorella di Toni
e Aristide, e anche Decimo, che aiutavo a caricare
il camion con il badile appena lo aveva comprato,
perchè erano Toni e Decimo solo adesso a lavorare nel
trasporto, perchè Aristide era tornato con una grande
ferita alla pancia dalla prigionia nel 1946 o 1947, non
mi ricordo, e lo Stato gli aveva dato dei campi di terra
per ricompensa>>.

Fra Croazia e Slovenia

<<Il 1° aprile, come ho già detto, ho fatto il primo


combattimento. In realtà combattevi sempre, non è che
c’erano pause perchè eri sempre in guerra, solo che non
stavi dentro nella trincea. Eravamo presso Postumia,
e dovevamo combattere per entrare in Slovenia, cioè
nella Slovenia slovena, perchè una parte l’avevamo
già conquistata, e adesso dovevamo tentare di andar
dentro in Jugoslavia, dove c’erano i partigiani di
Tito, che non è che li vedevamo tanto perchè facevano
più che altro agguati e sabotaggi. Abbiamo girato
Lubiana, Novo Mesto, Bercolico, siamo andati a
conquistarla insomma, eravamo in guerra, e alla fine
tutta la Slovenia e mezza Croazia siamo riusciti a
conquistarle, e siamo stati là fino all’armistizio e dopo
è successo il disastro. Io avevo compiti di pattuglia:
dovevo fare la guardia alle stazioni, perchè non
venissero i partigiani a farle saltare. Ho partecipato ai

70
rastrellamenti dei sospetti partigiani, che poi partivano
verso non so dove, ma credo che li mandassero nei
campi di concentramento, non facevamo tante cose
noi della guardia frontiera, dovevamo sorvegliare le
ferrovie, i treni, i ponti, pattugliavamo le città a piedi,
eh! a piedi abbiamo girato dappertutto, sempre a piedi
ci facevano muovere, quindici venti giorni continuati,
senza riposo, poi un mese di ferma nella città sempre
con le pattuglie, e dopo ripresa di nuovo, e così via...
Noi si sorvegliava il Trieste-Lubiana, perchè era il
treno più importante, portava le truppe in Grecia e
Dalmazia, ed era meno pericoloso delle navi... facevamo
ventiquattr’ore di servizio nelle ferrovie, giorno e
notte, sei ore di pattuglia lungo la rete ferroviaria,
tre di riposo, e un altro battaglione stava a guardia
della linea Lubiana-Novo Mesto...le ferrovie erano
tutte controllate, ma ci facevano dannare lo stesso i
partigiani, perchè non venivano fuori a combattere,
i combattimenti duravano sempre poco, facevano
l’agguato per ritardare le truppe, sabotare le linee e poi
si ritiravano, noi riuscivi mai a beccarli, anche perchè
conoscevano bene il territorio, che era casa loro, perciò
noi la gente non ci aiutava neanche, eravamo invasori
perchè dovevano farlo?
E poi facevano saltare i ponti, che controllavamo anche
quelli là, ma una volta l’hanno fatto saltare lo stesso...
uno sulla Trieste-Lubiana, che portava i rinforzi in
Grecia, e loro hanno fatto saltare il ponte perché non
passasse il treno...così è stato fermo quaranta giorni
là sulle rotaie, che si doveva rifare il ponte, ed ero là
a sorvegliare gli operai intanto che lavoravano, che
non venisse qualcun altro a farlo saltare......e poi un

71
freddo....non come in Russia sicuro, ma freddo finché
volevi, dai venti ai venticinque gradi sotto zero..d’estate
si stava anche bene, ma non è che fossimo vestiti
male d’inverno, era proprio freddo; ci avevano dato
le maglie di lana, il cappotto, il pastrano, i guanti, il
passamontagna...di più di quelli che hanno mandato
a morire in Russia, anche perchè a noi avevano dato
anche il tempo di portarci roba da vestire da casa...
non eravamo senza vestire insomma...
Almeno c’era un buon rapporto tra di noi, perchè a
parte i primi tempi che non ti capivi e parlavi diverso
magari no, ma dopo meglio, tra di noi si stava bene,
ovvio che c’erano gli amici con cui stavi di più, ma
non c’erano litigi o altra roba, no...alla fine anche con
gli ufficiali, c’erano quelli buoni e quelli cattivi, ci
facevano marciare tanto, ma era così...”naja e guera”
pensavamo, “naja e guera”...non piaceva mica neanche
a loro di essere là...gli ufficiali dico, non erano bestiali,
cercavano di tirarci su il morale tante volte, perché l’ho
detto, anche loro se potevano fare a meno non erano là....
ma era così sotto il fascismo, eri un ragazzo che aveva
in testa solo quello che dicevano loro, pensavi che la
guerra fosse una cosa bella, un gioco, eri contento prima
di partire, dopo abbiamo scoperto tutti cosa vuol dire
far la guerra...ma era così, ti avevano convinto della
superiorità, di poter conquistare il mondo, ti avevano
messo tante illusioni in testa e tu te ne facevi ancora
di più così, credevi a tante cose, ti toccava credere
quello che ti dicevano loro perché o era la loro parola
o il resto non esisteva, loro comandavano e non c’era
altro da fare, con i fascisti potevi solo obbedire, come
in guerra... . Però comandanti buoni ce n’erano, tanti

72
anche...il Comandante del II° corpo d’Armata Roboti,
il generale Gastone Gambale, il Tenente Colonnello
Manca e il Tenente Ugo Perbellini, che erano nel mio
battaglione e che sono morti...erano brave persone,
cercavano di tirarci fuori vivi da là...
Così, fino all’otto settembre siamo stati di pattuglia in
Croazia, e non tornavi in caserma, perché non c’erano:
ti dovevi arrangiare, entrare nelle case della gente e
dormire su un pagliericcio vestito, se non avevi con te
la coperta...eravamo su un paese a 250 km da Lubiana
quando è arrivata la notizia dell’Armistizio, che i
Tedeschi ci cercavano per farci prigionieri...tutti sono
scappati, di corsa...se ti prendevano chissà dove finivi...
quattro giorni dopo ero a casa...i giorni più duri sono
cominciati proprio qua...>>.

A casa

<<Tornato a casa dopo l’Armistizio scappavo sempre,


in continuazione...c’erano i rastrellamenti dei fascisti
che cercavano i traditori, sapevano dove abitavi e ti
venivano a cercare a casa col mitra...quante di quelle
volte ho dovuto dormire fuori di casa...quella volta che
c’è stato il rastrellamento qua a Roncadelle, per vedere
se c’erano i partigiani in paese, siccome noi stiamo qua
vicini alla chiesa, mia sorella si è accorta di quello
che sarebbe successo davvero, e così mi ha avvisato,
me e i miei cugini...e siamo scappati giù nei campi a
nasconderci per paura che ci prendessero. Ci siamo
nascosti in un campo di pannocchie, e siamo rimasti là

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per tutto il giorno e la notte, senza muovere un muscolo,
senza parlare, tutto il giorno....siamo tornati casa la
notte con l’oscurità, senza farci vedere da nessuno.
Di partigiani qua ce n’erano sì del paese, ma non che
sono passati, almeno che so io, perché si rifugiavano
nelle Grave della Piave, anche se sapevo che alcuni di
loro si erano fatti assumere a lavorare dai Tedeschi
per fare la spia, ma altrimenti gli altri erano in
montagna e dopo il grande rastrellamento qua di
Roncadelle, quelli che erano qua e non hanno preso,
sono scappati a Oderzo, nella zona di Faé anche... ma
comunque dal 1944, quando sono arrivati i Tedeschi,
si stava più tranquilli, perchè loro andavano in cerca
solo dei partigiani, i fascisti cercavano anche quelli
che avevano fatto la guerra e non volevano tornare a
combattere...erano i peggiori quelli là, i più convinti...
mi toccava scappare di casa sempre quando passavano,
finché i Tedeschi non hanno portato qua il comando,
alle scuole di Roncadelle, erano che davano anche
la paga a quelli che erano andati a lavorare per loro
sulla Piave....c’era tanta fame, tanta povertà...tutto era
distrutto, non c’erano fabbriche, mancava tutto, non
avevamo più neanche lo Stato....sono andato anche io
a lavorare per loro, bisognava riuscire a mangiare, e
loro pagavano bene...20 o 30 lire al giorno...la paga
ti arrivava ogni dieci o quindici giorni, e il lavoro
era duro perchè facevi dalle otto di mattina alle
cinque di sera, dal lunedì al sabato, domenica a casa,
riposo....facevamo i bunker! Facevamo i bunker per la
controffensiva aerea, scavavamo grotte e gallerie per
ripararsi dai bombardamenti e mettere via le armi,
le munizioni, ecc....tagliavamo gli alberi; abbiamo

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costruito tutta una serie di trincee, che abbiamo poi
dovuto coprire di terra, perchè così se cadeva sopra la
bomba di un aereo, rimaneva come inesplosa, perché
la terra attutiva il colpo, e quelli dentro non sentivano
nulla e non venivano neanche visti dall’alto.
Venivano da tutte le parti a lavorare qua nelle Grave...
arrivavano camion carichi di affamati da tutti i paesi
vicini....erano tanti che avevano bisogno di mangiare,
anche vecchi pieni di rughe e con la barba bianca,
bisognava guadagnare un pò di soldi per mangiare,
perché non c’era lavoro, la roba costava tutta tantissimo
perché il fascismo la razionava da sempre, ma se ce n’era
in più se la tenevano i dirigenti, così i poveri morivano
di fame, e i ricchi vendevano il cibo al mercato nero...e
noi lì a romperci la schiena, vecchi e giovani, di tutti i
Comuni qua vicino, camion pieni...pieni!
E poi se dovevi chiedere un permesso per tornare a
casa, erano sempre in due che ti accompagnavano
per controllare che non scappassi dal lavoro...ma non
erano cattivi neanche i Tedeschi...era guerra, forse
neanche loro la volevano, come non la volevamo noi.
Hanno deciso i capi...che volete farci?>>

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Rapido (Sigirfredo Masier)

Non poteva mancare una testimonianza come quella


di Alfredo Masier: combattente in Russia, e poi
partigiano.In questo viaggio lunghissimo incontreremo
episodi inaspettati, dai rastrellamenti dei fascisti
ai soldati Russi che salvarono gli Italiani in fuga,
incapaci di vederli come nemici... “loro erano in guerra
coi Tedeschi – dice Alfredo - avevano capito che gli
Italiani erano solo carne da macello mandata là per
far vedere che eravamo forti! ”.
Alfredo Masier nacque a San Michele di Cimadolmo
il 19 novembre 1922, e a quell’epoca di certo non si
aspettava quante “gare” avrebbe dovuto correre nella
sua vita. A sei anni già sapeva come mescolare la
calce, che veniva utilizzata per disinfettare stalle e

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pollai, perchè, come dice lui, <<Ero sempre nelle Grave,
prendevo le marcandole, allora ce n’erano adesso non
ce ne sono più: una volta c’era l’acqua e le femmine
andavano a lavar sulla Piave, sotto dove eravamo noi
a prendere le marcandole, e loro correvano sempre
perchè l’acqua era fredda e non la sopportavano. C’è
stato un inverno che ha fatto talmente freddo che la
Piave ha ghiacciato, e allora io spaccavo il ghiaccio
con i sassi, andavo in cerca dei più grossi, e andavo
sotto a pescare le marcandole e gli altri pesci>>.

Le prime corse

E’ difficile suddividere la storia di Alfredo, ordinarla


cronologicamente, stabilire un prima e un dopo... le
vicende della guerra si mischiano con quelle del dopo
guerra, la vita del bambino con quella dell’adulto, e così
via, in un gioco continuo di andate e ritorni continui,
che lasciano il lettore immerso in una lettura che non
lascia il tempo di prendere il fiato.
Ho preferito allora seguire il corso delle sue memorie,
riportare per filo e per segno i ricordi di vita, senza
interromperli; lasciare a chi legge il piacere di
immaginare ed emozionarsi.
<<Le scuole a San Michele erano in piazza, dove
adesso c’è la Casa Rosada, e a fianco c’era l’ufficio
del Genio Civile. Fino alla quarta, poi la quinta sono
andato a Conegliano, ma sono andato solo due tre
volte in bicicletta e per fare gli esami. Andavo a sassi
sulla Piave per la calcina, la portavo qua a Tezze alla

77
fornace, a Roncadelle, a Maserada e da Merlo, ho
portato calce e sassi dappertutto, Roncadelle Bortot-
Spadari, Zandonadi a Maserada, Morandi-Bortot a
Tezze, nel Madorbo, anche a quella ho portato sassi,
con Luigi Menegaldo che li portava da Merlo a Oderzo,
il papà di Aristide e Antonio, era grosso, piccolo, forte
come un toro e beveva il giusto, faceva a meno se c’era
tanto lavoro.
La naja l’ho fatta a Osoppo, Gorizia, Russia e Tolmezzo,
ho scampato la Grecia perchè non avevo l’età. Battistella
e Ioti sono stati in Grecia, io no.
Il 2 febbraio del 1942 sono partito per andar sotto naja
nella tredicesima batteria del Gruppo Conegliano
divisione Julia;

“la tredicesima batteria


la meglio che ci sia
su per i monti
a guerreggiar!”

Così cantavamo a Gorizia, quando il 16 luglio siamo


andati via per la Russia; siamo arrivati là in agosto e
in settembre già nevicava.
Avevamo quattro cannoni 75/13, quattro pezzi in
gergo, sono restati tutti laggiù: uno lo hanno preso, è
entrato un colpo nella bocca da fuoco, squartati tutti
gli inservienti, morti tutti, sangue tutto intorno, morti
tutti!>>.
L’incontro con la Russia fu subdolo e ingannatore come
quello con una chimera; il caldo agosto passato a fare
il bagno nei fiumi della grande steppa lasciò presto il
passo all’inferno di ghiaccio.

78
Russia, andata e ritorno

<<Siamo partiti vestiti con una mantellina che


arrivava sopra le ginocchia e doveva servire per andare
in Russia che c’erano 42 gradi di freddo! Le scarpe non
erano neanche male come scarpe, solo che il vestimento
non era adeguato, troppo leggero.
Non mi ricordo dove siamo arrivati, perchè abbiamo
camminato tanto, ci siamo fermati prima del Don,
poi a Popofka... i libri dicono che la battaglia era a
Nikolajevka, ma la battaglia era dappertutto da quando
abbiamo cominciato la ritirata. Ci siamo fermati dove
c’era un canale d’acqua, tutto uguale, che in agosto ci
avevamo fatto il bagno tanto faceva caldo, e a settembre
è venuta la neve e poi le strade erano d’asfalto nei
centri, argilla in periferie, ciottoli nei centri più piccoli;
c’erano quelli coi muli, che andavano avanti e indietro
con l’artiglieria, chi doveva perlustrare e pattugliare e
dopo quando c’era il ghiaccio, la notte; c’erano cavalli
sciolti e puledri che andavano a bere sui ruscelli,
andavano là, spaccavano il ghiaccio con gli zoccoli e
bevevano, il ghiaccio cedeva. Noi ogni tanto andavamo
a scivolare sopra, finito il turno di guardia.
Venendo fuori dalla Russia trovavamo di tutto, come
camminavamo c’era qualcosa per terra, morti, vestiti,
moribondi, ora trovavi tutto, ora niente, e mangiare
bisognava qualcosa; allora patate ce n’erano finché
si voleva, mi ricordo sempre, ero con un amico di
Conegliano, che è morto prima di arrivare di qua in
Italia. Aveva trovato una scatola da chilo abbandonata
dai Tedeschi, ed era carne. Ci fermiamo quattro di noi

79
da una sposa, che aveva tre, quattro figli, poverina non
aveva niente, neanche le patate! Ci dice che neanche la
madre le dava da mangiare
“No stà aver pensieri Masier, assa che vae mì!” mi dice
il mio amico. Vedo che entra nella casa della madre,
vado dietro a lui e lasciamo là gli altri. La casa era
di quelle là loro, le isbe, c’era un ufficiale ungherese
dentro, e la donna urlava perchè gli stava rubando le
patate; noi avevamo paura che ci sparasse, .ma lei più
urlava più lui ne prendeva. Conservavano tutto sotto
terra, anche i meloni, sebbene fosse freddo non erano
mica gelate! C’era una scala per andar giù, una stanza
sotto terra e allora dice:
“Ciapa qua e và ‘vanti! Co l’à mes fora a testa ghea
porte via!” e allora siamo usciti io con il sacco di
patate sulle spalle e lui camminando all’indietro, che
aspettava uscisse l’ufficiale dalla stanza per sparargli,
perchè aveva buttato fuori il sacco, e noi glielo abbiamo
preso. Lui non si era accorto perché cercava gli altri
che erano sotto là e andava indietro, io davanti con le
patate sulle spalle dentro la mantellina e questo mio
amico diceva alla donna: “Pì te osa pì tin cioe sù!”.
“Co l’à mes fora a testa ghea porta via, se no l’è col
primo col quinto colpo!” e l’abbiamo fatta franca.
Allora abbiamo portato via la donna, abbiamo pelato
assieme le patate, curate, e fatto la minestra anche
per lei e i suoi figli, minestra e patate; minestra col
miglio, quello che davano da mangiare agli uccelli; in
tutti le abbiamo pelate, nove persone tra noi, lei e figli
e abbiamo buttato la scatola di carne insieme, l’unica
roba di decente che ho mangiato per mesi!
L’acqua la bevevi col cruschetto, recipiente di latta che

80
loro calavano nei pozzi per tirar su l’acqua; ti veniva
sete a bere l’acqua, perchè non era fredda, sotto non si
gela mai! Noi avevamo imparato, quando arrivavamo
nelle città, ad andare nelle ultime, perchè eravamo
sicuri che si trovava qualcosa, perchè si cominciava
a saccheggiare le prime: Ungheresi, Rumeni, eravamo
tante nazioni...
Dalla Russia sono venuto fuori a piedi... pensa no che
una volta, ho trovato un Capitano; e allora i Tedeschi
gli avevano chiesto se gli dava uomini, perchè loro
erano messi male con gli uomini, avevano tanti mezzi
ma no carne da macello, noi servivamo a quello, solo
che il Capitano gli ha risposto: “No guardi, voi non ci
date niente, non ve lo diamo neanche noi!”
Eravamo sotto i Tedeschi là in Russia, lui parlava il
Tedesco meglio di tutti, e gli disse che fosse passato un
mese, due o tre anni, lui voleva portare sani e salvi in
Italia tutti i suoi uomini e allora quello si arrabbia!
Corpo d’armata alpini in Russia eravamo ottantamila,
e siamo tornati sani e salvi in neanche cinquemila;
quegli altri sono rimasti tutti dentro... dio mio!
I Tedeschi anche ne hanno persi tanti, ma se la sono
voluta quella volta, perchè erano d’accordo Hitler,
Mussolini e Stalin, loro tre da soli potevano andare
contro tutto il mondo ed erano sicuri di vincere, ma
dopo i due pagliacci hanno voluto fregare Stalin e
senza dire niente gli sono andati contro .e allora ha
fatto bene Stalin ha fare quello che ha fatto, a dire:
“Andare in Siberia sempre porte aperte! Andare a
Mosca nè oggi, nè domani, nè mai!”
Aveva ragione, perchè aveva ragione lui: non eravamo
a casa nostra, eravamo a casa loro, quella è la casa dei

81
Russi, non degli Italiani e dei Tedeschi!
A Popofka c’era una cementeria, sono stato là un paio
di mesi, avevo imparato un pò di russo che mi è tornato
buono quando sono tornato, perchè qua a Cimadolmo
ce n’erano due, e ho ballato con loro al “El soer”, di
fronte alla casa di Camillo Bontempi, al secondo
piano...scusa, l’è mejo che torne contar dea Russia....
Ho camminato finché sono arrivato a Kiev, e là ho preso
il treno e ho fatto 80 km di treno fino a Bolzano e poi a
Bressanone mi hanno fatto fare la contumacia: entravi
da una porta e uscivi da dietro, perchè il pubblico non
doveva vedere com’eri conciato. Facevi il bagno, toglievi
i vestiti e li dovevi mettere in forno a scaldarsi; tirati
fuori i pidocchi camminavano sopra i vestiti e allora
là mi hanno dato roba nuova, di tela o come capitava,
ma a me bastava arrivare a casa, poi gli ho detto che ci
pensava mia mamma a tirar via i pidocchi.
Passavano a farti la visita una volta al giorno, una
volta al giorno per vedere se eri pieno di pidocchi, se
avevi le cendene, cioè le uova; ti ritrovavi sempre pieno,
facevano un prurito, più ne toglievi più ce n’erano,
mettevo le mani in tasca fino al ginocchio e ne tiravo
fuori un pugno, che buttavo fuori dalla finestra.
Eravamo pieni che potevamo infettare tutta Bressanone,
uno di Fontanelle lo hanno mandato a Vienna in
ospedale perchè non erano capaci di curarlo, e avevano
paura del tifo petecchiale; quanto si attaccavano alle
unghie dei piedi era tifo petecchiale.
Non vedevi l’ora di venir casa, perchè essendo via e
passato quello che hai passato, non ti pareva neanche
vero di tornare a casa, a casa mia mamma me li
curava lei i pidocchi. A Bressanone dopo i quindici

82
giorni vado a Conegliano, dove c’era un certo Meni
Perin: erano due fratelli, che abitavano a San Michele
e io sapevo che era morto suo papà. Lui non sapeva,
me lo aveva scritto mio mamma; non sapevo come fare
a dirglielo venendo casa; in corriera da Conegliano a
San Michele, gli ho detto:
“Vara che... te trova ‘na bruta novità co te và casa...
perchè to papà l’è mort!” “Scherzitu?”
“No, no, mi savee, perchè el me lo vea scrit me mama...
scusa che no te l’ho dita prima, ma no savee proprio
come dirteo... vutu che te lo disesse par strada, intanto
che se era drio caminar, ch ven caminà par mesi a
piè... no podee dirteo... vee paura che te te fermesse! Ho
spetà adess che se tornea casa... in maniera che co te
smontea te lo savea zà...”
Purtroppo Marcello Vendrame che era della mia classe
ed era via con me è rimasto là, e un altro è il cugino
di Ferruccetto, lo stradino; era sulla prima linea
quando l’ho visto; stavamo radunati per dormire su
un lungo capannone sul Don, e là li visti l’ultima volta;
là c’era così freddo che la mattina quelli che avevano
le scarpe più grandi andavano in cerca di quelli che
avevano i piedi più piccoli, perchè era come prendere
in mano un blocco di ferro a causa del ghiaccio, dal
freddo; il più piccolo doveva andare a scongelarle ogni
mattina, tutte le mattine infilava le scarpe più grandi
e andava a scongelarle tutte, anche le sue, perchè se
no non andavano su.A me non hanno mai dato del
traditore, come a Joti quella volta, ma ne ho sentite di
stupidaggini, di gente che non sa neanche quello che
dice! Una volta a Ormelle mi è capitato che uno ha detto
che: “Ho letto su un libro che quando i Russi facevano

83
prigionieri i Tedeschi, li mandavano a combattere
contro i Tedeschi!” ma và a dirlo a un’altro!
I Russi l’avevano a morte coi Tedeschi, e anche noi che
eravamo là! Noi non possiamo dire niente dei Russi,
loro volevano bene agli Italiani, mentre scappavamo
se capitava che ci prendevano ci dicevano quale strada
prendere per tornare a casa e ci lasciavano andare
ai Tedeschi no! Noi stavamo per finire in Siberia, ci
hanno detto di tornare indietro e infatti siamo venuti
fuori. Non c’era un buon rapporto tra noi e i Tedeschi.
Una volta sono venuti i complementi in Russia, non so
bene chi avessero mandato, lo dicono i libri... io non li
ho visti, nessuno di noi li ha visti! Come il treno Ape che
è finito in mano ai Russi: c’erano cappotti, pastrani, si
sono presi tutto hanno fatto bene, eravamo sulla terra
degli altri, non eravamo a casa nostra, eravamo su
quello degli altri>>.

“Eravamo su quello degli altri”: lo ripete sempre


Alfredo, come un monito; chi è aggredito si difende,
non aspetta inerme che venga la sua fine.

Una vita di corsa

“Sono tornato che ho avuto un mese di licenza e dopo


siamo andati su a Tolmezzo, poi abbiamo preso un
treno per la Jugoslavia, e sono stato là sino all’otto di
settembre. Ho trovato là un sergente maggiore e sono
scappato con lui; abbiamo lasciato là tutto e siamo
scappati, da mezzanotte a mattina; stavamo in mezzo

84
ai campi, sempre senza sapere cosa succedeva, ti
prendevano i Tedeschi ti portavano in Germania!
Abbiamo avuto fortuna perché abbiamo trovato una
sposa che aspettava il marito, disertore anche lui e lo
stava aspettando, allora ci diceva come si muovevano i
Tedeschi. Fra Udine e Pordenone abbiamo trovato un
’26, un mezzo motore e avevamo visto che c’era uno in
borghese che andava sù e giù che ci dice che era uno
che faceva scuola guida e che se volevamo il camion era
nostro, perchè era un camion della naja. Siamo saliti,
fatto il pieno e sempre strade perse, mai la principale
per paura di essere presi e dicevo loro: “Quande che
riven a un certo punto, dopo so mi che strade far!” e da
Pordenone ho fatto guida io, perchè di solito quelli col
’26 andavano in bassa Italia. Ho guidato costeggiando
la ferrovia di Sacile fino a Vazzola, dove siamo scesi
in due tre, perché ne avevamo caricati per strada.
Mia sorella e un’altro ragazzo ci sono venuti incontro
con due bici da uomo, per me e per Meni Perin che
era con me, agli altri ho insegnato che andassero ad
attraversare a Santa Maria, c’erano tanti meridionali.
Ho detto loro di non fare mai la via principale, perchè
se i Tedeschi ti prendevano ti deportavano.
Tornati a casa andavo a dormire in soffitta con l’altro
che era tornato con me, il marito della Flavia Ostan,
Tarcisio Zandonadi che era il più giovane di cinque
fratelli; avevano una casa con la soffitta e quando
arrivava notizia che c’erano i controlli andavamo su in
soffitta a nasconderci perchè eravamo disertori. Una
volta sono venuti dentro in casa che c’era mia sorella,
uno domandava l’arma e lei è venuta su a dirmi che
volevano le armi: “Daghea, daghea, chel vae fora dae

85
scatoe!” E poi c’erano anche i fascisti, che erano più
cattivi; sono venuti in due tre, e parlavano napoletano
e allora ho capito che non era Tedesco, ma un fascista
che cercava i disertori; e allora ho fatto di quelle corse:
saltavo giù dalle finestre alla sera, alte uno due metri
in modo che loro non se ne accorgevano, ma allora era
così, avevi paura che ti portassero via: mio zio e mio
cugino sono stati portati a Treviso, prima radunati
in piazza a San Michele e dopo deportati a Treviso.
Non sapevo niente neanche io di quello che c’era in
Germania, dei lager, sapevi solo che se ti prendevano
ti portavano via a fare i lavori forzati, avevi paura.
E il povero Lazzer! Quella volta che hanno ucciso
Lazzer lo hanno preso qua a San Michele e lo hanno
portato a Treviso, i serpenti dei Tedeschi portavano i
prigionieri pronti per essere deportati a Treviso alla
casa di Marcello Sanson, e lo hanno ucciso non so dove.
Appena tornato l’ho fatta franca tante di quelle volte
fra dormire sotto là, in soffitta, qualche volte scappavo
via, una volta sono saltato giù dalla finestra dietro, per
la paura mi nascondevo nei campi, su per le piante,
una volta mi è passato sotto un gruppo di Tedeschi
e due tre Italiani fascisti... dio mio, ghe à mancà poc
chea volta! Finita la guerra sono tornato a lavorare con
cavallo e carretto sino al ’62, portare sassi a Maserada
e San Michele, poi ho preso il camion, perchè la patente
l’ho fatta nel ’61, che portavo i carri di sabbia e facevo
sempre quello che diceva la polizia, perché una volta
controllavano sempre i camionisti, se guidavano bene,
se avevano la patente, cosa caricavamo.
Abbiamo fatto la patente con l’ingegner Scottieri a
Treviso, mi aveva chiesto del freno a motore all’esame,

86
e ho passato la prova. Lo conoscevano tutti Scottieri...
una volta è salito con uno, e lo ha preso così in giro
che quello che faceva la guida gli ha detto di scendere
altrimenti lo buttava giù>>.
Sempre di corsa, prima a piedi e poi sul camion, ma
nel mezzo c’è una storia di coraggio e libertà.

Partigiano

<<Io ho fatto il partigiano, e l’ho fatto senza paura dei


fascisti... non posso vederli, i fascisti non c’entrano con
me, neanche se vivo altre tre vite! Ho cominciato qua a
San Michele dalle scuole elementari ad odiarli: ero un
giellino io, e ne andavo fiero!
Presi il nome di battaglia di “Rapido”, non so quanti
eravamo in tutto, perchè tanti erano in montagna, ma
io non volevo andare lassù, ho anche un diploma per i
miei meriti di partigiano!
Erano nel Cansiglio, a Conegliano, si faceva sabotaggio,
spionaggio, riferivo i movimenti dei nemici a quelli
del Ponte della Priula, tutto di nascosto. Ogni tanto
catturavamo i fascisti. Stavo qua a casa perché andare
in montagna secondo me era meno sicuro. Però dovevo
nascondermi di continuo: quella volta che i fascisti
sono venuti in cerca fingendosi Tedeschi e invece erano
meridionali, perché parlavano meridionale, li avevano
sentiti e mi sono salvato.
Non uscivo mai rischiando di farmi riconoscere, avevo
cinque sorelle qua a casa, non facevamo entrare in casa
nessuno, non rischiavo mai di uscire nelle ore in cui

87
potevano riconoscermi o a viso scoperto; mi muovevo
nascondendomi di continuo.
Anche Carmelo Lazzer era un partigiano: quella volta
che l’hanno preso, mio zio Vittorio e mio cugino Antonio
sono stati portati in piazza a San Michele e Lazzer non
è più tornato da Treviso perché l’hanno ammazzato,
mentre mio zio e mio cugino li hanno liberati. C’era
anche Lepre con loro, perché Carmelo Lazzer lo hanno
ucciso per prendere Lepre>>.

88
Luigi Daniotti

Nei molteplici universi personali la testimonianza


eccezionale di Luigi svela una realtà poco nota, o meglio
poco studiata, priva del fascino della lotta partigiana,
di quella gappista nelle città, una realtà alla quale in
quegli anni ci si voleva rifiutare di credere: alleati dei
nemici del paese.
Gli Alleati sbarcarono in Italia mentre Luigi e i suoi
commilitoni si trovavano in Puglia; non ebbero scelta,
pensavano che la guerra fosse finita, invece per loro
era appena cominciata, costretti a combattere a fianco
degli Statunitensi e a inseguire i fascisti in ritirata. Fu
un altro aspetto della guerra civile del 1943-1945: non
solo partigiani contro repubblichini di Salò nel Nord,
ma anche fascisti italiani contro l’esercito regolare

89
italiano nel Sud e nel Centro Italia, in un conflitto
fra Italiani che perdurò sino alla conclusione della
guerra. Per una parte del paese, chi come Luigi era
stato arruolato, o meglio coercitivamente aggregato
al “Corpo Italiano di Liberazione”, era un traditore
della Patria, che aveva permesso ai “negri di invadere
il nostro paese e violentare le nostre donne”... così
dicevano i manifesti di propaganda fascista. Per
l’altra parte del paese invece, Luigi e i suoi compari
d’avventura erano degli eroi, erano coloro che li
avevano liberati dalla miseria, perchè sapevano il loro
arrivo significava la fine della guerra... e allora ecco i
salami, le fiasche di vino, le porte delle case aperte per
dormire e riposarsi.

Casa mia fu un comando straniero...

Luigi Daniotti nacque il 16 agosto del 1922, vicino


alla casa in cui vive ancora oggi e ora abitata dai figli,
mentre la casa dove ci incontriamo, un tempo residenza
dei latifondisti per cui lavorava e oggi sua abitazione,
durante la Grande Guerra fu occupata da un comando
tedesco di stanza sulla linea della Piave.
Ma con il regime, i vecchi amici, che contribuirono
alla ripresa italiana sulle rive della Piave, divennero
improvvisamente nemici; barbari, effeminati (quanto
scandalo portarono nei nostri paesi gli Scozzesi con
la gonnellina!), negri (diversi soldati inglesi erano
di origini indiana o africana, e per gli Italiani fu la
prima occasione di vedere un uomo con la pelle di

90
colore diverso dalla loro), stupratori (grande scalpore
fu provocato da quel gruppo di soldati statunitensi che
violentò alcune ragazze nel Vittoriese).
Ma Luigi, come gli altri ragazzi di allora, non sapeva
tutto queste cose che a noi sembrano così ovvie; il
regime aveva una sua propaganda, solo ciò che era
permesso dal suo controllo poteva essere saputo dagli
Italiani, il resto era tutto ciò a cui si doveva credere
perchè lo dicevano loro... punto e fine.

<<Dell’infanzia ricordo poco: ho fatto le elementari


e poi ho cominciato a lavorare nei campi e a fare il
contadino. Dopo la quarta, perchè la quinta bisognava
andare a San Polo a quei tempi là. A Tempio le scuole
elementari erano là dove c’è la sede degli Alpini oggi.
Dopo ho cominciato ad andare nei campi a fare il
contadino. La vita era magretta, io ero colono, affittuario
di Vettori; questi Vettori erano i padroni, abitavano
a Conegliano, e io ero un loro mezzadro. Questa casa
qua era loro, e qui c’era un comando tedesco durante
la prima guerra: quel lampadario là l’hanno fatto loro
per esempio (lo si vede pendere dal soffitto in salotto).
Qua si andava a fare il sabato fascista, che facevano
fare a Ormelle il pre-militare prima di andare a fare
il soldato; era il maestro Mario Bertoni che faceva
l’istruzione. Facevamo le esercitazioni militari,
sparavamo, saltavamo le mura, passavamo sotto i
reticolati, facevamo finta di fare le manovre militari.
Non mi pare che abbiamo mai preso qualcuno a casa,
a me è arrivata la cartolina mi sono presentato; arriva
la cartolina, taci, sai che devi andare... te sà vero che
no te podea mia dirghe de no ai fassisti!>>.

91
Sballottati di qua e di là

Giunti nelle Puglie per l’addestramento, Luigi si trovò


di fronte all’incredibile disorganizzazione dell’esercito
fascista, nonostante Mussolini avesse preparato la
guerra da più di dieci anni con l’insegnamento delle
tecniche militari sin dalla prima elementare e il
pre-militare al sabato. Ma lasciamo che sia Luigi a
raccontare:
<<E poi è cominciata questa guerra qua, e io neanche
avevo compiuto vent’anni che mi hanno chiamato, al 2
di febbraio e mi hanno portato a Bari, e là mi hanno
destinato al 47° artiglieria someggiata divisione Bari.
Là abbiamo fatto addestramento, il C.A.R. (Corso
di Addestramento Reclute) in provincia di Lecce, a
san Nicola di Tuglie. Marce, marce e istruzione alle
armi, marce. Coi compagni andavo d’accordo; gran
parte erano meridionali, brave persone in genere. Il
nostro Capitano era Romeo Sciascia di Taranto; era
in gamba, bravo, invece in guerra avevamo un salame:
era di Pinerolo, piemontese, non una cattiva persona
ma poco dritto! Si chiamava Peraldo, e noi cantavamo
“Preferisco il nobile Ansaldo lungo quanto il nobile
Peraldo” perchè erano fesserie le nostre, ma era un pò...
capiva poco insomma, ecco! Dicono che i Meridionali
non hanno voglia di far niente, ma quando ero sotto le
armi dicevano “Scattare!” e loro erano sempre i primi
a eseguire gli ordini! Quando si andava sotto le armi,
prima concentravano le reclute, ci istruivano e poi
ci mandavano nei reparti; io sono stato mandato al
reparto della 9° batteria artiglieria someggiata perchè

92
i pezzi andavano smontati e caricati sui muli, e allora
si diceva someggiare i pezzi, cioè caricarli sui muli. Un
pezzo andava smontato in sei pezzi: sei muli portavano
l’obice, e tre muli dietro portavano le munizioni. Non
ero un conducente io, ero servente al pezzo, dovevo
smontarli e caricarli, ed ero anche tiratore al pezzo.
La bocca da fuoco pesava un quintale e cinque, la
testata uno e diciassette; andava caricata con il
quattro, la culla con le ruote e la culla da fusto, che
rendeva possibile il rinculo del mezzo perchè non fosse
rigido alla partenza del colpo, ma era la testata la
parte più pesante. Avevamo i proiettili a pallettoni e
gli altri, non mi ricordo come si chiamavano, erano
quelli che esplodevano... erano lunghi trenta-quaranta
centimetri; il bozzolo, che aveva dentro le cariche
esplosive, veniva messo nella bocca da fuoco, veniva
incendiata la polvere e partiva il colpo. Non pesavano
tanto le bombe, ma le misuravamo per carica: prima
carica, seconda carica, terza, e ogni carica era un sacco
di polvere esplosiva, la carica massima era con tre
sacchi di esplosivo, chiamavamo cariche i sacchetti.
E da là dopo siamo stati destinati per andare in
Corsica; siamo andati a Livorno ma dopo hanno
cambiato ordini e dovevamo andare in Tunisia, ma è
partita mezza divisione ed è stata affondata; e io sono
rimasto con quelli che dovevano partire con la seconda,
dovevamo partire in due scaglioni, e per fortuna ero
con quelli che dovevano andare dopo. Siamo allora
tornati alla base a Cecchignola, in provincia di Roma,
quella era la destinazione di tutti quelli che dovevano
partire per l’Africa, era chiamata la città del soldato,
perchè c’erano tutte caserme e basta.

93
In Corsica dovevamo andare a occuparla, ma era
francese solo che dopo hanno cambiato gli ordini e hanno
mandato i battaglioni M ad occupare la Corsica... M
come Mussolini, perchè erano le camicie nere, le truppe
del duce, i fascisti più convinti, era per propaganda,
siccome non riuscivano a vincere una battaglia, li
hanno mandati a farne una facile (ricordate Joti in
Grecia?). A Cecchignola ci siamo fermati due mesi,
poi metà convoglio è partito e con quella siamo tornati
alla base a Bari, ed eravamo spostati su un paese a
difenderlo, perchè dovevano arrivare gli Alleati, a
Galatina eravamo, in provincia di Lecce, in difesa
dagli Americani. Da là è venuto l’armistizio e abbiamo
cominciato a collaborare con i “Mericani”>>.

Amici o nemici? Basta tornar casa!

Di fatto, d’ora innanzi Luigi combatté per i nemici


dell’Italia. Ma erano davvero gli Alleati i nostri nemici
o lo erano i fascisti che avevano trascinato il paese
nella fame e nella miseria, dopo vent’anni di durissima
dittatura e tre di una guerra assurda e condotta senza
mezzi nè organizzazione? Chi era il nemico? Chi era
l’amico?
<<Gli Alleati ci hanno messo subito in difesa del
campo di aviazione di Grottaglie, in provincia di
Bari. Poi siamo rimasti in provincia di Brindisi, a
Cisternino; siamo stati due tre mesi là, e da là siamo
partiti e siamo andati sul fronte, dove c’è stato il
bombardamento di Cassino, e dopo i Tedeschi hanno

94
cominciato la ritirata e noi li abbiamo seguiti, sempre
a piedi coi muli e con i cannoni. A metà strada ci hanno
motorizzato; ci hanno passato degli Alpini motorizzati
e da là abbiamo proseguito e siamo arrivati sino a
Bergamo, dove è arrivata la fine della guerra. Abbiamo
collaborato con gli Americani che ci avevano fatto
“Corpo Italiano di Liberazione”. Noi abbiamo avuto la
notizia dell’Armistizio, ed eravamo tutti contenti, ma
poi è venuto il nostro Capitano: “Voi siete contenti ma
la guerra deve ancora incominciare!” “Maria Vergine!”-
dicevamo -“come la guerra deve ancora cominciare?”
e dopo un poco di giorni ci hanno mandati in difesa
di Grottaglie perchè non ci fossero tradimenti coi
Tedeschi, che qualcuno di noi magari non era d’accordo
di stare con gli Americani che avevano invaso l’Italia:
è stato strano trovarsi in guerra assieme a loro; prima
eravamo contro, e adesso insieme, aggregati con loro
che andavano sù a Nord.
Per un periodo siamo stati a Cisternino, e dopo al fronte
sulla linea Gustav; erano due armate che andavano
avanti, l’ottava armata dove ero io era inglese, e di là
c’era la quinta, che passava sulla sinistra dell’Italia
andando in sù. I nostri reparti hanno formati il Corpo
Italiano di Liberazione, e io ero in una batteria Alpina,
ed eravamo comandati dai nostri ufficiali, anche se
collaboravano con loro.
Ogni paese che arrivavamo ci baciavano e ci facevano
festa, perchè i Tedeschi e i fascisti avevano detto a loro
che venivano avanti i negri, che stupravano le femmine
e le uccidevano, e poi vedevano che arrivavano gli
Italiani e si mettevano a piangere per la felicità, e
avevamo anche soddisfazione perchè ogni paese che

95
arrivavamo ci portavano fuori da bere, e ci trattavano
da eroi. Non abbiamo trovato chi ci diceva brutte cose,
pareva che di colpo non era più nessuno dalla parte di
Mussolini. A Bologna mi ricordo che avevano caricato
un fascista, penso il podestà, su un carro, e lo portavano
in mostra con tutta la gente intorno che lo insultava e
così, ma poi è saltato giù ed è scappato, e non sono
riusciti a riprenderlo, perchè nella confusione non lo
hanno trovato eppure.... tanta gente lui da solo scappa,
ti resta da pensare no?
Comunque a L’Aquila abbiamo trovati i partigiani
della Maiella e del Gran Sasso che cantavano:
“Falce e martello trionferà!”.
Con un temporale tremendo che ci aveva lavati tutti
dalla testa ai piedi, abbiamo fatto mezzo giro del Gran
Sasso in una mezza notte, tutti zoppi perchè ci era
entrata l’acqua nelle scarpe e aveva rovinato i piedi,
partiti alle quattro della mattina, quattro ore di sosta
per mangiare dall’una alle cinque e arrivati alle otto
della mattina dopo.
I Partigiani erano festeggiati, i Tedeschi li odiavano,
ma gli Italiani li amavano, finita la guerra sono
diventati eroi, tanti erano giovani, ragazzini anche;
mi viene in mente il Presidente Sandro Pertini, che
dirigeva i partigiani, e per i fascisti era un traditore e
finita la guerra è passato come eroe, difatti aveva fatto
il bene per l’Italia, ma ognuno parla dal suo punto di
vista, perchè per chi era fascista era una cosa, per gli
altri era il contrario!
Fino a metà Italia l’ho fatta a piedi, poi ci hanno dato
carri cingolati e siamo passati da artiglieria Alpina ad
Alpini veri e propri, con i mortai al posto degli obici,

96
che avevano il treppiedi, erano più leggeri, più facili
da caricare e tutto, da Cassino fino a Bergamo.
Finita la guerra abbiamo fatto festa. Ce n’erano due tre
qua dei paesi, abbiamo preso un ufficiale e gli abbiamo
detto: “Noi andiamo a casa!”
“Bhè fate quello che volete.... io non so niente però, fate
quello che volete ma io non so niente!” ci fa; infatti non
avevano dato ordini di dare il permesso, ma siamo
tornati lo stesso. Siamo partiti con uno da Treviso
che aveva la camionetta, siamo partiti per tornare sù
subito perchè così non ci scoprivano, assieme a lui ed
eravamo tutti contenti perchè siamo tornati a casa e
abbiamo trovato tutta la famiglia in allegria, abbiamo
festeggiato. E dopo da là ho fatto ancora un anno e
mezzo di soldato, perchè i volontari li hanno mandati
casa in congedo con un premio di 10.000 lire, e noi ci
hanno fatto aspettare un altro mese e mezzo perchè
dovevano congedare per classi; quelli anziani li hanno
congedati tutti, e quelli del ’21, ’22, ’23, hanno dovuto
aspettare il turno che entrassero alle armi quelli
della classe del ’25. Il 28 luglio del 1946 sono tornato
finalmente a casa. A casa ho continuato il mio lavoro di
contadino, non c’erano danni, il paese era come prima
e come è adesso. I miei parenti mi hanno raccontato
che c’erano i Tedeschi qua, che li mandavano a fare
i bunker sulla Piave, non lo so, ma mi dicevano che
lavoravano per niente, che non costruivano nulla:
secondo loro i Tedeschi facevano lavorare la gente per
tenerla occupata e basta, in modo che non andassero a
fare i partigiani, perchè c’erano anche loro qua, anche
se pochi. Tornato a casa colono di nuovo, mezzadro; ho
avuto 1000 lire come premio di guerra, invece i volontari

97
con un anno di soldato sono tornati a casa subito e con
10000 lire di premio. E noi si era quattro fratelli, ma
io ne ho 86 e mi accorgo che più vado avanti e più sono
stanco, anche perchè sono rimasto solo io. Mi ricordo di
Toni Menegaldo che è ancora vivo anche lui, dev’essere
in gamba perchè una volta al pre-militare diceva che
una volta era andata l’acqua della Piave dappertutto
ed era rimasto solo un posto alto dove le lepri andavano
a salvarsi su quel poco che rimaneva fuori dall’acqua.
E dopo c’erano le guardie che lo aspettavano, ma lui si
tuffava e andava a prendere le lepri e faceva i dispetti
alle guardie che non potevano attraversare il fiume
perchè c’era l’acqua che li portava via, era in piena
la Piave no? E lui raccontava che le fregava sempre...
era in gamba Toni! Comunque qua non c’era niente,
o il mezzadro o niente, e io nel 1950 mi sono sposato
e avevo i figli che crescevano, non potevo muovermi;
invece tanti negli anni ’60 sono partiti.
E noi siamo ancora qua!>>.

Lascio Luigi con la gioia nel cuore... Toni Menegaldo


è mio zio. Luigi, Berto, Ioti, Alfredo, Antonio,
tutti ricordano mio zio e mio nonno come persone
straordinarie e dal cuore d’oro. Queste persone non
immaginano neppure quale regalo mi abbiamo fatto
nel raccontarmi episodi della loro vita, che Aristide
non è più qui per raccontare, e che Toni forse ha
dimenticato... . Non saprò mai come dire loro:
“Grazie di cuore per queste parole!”.

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Rino Narder

Non è cosa facile riuscire a raccontare avvenimenti così


duri e tristi, anche se sono passati così tanti anni. Chi
li ha vissuti deve fronteggiare ricordi tragici e dolorosi,
combattere contro la stessa voglia di ricordare, che si
affievolisce con il passare dell’età. Non è facile riuscire
a trovare la forza di ricordare quei terribili anni, ma per
quanti vi sono riusciti, ecco che mettendo insieme una
dopo l’altra le varie storie ed esperienze, un qualcosa
di importante sta prendendo forma, un documento che
dimostra quanto importanti siano gli anziani nella
nostra società, una risorsa per la memoria storica e le
nostre tradizioni culturali, da fare anche nostre prima
che sia troppo tardi.
Rino è stanco, “sono nato in guerra, e l’ho fatta anche”

99
ama ripetere “ma mi ghe nò vist massa!”.

Guerra

<<Sono nato a Cimadolmo il 6 del 6 del 1916 in piena


guerra e l’ho fata anca! Son ‘ndat via de vinti ani e son
tornà dopo sie! Una volta si mangiava poco, tante volte
solo quello che ti dava la stagione: pan e fighi, cuche
e nosee, zucche, pinzha, questo era il companatico,
non c’era tanto da mangiare, anche se a casa mia
c’era di tutto perchè eravamo contadini, ma non è che
mangiavi tutto quello che volevi come adesso. Noi qua
siamo sempre stati fortunati perchè a Cimadolmo una
volta si viveva con i cesti; qua il paese era famoso per
i cesti, tutti facevano cesti; da piccoli, a dieci undici
anni, andavano nelle Grave a vimini, e poi andavamo
a venderli per 50 centesimi o una lira, per passare la
festa alla domenica. Andavamo a prendere vimini e
li portavamo ai cestai, come Barbares, che pagavano
50 centesimi o una lira al massimo, e non c’erano
biciclette: anche se volevi andare a fare l’amore con
una ragazza! Aiutavamo tanto in famiglia, eravamo
tutti contadini, uno dopo l’altro poi ci siamo spostati
e adesso sono rimasto solo io che ero il più giovane.
Finché eravamo qua ci aiutavamo l’un coll’altro.
Le scuole le ho fatte qua a Cimadolmo, ma solo fino alla
quarta perchè non avevamo i soldi per andare avanti.
Sono sempre andato a piedi, la bicicletta non l’avevo e
la macchina non l’aveva nessuno, ma era vicina perchè
era in piazza, dove oggi c’è il Municipio. E ogni giorno

100
la ginnastica, il pre guerra, là dei fascisti, con Leone
Moro e Piero Carraro che facevano gli istruttori e quelli
che non andavano, i fascisti andavano a prenderlo a
casa perchè non potevi mancare al pre-militare; Efrem
Dal Bò l’ex Sindaco di Cimadolmo, tante volte saltava
perchè non era d’accordo col fascismo, e andavano
sempre a prenderlo a casa i due capi, e gli davano l’olio
di ricino da bere.
Facevamo finta di fare la guerra, anche se quella non
era niente, capivi che avevano già in mente di fare la
guerra: fascisti, avanguardisti, militari, ogni sabato a
fare queste cose, dovevi obbedire, iscriverti ai fascisti
e quelli che non volevano o mancavano olio di ricino e
bastonate i fascisti!
Nel 1936 sono diventato maggiorenne, e ancora
prima di compiere gli anni sono partito per fare il
soldato a Vittorio Veneto; sono stato là un anno e
mezzo, e poi sono tornato a casa dove mi sono fatto
quasi un anno di congedo, prima di ripartire nel
1939 per la Jugoslavia. A Vittorio Veneto eravamo
soldati, facevamo addestramento, ero nel 55 fanteria,
I° battaglione, divisione Marche; non mi ricordo chi
comandava, ma il rapporto con gli ufficiali era buono:
se cammini bene eri trattato bene, ho sempre cercato
di fare il mio dovere, ho fatto tanta guerra e ne sono
uscito sano e salvo per grazia del signore.
C’erano tanti meridionali, ma tanti veneti anche, di
tutte le province, anche Sassari, Sicilia, ma ti capivi,
bastava parlare in italiano, non è che siamo tanto
diversi, eravamo tutti Italiani!>>
...accomunati dallo stesso, triste destino.

101
Jugoslavia

Questa parte è la più dura della testimonianza di Rino,


perchè la prigionia è un ricordo difficile da cancellare,
ma così doloroso da essere felici di dimenticarlo.

<<Sono partito da Treviso nel 1939, per andare a


Bari e poi in Jugoslavia; Trebjnie, Spalato, Makaska,
sempre a piedi sempre in marcia. Siamo sbarcati in
Albania, a Durazzo, come siamo sbarcati gli Inglesi
hanno bombardato il porto e gli Albanesi scappavano
via da tutte le parti. Da là siamo partiti e siamo andati
avanti in Jugoslavia: quanti chilometri a piedi, fino
a 74 chilometri in un giorno, e alla sera eri finito, dal

Ragusa, 15 luglio 1941. Rino con Zanchetta (a sin.) e Tarcisio Teratin di Padova (a dx).

102
freddo, dalla fatica, da tutto, dormivi per terra, avevi
tanta fame e tanta paura, perchè bombardavano da
tutte le parti. Siamo andati avanti sino a Dubrovnjk,
sempre verso l’interno, e poi sono stato preso prigioniero
dai Tedeschi dopo l’otto di settembre: prima eravamo
in guerra contro i partigiani di Tito, poi di colpo è
cambiato tutto! Eravamo vestiti all’italiana, nel senso,
avevamo la divisa, con le braghe di tela, non tenevano
tanto caldo. Io ero addetto al mortaio, quindi andavo
a rischio di essere colpito, perchè portavo l’artiglieria,
che era un’obbiettivo dei nemici; eravamo in tre a
portare il mortaio 81, pesava 80 e passa chili e aveva
tre pezzi, tre piedi, canna di lancio, piano di appoggio,
e lo portavamo in tre, un pezzo a testa, a rotazione. I
più fortunati erano i conducenti, che dovevano guidare
i muli; ma io ne approfittavo, perchè ogni tanto riuscivo
di nascosto a caricare su un mulo il mio pezzo; mi
ricordo che una volta il colonnello mi ha visto:
“Chi è quel soldato lì?”
Non ha fatto a tempo a vedermi, sapevo che voleva
punirmi e sono scappato via! Io ho avuto tanta fortuna:
una volta mi è caduta una bomba aerea davanti e non
è esplosa, proprio tra i piedi; se non mi ammazzava
l’esplosione mi uccideva colpendomi in testa, è caduta
fra i piedi. Poi è venuto l’armistizio, l’otto settembre
1943. Quella sera eravamo fuori tranquilli a raccogliere
fichi, perchè era la stagione, in quattro o cinque di
noi. Avevamo voglia di mangiar fichi, e per la radio
abbiamo sentito la notizia ed eravamo contenti.
“Domani andiamo a casa, andiamo a casa!”
C’era Bruno Serafin da Stabiuzzo che era sottotenente,
e ci disse di stare tranquilli, che non si fidava di

103
quello che succedeva, e di prepararsi a partire per la
mezzanotte. A quell’ora diede gli allarmi: io non ho
neanche dormito, dovevamo subito arrivare a Ragusa
per imbarcarci e andare in Italia. Dovevamo partire
di corsa, fatto lo zaino tutti quanti e partiti di corsa,
facendo pause ogni sei ore. Ma quando siamo arrivati
abbiamo trovato una colonna di Tedeschi e le cose hanno
cominciato ad andare male: non capivamo niente di
quello che dicevano, la strada era libera, c’erano degli
ufficiali, delle motocarrozzette, capiamo che dobbiamo
armarci di nuovo, poi ci disarmano, non riusciamo
a capire cosa succede perchè erano nostri alleati!

Sul retro di questa foto diretta alla moglie Rino scrisse:


“Non ridere se tengo la pipa in bocca è tutto per scherzo. Spero ti giunga che
male non c’è niente”. Un chiaro cenno alla politica di censura delle lettere
dei militari verso i parenti, solo quelle ritenute innocue venivano spedite,
le altre erano lette e bruciate, e chi scriveva cose ritenute pericolose per il
regime era incriminato.

104
Ci hanno dato zappe e picconi per liberare le strade
ostruite dai partigiani, che le sbarravano con alberi e
frane, ci trattarono all’improvviso come schiavi, solo
il giorno prima facevamo la guerra assieme, adesso
invece arriviamo a Ragusa e ci ritroviamo in un campo
di concentramento!
Ci hanno tolto tutte le armi, hanno rinchiuso tutti i
soldati italiani, dagli Alpini ai Marchigiani, ce n’erano
di Taranto, dall’Abissinia da tutte le parti. C’erano
soldati di guardia; poi ci hanno diviso, alcuni da una
parte, alcuni da un’altra, altri in Germania che non so
che fine hanno fatto. Noi siamo rimasti fermi a Ragusa,
non capivamo cosa era successo. Mangiavamo con
loro, disarmati, perchè speravano che noi accettassimo
di combattere con loro penso. C’erano un pò di bagigi,
ma morivi di fame se non ti portavano niente, perchè ti
davano poco. Un giorno del 1944 stavo mangiando il
rancio del mezzogiorno assieme ai Tedeschi, e sentivo le
parole “Avion, Avion”... aviazione, e uno mi aveva detto
“Avion, Avion America, Germano kaputt....” e infatti
era vero; c’era l’aviazione che bombardava e i Tedeschi
hanno cominciato a scappare perchè i partigiani di
Tito avevano sferrato un assalto al campo, e abbiamo
provato a scappare via tutti anche noi, perchè
pensavamo volessero ucciderci, visto che eravamo stati
in guerra contro. In ritirata a piedi, in macchina, c’era
un fiume da passare e solo una corda per attraversare
e Tedeschi non ne ho più visti neanche uno, solo gli
Slavi, i partigiani, che ci hanno preso e interrogato:
“Tu Italiano... vai a casa Italiano, tu buono, Germano
schhhh...” si mettevano la mano destra sotto il collo e
imitavano il gesto dell’impiccagione.

105
Avevo 29 anni quella volta; poi i partigiani, eravamo
su una isola loro prigionieri e non venivamo fuori,
avevano detto che ci portavano in Italia, e invece ci
hanno portato dal comando delle SS. Per punizione
questi ci hanno messo lungo un muro e ne hanno uccisi
uno sì uno no: eravamo in trenta, io ero il secondo…
hanno sparato ai due di fianco, ne ho visti quindici
morire così, eravamo a Lissa o Lesina, non ricordo.
Uno sì, uno no e poi ci hanno lasciato andare, e i
partigiani ci hanno soccorso, portati in terraferma e
mandati in Italia: eravamo traditori e le SS avevano
chiesto un po’ di noi ai partigiani per vendicarsi, gli
altri vivi dovevano dare il messaggio agli altri Italiani,
che dovevano capire che loro non risparmiavano
nessuno>>.

Rino con Giuseppe Trovò, commilitone di Montegrotto Terme. Rino scriveva


per l’amico analfabeta le lettere per la moglie, e in cambio Trovò, che era
cuoco, gli passava sempre un po’ di cibo in più.

106
<<In genere però i partigiani dicevano mandavano
gli Italiani a casa, i Tedeschi li ammazzavano, non
so perché; a noi di persona a parte quella volta non
fecero niente, eravamo anche noi in guerra contro di
loro, anche perchè alcuni di noi erano ancora a favore
del fascismo e dei Tedeschi. Comunque loro ci hanno
ricoverato, ci hanno portato su un binario morto per tre
quattro mesi e ci portavano da mangiare, ci trattavano
bene, poi finalmente la guerra stava per finire e hanno
cominciato a congedare le classi, dal 1912 al 1914, e
allora è arrivato anche il mio turno e sono tornato in
Italia, a Taranto. Là ho fatto la contumacia, perchè
eravamo pieni di pidocchi, buttato i vestiti e dato la roba
nuova, poi Brindisi, e siamo tornati su, ma i Tedeschi
non mollavano. Siamo arrivati con dei motocarri a
Treviso, e ce n’erano altri due da Cimadolmo, uno
era quello che aveva l’osteria nelle Grave: aveva una
bicicletta un pò scassata, ma mi ha portato fin casa.
Tornato a casa nel settembre del 1945 abbiamo fatto
una festa enorme, e una mangiata come non la facevo
da anni e sono ancora qua, ringraziando il Signore,
perchè ne ho viste tante, le ho passate tutte io; ho visto
donne che si prostituivano per riuscire ad avere due
soldi per dare da mangiare ai figli, donne legate con le
gambe e le braccia aperte a due pali per essere violentate
da gruppi di soldati... tante cose brutte ho visto, troppe,
ma almeno son vivo ho imparato un po’ di parole in
slavo, fino a un po’ di tempo fa mi ricordavo bene.
Tornato a casa mi sono sposato subito, nel 1946 e ho
comprato sei campi di terra per 80.000 lire, un poca
l’ho lavorata, sull’altra ho costruito la mia casa, da
solo: ho fatto anche il muratore, sapevo fare la malta:

107
io facevo la malta e Aristide e Decimo Menegaldo mi
portavano la calce e i ciottoli. Adesso è mio figlio Bruno
che fa i cesti, io non li faccio più, finita la guerra ho
fatto il contadino, il muratore, ho fatto strade come
quella qua davanti: le preparavo, mettevo giù i ciottoli
per poi passare l’asfalto.
Sono qua ancora, non so fin quando e poi non so dove
vado, cioè si lo so dove andrò, andrò a casa mia: qua
non è casa mia, quando muori torni finalmente a casa
tua, qua non è la casa di nessuno, di là c’è la casa di
tutti, è l’unica cosa sicura del mondo!>>

Io non so dove sia casa mia, o se esiste una casa


nell’aldilà, ma queste parole sono bellissime: “qui non
è la casa di nessuno”; dovremo ricordarle e tenerle a
mente sempre, perchè non possiamo trattare il mondo
in cui viviamo come fosse nostro, poiché esso non ci
appartiene.

108
Cornelio Savoini

La vita e le storie di guerra di Cornelio, si


interconnettono direttamente con la vita dell’intero
Comune di Cimadolmo, ma la vita di Cornelio ha
significato anche guerra, fame, miseria, che sono i fili
conduttori del presente lavoro. La povertà della terra,
le devastazioni della Grande Guerra, la disastrosa
autarchia fascista, la militarizzazione della società in
vista di un nuovo conflitto, non permisero ai giovani
di allora di progettare il proprio futuro, non fu data
loro la possibilità di scegliere cosa potessero fare nella
vita.
Cornelio avrebbe tanto voluto studiare, ma dovette
adattarsi a fare il mestiere che più odiava per avere
da vivere: il contadino.

109
Una vita senza padre

Cornelio Savoini nacque l’otto di febbraio del 1921,


e non poté mai conoscere il padre, morto a tre mesi
dalla sua nascita a causa delle gravi ferite riportate
durante i combattimenti della Grande Guerra.
La madre, sentendosi estranea a casa dei suoceri,
preferì allora tornare nella casa dei genitori, in Borgo
Mareschi, una delle parti più antiche del paese del
Cimadolmo.

<<A quei tempi l’economia era tutta quanta basata


sui lavori dell’agricoltura, ma la terra non produceva
tanto come produce oggi, mancavano i crittogamici,
mancavano le concimazioni e tutto il resto; ognuno
faceva quello che poteva con quattro bestie, non c’era
neanche il trattore che in due ore fai un campo e via,
andavi con due vacchette, facevi quelli che potevi fare
dal primo sole all’ultima luce, finché era chiaro lavoro.
Le scuole le ho fatte qua a Cimadolmo, dove adesso
c’è il Comune, e la quinta a San Polo. A quei tempi
stavo vicino a Rino Narder in Via Baracca, dentro su
una stradina a sinistra della via: là stavano i nonni
materni, perché ero orfano di guerra e mia mamma
quando è morto mio papà è tornata da loro. Cimadolmo
oggi è irriconoscibile rispetto ad allora, neanche
paragonabile: le strade non erano asfaltate, le case
erano baracche, oggi tutti hanno fatto le ville, tanto per
fare un esempio, là da Rino Narder c’era la latteria, e
vicino alla latteria c’era una tabella, anzi, erano due
pali con una tabella attaccata con scritto: “autoveicoli

110
15km/h”! Ma ce ne saranno stati due in tutti il paese,
ma andavano a venti massimo. E a questa tabella,
eravamo ragazzini, andavamo tutte le sere a tirare i
sassi! Quello era il borgo Mareschi, o “Spigarioe”; in
dialetto si diceva così, era il dialetto di qualche cosa,
non so cosa, Mareschi erano una famiglia, una volta
c’era un capitello, ma adesso l’hanno buttato giù.
Fino ai sedici anni ho vissuto dai nonni materni,
poi siamo venuti di qua, dove sto adesso, io e mia
mamma. Le scuole erano fatte così: erano due turni
con quattro classi, un turno la mattina con la quarta,
uno il pomeriggio con le altre tre, sempre con la stessa
maestra, la Margherita Vendrame, che mi ha fatto
scuola dalla prima alla quarta. Era una brava donna
e una maestra bravissima, nfatti anche se dovevo
aiutare sui campi, questa era la mia ultima passione,
perché mi piaceva tanto la scuola, avrei voluto andarci
ma non potevo, perché mia mamma non poteva
permetterselo; l’unico modo era di andare in Collegio a
Treviso, altro modo non c’era e perciò mi è toccato stare
a casa e fare l’ultimo mestiere che mi sarebbe piaciuto
fare: il contadino. Poi eravamo obbligati a fare il
sabato fascista, ma noi si era una classe di ribelli, io
ero il peggio, ma tutti eravamo bravi a farli ammattire.
Allora al sabato, siccome di solito si facevano quattro
cinque giorni di festa prima di partire, noi, siccome
era sabato, ci siamo detti: “Vuoi che oggi che ci siamo
messi a fare festa andiamo a fare il sabato fascista?”
“Ma noooo!!!” Solo che ciò, era una mancanza grave! E
allora cosa facciamo? Perché dovevamo radunarci in
piazza dove ci sono le scuole oggi, mentre una volta era
il dopo lavoro. Dovevamo radunarci e c’era Carraro,

111
un pezzo grosso, non scherzava mica, era il segretario
del partito fascista: cosa facciamo, cosa facciamo?
Decidiamo di radunarci, e lui era là, e siamo passati
davanti a lui cantando canzoni scherzose, ed è diventato
di tutti i colori! Ci ha denunciati tutti ai Carabinieri
e il Maresciallo, il sabato dopo ci hanno portati là, si
vedeva che gli toccava farlo perché doveva farlo ma
era contro il fascismo, solo che doveva obbedire, e ha
concluso: “Bravi! Se tutti fossero come voi, invece di
fabbricare caserme dovrebbero fabbricare prigioni!” e
ci ha lasciato andare.
Eh sì Carraro era il segretario, e a qualcuno hanno
dato anche l’olio, come al mio compare Efrem Dal Bò,
che lo hanno preso e dato l’olio non so neanche per
quale mancanza>>.

La porta si apre ed entra la moglie Maria, compagna


di sessant’uno anni di vita assieme, con un reperto
prezioso fra le mani: la gavetta di Cornelio, conservata
gelosamente sin dal giorno della partenza per la
guerra. Ora dentro al piccolo recipiente stanno dei bei
fiori, simboli di pace e fratellanza, ma un tempo, il
prezioso cimelio ospitò brodaglie insipide e ranci pieni
di vermi, frutti della miseria e dell’assurda tragedia
che si chiama guerra.

In guerra

<<Sono partito due anni dopo, perché il primo anno


non ho passato la visita, il secondo mi hanno fatto abile

112
ma sono rimasto a casa come orfano di guerra e figlio
unico, e sono partito con la classe del ’23 il 10 gennaio
del 1943. Non ho fatto nessun addestramento, dopo
un paio di mesi che eravamo là, subito in Jugoslavia,
perché l’esercito era stato duramente sconfitto dai
partigiani, una bella batosta. Il comando divisione era
Ragusa, ma noi eravamo fu
ori, noi ci hanno mandato prima a Trebinje poi a
Mustar, dove l’esercito era stato sconfitto e noi eravamo
di rinforzo, avevano chiesto rinforzi e il 10 gennaio
siamo partiti e il primo di aprile siamo arrivati a
Mustar. A Treviso, al distretto militare ci avevano
dato la gavetta con poca roba da mangiare, e un po’ di
vestire a Dosson, dov’era la caserma del 55 fanteria di
cui facevo parte, 12° compagnia plotone mortaio 81.

113
Non era un pezzo di artiglieria il mortaio, ma un
cannone che si divideva in tre pezzi: tubo di lancio,
piastra e cavalletto o congegno di puntamento, che
pesavano venti kg. l’uno e portati a spalla.
Lo portavamo in tre, coi pezzi a turno,; bisognava
prepararlo a sparare in 50 secondi massimo, ecco
perché si portava a mano, se era sui muli perdevi tempo
a cercarli, poi con gli spari scappavano, e invece i pezzi
dovevano essere sempre pronti al fuoco. Se i tre pezzi
erano portati a spalle da tre uomini assieme si stava
prima; i partigiani facevano agguati, non è che potevi
stare tranquillo, ma io non ho sparato colpi, e anche
partigiani ne ho visti pochi, perché ero di guardia al
comando tattico di montagna, un po’ fuori dal fronte.
Una notte però è stata bella, perché ho svegliato tutti:
ero di guardia col mortaio montato e sentivo la terra e
i sassi muoversi: “Chi va là?” e non risponde nessuno
e i sassi si muovono ancora; allora mi prende la paura
e sparo dappertutto e vedo che si era staccato un mulo
che era lui che faceva i rumori, intanto tutti si svegliano
spaventati per gli spari, poi vedono cosa ho fatto, me
ne hanno dette di tutti i colori!
Il comando ci mandava a guardia o in ispezione, e
qualcuno arrivava, ma arrivavano quelli malati;
erano i partigiani che non potevano più stare con gli
altri perché malati o feriti che si facevano catturare,
o quelli moribondi. Loro attaccavano spesso la notte,
ma noi non venivamo attaccati, almeno il nostro
reggimento, perché abbiamo sempre rispettato gli
Slavi: avevamo l’ordine dai nostri comandanti che nei
paesi in cui facevamo il rastrellamento, se gli abitanti
combattevano o si arrendevano, rispettarli e metterli a

114
lavorare per noi, se invece scappavano dovevamo dare
fuoco ai villaggi, ma il nostro reggimento si è sempre
rifiutato, non abbiamo bruciato neanche una capanna,
e allora dico io che ci volevano bene, perché non hanno
mai fatto un attacco contro di noi, ma c’erano anche
le camicie nere; ecco quelli là non potevano mettere il
naso fuori della caserma che gli sparavano addosso!!!
Poi è arrivata la notizia dell’armistizio ed eravamo
tutti contenti che la guerra fosse finita, ma avevamo
paura perché eravamo fuori, lontani dal comando
divisione, spersi sulle montagne a 60 km da Ragusa!
Finalmente dopo aver aspettato tanto, arriva l’ordine
di rientrare a Ragusa per raggrupparsi, e rientriamo a
piedi. Quella notte era scuro, avevo camminato la notte
e tutto il giorno prima, mi addormentavo camminando;
ci fermiamo per i dieci minuti di riposo, butto lo zaino
a terra e casco subito dal sonno…quando mi sveglio
gli altri erano già partiti. Ero su una stradina persa di
montagna, all’una di notte e non ho più visto nessuno:
“Ah benon, come fene qua adess?”
Sentivo i passi però, perché quando ci sono tanti che
marciano li senti i passi, anche se sono distanti. Pieno
di sete mi alzo, ascolto il rumore e li vedo laggiù, ma
era un minuto, non sai mica i partigiani da dove
saltavano fuori, avevo una pistola, perché avevo da
portare il mortaio e mi toccava la piastra, ma da solo;
non era tanto simpatico là camminar da solo, il mortaio
resta là, ho pensato; ho caricato la pistola e lo tenuta
in mano, e sull’altra una bomba a mano, e pensavo:
“Mi intant camine, e el primo che trove no ghe domande
se l’è Itaian o lé Tedesco…mi spare, perché qua l’è mi o
ti!” Ma per fortuna dopo un po’ di chilometri di marcia

115
li ho ripresi perché si erano fermati a fare una pausa e
me la sono cavata, per quella notte.
Arrivati a Ragusa ci siamo fermati sulle alture prima
di entrare a Ragusa, abbiamo preso posizione, messi
i mortai per sparare e stavamo fermi là ad aspettare
ordini. A Ragusa stavano combattendo un po’, c’erano
un po’ di sparatorie, noi eravamo là senza ordini senza
nulla, non capivamo nulla di quello che succedeva, era
solo baldoria che la guerra era finita. Poi i Tedeschi
avevano promesso questo e quell’altro, di dare loro le
armi che in cambio tornavamo in Italia per nave o in
treno; noi non avevamo ordini dall’alto, non potevamo
muoverci, eravamo senza viveri, abbiamo consegnato le
armi e siamo entrati a Ragusa; lì ci hanno accampato
in riva al mare in una pineta, ma adesso viene il bello
però…dopo due tre giorni mi sento male…c’era ancora
un resto di ospedale italiano, non mi sentivo bene e ci
sono andato. Là ho incontrato Rino Narder, che mi ha
passato un grappolo d’uva e io gli ho dato un pezzo di
pane, perché di mangiare non ne avevo proprio voglia
dal male che stavo. Sono stato ricoverato in questo
rudere dove non c’era più niente col tifo: mi hanno curato
per quello che potevano, fatto qualche puntura, mah!
Fatto sta che stavamo in cinque su una camera, tutti e
quanti malati uguali, due sono morti, perché il tifo è una
malattia bestiale, che se non è curata subito uccide, e
poi eravamo in condizioni disperate, non mangiavamo
quasi mai ed eravamo diventati tre scheletri e da là, io
e gli altri due superstiti, verso il novembre, ci hanno
presi e portati su un campo di concentramento in
Austria. Ho avuto un colpo di fortuna: io se non avevo
quella fortuna là dopo quindici venti giorni, un mese

116
al massimo, in campo di concentramento sarei morto,
perché con la malattia che avevo e con le condizioni che
ero sarei morto sicuro e mi hanno mandato invece da
una famiglia di contadini; e là sì sono stato fortunato:
da mangiare finché volevo, come un lupo mangiavo,
e lavoravo anche, e mi volevano anche bene, ma ho
avuto tanta fortuna perché il capofamiglia era stato
prigioniero in Italia durante la guerra del 15-18, e non
faceva che parlare bene degli Italiani, perché anche lui
lo avevano mandato su una famiglia di contadini e si
era trovato bene, così io volevo fare bene a mia volta per
ringraziarlo; mi sono trovato bene, stavo bene là, e dopo
40 anni sono ritornato a trovarli, ma i più vecchi erano
morti. La figlia però, la Resi, aveva la mia età, ma non
mi riconosceva. Poi le ho mostrato le foto che mi aveva
lasciato, e mi ha riconosciuto e fatto una festa che non
finiva più; mi chiamavano Romeo, no Cornelio!
Come mai mi hanno mandato su una famiglia di
contadini? Non ero l’unico, ce n’erano altri Italiani
nel paese, tutti erano via a fare il militare, e allora le
famiglie anziane chiedevano prigionieri di guerra per
fare i lavori agricoli, altrimenti non c’era più nessuno
che curava i campi, non è che fossi solo io così nel
paese>>.

Dai Tedeschi ai Russi, fin casa

<<Il paesino in cui ero stato mandato era posto 50-


60 km fuori da Vienna, al confine con l’Ungheria,
appena fuori dai confini tra i paesi. Ero in paese da

117
una trentina di mesi ormai, e nel 1945 sono arrivati i
Russi e sai, neanche loro erano tanto simpatici, e sono
arrivati una notte che non era tanto simpatica neanche
lei, ma lasciamo stare. Hanno fatto il disastro i Russi:
erano arrivati e quello mio era il primo paese austriaco
tedesco o come vuoi dire: hanno fatto il disastro con le
ragazze, le femmine, tutto quel che capitava perché un
ufficiale o un graduato non so cosa, era venuto a dirci
che doveva requisirci tutto, carro e cavalli per portare
le munizioni e voleva che il capofamiglia andasse con
loro fino a un paese dove ero stato già una quindicina
di volta, a Frankirchen, una quindicina di km più in
là e così mi fa: “Vai te? Mi fai un piacere?”
Lui ormai era un vecchio, e mi avevano sempre trattato
bene, e allora gli ho detto che andavo io. Mi caricano
sul carro con le munizioni per andar via e siamo andati
a Frankirchen, ma arriviamo là e non mi mollano,
niente, tornare a casa non mi fanno andare:
“E magnar?” sono stato quindici venti giorni al fronte
con loro a portare le munizioni e non ho mai visto
dare da mangiare né a loro né a noi, perché eravamo
quattro cinque reclutati a forza come me. Mai visto dar
da mangiare a loro, bisognava che si arrangiassero
perché dovevano arrivare a Berlino prima degli
Americani, e dovevano correre, non gli portavano il
cibo, lo rubavano nei villaggi che trovavano; entravano
nelle case, uccidevano le vacche, e noi con loro non ci
davano niente e non ci facevano tornare a casa.
Loro entravano nelle case come padroni, e a un
certo punto la fame era diventata tanta e i contadini
scappavano dalle case, così una sera siamo entrati
in un pollaio e abbiamo preso tre quattro galline per

118
mangiarle; dentro e fuori per le case poi, svelto per
rubare i resti del pasto ai Russi, che facevano il maiale
affumicato e una volta gliene ho rubato mezzo, e dovevi
correre per un bel pezzo di maiale, e per il pane, che
facevano le belle ruote di pane enormi che con una
ho mangiato otto giorni, e mi ero anche procurato un
cassonetto per metterci la roba perché loro non davano
niente da mangiare, così la nascondevo.
Girà di qua e di là arriviamo ai dintorni di Vienna
che era una bella giornata di sole, ma Vienna pareva
un temporale: la città era il come la casa del demonio,
fuoco, fumo, e noi eravamo là alle porte fermi fino a
sera. Poi ci fanno tornare indietro, non so perché e per
cosa, e cosa succede? Facevamo una strada di pianura
che sentiamo venir giù un apparecchio, che volava
dritto; continuamente puntava da noi:
“Cancaro! Te cascarà prima o dopo!” e dopo qualche
metro prima di colpirci “patapum”, casca e salta per
aria! Corri di qua e corri di là, il carro, che era anche
vecchio, perde una ruota, si rompe un asse ed era scuro
ormai, cosa facevo con tre ruote e il carro carico di
munizioni? Arriva un sergente russo che ci comandava
e ci dice di metterlo su un lato della strada per far
passare la colonna e scaricare le munizioni; tiriamo da
una parte verso il fosso per lasciare il passaggio e quelli
tirano su le munizioni e partono via, e io resto là con tre
ruote e ben, ho pensato, correrà anche con tre ruote il
carro, li prendo subito… niente! Passano due-trecento
metri sulla strada, cosa succede? Una bicicletta! Perché
i Russi, per andare a cavallo rispetto, ma per andare
in bicicletta proprio no! Andavano via come ubriachi,
prendevano una bici e dopo due tre metri “patapum”

119
per terra! Montavano su di nuovo dieci metri e per terra
ancora, sembrava che non sapessero neanche cos’era e
le buttavano via allora! In mezzo alla strada, e si è
agganciata sotto a dove mancava la ruota e non potevo
correre, anche se i cavalli tiravano avanti lo stesso.
Niente allora mi è toccato fermarmi: e lavorare per
liberare il carro dalla bicicletta, e allora sì che son
partito, e come che correvano i cavalli! E corri e corri
sono arrivato su un paesetto e ho rallentato pian
pianino e vedo aprirsi un portone: lui aveva paura di
me e io avevo paura di lui, e con un po’ di tedesco gli
ho chiesto se aveva visto passare una colonna e mi ha
detto che erano appena passati, e li ho presi.
Arrivato là quello che mi comandava, dove arrivavamo
su un paese mi mandava a procurare fieno per i cavalli,
e mentre sono andato in un cortile è saldato fuori un
altro Russo, che là dovevano avere il Comando, e stava
spaccando la legna, e mi ordina di continuare al posto
suo; io non capivo niente ma si capiva a gesti cosa
voleva, e ho dovuto lasciar stare il fieno e spaccare la
legna, ma arriva quello che mi comandava e mi chiede
cosa facevo qua, anche se io non capivo nulla:
“Eh tò compare là el me ha dita de spacar legne!” che non
capiva niente neanche lui, ma cosa faccio, mi toccava
spaccarle no? Ihhhh!!! Ha preso ed è andato dentro al
Comando e hanno fatto un barufon, poi torna fuori e
mi fa cenno di lasciar perdere tutto e andare in cerca
del fieno per i cavalli e con questo carro a tre ruote cosa
faccio? Mi dicono di andare in paese a prendere un
altro carro, ma tra me pensavo:
“Se te te speta che mi vae in paese a cior n’altro caro
te ha da spetar un bel toc!” perché ero stufo di stare

120
là con loro, da mangiare non te ne davano, da bere
neanche! Stavo bene lo stesso per quello, ma sono
andato, ho fatto il giro, non ho trovato niente e sono
tornato indietro e quello allora mi dice di tornare
a casa, mi fa un permesso, un lascia passare. Ero
abbastanza distante, e non so neanche come ho fatto
a trovare la strada per tornare indietro; eravamo io
e un altro ragazzino ucraino, anche lui con il carro e
cavalli, deportato come me.
Siamo tornati a casa, arriviamo dalla famiglia a
mezzogiorno, e mi hanno accolto con le lacrime agli
occhi perché c’eravamo affezionati l’uno con l’altro,
hanno pregato per me tutte le sere, e io ero triste perché
mi avevano preso tutto, carro e cavallo; sì ero riuscito
a portare a casa qualche cibaria, ma mi dispiaceva che
loro avessero perso tutto, e non erano arrabbiati con
me, anzi erano felici che fossi tornato.
Là in questo paese eravamo in quaranta Italiani e
appena hanno saputo che gli altri erano rimasti di là e
io ero tornato, sono venuti a dirmi:
“Guarda che i Russi ci hanno detto che andiamo a
Budapest a radunarci e partiamo immediatamente!”
“Ma se sono appena tornato a casa porco cane!”
Dopo mezzogiorno partiamo tutti quanti per Budapest,
che è 200 km circa, un po’ meno di distanza; partiti
ancora, mangiato un boccone e via dopo mezzodì.
Preso un carro e due cavalli da una famiglia, butta
su gli zaini, cammino a piedi, quaranta sul carro non
stavi e abbiamo fatto la prima giornata di cammino in
Ungheria fino a Tatabanye. C’era il treno là e abbiamo
chiesto in stazione se si poteva montar su sul treno merci
che era là fermo, che dovevamo andare a Budapest

121
e quel treno là di carri botte andava a Budapest. Ci
siamo arrampicati sulle botte e fuori dalla stazione
ho lasciato carro e cavalli, potevo venderli e prendere
qualcosa, poco ma qualcosa, niente ho tenuto la scuria
per farmi gli spaghi delle scarpe.
Siamo arrivati a Budapest in treno e chiediamo
qua e là cosa facciamo dove andiamo, andiamo dal
consolato degli Italiani e là ci dicono che da dormire
non erano problemi se volevamo stare là c’era il posto,
ma da mangiare no! E porco can de novo! Senza niente
da mangiare, andiamo in cerca la sera al campo di
raduno dei Russi che mangiavano là nella caserma,
che era immensa, eravamo migliaia e migliaia e ho
fatto da interprete pensa. Andiamo là e ci danno
da mangiare orzo o frumento, lo cucinavano su una
cagliera da formaggio che teneva 5 o 6 ettolitri e ci
buttavano dentro orzo o frumento; lo facevano bollire
un po’ fino a che non diventava molle, e poi era pronta
la pappa, ma no che fosse tanto speciale eh!
La mangiavi tanto per non morire da fame. Stavamo
su questo campo di concentramento che non era
neanche un campo di concentramento perché eravamo
anche liberi quasi, potevamo andare fuori un pochino,
insomma avevano anche un po’ di riguardo. C’era un
Capitano che comandava noi e prendeva ordini dai
Russi, uno che prendeva gli ordini e poi li dava a noi,
solo che parlava solo in dialetto, perché era Veneto, un
alpino e capisciti te coi Russi!!! E allora funzionava
così: c’era un Greco che sapevo un poco di russo ma
non sapeva l’Italiano, però parlava un po’ di Tedesco
e io capivo un po’ di Tedesco, e allora mi trasmetteva
gli ordini in Tedesco tradotti dal russo, e io dovevo

122
trasmetterli al Capitano in italiano… pensa cosa che
veniva fuori in ultima!
Siamo stati là sino dalla metà dell’aprile del
1945 alla metà di luglio, quando siamo partiti da
Budapest, perché dicevano che dovevano portarci in
Italia, però non so dove le strade erano tutte rotte e
le ferrovie bombardate, era una scusa insomma e con
‘sta tradotta invece di partire verso l’Italia è andata
verso la Romania e cosa facevamo? Niente, si fermerà
prima o avanti, e il mangiare ancora niente, frumento
crudo, dovevi arrangiarti a cucinarlo, qualche volta
una pecora viva. La uccidevi, la pelavi e via e abbiamo
fatto questa vita qua sul treno per la Romania. Io ho
sempre dormito in cima ai vagoni del treno, perché in
quaranta cinquanta per vagone non stavi mica comodi,
e tanto non pioveva mai.
Insomma venti trenta giorni avanti così, un mese,
perché ogni pochi chilometri si fermava perché era
tutto rotto, ci siamo fermati anche otto giorni di seguito,
finché una sera, una bella sera non so cosa sia successo,
qualche santo l’ho sempre detto ci ha soccorso, un santo
di quelli grandi! Il treno torna indietro! O mamma
mia, eravamo pieni di fame e sonno e sentivi cantare
a perdifiato di gioia, perché già pensavamo di finire in
Russia o Ucraina!
Torniamo solo di passaggio a Budapest, poi arriviamo
a San Valentin, appena dentro l’Austria, che per di
qua c’era i Russi e per di là gli Americani, e siamo
passati oltre con gli Americani. Pensavamo tutti: “Oh
finalmente gli Americani i ne dà da magnar i ne dà da
bever!!!” perché i Russi prima di darci in mano agli
Americani ci hanno dato i viveri a secco, due chili a

123
testa di piselli pieni di vermi, e tutti li buttavano via, io
invece li ho tenuti perché non si sa mai. Gli Americani
i ne dà da magnar…da magnar un’ostia!!! Perché alla
fine siamo arrivati a Innsbruck e ci hanno dato un
poco da mangiare, ma poco poco, non sono stati tanto
generosi neanche loro che si pensi e a Innsbruck ci hanno
fatto un po’ di disinfezione; ci hanno dato una soffiata
dentro alle vesti, una di là, poca roba insomma…dopo
due tre giorni siamo arrivati a Pescantina di Verona,
appena fuori dal paese, e là ci hanno dato un po’ da
mangiare discreto, da vestire e 400 £. Ho trovato anche
Callisto Muranella mi ricordo che urlava:
“El vien el vescovo, el vien el vescovo co un camion
grando che el ne porta casa!” sì sì pensavo, che venga,
che venga, intanto gli dicevo che secondo me non
veniva, e che se arrivava stasera o domani mattina
bene, sennò mi arrangiavo e andavo a casa da solo,
parto e vado via. Eravamo tre quattro amici sempre
stati assieme dall’Austria, uno qua da Colle Umberto,
Alfredo Costa; e con quella alla sera il vescovo non si
vede, la mattina dopo neanche, io prendo su lo zaino e
parto dico a tutti: “Vientu?” faccio a ‘sto Alfredo Costa
che eravamo sempre stati assieme “vientu?”
“Ihhh mi no eh! Situ mat! El vien ciorne el vescovo!”
“Ben mi parte!”
“Sì? Vutu partir senza de mi can de l’ostia? Sen rivadi
qua sempre assieme, e adess te vol partir senza de mi?
Spetame che rive via anca mi!” prende lo zaino e viene
via con me. Partiti siamo arrivati a Verona, Porta
Vescovo; avevamo trovato passaggio su un camion e
arriviamo là che c’era un carabiniere che ogni tanto
fermava quelli che passavano, ma passava poca roba,

124
un camioncino, un camion, un trabiccolo.
Arriva un camioncino e gli chiediamo dove va;
montiamo su con questo assieme a un altro ragazzino
trovato là sul posto, di diciotto anni, e corri di là corri
di qua ci ha portato fino a Padova, dove c’era un trenino
che faceva servizio, no un treno normale ma uno a
scarto ridotto. Per la strada, su questo trenino pieno
di gente, affollato c’era un ragazzino di diciotto anni
che faceva propaganda per i Russi, che erano bravi e
così e colà e porca miseria io che ero appena tornato da
là non è che mi andasse tanto gli ho detto: “Ragazzo,
vara che mi son appena tornà da là satu…e che se no te
la smette co ‘sta propaganda qua, veditu chel finestrin
là? Ti te voea fora par el finestrin come un oseet!” e non
ha più parlato, io ero appena tornato e sapevo com’era,
se non la smetteva lo facevo davvero, a quei tempi non
ero tanto apposto, potevo anche farlo.La sera col scuro
arriviamo a Mestre e el magnar? Manca sempre el
magnar!
Troviamo uno che ci dice di provare ad andare a
chiedere ai frati, e arriviamo da ‘sti frati e suoniamo
la campanella e viene fuori un frate, saranno stati
mezzanotte-undici e mezza:
“Cossa voeo?” “Noialtri ven solche tanta fame parchè l’è
da ieri che no magnen e ven fame… se te ha qualcossa
da darne…” Sì, sì dice quello portandoci una scodella
di fagioli…ci sediamo su una panca che era là, e ci
dice che và a scaldarli: “No, no li magnen anca fredi!”
“No, no, li scalde…” “Va ben scaldei!” ci ha portato una
scodella e una bigna di pane…ih, li abbiamo mangiati
come fossero mandorlato!
“Ma da dormir no posse darve!” “No stà darte pensieri

125
che par dormir pensen n’altri!” ormai eravamo
talmente abituati a dormire dappertutto che non era
più un problema, ci siamo buttati per terra con zaini e
mantelli.
Da Mestre il giorno dopo prendiamo la filovia che và
a Treviso e arriviamo a Porta San Tommaso. Io sono
sceso là e ho chiesto un passaggio a un camionista che
andava a Udine, gli ho chiesto se mi portava a Ponte
della Priula e mi ha detto di sì. Sono salito dietro sul
cassone, ma gli urlato che si fermasse a Ponte della
Priula se no mi portava con lui ormai e da là comincio
a farla a piedi fino a casa, dove a un certo punto trovo
Masetto di San Michele in giro col carretto:
“Vatu dove Cornelio?” mi fa. “Vae casa diretto!”
“Ben eora monta su che te porte mi!”
Aveva un cavallo con biroccio, sono montato e mi ha
portato a San Michele e da là ho camminato fino a
casa, e sono arrivato che era mezzogiorno. Erano qua,
due tre zie, zii e mia mamma, che facevano la pausa
perché i fratelli stavano facendo il fieno.
Qua davanti c’era un bel gelso enorme, e sentivo che
erano là che parlavano di che fine avevo fatto, perché
non avevano più mie notizie. Su quella mia mamma si
volta e mi vede che salto il fosso per entrare in cortile;
tutti che gridano: “Ahh… l’è qua… l’è qua…l’è qua…”
e mia mamma era triste perché non aveva preparato
niente da darmi da mangiare: “Cossa te dae mi da
magnar?” Aveva preso un porcellino, tutti quante le
famiglie che potevano avevano un porcellino in casa,
che lei aveva l’abitudine di cucinare la carne di maiale
in una cagliera con un poche di patate, una zucca, un
farina, e le ho detto: “Varda: no ocore che me parece

126
nient da magnar… mi me sente qua par tera, me mete
a cajera de porzel qua in medo ae gambe e la magne
tuta…co la fame che ho!…dame qua a cajera de porzel,
te me la mete qua par tera e mi ghin magne fin che ghi
n’è!>>
Tutto finito? Macchè! Tornato a casa, anche per
Cornelio, il problema è lo stesso degli altri reduci: con
che cosa vivere ora?

Casa dolce casa

<<Prima di andar via ero a capo della banda, suonavo


la batteria, per le case, quando ci chiamavano così. Ho
corso in bicicletta ma lo facevo più che altro per fare
una corsa, avevo passione sì ma non da gara! Venuto
casa ho messo giudizio, mi sono messo a fare teatro;
c’era una compagnia di teatro gestita dal prete e tanti
altri che facevano con me. L’ho fatto per quattro anni
e tanti si ricordano ancora: “Ecco qua l’artista!” mi
prendono in giro.
Dopo mi sono messo un pò in politica, mi sono iscritto
al partito democristiano, e facevo parte dell’esecutivo;
erano quattro o cinque persone con il segretario di
partito, e al momento delle elezioni dovevamo scegliere
chi andava a fare la lista, sceglievamo i consiglieri e
una parte l’avevo anch’io in questo compito, con Efrem
Dal Bò che dopo è stato Sindaco dal 1960 al 1965, e
sono stato eletto anch’io come assessore, e dopo ci sono
state le elezioni di nuovo e siamo stati rieletti.
Vinte le elezioni bisognava decidere chi fare Sindaco,

127
e allora alla sera dovevamo andare in Municipio a
eleggerlo, ma Piero Camerotto che era consigliere mi
fa: “Domani sera dobbiamo eleggere il Sindaco, ma
abbiamo due galli su un pollaio…”
“No, nel pollaio c’è un gallo solo, perché io mi ritiro e
lascio il posto a Efrem” e lui ha fatto il Sindaco per
cinque anni.
Ma siccome questo Consiglio Comunale, secondo
Carraro, che era il segretario del partito della Dc, più
che altro doveva dipendere da loro; prima di andare a
fare il Consiglio Comunale dovevi passare per il partito
che stabiliva l’ordine del giorno, e allora dicevano sì,
no, qua va ben, qua bisogna tirar via, e così di seguito,
insomma dipendevi più dal segretario del partito che
dai cittadini! Ma caro mio, noi siamo sempre stati un
po’ ribelli io e il mio compare Efrem, e facevamo quello
che volevamo, e al partito questo non andava bene!
Così un poco alla volta il partito ci ha sopportato per
cinque anni e dopo sai cosa hanno fatto?
Ci hanno buttati fuori tutti dal Consiglio Comunale e
hanno proposto tutti i consiglieri anziani e fidati agli
ordini di Carraro Luigi, che aveva fatto il Sindaco
dieci anni prima di Efrem, noi tutti fuori perché non
obbedivamo a loro! E siccome non erano in grado
di trovare nessuno per fare il Sindaco, per mettere
tutti d’accordo hanno chiamato uno da fuori a fare
il Sindaco, questo Walter Donadello che era Sindaco
durante l’alluvione.
Io ero arrabbiatissimo, anche perché io ed Efrem
avevamo deciso di fare una lista civica per contrastarli,
ma lui mi ha seguito fino a un certo punto, poi non so
perché è passato sull’altro sponda, è tornato con la DC;

128
noi avevamo cercato di fare quasi guerra al partito,
ma io ho mollato, basta, non aveva più senso. Sono
diventato presidente della cooperativa agricola San
Silvestro, nata in quegli anni, ma è durata poco e non
ha combinato nulla, non aveva motivo di esistere qua,
perché non si produceva molto. Sono stato presidente
anche dell’Azione Cattolica, ma dopo pochi anni è
andata anche quella, non interessava più a nessuno,
ma la roba meglio che ho fatto è che ho portato a casa
quella là>> (dice rivolto alla moglie).

Maria: <<Io stavo dall’osteria Isetta. E’ venuto giù


in bicicletta lui e altri due tre suoi amici; uno mi ha
fatto il regalo del tacchino, suo nonno e un altro una
bottiglia di grappa, e poi suoi parenti e dopo sette otto
o dieci, sono venuti a prendermi, siamo andati giù a
piedi e abbiamo mangiato da me perché avevamo la
cucina grande.
Mi ha portato a casa seduta sulla canna della bicicletta,
e adesso facciamo anche i sessant’uno del matrimonio
tra un mese, il 24 di novembre e sen ancora qua a
contarsea, e speren de averghine ancora un pochi
davanti!>>.

E già, averne ancora davanti.. perché di questi tempi


61 anni di matrimonio sono davvero importanti se si
pensa alla durata delle coppie di oggi.
Altra tempra, altro carattere, altra pazienza i nostri
nonni, forgiati dalla miseria e dalla fame, che hanno
visto la morte in faccia, cadaveri dilaniati, piatti
pieni di vermi che venivano mangiati tanta era la
voglia di mettere sotto ai denti qualche cosa che non

129
fosse il pugnale usato per gli assalti, o il cognac che
veniva fatto bere ai soldati perché non pensassero
alla loro disperata situazione, perché non riflettessero
sull’immane tragedia provocata dalla sete di ambizione
e potere dell’essere umano.

130
Domenico Negro

La testimonianza di Domenico ci permette di esplorare


un universo poco noto ai più, quello delle miriadi di
Italiani deportati in Germania per lavorare nelle
fabbriche d’armi del regime nazista. Produceva le
bombe V1 e V2 Domenico, quelle che Hitler scaglierà
contro l’Inghilterra.
Trattati come traditori dagli ex alleati tedeschi,
questi Italiani vennero coperti d’ingiurie e infamie,
spesso disprezzati dagli stessi connazionali alla
fine della guerra, perché venivano accusati di aver
collaborato con il nemico, con il demonio addirittura,
come verrà ribattezzato il Fuhrer dopo il processo di
Norimberga.
Ma Domenico queste cose non le ricorda: ricorda la

131
guerra, la prigionia, il lavoro, la fatica; tanta fatica,
quella che ha dovuto fare sia da schiavo della fabbrica
militare che da contadino, da solo, tutto da solo
mandare avanti i campi e la casa, senza l’aiuto di
nessun altro sposarsi e mettere su famiglia.
“Ma questa – dice Domenico con un sorriso – era l’unica
cosa che mi piaceva. Altro non mi piaceva fare!”. Un
sorriso che è speranza, speranza che l’uomo esca dalla
sua barbarie, e riscopra i valori della natura e della
famiglia, i valori che hanno permesso a Domenico di
uscire indenne dalla guerra e tornare a casa.

La campagna e il fascio

<<Sono del 7 luglio del 1920. Ho sempre vissuto qua


a Ormelle, nato qua, in questa casa. Ho fatto le scuole
a Ormelle e la quinta a San Polo di Piave. Al tempo
mio la scuola era divisa tra il Municipio e il palazzo
dove c’è la banca adesso: al piano terra del Municipio
avevano fatto due aule per la scuola, che stavano le
classi della terza e della quarta, mentre le altre due
erano là dove oggi c’è la banca. Ma poi ho studiato
anche per conto mio con la scuola privata, e ho fatto il
secondo anno di avviamento al lavoro e poi non sono
più andato perché avevo da lavorare, non c’erano soldi
una volta, poi noi avevamo quattro campi di terra fra
vigneti e altro, poi sono diventati sei e via crescendo.
Avevo due fratelli, perciò non eravamo tantissimi,
cinque in tutto, ma il tempo per stare dietro a tutto era
sempre poco. Avevamo anche due vacche nella stalla,

132
non tanta roba. Io non sono mai stato fascista, sono
sempre stato socialista, anche mio papà. Era il maestro
Bertoni a fare il premilitare qua a Ormelle, e anche
Domenico Pizzinato. Ci facevano marciare, attenti,
riposo, attenti, correre, marciare, tattiche di guerra,
roba del genere, tutto generico, tutto strano anche.
Io e mio papà eravamo socialisti, ma io avevo solo
quindici anni quando è scoppiata la guerra d’Africa
e il mio senso era socialista, ma non è che subissi
molto essendo un ragazzino, ma mio padre era
socialista sfegatato e volevano dargli l’olio, ma non
è che l’avessero mai minacciato, invece a Roncadelle
l’hanno fatto a tanti. Loro comandavano e bisognava
obbedire e basta, obbedire o erano botte, li mandavano
per le case a guardare cosa facevi, non potevi tenere la
radio accesa su certi programmi, soprattutto durante
la guerra dell’Africa, ma anche durante la seconda, mi
hanno detto i miei; eri un pazzo se ascoltavi le cose
proibite, anche i giornali erano solo quelli loro, tutto il
resto era censurato!>>.

In tempi recenti qualcuno ancora una volta ha


riproposto le squallide teorie del fascismo come una
dittatura morbida, quasi gentile, che non faceva del
male a nessuno. Credo che questi flash di memoria
donatici da Domenico debbano farci riflettere molto
su cosa fu davvero il fascismo per chi lo visse: fu una
schiavitù della parola, non potevi leggere ciò che non
era scritto da loro, ascoltare quello che non era detto
da loro, pensare diversamente da loro.
La persuasione non era la favella, ma le botte, i pugni,
i calci, le minacce, l’olio di ricino, le case bruciate. E

133
in mezzo a tutto questo, un governo che aveva ridotto
la scuola a braccio del potere, una scuola plasmata
sul modello del regime, con le classi separate per
sesso, l’acceso maschilismo, e la militarizzazione
dell’infanzia, coi bambini delle elementari che già a
sei anni venivano addestrati per la guerra. Non ci sono
dubbi sugli obiettivi che una simile forma di governo
intendeva raggiungere con questi provvedimenti:
preparare gli Italiani alla guerra, sia fisicamente,
che mentalmente, arrivando a convincerli, attraverso
l’insegnamento scolastico, che la guerra era una
cosa buona e bella, un’avventura. E plagiati da quel
sistema scolastico, molti giovani verranno inviati a
morire cantando, inconsapevoli di che cosa significasse
veramente la parola “guerra”.

Croazia

<<Sono andato via nel febbraio del 1940, militare


che avevo 19 anni. Sono andato a Trieste, ero del
77 fanteria, cravatte azzurre del re. Noi avevamo
la cravatta azzurra, perché l’indirizzo era cravatta
azzurra e non soldato o questo o quello ecc…da Trieste
siamo partiti per il campo e non siamo più ritornati
in caserma, perché siamo andati sui confini della
Croazia. Eravamo stati 40 giorni in caserma a Trieste,
poi siamo partiti subito per il campo e poi portati
vicino ai confini sul monte Rasora e sul monte Nudo.
Abbiamo varcato i confini il venerdì santo del 1941,
e siamo entrati a Elmesburgo un anno dopo: quello è

134
stato il primo giorno di guerra. Per fortuna, che è stata
una fortuna sennò gli Slavi ci ammazzavano tutti,
pensavano che si andasse dentro per la strada bassa,
e invece noi siamo andati dentro dall’alto, e quando ci
siamo trovati a faccia a faccia, noi avevamo un ufficiale
con la carta in mano che dovevamo arrivare su un paese
là vicino, abbiamo parlamentato con degli Slavi che
cedessero le armi, ma loro hanno detto di noi e hanno
aperto il fuoco sparandoci addosso. Sulla neve alta due
metri avevano piazzato i mortai del 45 che avevano
le bombette che si staccavano e diventavano tante; si
sono messi a sparare e le bombette sono esplose sopra
a noi esploratori, e al sergente Giacconi una bomba
ha portato via i pantaloni e tutta la carne della natica
destra…abbiamo ripiegato e siamo tornati indietro.
Noi gli avevamo detto di cedere le armi perché il loro
governo si era arreso, ma loro ci hanno risposto che
non avevano mai ricevuto ordini e ci hanno sparato
addosso. Al sergente Drigo Davide sono entrate le
pallottole nella manica sinistra della camicia e sono
uscite dal gomito, gli hanno bruciato tutta la pelle e
usciva sangue da tutto il braccio.
Io comandavo la terza squadra del plotone esploratori;
c’è stato un attacco subito e ho perso un uomo, il primo
giorno di guerra si è preso una pallottola in gola, ha
detto solo “Ahi, mamma, ahi…” ed è morto subito.
Non abbiamo fatto addestramenti particolari, mi
hanno scelto per fare questo ruolo. Ci chiedevamo che
classi avevamo fatto e poi tiravano fuori su tutti quelli
che eravamo 3 uomini per undici, quindi 33 persone, di
quelli che a loro sembravano più svegli, veloci, rapidi
e così via, e ci hanno messo a fare gli esploratori; 3

135
ogni plotone, erano undici plotoni in tutto, 33 uomini,
divisi in tre plotoncini da undici uomini. Attenzione;
su undici soldati avevamo: un mitra leggero, un mitra
pesante, un fucile mitragliatore che non sparava
neanche a bestemmie… e l’Italia voleva fare la guerra
all’America e agli Americani!
Almeno il morale coi compagni e il resto della
compagnia era buono, anche se io, cioè noi, facevamo
parte degli esploratori, quindi non eravamo in un
gruppo vero e proprio, anche se io ero della compagnia
comando, secondo battaglione posto militare 47. Nel
battaglione c’erano anche altre cinque persone da
Roncadelle: quello del forno, Casagrande Lino, Emilio
Storto, Emilio Bagnol, Sarri Cirillo, Antonio Argenta,
sono tutti già morti però a casa per fortuna.
Al giorno seguente la Jugoslavia ha mollato le armi, ha
chiesto l’armistizio, perché era caduto il re; noi siamo
rimasti dentro come truppe di presidio, presidiavamo
il territorio con perlustrazioni e perquisizioni.
Gli Slavi attaccavano quasi ogni giorno, di continuo,
noi dovevamo perlustrare il territorio con le carte
topografiche, ogni caposquadra doveva saper leggere
la carta topografica, siamo stati tanto a Beljce,
Karlovac, Bukovac, che era il centro dei partigiani, ma
erano dappertutto a casa loro, attaccavano la notte,
uscivano dalle case, dalle grotte, non sapevi mai da
dove sbucavano fuori! Tante scaramucce, tante piccole
sparatorie, ma anche incendi, perché alcuni paesi
venivano incendiati, soprattutto quelli più poveri. Noi
esploratori no, ma gli altri bruciavano le baracche
vuote per intimidire i partigiani, dove conquistavamo
venivano incendiate le case abbandonate. Una notte

136
siamo anche andati su di rinforzo alla cavalleria, che
aveva avuto grosse perdite, ma noi li abbiamo liberati
e siamo tornati indietro.
Poi siamo stati diversi mesi a Zagabria, due mesi
tre in caserma, che era là in piazza. Gli Slavi non
erano neanche male, a parte la lingua sono come gli
Italiani. I Croati erano poco di buono, perché di giorno
venivano a far finta di collaborare con noi e alla sera ti
fucilavano alla schiena, e i Serbi peggio ancora, ancora
più cattivi.
Siamo arrivati così all’8 settembre del 1943, quando è
stata l’Italia a chiedere l’Armistizio. Facevo allora parte
della 2° Armata e da là, a Verbosco dove eravamo, la
telefonata dell’armistizio è arrivata a l’una di notte. Io
dormivo sopra il comando del battaglione, il Colonnello
nostro è arrivato a domandarci cosa succedeva. Da là
siamo partiti, abbiamo mollato tutte le armi, e ci siamo
messi in viaggio verso Trieste. A Trieste i Tedeschi
ci hanno fermato e imprigionato, dopo tutta quella
strada a piedi! Cinque otto giorni a piedi! A Trieste ci
hanno fermato e concentrato tutti al silos di Trieste;
era un capannone enorme che lo chiamavano silos; ci
hanno tenuto là tre giorni, poi ci hanno caricato su
una tradotta e ci hanno mandato in Germania. In
Germania, io ero finito al campo di concentramento di
Kustring, Stan lager 3° C. Il campo di concentramento
aveva tanti capannoni, cioè baracconi più che altro, e
quello era il nome di quello dove stavo io.
Da qua ci hanno spedito a Basdorf, ci hanno trasferito
a fare gli operai nella fabbrica della BMW, per il
tedesco si chiama BraMoWall e là abbiamo lavorato
fino a quando i Russi sono venuti a liberarci. Eravamo

137
prigionieri: maltrattati, bastonati e poco mangiare, e
ci dicevano: “Schloss, schloss Badoglio!” che vuol dire,
“Via, via Badoglio!” e “Badoglio traditore!”, perché
Mussolini era alleato con la Germania e Badoglio era
un traditore perché aveva arrestato Mussolini e si era
alleato con l’America, e quando Badoglio ha preso in
mano il governo e ha firmato l’armistizio, i Tedeschi
si sono arrabbiati tantissimo; quando lavoravamo,
venivano a provocarci e ci chiedevano in tedesco:
“Was besser? Badoglio o Mussolini?” cioè “Chi è meglio?
Badoglio o Mussolini?” se rispondevamo Badoglio
ci prendevano a sprangate, botte sullo stomaco, e ci
lasciavano anche senza quel poco da mangiare che ci
davano.

138
Là nella fabbrica abbiamo lavorato a smontare
apparecchi aerei, che venivano passati e ripassati
e dopo rimontavamo gli aerei sul banco di prova e
facevamo le prime V1 e V2 che sono state usate per
bombardare l’Inghilterra.
Quando sono stato liberato al 25 di aprile, alle ore
cinque della sera dalla cavalleria cosacca, più sporchi
e puzzolenti di quella gente là non ce n’erano, perché
anche gli ufficiali si buttavano giù sul letto con gli
stivaloni ancora sporchi della merda dei muli, dei
cavalli, puoi immaginarti! Comunque mi hanno dato
tre giorni di carta bianca, che provvedessi da mangiare
da solo, e mi hanno portato a Buccari (Bucovas) dopo
quattro giorni di cammino, e là siamo rimasti fino

139
a quando ci hanno portato a casa. Sono arrivato a
Pescantina di Verona per la contumacia, non ricordo
quando, ma mi ricordo che eravamo tutti nudi con le
mani in tasca, donne e uomini a fare tutti assieme la
contumacia tutti nudi, con le donne che nascondevano
i genitali, e noi che avevamo tolto la divisa che era
buttata nei forni. Noi abbiamo fatto il bagno, ci hanno
disinfettato e poi mandati a casa. Io per fortuna non
avevo neanche pidocchi, altri sì.
Sono anche tornato a casa Caporale maggiore, ma ho
rifiutato il grado. Ma la terza volta ho dovuto metterli
su per forza: la prima li ho rifiutati, la seconda anche,
la terza mi è toccato prenderli perché sono stato anche
vice comandate del plotone, l’ho comandato anche per
un mese intero perché mancavano gli ufficiali, ma non
volevo saperne dei gradi>>.

Ritorno a casa

<<Tornato a casa cosa volevi trovare? Poco da mangiare,


ma dovevi ricominciare a vivere, lavorare, fare questo,
fare quest’altro, arrangiarti meglio che potevi…io
mi sono messo a fare il contadino che avevo ventisei
anni, perché dai diciannove che sono andato via sono
tornato che ne avevo venticinque. Ma ho fatto fortuna,
perché gli altri mestieri non mi piacevano, e non mi
piaceva lavorare sotto padrone, e allora un po’ alla
volta per conto mio mi sono arrangiato, anche perché
ero rimasto solo a casa con i campi, perché uno era
diventato Carabiniere e l’altro era andato a lavorare

140
in Svizzera e poi in Australia. La miseria era tanta e
qua il lavoro poco, la terra era quella che era, ma un
po’ alla volta ho fatto su un po’ di capitale ed eccomi
qua, che ho promesso che se avevo figli li avrei fatti
studiare e infatti ne ho uno bravo che ha due lauree
e sono contento di quello che ha fatto, anche perché
anche a lui piace la terra, e visto quello che è diventato
spero che un po’ sia anche merito mio!>>.
Sacrificio: una parole a volte sconosciuta alle giovani
generazioni, che fa storcere il naso e fare due, tre passi
indietro, ma senza di esso non si va da nessuna parte.
Con sacrificio, costanza e un pizzico di accortezza,
Domenico ha dimostrato che si possono fare grandi
cose; e questa, è un’altra grande lezione dei nostri
nonni.

Medaglia concessa dal Presidente della Repubblica per i meriti di guerra e per aver
rifiutato di tornare in Italia combattendo per i fascisti di Salò.

141
Alfredo Narder

In giro a portar latte

<<Sono nato a Cimadolmo il 27 febbraio del 1923


dagli spironi, per andare alla Botte, proprio dentro nel
fiume! Là i Narder avevano fatto una casa grande di
tre piani, la prima vicino a Massuia la chiamavano.
Noi eravamo su una casa di tre piani, fatta su nel
1919 dopo che tutti sono tornati dalla guerra perché
erano tutti partiti a fare i soldati e là c’era il fronte,
mio papà era al fronte, lui e mio zio Cesare, quello che
poi stava qua: era in trincea a Maserada e vedeva la
sua casa bombardata, l’ha vista andar giù; è venuto di
qua quando sono passati che hanno preso le isolette in

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mezzo al fiume una alla volta, nelle Grave.
Del nostro ramo eravamo in cinque a Cimadolmo,
perché là siamo nati io e mio fratello più vecchio che
sta in Sardegna dal 1940, quando è cominciata la
guerra. Lui è del ’21 ed è rimasto là finché non sono
arrivati gli Americani che lo hanno portato su di nuovo
con l’8° Armata e poi è tornato giù. Poi però quando
ci siamo trasferiti sono nate anche due femmine. Fino
ai sei anni vivevamo dalla diga, poi siamo andati
in paese, in centro, davanti al fruttivendolo. Siamo
passati dall’acqua del fiume e le barche, perché là
attraversavano, anche mio nonno faceva quel mestiere
là, ma quando la Piave era in piena l’acqua entrava
in casa dove stavamo, e noi piccoli non avevamo i
pannolini ma solo una camicia lunga e la facevamo là;
poi mio nonno era orbo e la vita dei campi era dura:
la gente andava sui campi perché doveva lavorare e
non aveva tempo per i bambini, ci mettevano nelle
gabbie, nelle crivòe per tenerci là mentre andavano
a lavorare, era miseria tanta a quei tempi. Poi sono
diventato grande, a sei anni siamo andati in centro
dal fruttivendolo di Visentin.
Le scuole invece le ho fatte tutte a Roncadelle, perché
dopo aver finito la prima elementare a Cimadolmo,
hanno comprato qua e siamo venuti ad abitare qua,
e ho fatto le classi a Roncadelle fino alla quarta! Poi
però è cambiato tutto, perché siamo andati a Treviso;
avevano appena messo su uno spaccio di latte in città e
mio papà, che faceva il muratore, era andato a mettere
a posto questo posto in Via Barberia a Treviso, e dopo
siamo andati a lavorare anche noi, perché dopo aver
sistemato lo hanno preso a lavorare là e così finite le

143
scuole ha portato anche noi. Avevo nove o dieci anni
non ricordo bene, ma anche andare a scuola non
era mica come oggi: avevamo le cartelle di pezza che
i pennini per scrivere le bucavano e ti pungevano il
sedere quando andavi in bici la mattina sulle strade
di sassi e con gli zoccoli, e poi avevamo una suora che
tabaccava di brutto, anche in classe e me ne ricordo
un’altra che invece si nascondeva sotto la cattedra per
bere il whiskey.
La quinta invece l’ho fatta a Treviso, perché dopo sono
rimasto là sino a diciotto anni, che andavo via con la
bicicletta a portar latte per le famiglie. Dopo da là sono
andato a finirla a Sant’Andrea di Barbarana perché
avevamo venduto al Consorzio di Treviso lo spaccio di
latte, ma siamo rimasti sempre nell’attività del latte
anche là, dove abbiamo comprato una casa che era
un’osteria, come era un’osteria anche questa casa qua,
e abbiamo fatto una latteria, sempre prima di partire
per la guerra, era il 1940, ho fatto a tempo a lavorarci
due anni, perché nel 1943 sono andato via a soldato.
Qua in paese comunque la vita era meglio rispetto a
Treviso, la vita era normale, non c’era crisi, la crisi si
sentiva a Treviso, là si vedevano quelli che soffrivano
la crisi, qua da noi mai, c’era sempre da fare e lavorare,
andava bene, ma a Treviso l’ora dell’Africa, nel ’36
c’era una crisi che quelli del Comune avevano fatto le
carte lunarie, i buoni per prendere il latte; erano dei
bollini, ne staccavano uno davamo un litro di latte e
uguale per la pasta; consumavi solo latte, pane e pasta,
il formaggio costava di più, due buoni, c’era anche chi
spendeva tutto su una volta, li usavamo anche noi.
La gente era normale come noi, ma la vita era diversa:

144
loro la crisi la sentivano, noi di campagna avevamo
l’uovo, il latte, tutto e loro invece dovevano comperare
tutto, non avevano orto né niente, erano alla fame, le
donne avevano i mariti via volontari in Africa perché
fare il soldato era l’unica maniera di portar a casa
soldi, i volontari erano pagati bene infatti, ma le donne
pativano la fame, per tirare avanti dovevano fare tutti
i mestieri, sempre quelle di città parlo, perché quelle di
campagna andavano per i campi a tirar giù pannocchie,
invece in città dovevano dar via la “coca” per niente
anche: una lira, due, pensa come erano andate le cose,
toccava loro vendersi per vivere. Anche io ne conoscevo;
avevo diciotto anni e vedevo…a me non è mai mancata
una lira, mentre agli altri mancava sempre; andavo a
portar fuori il latte e a fine mese passavo per i soldi e
ti dicevano: “Non ce n’ho!” come succede adesso che si
sente in giro delle città che non hanno soldi neanche
per pagar la luce: Si perdevano tanti soldi, c’era tanta
crisi, invece in campagna niente, perché i contadini
avevano tutta la roba a casa, però i giovinotti della
mia età pieni di soldi li vedevi tante volte con le donne
che dicevo prima, satu ti?
E poi c’era il fascismo: anche se non c’era ancora la
guerra, c’era la paura. Io sono stato arruolato con
la forza nel Gil, Giovani Italiani del Littorio, che
mettevamo su il coso là, il simbolo, perché doveva esser
così, altrimenti ti prendevi una scarica di legnate,
perché dove vatu ti in giro se non eri fascista?
Non potevi mica eh! Botte e legnate! E allora sono
andato che c’erano gli uffici apposta per farlo, c’erano
anche per le ragazze, anche loro erano balilla e tutte
quelle trappole là. Qua a Roncadelle ero balilla,

145
quando andavo a scuola da piccolo; ma mai andato
al pro militare!!! Avevo sempre la bici pronta con
le bottiglie di latte in cima, sia qua che a Treviso, e
andavo a farmi il giro di tutta la città per far vedere che
lavoravo e non potevo andare a pro militare, ma una
volta mi hanno beccato, io con altri quattro; eravamo
in cinque noi proprio amici, uno con il latte anche lui,
un certo Cruzzolin, un altro portava la carne, un altro
la pasta; dopo le guardie ci hanno preso e ci hanno
obbligato ad andare a marciare al campo sportivo di
Treviso, ci hanno fatto correre e dopo ci hanno mollato
alla sera.
Non volevamo andare al sabato fascista, andavamo
in giro a far vedere che avevamo da lavorare, gli
altri marciavano, ma noi mai andati per la roba dei
fascisti, piuttosto andavo a fare i corsi di scherma o
di pugilato, non quelle robe là e piuttosto buttavamo
via la roba perché si rovinava al posto di andare dai
fascisti, io ero anti fascista, non mi piaceva andare via
con il fiocco, lo odiavo, io ero un libero cittadino, volevo
essere libero, lavorare ma essere libero, e basta!
E poi erano dei buffoni: quando sono andato a Ronchi
dei Legionari, prima del conflitto, quella volta che era
venuto giù Hitler con Mussolini, che doveva vedere la
dimostrazione degli aerei, perché il fascismo doveva
far vedere che avevano tanti aerei: invece, partivano
da là, andavano ad Aviano, e dopo tornavano indietro
per passare di nuovo davanti a Hitler e far vedere che
erano tanti, invece non avevano niente, niente!!!
E infatti quando sono andato via ci hanno aggregato
al 28° gruppo di fanteria di Vicenza, ma che ridicoli
che erano…>>.

146
Ridicoli, dice Alfredo… ed ha ragione: era tutto ridicolo
nell’ideologia del fascismo, dalla pretesa di grandezza
all’autarchia, dalla purezza della razza, proprio noi
Italiani che abbiamo ospitato migliaia di popoli, alla
presunta potenza del nostro esercito. Eppure, il regime
non solo aveva convinto il paese ad andare in guerra,
ma lo aveva anche convinto che l’avrebbe vinta.

La guerra… sì ma quando si parte?

<<Il primo aprile del 1943 sono partito e ho fatto un po’


di addestramento a San Pietro del Carso, Gorizia. Ho
anche fatto un rastrellamento nel Carso, ma più che
altro tattiche di guerra come addestramento, una volta
sono anche montato su un aereo da bombardamento,
una volta solo però, di quelli che andavano a
bombardare Malta. Ma ci hanno fatto girare di qua
e di là, non sapevano neanche loro dopo mandarci, al
fronte non sono mai stato, sono sempre stato dentro,
ho fatto due mesi di addestramento, fin giugno, e dopo
siamo andati a fare il rastrellamento che dicevo prima,
e ce la siamo vista brutta coi partigiani negli hangar.
Ero col 57° reggimento fanteria Vicenza, come
aggregato, ma dicevo del rastrellamento: nelle case
non si trovava nessuno perché erano tutti scappati
via, ma dopo alla notte, sono entrati i partigiani negli
hangar e c’è stata una sparatoria; io sono stato anche
aggredito da un cane, e l’ho ammazzato, gli ho sparato
e l’ho ucciso, avevo tutto il piede pieno di sangue: stavo
camminando per la ricognizione e mi ha aggredito e

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azzannato e io “Pum!!” fatto secco! Robe che mi uccida
il Capitano, perché ci aveva detto di non sparare per
non far capire ai partigiani che eravamo là, e io gli ho
fatto: “Eh no sparare, no sparare…e se era un uomo
armato che dovevo fare, morivo io?” e così quella volta
ho ucciso un cane.
E dopo da là ci hanno mandato a Vicenza, aggregati
alla caserma di fanteria e stavamo là a fare le guardie
di picchetto armato alla sera, poi a Valdagno, a far
la guardia allo stabilimento di Marzotto; c’erano le
stoffe là. Era appena caduto Mussolini, a fine luglio, e
dovevamo fare la guardia allo stabilimento perché gli
operai non facessero scioperi o sommosse, noi dovevamo
tenere la calma ed evitare le manifestazioni, poi tutto
sembrava tranquillo e siamo andati a Vicenza in
caserma e una bella sera, andiamo fuori di picchetto
armati alla sera, e al ritorno in caserma troviamo
dei Tedeschi e dei fascisti che parlavano per mettersi
d’accordo, e noi quando alle undici siamo tornati come
al solito, le guardie ci hanno fatto: “Come è andata?”
“Bene, perché abbiamo parlato coi Tedeschi e tutto va
bene…” insomma con me c’era un Sergente maggiore,
un ufficiale, che sapeva che c’era stato l’armistizio ma
noi no. Così era andata la sera dell’otto settembre, e
la mattina dopo, alle quattro precise, si presentano i
Tedeschi in caserma con i panzer puntati sulla caserma
di fuori! Erano grandi come una casa, e noi eravamo
là che dormivamo ancora vestiti, perché dormivi con
tutto addosso, uniforme, casco, armi, tutto, perché alla
mattina stavi prima a partire e insomma ci hanno
preso tutti, tutta la caserma piena; tra fanteria e avieri,
la mia era la 4° avieri, perché io avevo fatto il corso di

148
aviere a Treviso nel 1942, a diciannove anni, ma prima
di partire per la guerra! Era un corso di meccanico, che
mi ha fatto partire con il secondo scaglione; ho evitato
la partenza di gennaio, che invece mio fratello e i miei
amici non sono riusciti a evitare, perché sono partiti
nel 1942. Ho studiato da motorista, meccanismo di
sparo, mettere in fase il motore degli aerei Stellari
12 cilindri e con questo studio ho evitato la prima
partenza, il terzo scaglione invece non è proprio partito
perché c’è stato l’armistizio, ma comunque, tornando
ai Tedeschi, dicevo che ci hanno preso tutti, tutti tutti,
quasi duemila persone, c’era una montagna alta così
di armi quando ci hanno disarmato e con questo,
hanno fatto una colonna per portarci via in Germania,
tutta la mattina ci hanno fatto camminare per portarci
alle casermette nuove dalla ferrovia. Alpini, fanteria,
artiglieria tutto, e pronti per andare in Germania,
ci hanno pigiati nei vagoni, ma prima di arrivare
a Trento, in cinque siamo saltati giù dalla tradotta
perché eravamo riusciti ad aprire le porte, poi le hanno
sigillate per impedire le fughe. Io e altri quattro siamo
saltati giù in mezzo a un bosco, dove ho anche trovato
un cappello da alpino e me lo sono portato a casa. Ho
dovuto nascondermi dalla mia morosa per salvarmi,
perché se mi prendevano dovevo andar via arruolato
con quelli di Mussolini che era ancora peggio, erano
dieci volte più fanatici dei fascisti. Mi sono nascosto,
anzi mi ha nascosto quella che poi è diventata mia
moglie, Ada Baratella di Campomolino: a casa sua mi
ha nascosto per un anno.
Poi verso la fine del 1944 ho deciso che dovevo tornare a
lavorare per costruire un futuro e una famiglia, così ho

149
chiesto ad Ada se veniva con me a casa, a Sant’Andrea
di Barbarana, e lei è venuta e abbiamo ripreso l’attività
col latte.

Alfredo a portar latte a Udine durante l’alluvione del 1966.

Dopo andando avanti, lavorando per portare il latte


a Trieste, abbiamo guadagnato un po’ di soldini per
comprare qua a Roncadelle dopo la guerra, ma a
Trieste era pericolo eh! C’erano ancora i confini in quel
periodo, i confini dentro la città! La guerra non era
ancora finita, sono anche passato in mezzo agli Slavi
che stavano conquistando la città, perché volevano
riprendersela che prima dell’altra guerra Trieste
era di loro, erano i partigiani con la stella rossa sul
cappello, qua in mezzo. Di notte quando tornavo a casa
mi fermavano e volevano le sigarette, me ne lasciavano

150
giusto una. Una volta fumavo, dopo non ho più fumato
perché costavano troppo: “Dove vai tu Italiano?”
“Casa vado, Treviso!” “E domani?”
“Domani son qua ancora!” “Ricordati le sigarette!”
Passavo in mezzo alla guerra, davano fuoco alle
macchine in piazza dell’Unità e io passavo in mezzo col
camion del latte, lo stesso che usavo prima di partire
per andare a consegnare il latte, perché a Sant’Andrea
ci eravamo motorizzati: caricavo di notte, 30 quintali
di latte alla volte, poi anche 90, ma dopo è cessato tutto,
perché c’erano i ponti rotti per i bombardamenti.
L’attività è ripresa a fine guerra, nel 1946, ma qua
l’ultimo anno è stato tremendo, c’era paura, tanta
paura, il fronte era più qua che al fronte: c’erano
i bombardamenti, c’erano i fascisti, i partigiani, i
Tedeschi e tanti che non capivi con chi stavano e ti
mandavano la gente in casa per punirti se mostravi di
essere con una delle due parti; era guerra civile, tutti
contro tutti, contava solo sopravvivere e tutti pensavano
per sé stessi e basta, qua passava di tutto!!!
E comunque i partigiani c’erano anche prima
dell’armistizio, perché io li ho trovati, erano meno
ma c’erano: prima di andar via, portavo il latte con
la camionetta a Roverbasso e mi fermano i partigiani:
volevano il camioncino, ma io ho detto di no e allora
mi hanno chiesto se avevo visto dei fascisti e gli ho
detto di no, invece li avevo visti a Gaiarine, e tornando
indietro i fascisti mi hanno fermato a Gaiarine e mi
hanno detto se avevo visto i partigiani, e ho detto di no
anche a loro, perché altrimenti ti uccidevano perché la
gente non doveva sapere che c’erano i partigiani; è per
quello che dico che era più fronte qua che al fronte, io

151
viaggiavo con un fucile dietro il sedile per difendermi,
ma se mi perquisivano e lo trovavano erano botte e botte,
poi potevano anche venirti per casa, era complicato
stare a casa, qua uno che era soggetto alla leva ed era
a casa poteva essere malmenato dagli uni e dagli altri.
Io sono sempre riuscito a scappare dappertutto per
fortuna, ma tanti erano presi in mezzo.
Nel 1945 poi, i fascisti stavano perdendo ed erano
disperati tanto che andavano per le case a reclutare
anche i ragazzini, e mi hanno anche scoperto e
richiamato alla leva, ma non mi sono presentato, sono
scappato.
Mio fratello invece era in Sardegna e non sapeva
neanche che la guerra era finita, lo ha saputo dagli
Americani quando sono arrivati nel 1945! Pensa ti,
come nei film sul Viet Nam!
Allora a Padova è andata a finirla che quando mi hanno
portato di sopra, sono venuto giù di corsa, infilato nel
bus e tornato a casa, e non mi hanno più visto, né è più
venuto in cerca nessuno di me e ho sempre lavorato e
basta, mi sono messo a lavorare subito e ho continuato
fin adesso… bhè fino adesso no perché sono in pensione,
ma me la sono cavata così ecco! Ho aperto la latteria
qua a Roncadelle nel 1946, e nel 1995 l’abbiamo chiusa,
cioè più di dieci anni ormai.
Finita la guerra ho sposato la mia salvatrice Ada,
e abbiamo avuto due donne e un ragazzo. La casa
dove sono vissuto invece l’hanno venduta, quella di
Cimadolmo davanti al frutta e verdura dei Visentin; ma
pensa ti che hanno venduto la casa dove ho vissuto, che
andavo a ballare nella balera sopra alla casa davanti
a Camillo Bontempi, che da piccolo andavo sempre a

152
mangiare le mele da Visentin e hanno venduto la casa!

Comunque a Cimadolmo io mi trovavo sempre bene


quando andavo, anche perché a Roncadelle avevamo
delle suore un po’ particolari che prendevano in giro
tutti, c’era quella che tabaccava, quella che beveva…
quando era ubriaca diceva: “Non andate a Ormelle a
farvi coglionare!” era forte quella là, un pò grassetta,
ma tutta particolare. Ma qua in campagna si vive bene,
la gente è semplice e tranquilla, anche se dopo sono
arrivati tanti soldi e alcuni si sono fatti le ville, ma
è tutta gente che fino a prima moriva di fame, che ha
lavorato tanto per avere da mangiare e tanti sacrifici.
Solo che adesso speriamo che diano tutto ai giovani che
capiscono di più, perché a una certa età si comincia a
non capire più tanto sai, siamo vecchi! >>.

153
Che dire di questa lezione di umiltà, che invita i
giovani a prendere atto delle proprie responsabilità e
a impegnarsi, per mandare avanti il mondo nel miglio
modo possibile? Che dire di questa fiducia per le giovani
generazioni che spesso, troppo spesso, sono additate
dai media come vuote e senza ideali, senza sogni e
senza nessuna voglia di affrontare la vita? Educare
per lasciare lo spazio a chi verrà dopo, questo il senso
delle ultime parole e infine, il senso della vita.

154
Antonio Brugnerotto

Maledetta Jugoslavia!

Mi scusino per il titolo i Balcanici, ma per tante persone


la guerra jugoslava fu una vera e propria maledizione;
tra militari e civili le vittime salirono troppo presto
oltre le migliaia, e la guerra era resa ancora più dura
e torbida dal fatto che non fosse combattuta faccia
a faccia, ma con agguati continui, bombardamenti,
attentati… una guerra che segnò non un solo paese,
ma intere comunità di popoli che già faticavamo a
convivere all’interno della polveriera balcanica e che
fu all’origine dei tristi conflitti che si sono succeduti
negli anni ’90 del secolo scorso in quelle zone povere e

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martoriate. Come ci racconterà ora Antonio, se da noi
la miseria era tanta, in Jugoslavia non si conosceva
neppure il significato della parola “miseria”, tanto la
gente pativa la fame.

<<Il marzo del 1940 sono partito per Cividale del


Friuli con l’Undicesimo Battaglione Mitraglieri, che si
aggregava al Corpo d’Armata che era più vicino, noi
si era aggregati al Primo Fanteria che era di stanza
a Cividale. Eravamo in principio una ventina, perché
eravamo quattro compagnie per battaglione, venti per
compagnia, ma quando si è incominciato a parlar di
guerra siamo arrivati a 120 per compagnia. E in tempo
di pace avevamo quattro mitraglie per compagnia, e in
tempo di guerra dodici.
Addestramenti sulla mitraglia i primi tre mesi,
istruzioni pratiche e dopo tiri una volta la settimana
in campo di tiro… e montare e smontare il pezzo
a occhi chiusi e chi ci riusciva in un primo tempo
prendeva la licenza, poi dopo che siamo partiti basta.
Stavamo bene fra compagni, c’era solo sottufficiale per
raccomandazione, esistevano anche a quei tempi, ma
non sapeva niente, niente di niente, e altro che pretese
e lo abbiamo avvisato bene: “Co ven passà el confine
el primo colpo l’è par ti!” e altro che pretese e lui non
sapeva neanche andare al passo! Invece con gli altri
ufficiali si poteva ragionare.
Il marzo 1941 in piazza a Pradamano ci preparano a
partire, tutti seduti sullo zaino in attesa della partenza:
120 per 4, 500 eravamo, coprivamo tutta la piazza e
dovevano arrivarne altri, ma non arrivarono e allora
dopo due giorni ordine di partire per la Jugoslavia!

156
Siamo andati sul Montenegro e là siamo stati tre mesi:
era neve. Noi stavamo sul Posterno, da dove dominavi
su tutta la Jugoslavia e avevamo i camminamenti
sotto la neve, per fare le basi per sparare con le
mitraglie usavamo un poca di acqua sopra la neve
e poi pressavamo bene con il calcio del fucile fino a
che non era dura e quanta fredo!!! Un momento però
è stato più terribile di tutti: ci hanno dato ordini di
sparare su una colonna di Slavi che transitava proprio
sotto la montagna dall’altra parte; saranno stati due
chilometri, due chilometri e mezzo di distanza. Dunque
dodici per quattro mitraglie, tutte che sparavano! La
mia aveva due metri da una, l’altra due metri, ogni
due metri insomma… si è visto altro che fuoco… tutto
distrutto… tutti morti… erano macchine coi tendoni,
non so cosa avessero dentro, dovevamo sparare ad
altezza uomo, abbiamo fatto un macello!
Quella è stata la data più terribile della mia vita! Ho
sparato tante volte, ma ti dicevano di sparare e magari
non c’era niente, oppure non vedevi i nemici perché
era buio o lo facevi perché avevi paura che venissero
avanti, sparavi due caricatori, tre, senza darci ordini
precisi di sparo, solo sparare per farsi sentire: una
volta, dopo quattro, cinque mesi che eravamo dentro in
Jugoslavia, eravamo su una strada che attraversava
una montagna, a picco da una parte e a picco dall’altra,
e dovevamo dominare tutto il fronte di sotto e c’era
un sole che batteva proprio sulla mia postazione di
mitraglia e ho detto al sergente: “Io non ce la faccio
più a star qua al sole!” mi giro dall’altra parte e vado
a mettermi all’ombra della montagna e gli faccio: “Se
ordina di sparare sono qua, quattro passi e arrivo là!”

157
Quello si gira e fa per rispondermi, ma capita una
bomba! Disfatto tutto, non so quanti morti, giusto
sopra la mia mitraglia! Se ero ancora lì con gli altri
attorno alla mitraglia, perché io portavo la mitraglia
e altri due le munizioni; insomma son stato salvato
proprio per miracolo, perché se ero al mio posto con la
mitraglia era finita, ha fatto un buco di due metri, era
una granata grossa. Dopo non abbiamo più sparato,
perché siamo andati dentro e si aveva ordini di usare
arma bianca, fucile con la baionetta, si doveva passare
tutte le case, tutti avevano il suo compito e dopo un
certo punto, abbiamo camminato sulle montagne a
piedi fin a Lubiana. Io non ce la facevo più a portare
la mitraglia, e gli ho detto al tenente che mi facevano
male ai piedi. Quello mi manda alla visita all’ospedale
militare italiano, e appena levo le scarpe il dottore mi
fa: “Ma lei ha i piedi piatti, metta le scarpe e vada a
casa!”
Dunque quando il Comando ha saputo che avevo i
piedi piatti e che dovevo fare i servizi sedentari, che
non dovevo più esser in zona di guerra, il Tenente
Colonnello dell’ospedale mi manda a chiamare e
mi fa: “Io sono senza attendente. Vuole lei farmi da
attendente?” E io gli faccio: “E sono in pericolo?”
“Eh… dove son io non è tanto pericolo, perché è
in ospedale… forse il cinque per cento che succede
qualcosa!”
E così ho fatto quasi un anno da attendente al
Colonnello e aiutavo all’ospedale quando operava: era
chirurgo, ma non mi ricordo più il nome.
Quando la guerra cominciava a essere finita, a Lubiana
c’era il Primo e il Secondo Reggimento fanteria e il giorno

158
tutto andava bene e di notte era tutta una sparatoria.
Una bella notte, sono venuti gli Slavi e ci hanno
circondato tutti; hanno saccheggiato, e tutto quello che
hanno potuto trovare lo hanno portato via. A un certo
punto faccio al Colonnello: “Colonnello… allora posso
andare in Italia… perché se sono sedentario…” “Sì
basta che lei chiede…vengo anch’io, perché qui vedo
che la situazione peggiora!”
E con quella siamo partiti e siamo tornati in Italia>>.

Guerra finita? Macchè, le vere disgrazie cominciano


adesso, stretto nella morsa fra nemico e amico senza
sapere chi fosse l’amico e chi il nemico. Questo il
destino di tutti i soldati italiani che affrontarono
la terribile tappa del 1943, l’anno della disfatta del
regime e della rinascita del paese. Ma quanta fatica e
quante divisioni… .

Peggio in Italia che fuori

“Tornato in Italia non ho più fatto l’attendente,


perché c’era il problema che c’erano pochi sedentari e
tanto lavoro da fare e allora mi hanno mandato su
un deposito di vestiario in una chiesa di Cividale,
vestiario che veniva dalla Russia e doveva essere
controllato cassa per cassa, capo per capo, e dopo li
portavamo presso Verona, a Castelnuovo. Castelnuovo
era un paese fatto senza un abitante dentro, tutte ville e
dentro era il Secondo Vestiario Equipaggiamento, era
la ferrovia che andava dentro, si scaricava ogni genere

159
di vestiario in un capannone, e siccome nessuno al
smistamento del capannone aveva il compito di farlo,
mi hanno chiesto se andavo a portare il materiale a
Verona, perché si partiva due alla volta a portar roba,
aprire i vagoni, controllare e là per seguire i lavori e
portare il materiale ci voleva il grado di Tenente, allora
mi hanno messo su i gradi di Tenente alla spalla.
Ogni mese facevo la spola da Cividale a Verona e
l’otto settembre, quando è finita la guerra, mi trovavo
proprio lì a Castelnuovo ed era tutta una disfatta, tutti
andavano dove sembrava loro che ci fosse la via più
diritta per scappare e in quella, ci siamo trovati cinque
sei di questa zona di Oderzo e vicinanze, e ci siamo
incamminati a piedi, perché sui treni non si poteva
montare, erano controllati dai fascisti e dai Tedeschi.
Per uscire da Verona si doveva passare l’Adige; siccome
i ponti erano tutti controllati dai Tedeschi, con una
corda, si era legato quello che era più esperto, che è
riuscito ad andare dall’altra parte, l’ha legata su
una croda e dopo, uno alla volta, siamo passati tutti
e là abbiamo perso tutto quello che si aveva, perché
sull’acqua non potevamo tener niente addosso siamo
arrivati casa praticamente nudi, abbiamo dovuto
buttare via tutto quello che era roba da militare, si
andava per le case, a chiedere qualche cosa se avevano
un per di braghe e a contarla la par ‘na fiaba, ma la
iera tremenda! Tremenda anche perché dopo sono
venuti in cerca, qua successe peggio ancora!
Dopo pochi giorni che ero casa, uno che abitava qua
vicino mi chiama se andavo ad aiutarlo a uccidere
il maiale, perché lui non era in grado da solo, ce ne
voleva più di uno. Cos’hanno fatto? Gli hanno tagliato

160
la testa e l’hanno appesa sul balcone, in fondo alla
strada. Sono passati i Tedeschi e hanno visto la testa,
sono venuti dentro e hanno chiesto i documenti e il
macellaio era vecchio e non era sulla data di leva, io
ero dentro invece, come disertore di guerra!
Dunque, mi portano in caserma, e là di giorno mi
portavano a lavorare sulla Piave a fare i bunker,
anche se eravamo tante squadre e ognuno aveva i suoi
compiti conforme alle capacità… taiar legne, caricar
e scaricar cari e di notte dormivo in caserma. Un bel
giorno mi capitano gli interrogatori: ero dove oggi c’è
l’asilo, che era là il Comando Tedesco. A un certo punto
mi chiamano dove che erano le suore adesso, al piano
di sopra, il famoso dottor Rotta, che era il capo dei
fascisti qua el me domanda: “Lei deve dirmi i nomi di
almeno cinque partigiani di Ormelle!”
“Io sono appena tornato casa… non so niente!”
Mi fanno montare sul davanzale della finestra, con la
pistola alla testa: “Se non mi dice almeno due nomi per
lei è finita!”
“Io le torno ripetere che non conosco nessuno, perché
come son tornato casa mi son messo a lavorare sui
campi! E io non son dato fuori neanche un giorno!”
Con ciò mi ha lasciato stare, hanno chiamato il
parroco, don Gino Mason perché testimoniasse quello
che io stavo dicendo e lui ha testimoniato e con ciò ho
ripreso a lavorare sul Piave come tutti gli altri… ‘na
bea vita vero? E dopo, quando è venuta la primavera
mio papà era anzianotto e ha chiesto al Comando se
potevano lasciare casa il figlio e andava lui a lavorare
sul posto mio, perché era tanto da lavorare e lui non
aveva le forze per poter andare avanti e glielo han

161
concesso e son tornato a casa, sempre col terrore che mi
venissero a prendere, perché mi conoscevano, avevano
tutti i dati, c’era sempre il terrore e quando venivano le
voci che passavano le vedette per la strada, io per stare
più sicuro andavo dentro nello stavolo del maiale,
perché dico, qua no vien nissuni a vardar e con ciò son
riuscito perché son venuti diverse volte a controllare la
casa, capisce?
E con ciò è venuto che è finita la guerra finalmente, e
siamo diventati liberi!>>.

In montagna non ci vado mai più!

<<Son stato via tre anni e come detto ho passato tutte


le montagne di là, non sono mai montato in macchina
una volta, mai! Passati tutti i paesi, son dato a Lubiana,
a Lubiana c’è una bella piana, ho detto:
“Varda… che bello che è!” quando son andato a fare
servizio in ospedale, che era decente insomma, il
Colonnello mi aveva insegnato tutti i numeri dei bisturi,
allora lui chiamava i numeri e io passavo mentre lui
operava, più della metà del tempo passavamo in sala
operatoria, anche giornate intere perché c’erano quelli
che avevano pallottole dentro il corpo o schegge; io ero
come soldato croce rossa, avevo la fascia sul braccio
della croce rossa, qua sul sinistro. Non potevano
spararci, ma se sparavano te la tenevi, perché quando
portavano i feriti e dicevano:
“E’ quattro ore che è finito a combattere, bisogna andare
fuori ad andare a prenderli!” perché era pericolo, era la

162
croce rossa che doveva andare a prenderli, quando era
sparato l’ultimo colpo ma invece nessuno si muoveva o
faceva un passo perché sparavano anche a noi e dopo
capitavano là tutti su un colpo, noi non potevamo
neanche sparare! Avevamo la pistola, non il fucile, ma
per difesa, io non ho mai sparato un colpo dalla pistola.
Quella della colonna invece… quante volte anche su un
giorno mi viene in mente, quante! E’ stata tremenda,
tremenda perché a sentir tutte ‘ste mitraglie Breda e
non ci dicevano mai smettere! Perché i caricatori fanno
diciotto per uno e hanno il gancio che si attaccava così,
uno all’altro e il porta munizioni aveva il compito di
agganciare tutti di seguito. Sparar diciotto colpi era
neanche mezzo minuto! Non ci dicevano di fermarsi e
si continuava a sparare! Dopo anche con l’arma bianca
si andava per le case a controllare, ma era un pericolo,
quattro cinque della nostra compagnia sono andati
dentro una casa che credevano fosse vuota, invece
erano dentro sotto il letto, avevano il fucile, sparano,
secchi tutti.
Trovavamo donne e bambini, non dovevamo toccare
una donna, se uno lo faceva veniva fucilato! Non
eravamo trattati male, ci davano anche da mangiare
le donne, purché non si facesse del male e durante la
notte noi non si andava per le case, era pericolo, ma
di notte si sentiva sparare più che di giorno e io non
ho mai visto una compagnia di Slavi. Di giorno non
li vedevi mai, erano tutti dentro nelle grotte, con le
porte camuffate, negli alberi e di notte venivano fuori
e sparavano a destra e sinistra. Avevamo le sentinelle
negli accampamenti, ma era dura anche farlo perché
erano le prime vittime, ma quanti passi, quante crode

163
che ho passà! Sono tornato a casa e ho detto:
“Io in montagna non ci vado mai più!” perché la nostra
compagnia era Battaglione artiglieria autoccarrato di
corpo d’armata e io non ho mai visto una volta una
macchina portare un soldato, neanche muli, tutto a
spalla! Tutti quanti, i portamunizioni, una cassetta
di munizioni pesava 22 kg, non era altro che ferro
dentro e camminare sulle montagne con quella sulle
spalle non era un bel divertimento e la mitraglia 24 e
22 il treppiede, che li portavamo in due a testa, ma la
mitraglia non vedevo l’ora di mollarla perché quello
che spara è sempre il primo che viene sparato!
E prima di andare in guerra ho fatto quattro mesi in
fureria.
Io l’otto settembre una vita da cani per venir casa, e
delle volte sbagliavi anche strada, perché come facevi?
Trovavi torrenti, oppure case che non conosci, poteva
essere qualcuno che ti aspetta e allora cambia strada. Ci
abbiamo impiegato otto giorni a venir casa da Verona,
e dormire sotto gli alberi, sulle foglie, in quattro!>>

164
Pietro Lorenzon

Emotivamente non è stato affatto facile affrontare


la testimonianza di Pietro Lorenzon, prigioniero in
Nord Africa… come mio nonno Aristide… Pietro mi
ha raccontato di come, tornati dalla prigionia, mio
nonno lo invitasse a bere qualche cosa, e scherzando
gli dicesse: “Eora Pietro, quando eo che tornen in
Libia?”… ma mentre lo raccontava, lui e la moglie sono
stati presi da una commozione sincera, viva, e persino
delle lacrime sono uscite dai loro occhi… pensate
come mi sono sentito in quell’istante, mentre vedevo
quella scena, io, che sono stato nipote di Aristide,
che ero messo a dormire da piccolo con le storie sulla
guerra, anzi … sulle guerre, perché se le era passate
entrambe… quante cassette di ricordi perdute, di lui
mi sono rimaste poche foto e un trafiletto pubblicato

165
sul Gazzettino. Che sciabolata per me vedere quanta
stima portasse la gente per lui e non essere riuscito
a conservare nulla di lui… quello che mi resta è solo
materia, non ho più la sua voce, il suo spirito a tenermi
compagnia la sera quando giocavamo al zogoeon… tutte
le sere, e figurati se mi lasciava vincere, macchè!
Erano momenti che non avevano prezzo… mi mancano,
mi mancano tanto… scusate se mi permetto un po’ di
divagare, ma dopo più di cento pagine che la figura di
Aristide aleggia nei ricordi di chi intervisto come una
persona straordinaria, mi si stringe il cuore a pensare
cosa la gioventù perde ogni volta che un anziano ci
lascia… perché hanno veramente tanto da raccontare,
il loro è un mondo che non c’è più, e che non possiamo
permetterci di dimenticare, tanto più se, come Pietro
e tutti gli altri di questa raccolta, hanno passato anni
tragici come quelli del fascismo e della guerra… come
le tavole della legge biblica imposero alle tribù di
Israele cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato, le voci
di queste persone sono ancora qui per noi, per impedire
che quegli errori, così tragici e terribili per l’umanità,
possano essere ripetuti.

In riva alla Piave

<<Sono nato il 22 maggio 1920 qua a Roncadelle


in realtà, ma sempre comune di Ormelle. Eravamo
quattro più genitori, due maschi e due femmine. Qua
era dura la storia per vivere, lavoro non era mezzo,
non era niente, mangiare quel poco che c’era e anche

166
misurato, non era quel boom. Nel ’30-’35 c’era la grande
crisi con Mussolini e che cibo razionato! Dei giorni non
c’era, altri quel poco, non si poteva arrivare da un anno
all’altro con quello che c’era, perché mezzi da lavoro
niente, la terra non rendeva, quel poco che si lavorava
si usavano gli animali, tipo per arare i terreni! Deo
grazia se era razionato! No ghi n’era proprio!
Qua da piccolo la Piave correva qua dall’argine,
prima che scavassero il fondo, che hanno portato fuori
milioni di metri cubi di roba, allora l’argine era pulito,
si vedeva ancora la pietra! A quei tempi la zona qua
era tutta acquosa, la Piave era sempre alta, scoli non
ce n’erano, i terreni non erano fertili come oggi.
Dopo che è andato giù con le falde acquifere allora sì che
i terreni sono venuti buoni, sennò qua c’erano sorgenti
dappertutto. Parlo sempre degli anni trenta-quaranta,
e anca dopo. Coi fascisti sono sempre andato d’accordo
perché era inutile bisticciare, venivano fuori sempre
baruffe e avevano ragione loro e allora dicevo sempre
di sì. Ho fatto le scuole a Roncadelle con la maestra
Pullini. Era una brava maestra, paziente, perché io ho
fatto tutte le classi con lei, e se c’era qualcuno un po’
indietro andava ad aiutarlo invece adesso i maestri non
fanno quelle robe là. C’era il corso di avanguardisti pre
militare da fare, a Ormelle, c’era il dottor Trombetta,
il fascistone!
Ma i primi tempi bicicletta in casa non c’era e allora
sono andato una prima volta a fare il corso da pre
militare a piedi e dopo mi sono stufato di fare tutta
quella strada e non ho più voluto andare. Sono venuti
qua che volevano portarmi subito dai Carabinieri,
ma alla fine hanno tirato fuori loro una bicicletta

167
per farmi andare al corso. Quell’anno che Mussolini
è venuto qua in Piazza del Grano a Treviso, la data
non me la ricordo, ma ci avevano portato a Treviso per
tenere il buon ordine con la forza e per vedere ‘sto duce
a portata di mano.
Mi ricordo che il duce dopo un po’ è passato e noi con
questa camicia nera sotto il sole cocente… ben sono
scappato casa, no neanche casa, mi sono fermato a San
Biagio ad ascoltare per la radio quello che parlava ‘sto
duce insomma e al sabato il ciompo, che era severo e
voleva fossimo sempre presenti al sabato, se non c’eri
andava per casa, ci diceva:
“Bisogna essere preparati per andare in guerra!” e
dopo guerra ne ho fatta un bel po’ e camminar poco in
guerra, fermo in una buca a essere riparati dai colpi.
Poi il febbraio del 1940 sono partito anch’io, mi pare
che era il dodici. Due tre mesi a Trieste e dopo abbiamo
fatto l’invasione della Jugoslavia, l’occupazione: in
un primo momento ti facevano conoscere le armi, io
ero Mortagliere 81, avevo il mortaio 81, ma dentro in
Jugoslavia ho sparato solo un colpo.
Siamo andati dentro senza trovare resistenza, ma
dopo sei mesi, sei mesi e mezzo la faccenda è diventata
un’inferno: si erano formate le bande partigiane là in
Croazia, e anche attorno a Denjce, dove eravamo noi a
fare il servizio di sorveglianza alle ferrovie>>.

Che bellezza la frase: ci dicevano: “Bisogna essere


preparati ad andare in guerra!”… parla da sola del
progetto fascista di dominio, progetto che portò
intere generazioni a essere macellate e maledette per
sempre.

168
Dalla Jugoslavia alla Libia

<<In Jugoslavia il pericolo più grosso era vicino le


ferrovie, perché gli Slavi ci mettevano le mine e le
bombe sotto i binari e i treni dovevano correre! In poche
parole noi dovevamo controllare che non ce ne fossero e
se c’erano dovevamo toglierle. Il compito che avevamo
era la guardia alla stazione, dì e notte; ci attaccavano
sempre, più facile la sera che la mattina presto e dopo
là mi sono stufato subito, perché faceva un freddo che
ti uccideva, fino a 34° sotto zero.
Facevamo anche turni di notte, si andava via a gruppetti
da tre e ho trovato ancora sotto le rotaie bei pezzi di
dinamite che se passava il treno! Ci avevano anche

169
dato un bel pastrano a pelo, stivali di gomma caldi
con la suola di legno che li usavi andando dentro con
la scarpa, se non c’erano quelli addio piedi! Congelati
con quel freddo che era là! E allora volevo andar via!
Avevano mandato un annuncio di chi voleva andar
via volontario coi paracadutisti, e volevo diventare
volontario paracadutisti per andar via dal freddo, là
era freddo roba da morire, e il mio Capitano diceva:
“Sei fuori di testa? Guarda che vai a finire male, ti
mandano sul Nilo e lì ti spettano col fucile là sotto!”
così mi diceva e da là dopo un poco di giorni ho ritirato
la domanda.
Succede però che dopo un pochi di giorni, dal Ministero
della Guerra arriva una richiesta che, siccome quel
tempo che sono andato sotto le armi ti domandavano
cosa facevi prima di andare sotto le armi, io avevo detto
loro che ero barcaiolo e allora hanno trovato la storia
che ero barcaiolo e il Ministero della Guerra mi ha
richiesto, hanno formato un battaglione di Lagunari
e con quella ci hanno tirato via dalla Jugoslavia e
siamo andati a finire in Africa. Cosa era successo in
poche parole: quella volta che sono andato a Treviso a
fare la prima visita di controllo, mi hanno chiesto che
professione avevo e siccome avevo un amico del 1911
che era dei pontieri, mi aveva detto prima di andare:
“Piero, ti che te piase barchidar metti zò barcaiolo che
te và a far genio pontieri… l’è un bel corpo!” e difatti
era un bel corpo, ma se per caso mi toccava andare a
finirla in Russia finivo male anche io, questo era sicuro
e comunque da là mi hanno richiesto il Ministero
della Guerra, perché là guardavano le professioni
della gente, e come torno ripetere, con tanto di firma

170
hanno richiesto che mi presentassi al 2° genio pontieri
di Piacenza, che là dopo loro mi dovevano indirizzare
dove dovevo andare. Sono passato dal 52° Battaglione
mortaio 81 che ero in Jugoslavia alle barche, solo che
quando sono arrivato a Piacenza alla sera ho trovato
le guardie alla caserma che mi fermano e mi prendono
per una spia. Vado là dal Capo posto, chiama l’ufficiale
di picchetto che fa: “Io non ho mai visto un militare con
la cravatta azzurra!” Benedetto Dio! Se me l’avevano
data da portare come militare! Mi hanno piantonato
là la notte in caserma, la mattina dopo mi presento
in fureria, presento le carte e mi fa il furiere: “Con
queste carte qua potevi stare a casa anche un mese

171
nessuno veniva a trovarti eh!” e avevo fatto otto giorni
a casa a dire il vero. Da là il secondo giorno arriva
un Maresciallo del genio, mi porta fuori dietro, mi fa
montare in barca e fa:
“Adesso vediamo che barcaiolo sei!” insomma mi dà
una spinta e mi butta in mezzo, prendo i remi, faccio
due tre remate di quelle buone:
“Ah torna indietro sei abile!” e da là a San Pier d’Arena,
dove abbiamo fatto le lezioni di come dovevamo lavorare
sulle barche, sulle chiatte e tutte quelle storie là. Avevo
passione di andare in barca, ne ho una a casa, con
remi e stanga, me la sono costruita io, siccome avevo
passione di pescare sul Negrisia, che una volta c’erano
pesci e adesso non c’è niente, una volta c’erano tante
anguille, quelle erano buone adesso l’acqua è poca,
ci vanno dentro gli scoli e non è più pulito come una
volta.
Comunque là in Africa, sono andato in aprile dopo
un mese e mezzo di istruzioni a San Pier d’Arena,
e ci hanno portato in aereo anche perché avevano
premura. Sbarcati in Sicilia con il traghetto, saliamo
in treno e su per una via in treno, verso Castel Vetrano,
dove c’era l’aeroporto dove dovevamo imbarcarci noi,
il treno non ce la fa più, arriva allora il Capitano:
“Scendere e spingere!” anca quea me ha tocà far! E
c’era chi spingeva chi andava a limoni, viene fuori
il proprietario come il demonio: “Mi avete rovinato il
raccolto, mi avete mangiato i miei limoni migliori!”
e il Capitano gli fa: “Non c’è problemi… qua! Ti faccio
un biglietto e vai a reclamare e ti danno il doppio di
quello che è stato preso!” invece era un biglietto falso!
Quant da rider! Ma scappati nessuno perché ti

172
controllavano coi mitra mica scherzi, eri destinato
per l’Africa e non potevi tirarti indietro. Ci hanno
imbarcato su un aereo, Savoia Marchetti a tre motori
il modello, e in pieno Mediterraneo fanno:
“C’è nessuno che conosce la mitraglia qua?”
“O mamma mia, cossa voj adess?” ho pensato “Io la
conosco!” faccio. “Vediamo come fai a caricarla!”
era una mitaglia Breda, che la usavo in Jugoslavia, la
conoscevo bene. Fa: “Ti metto qui sulla torretta; se vedi
un aereo che si avvicina che ha un disco con un tiro a
segno devi sparare!”
“Ma che cosa dice?” “Eh sì, perché è un aereo nemico e
ci butta a mare… devi sparare!”
Fortuna non ne abbiamo trovati, sennò non so come
andava a finire, perché i loro caccia erano veloci e i
nostri non andavano neanche a 400 km/h. Il simbolo
degli Inglesi era un cerchio tipo tiro a segno, e sull’aereo
nostro, in cima c’era una torretta incabinata per
protezione dell’aria e insieme una mitraglia che tiravo
destra e sinistra, stavamo 70 per aereo e sono partiti
quella volta 11 aerei tra materiale, uomini e roba, tutti
arrivati.
Africa settentrionale, nel 1942; ci avevano messi a
lavorare sui porti a scaricare e caricar navi perché
avevano insegnato a noi, dato che i borghesi che
lavoravano con le navi non volevano più lavorare a
causa dei bombardamenti e allora hanno costretto i
soldati, fra i quali anch’io. Ero in Libia, ho passato
Tripoli, dove sono sbarcato, Bengasi, Tobruk, dopo
sono andato a finirla quasi al El-Alamein, perché dopo
gli ultimi mesi non mi hanno messo più a lavorare
sulle navi, perché navi non ne arrivavano più, e

173
allora mi hanno messo con le truppe a terra a far forti
anticarro con quella che eravamo del genio. Dopo
con quello che è venuto dalla ritirata, siamo tornati
indietro a terra, ma ci hanno minato la strada per non
farci tornare indietro, così potevamo solo fermarci e ci
prendevano tutti prigionieri e c’era una mulattiera mi
ricordo e io mi sono salvato per di là, sono andato su
con dei Tedeschi perché il coraggio degli Italiani! Non
so che ufficiali che avevamo: hanno buttato perfino
lo zucchero dentro la benzina per bloccare i motori,
perché le macchine si fermassero e lasciarci a piedi, in
modo che ci prendessero! Per far poco a finire la guerra
facevano, perché il Comandante o Generale, non mi
ricordo il nome era contro la guerra, tempi addietro
avevamo anche avuto bisogno di mezzi, camion, non so
io cosa, abbiamo fatto domanda, domanda e domanda,
i camion arrivavano, perché io ero sul trasporto delle
navi, sapevo cosa arrivava dall’Italia! Questi camion
arrivavano, con tanto di nome destinati al Reggimento
tot. o compagnia o quel che era, cosa facevano?
Li buttavano dentro in una grande officina, gli davano
la tinta di nuovo, cambiavano i nomi e li vendevano
ai libici, questa era la storia dell’Africa! Altrimenti
la guerra sarebbe stata vinta, perché il soldato era
portato per vincere la guerra, ma i comandanti italiani
no! I Tedeschi invece erano diversi, perché erano più
resistenti. Comunque tanta povertà sia in Jugoslavia
che in Africa, vivevano di pastorizia, la gente era anche
accogliente i primi tempi, poi non voleva più vederci.
Coi militari invece si andava d’accordo, anche con gli
ufficiali, ce n’erano di buoni e cattivi.
Avevamo il Capitano che aveva fatto la guerra del

174
’15-’18, altri due Tenenti scherzosi, che ci stavano col
militare, non di quelli permalosi che non volevano
altro che comandare!>>.

Il continente nero

<<Appena sbarcato a Tripoli soffiava il ghibli! Vestiti


di panno con quel caldo che era là, perché ad aprile
è come da noi fosse luglio e anche molto più caldo.
Appena arriviamo comincio a togliermi la giacchetta,
un altro la camicia e il Capitano che urlava come un
matto che non era decente! Sì sì ma il giorno dopo si
è spogliato anche lui e si è messo in braghe corte, con
‘sto caldo che era e cò ‘sta fumera, cò ‘sto caivo, cò ‘sto
ghibli insomma, la sabbia che vola in poche parole, che
arriva anche qua delle volte, perché la pioggia che piove
sabbia arriva da là, con il vento che la porta via, perché
è sabbia talmente leggera che è come pulviscolo.
Ero talmente contento che dal freddo che avevo là, al
caldo, sopportavo che non sentivo niente, stavo un ben
di Dio! Sera va ben, dopo i turni dentro sulle navi,
caricar scaricar, quel che era da far, parchè rivea de
tut! Nave frigorifero; quelle erano brutte da scaricare,
le navi frigo, perché dentro nel frigo erano 40° sotto,
erano quei famosi congelatori a lunga durata, c’erano
carni che avevano anche nove dieci anni de data e
andar dentro su ‘sti frighi che erano lunghi anche cento
metri, quando eri in ultima non vedevi l’ora di venir
fuori perché crepavi dal freddo dentro i congelatori
delle navi e dopo venir fuori al caldo 45-50 gradi! E

175
bombardamenti tutto il giorno, avevamo anche le
contraeree ma erano più furbi gli Americani perché stà
attento: un colpo mi ricordo ero su una nave a Tripoli e
vicino al ponte di comando che facevo segnali a quelli
delle gru, perché là funzionava tutto a segnalazioni,
sento le bombe fischiare che vengono giù; butto gli occhi
in aria e vedo gli aerei in alto che erano dieci centimetri
di lunghezza, quindi coi radar non li vedevi! Con
queste bombe che fischiavano e i radar non erano stati
capaci di vederli perché il radar arrivava solo a 8-9000
metri, si vede che ‘sti famosi aerei volavano più alti e
buttavano le bombe magnetiche perché ne sono capitate
tre sulla nave, e io che ero sul ponte di comando son
riuscito ad andare a finirla in prua, mi sono buttato
sotto una lamiera, e ho fatto ora a… quegli scoppi
maledetti e dopo parea… e la nave si incendia, granate
e bombe che scoppiano dentro nella stiva mamma mia
quanta paura e non potevo andar giù a terra perché
ero fuori, perché le navi non potevano attraccare al
porto, in banchina, perché c’erano rottami e roba del
genere, allora si fermavano fuori ancorate e noi con
le chiatte e i barconi si andava a prendere e scaricare
il materiale che veniva portato in banchina e là coi
barconi cossa eo success? Che col bombardamento
uno lo hanno affondato e uno resta salvo e noi siamo
venuti giù, ma dopo erano cascati giù gli alberi della
nave in cima al barcone e manovre e avanti e indietro
e avanti e indietro e finalmente cascano fuori questi
alberi, che si strascinava via fin la nave con la forza
del barcone e là siamo riusciti ad andare fin a riva,
che era l’inferno, avevano dato l’allarme del fuoco, se
la nave piena di tutto scoppiava Tripoli spariva a quel

176
tempo! Comunque è sparita Tobruk con una nave del
genere che è esplosa!
In porto facevamo turni di lavoro robusti: si andava
a ore, dieci ore di lavoro, poi si rientrava al campo e
andava un altro turno perché si era un battaglione
che c’erano cinquanta e passa persone e si era divisi
in tre turni e difficile che passasse una giornata senza
scappare dai bombardamenti, perché le città più
importanti erano quelle più battute. Noi avevamo solo
il compito di scaricare e caricare, dopo passava un
altro reparto che controllava la roba, non lo facevamo
noi, ma non mi ricordo il nome, so solo che dovevamo
far presto a scaricare perché più stava in porto più era
pericolo che venisse bombardata, era successo ancora,
ce n’erano là sul fondo affondate, anche di armi,
cannoni, carri armati, ma soprattutto viveri.
Si pativa la fame, mica scherzi; è stato un periodo che
c’erano tre navi carichi di viveri pieni di rifornimento
per le truppe, e quando erano nel Mediterraneo che
stavano arrivando, gli Inglesi le hanno silurate tutte
e tre. E allora là mangiare per sei mesi era dura, ti
davano un etto di pane al giorno con due sardine sotto
sale e l’acqua arrangiarsi e allora si andava a finirla
per villaggi in cerca di datteri e uova, perché altro non
avevano là in Libia. Vestiti da coloniali, in braghe
corte, camicia e casco di sughero per il pericolo delle
insolazioni, quello di ferro solo per i bombardamenti e
ancora nonostante quello un volta sono andato quasi
in coma per un colpo di sole! Mi ricordo quella volta
camminavamo e dopo un pezzo mi sono svegliato e mi
vedo un militare di fianco e dentro su una casa, su una
stanza fatta di muro, che noi invece dormivamo sotto

177
le tende, e gli faccio a quello là: “Chi eo che me ha portà
qua?” “Chi che te ha portà qua? Varda che te era pì de
là che de qua!” e dicevano che avevo avuto un colpo di
sole, che mi aveva fatto perdere i sensi, a me è toccata,
agli altri non so!
Fino a fine guerra là e dopo prigioniero degli Americani,
senza contatti coi borghesi, anche se erano quasi tutti
Italiani, ma gli Arabi non avevano simpatia per gli
Italiani. Ero a Tripoli, poi Bengasi, che era una città
grande anche quella, poi Golfo della Sirte, che è dove
ha la fortezze atomiche Gheddafi, che a quei tempi
erano le fortezze nostre, dove era il Generale famoso
Rommel, la volpe del deserto! Dopo siamo andati
giù oltre Barce e dopo è cominciata questa ritirata e
siamo tornati indietro. Non mi ricordo la data, ma
non è durata tanto: da El-Alamein io sono cascato
prigioniero a Tunisi, non ho fatto la battaglia, perché
appena arrivato là ci hanno fatto fare marcia indietro
subito e hanno cominciato la ritirata e siamo finiti
a Tunisi a prenderci a guerra finita, un bel pezzo di
strada a marcia indietro, con mezzi di fortuna, in
mezzo a deserto; tre mesi nel deserto del Sirte, senza
acqua, perché era razionata: te ne davano due litri al dì
e con quella dovevi bere, lavarti e fare il resto. Trovavi
tanta roba abbandonata, soprattutto scatolame, per
scappare buttavano via tutto!
In ritirata quando ci hanno preso tra Tedeschi e
Italiani eravamo 200.000 circa, ci avevano circondato
come un cerchio, e alle spalle si aveva il mare e di là
non potevamo scappare, perciò ci hanno beccato gli
Inglesi, dopo due mesi e mezzo, forse tre di ritirata
e magnar dipende, a volte c’era a volte no. Là siamo

178
stati fermi tre giorni ammassati là su una pianura,
fissi come formiche; fortuna che avevo provveduto un
poco al mangiare sennò tiravi la cinghia, perché veniva
sì un camion a portar roba, due camion, tre, ma la
buttavano così, chi gli toccava toccava e gli altri niente;
al quarto giorno hanno cominciato a dire: “Marina e
aeronautica fuori!” e io ho pensato che o marina o genio
militare o quello che è vado fuori anch’io insieme, sono
andato fuori, mi hanno caricato su un treno e là su
questo treno, nove giorni e nove notti, siamo arrivati a
Casablanca e come siamo arrivati là siamo arrivati su
un campo di Americani. Trattamento buono, neanche
da mettere fra prima e dopo, magnar fin che te voea ghi
n’era! Sono stato poco a Casablanca e non è che potevi
uscire perché eravamo messi in un recinto che era
come Roncadelle quasi, con le strade, illuminazione,
jeep destra e sinistra, con le guardie che controllavano
coi mitra, capannoni enormi per i prigionieri, coi
Marocchini non potevi avere contatti.
E dopo è successo che ogni giorno mandavano via
1000 persone, 1500, dipendeva dalle navi che avevano
insomma, e li mandavano su a Washington, negli Stati
Uniti; non potevi rifiutare, ti toccava andare, anche
perché dopo erano quelli che erano ancora fascisti e
quelli li mettevano isolati da una parte. Mi è successa
quando ero ancora giù a Casablanca, che avevano
preso la Sicilia e avevano mandato giù dei prigionieri
e c’erano un Colonnello fascista e due Capitani, fascisti
sempre e là siccome non c’erano guardie sufficienti di
servizio, il giorno dopo ci hanno messo uno di noi,
ma non ero io per primo, ma un meridionale. Questi
qua parlando avevano capito che era un meridionale

179
e non un Americano, si era fatto riconoscere che
era un prigioniero che faceva la guardia agli altri
prigionieri, con tanto di mitra ma senza pallottole
dentro! Insomma dopo sono montato di turno io e
cominciano a dirmi chi sono, chi sono: “Se te vol saver
chi che son basta che te vae in Comun…” gli rispondo
a ‘sto Tenente Colonnello, e quello: “Se ti becco quando
andiamo in Italia facciamo i conti per bene!” “Ben ben
l’è poc da far i conti! Tant indietro alla rete metallica,
vedi quest’arma?” e allora da quello non ha più aperto
bocca, ma il giorno dopo li hanno mandati via e finita
la storia. Comunque mi sono tirato indietro per andare
in America, non volevo andar via lontano, di più di
quello che ero da casa, poi là facevi vita da signore in
confronto, avevamo anche roba per tagliarci la barba,
non posso lagnarmi di loro, eravamo in albergo rispetto
a quello che avevamo passato prima. Ci mandavano
a lavorare, ho lavorato anche io in Marocco per loro,
ci davano 80 centesimi al giorno, ma no che me li
davano in contanti, li segnavano su una scheda; a fine
guerra, dopo un anno due, sono andato chissà quante
volte al distretto a vedere se arrivavano questi soldi
e un bel giorno sono arrivati: ho preso un 280.000
lire a quei tempi là erano soldi! Queste schede erano
come collaboratori degli Americani, c’è stato anche
chi ha imbracciato le armi ma io ho detto che le avevo
tenute anche troppo le armi, basta, basta! Mi avevano
anche fatto domanda se volevo andare come spia: mi
buttavano giù con un aereo qua nella mia zona, ma io
ho rifiutato, non ho voluto. Invece ho degli amici che
sono andati negli Stati Uniti ma soldi non ne hanno
mai visti, perché quella volta là avevano mandato qua

180
in Italia 280 milioni di dollari a quei tempi e il governo
se li è tenuti… il governo nostro dico… E ultimamente
siamo rimasti in dieci, undici italiani di noi su quel
campo là e là dopo per un periodo ho fatto il cuoco per
dieci dodici ufficiali americani. Perché? Perché a un
certo punto cosa succede? C’era il fuoco morto, eravamo
io e un Padovano: “Giovanni, varda qua! L’è el fogo
mort de pien, el Jack dove chel sie?” lo chiamavano
Jack questo cuoco qua; andiamo a vedere era buttato
per terra ubriaco e noi urlavamo: “Jack! Come on!
Come on!” “Oh shit… fuck!” insomma non voleva che
rompessimo le scatole, e noi abbiamo pensato: “Gli
altri tornano a casa, non trovano niente da mangiare,
facciamo noi!” Andiamo in magazzino, che era aperto,
abbiamo fatto polli al forno, pasta col ragù al modo
nostro, insomma chel dì là i à magnà fora tut!
“Chi ha fatto da mangiare qua?” “Noi capo!”
“E Jack?” “Jack… ronfa… dorme… sleep!”“Ah… fired,
fired!” lo hanno licenziato subito e abbiamo fatto
un po’ di tempo il cuoco per loro e dopo mi hanno
trasferito ancora di posto e mi hanno portato ad
Algeri, nelle caserme su un aeroporto. Manutenzione
delle piste, delle buche, perché ogni tanto facevano
buche e gli aerei andavano male a correre e là sono
rimasto finché è finita la guerra dappertutto in poche
parole. Là ad Algeri qualche contatto in più coi locali
l’ho avuto, andavamo fuori con gli Algerini, si poteva
stare insieme, ma c’erano anche gli Algerini di razza
francese che invece ci odiavano a morte noi Italiani, e
ci insultavano. Dopo da là mi hanno imbarcato su una
nave inglese e sono arrivato a Taranto l’undici di aprile
del 1945. Da là siamo venuti su a Roma e mi hanno

181
messo alle capannelle, che era un ippodromo delle
corse dei cavalli finché non si sono decisi a mandarmi
casa, mi hanno detto: “Sei libero!” ma tornar casa
era da rangiarse! Abbiamo preso un treno che siamo
arrivati ad Ancona, e là da Ancona a piedi perché le
ferrovie erano rotte e a un certo punto è passato un
camion carico di sale, caricato come se fosse stata
terra, sassi… lo fermiamo e ci fa: “Io non ho posto, mi
dispiace… se volete montare in cima al sale…” e allora
siamo montati in cima al sale e da Ancona ci ha portato
fino a Bologna questo povero autista. E a Bologna là
c’erano delle navette americane che ti portavano fino
a Venezia, e da Venezia in poi con mezzi di fortuna
e autobus e il primo di agosto ero casa ecco: quella è
stata la mia ultima cosa più bella>>.

Come back home

<<Tornare! Erano quattro anni che non avevo più


notizie di casa, pensavano fossi morto, perché la posta
non circolava, la censuravano i fascisti, non facevano
circolare niente! Son venuto casa e mi sono dato da
fare un poco; il paese era ridotto non bene, dopo mi
raccontavano le storie dei partigiani che facevano
questo e quell’altro, di quelli che avevano fatto i
soldi e di quelli che avevano fatto miseria, quelli che
lavoravano a nero e vendevano e compravano per conto
suo, perché non cerano più controlli e dazi. Facevano
quello che volevano insomma, così mi dicevano, dopo
non lo so, ma tanti hanno fatto i furbi. Comunque

182
appena tornato grande festa, anzi, che mi ricordo, mi
hanno riconosciuto all’osteria “Piccola Venezia” che
mi ero fermato là, e mi chiedono come è passata e che
vanno loro a chiamare mio papà e così hanno fatto e
allora arriva mio papà, ci siamo abbracciati. Ma una
brutta sorpresa mi è capitata quando sono tornato:
siccome c’era un capo dei partigiani là, che è anche
morto adesso, succede che comincia a raccontare che lui
ha fatto così, di là, che lui era Capitano, Comandante,
che loro si sono distinti in diversi punti e siccome io in
Africa avevo una radio delle famose fortezze volanti,
quelle che si prendono le stazioni di tutto il mondo con
quelle radio là, ero sempre in contatto con l’Italia perché
c’era una stazione italiana che trasmetteva da Vicenza
che ascoltavo sempre per sentire le novità italiane, se
gli Italiani erano morti, se i partigiani combattevano,
cosa facevano, cosa non facevano, e allora questo
comincia a raccontarmi queste storie qua e io gli dico:
“Vara mò Bepi: mi che ho sentio che se ha distinto dei
partigiani, sono da San Donà di Piave, Nervosa della
Battaglia, Basso Polesine… quelle zone là era tutte
le mattine che sentivo che i partigiani reagivano, ma
Ponte di Piave mai sentito!” mamma mia! Nol voea
ciaparme par el col! Si era offeso! E allora l’oste fa:
“No niente caro: se lù l’ha sentio questo ti no te pol
opporte, stà zò coe man!” era uno che voleva farsi
prevalere, e infatti aveva fatto solo guai via per di qua
hanno detto, si spacciava per quello che non era.
Qua tornato con il lavoro com’era? Era che vivendo in
campagna avevi la terra, sempre agricoltore, ma dopo
mi arrangiavo a far tanti mestieri, la casa qua l’ho
fatta io con le mie mani se è per questo e nel 1950 mi

183
sono sposato con la signora qui, Rosa Barro, che era
mia vicina di casa, la conoscevo da sempre. Ma da l’ora
ad adesso Roncadelle è cambiata al 100%, neanche da
mettere dai primi tempi ad adesso! Poi qua nel 1966
era là per passare l’argine, ma ha rotto a Negrisia in tre
punti e qui per fortuna no. Io fino a qualche tempo fa
intagliavo quei coltelli là coi resti dei materiali bellici,
ne ho fatti anche per altri ma adesso cosa vuoi, fanno
male le mani, si invecchia, così la vita>>.

Eh… sì, così la vita. Una vita che ha riservato davvero


tante sofferenze ai nostri nonni, tante che noi neppure
immaginiamo, tante che la nostra missione deve
essere quella di far tesoro di questi ricordi, per evitare
che quelle tragedie possano ripetersi. Ma per farlo,
abbiamo bisogno di prendere reale coscienza di ciò che
furono quegli anni, della fame, della miseria, della
morte, e capire quanto male è stato fatto; se non lo
faremo, la nostra società continuerà a predicare bene e,
come dice il proverbio dei nonni, razzolare malissimo.

184
Alfredo Baro

“Ci hanno tolto una r…”

Alfredo Baro… sì Baro, non più Barro, perché come


ha detto lui, gli hanno tolto una “r”. Alfredo non ha
solo combattuto la guerra, ma ha anche pagato uno
scotto altissimo: la guerra portò via tutto alla sua
famiglia, che per vent’anni si ritrovò senza una casa,
costretta a vagare per il paese alla ricerca delle buone
e misericordiose anime (e quante ce n’erano una volta),
che avessero la generosità e il calore di offrire loro una
stanza.

<<Dopo la prima guerra mondiale eravamo rimasti


così a secco che abbiamo perso anche la “r”! Sono nato

185
il 18 marzo 1920, qua a Cimadolmo, la casa adesso è
quella andando verso San Michele, dopo del ponte; noi
quella volta per andare in Libia l’abbiamo venduta e
quando siamo tornati in Italia ci siamo trovati senza
casa.
Il paese era tutta un’altra cosa, non c’era neanche la
chiesa, perché era caduta con la guerra e c’era fuori
solo la Madonna della sacrestia. Le scuole le ho fatte
qua a Cimadolmo, le prime quattro, e la quinta per
conto mio, cioè: la maestra di Cimadolmo, la Adelia
Savoini, che stava attaccato ai Beotto, siccome non c’era
la quinta faceva la scuola serale a me, Toni Marcon
e Chechi Facchin, dopo per andare a fare l’esame
bisognava andare a San Polo, ma chi non aveva né
mezzi né niente per andarci non lo faceva. Niente non
avevamo per vivere, solo che allora c’erano i Marchi che
davano lavoro, davano da fare i cestini per le ciliegie;
si lavorava a casa, ci davano tutto il materiale e poi
si portavano giù a Cimadolmo, si andava a prestito
di un carretto e poi a cinque sei anni si cominciava
a lavorare, per tutte le case lavoravano a quell’età;
erano i Marchi coi cesti, Barbares, facevamo i fondi
per i cestini da ciliegie, dieci centimetri di diametro
e 30 di altezza e poi anche il manico, tutto coi vimini.
Mattina scuola, pomeriggio a lavorare cestini, quel che
si poteva fare, a cinque sei anni! La materia prima la
dava chi portava il lavoro, i Marchi, i Beotto anche,
adesso che mi penso; anche i contadini lavoravano
i cestini, dopo a un certo punto hanno cominciato a
fare le cassette di legno e i cestini sono caduti come
lavoro, ma abbiamo tenuto su il mestiere facendo
le ceste per le damigiane. I vimini dovevano essere

186
bagnati per un certo periodo altrimenti si rompevano,
in tempo di raccolta andavamo nella Piave; là non
c’era tanta agricoltura come adesso, c’erano tanti
cespugli, tanta erba e noi si raccoglieva i vimini di tre
qualità: sçhopadeni, che crepavano facilmente, danei,
che erano i meglio e freschiseni; in luglio bisognava
“scussarli” con la yova, ma era tutta in legno, perché si
usava un pezzo di legno tagliato per lungo, in mezzo, a
formare una sfesa dove noi mettevamo dentro il ramo,
con l’altra mano tenevamo in cima e si tirava e veniva
via la pelle, si restava con questo vimini in mano
insomma; è difficile capirla adesso che si fa tutto con
le macchine, ogni tanto bisognava cambiarli perché
si consumavano, erano fatti di legno secco e facevi le
vesciche.
Una volta si andava nelle Grave a chi aveva la
proprietà che li davano fuori tagliati, se tu li prendevi
e li preparavi per fare i cesti, poi era metà a te e metà al
padrone dei campi una volta che i cestari pagavano il
lavoro finito. Così era l’industria una volta. In autunno-
inverno, si cominciavano i cestini per la primavera.
L’attività è andata avanti finchè noi siamo andati via,
ma c’era anche il pre militare da fare, si cominciava
come figli della lupa, balilla, avanguardista, giovani
fascisti e via discorrendo. Mi ricordo che si andava
su per l’argine a marciare, uno, due, uno due e ‘vanti,
sempre su per l’argine e allora era l’unico svago, perciò
non mancava nessuno, perché per noi che eravamo
sempre a casa a lavorare era come un gioco, era una
scusa per non stare a casa seduto sulla sedia, a scussar
vench, ma c’era alle volte chi mancava, e sai chi era?
Toni Menegaldo, e c’era il Comandante che gli diceva:

187
“Varda che te và in prison e te magna pan e acqua!”
“I Dio…ho caro mi! Inquò ho magnà acqua sol, senza
el pan!” gli faceva, Toni e gli bestemmiava dietro!
Comunque dopo che i cesti sono andati giù ci siamo
trovati senza lavoro e allora abbiamo preso la via della
Libia, come coloni, a lavorare terreno in Libia. Siamo
andati via nel 1938, bisognava fare domanda perché
erano stati i bandi per chi voleva andare in Libia che
c’era terra da lavorare, noi eravamo quattro maschi e
loro volevano che i maschi più giovani delle famiglie
andassero giù a lavorare la terra, perché non c’erano i
mezzi che ci sono adesso. Noi siamo andati giù tutta la
famiglia tranne una sorella, però uno dei miei fratelli
era troppo piccolo e allora prima della guerra, siccome
mandavano mandato tutti i bambini in colonia in
Italia, è andato anche lui, solo che poi è venuta la
guerra e sono rimasti là che se non andava mia sorella
a prenderlo, moriva da fame.
Siamo andati giù in nave, a Cesare Battisti, i fascisti
gli avevano messo questo nome qua, ma non ricordo
da dove siamo partiti in Italia! In nave si stava anche
bene, poi una parte è sbarcata a Tripoli, quelli che si
sono fermati a lavorare là, e noi siamo andati avanti
fino a Derna. Allora eravamo giovani e trovavamo tutto
diverso, casa il lavoro era andato, non c’era lavoro né
niente, ormai non si tornava indietro, si cercavano
tutte le vie per andare avanti. Siamo andati coi camion
sull’altipiano Cesare Battisti, dove abbiamo trovato
anche una bella casa, dopo ci hanno dato anche bestie,
delle pecore e due vacche. Per quella si era contenti di
esser là, solo che la terra era tutta da cavar cespugli col
piccone e ararla, che venivano con le macchine grosse,

188
rendeva, ma si poteva coltivare solo frumento, perché
finite le piogge si seccava tutto là, non era deserto
perché eravamo alti, quello era in pianura, che ti
bruciavi! Di nostro avevamo solo i vestiti che avevamo
addosso, l’unica cosa che ci siamo portati dall’Italia, e
dovevamo lavorare la terra.
L’ora si era giovani e si era contenti perché prima si
era poveri in Italia e là almeno si aveva la terra da
lavorare e poi ci hanno dato le bestie per la carne e il
latte e allora ci sentivamo quasi ricchi; anche il clima
non era male, perché non era come in pianura che il
sole brucia, eravamo a 600 metri sul livello del mare ed
era sempre aria fresca. Con gli altri Italiani avevamo
buoni rapporti, con gli Arabi invece no, perché noi
avevamo occupato le loro terre, dove avevano i pascoli
e le case e allora ci odiavano, non ci volevano bene.
Questo è andato avanti per due anni, fino al 1940,
quando ci hanno chiamati tutti alla leva>>.

189
La guerra … breve e ridicola

Durante gli anni venti trenta del ‘900, fra le due guerre,
andava di moda il “Burlesque”… ebbene la guerra
combattuta da Alfredo sembra proprio, ai nostri occhi
di lettori, essere una grossa burla: armi che sparano
corto, nessun automezzo, poca acqua, moschetti contro
aerei, insomma una farsa sembrerebbe… e invece fu la
tragica realtà, la realtà di migliaia di giovani mandati
assurdamente al macello senza avere neppure di che
difendersi. Ma lasciamo che sia Alfredo a spiegarci
cosa fu la guerra in Libia:

<<Noi tre più grandi siamo andati sotto le armi nel


’40, i genitori per un periodo sono stati là e poi li hanno
portati via perché sono andati gli Arabi col piccone,
hanno buttato giù la porta della stalla, si sono presi
la mucca e le pecore e si sono portati via tutto, perché i
più giovani erano partiti e allora loro andavano per le
case a prendere la roba! Così il Governo ha radunato
tutti nel centro di Cesare Battisti e li tenevano là coi
viveri razionati, erano solo donne e bambini, perché
avevano chiamato via anche i vecchi dopo.
La fine per noi è venuta subito perché gli Inglesi
hanno fatto l’avanzata e hanno occupato tutta la zona.
Avevo venti anni quando mi hanno chiamato, poco
prima che cominciasse la guerra e mi hanno messo
nei radio telegrafisti, mentre gli altri erano soldati di
truppa. Non ricordo il nome della compagnia, Genio
Radiotelegrafisti penso, ma al fronte c’era tutto: fanteria,
artiglieria, tutto insieme, noi si era radiotrasmittenti

190
e mettevamo in comunicazione con tutte le truppe che
erano in giro e armi ce n’erano poche, e quelle poche che
c’erano non sempre funzionavano. Ci hanno mandato
a Siri Barrani, sull’altipiano della Libia, poi siamo
andati a Tobruch, ma una parte di soldati erano partiti
da Tripoli a piedi per venire al fronte! Migliaia di
chilometri a piedi perché non c’erano mezzi sufficienti!
Io ero col Comando, col Sergente e radiotelegrafisti.
Eravamo vestiti con la divisa in panno grigio verde,
che si stava anche bene tutto sommato perché dove
eravamo era a 600 metri sul livello del mare, era
montagna in gran parte e tutti quelli che hanno fatto
la strada a piedi, con l’acqua che arrivava in autobotte;
insomma abbiamo capito che non eravamo là solo per
lavorare la terra, ma ci avevano tenuto là anche perché
ci preparassimo alla guerra, ci hanno dato subito
l’ordine di assalire l’Egitto, dov’erano gli Inglesi.
Io ero con lo Stato Maggiore, sui camion che portavano
le radio, ma gli altri se la facevano tutti a piedi, perché
non c’erano i mezzi per portarli tutti.
Con lo Stato Maggiore non eravamo tanti, cinque-
seicento a piedi, partiti da Tobruch, centinaia di
chilometri e arrivati senza acqua morti da sete e gli
apparecchi inglesi bombardavano ed era proibito
sparargli perché si sprecavano munizioni e basta.
Non avevamo contraerea e rispondevamo coi fucili
alle bombe degli aerei, non li prendevi neanche
quando volavano bassi! Poi avevamo anche le caccia
torpediniere nemiche dietro, perché eravamo sul mare
e loro sapevano che non avevamo niente da sparargli
e allora venivano vicine, e noi non avevamo neanche
proiettili non si poteva sparare per non sprecare

191
munizioni, eravamo circondati senza poter fare niente.
Gli apparecchi venivano bassi, ma col moschetto che
facevi? Con la prima battaglia che è stata gli Inglesi
ci hanno preso tutti prigionieri perché non avevamo
neanche ordini di sparare, e ci hanno portati tutti
in Egitto e dopo pochi mesi in Sudafrica. Non tanto
da mangiare ma c’era da vivere, come prigioniero
intendo! L’importante comunque era più l’acqua che il
mangiare, perché ci avevamo messo in mezzo al deserto;
almeno il rapporto coi militari e gli ufficiali era buono,
altrimenti non so come finiva dopo quel disastro>>.
<<Così il duce li ha mandati in Libia, a morir di fame,
che sparavano ai nemici col moschetto intanto che gli
cadevano le bombe in testa!>> commenta la moglie
Antonietta.
<<Mi ricordo un fatto di quando eravamo prigionieri
là in Egitto: eravamo circondati dalle guardie in
questo campo prigione, senza acqua, che senza acqua
in Egitto voleva dire morir da sete, e c’era una di queste
guardie che si è messa vicina a noi con un bel catino
di acqua e si è lavato, ha fatto tutto e quanto ha finito
uno di noi ha fatto un salto per prendere il catino di
acqua e berlo, e il soldato gli ha dato una pedata e ha
fatto cadere il vaso no; e dopo da lì ci hanno portati in
nave in Sudafrica, per poco però, perché poi ci hanno
portati in Inghilterra a lavorare nelle campagne sino
a fine guerra.
E il viaggio verso l’Inghilterra, dal Sudafrica fra tappe
e tutto, è durato quaranta giorni, perché nella parte di
Africa che facevamo non c’era guerra, ogni porto era
una tappa per viveri e altre robe, le navi erano libere
di stare quanto volevano. Noi si mangiava non tanto

192
ma si viveva, dentro nelle stive, pigiati e dopo quando
dovevano lavarci ci spogliavano nudi e vuschhh,
ci portavano sotto una pompa di acqua fredda e la
buttavano giù gelida per lavarci, perché eravamo
pieni di pidocchi e di porcheria, perché se non avevamo
l’acqua per lavarci!
In Inghilterra siamo arrivati dopo quaranta giorni di
nave e ci hanno portati in una fattoria, in campagna si
lavorava, poi a mezzogiorno uno faceva da mangiare, si
mangiava e poi via a lavorare ancora, era come lavoro
sotto padrone tipo. Là era soprattutto coltivazioni di
barbabietole, piselli e patate, ma si stava bene perché
eravamo libere, si poteva andare al cinema, si poteva
andare fuori, e bisognava arrangiarsi di parlare
l’inglese, perché altrimenti come facevo a capire i film?
No scherzo, è che qualche parola al giorno imparavi,
io sapevo anche scriverlo, anche perché non si stava
male e le donne volevano bene agli Italiani, tutti si son
trovati le morose là, specialmente ai meridionali le
donne inglesi andavano matte!
Noi come dicevo facevamo lavoro di manodopera in
campagna, sotto padrone, lavoravamo il terreno di un
proprietario che ci pagava qualche cosa, ma non era lui
in realtà che pagava perché i soldi per noi glieli passava
il governo inglese perché noi eravamo prigionieri.
Là sì si stava bene, ma a fine guerra e anche un po’
dopo, quando ho potuto tornare a casa in nave, un bel
giro anche quella volta!
Ma non abbiamo più trovato niente arrivati qua a
Cimadolmo, avevamo perso tutto, la casa era in Libia
e noi siamo tornati vestiti da prigionieri e avevamo
solo i vestiti che avevamo addosso>>.

193
Tornare a casa senza casa

<<Tornato a casa non mi ricordo neanche più bene


come abbiamo fatto a tirare avanti, perché andavamo
sempre dai parenti o da chi era a chiedere una mano,
noi non si aveva più niente. Eravamo andati in
Municipio, che era obbligato a metterci al coperto, era
andato mio fratello a chiedere ma ci ha detto che il
posto che avevamo chiesto era dei comunisti, e a noi
non spettava nulla! Il segretario comunale ha detto a
mio papà alla sera, che avevano fatto riunione dove
ci avevano detto che siccome eravamo prigionieri non
avevamo diritto di niente, prende mio papà e gli fa:
“Baro… siamo a quattro occhi: và a casa, prendi un
piccone, vai dal dopo lavoro butta giù la porte e và
dentro, che non possono farti niente!” Ma mio padre ha
risposto: “Io non faccio quelle robe là!” “E allora Baro
io non posso far altro!” perché l’ambiente era vuoto,
dovevano mettere a posto, ma era dei comunisti e loro
non hanno voluto cedere le stanze per noi.
E qua dura la era, peggio che in guerra; non avevamo
niente a Cimadolmo, eravamo senza lavoro, stavamo
sparsi di qua e di là tra le case dei parenti per vivere. Io
per un periodo poi sono andato a lavorare in miniera in
Belgio per due anni e mezzo, ma sono tornato indietro
appena è venuta fuori la legge che in Belgio, se avevi
passato i 30 anni quando hai cominciato a lavorare,
andavi in pensione a 65. e io quando sono andato li
avevo già passati perché sono andato via che era il 1951,
mentre là erano tutti che lavoravano in miniera già
dai 12-13 anni, solo che appena andavano in pensione

194
dopo poco morivano perché la polvere del carbone era
micidiale, io avevo un chilometro di strada a piedi da
fare per andare giù in miniera e sentivi d’inverno, col
freddo gelido che ti entrava in gola… ehhhh uhhh …
ehhh… uhhh… finestre aperte in pieno inverno con la
gente che sentivi dentro che respirava a stento e tirava
il fiato, quelli non vivevano tanto dopo la pensione, e
io che avevo conosciuto mia moglie prima di andare in
Belgio, avevo anche trovato casa, ma dopo ho detto:
“Se mi reste qua fae la fine de tutti questi!” e allora nel
1953 son tornato casa per sposarmi, e dopo sono tornato
via a fare altri sei mesi, ma quando sono tornato casa
basta, più mosso perché non avevo nessuna intenzione
di fare quella fine là, o schiacciato sotto come è capitato
a uno il turno prima del mio! Quando hanno hanno
tirato via tutto mi sono ritrovato a lavorare vicino al
cappello di questo disgraziato qui, che era morto e hanno
lasciato là il cappello schiacciato; puoi immaginarti che
complimento era lavorare in miniera! Noi Italiani poi
li abbiamo rovinati i Belgi, lavoravamo a cottimo per
prendere di più, facevamo turni massacranti, invece
loro se la prendevano comoda perché sapevano come si
finiva a lavorare in miniera e cercavano di respirare più
che potevano quando erano fuori, invece sotto andavano
piano per respirare poco e non sudare, perché giù faceva
caldo. Li abbiamo rovinati, perché noi dovevamo stare
là poco e guadagnare il più possibile, non importava le
condizioni del lavoro, invece i Belgi almeno un minimo
lo pretendevano, e i padroni preferivano gli Italiani
allora, e così anche i Belgi hanno cominciato a vederci
male perché ci andava bene tutto pur di fare due soldi.
Poi come dicevo sono tornato a casa da Antonietta,

195
mia moglie, che ho conosciuto quando lavoravo a casa
sua a Maserada, da Salvadori, che allora avevano il
commercio delle granaglie e dei concimi per il consorzio
agricolo; anche là lavoro di manodopera pesante, tutto
a mano e braccia. Poi il Belgio, torno, ci sposiamo e
andiamo ad abitare nelle Grave per quattro anni, a
casa di Bepi Facchin; eravamo in sei su due stanze!
Ma eravamo abituati perché dalla fine della guerra
eravamo ospitati da tante famiglie diverse, come i
Piaser anche, gente buona quelli delle Grave, si stava
bene anche perché eravamo giovani e forti e allora era
più facile, ma per dire quanto buona è stata la gente
con noi, Antonietta ha pianto quando siamo andati via
dalle Grave. Intanto che stavamo là, io ho cominciato
a girare per trovare lavoro: prima ho fatto cinque anni
a Santa Maria del Rovere a far piastrelle per Tesser,
ma anche là soffrivo per la polvere ho cercato altro
e appena possibile sono andato via. Si faceva tutto
quello che era possibile fare, imparare mestieri nuovi
non era un problema, così ho fatto per un periodo il
muratore per l’impresa Frisiero. Alla fine sono tornato
qua in paese e ho fatto per venti anni l’operaio alla
BST, lavoro alla pressa, per fare i barbecue, le griglie
e altra roba per campeggio, anche se all’inizio facevo le
macchinette per i pomodori. E intanto continuavamo a
girare per la casa, perché solo nel 1966 siamo venuti a
stare qua, prima siamo stati a Stabiuzzo, per sei anni:
abbiamo cambiato casa tre volte in sei anni perché
prima eravamo in via Castellana da Casagrande dietro
Barbares, e poi da Colla per due tre anni, ma stavamo
bene dappertutto, siamo sempre stati bene perché la
gente era buona e gentile, andavamo d’accordo, poi sono

196
cambiate tante facce, tanti non ci sono più, adesso non
si conosce nessuno, siamo diventati vecchi per colpa di
questa casa qua, io lo dico sempre! E poi alla fine io
ho concluso tutto ormai, c’è solo da aspettare l’ultimo
viaggio, mezza vita l’ho passata e non pretendo indietro
la mezza che avanzo per la guerra perché altrimenti
andrei a finirla a 130 anni e non ho intenzione di
durarla fin là perché adesso è tutto troppo diverso, non
riconosco più il paese da quanto è cambiato, ed è tempo
di lasciare la strada a chi viene dopo>>.

Oggi più di allora, la nostra società ha bisogno di


un profondo sentimento di altruismo e sincerità, di
generosità e misericordia: non a parole, ma con gesti
concreti, come quelli che Alfredo ricorda con le lacrime
agli occhi, testimoni della riconoscenza di Alfredo
per questa gente, che traspare anche nelle parole
commoventi di Antonietta: non elemosina, non carità,
ma vita, che esige che si aiuti una persona in difficoltà,
perché al mondo siamo tutti fratelli e sorelle.

197
Raimondo Moro

Scrivere della vita di Raimondo Moro significa scrivere


della vita di quasi un secolo di storia cimadolmese.
Sì, perché Raimondo non è solo nato nell’antico
nucleo del paese, nel suo centro vero, storico, che è
via Ambrosetta, un tempo Borgo Casali e primo
insediamento abitato del paese, ma ha anche vissuto
buona parte della sua esistenza in mezzo alla gente del
posto, vuoi come “stradin” (così si diceva una volta),
vuoi come messo.
Le poche pagine che seguono invero, non bastano
a tracciare un ritratto esauriente di Raimondo,
come detto, in lui scorre quasi un secolo di storia di
Cimadolmo, e ne avrebbe lui di libri da scrivere!

198
Era tutto diverso

<<Raimondo Moro, nato a Cimadolmo il 31 agosto del


1922, nella casa vecchia dei Moro al numero 22 di via
Ambrosetta.
Qua da piccolo era tutto diverso, mi ricordo che
da piccoli la vita non era come adesso, cominciavi
a lavorare da piccolo, già a otto anni andavo per le
Grave a “venchi”, a dieci anni sapevo già fare ceste;
in famiglia avevamo un po’ di terra e si lavorava le
ceste, un lavoro che aiutava a vivere, si faceva tutto
in casa, poi finito il lavoro portavamo il prodotto nei
punti di raccolta, si lavorava per i Marchi, i Beotto,
i Mazzer. Fino a 13 anni ho lavorato così, poi sono
andato direttamente sotto padrone, da Beotto; il
sistema era diverso perché pagavano a lavoro, in senso:
tanto facevi tanto pagavano, a contratto; dopo però ho
cambiato perché sono andato sotto Mazzer e infine da
Marchi, e là ho finito, però mi sono trovato con 700£ al
mese di pensione, perché non erano state messe poche
marchette e me le danno due volte all’anno… fai i conti
in euro cossa che l’è!
Le scuole le ho fatte qua a Cimadolmo, fin alla quarta
perché la quinta non c’era, solo dopo ho fatto la scuola
serale per recuperare la quinta e sono andato a Oderzo
a fare gli esami; in famiglia eravamo tre e due cinque,
due fratelli e una sorella, mamma e papà. La maestra
era brava, Adelia Savoini, che aveva sposato Beotto
Emilio, fratello del pittore e di Giovanni, che è stato
anche Sindaco di Cimadolmo dopo la guerra, perché
prima c’era il podestà Giulio Savoini, proprietario del

199
mulino, il padre della maestra Elena.
E con Pietro Carraro si faceva il sabato fascista, che ci
faceva fare le corse e ci trattava con l’olio di ricino; io
non l’ho mai preso perché stavo buono, ma c’erano quelli
che lo bevevano perché avevano qualche “mancanza”
diciamo. Il paese comunque era abbastanza tranquillo
e semplice, si viveva, tra cesti e terra.
E dopo a 19 anni sono partito militare, il 2 febbraio
del 1942, senza addestramento né niente, arrivava la
cartolina e dovevi partire subito, via, neanche il tempo
di salutare quasi>>.

Kosovo Polje, poi il Balkan Express

<<Dopo quattro mesi di addestramento per la guerra


a Conegliano, io ero telefonista, dovevo curare i
collegamenti, poi c’erano quelli con il cannone, con
i muli, io ero nell’artiglieria someggiata, quelli che
hanno il cappello con la penna, che aveva gli stessi pezzi
dell’artiglieria alpina e facevamo campi, tiro, ognuno
si specializzava sul suo compito. Io ero nel Comando
Gruppo artiglieria someggiata divisione Puglie: ogni
divisione ha due reggimenti di fanteria, uno del genio
e uno di artiglieria.
Mi trovavo bene anche, cioè naja era, mangiavi nella
gavetta, se restava nelle marmitte mangiavi ancora,
era tranquillo perché si era vicino a casa, ma dopo
siamo andati nel Kosovo, prima Albania dopo Kosovo.
Siamo partiti il 17 luglio in treno, via Balcani, fino a
Kosovo Polje.

200
Il reggimento era già là quando siamo partiti, noi
eravamo i complementi, cioè quelli che mancavano
praticamente, perché l’altra parte è partita per la
Russia; io sono stato fortunato che mi hanno mandato
di là, in Kosovo: c’era pericolo anche là, ma meno che
in Russia, se partivo per la Russia non so se tornavo
indietro.

201
Là in Kosovo il pericolo erano i partigiani, che ci
attaccavano di continuo, cosa che ci costringeva a
spostarci di continuo, siamo arrivati anche sul confine
della Bulgaria, perché c’era una sommossa, e fino a
fine ottobre siamo stati fermi là al freddo, in tenda
sotto la neve, era l’anno del freddo mortale, quell’anno
della Campagna di Russia. Guardia alla notte che
cambiava ogni ora perché sennò fuori ti congelavi,
non erano scherzi neanche là per il freddo. Poi non si
era tanto equipaggiati: fasce e pezze da piedi, perché
i calzetti ormai erano andati e le scarpe non erano
scarponi, erano scarpe normali, non adatte al freddo;
e da vestire semplice, giacca e pastrano al posto della
mantellina, che per quel che contava.
Io dovevo stendere il filo per il collegamento, con gli
altri telefonisti stendevamo il filo telefonico durante
gli spostamenti, perché a quell’epoca non esistevano i
telefoni senza fili, e per il telefono servivano i cavi, e
poi stavo di piantone al telefono per gli ordini, perché
avevo il compito di trasmetterli e c’erano anche i
radiotelegrafisti, perché anche i telefonisti dovevano
sapere l’alfabeto morse e usare il telegrafo al bisogno;
l’ho imparato ancora quando ero a Conegliano, almeno
in quello ci avevano preparato. I rapporti tra noi, gli
alpini e gli ufficiali erano comunque ottimi, perché
erano tutti anziani e padri di famiglia, ci vedevano
come loro figli e cercavano anche di proteggerci. Con
la gente del posto invece abbastanza bene perché non
ci trattavano male i civili, perché non andavamo per
famiglie o per le case, noi almeno, però nel nostro
reggimento ne sono morti quattro che andavano di
scorta, durante un attacco di partigiani.

202
E poi il lavoro era duretto, perché si partiva e noi
eravamo sempre sulla montagna, o almeno per la
maggior parte, e portavamo i rotoli di filo e dovevamo
stenderlo, seguivamo le pareti più corte, ma i rotoli
erano 50 m di filo pesante rivestito in gomma, perché
allora plastica non ce n’era, e pesavano una trentina di
chili, e da portare su e giù per le montagne, sì voglio,
dire, era come portare un pezzo d’artiglieria e tutto a
piedi, muli noi non ne avevamo. E il filo dovevamo
nasconderlo per terra, nei cespugli, era gommato
per non fare contatto e noi lo passavamo per terra
perché non fosse visto dall’alto: se noi mettevamo giù
i pali come si fa oggi, in due e due quattro era visto e
bombardato, le comunicazioni tagliate e noi avevamo
lavorato per niente, così invece si mimetizzava, restava
nascosto, c’era meno rischio che venisse trovato.
Siamo rimasti là in Kosovo sino al 18 settembre 1943,
anche se l’armistizio è stato l’otto: eravamo circondati
dai Tedeschi, pronti per sparare, ma dopo abbiamo
rinunciato perché ci eravamo resi conto che era inutile
perché erano in troppi. Ci hanno preso con la promessa
che ci portavano in Italia, non si sono espressi in altro
modo, ma di nascosto era venuto qualche borghese slavo,
mentre eravamo ancora là prigionieri, a Prizeren, credo
fossero partigiani non lo so e comunque erano venuti
a dirci di stare attenti perché ci avrebbero portati in
Germania, che ci stavano mentendo e che se volevamo
loro ci avrebbero fatto scappare e in cambio avremmo
potuto combattere per loro. Avremmo anche potuto farlo,
ma se prima eravamo contro di loro una settimana fa! Sì
non ci fidavamo tanto, e invece dovevamo fidarci. Nella
batteria, assieme a me c’era anche Paladin Onofrio da

203
San Polo, ancora vivente, dello stesso reggimento, lui
era in batteria io in Comando. Poi i Tedeschi ci hanno
fatto camminare per 80 km per portarci a prendere
il treno a Urosovac, tutti attraverso la montagna,
senza fermarsi e senza mangiare fino a che non siamo
arrivati. E siccome i Tedeschi avevano paura che
fossimo attaccati dai partigiani, a un certo punto ci
hanno ridato il fucile: era un sentiero di montagna e
avevano paura che i partigiani venissero a liberarci.
In realtà era tutta propaganda dei Tedeschi, dicevano
che i partigiani volevano attaccarci e ucciderci tutti e
che loro ci portavano in Italia sani e salvi e insomma
ci abbiamo creduto, noi tutti entusiasti:
“‘Nden casa, ‘nden in Italia!” e invece arriviamo
a Urosovac, ci fanno consegnare tutte le armi; un
mucchio di fucili e pistole alto metri, in mezzo al
cortile della caserma di Urosovac e là ci hanno messo
su un vagone bestiame, una quarantina di persone
su ognuno. Abbiamo aspettato una giornata e una
notte là e dopo siamo partiti. Abbiamo attraversato la
Serbia, siamo arrivati a Belgrado, poi in Ungheria e
là ci hanno aperto le porte dei vagoni e io sono saltato
giù, assieme a Vivori Italo da Trento e siamo andati
da una famiglia lì vicino dove ho trovato una signora
che era stata a Venezia e mi ha dato un poco di pane,
una ruota di pane ungherese, e dopo ci diceva:
“No andare voi… loro no porta in Italia, fermate qua,
loro no porta Italia… no andare!” e invece noi siamo
corsi a prendere il treno di corsa, a stento, quasi lo
perdevamo. Siamo andati a finire a Vienna e a Vienna
ci hanno chiuso completamente e allora là abbiamo
immaginato tutti che non ci portavano in Italia, perché

204
c’era già chi diceva “Innsbruck, Innsbruck!” e invece
loro: “Ja, ja Innsbruck…” e invece ci hanno chiuso. E
dire che in Ungheria i soldati ungheresi ci avevano
anche dato un po’ del loro caffé, perché altrimenti ci
siamo sempre dovuti arrangiare con le nostre scorte,
non ci hanno mai dato da mangiare, in tutti avevamo
recuperato qualcosa prima di partire. Dopo da Vienna,
sen ‘ndati a Triev, che è sui confini con il Lussemburgo.
Tutto quel viaggio è durato quasi 14 giorni, perché ci
tenevano fermi ogni stazione. Da là a Triev, siamo
arrivati alla sera e ci hanno portato su un campo,
erano caserme… come siamo arrivati erano fuori i lupi
che sembrava volessero mangiarti, una paura! E dopo
là ci hanno selezionato: subito ci hanno domandato se
volevamo andare a combattere con loro in Italia, ma la
maggioranza ha detto no; non era stata comunque la
prima volta, avevano insistito a ogni fermata, sempre
con la stessa domanda. Ci hanno scaglionato, in fila
per cinque, e in base alla richiesta che avevano loro,
ti mandavano nei campi di lavoro. Noi, cioè un pochi
di noi o abbastanza anche, è che non so quanti perché
era un campo immenso, hanno cominciato a darci
qualcosa da mangiare; una marmitta di sbobba e
da tanti che si era si capiva che gli ultimi restavano
senza, e allora hai visto tutta questa massa buttarsi
dentro nella marmitta, e l’hanno rovesciata, così non
ha più mangiato nessuno. Da lì ci hanno mandato in
un altro campo di smistamento, che era a Mepen, in
Olanda, a 12 km da dove arrivavamo con la tradotta
carro bestiame. Là ho fatto quasi un mese e quasi tutti
abbiamo preso i pidocchi. Per andare là a Mepen,
quando siamo arrivati, abbiamo fatto 12 km di strada

205
a piedi, e mi ricordo appena arrivati, che era autunno
e c’erano i campi di bietole e qualcuno aveva fame
andava fuori della colonna per prendersi una bietola
e i Tedeschi col manico del fucile glielo davano giù per
la testa, sulla nuca e restavano là, morti!
Da questo posto poi ci hanno prelevato e mandati a
Ham, dove ci hanno portato nelle baracche, a 3 km dal
pozzo di una miniera, perché noi ci avevano assegnato
per andare a lavorare in miniera! Siamo sempre nel
1943, mi ero anche segnato le date, era fine ottobre e
là hanno cominciato a mandarci in questa miniera a
turni; si partiva a piedi la mattina presto, in un buco
a 1300 metri di profondità, ma che arrivava fino a
1500. Sotto prima di arrivare al lavoro facevi un’altra
mezz’ora sicura a piedi e là ti assegnavano un lotto
di quattro metri in due e dovevi sbancarlo di tutto il
carbone, che è a fasce il carbone, quindi c’era magari
una fascia di un metro e mezzo, poi una di roccia e
un’altra di carbone; finché non era finito non potevi
andare fuori, doveva essere finito per uscire, perché
il turno funzionava che uno finiva il suo e quello
dopo si spostava nel lotto più avanti, perché tutto era
puntellato.
Là sono andato avanti fino a dicembre. Si andava giù
in ascensore, fortuna non è mai morto nessuno, ma
malati e feriti tantissimi, perché anche io in seguito
a questo, nel lotto mi son trovato con uno che non
aveva voglia di lavorare, e siccome sotto fa caldo, ti
toccava tirare giù tutto per lavorare, in mutandine
restavi a picconare, dal caldo, perché non circola
l’aria e insomma mi è toccato lavorare tanto di più per
sgombrare il lotto, ho ritardato e quelli sopra sapevo

206
che mi aspettavano per portarmi in baracca, perché
bisognava andare tutti assieme, e per stare poco sono
andato dall’ascensore ed era fermo, ma sapevo che ce
n’era un altro e sono andato dall’altro, solo che poi con
quello dovevi fare un altro pezzo di galleria, perché ti
portava solo fino a un certo punto e poi dovevi prendere
l’ascensore principale, poi si doveva aprire una porta
che per la pressione dell’aria si doveva essere in due e
invece io me la sono aperta da solo e là ho preso una
gran sudata! Sono arrivato all’ascensore, vado su dove
erano tutti che mi aspettavano per lavarmi, ma l’acqua
della doccia era fredda; faccio per tirar giù la mia roba
e non li trovo più, si vede che l’aveva presa qualcuno
o che aveva sbagliato e ben! Stanco e infreddolito mi
sono messo a piangere. A quel punto arriva un altro e
mi vede piangere e allora prende un’altra catena, tira
giù la roba di un’altro e me la fa mettere su, ma alla
sera avevo già la febbre, la mattina dopo ancora di più
e ho marcato visita; solo la febbre ti riconoscevano.
Eravamo a dicembre, poco prima di Natale e dopo mi è
passata la febbre e dovevo andare a lavorare ancora, e
invece ho sentito febbre ancora alla mattina e ho tornà
marcar visita e el medico mi ha riconosciuto:
“Lazzarett!” e mi ha mandato nel lazzaretto, via dalla
miniera, su un campo di concentramento di baracche
a Hemeer, dove mi hanno trovato la pleure, mi hanno
dato due pastiglie e sono stato meglio, non mi è più
venuto niente. Quella è stata fortuna anche, che non
mi è più capitata la febbre, perché là quando che eri
malato ti facevano i raggi e dopo ti spedivano… sì chi
non lavorava lo mandavano in un campo dove dopo
non so che cosa succedeva, capito no? Gli eliminavano

207
quelli che non lavoravano più! Ah, dimenticavo un
episodio che è importante, sempre là al campo che è
successo, ci sono stati un pochi di Italiani, eravamo
ottocento là in miniera, che hanno detto: “Proviamo a
fare uno sciopero!” “Ma siete matti?”
“Ma non è che non vogliamo andare a lavorare, ma che
ci mandino in altri posti e non in miniera!” e allora
tanti hanno aderito, alla fine anche io: la mattina
dopo nessuno si è alzato per andare a lavorare, ma a
mezzogiorno sono arrivate le camionette, ci hanno messi
tutti nel cortile davanti, e per alzata di mano chi voleva
andare a lavorare e chi non voleva andare a lavorare.
L’addetto delle cucine si è messo a piangere, perché
aveva capito che ci fucilavano tutti, di sicuro, perché
erano là già pronti con il fucile e allora abbiamo deciso
di andare a lavorare. C’era una guardia cattivissima
che girava sempre col frustino negli stivali, che ti
frustava se non obbedivi.
Ma eravamo rimasti che ero in ospedale, ma poi sono
guarito e sono tornato al lavoro. Ecco, allora da là
mi hanno tirato fuori per andare in un altro campo
di lavoro, io avevo paura che mi tornassero mandare
dov’ero prima e invece ne hanno tirati fuori trentadue
di noialtri, e ci hanno mandato in una fabbrica, una
fabbrica abbastanza grande, facevano torrette per
navi, torrette per i cannoni insomma, era sempre roba
bellica! Là appena arrivati ci hanno schierati sul
cortile e hanno scelto tre di noi, io ero fra questi.
Un giorno è successo che si è staccato un pezzo di
torretta, che mi è caduto sul ditone, per fortuna lo
ha solo schiacciato! Sono stato soccorso da un civile
Tedesco, noi andavamo d’accordo con gli operai

208
Tedeschi, a parte che ci arrangiavamo con la lingua,
perché lavorando con loro una parola al giorno eri
costretto a impararla, se c’erano solo Italiani non
imparavi e là c’erano anche giovani, tanti giovani, no
di sedici anni perché li mandavano al fronte, ma 14-
13 ce n’erano che lavoravano là; dai giovani si impara
tanto e c’erano anche donne che lavoravano: da donne e
giovani impari molto di più che dagli anziani, e hanno
anche molta più pazienza di dirtele. Questo civile mi
ha preso a caramussa e mi ha portato in ambulatorio,
ma quello dopo lo hanno mandato via perché aveva
fatto un atto che a un prigioniero non doveva fare,
doveva chiamare un Italiano per farmi portar via,
loro non potevano toccarci! Era un invalido di guerra,
e non potevano rimandarlo al fronte allora era là
che lavorava con noi, ma i borghesi ci raccontavano
com’era al fronte, anche loro erano contro, altro che
sapevano controllarsi di più, perché c’erano anche le
spie in fabbrica, ci dicevano di stare attenti, perché
c’era anche un padre che aveva due figli in Russia, ti
puoi immaginare se quello era d’accordo con le guerre!
Quello ci raccontava tutto, se lo beccavano non so cosa
gli facevano, intanto quello che mi ha soccorso lo hanno
mandato via.
E poi suonavano le sirene di continuo e quando c’era
l’acuto voleva dire che gli aerei erano sopra: abbiamo
subito tanti bombardamenti, ne sono anche morti dei
nostri, perché era una fabbrica bellica, si vede che gli
Alleati lo sapevano! Cinque sei dei nostri sono morti
per i bombardamenti, a Dortmund. Facevo saldatura,
e anche avevo imparato abbastanza bene, altro che
con i bombardamenti lavoravamo sempre al scoperto,

209
perché sì eravamo dentro, però dopo il tetto è partito per
i bombardamenti e non si aveva il rifugio, la baracca
nostra era andata completamente distrutta, si aveva
la baracca recintata attaccata alla fabbrica.

Un giorno, era sabato perché stavo facendo il bagno e ce


lo facevano fare solo al sabato, hanno suonato l’acuto e
io sono scappato fuori, ma per coprirsi non c’era niente.
Allora sono andato là vicino, ma fuori comunque, al
rifugio dei civili; non potevamo entrare noi, però c’era
un piccolo rientro, mi sono messo sotto là. Cade ‘sta
bomba che esplode e mi ricopre fino al collo di terra,

210
mi sono fischiate le orecchie per quindici giorni, ma
io ero ferito solo in superficie, dietro ne avevo due che
quando mi sono girato uno era tutto pieno di sangue
e piangeva, l’altro non sapevi più neanche che parte
era rimasta! Ma episodi ce ne sono tanti, a scriverli
ci vorrebbe molto; tutti gli episodi che sono avvenuti
li avevo scritti in un diario, altro che bombardando
la fabbrica, si è incendiata e mi ha bruciato anche il
diario che avevo… il 17 marzo del 1945, mi ricordo
anche la data!
Finché non sono venuti a liberaci siamo rimasti là,
però di trentadue Italiano eravamo rimasti diciassette,
perché tra le malattie e la fame: da mangiare ci davano
ogni giorno una brodaglia di rape e verdure secche,
un chilo di pane nero da dividere fra tutti e un dado
di margarina. Qualche volta capitava che arrivassero
da casa dei pacchi con dei viveri, pane secco e farina
di mais, da usare per fare la polenta, e nonostante la
fame dividevo tutto con il mio amico Vittore Boriero,
che ne riceveva più di me e però li voleva dividere lo
stesso anche i suoi.
Siamo stati circondati per tre mesi però, si sentivano i
cannoni, però gli Americani non riuscivano a sfondare,
avevano fatto la sacca grande quando erano sbarcati
in Francia e noi eravamo sui confini quasi, si era sulla
Westfallia: era il 12 aprile del 1945. Poi finalmente
sono riusciti a liberarci, però tra una roba e l’altra ho
fatto altri cinque mesi a Lienen, perché i ponti erano
tutti distrutti, e mancavano i collegamenti. Si era sotto
gli Americani, ci tenevano bene, ci curavano, ci davano
da mangiare, si passava il tempo; pesavo ottanta chili
tornato casa, peccato che mi sono rimaste solo un po’ di

211
fotografie coi contorni bruciati, le uniche che ho salvato
dall’incendio in cui ho perso il diario!>>.

Cimadolmo city

<<Tornato a casa il paese non era cambiato tanto. Io


sono tornato il 3 di settembre del 1945, è stata una
grande accoglienza, come sono arrivato a casa! Son
arrivato di notte che non avevo il coraggio di tornar
casa, perché notizie non ne avevo, sono andato da una
mia zia, li ho baciati e li ho coperti tutti di sangue,
perché mi era venuto sangue dal naso da tanto che

212
ero felice ed emozionato! Me ha sçhiopà ‘na veneta se
vede e la vita è ripresa che sono tornato a far cesti,
non c’erano altre soluzioni! Sono andato sotto padroni,
dai Marchi, ma ho fatto anche varie domande, volevo
andare in America perché avevo uno zio in Argentina,
che aveva un’impresa edile. Dopo è uscito un concorso
in Municipio di Cimadolmo da stradin e ho vinto il
posto usufruendo del fatto che avevo anche un punto
in più perché ero stato via in guerra. Dopo nove anni
che ho fatto lo stradino, è venuto un altro concorso per
messo comunale, ho fatto la domanda e ho vinto anche
quello! Ho fatto quasi trent’anni in Municipio. Ma dopo
più che messo lavoravo dentro, aiutavo l’anagrafe a
fare le pratiche. La vita in paese era migliorata molto,
io lavoravo volentieri, mi piaceva, molto più che andar
fuori a portare le cose, mi piaceva proprio lavorare con
le carte.
Poi mi sono impegnato con l’associazione dei
combattenti, sono segretario dei Combattenti da
quando sono venuto casa a oggi; è un bel po’ di tempo,
sono sessant’anni che la seguo, io ci ho sempre tenuto a
queste cose, e oltre a essere il segretario dei Combattenti
lo ero anche degli Invalidi, venivo sempre anche da
Aristide, che faceva anche lui parte di entrambe;
organizzavamo le giornate celebrative del 4 novembre,
la sezione è ancora in piedi, ma gli Invalidi ce ne sono
pochi, uno alla volta si va via per … sì capito? Fortuna
che abbiamo ancora un pochi di simpatizzanti, e dopo
ci sono i nipoti che possono partecipare, anche i miei
figli si sono iscritti.
In Comune lavoravo dentro l’anagrafe; allora si faceva
tutti i registri scritti a mano, nascite, matrimoni, morte,

213
tutti in doppia copia, scritti a mano! Era un lavoro che
richiedeva molta attenzione e bella calligrafia.
Poi mi sono sposato nel 1950 con la signora qui
presente, Campion Antonietta, sorella di Dismo e
cugina di Aristide Menegaldo e dal 1954 siamo venuti
a star qua, su questa casa che l’ho fatta su io, in due
volte, perché ho potuto avere il prestito in dieci anni,
pagato un poco al mese.
In paese una volta conoscevi tutti, c’era più familiarità,
si era sempre assieme, si stava volentieri assieme,
invece adesso trovi che tutti pensano per conto suo,
tutti corrono! Tieni presente che ci trovavamo fuori e ci
raccontavamo, le sere d’estate per esempio ci si trovava
e ognuno contava la sua, barzellette, storielle, la vita
dei campi, il Natale lo si passava in stalla a Stabiuzzo,
perché dove c’era una stalla grande ci si trovava per
stare assieme tutte le famiglie e passarlo in allegria.
Una volta ci si adattava tutti, da Campion, si stava
là, si faceva teatro tra di noi, si andava anche per le
scuole con qualche maestra che ci insegnava, si giocava
a carte, dopo c’erano quelli che venivano a raccontare
le fiabe, come Meno Barro. Lo chiamavano per le stalle
a raccontare fiabe, storiette che trovava sui libri. Poi a
quei tempi non c’era il cinema o il computer, il cinema
era solo a Ormelle, Conegliano, Oderzo, quando sono
tornato dalla guerra, anche a San Polo, ma prima non
c’era.
E poi in Comune ne ho visti passare tanti di
amministratori dal 1950 al 1987! Come il mio amico
Cornelio ad esempio…
Adesso faccio poco, mi dedico alla casa, mi allevo le
galline e i conigli e tengo l’orto, perché mi piace tanto

214
lavorarmi l’orto, vivere qui nel verde.
Quando ero messo ne ho fatti di viaggi con la bicicletta,
e dico che fare i postini è dura, perché allora non
c’erano auto o camion, tutto in bici portavo fuori; il
Comune non mandava niente per posta, non c’erano
i telefoni e tutto andava consegnato in bici dal messo,
con qualsiasi tempo perché c’erano delle scadenze da
rispettare! Andavo in direzione didattica a Codognè, a
portare le vaccinazioni nelle Grave, a Oderzo in Cassa
di Risparmio a prendere gli stipendi dei dipendenti,
perché allora non c’erano pensieri che ti rapinassero, ero
sicuro anche in bici, non è come adesso che ti uccidono
per strada per 50 euro e poi fuori la notte a spazzare la
neve con una slitta di legno quando ero stradino. Era il
gelido inverno del 1952, quando c’era tanta neve sino al
10 di marzo; io andavo fuori in strada con il trattore di
Emo Masetto, una slitta di legno legata dietro e quello
era lo spazzaneve che si usava per liberare le strade.
Mi hanno dato anche l’encomio per questo lavoro, da
parte del Ministero della Sanità, perché ero fuori ogni
notte perché la neve cadeva di continuo, di continuo, di
continuo; tornavo a casa bagnato dalla testa ai piedi,
non c’erano impermeabili una volta o altro per coprirsi,
i trattori col tetto non esistevano e gli stivali erano da
poco, quindi non contavano niente.
Poi mi ricordo anche della grande alluvione del 1966:
io andavo nelle Grave portato dall’elicottero; mi
portavano e io andavo a tirar fuori la gente che era
rimasta bloccata dentro le Grave, riunita nel punto
più alto dell’isolotto. Atterravo là a Maserada dalla
tenuta San Giorgio, dove c’era la linea dell’elettrico che
avevo una paura ogni volta che col vento l’elicottero gli

215
andasse addosso; là era il punto di atterraggio perché
era un po’ più alto del resto. Scendevo, li prendevo su
chi voleva essere portato fuori, cinque sei viaggi in
tutto, e li portavamo dal campo sportivo provvisorio,
sul campo delle sorelle Marchi che è dietro il palazzone
che è ancora qua lungo la strada, al confine con San
Polo.
Poi, con il Geometra Furlanetto e Ferruccio Polese
abbiamo rifatto la strada delle Grave in economia;
a turno tenevamo i picchetti e il conto delle ore degli
operai da passare al geometra e ancora andavo ad
aiutare il dottor Pedrazzoli, allora medico condotto del
paese di Cimadolmo, per le vaccinazioni; io chiamavo i
nomi quando si presentava la gente, assistevo il dottore,
andavo a Treviso a prendere l’antipolio, il vaccino
contro la poliomielite, che prima era facoltativo e dopo
è diventato obbligatorio, e non lo facevo pagato, perché
usavo la macchina mia e prendevo un piccolo rimborso
dal Comune per la trasferta, ma ci tenevo a queste cose,
il mondo ha bisogno di solidarietà e bisogna aiutare
chi ha bisogno se vuoi che dopo la gente ti aiuti quando
tocca a te! Ho anche preso la medaglia d’argento da
Treviso perché siamo stati il Comune che ha fatto più
vaccinazioni e dopo la medaglia d’oro dal Sindaco
Luciano Moro per il servizio prestato al Comune,
perché quella volta che dovevo andare in pensione, sono
rimasto due anni in più a lavorare perché mi avevano
detto che mi davano un acconto e io ho lavorato ancora,
perché per me il servizio in Comune era un servizio alla
gente, alla mia gente, mi piaceva essere utile…
E infine c’era l’E.C.A. che bisogna che ti dico, perché
uno dei consiglieri era Aristide; i consiglieri dell’E.C.A.

216
erano i consiglieri di assistenza, davano i buoni per i
più bisognosi, appoggiavano il lavoro del Comune per
dare le informazioni necessarie all’amministrazione,
perché erano vicini alla gente e ne conoscevano i
problemi. Ai tempi che ti dico, cioè nel 1966 che è stato
l’anno di più gran lavoro dell’E.C.A., il presidente era
Rino Marchi, poi ci dovevano essere due consiglieri
per frazione e centro paese: due da San Michele,
due da Cimadolmo, due da Stabiuzzo e tante volte
chiedevano anche pareri a me, perché andando per
le case conoscevo le situazioni! Ora l’E.C.A. è stata
soppressa, ma a quel tempo c’era anche la figura del
Giudice Conciliatore per ricomporre le liti, garantire
i pagamenti entro una certa cifra, e se non si trovava
l’accordo convocava le parti davanti al Consiglio per
la pacificazione; il Giudice era nominato ed eletto
dal Consiglio Comunale, ma aspetta che torniamo al
1966, quando fu l’E.C.A. a distribuire gli aiuti, per
capire quanto erano diverse le cose allora: i consiglieri
dell’E.C.A. erano eletti dal Consiglio comunale in
base al rispetto che avevano in paese, poi si chiedeva
loro se accettavano o no. Le cariche erano di durata
quinquennale, come quella del Consiglio Comunale, ed
erano rinnovabili, ma c’erano anche gli emeriti, perché
alcune persone erano così rispettate che rimanevano
in carica con il consenso di tutti, e uno di questi era
Aristide Menegaldo. Infatti, anche se si cercava di
metterli in lista per zona, cioè di mettere dentro le
persone in base a quanta popolazione avevano attorno,
in modo che questi avessero conoscenza di quanto più
possibile, alla fine erano sempre i più rispettati a essere
eletti, perché loro non avevano bisogno di muoversi per

217
conoscere la situazione, era la gente che andava da loro
a chiedere una mano, e per piacere anche, non come
adesso che tutti vogliono e nessuno dà! Perché, varda
che ‘Ristide quande che l’è stat l’alluvione del Polesine,
che gli sfollati erano qua a Cimadolmo, i stea tutti in
casa soa! Anche io ho assistito agli sfollati del Polesine,
ma quello che si è preso la responsabilità più grossa
era una delle persone più rispettate del paese, anche se
non aveva mai fatto politica! Oggi è diverso: rispetto
lo danno solo a chi fa certi mestieri o certe professioni,
ma una volta la bontà e la generosità pagavano tanto,
speriamo che si torni un po’ più come prima>>.

218
Pietro Camerotto

La guerra, la povertà hanno segnato la famiglia di


Pietro sin dalla tenera età: della famiglia Pietro
conserva un album di foto, che mi ha mostrato e che ho
guardato con nostalgia. Sì, nostalgia, perché mentre
mi raccontava le varie situazioni che si succedevano
nelle foto, vedevo un mondo che lentamente stava
scomparendo, un mondo che per quel che riguarda il
mio piccolo universo personale è venuto a mancare
con la scomparsa di mio nonno Aristide, di cui Pietro
era amico e collega nell’E.C.A. .
<<E questo sarìe me nono Piero, morto – come ha scritto
Pietro sulla foto - per il pensiero di fare un secondo
profugato”. Me poro pupà Ettore sotto le armi era
sergente maggiore, fante sui ghiacciai dell’Adamello
con gli alpini. Dopo la ritirata di Caporetto, l’era

219
andat a casa in licenza e cosa ha fatto? E’ andato a
Ponte della Priula, si è fatto il “visto partire” ma l’è
tornà casa a veder che fine vea fat i soi, de qua dea
Piave. E quande che l’ha savù che i genitori i ‘ndea
profughi su par Casarsa, nella zona di Codroipo, l’è
tornà partir par el fronte sua tradotta. Nel frattempo
la licenza era scaduta da una settimana e ormai i vea
fat tute le carte par mandarlo aea fucilazion. Lassù
nessuno aveva saputo che ghe iera stata la ritirata di
Caporetto. E nel caos seguito all’arrivo della notizia, si
sono “dimenticati” di fucilarlo! >>

La mia famiglia

<<Sono nato il 12 novembre del 1922, a San Michele


di Piave, in questa casa, che allora era quasi uguale.
Era una delle case più vecchie del paese, rimasta in
piedi dopo la guerra del 1915-1918. Anche mio padre
era nato qui, dove i miei nonni erano arrivati nel 1858,
da Rosà di Bassano. Quando da sposati sono venuti ad
abitarci, la casa già c’era. Eravamo una famiglia di
contadini. Alla fine della Grande Guerra ogni mattina
mio papà andava alla Guizza, dove c’erano più di mille
prigionieri tedeschi. Tornava con un gruppo di loro, li
portava a lavorare la terra, in cambio dava loro da
mangiare. Anche se ne aveva poco per la sua famiglia,
cercava di aiutare gli altri.
Una volta era così… eri povero, non avevi nulla, ma
se uno stava peggio di te gli davi volentieri un po’ del
tuo poco. Tornava a casa dai campi con loro verso ora

220
di pranzo. Poi lavoravano sulla casa che era stata
danneggiata, durante la guerra, dalle bombe degli
italiani. Mio papà faceva il lavoro di tre persone! E’
morto nel 1947, a soli 54 anni.
In casa eravamo più rami, quattordici persone in tutto,
sette componevano la mia famiglia. Noi eravamo cinque
fratelli, io ero il più vecchio e sono sempre rimasto in
casa a lavorare i nostri pochi campi, sette in tutto.
Quando ero piccolo tutto il paese di San Michele era
povero, le distruzioni della prima guerra mondiale
pesavano ancora: mi ricordo per esempio che vicino
alla chiesa c’era una catasta di tegole, mattoni,
calcinacci e altre macerie delle case rotte durante la
Grande Guerra. Io ero piccolino allora, ma capivo che
c’era stato qualcosa di terribile.
Ho fatto le scuole qui a San Michele, un anno qua in
piazza e gli altri anni vicino alla chiesa. Ricordo…
Avevo fatto la quarta elementare, ero stato promosso.
In quegli anni non c’era altra possibilità di istruzione,
allora il maestro… mi ha fatto ripetere la quarta!… E’
venuto a casa a dire: “Tegneo casa a far che ‘sto bravo
tosat qua? Feghe ripeter l’ultimo ano…” e allora ho
fatto un altro anno di quarta… lù ghe vien da rider ma
cussì la iera… qua a San Michele… ricordo… ricordo
che ho fatto la quinta in pochi giorni!
Quando avevo quindici/sedici anni, è venuto a
insegnare nelle scuole del paese un maestro che un
giorno mi dice: “Stà attento: vutu ciapar el diploma
de quinta?”. Me l’ha detto il sabato, il giorno dopo era
festa, e lunedì ci sarebbe stato l’esame, cioè, me lo dice
il sabato per il lunedì successivo!
“A prima, a seconda, a terza e a quarta le ho fatte, una

221
anca do volte! Ma la quinta… come fae?”.
“Ti no stà aver pensieri!” mi fa… Mah! Cosa ho fatto?
Mi sono scritto sulle mani e sulle braccia un po’ di
appunti, mentre per il tema e il dettato ero preparato.
Mi ricordo come adesso il titolo: “Allo spuntar delle
prime viole si apriva una fossa”.
Ho svolto la traccia parlando della tragedia che era
accaduta a casa mia dove era morto da poco un ragazzo,
mio amico e coetaneo, Vinicio, che si era ucciso con lo
schioppo; gli era scappato un colpo e…La maestra della
commissione, la maestra Vendrame, mi ha detto:
“Camerotto, mi pare che siamo indietro di cottura!”
come par dir, “me par che te sa poc, me par che no te sì
inteigente…”. “Maestra, se te savesse come che son rivà
a questo punto!”.
E così in qualche modo ce l’ho fatta. Ho fatto come
quelli che adesso pagano le tangenti per… No, io non
ho pagato niente, ma voglio dire che così me la sono
cavata e ho avuto il mio diploma di quinta.
Davanti alle scuole vecchie di Cimadolmo c’era la casa
del fascio, dove si andava a fare il sabato fascista. Il
sabato fascista era obbligatorio. A un mio amico più
giovane, che non si era presentato, hanno fatto una
bella ramanzina…Lo hanno preso in tre, una volta
in sede volevano picchiarlo, il segretario del fascio
voleva dargli l’olio di ricino. Ma lui era furibondo, ha
cominciato a picchiare, ha buttato uno dietro la siepe
di Camillo Bontempi. Quel giorno potevano arrivarne
anche altri dieci, di fascisti, inviperito com’era li
avrebbe presi a botte tutti. Così per quella volta niente
olio di ricino!
Eravamo mingherlini, sono più sviluppati i ragazzi di

222
quindici/sedici anni di adesso di noi uomini di allora!
Una volta era la fame, non fame da morir, ma fame
sì. Adesso invece si esagera col troppo (Quant magnei
adess?). E così i giovani diventano presuntuosi.
Hanno poco rispetto di noi vecchi, vorrebbero darci
lezioni di vita, non accettano autorità, non accettano
di fare sacrifici, vogliono il lusso, la droga. Bevono,
massacrano per un complimento a una ragazza…
Dove è finita oggi la coscienza che avevamo noi una
volta? Sa quanti meno problemi ci sarebbero se non si
accontentassero sempre i giovani, se si facesse a meno
di dare sempre tutto, se si tirasse un po’ la cinghia,? La
gente avrebbe più giudizio, riscoprirebbe le cose sane
e genuine e la gioia di stare insieme. Bisogna proprio
pregare il Signore che metta una mano sulla testa di
questi ragazzi e dia loro un po’ di giudizio. Ho quattro
nipoti all’università, tutti bravi e seri. Purtroppo non
abitano qui. Alle volte mi arrabbio perché, una volta
laureati, quando potranno trovare un posto di lavoro?
I giovani, che sono il futuro, sono tutti dei precari, e
non hanno speranze perché altri non mollano la sedia!
C’è gente che, magari facendo solo i propri interessi,
occupa i posti di comando finché muore. Ad un certo
punto uno deve farsi da parte, non ha più le risposte
per i giovani!
Noi del 1922 siamo rimasti in pochi, Sari, io, Toni
Menegaldo che aveva le trote, Raimondo e Fredo
Masier. Pochi ricordano, ma credo che, nonostante le
cose brutte che sono successe a noi, una volta ci fosse più
serenità, perché c’era più unità fra le famiglie e i luoghi.
A me piace molto leggere e mia figlia, che lavora in
biblioteca a Treviso, mi porta a casa libri, soprattutto

223
di storia. Sono convinto che tutti abbiano il compito di
raccontare, di lasciare testimonianza del proprio pezzo
di storia perché, se oggi tante cose brutte succedono,
significa che è stata persa una sfera di valori che
bisogna ritrovare anche attraverso le testimonianze. A
volte “mi vien su un rumigon!”. Se non conosciamo la
storia, se non facciamo tesoro di quello che è accaduto
nel passato, dove andremo a finire?
Ho sempre lavorato la terra, non c’era altro: vigneto
e mais, stalla, la cantina a Tezze, dove portavamo il
raccolto. Siamo nati con la terra, andiamo fieri delle
nostre radici, se qualcuno mi dice che il contadino è un
brutto mestiere gli rispondo che sono i contadini che
danno da mangiare alla gente e che ne servirebbero
di più di quelli di adesso. Abbiamo una tradizione
contadina che dobbiamo conservare e trasmettere ai
nostri figli e nipoti, proprio perché è la terra che ci
nutre.
Sono contento di avere trasmesso questi sentimenti a
mio figlio, perito agrario, perché è bello che i figli si
appassionino ai lavori delle nostre tradizioni, e lui
ha sempre avuto questa passione, insieme a quella
della guida. Ha fatto anche l’autista, ma è tornato a
lavorare la terra, dalla quale in realtà non si era mai
allontanato. Questo mi rende orgoglioso perché è la
terra che dà la vita>>.

“Dobbiamo tornare alla terra”, è la preghiera di


questi anziani che hanno vissuto l’impressionante
trasformazione del nostro ambiente, una preghiera
che, ahinoi, sembra lontana dall’essere ascoltata.

224
In guerra

<<Sono andato alle armi il 18 gennaio del 1942.


Avevo appena compiuto 19 anni. Dopo sei mesi di
addestramento a Udine sono stato destinato, per mia
“fortuna” non al fronte russo ma a quello francese, come
truppa di occupazione. Ero nella Divisione Lupi di
Toscana, sulla divisa avevamo il distintivo con i lupi.
Il nome apparteneva ai Tedeschi che, probabilmente
durante qualche azione nella Grande Guerra, si erano
comportati come lupi che sbranano!
Appartenevo nel 30° Reggimento Artiglieria
Someggiata. Someggio era il trasporto di materiali
militari con i muli. In realtà io non ho mai avuto i
muli, ma una cavalla e, come trombettiere, seguivo
gli ufficiali. Stavo con loro perché dovevo dare tutti
i segnali di caserma, cominciando dalla sveglia, poi
adunata, silenzio, rancio, suonavo anche la ritirata e
la sveglia della mattina; la melodia faceva: “E tutte le
sere così! Cappella marcavista, riposo ti darò; e se non
ti conosco, in prigion ti metterò! Cappella, marmitta!
Questa è la vita del militar: e tu cappella arrangiati,
che mi me son rangià; ancora pochi giorni e poi son
congedà”. Suonavo una tromba normale senza pistoni,
contavano il fiato e le vibrazioni delle labbra. Ne ho
ancora una, recuperata però, perché la mia è rimasta
a Roma!
Eravamo in Francia, a Saint Marie sur Mer, tra Tolone
e Marsiglia, in Costa Azzurra. Giorno e notte incombeva
l’allarme navale, perché gli Alleati attaccavano proprio
tra Tolone e Marsiglia che, come anche adesso, erano i

225
due porti più grandi. Però se avessero voluto veramente
assalirci ci sarebbero riusciti tante di quelle volte! Noi
non potevamo certo impedirlo! Avevano un armamento
superiore, con navi enormi. Stavano lontano, ma
avrebbero potuto avvicinarsi quanto volevano perché
noi con il cannone 75/13 o la nostra Guardia Frontiera
con il 149, avremmo fatto loro solo il solletico! Come
armamento io avevo la tromba, la mia tromba di servizio
e il fucile, ma non ho mai sparato un colpo. Indossavo
la divisa, non facevo pattugliamento, ero sempre fermo
presso gli ufficiali ad aspettare gli ordini. Sono stato
sicuramente fortunato, perché non ero proprio dentro
i combattimenti, ma quando a Udine avevano chiesto
se c’era qualcuno che aveva la passione di suonare
la tromba, io avevo alzato la mano, gli altri no! Mi
ero presentato, avevo fatto un po’ di gorgheggi e altre
prove e mi avevano spedito in caserma. Ma ero parte
dell’esercito, pronto ad eseguire tutti gli ordini.
Il rapporto con gli ufficiali e i compagni era ottimo,
non c’erano distinzioni o privilegi, lì eravamo tutti
uguali. In quattro dormivamo nella stalla di un
maiale, avevamo recuperato una rete metallica e ci
dormivamo sopra. Dieci di noi avevano i cavalli, gli
altri usavano i muli. Ci davano poco da mangiare,
ma io scambiavo con cibo il pacchetto di sigarette che
ogni giorno ci veniva consegnato, così ho patito meno
la fame. C’era un francese che doveva travasare il vino
e alcuni si sono ubriacati: che lotte, dopo! Ma si stava
bene coi Francesi, con loro avevamo un buon rapporto.
Tutto considerato il momento peggiore è stato dopo
l’armistizio, quando siamo stati costretti a scappare.
In Francia eravamo più che altro di guarnigione. Gli

226
uomini francesi erano in guerra, nei paesi c’erano
soprattutto donne e bambini, che ci capivano perché
la loro situazione era uguale alla nostra. Ci volevano
bene, noi non toccavamo loro un capello. Attaccavamo
i muli per aiutarli a lavorare la terra, cercavamo di
trattarli come fratelli, e loro ricambiavano. Avevano
rubato tre galline a una donna. Quando è andata a
protestare, il Capitano le ha assicurato che sapeva
chi era stato – ma come faceva a conoscerlo, non era
neanche della stessa compagnia! - e che non eravamo
stati noi. Comunque il Capitano le chiede:
“Avevano la penna o erano senza penna?”. Infatti, i
soldati che componevano la Guardia Frontiera non
avevano la penna sul cappello, noi sì, come gli Alpini.
In questo modo il Capitano aveva capito chi era il
ladro di galline. Ma finché lì c’eravamo noi italiani
non era mai successo nulla di grave, quando i tedeschi
ci hanno dato il cambio si sono comportati subito male
con la popolazione, mandando magari i loro cavalli in
mezzo ai vigneti che venivano danneggiati.
Il sei settembre del 1943 la mia divisione ha ricevuto
l’ordine inaspettato di andarsene. Partenza da Saint
Marie sur Mer, in treno, destinazione Roma. Siamo
arrivati a Palo Laziale, nei pressi della città, alle otto
di sera dell’otto settembre, il giorno dell’armistizio.
Eravamo una divisione completa, ben armata ed
equipaggiata ma senza comandanti: i Tedeschi erano
stati furbi: alla frontiera, a Ventimiglia, avevano
fermato tutti i treni e fatto scendere i graduati. E noi
soldati non sapevamo dell’armistizio! Ma eravamo
numerosi e armati, e per questo non si erano arrischiati
di fermarci.

227
La sera dell’armistizio avevamo i cannoni puntati
verso Roma, e sentivamo verso Porta San Paolo che
l’esercito italiano si era rivoltato contro i Tedeschi. I
vari reparti dell’esercito, essendo ben equipaggiati,
potevano, in quel momento, affrontare i tedeschi, ma
senza comandanti i soldati erano allo sbando e nessuno
prendeva l’iniziativa. Il generale Badoglio e tutti gli
ufficiali erano scappati da Roma incontro agli Alleati
che arrivavano dal Sud. Siamo stati fermi il 9, il 10,
l’11, fino al 12; l’ultima suonata di tromba l’ho fatta
lì, a Roma, mi ricordo come fosse adesso! Dopo le otto
di sera viene il Capitano e mi fa: “Camerotto, suona
l’adunata!”
“Ma perché? Suonare l’adunata alla sera?”
“Camerotto, suona l’adunata, devo parlare!” a muso
duro. E ci ha fatto la predica, dicendo che c’era
l’armistizio, che non comandava più nessuno, che
eravamo tutti fratelli… Mi ha fatto suonate il “rompete
le righe!” Dappertutto confusione, caos. C’era un treno
di sussistenza fermo, bombardato e dentro c’era tutto
il ben di Dio, mancavano solo le donne! Ho chiesto a
un tenente: “Ha la rivoltella?”. “Sì, perché? Cosa devi
fare?”. “Tirare un colpo alla botte di vino!”. Un colpo
sopra e uno sotto, chissà quanto ho bevuto col secchiello
della cavalla! Avevamo lì un mulo di nome “Vincere”,
aveva la coda tagliata, quando gli arrivavi a tiro potevi
star sicuro che ti prendevi una pedata, perché era svelto
ad alzare le zampe, ma in quel momento non ci ho
proprio pensato e così l’ho presa, la pedata, e piangevo,
ridevo, sicuramente ero ubriaco. Sono scappato in
queste condizioni verso casa, con un amico di Farra di
Soligo che ho trovato a forza di chiedere e chiamare.

228
Non volevo tornare a casa da solo, in due avevamo
più possibilità di cavarcela. A Roma avevo una zia,
superiora all’Ospedale Ramazzini. E’ stata decorata
di croce e medaglia d’oro per aver salvato la vita a
tanti ebrei, dando loro rifugio dentro l’ospedale. Dalla
portineria ai reparti c’erano due chilometri; il portinaio
vedeva arrivare le pattuglie tedesche, avvisava, alcuni
facevano in tempo a nascondersi, altri venivano messi
a letto e, con qualche iniezione, quando arrivavano i
Tedeschi in ispezione, erano gialli come morti. Più tardi,
di sera o di notte, in ambulanza venivano trasferiti in
Vaticano e là erano salvi. Avrei potuto fermarmi dalla
zia, avrebbe aiutato anche me, ma la voglia di andare
a casa era tanta e il pensiero di rivedere i genitori mi
aveva messo le ali ai piedi. Eravamo partiti da poco,
con una cavalla, quando un soldato di Avezzano,
mio amico, mi fa:,“Camerata mi dai la cavalla?” “Sì,
volentieri…tu con settanta chilometri sei a casa, io a
casa con una cavalla non ci arriverei mai!”. Così gliel’ho
data. Siamo arrivati in Toscana, un po’ con il treno
un po’ con mezzi di fortuna. Avevamo un mulo che ci
portava lo zaino. Dovevamo passare un corso d’acqua
simile al Monticano. Il mio amico ha attraversato per
primo, poi all’improvviso non l’ho più visto. Pregavo
che rimanesse appeso al mulo, perché il mulo è mulo
ma tira, ha forza, il mulo sarebbe riemerso di sicuro!
Infatti, dopo un tempo che mi sembrò infinito, ho
guardato in basso e ho visto le orecchie del mulo spuntar
fuori con Tarcisio appeso dietro. E’ uscito dall’acqua,
dallo stesso lato! Io sono corso giù ridendo perché ero
contento, ma lui mi fa: “Piero, vara che mi no passe
pì!” “Vara che, se no passen qua, non ‘nden mio casa

229
satu!”. Improvvisamente è arrivata una macchina di
Tedeschi, ci siamo nascosti perché eravamo in divisa,
in un luogo troppo aperto, vicino alla città. Abbiamo
avuto paura, ma per fortuna era un mezzo anfibio, che
ha attraversato e poi proseguito. Allora io ho messo
in pratica la lezione della Piave: se erano passati loro,
potevamo passare nello stesso punto anche noi, così,
aiutati da una stanga, abbiamo attraversato. Siamo
passati proprio a livello, in punta di piedi con l’acqua
sotto il naso e tutto per scappare a casa!
Eravamo in treno, Maerne era l’ultima stazione prima
di Mestre. I macchinisti hanno rallentato la velocità
per dare la possibilità ai militari di saltare perché a
Mestre i tedeschi perquisivano il treno. Ero a rischio,
avevo ancora la divisa militare con zaino, gallette e
scatolette! Ho fatto come gli altri, ho lanciato lo zaino
dal finestrino e sono saltato. Ero in età da arma, come
tutti gli altri, e se ci prendevano ci avrebbero mandato
al fronte o, peggio, nei campi di concentramento.
Per vie traverse e strade secondarie, passato il Sile, e
la Piave a Negrisia, dopo due giorni sono arrivato a
S. Michele. Sull’argine del Piave prima del paese ho
trovato don Mino Zanardo, la prima faccia conosciuta
e amica dopo tanto tempo! A casa, ormai, non mi
aspettavano più! Non ho fatto tanta guerra, ma se ci
penso… e ora sono ancora qui che “tiro gli scalzi” >>.

A casa peggio che via. Poi la vita è tornata…

<<A casa la vita non fu più facile. Ho continuato a

230
fare il contadino, ma, durante l’ultimo periodo di
guerra, vivevo quasi segregato in soffitta, perché, se
mi avessero preso, il governo fascista mi avrebbe fatto
tornare sotto le armi, oppure mi avrebbero catturato i
tedeschi nei loro rastrellamenti e internato nei campi di
concentramento. Con i miei amici, anche loro nascosti
come me, giocavo a carte per far passare il tempo. Ma
io, grande appassionato di lettura, avevo anche la
compagnia dei libri.
Non potevamo lasciare la luce accesa perché c’era
“Pippo”, un aereo alleato che passava tutte le notti e
dove vedeva luce sganciava i bengala e le bombe.
Era, quello, il periodo dei partigiani. In seguito ai
loro sabotaggi (tagliavano fili elettrici, ostruivano
strade, toglievano le traversine dai binari), i tedeschi
bruciavano le case, uccidevano la gente inerme.
Qui in paese è andata tutto sommato bene, forse perché
non c’erano obiettivi strategici importanti. Ma se le
Grave della Piave potessero parlare… Chiamavamo
i partigiani “sparti-roba” perché spesso facevano i
propri interessi, dividendosi il bottino recuperato ai
tedeschi al momento della loro ritirata. Ma c’era chi
aveva un ideale, chi ci credeva, chi non tirava il sasso
e nascondeva la mano, e per questo a volte pagava con
la vita. Un partigiano del luogo ha avuto il coraggio
di non nascondersi. Durante un rastrellamento è stato
trovato con documenti compromettenti; l’hanno portato
a Sacile e ucciso. Quando ha saputo del rastrellamento,
il parroco di S. Michele, don Luigi Malvestio, anche
lui nella Resistenza, si è nascosto.
Così, per errore, al suo posto i tedeschi hanno prelevato
don Ferruccio Piran, parroco di Cimadolmo, e don

231
Ernesto Soligo suo collaboratore. Li hanno portati a
Sacile per interrogarli, ma poi li hanno lasciati andare.
Don Ernesto è ancora vivo.
In tutta Italia, però, neanche finita la guerra la
situazione politica era semplice. In seguito alla
propaganda, la gente temeva il pericolo del comunismo.
E stava nascendo la “Guerra Fredda” tra Russia e
America.

Io intanto avevo ripreso a lavorare la terra. Più avanti


ho fatto parte dell’E.C.A., l’ente che aveva il compito di
distribuire, a chi ne aveva bisogno, i soldi che arrivavano
dallo stato. Anche Aristide Menegaldo faceva parte
dello stesso Ente e ci radunavamo in Municipio per
decidere come dividere in base al bisogno.
Conoscevo la situazione degli asili, quali erano più
in difficoltà, così quando facevamo queste riunioni
proponevo sempre una cifra più grande per Cimadolmo,

232
anche se ero di San Michele, e quando tornavo a casa
il prete si lamentava, me ne diceva di tutti i colori.
Ma io conoscevo la realtà: a S. Michele esisteva il
beneficio, cioè un lascito, Cimadolmo invece faticava
ad andare avanti. Se dovevamo dividere per due,
perché il primo che non ne aveva bisogno doveva avere
la stessa quota dell’altro che non aveva niente? Quante
battaglie con Aristide ma, anche se più o meno grandi
potevano essere le cifre destinate a S. Michele o a
Cimadolmo, anche se potevamo essere di idee diverse,
insieme lavoravamo bene. La maggioranza di noi dentro
l’E.C.A. era democristiano, Aristide era socialista.
Non avevamo studiato tanto, come adesso, eravamo
ignoranti, ma educati, ci “beccavamo” qualche volta, ma
con il dialogo alla fine trovavamo sempre un accordo.
Quando ero consigliere comunale, ci chiamavano
“l’amministrazione degli zoccoli”, “sottotitolo” dovuto
al fatto che eravamo tutti contadini.
Ma forse proprio per questo, per quella saggezza che
ci viene dal contatto con la terra, le discussioni non
degeneravano in baruffe, e si cercavano di prendere le
giuste decisioni per il bene delle persone: ricordo per
esempio quando abbiamo diviso equamente i soldi
per gli alluvionati del 1966 e chi ha permesso la
realizzazione del ponte sulla Piave?
Quelli degli zoccoli! Abbiamo presenziato le riunioni
con Maserada e San Polo, quante riunioni!
Con la firma dell’onorevole Fabbri, di Pieve di Soligo,
che allora era ministro, il ponte è stato costruito.
Era stato fatto come si deve, quella volta, più avanti
l’hanno rifatto, più volte ci hanno lavorato. E’ la solita
politica del fare e disfare, non si sa bene perché!

233
Non ho mai fatto politica. Non è facile. Spesso si
accontenta una parte delle persone e se ne scontenta
l’altra. È sempre importante il dialogo, in famiglia,
tra le persone, in politica, tra gli Stati.
In Italia mi sembra che ora manchi. Si parla, si parla
tanto e non si ascolta.
E’ facile parlare quando si hanno le tasche piene
di soldi! Si dovrebbero ascoltare, ad esempio, quei
pensionati che sopravvivono con 300 euro al mese!
Si dovrebbero ascoltare e rispettare gli extracomunitari
che lavorano nel nostro paese, pensando che certi lavori
noi non li vogliamo fare più. Ricordiamoci di quando gli
stranieri e i poveri eravamo noi, in Argentina, Brasile,
Australia, Stati Uniti! Anche allora come adesso
c’erano i delinquenti, ma non bisogna generalizzare.
Nel mondo le cose non vanno meglio, penso per esempio
alla situazione in Palestina.
Nel 1948 l’Inghilterra e l’America hanno dato uno stato
agli Israeliani nelle terre dei Palestinesi, non potevano
pensarne uno anche per i Palestinesi?
Le decisioni di allora hanno creato i presupposti per i
conflitti che da allora insanguinano quelle terre.
Sono stato in Terrasanta, l’ho vista, è bellissima, ma poi
vedi il muro che hanno costruito gli Israeliani, dicono
per tener fuori il terrorismo, invece è fatto per tener
sotto controllo i Palestinesi. A Gerusalemme, presso
un posto di controllo al confine tra due parti della
città, c’era da un lato la guardia israeliana e dall’altro
quella palestinese, uno col mitra e l’altro col moschetto.
Il soldato palestinese aveva vicino una sedia sfondata.
Ero stanco, e quando per un attimo se n’è andato io mi
sono seduto. Quando poco dopo l’ho visto avvicinarsi

234
mi sono alzato di scatto. Ma, sorridendo, quel signore
moretto mi ha fatto segno di restare pure seduto.
E, sempre sorridendo, mi ha permesso di fare una foto
con lui! Ricordo una poesia, la cui origine si perde
nei lontani anni di scuola; l’ho recitata in occasione
della commemorazione del novantesimo della Grande
Guerra, l’anno scorso, nelle grave della Piave:

La preghiera del soldato morente

Baciar lasciatemi la mia bandiera


Che del mio sangue rosseggia ancor,
Era l’orgoglio della mia schiera
Or fia sudario di un cuor che muor.
Io manco e un gelido tremor mi assale
Che qui sul campo morire io vò,
Perché più morbido non v’è guanciale
Del suol, che il nostro sangue innaffiò.
Addio compagni d’armi e di gloria,
Correte tutti l’opera a compir,
Fate che il cantico della vittoria
Mi giunga l’ultima ora a lenir.
E quando reduci ai patri lari
Giocondi e liberi sarete un dì,
Anche tra il giubilo dei vostri cari
Non siate immemori di chi morì.

E quando non so cosa fare mi metto a suonare la pianola.


A 17 anni andavo a scuola di musica da una maestro a
Treviso, in bicicletta e con la barca, ma poi ho smesso.
Il maestro un giorno mi dice: “Che manacce!”.
Le mie erano mani da contadino, rovinate, d’inverno

235
tagliavamo le siepi. Non erano certo le mani dei ragazzi
di oggi che sono delicate, da studenti. Ma avevo la
risposta pronta, per quel maestro, volevo dirgli:
“Saeo che lu el magna el pan che vien fora da ste man
qua?”. Invece ho preferito tacere e non andarci più.
Sono andato allora a Codognè, da un maestro cieco,
per circa tre anni. Nel frattempo suonavo l’organo in
chiesa. Non ho fatto a tempo a finire gli studi perché
sono partito per la guerra. Tornato a casa, papà non
stava bene, ero il più grande dei figli, c’erano i campi
da mandare avanti, così non ho più ripreso la scuola.
Ho però ricominciato a suonare in chiesa, e da allora
non ho più smesso. Anche se ultimamente suono poco,
sono quasi sessant’anni che continua questa passione!
A volte mi chiedo: sono arrivato fin qua, ma dove sono
finiti gli anni? Da qualche parte li ho messi! Ora spero
solo in una cosa, per i miei nipoti, per i giovani e per
tutti quelli di buona volontà: che si ricordino che una
volta si stava bene insieme con poco; non sarebbero stati
importanti, se ci fossero stati, la macchina, il computer
o il telefono ma l’amicizia, lo stare con la gente e starci
bene. Ecco, io questo lo auguro a tutti: quando si
rispettano gli altri e ci si comporta onestamente, poi
il bene ti torna indietro, o prima o dopo, ma torna,
credimi!>>.

Il bene torna indietro a chi ne fa, questo il pensiero di


Pietro… la sua vita, è stata irta di difficoltà ed ostacoli,
eppure questo pensiero, che ha sempre guidato il suo
agire, è ancora forte e convinto in lui. Allora forse
ha ragione? Forse davvero tutto viene ricompensato
a essere onesti? Forse conviene davvero comportarsi

236
con creanza, non fare del male a nessuno, aiutare il
prossimo tuo come te stesso? Ma allora perché così in
pochi lo fanno? So bene, che alla nostra generazione
queste cose sembrano trite e ritrite, vecchie solo
perché le ha dette un anziano e invece sono valide
sempre. Abbiamo tutti bisogno di un bagno di umiltà,
e questi piccoli tesori, che ci vengono raccontati da
questi reduci, sono qui apposta per dirci:
“Ehi giovine… tu che sei all’inizio, ascolta me che sono
alla fine. Vuoi il rispetto degli altri? Rispettali prima
tu. Vuoi vivere una bella vita? Sii generoso prima tu….
Dona e avrai!”

237
Domenico Bernardi

Domenico Bernardi, una chiacchierata

Questa è una testimonianza molto diversa da quelle


che avete sin qui letto. È la storia di un persona che
ha raggiunto il secolo di vita, che ne ha viste molte,
troppe per certi versi. Domenico oggi combatte i suoi
giorni a fianco di Dana, la sua badante, e della famiglia.
Questa conversazione, registrata sabato 3 gennaio
2008, ha avuto diversi protagonisti, e li ritroverete nel
corso della lettura; oltre a Domenico e al sottoscritto,
c’è anche Dana, una brillante e simpatica signora
rumena che aiuta Domenico con dolcezza e amore, e
Giorgia, la mia fidanzata, che ha avuto l’avventura di

238
passare un pomeriggio assieme a una persona che si
sta avvicinando ai cent’anni di vita… sì, avete capito
bene, perché ad agosto Domenico ne compirà 100… e
lode, mi viene da dire.
Ecco allora perché non ho voluto impostare l’intervista
come le altre, mi piaceva l’idea che da questa
chiacchierata potesse emergere il fatto che si può e
ci deve essere un rapporto stretto e affettuoso tra
persone così distanti per età, perché noi possiamo dare
a loro svago e conforto, mentre Domenico e gli anziani
come lui, hanno un enorme tesoro da trasmetterci, un
tesoro chiamato vita.

Domenico: Quando avevo 18-19 anni ho cominciato ad


andare a soldato i primi tempi.
Simone: Lei era del 1909 giusto?
Do. : Sì e allora sono andato a soldato come tutti, a
Trieste, ma allora si faceva i 18 mesi obbligatori, nella
guerra del 1914-18 ero giovane, avevo otto anni e sono
rimasto casa e a quel tempo si era qui in questa casa
qua, coi genitori e i nonni e tutto! Eravamo quattro,
sei, otto, nove con nonni e genitori, dopo il padre è stato
richiamato dopo Caporetto e allora qua siamo rimasti
a casa con i nonni e uno zio che era invalido, ma dopo
un periodo siamo stati obbligati ad andar via da qui,
ci hanno mandato a Mansuè! Profughi da un parente
di Carrer, erano parenti del nonno che aveva sposato
una da Mansuè e devo dirle anche un particolare: pensi
che mio nonno a quei tempi raccontava che andava
a far l’amore da qui a Mansuè a piedi, partiva dopo
mangiato a mezzo giorno, e alla sera era obbligato
a tornar casa prima che andasse giù il sole, non più

239
tardi!
Dana : Obbligato perché era bello mio?
Do. : Perché a quei tempi i genitori erano genitori e
comandavano! Il bisnonno aveva detto al nonno: “Tu
hai da esser casa alla sera alle sei sette!” era obbligato
di tornare a casa a quell’ora! Si stava assieme quelle
due tre ore e dopo tornava indietro, così raccontava il
nonno e dopo tornava a casa.
Dana : Sì e come era che poi scappavate la sera da
finestra per andare a far l’amore?
Do. : Ehhh… si era giovani a quei tempi! Così così e
allora siamo stati a Mansuè fino che è finita la guerra
a quel tempo là.
Dana : E dopo cosa hai fatto bello mio?
Do. : Dopo è venuta l’ora di andare anche io via
soldato.
Dana : Quanti anni hai fatto tu soldato?
Do. : Cinque anni ho fatto via di casa!
Dana : Cinque? Mamma mia!
S. : Lei quando è nato?
Do. : Sono nato nel 1909, 30 di agosto 1909!
Dana : Vuoi un po’ di grappa bello mio?
Do. : Niente adess, assa star, ho da parlar con lui! Per
piacere Dana, no ‘sta romper, ecco!
Dana : Va bene ho capito!
Do. : E così era! Dopo sono andato via soldato, in un
primo tempo richiamato a Sacile, ci hanno portati tutti
a vestire, tutto il Reggimento, il 152; hanno completato
tutto il reggimento, tutti vestiti in divisa e da là siamo
andati!
S. : Lei cos’era?
Do. : Un fante, 152 Reggimento! Poi tutto il reggimento

240
siamo partiti con la Brigata Sassari. Allora ero sposato
che sono andato via!
S. : Quando si era sposato?
Do. : Ho tutti i documenti, bisogna che guardo; avevo
anche già avuto una figlia, la Carolina, Bernardi
Carolina, sì allora era piccola, aveva un anno o poco
più! Dopo avevo fatto anche certi documenti per venire
casa, ma non era niente da fare insomma, perché a
quel tempo era delle regole, chi era figlio unico, chi
maritato, e allora ho scritto casa, niente da fare e allora
rimanere via. E allora da là a Trieste!
S. : E’ andato via in treno?
Do. : Sì, sì ecco: hanno fatto un treno speciale per tutto
il reggimento, ci hanno caricati tutti quanti e era no
solo una classe, ma diverse classi, così siamo partiti, e
da là siamo andati adesso che mi ricordo a Bari! Era
pianura, poco vicino al mare e là ci siamo imbarcati
e siamo andati a Tripoli! Ehhh, là a Tripoli, guarda
come ha da essere la vita! Ma sono stato poco tempo
là, perché per gli anni mi hanno mandato indietro in
Italia!
Dana : Sì ma ti ricordi un poco male perché c’era
guerra, che non è una cosa bella, meglio ricordare
belle cose che quelle brutte, no?
Do. : Eehhh, così era…
S. : Quando era piccolo com’era il paese?
Do. : Eh sì allora la vita era di famiglia, lavorare la
terra, aiutare mamma e papà, avevamo tre quattro
vacche, alzarsi la mattina a mungere, ma non tanto
presto perché erano poche, maiale, galline, tacchine,
conigli anche, perché quelli erano per allevarli e
venderli e prendere qualche soldino, perché a quei tempi

241
i genitori non avevano soldi, coi conigli si vendeva ogni
tanto qualche cosa e si faceva festa, ma allora non c’era
pensione, neanche i nonni!
Dana : Lavorava lui tutto da solo! Dopo la guerra, lui
e la moglie hanno avuto quattro bambini e lavorava la
terra lui da solo, lui è bravissimo!
Do. : E ma dopo la guerra questo! Ma a quel tempo ho
avuto quattro bambini, tre donne e un maschio!
Dana : E chi ti dava una mano di loro quattro a
lavorare?
Do. : Guardi: i bambini era la Carolina più vecchia
che adesso ha 69 anni e lei dava tanta mano, ma poi
aveva preso il lavoro di far la parrucchiera e il figlio
andava a San Polo a fare il falegname, e allora dopo
ho fatto un capannone per fare un po’ di mobili, poi la
Dilva parrucchiera anche lei e a quei tempi era la vita
dura, non c’erano mica tanti soldini per le tasche! Eh
sì! E dopo la mia moglie è morta dodici anni fa e i figli
tutti sposati sono rimasto da solo e allora sono dovuto
andare in cerca di questa donna!
Dana : Sei bravissimo, di un gentile guarda!
Do. : Sarebbe tanto da raccontare ma cosa vuole!
S. : Ha fatto le scuole qua a Ormelle?
Do. : Sì, qua a Ormelle, di fianco al Comune, dove che
adesso hanno fatto la banca. Erano quattro maestre,
quattro suore: erano le suore bel beato Ottolengo di
Torino quelle, ma brave a insegnare, bravissime!
Proprio pazienti e insegnavano a rispettare le autorità,
rispettare i genitori, rispettare il Sindaco, il dottore,
ecco; questa era la gente del Comune, no come adesso,
cosa dicono adesso i giovani al Sindaco? Ma vaffan…
Dana : E dai bravissimo, non si dicono queste cose

242
così…
Do. : No, loro sanno benissimo quello che voglio dire!
Per prima si dicono queste cose, non per ultime! A quei
tempi insegnavano la buona creanza, oggi sa cosa vuol
dire che il Comune tre anni fa ha mandato fuori quel
libro che manda a fine anno dove ha descritto tutto
quello che hanno fatto, le strade, le cose, tutte belle
cose per questo e per quello, e dopo che hanno fatto la
palestra, tutti i servizi dei giochi, ma per gli anziani
neanche una parola! Anche gente educata sono loro
per quello, ma costava tanto a dire che si fa qualcosa
anche per gli anziani? Ma no neanche parlare così! È
una vergogna che noi contiamo solo per i voti!
Giorgia : E una volta parlavano degli anziani?
Do. : Ehh signorina! Non sono educati, perché potevano
dire abbiamo fatto certe cose, ma se queste cose ci sono
sarà merito anche degli anziani, perché gli anziani
qua a Ormelle avevano la latteria, fatta dalle famiglie,
non dal Sindaco, non dal Segretario, perché dopo la
latteria è stata venduta, e i soldi non gli hanno presi
quelli di Tempio, di Roncadelle e di Ormelle, ma se
li è presi il Comune, perché se li è presi il Comune?
Perché il segretario della latteria era morto, se fosse
stato vivo lui i soldi della latteria prendevano un’altra
strada; perché come le dicevo la latteria era fatta coi
soldi dei cittadini di Tempio, Ormelle e Roncadelle e
invece arrivano questi buttano via quello che hanno
fatto i vecchi!
Dana : Dai bello non stare arrabbiato!
Do. : No è che certe cose proprio non mi vanno! Dov’è il
rispetto per gli anziani?
S. : Da piccolo, passare le feste assieme significava

243
incontrarsi tutta la famiglia, sentire le storie dei
nonni.
Do. : A quei tempi là non c’erano tante cose per divertirsi,
perché quando venivi più grandetto non era soldi, non
c’era niente da fare ecco!
S. : E lei ha fatto il profugo anche; ha avuto qualche
incontro coi soldati nemici?
Do. : Allora a quei tempi là mio papà è andato via
fino a fine guerra; è stata una guerra lunga la prima,
ma per casa no, non venivano, noi no! Cominciata nel
1914 e finita nel 1918, quattro anni di massacri!
S. : Il paese era stato bombardato?
Do. : Sì anche la casa! La casa qua hanno portato
via mezzo coperto con un colpo di granata, e abbiamo
ricostruito tutto noi altrimenti dove si andava ad
abitare? E poi ho fatto la scuola; prima, seconda, terza
e quarta e basta! La terra era abbastanza a quei tempi,
circa diciotto campi, tutta la famiglia e i parenti che
aiutavano al bisogno, e dopo noi andavamo da loro. Si
lavorava dallo spuntare del sole a quello della luna.
S. : E negli anni venti e trenta com’era qui la vita?
Do. : Si era una famiglia che non parlava per niente,
faceva il suo lavoro e basta, non c’erano famigliari
politici che dicevano: “E’ bene Mussolini, è bene
quest’altro”, noi si aveva la vocazione della terra; tanti
hanno fatto una brutta fine, perché non andava bene
parlare ai fascisti, c’era paura, anche io avevo paura!
Dana : Se ti arrivava una persona fascista c’era paura
di dire la verità? Anche in Romania era così: mia
mamma l’avevano presa e buttata sotto il tavolo perché
volevano una ragazza! Mi ha nascosto nel forno del
pane perché volevano una ragazza per fare l’amore,

244
avevo cinque anni; Ceaucescu, tutte le dittature si
comportavano uguali!
S. : Mi hanno detto che i fascisti venivano per casa a
prendere il grano, lo facevano anche con voi?
Do. : Sì, sì… allora c’è stato un periodo che si aveva la
tessera per mangiare, ti davano un panino e basta, e
se facevi troppo lo prendevano per loro e lo portavano
all’ammasso e non so a chi lo davano, come a te in
Romania! Avevi anche te la tessera che ti davano un
poco di pane per mangiare!
Dana : Lo sai quanto pane al giorno? Mezzo etto di
pane, senza padre e quattro figli.
Do. : Dopo di Trieste sono venuto casa per un periodo
perché la guerra non era ancora cominciata, ma dopo
mi hanno richiamato e siamo andati come dicevo
in Africa, poi in Albania, ma non sono stato tanto
tempo.
Giorgia : Che cos’è che ha fatto in Albania e in
Africa?
Do. : Ci hanno preparato qua in Italia e siamo andati
via che eravamo istruiti, perché c’è stata un’offensiva
da parte dei partigiani albanesi e anche grande, non
mi ricordo più l’anno, so che era il 14 febbraio! Il giorno
degli innamorati per il culetto! Si era istruiti, con gli
ufficiali e tutto, che loro avevano detto: “Guardate che
domani mattina certamente faranno l’offensiva!” e
come è stato detto alla sera, ci hanno preparato tutti
vicino al confine, tutti pronti alla mattina presto per
l’offensiva; allora hanno cominciato con un’offensiva
grandissima! Si sentiva solo che colpi per aria, solo che
colpi, solo che colpi ne hanno fatti di morti, anche dei
miei amici che erano là, non li ho più visti, sono morti

245
tutti, e anche a me pensi, sono venuti gli schrapnel delle
bombe fin vicini ai piedi, che buttavano su la terra a
coprire tutto il corpo e faceva paura là! Allora dopo là
sono venuti gli Americani in quel periodo ed è finita,
e una parte è andata in Jugoslavia e una parte siamo
rimasti liberi, e allora chi da una parte chi dall’altra
così era finita.
Giorgia : Cosa ha provato mentre era lì in guerra?
Do. : Quando hanno mandato un reggimento dei nostri
a morire… io non ho mai ucciso nessuno, ma la morte
era sempre dietro di te ad aspettare; stasera devo andare
a mangiare dal prete, a messa capito? Solo pregare
potevi la in mezzo! Ma cosa volete che abbia fatto in
guerra, quello che hanno fatto tutti! Magari con un po’
di studio stavi distanti dalla guerra, là stavi solo a
pensare a portare a casa la pelle, altro che pensare alla
cochetta! Voi ridete, digli digli alla signorina cosa vuol
dire!
Dana : Sì che capiscono tutto dai! C’era tanta paura
perché non sapevi neanche a chi sparavi!
Do. : Adesso che mi viene in mente, quel 14 febbraio
erano otto giorni che non andavo più di corpo; sai
perché? Per divertimento? Per paura! Non potevi
neanche fidarti a sederti per farla che poteva arrivarti
una granata e freddo poi! Pensi che si dormiva sotto
le tende, e siccome erano grandi abbastanza, coi piedi
sempre fuori della tenda! Pensi lei il potente esercito
italiano! E si andava tutti a piedi, tutto a piedi, al
porto eravamo arrivati in nave ma poi tutti a piedi,
con zaino, fucile, baionetta, tutto quello che pesava lo
buttavamo, ci davano tre bombe, due tre caricatori, e
così quello era di equipaggiamento, due scatolette di

246
gallette secche da mangiare e quella era la riserva
del giorno, e una borraccia d’acqua, altro non potevi
portare! Portato il mangiare solo le prime volte, poi
sempre arrangiarsi. E poi fango, fango finché volevi, che
non si staccava più dalle scarpe, e pioggia sempre!
S. : La Libia com’era?
Do. : Caldissima, ma siccome guardavano anche
l’età rimandavano i più vecchi in patria come riserva
di reggimento, così sono tornato a Trieste, se c’era
bisogno chiamavano ancora altrimenti no, e io sono
andato subito in Albania. E in nave, per andare in
Libia abbiamo dormito sulla paglia mentre andavamo
giù; gli Italiani hai capito? Pensa che traversata!
C’erano anche due sottomarini per scortarci perché
se picchiavano là ne uccidevano tanti di soldati, ma
per fortuna c’è stata calma, niente bombardamenti.
A Durazzo invece facevamo sempre le pattuglie in tre
e quattro e avevamo una paura degli altri, perché la
notte attaccavano sempre, era il punto più adatto.
S. : Cosa è successo quando è arrivato l’Armistizio?
Do. : Cosa succede? Chi è andato da una parte chi
dall’altra sono fuggiti tutti! Tanti sono rientrati,
non abbiamo avuto contatti coi Tedeschi e quando è
arrivata la notizia che eravamo liberi, una buona parte
è tornata a casa, io me la sono fatta tutta a piedi fino a
Ponte di Piave! Eravamo un gruppo piccolo, avevamo
paura a essere un gruppo grande, ci si riuniva un pochi
e si partiva, oppure da soli, o dieci, dodici, quindici;
camminato giorno e notte, avevamo solo i vestiti, tanti
lo avevano anche cambiato, perché avevano paura
di essere presi e allora sono andati per le famiglie a
chiedere un paio di pantaloni o una giacca. Per fortuna

247
i civili ci davano una mano, tanti facevano di tutto
per farci scappare, se avevi bisogno di qualcosa te lo
davano.
S. : Quando è tornato è riuscito a ricominciare o sono
anche venuti a cercarla?
Do. : No, no lavorare, lavorare nella terra per mettere
il grano, il mais; allora era anche poco da festeggiare
il ritorno, non c’erano mica pasticcini! Altro che
pasticcini, polenta, fagioli e culetto, non c’era pane!
Dana : C’era una vita da cani!
Do. : Il mangiare a quel tempo là era poco buono, non
avevi il salame, solo il culo del salame!
Dana : Bello! Non si dice così si parla bene! Adesso hai
imparato anche tu da televisione, ma tu sei bravissimo
parla bene, mi fai piacere?
Do. : Dana guarda io tante volte voglio parlare poco
bene e tante volte no, capito?
Dana : Sì lo so, ma c’è bisogno di parlare bene che
tutto è passato!
S. : Quando è tornato a casa sono venuti a cercarla i
fascisti?
Do. : No, qui in paese no; in tante parti sì, ma se erano
in famiglia i giovani si nascondevano. Qua c’erano
anche i partigiani, ma partigiani e fascisti facevano
tutti quel che volevano, anche perché quelli che erano
venuti casa della guerra, bisognava stare attenti ad
andare a rompergli le scatole, perché si diventava
cattivi dopo avere visto tutte quelle cose, e cercavi guai
se gli andavi a dire certe cose.
Dana : E cosa fai adesso?
Do. : Eh… quattro giorni la settimana vado di fianco
alla casa di riposo di San Polo a giocare alle carte, a

248
Tresette, Zogoeon!
Giorgia : In guerra giocava a carte?
Do. : E in guerra si giocava al culetto!
Dana : Ma perché mi parli ancora così di male?
Do. : La signorina certe cose le sa! Lei sa che a soldato
non si gioca alle carte, si gioca col fucile!
S. : E’ bravo al Zogoeon, vince?
Do. : Me la cavo!
Dana : E chi viene a portarti e a prenderti?
Do. : Eh signorina, viene Dana a prendermi alla sera
perché un pochi di giovanotti di settanta ottanta anni
gli fanno i complimenti, e anche gli danno qualche
bacino!
Giorgia : Ahhh… anche io mi divertito un mondo con
gli anziani, anch’io giocavo a carte!
Do. : Là siamo cento, ogni due tre mesi fanno un pasto
con le trippe e il baccalà. Dopo noi da basso si gioca
alle carte, sopra le donne che giocano alla tombola.
S. : Và ancora alle manifestazioni dei reduci?
Do. : Sì, ma sono due anni che non vado più: è Francesco
Moro che veniva a prendermi.
Dana : Sì guarda qua la foto del mio bello di cento anni
con me in ristorante a Negrisia.
Do. : Eh sì con questa qua che parla sempre!
Dana : Tu non parli mai, io parlo anche per te!
S. : Mi dispiace che le abbiamo fatto perdere la messa.
Ci va ancora tutte le settimane?
Do. : Sì, sì, mi piace, andavo anche a rispondere messa
da piccolo.
S. : Sono cambiati i preti rispetto a una volta?
Do. : Di preti ce n’è uno solo, ha la parrocchia di
Ormelle e di Roncadelle, don Silvano. L’impegno che

249
hanno è aumentato, non hanno solo una parrocchia,
poi hanno l’asilo per questo e quell’altro, dopo va anche
a Cimadolmo; è un bell’uomo, lei quando l’ha visto la
prima volta, vero Dana? Smetti di chiacchierare con la
signorina!
Dana : Cosa vero?
Do. : Quando hai visto per la prima volta don Silvano,
il prete, cosa gli hai detto? Che è un brutto uomo, bello,
cosa gli hai detto?
Dana : Ahhh don Silvano… prete… è bellissimo
quello!
Do. : Là in Albania cominciano a fare l’amore
a quattordici quindici anni loro, a venti, lei ha
trentacinque anni ha una figlia di venti!
S. : Eh sì, è un’altra cultura! Ma secondo lei quanto è
cambiata Ormelle rispetto a una volta?
Do. : Tanto, tutto: adesso è un’altra amministrazione,
prima era Sindaco, segretario, prete e dottore e basta!
Quanta gente adesso, venti trenta persone, tutto
cambiato, c’è tanto più lavoro, più gente, adesso bisogna
studiare e una volta tutto si faceva fuori regola, oggi
non si sgarra: guardi qua, questa casa non era neanche
incatastata, ho dovuto pagare otto giorni fa 2500 per
metterla a regola, una volta era premura di far le cose,
senza fare tutte le carte! Leggo tutti i giorni la Tribuna
e ogni giorni c’è gente che gli capita uguale e una volta
conoscevo tanta gente, ma della mia età sono rimasto
solo io, e non conosco più nessuno, anche suo nonno
Aristide lo conoscevo poco; di Cimadolmo conoscevo i
Marchi, ma sono morti tutti quelli che conoscevo.
S. : Secondo lei la società di oggi, rispetto alla vostra
che valori ha perduto?

250
Do. : Guardi mò… una volta era un’amicizia, ora è
cambiato tutto, perché tutti hanno la macchina, una
va a Conegliano uno a Treviso, la gente non è più
riconoscente una verso l’altro!
S. : Finita la guerra cosa ha fatto poi per vivere?
Do. : Vacche, stalle, campi, poi i figli hanno cominciato
a studiare; un mio nipote era prete, Monsignore, che è
morto l’altro ieri, Bernardi Giovanni. Poi è morta mia
moglie anche; guardi la vita oggi è più comoda di ieri,
perché tutti hanno la macchina e questo e quest’altro,
ma ieri si volevano più bene, per conto mio!
S. : In famiglia ci sono ancora occasioni di stare
assieme?
Do. : No… oggi sono tutti più lontani, ci si dice
buongiorno buonasera e via! Qggi perché è la comodità,
io ho la macchina, lui ha la macchina, lei ha la
macchina, tutti vanno per conto suo, tanti si vogliono
bene ma tanti no! Ho paura che sono di più quelli che
non vogliono bene, cosa le pare lei di questi anziani che
intervista?
S. : Ehh… che siete un tesoro da non perdere, però ha
ragione quando dice che siete messi da parte!
Do. : Noi non siamo grandi artisti sa? Tanti vogliono
anche fare tutto di testa sua o avere tutto il comando,
siamo anziani e il nostro compito è di rompere le
scatole no? Siamo fatti così, tanti noi non vogliono
neanche più sapere niente degli altri, ma è un peccato
che abbiamo perché nessuno ci ascolta più: ci fanno le
corone quando moriamo invece di mandare i soldi ai
poveri bambini che muoiono di fame e hanno bisogno;
so che non sarà neanche bene pensare così, ma io sono
di questo pensiero, ognuno ha il suo: chi vuole il fiore,

251
chi la ghirlanda, io l’ho detto anche a Francesco Moro
in chiesa: “Non portare né panettone, bottiglia, niente!
Quelle cose là mandale ai bambini che muoiono di
fame, altro che fiori! Fiori a far che?”
S. : Come… come ha vissuto dentro di lei la guerra?
Do. : E’ stato difficile. Guardi io sono stato anche due
anni a Napoli a fare il soldato. Là stavo molto bene,
perché anche d’inverno non c’era neve, sempre con la
camicia senza la maglia e la gente di Napoli è fatta
ha modo suo. Là facevo il postino, andavo a prendere
la posta e la portavo al comando mio, al mio Tenente,
che la guardava e la distribuiva; due anni, dopo essere
tornato dall’Albania, e avevo permesso del Capitano di
uscire giorno e notte, come un borghese e i Napoletani!
Tutti chiacchieroni ma che brava gente! Ognuno ha il
suo carattere, chi parla tanto, chi parla poco, chi parla
niente, e così! Lei con queste interviste è una bella
cosa, ma i giovani pensa che dopo morti gli anziani i
giovani si interessano? I giovani pensano ad andare in
discoteca, pensano di andare a divertirsi, altro che dire
una preghiera, questo il mio pensiero, sarà sbagliato,
non dico di no perché lei è diverso, ma lei cosa dice,
cosa pensa?
S. : Che in tante cose le do ragione, ma una cosa che
mi sono sempre chiesto… dopo che si è vissuto così
tanto, cosa si sente dentro?
Do. : Sì sente non lo so neanche io cosa! Sta di fatto
che non so che risposta dirgli, ho visto di tutto, bene
e male, ma è importante aver vissuto una vita un po’
regolare, bene, no a rubare i soldini nelle case degli
altri, bisogna essere onesti! La cosa degli altri è tuo, no
mio, non si va a rubare la roba degli altri che è tua, no

252
mia, che hai lavorato per farlo no?
Dana : Bravissimo! Mi dai un bacino? Un bacione?
Do. : Guarda che c’è la signorina qui, non parlare male te!
Dana : Ma non parlo male! E’ una cosa normale! Adesso
come stai? E’ passato un pochettino il tuo dolore?
Do. : Il mio male è che i ginocchi non mi reggono più in
piedi, quello è il male!
Dana : Ma va là che quando sono appena arrivata
siamo andati in bicicletta a Tempio con mio marito,
in farmacia, e poi a San Polo a bere una birra e poi lui
è bravissimo, se non sono a casa fa le scale da solo, fa
la cyclette anche se ha un po’ paura, si fa la barba da
solo è bravissimo!
Do. : No, non è vero che mi faccio la barba da solo! Chi
mi taglia la barba quando mi taglio male? Te!
Giorgia : E allora deve insegnare a Simone a tagliarsi
la barba che non è in grado!
S. : Ha sentito?
Do. : Ehhh… vara che e femene le ocore par questo! .

253
Giovanni Saccon

Introduction, please

Tranquilli, non mi sono fuso il cervello, ma il titolo


straniero mi era utile per calarvi nell’atmosfera del
racconto di Giovanni.
Costretta infatti la sua famiglia a girovagare di
continuo di paese in paese, nell’accogliente terra
veneta di inizio secolo Giovanni non si è mai sentito
uno straniero, anzi… ogni paese ha avuto qualche
caratteristica particolare che si è incarnata in
Giovanni e gli ha permesso di superare momenti duri
e angosciosi, dalla guerra alle malattie, dalla povertà
alla fame.

254
Ramingo

<<Noi in famiglia eravamo dieci fratelli, dopo mio


nonno, mia nonna, mio padre e mia madre che fa
quattordici! Dopo è morto il nonno, dopo la nonna e
dopo hanno cominciato a sposarsi le sorelle e quando
io sono andato via dalla famiglia avevo già tre figli,
due Carmelo, due o tre Angelo, insomma quando sono
andato via dalla famiglia io eravamo in quindici dai
genitori. Eravamo quattro maschi e sei femmine noi
fratelli, stavamo a San Polo all’inizio, cioè quando
sono nato io a San Polo, perché mio papà mi diceva che
loro stavano a Fontanelle, tua nonna Amelia è nata
a Fontanelle, tutti a Fontanelle, tranne me e Carmelo
che siamo nati a San Polo. Loro da banda di mio papà
erano in ventinove in famiglia a Fontanelle! La casa
dove è nato mio papà l’hanno buttata giù adesso: mio
padre è nato a San Vendemmiano, nel Borgo Saccon,
che adesso si chiama Saccon il paese ma una volta
stavano solo Saccon là!
Io sono nato il 9 giugno del 1920, e ho fatto la prima
a San Polo, e dopo qua a Stabiuzzo, che quella volta
facevano solo fino alla terza a Stabiuzzo; e dopo ho fatto
la quarta a Roncadelle, che una volta erano le suore
maestre là, e dopo ho fatto la quinta serale, perché a
Cimadolmo non c’era, ma l’ho fatta dopo, da grande!
Da San Polo ci siamo trasferiti che avevo sei anni per
venire a stare qua a Stabiuzzo, nel Madorbo; eravamo in
affitto da Faganello, perché lui era in Belgio, nella casa
dove adesso sta Graziano, l’ex Sindaco di Cimadolmo.
Era il 1927: la zona del Madorbo è completamente

255
cambiata, una volta era crisi c’era, fame! A quel
periodo facevo le scuole a Stabiuzzo: là c’era un’aula
da una parte e una dall’altra, con un corridoio; c’era
la maestra Basso che faceva scuola, che veniva in
bicicletta da San Michele e andava a mangiare da
Furlan, e faceva tre classi: prima e seconda assieme e
la terza dopo mezzogiorno, e da sola! Non come adesso
che hanno dodici-tredici figlioli, una volta erano venti,
trenta per classe, erano tanti i giovani una volta!
Ma era anche una brava maestra e sapevamo più noi
con la quinta che i nostri figli con la terza media, perché
a noi ci insegnavano storia, geografia, che adesso le
hanno lasciate perdere; la storia bisognava saperla a
memoria una volta, cominciando dai Romani dalle
guerre Puniche, Garibaldi, Carlo Magno, la geografia
le capitali le sapevamo tutte, anche dell’Africa, adesso
non la insegnano più, la vogliono cancellare!
Noi sapevamo: tua nonna Amelia aveva fatto la quinta
a San Polo, ma lei sapeva più dei ragionieri di adesso,
come faceva i conti subito! Facevamo anche l’esame
di calligrafia noi, tua nonna Amelia scriveva come gli
amanuensi. Qua invece la quinta non c’era, andare a
San Polo la strada era lunga perché bisognava andare
a piedi, biciclette non ce n’erano, ne avevamo una in
dieci!
Ho fatto la quinta serale dopo sposato, a Navolè,
perché i miei cognati andavano a scuola, e sentivo che
parlavano, ma era marzo ed era cominciata a ottobre,
parlando così ho chiesto:
“Avete una bella maestra?” “Sì!”
“Vui venir a vederla!” mi sono presentato là e le ho
fatto: “Senta signorina: io avrei idea di fare il corso

256
anche io!”
“Ma guardi che è già marzo, loro vengono a scuola da
ottobre, si sente in grado?”
“Come tutti questi!” allora mi manda da uno che si
era ritirato per prendere il suo libro invece di andare a
comprarlo nuovo, e lui me lo ha dato. Dopo sono andato
alla scuola la prima sera, e dopo aver ascoltato le ho
detto: “Guardi: c’è solo una cosa, che sarebbe quasi da
vergognarsi, ma è proprio una roba che non mi ricordo
più, me la fa vedere?” “Cosa?”
“La televisione! Se lei mi fa vedere sulla lavagna la
televisione mi fa memoria e io imparo subito…” ha
cominciato a disegnare e io le ho fatto: “A guardi basta,
basta… visto tutto!”
Sono andato a far gli esami, mi hanno fatto fare un
tema e sono stato uno dei meglio dei tutti, nonostante
ci fossero tanti giovani che avevano appena finito
le scuole o erano stati bocciati e dovevano ripetere
la quinta, sono stato uno dei meglio ancora! Perché
una roba quando è imparata, se dimentichi cominci
a dimenticare tutto, ma dopo se ti fanno memoria ti
ricordi! Io l’alfabeto morse, ho fatto il marconista ed
ero uno dei meglio, ma non ho mai voluto prendere
il brevetto perché appena uno prendeva il brevetto lo
mandavano al fronte, se adesso me lo danno mi basta
ripassare e mi ricordo ancora tutto, punto linea punto,
anche i telegrammi una volta in posta arrivavano tutti
sulla cordella, come le macchinette dei telegrafisti o
quelle eotiche, a luce, le stazioni a luce con gli specchi e
il sole facevi punto, linea, punto… i marconisti invece
usavano la radio, erano tre cofani e dopo il cofano con
l’antenna, innestavi tutte le spine, con l’antenna su,

257
mettevi la cuffia e ricevevi. Ne avevamo diverse, come
350, R6, noi più altro le 2 e 3; con quelle trasmettevi
col tasto e l’altro con la cuffia riceveva e scriveva.
Ricevevamo sia cifrato che italiano: italiano era il
nostro alfabeto, cifrato erano anche le lettere straniere
per fare in tutto 26 lettere, più tutti i puntini, virgole,
accenti e derivazioni varie! Per essere brevettati dovevi
leggere e trascrivere 60 lettere al minuto, tollerabile
un tot. di sbagli, ma quando facevo gli esami facevo
apposta a sbagliare!
C’era un Maresciallo che aveva fatto la prima guerra
mondiale, per me è stato un padre, era lui che
trasmetteva; bravo a trasmettere, aveva una manina
leggera che sentivi tin, tin, tin. A quattro occhi mi fa:
“Saccon… ma che cazzo fai?”
“Perché dice?” “Ma che cazzo fai? Sei uno dei migliori e
quando sono gli esami mi fai tutto un pasticcio!”
“Maresciallo! Dove sono gli ultimi brevettati?” perché
mano a mano che erano brevettati occorrevano in
Grecia, occorrevano in Jugoslavia, occorrevano di
qua e di là, li mandavano via insomma i marconisti!
E allora mi diceva a quattro occhi che non sentisse
nessuno, con una mano sulla spalla: “Tieni duro
Saccon, tieni duro!”
E ho sempre tenuto duro fin che hanno cambiato il
Comandante di Compagnia; cambiato il Comandante
di Compagnia questo fa: “O brevettati o cambiare
compagnia!”
Io ho detto il brevetto no, e allora mi hanno cambiato
compagnia e mi hanno mandato telegrafisti. Come sono
andato telegrafisti, che da marconisti a telegrafisti è
una bella differenza, senza esami senza niente, dopo

258
due tre giorni mi hanno dato il brevetto da telegrafista,
perché un marconista che va a fare il telegrafista è una
differenza grande da quindici a sessanta al minuto.
Dopo più che telegrafista ho fatto il telefonista, perché
in Sicilia piantavamo i pali, mettevamo giù le linee
telefoniche, i fili; si era una Compagnia di Stato
Maggiore. Al fronte occorrevano tutti e due, ma
ogni compagnia doveva avere i marconisti, anche
l’artiglieria per trasmettere i messaggi, i telegrafisti
invece contavano poco, perché a loro più che altro
facevano i telefonisti, perchè in Africa andavano bene
perché in mezzo al deserto non c’erano ostacoli, ma se
come qua un telegrafista mette su una stazione qua,
se vi sono alberi non passa la trasmissione! Allora
andavano bene da collina a collina, o da collina a
montagna per modo di dire, dall’alto trasmettere
in basso, la differenza la facevano i telefonisti, ma i
marconisti erano dappertutto, con le stazioni installate
dentro le corriere, che potevi trasmettere stando dentro
nella macchina, usava le stazioni radio; usavamo le
R2, R3, senza fili, con i cofani, come il computer o il
telecomando della televisione.
Prima della guerra comunque la cosa importante
era che eravamo tutti fascisti; io non sono mai stato
tesserato fascista, però era dittatura!
Eravamo tutti fascisti, non potevi in osteria parlare male
del Duce e compagnia bella, perché ti ammanettavano,
c’erano i cartelli con scritto: “Qui non si fa politica!”
dovevi fare silenzio! A dire il vero facevano belle feste,
belle robe Mussolini, ha fatto cose buone bisogna dirlo,
ma il male più grande è stato quello di allearsi con
Hitler! Però, chiariamo bene: per andare al potere

259
hanno fatto anche tanti morti, hanno ucciso Matteotti,
qua chi era socialista prendeva botte e lo uccidevano e
poi ti facevano patire la fame, si stava male tanto, però
dopo preso l’Africa qualcosa era andato meglio; forse se
si alleava con Churchill noi saremmo stati meglio, ma
lui si è alleato con lo scemo di Hitler, un altro scemo
era Mussolini, erano due scemi assieme!
Dopo c’erano anche i fascisti buoni, come a San Stino
che ai poveri il Municipio dava un pasto di minestra
calda a mezzogiorno ogni giorno; non ho mai visto
come distribuivano, ma so che ce n’erano perché vicino
a noi c’era una famiglia che stava nelle baracche e ci
andava a mangiare la minestra calda: tante belle robe
e tante malfatte, come succede adesso!
Al sabato facevamo il sabato fascista, ma io lavoravo,
comunque a diciotto anni era obbligatorio per tutti il
corso da pre militare; ti davano moschetto in mano,
marciare, un corso di tre anni prima di andare soldato.
I fascisti invece, quelli tesserati, cominciavano da
avanguardisti a quattordici anni a fare il corso; mi
hanno chiamato anch’io, ma non ero tesserato, però
siccome rompevano sono andato una due volta, poi
non mi hanno più visto.
Quando stavo a San Stino di Livenza, dopo sono
andato a stare a Gorgo al Monticano. Eravamo in tre
classi a fare il corso, San Stino era un paese grande,
avevamo un Tenente di artiglieria che veniva a farci
il corso, poi c’era un sottotenente, un Capitano dei
fascisti, della milizia fascista, e dopo non so chi c’era
ancora. L’ultimo anno prendevano tutti i gruppi e una
squadra li mettevano ai mitraglieri, una ai telefonisti
e così via, e io ero stato messo al corso telefonista, ma

260
io non l’ho fatto perché ci siamo trasferiti a Gorgo e
là non c’era niente di queste cose. Allora sul libretto
personale era scritto che corso avevi fatto, perché
quando andavi al distretto per la visita lo mostravi
che i fascisti guardavano che corso avevi fatto; mi
hanno mandato lo stesso anche se non lo avevo fatto,
ma non era automatico perché se c’era richiesta di
altro ti mandavano da un’altra parte, fanteria ecc…
dopo guardavano anche la statura, perché i granatieri
dovevano essere alti uno e ottanta minimo, adesso
invece sanno prima dove vanno, una volta non eri
sicuro di dove ti mandavano.
Io sono andato a Trieste perché San Stino era sotto
Trieste, adesso è passato sotto Venezia, dopo mi hanno
mandato a Roma, ma altri sono andati da altre parti,
in bassa Italia soprattutto.
Per riassumere la mia vita da vagabondo: sono nato
a San Polo, sono rimasto là fino a sette anni, dopo
siamo andati cinque anni nel Madorbo da Faganello,
dopo sono tornato per un anno a San Polo, dopo a San
Stino di Livenza per sei anni, dal 1932 al 1939, dopo a
diciannove anni a Navolè di Gorgo al Monticano e nel
1940 partito soldato per Trieste.
Ma non è finita mica qua: tornato a casa ho fatto
quindici anni a Navolè, contando quelli che sono stato
via in guerra… dopo ho fatto un’altri dieci anni laggiù
nel Madorbo, vicino a casa tua, da Delfino Barro,
perché mia sorella Maria stava là, che aveva sposato
Gaiotto. Là ho fatto dal 1954 al 1966, dodici anni per
essere precisi, a fare cesti per Benvenuto Celotto e nel
1966 finalmente sono venuto a stare qua e da qua non
vado più via finché non mi portano via!>>.

261
La compagnia dei lavativi

<<A Roma da Trieste in treno: era pieno, ma alcuni


si sono fermati a Bologna, da altre parti, ma partiti il
treno era pieno. Venti giorni o più di viaggio in treno,
poi appena arrivati a Roma ci portano a Chiavari,
vicino Genova, in Liguria.
A Roma avevano preso su tutti i peggiori elementi del
reggimento e hanno formato una compagnia, la terza
compagnia marconisti. Io ero uno di quelli che non
volevo marciare, non volevo far niente e hanno beccato
me, un toscano e un abruzzese, della mia compagnia,
e dalle altre compagnie hanno preso su tutti quelli
che avevano tentato di scampar casa, quelli che erano
finiti in prigione, tutti lavativi infatti, e formato una
compagnia di scansafatiche! È venuto il Colonnello ad
accompagnarci alla stazione, là a mezzanotte, quando
siamo partiti, ci ha fatto la predica:
“Ho levato via tutti i lavativi dal reggimento, però un
reggimento senza lavativi non è neanche un reggimento:
sono sicuro che saprete farvi onore!” e con quella siamo
partiti per Chiavari. Là siamo rimasti un po’, poi ci
hanno mosso verso la Francia, a San Remo, Buzzala,
in Piemonte, poi tornato a Chiavari, poi nel 1942 in
Sicilia dove ho fatto quaranta giorni, poi sono andato
a Roma, quattro mesi a Roma, dopo di nuovo Sicilia e
là siamo stati fin quando gli Alleati ci hanno cacciato
fuori, sono tornato su al reggimento a Chiavari e da
là a casa. Questo per dire che i nostri capi avevano le
idee chiare.
A Chiavari abbiamo fatto la scuola marconisti famosa

262
che ti ho detto, ma eravamo un reggimento intero,
noi marconisti, poi due compagnie telegrafisti, tre
compagnie artieri, una compagnia deposito: gli artieri
una volta si dicevano zappatori, erano sempre del genio,
facevano le strade, ponticelli; ora si diceva artieri. Da
Chiavari siamo andati su a San Remo-Buzzana, ma
dovevamo andare in valle Clodia, poi è scoppiata la
guerra e noi siamo rimasti fermi un mese a San Remo,
poi un altro mese in Piemonte, provincia di Cuneo, poi
siamo tornati giù a Chiavari. Ci hanno fatto girare
perché una volta si girava tanto a spese del governo!
Scherzo: la prima volta che sono andato in Sicilia
sono andato da solo perché io ero a casa in licenza e la
compagnia era già partita e la seconda volta ero casa
in convalescenza e mi è toccato andare da solo anche la
seconda volta. La Sicilia l’ho girata quasi tutta, perché
abbiamo fatto linee telefoniche dappertutto.
Tu rispetta le abitudini dei siciliani, e loro ti rispettano,
ma questa è la regola di tutte le popolazioni! Poi sai
che i delinquenti purtroppo sono dappertutto, ma
tu rispetta le loro tradizioni e loro ti rispettano: noi
avevamo i bambini che ci portavano sotto la tende i
tortelli siciliani, le carrube, ma noi avevamo poco
rapporto coi civili, i soldati non potevano avere contatti
con loro. Ma io sono andato anche a lavorare da un
siciliano a zappare limoni, e lui ci portava fuori vino e
altro a bere, mentre lavoravamo un tanto all’ora e alla
sera ci dava i nostri soldi e via, a posto! Perché noi no,
tutte le mattine ci alzavamo presto e andavamo fuori col
camion a fare le linee, ma non erano tutti a far le linee,
c’era sempre chi stava all’accampamento, e quei giorni
che eravamo in accampamento avevamo combinato

263
con un padrone, che siccome gli uomini erano tutti via
e i contadini avevano bisogno, lasciavano che noialtri
soldati andassimo a lavorare da questi contadini,
quattro cinque ore, quel che si faceva. E noi si aveva
combinato di zappare i limoni e finito il lavoro soldi
subito, cinque franchi l’ora, perché se succede come
a Trapani quando che siamo andati a lavorare dai
contadini, e dopo è venuto ordine di partire e di sera
siamo andati dal padrone a tirare i soldi, ma era via
e così abbiamo perso i soldi e lavorato per niente, e
allora noi abbiamo detto che se succede così perdevamo
i soldi e allora lavoro, finito lavoro pagare, si andava
la mattina quattro ore, se tornavamo la sera pagava
la sera, altrimenti subito, soldi subito, finito il lavoro,
così se c’era da partire avevi i tuoi soldi, perché lavorar
per niente… non è nessuno che lavora per niente.
Poi è arrivato lo sbarco; noi avevamo solo schioppo
e cartucce, e loro venivano su con mitraglie e carri
armati, il nostro compito era di trasmettere gli ordini
e basta, tiravamo le nostre linee e quando è venuto
l’ordine di ritirarsi dovevamo portare via i fili. Solo
che abbiamo cominciato a ritirarci e dopo ci hanno
detto di ritornare là; era la fanteria, l’artiglieria, i carri
armati, tutti che si ritiravano e ci facevano con la mano:
“Ma dove cazzo ‘ndeo valtri?” “Ci hanno dato ordini
così…”. Arrivati là ci hanno dato ordine di ritirarci
di nuovo, ma noi dovevamo essere sempre i primi a
ritirarci perché dovevamo riavvolgere i fili isolanti con
le bobine, perché quelli permanenti sono rimasti là e li
hanno usati gli Alleati, ma i cavi dovevamo portarceli
dietro e ci ritiravamo con quelli, per questo dovevamo
essere i primi, ma dopo è successo che non c’erano più

264
camion perché erano senza nafta, ne era rimasto uno
solo, tutti si ritiravano, non ci hanno dato i camion, noi
eravamo a piedi col peso e alla fine abbiamo mollato là
tutto e abbiamo deciso di scappare via a piedi con loro.
Andando avanti abbiamo trovato al bivio di Cefalù
una mula, che aveva uno zaino e un schioppo della
Prima Guerra Mondiale, così con quella ho pensato:
“Invece de andar a casa a piè, ciape su a muea e monte
a caval!” vado avanti un pò, neanche a tempo di fare
venti metri, cominciano a mitragliare di continuo e
salto nel fosso per coprirmi, così arriva un triestino che
era sempre ubriaco mi frega la mula e ha trovato un
borghese che gli ha dato una borraccia di vino, e gli ha
dato la mula: dime ti! Poi siamo riusciti ad arrivare
a Messina pian pianino e attraversare in Calabria;
avevamo 24 uomini distaccati da noi e non li ho più
visti, se prigionieri o morti, tre feriti in Sicilia, a uno
avevano portato via un piede, poi c’è stato il grande
bombardamento di Palmi, in Calabria: là la compagnia
si è disfatta, morti, feriti, un morto sono andato a
trovare sua mamma in provincia di Milano, gli altri
tutti persi, ci siamo ritrovati in sette, otto col Sergente,
e siamo andati avanti per conto nostro da laggiù a
venir su a Salerno, venti giorni tutti a piedi. Poi da
Salerno siamo saltati su un treno, siamo andati fuori
per Caserta e fino a Chiavari, il 29 di agosto. Invece
quelli che erano riusciti a rimanere col Comandante di
compagnia, avevano i mezzi ed erano tornati su subito,
ma c’è stato anche chi è arrivato dopo di noi, che erano
arrivati a Trani e poi venuti su! Quel bombardamento
là i morti sono rimasti là, i feriti in ospedale credo, gli
altri chi di là chi di qua, quando cascano le bombe si

265
pensa solo a salvarsi la pelle. Io sono stato fortunato, una
esplosione mi ha coperto di terra, ma non mi ha ferito.
I bombardieri bombardavano tre per tre, andavano
via in nove alla volta, e noi eravamo rimasti sul mezzo
con le bombe parte per parte, quelli ai lati li hanno
presi; ne ho visto uno con una scaglia nello stomaco
e il polmone che era uscito dalla schiena. Noi siamo
scappati sotto una galleria. La mamma di questo l’ho
incontrata quando sono andato a lavorare a Bovino,
per caso. Ero fuori là dal dopo lavoro, dove andavamo
a mangiare, e ho visto uno dall’altra parte della strada
e mi sembrava di conoscerlo così l’ho fermato: “Mi ti te
conosse!” “Come fa a conoscermi?”
“Te conosse sì – gli parlavo in italiano perché te sa che
i milanesi no i capisse – te ricorditu quande te montea
de guardia e mi ere capo posto?”
Sì è ricordato e siamo andati a bere e mangiare qualcosa
da lui, e così gli ho chiesto se era possibile trovare
lavoro; lui mi manda da uno, che però in realtà era
questo qua che avevo visto morire a Palmi; ho trovato
sua mamma che mi dice che morto il figlio avevano
venduto tutto, e chiedendomi un po’ di particolari ho
capito chi era. Di 240 che eravamo sono rimasti 120,
ma non so morti, prigionieri, feriti, noi siamo andati
avanti per conto nostro, gli altri non so.
Poi a Chiavari è venuto l’otto settembre, e con
l’armistizio siamo scappati casa. Per strada i Tedeschi
ci hanno preso; ci hanno chiuso tutti quanti, un pochi
sono saltati in un fiume, ma non avevano ancora
ordini di catturarci, quindi ci hanno lasciato andare a
casa, ma la zona di Ventimiglia alla Toscana era tutta
sorvegliata da loro, perché avevano un Comando. Non

266
avevano però ancora ordini di portarci in Germania,
e dopo per strada ci ha preso un’altra pattuglia di
Tedeschi, ma il Sergente si è messo a chiacchierare con
noi, ci ha offerto una sigaretta, ha controllato gli zaini
se avevamo armi, poi ci fa: “Guardate, noi abbiamo
l’ordine di portarvi in Germania… arrangiatevi, noi
non vi abbiamo visto!” perché non erano tutti sfegatati
neanche loro, c’era chi la guerra gli ha toccato farla
anche a loro. Ci hanno lasciato andare, abbiamo
trovato dei vestiti borghesi e a Piacenza abbiamo preso
il treno per Milano, poi Milano-Venezia, perché a quel
tempo il treno fermava anche in aperta campagna a
raccogliere gli sbandati, dopo sono venuto casa, che
ho fatto di quelle corse coi Tedeschi e i fascisti che
venivano a fare i rastrellamenti, ma ho portato a casa
la pelle salva fino alla fine. Anche perché non c’erano
solo i rastrellamenti per costringerci ad arruolarci
nella Repubblica, anche i partigiani facevano qualche
malanno, tipo tagliavano le linee telefoniche e allora
i Tedeschi e i fascisti facevano il rastrellamento, chi
era preso lo portavano in Germania. Ero a Navolè
allora, e quando c’era un rastrellamento di là dalla
Livenza scappavano di qua, e noi scappavamo di là
quando c’era il rastrellamento di qua… a me hanno
anche corso dietro con lo schioppo, ma ho fatto a tempo
a scappare in un campo di pannocchie e da là non
sono uscito finché non se ne sono andati. Noi avevamo
la terra in riva alla Livenza e vedevo ogni giorno
venir giù morti, uccisi dai fascisti, dai Tedeschi, dai
partigiani e non so da chi! Dopo è finita finalmente!
Anche se alle volte è bello sapere la memoria, perché io
per esempio non avevo mai sentito parlare delle foibe,

267
o del bombardamento di Taranto, perché a noi non
facevano sapere niente, non c’erano giornali, la radio
era del regime, tempo di guerra c’era Indro Montanelli
che raccontava il bollettino, e dovevi alzarti in piedi
la sera quando era il bollettino alla radio, lui aveva
raccontato della caduta di un apparecchio, e con uno
la propaganda fascista facevano vedere che ne avevano
abbattuti dieci, lo prendevano da dieci angolazioni
diverse sempre lo stesso, ed era come se ne avevano
buttati giù dieci!>>.

Conclusione

<<Oggi fa freddo come una volta! Non proprio tanto


come una volta, che mi ricordo ancora di quando
avevo cinque sei anni, l’anno ’29 che era l’anno che si
andava dentro nella Piave che era tutta ghiacciata e
dopo è venuta via la grande crisi del 1929, la quota
90, il crollo della borsa! Quella volta là era una crisi
grande, grande, di gente che pativa la fame! Io non ho
mai patito la fame a casa mia, ma c’era, perché dal
1927 io stavo a San Polo e mio papà era andato in
affitto da Polito Faganello che era andato in Belgio.
Quell’anno aveva combinato sei campi di terra per
5000 franchi l’anno di affitto, che erano tanti all’epoca,
anticipati, ma quell’anno pagavano le gallette dei
cavalieri a quaranta franchi al chilo; allora mio padre
aveva fatto i conti, siccome i campi avevano tanti
moreri, si teneva tre quattro onze di cavalieri, aveva
fatto i conti che con le gallette più o meno quasi quasi

268
si pagava l’affitto. L’anno che vien, giù da quaranta
a diciassette, l’anno dietro ancora a quindici e due
anni ancora dopo a due franchi e mezzo al chilo! Però
l’affitto era sempre quello e bisognava pagarlo lo stesso,
ne avevi o non ne avevi il contratto era fatto e bisognea
pagar! Siamo andati in crisi forte forte, dopo andati
avanti, avanti, avanti sempre così fino al ’35 prima
della guerra dell’Africa; fatta la guerra dell’Africa,
abbiamo cominciato ad andare qualcosa meglio, dopo
nel 1940 ormai si andava quasi benin, ma sono andato
via, e dal ’45 finita la guerra sono stati gli anni del
boom, chi aveva comprato un sasso aveva una casa,
è andata sempre più su, sempre più su fino agli anni
’70, fino al ’75 siamo andati bene, dopo si è fermata di
nuovo. Per esempio qua a Cimadolmo, se fosse vivo tuo
nonno le direbbe una per una, erano andate a stare
nelle famiglie ad Annone Veneto, dove c’era un bosco
grande grande, mezzo del Comune di Annone Veneto
e mezzo del Comune di San Stino. Quelli di Annone
Veneto lo hanno tolto appena finita la Prima Guerra
Mondiale, e hanno fatto 90 case con dodici dieci campi
di terra l’uno, e l’avevano messi per la pro combattenti:
chi voleva andare là con riscatto, con un mutuo. Allora
tanti qua hanno venduto, diverse famiglie, e andati là
è venuta la famosa quota 90 e non sono più riusciti a
venirne fuori col mutuo e che hanno pagato sono stati
pochi e gli altri gli è toccato tagliar l’angolo, tanti sono
tornati indietro, tanti hanno mangiato tutto quello che
avevano, anche quel poco che avevano lasciato qua, è
stata quella famosa quota 90 che ha mangiato tutto
a tutti, è andata male! E dopo, solo finita la seconda
guerra sono arrivate le macchine per arare, macchinoni

269
che aravano fondo, e la terra fruttava di più, perché
prima rendeva poco; pensa che un anno abbiamo
seminato tre quintali e mezzo di frumento e raccolti
otto quintali, l’ultimo anno su otto campi di pannocchie
ottanta quintali di pannocchie, come su mezzo campo
oggi. Dopo noi siamo andati a Navolè di Gorgo, là
la terra è buona, si aveva una campagna grande,
trentacinque campi di terra, si faceva pannocchie, si
aveva frumento, cento-centoventi quintali di frumento,
duecento quintali di pannocchie, cinque sei onze di
cavalieri, era terra buona, si cominciava ad andare
benino abbastanza, dopo è venuta la guerra e siamo
andati via tutti e quattro, ultimamente… prima mio
fratello Carmelo nel 1939, che era del 1916, poi hanno
richiamato mio fratello più grande che era del 1910, e
allora siamo rimasti in pochi, abbiamo avuto servitori
ma nel 1940 sono partito io, e mio fratello Carmelo che
era stato operato di ernia e messo ai servizi sedentari
è stato richiamato di nuovo, eravamo via tutti quattro,
con a casa mia papà, mia mamma, mio padre e mia
sorella più grande. Dopo nel ’43 siamo tornati in tre
perché il più grande che era in Sardegna è venuto di
qua ma è rimasto nelle Marche fino al 1945, noi invece
subito. Io ero in Sicilia con tuo nonno, non insieme, lui
era da un’altra parte, era dove sono sbarcati, perché
sono sbarcati in tre posti, Gela, Licata e l’altro non
mi ricordo, poi lo hanno preso prigioniero e portato in
Africa. Io invece ero sull’interno e abbiamo cominciato
a ritirarci dopo due giorni dallo sbarco, fino di qua a
casa, dove ho fatto tante corse per via dei Tedeschi che
facevano rastrellamenti. Dopo nel ’45 eravamo casa
tutti, avevamo una buona campagna a mezzadria,

270
abbiamo cominciato a lavorare, si andava bene, bei
raccolti. Nel 1946 mio fratello più vecchio è andato via
e dopo nel 1954 sono andato via anche io, poi è andato
via Carmelo ed è rimasto solo uno come salariato e
alla fine è andato via anche lui e io ho fatto la mia
battaglia qua a far ceste; circa più di 60000 ne ho fatte!
Dopo sono andato alla Zoppas, finché sono andato in
pensione. La vita l’ho sempre vista più nera che bianca
infatti, non come voi adesso, che a diciotto anni vi
prendete la macchina e andate a correre!
Nel Madorbo si stava bene, eravamo tutti uniti una
volta, ci si salutava, adesso tutto è cambiato, una volta
ci si aiutava l’uno con l’altro, adesso i vecchi sono morti
tutti, ma una volta tutte le donne si trovavano in stalla
da voi o sotto la pergola di vite da me, e tutte le donne
del Madorbo giocavano a carte, al zinquilio tutta
la domenica dopo mezzogiorno, cinque sei donne si
davano il turno per venir via con la pentola, la Marina
Menegalda con la bottiglia di graspa, si era tutti uniti,
come una fratellanza. Adesso sono tutti per conto suo,
non è più come una volta, voi non vi conoscete neanche
tra di voi, ma con quella che noi una volta non avevamo
tanti mezzi, non come voi con le macchine adesso; una
volta erano le biciclette o a piedi, e allora ci si univa e
si andava assieme, erano altri anni. Ma l’adolescenza
non la dimentichi mai, a Loncon, anche se era fame,
non c’era niente, anche se adesso è cambiato tutto anche
là, mi pare ancora bello, perché l’adolescenza non la
dimentichi e dopo c’era allegria, gente che cantava,
anche a Navolè tanta allegria, perché c’era gente che
suonava la chitarra, si cantava nelle osterie, adesso
non si fa più. Loncon perché si stava in mezzo ai campi,

271
per chi era un amante della natura era uno spettacolo,
avevamo un bosco che confinava enorme, levavi su la
mattina in primavera e sentivi una musica continua,
uccelli di tutte le sorti, usignoli, tortorelle, cuculi,
anche la notte, fuori per i campi di primavera sentivi
la musica delle rane e delle raganelle, di continuo, per
gli amanti della natura era un paradiso. A Navolè
tanta allegria, avevamo anche preso la piattaforma
tipo balera per ballare, quando mi sono sposato
avevamo la cucina grande grande, eravamo sessanta
persone, e per stare caldi siccome era inverno abbiamo
preso i tavolacci della piattaforma e li abbiamo messi
in cucina per stare caldi, e dopo finito di mangiare
abbiamo tolto le tavole e ballato, suonato; una volta era
così ai matrimoni e alle feste, tutta la famiglia a casa,
al massimo chiamavi un cuoco o qualcuno che sapeva
far da mangiare, ma quasi sempre parenti anche loro,
con un pasto semplice; come primo risi e brodo con
cappone, piton e carne de bò, che venia fora un brodo
bon, ma bon veramente. Dopo mangiavi il lesso, dopo
i contorni, l’arrosto di pollastro o bò, salame, dolce
e caffé e si faceva all’epoca due pasti: a mezzogiorno
dalla sposa e a cena dal sposo, con intervallo in mezzo,
era un’abitudine, adess no la è pì!
Tua nonna che era mia sorella, ha cominciato ad
andare in filanda che aveva diciassette diciotto anni,
per cinque anni in filanda a San Polo dopo che avevamo
preso qua la campagna, poi nel 1937 si è sposata con
Aristide, anche tua zia Rita è andata in filanda, e
le altre mie sorelle poco più poco meno sono andate
tutte a servire i siori, serve dei siori; perché adesso le
nostre non vanno più e prendono le straniere, ma una

272
volta era così, ora son badanti, cameriere, una volta
si diceva serve, adesso hanno cambiato parola ma il
significato è lo stesso! Una, che è rimasta da sposare,
ha cominciato giovane da Facchin, a Cimadolmo, dalla
famiglia della levatrice, dopo ha fatto venti trenta
anni a Torino finché è tornata casa in pensione. Io
sono venuto via dalla famiglia e il primo anno è stato
brutto, perché volevo andare in Australia ma non mi
hanno voluto, in Francia non mi hanno voluto, Belgio,
Germania, niente, sono stato quasi sempre disoccupato.
Ero andato su a Bovino vicino Milano, su una impresa
edile, dopo mi sono venute due sciatiche e mi è toccato
scampar casa e allora mi sono adattato, sono andato
da Nuto Celotto a imparar a far ceste, andavo due tre
volte da lui, perché stavo là dove sta Delfino Barro,
nella casetta vecchia, dopo mi sono fatto portar la roba
da Minuti e ho lavorato dodici anni, poi dal ’66 alla
Zoppas fino al 1980 e adesso aspetto el kaputt, perché
ormai son arrivato all’ultima tappa>>.

273
Antonio Paladin

Dai Giol

<<Io sono nato il 5 settembre 1921, a San Polo di Piave


nella casa Vittoria della tenuta dei Giol, perché i miei
genitori erano mezzadri dei Giol con altri due fratelli
di mio papà, quindi tre famiglie di coloni. Noi eravamo
cinque fratelli, tre maschi e due sorelle. San Polo è
cambiato tantissimo da una volta, pensi che si faceva
tre chilometri di strada a piedi per andare a scuola,
che era veramente tanta e adesso la scuola l’hanno
buttata giù da tanto, dopo che hanno fatto le scuole
di via Campagna. Io stavo verso Rai, nella via che si
chiamava Casoni, in mezzo ai campi, a tre chilometri

274
dalla chiesa di San Polo. Ho fatto fino alla quarta solo
però, la quinta l’ho fatta in guerra, perché gli ufficiali
avevano chiesto, siccome eravamo fermi, se qualcuno
si sentiva di fare la classe quinta, e allora ci hanno
fatto le scuole e ci hanno dato il diploma di quinta, con
gli ufficiali che facevano da maestri.
Andare a scuola era dura, anche perché ho sempre
avuto poca passione, poi casa c’era tanto lavoro con le
bestie e la stalla, avevamo ventisette-ventotto capi fra
vacche e buoi, poi si aravano i campi, coi buoi, niente
trattori, e di campi ne avevamo quarantadue da farci,
tornavo a casa e lavoravo, undici anni lo facevo a tempo
pieno, lavoravo in stalla a pompare l’acqua, davo da
bere alle bestie, tutto a mano, pompare a mano, dare da
mangiare a mano, vitelli da mettere sotto le mammelle
della mamma, cose così insomma.
E a scuola si faceva mattina e pomeriggio, non sempre
ma qualche giorno sì: alle undici e mezza mandavano
casa, a l’una e mezza tornare a scuola, ma io non andavo
sempre a casa, perché c’erano le donne che andavano a
lavare là vicino, non c’era acqua una volta, bisognava
andare nei fiumi o nei torrenti, perché una volta
erano puliti, e allora facevano un viaggio lungo con
un fagotto di tutta la roba e delle ceste per mangiare,
si trovavano un poche di donne e andavano a lavare
assieme così si aiutavano anche. Allora io andavo là
a fine scuola se avevo il pomeriggio, perché davano
qualcosa da mangiare anche a me, strada ne avevo
meno, avevo più tempo per saltare e giocare durante la
pausa; eravamo dai venticinque in su per classe, e per
maestre avevamo due siciliane cattivissime!!! Ma se ho
imparato qualcosa l’ho imparato sotto di loro, perché

275
le nostre erano buone ma non ti insegnavano niente.
Poi c’era il sabato fascista da fare sempre, vestiti
bene come che voleva Mussolini, con le divise grigio
verde, la camicia nera, braghe celeste. Ci insegnavano
a camminare squadrati, facevamo giri intorno al
campo sportivo, che una volta era in piazza, ora è tutto
fabbricato, ma era vicino all’agenzia dei Giol, dove
adesso c’è un parcheggio e dopo ho sempre lavorato a
casa.
Ci siamo trasferiti qua a Roncadelle nel 1938 o 1939,
ma non qui, nella casa vecchia là in fondo, questa
qua è stata fatta dopo, ma la terra che abbiamo qua
l’avevamo comprata quando eravamo ancora laggiù,
poi altri due tre campi che avevamo in affitto vicino
alla nostra. Da mezzadri facevamo metà per noi e
metà per il padrone, la spesa metà per uno e si viveva,
non da siori, sempre da poreti, ma noialtri se sea
cavea ‘bastanza ben, perché anche essendo affittuari
avevamo terra nostra qua a Roncadelle, e nel 1938-
1939 siamo venuti qua. Qua andava da vivere, forse
meglio che sotto i Giol, ce la cavavamo, eravamo tre
fratelli, avevamo anche abbastanza viti e anche in giro
lavoravamo la terra degli altri, avevamo mezzo campo
a Stabiuzzo e tutta la terra dove adesso c’è il campo
sportivo di Ormelle, che là era tutto vigneto a quel
tempo. Però qua a Roncadelle erano tanto più poveri,
San Polo era una città a confronto, ma ce la cavavamo,
anche la gente era buona uguale, ci siamo inseriti bene.
La cosa veramente brutta era poi che ci sequestravano
le cose se producevamo più di quello che dicevano loro,
venivano per le case a vedere cosa avevi, se avevi tanta
uva, legna, vino, eri controllato e se avevi di più la

276
portavano via e poi ti davano una tessera per mangiare
e non potevi consumare più di quello che dicevano loro.
Eri controllato, anche Giol era controllato, lui lo doveva
dare tutto al governo; tanta gente non aveva neanche
la farina da far polenta, gli davano la tessera, ma la
razione era misera, non contava niente! Al sior non
facevano niente comunque, controllavano e portavano
via, anche a Giol toccava dargliela solo che ai signori
glielo pagavano quello che prendevano!
Dicevano che la davano a chi non aveva niente con le
razioni, ma i contadini che avevano poco morivano
di fame, non si poteva vendere la roba perché ti
controllavano, dovevano prendere quello che era in
più, era una cosa veramente brutta, tanti non avevano
niente e pativano la fame, il governo non dava niente
e razionavano tutte le scorte alimentari, anche quando
siamo venuti di qua ci toccava.
La casa qua l’ha comprata mio papà da giovane, c’era
già quando siamo arrivati, e siccome i fratelli di mio
papà avevano qua una casa a testa con sei sette campi
per uno, mentre noi eravamo affittuari a San Polo
avevamo gli affittuari a Roncadelle, capito come? I
nostri affittuari erano Botter, che stavano nella casa
vecchia nostra, su quella di mio fratello Arturo Neno
Vidotto e in quella di Massimo non ricordo più. Questa
casa qua è arrivata solo nel 1976, costruita da me, che
si era sposati già da un pezzo, fino a prima stavamo
laggiù. Mi sono sposato due volte a dire il vero, la
prima nel 1950, poi sono rimasto vedovo con tre figlie
e nel 1966 la seconda volta, con la qui presente Lia
Lorenzon di Negrisia, che ha avuto suo papà ferito
nella guerra del 1915-18…>>.

277
Alle armi, alle armi!

<<Mi hanno chiamato alle armi nel 1940 e subito


andato in guerra, il primo gennaio, ma sono tornato
a casa perché avevo una spalla rotta, sono andato a
Treviso per la visita ancora ingessato, allora mi hanno
spedito all’ospedale marittimo di Venezia, dove mi
hanno fatto i raggi e dopo mi hanno dato due mesi di
convalescenza; potevo tornare a casa e dopo due mesi mi
dovevo ripresentare alla visita per partire. Passati due
mesi mi arriva la carta per andare alla visita di Treviso,
vado e stavolta la passo e mi mandano a Laurana, che
adesso è Jugoslavia ma una volta era Italia e là si era
con il IV° Reggimento di artiglieria alpini. I miei amici
erano a Fiume, quelli con cui dovevo partire due mesi
prima, da là me li hanno portati a Laurana perché
avevano levato i più anziani dalla compagnia per
portarli in Grecia a fare la guerra in Grecia, mentre
le reclute sotto da due mesi hanno formato un gruppo
con i cannoni trainati, i 117 di calibro, mentre prima
eravamo artiglieria someggiata con i muli al seguito.
Da là, poco dopo, siamo entrati nell’aprile del 1940
in Jugoslavia. Non sono neanche mai venuto casa in
licenza, che volevo tornare a casa nel 1941 perché si
sposava mio fratello che aveva fatto la Russia ed era
anche tornato indietro; era del 1914, è venuto fuori con
Ioti Zanardo. La differenza da someggiato a trainato
è che i nostri cannoni erano obici da montagna, più
grossi, i pezzi non si smontavano, erano interi e venivano
trainati dai muli. Erano grossi per essere trasportati
a mano, ci volevano quattro persone solo per alzare

278
le stanghe per mettere in piedi la bocca da fuoco. Poi
come siamo entrati abbiamo fatto delle avanzate poco
alla volta, da Spalato a Sini, come siamo entrati siamo
andati sempre avanti, sempre avanti sempre avanti, ci
siamo fermati a Ajdosina. Da Spalato a Sini erano 40
chilometri circa tra le due città, e a Sini è cominciata
la guerra contro i partigiani: morta tanta fanteria là,
c’era un cimitero più grande di quello di San Polo,
tutto pieno. Noi no per quello, abbiamo avuto fortuna,
ma eravamo anche scortati sempre dalla fanteria, che
spesso veniva sacrificata. Di notte ma anche di giorno
la fanteria doveva andare su sulla montagna e veniva
mitragliata dai partigiani, un giorno ne sono morti
sessanta settanta, quel giorno che dovevano andare
a dare il cambio alla compagnia sulla montagna li
hanno uccisi tutti o quasi sulla strada per Livno, in
Croazia; da quel paese là intorno c’erano solo scavalcate
di montagna, e su quella montagna dove sono morti
quei ragazzi hanno combattuti tre divisioni: avevano
circondato tutta la montagna, hanno sparato per un
mese quasi, venti giorni sicuri e dopo i partigiani se la
sono suonata, sono andati giù dalla parte dove c’era
la milizia, perché loro ce l’avevano con i fascisti più
che con noi, e allora si sono buttati come belve sulla
milizia fascista e li hanno pugnalati, sgozzati, tagliato
le gole, ne hanno ammazzati a decine e se la sono
scappata; intanto noi siamo andati su e non abbiamo
trovato neanche un morto! Tre divisioni che sparavano
da un mese neanche un morto!!! Non sapevi mai come
prenderli, erano come lepri!
E poi si marciava tanto, Livno, Clamusc, Rovere;
abbiamo combattuto anche, ma ad ogni modo ce la

279
siamo sempre cavata abbastanza bene, perché se
potevano non ci attaccavano, ce l’avevano coi fascisti,
però dopo da là ci hanno ritirato nel corso del 1941, ci
hanno riportato a Sini, dove c’erano le caserme, con un
trenino che arrivava sino a Sini e basta: avevano detto
che non serviva più andare avanti. Là hanno tenuto
solo una batteria nel 1942, gli altri li hanno portati
a Spalato. A Sini e durante gli spostamenti facevo
servizio di guardia a turno ai muli o alla caserma,
fuori ai cancelli, o fuori in città, o in montagna se ci
fermavamo la notte con le tende a dormire fuori, o
nei paesi dove spesso trovavamo gente dove potevamo
andare a dormire. Infatti i civili slavi odiavano i
fascisti, ma noi alpini eravamo ben voluti, e ci dicevano
di stare a casa perché a noi non volevano fare niente,
ma ci toccava rispondere sempre:
“Siamo comandati, che dobbiamo farci?”. Anche il
rapporto tra ufficiali e soldati era buono, soprattutto tra
compagni mai fatte baruffe. Avevamo l’ordine di sparare
a chiunque si avvicinasse sia a Spalato che a Sini, ma
noi non abbiamo mai ricevuto bombardamenti, poi si
sparava sui paesi vicini per intimorire i partigiani.
Freddo tanto, non tanto a Sini, ma Clamosc e Rovere
fino a quaranta gradi sotto zero, Livno e le montagna
vicino alla Madonna le abbiamo passate tutte quelle
strade, abbiamo camminato tanto al freddo, eravamo
anche vestiti bene, no come in Russia che li hanno
mandati a morire.
Quell’anno del 1942 c’è stato veramente un grande
freddo, la nostra divisione era formata da due gruppi,
uno sempre a Spalto che aveva cannoni per pianura e
non potevano sparare in montagna perché erano dritti,

280
mentre i nostri erano da montagna e allora su e giù,
su e giù. Spalato era proprio una bella città vicina al
mare, le città erano belle ma i paesi male, male tanto:
poveri molto più di qua, case di terra, c’erano sempre
dei banditi che vivevano in montagna, che ogni tanto
venivano giù, prendevano e portavano via; almeno così
sentivamo dire dagli Italiani che vivevano là, poi non
so se era solo con loro. La nostra guerra è stata quella di
camminare tanto su e giù per queste montagne, e chi ci
salvava era la fanteria, come quella volta che all’altra
compagnia avevano portato via gli otturatori dai
cannoni durante un attacco: hanno sparato ad altezza
delle murette, mi ricordo i muli che si abbassavano
per ripararsi e i nostri sono scappati lasciando là
tutto, anche i cannoni, altrimenti li ammazzavano
tutti; erano quelli della terza batteria, noi eravamo la
seconda.

281
Poi sono venuto casa in licenza, sono tornato via, ma da
un colpo del mulo mi hanno trovato la pleure. Quella è
stata la colpa più grande mi hanno detto, ma secondo
me era il caldo freddo continuo che mi ha fatto venire la
pleure. Ero montato sul mulo che avevo come servizio,
con cui trasportavo i fili del telefono, ero il primo mulo
della batteria, avevo quello in consegna perché non
avevo istruzioni per usare i cannoni essendo andato
via dopo degli altri, quando sono arrivato mi hanno
dato questo mulo e dovevo portavo il filo per telefonisti
e telegrafisti, una cassetta per parte, cioè sessanta
settanta chili e un quintale e mezzo in tutto, avevo un
mulo grosso. Ero un conducente, ma essendo andato
via due mesi dopo non sapevo niente di cosa usare, mi
hanno dato il mulo e l’ordine di stare in testa dietro
il cavallo del Capitano, mentre noi eravamo sempre
a piedi sulle montagne, tante di quelle montagne che
metà basta, sempre camminare su e giù e che strade
d’Egitto, sempre mulattiere, e dal mare si passava alla
neve e durante uno di questi spostamenti sono caduto,
mentre cavalcavo la montagna, e dal caldo freddo poi
mi sono sentito ghiacciare lo stomaco dove avevo preso
la botta. Stà a vedere da cosa era la pleure, ma faceva
male tanto, così sono stato un mese e mezzo a Sini
in ospedale, che era un ospedaletto, mentre un altro
mese a Spalato, perché volevano asciugarmi l’acqua
che avevo nei polmoni e invece non si asciugava mai,
così me l’hanno tolta con una siringa e quando sono
stato meglio sono così venuto a casa per tre mesi in
convalescenza, dopo mi hanno richiamato via, ma mi
hanno dato due mesi di servizio interno qua in Italia,
solo che nel frattempo è cascato Mussolini e con quella

282
siamo scappati casa e la guerra per me è finita, mentre
i miei amici sono stati tutti presi dai Tedeschi e portati
in Germania, ufficiali e non ufficiali, il Generale nostro
si è pure ucciso perché dovevano uccidere gli ufficiali
e lui ha detto che siccome era l’unico a dare gli ordini
dovevano uccidere solo lui, così lui lo hanno ammazzato
e gli altri no: ha salvato la vita a tutti. Invece un
Capitano che ho incontrato dopo la guerra è stato
in Germania a lavorare per dei contadini, e quando
ci siamo visti la prima cosa che mi ha detto è stata:
“Adesso so quanta fatica che è fare il contadino!”
Invece il nostro Tenente è stato ucciso perché si era
lavato la divisa e stava per andarla a stendere su un
articolato e i Tedeschi gli hanno sparato subito, perché
pensavano volesse scappare, è morto subito. Così
è finita, dopo tanti sono tornati a casa. È stata una
fortuna per me stare male sennò mi toccava andare
in Germania come i miei amici, anche se per fortuna
quelli che conoscevo sono tornati tutti tranne uno,
perché era delicato sul mangiare, e là ne davano poco.
L’otto settembre ero qua in Italia, al deposito di Villa
Vicentina vicino a Fiume; siamo scappati in qua poi,
ma non ricordo più tanto adesso il paese quale era.
La notizia è arrivata per radio, noi eravamo tutti
contanti “Andiamo a casa, andiamo a casa”, arrivano
là gli ufficiali: “State buoni che stanotte a Trieste
spareranno sicuro contro i Tedeschi!” e allora ci hanno
portati fuori in strada con una mitraglia pesante, ma
dopo siamo scappati subito, i Tedeschi non arrivavano
e siamo scappati a casa per i campi in tutti quanti. A
piedi e in compagnia, da tutta Italia siamo arrivati
fino a Oderzo, vestiti in borghese, poi a Oderzo hanno

283
preso il treno; la strada non era tanta e non ci ha mai
fermato nessuno. Abbiamo avuto abbastanza fortuna.
Solo che alla fine ho rischiato più casa che in guerra
dopo>>.

La guerra in casa

<<Tornato casa ho ricominciato il lavoro; assieme


con me c’era via Angelo da Colfrancui, prigioniero
assieme ad altri del paese in Germania, con Cipollotti
da Cimadolmo, Marcuzzo da Colfrancui, e altri. Ma
qua a casa ho lavorato anche io sotto i Tedeschi, a
fare i bunker nella Piave, scavi, fortini, ma non hanno
contato niente, era solo per tenerci occupati, c’erano
degli ufficiali tedeschi anziani che ci comandavano. Ma
poi hanno cominciato a farsi vedere anche i partigiani,
che hanno fatto quel poco che potevano fare qua, in
montagna potevano nascondersi, ci voleva la montagna
per i partigiani, qua c’era la paura di tenerli in casa
perché se i Tedeschi lo sapevano uccidevano anche te.
Partigiano qua era Cella, Grigoletto, che è stato anche
ferito a una gamba, i fratelli De March, ma sono morti
tutti, a Ormelle Guido Simioni, che hanno dovuto
amputargli una gamba, ferito dai fascisti, perché
erano anche i fascisti assieme ai Tedeschi, gli avevano
sparato e hanno dovuto tagliarla altrimenti moriva,
poi c’era Maser, c’era Carrer, c’erano i partigiani,
c’erano anche qua.
Io comunque lavoravo nel greto della Piave, là nel
Madorbo, abbiamo rifatto gli argini e fatti scavi
quadrati nel greto, fondi un metro e mezzo dove dentro

284
poteva mettersi nascosto uno con la mitraglia. Qua
nella mia campagna avevo tanti di quei bunker lavorati
in legno e dopo coperti con la terra, erano nascondigli
dove andavano anche a dormire. Ci davano anche una
paghetta, ma non mi ricordo più quanto si prendeva!
Alle volte ti davano un lavoro da fare a contratto,
allora siccome gli Italiani sono sempre stati dei mona,
facevamo tutto lo scavo in poco tempo e così andavamo
a casa, perché funzionava che quando avevi finito di
fare quello che ti era stato ordinato potevi andare via,
e allora noi in poco tempo fare tutto, così il giorno
dopo venivano a casa a vedere cosa facevamo, perché
il loro compito era più che altro di tenerci impegnati,
allora abbiamo cominciato a lavorare poco per non
avere più seccature, ma se era a contratto si cercava
di stare poco pur di essere liberi. Qua a Roncadelle
per fortuna non hanno mai bombardato, a Treviso sì
gli Americani, Ponte di Piave è stato ribaltato sempre
da loro: dicevano che credevano che Mussolini era a
Treviso, in realtà qua gli Americani non hanno fatto
niente, solo bombardato, ma non si sa cosa perché i
Tedeschi sono andati via pacifici e tranquilli quando
hanno deciso loro.
Finita la guerra ho ripreso il solito ritmo del lavoro
sui campi, con tutta la famiglia. Dopo ci siamo diviso
tra fratelli, io sono venuto a star qua, gli altri per altre
strade.
Qua però è cambiato tutto, da noi giovani ai giovani
di oggi è un abisso, sarà anche una fatica lavorare di
testa ma non so se continui questa bella vita, speriamo,
ma io penso di no, le fabbriche cominciano a chiudere,
tornerà ancora la crisi perché certi lavori non vuole

285
più farli nessuno, non la vedo tanto bene. Sulla terra
poi si muore da fame oggi, non si prende più niente,
bisogna avere tanto per viverci, e solo il vino va oggi
perché la biada costa meno della legna, pensa che
bruciano la biada perché costa meno e allora dove si va
a finirla? Questi poveri contadini! Solo le famiglie che
hanno tanto se la cavano, gli altri, i piccoli proprietari,
spariranno tutti, torneranno i grossisti come una volta,
i Giol e i Papadopoli di una volta, i grandi signori e
una sfilza di affittuari! Io spero che non si torni così,
perché per un periodo è andata abbastanza bene per i
giovani, tutti che hanno studiato e hanno fatto bene,
una volta non te lo potevi permettere se non eri ricco:
solo lavoro una volta, ma ho tanta paura che si torni
ad avere due tre padroni e tanti poveri.
Anche le persone sono cambiate, ora quel poco che mangi
non è più misurato, una volta non potevi permetterlo,
neanche nel vestire e nella vita fuori, non ti mettevi in
mostra così come oggi, una volta erano più tranquilli
perché la vita era più dura, oggi invece se possono
fanno male, uccidono la gente per la strada per avere
due soldi. Eravamo tanto più poveri noi, ma più ricchi
dentro, la libertà da noi ha portato tante cose buone,
ma ha portato la gente a comportarsi peggio delle
bestie, perché si sentono tutti liberi di fare quello che
vogliono, soprattutto di fare tanto male alle persone.
Non c’è più nessuno oggi che frena l’uomo, così adesso
ci sono delle persone che fanno del male proprio per il
gusto di fare del male.
Però è una bella cosa che i giovani si interessino di
queste cose, è un bel ricordo di un mondo che non c’è
più, perché è tutto cambiato ormai, non c’è più niente

286
come una volta, della vita di una volta si potrebbe fare
un libro solo di quella>>.

No, non credo ce ne sia il bisogno… un libro è un


ricordo solo quando viene letto, diventa storia se letto
da molti, se è identico agli altri viene invece lasciato
su un comodino a prendere la polvere. Non dev’essere
questa la sorte delle memorie di Antonio e di tutti gli
altri che qui si alternano ne raccontarci la loro vita,
ne sentiremo il bisogno in questi anni, perché stanno
prevedendo quello che accadrà alla nostra società se
non apriremo subito gli occhi per affrontare le nostre
responsabilità e le nostre colpe.
Un tempo vecchiaia era sinonimo di saggezza, ora di
imbecillità. Scusi Antonio, mi scusi tanto per tutti i
giovani che lo credono, ma i veri imbecilli siamo noi
che crediamo queste cose.

287
Toni Menegaldo

Sì, Toni non Antonio… perché mio zio lo conoscono così,


con i baffi lunghi e arruffati, le mani forti, il sorriso
sulle labbra e la battuta pronta. Antonio Menegaldo,
ultimo ormai di una famiglia numerosissima, la
bandiera del nostro piccolo borgo.
Antonio Menegaldo ha vissuto una vita avventurosa
nelle grave, ha lottato come un leone in Grecia durante
la prigionia, è tornato a casa e si è inventato un mestiere
nuovo, che ha portato avanti fino a pochi anni fa…
così pochi che molta gente va a ancora a trovarlo per
avere qualche trota, non ricordandosi che ormai tutto
tace nella peschiera. O forse, ci va solo per farsi una
chiacchierata con questo indomito guerriero.

288
<<Sono nato qua nel Madorbo il 5 ottobre del 1922.
Varda che questo qua l’è el posto pì vecio de tuta
Zimadolmo! Ho fatto le scuole elementari a Stabiuzzo,
tre erano a Stabiuzzo e ho fatto quelle là, basta!
Una volta eravamo tanti, non mi ricordo quanti ma
trenta sicuri! Le maestre erano brave, erano da qua
soprattutto, ma un mese abbiamo avuto anche una da
Napoli, dopo è andata via; noialtri no se fea combater,
se te fea combater tant i venia casa a ciorte, era mejo
no far combater parché ‘na volta punivano!
La casa dove sono nato era dove oggi c’è l’osteria, l’osteria
da Eros, che una volta era tuo nonno ad aver l’osteria!
Là una volta mio papà aveva messo su una baracca,
tuo bisnonno Luigi aveva fatto una baracca per osteria,
che prima era di un certo Zamuner da Saletto, e io sono
nato dentro là, ma se era tuo nonno sapeva tutto meglio
queste cose qua, da piccolo facevo il piccolo, avevamo
solo l’osteria e dopo siamo venuti a stare qua, sulla casa
là davanti, due anni. Dopo il papà a suon di debiti e
roba si è fatto su la casa lui, da solo ha fatto su la casa
qua dove sto, dopo aver comprato la terra; ma tuo papà
era già grande, ha aiutato anche lui a costruire questa
casa qua, l’ha comprata dopo la guerra. Dal Traghetto
non c’era ancora niente quando ero giovane, avevano
provato i Tedeschi a fare una passerella, ma è durata
pochi mesi, perchè qua quando l’acqua corre porta giù
legna, travolge tutto. Poi i Tedeschi avevano messo le
barche in ferro che non galleggiavano quindi non è che
servivano a tanto. Ne hanno anche tirate su una volta,
poco tempo fa, c’erano dentro quattro cinque fucili che
potevano ancora sparare, perchè avevano ancora le
cartucce funzionati e i meccanismi grassati. Non c’era

289
molto da lavorare, ma la fornace aveva portato lavoro,
perchè eravamo noi del Madorbo a lavorare là come
manovali, oppure a fare gli argini, a portare i sassi
alla fornace; si faceva il possibile con quello che c’era,
qua c’era acqua dappertutto, perché gli argini erano
appena stati riparati e l’acqua veniva su da sotto,
c’erano pesci, anguille, andavamo a pescare da piccoli
e facevamo giochi semplici, come rincorrersi a piedi, o
gare di corsa o il gioco della campana, che bisognava
saltare con una gamba sola. Altrimenti andavamo sulle
“risoe” a scivolare e facevamo a gara a chi arrivava
primo per terra.
Prima della guerra invece io ho fatto di tutto, il
traghettatore, ma poco! Andare a Treviso in macchina
non si poteva, non c’era il ponte di Cimadolmo e
macchine erano pochissime, allora usavano le barche
per attraversare, ma erano i Gaiotto più che tutti, dal
Traghetto, io ho fatto poco. Quella volta gli hanno dato
il permesso di far su una baracca e da quella guarda
cosa è diventata! Io una volta facevo quello che non
fanno più i bambini oggi: scappavo nelle Grave a
fare il bagno e prendere i pesci con la mani! Poi ho
cominciato a fare il cariota; da quel che mi ricordo noi
avevamo sempre avuto i cavalli, portavamo i sassi per
la fornace di Bortot, che allora si chiamava Morandi,
prima della guerra, si faceva tutto a mano. Adesso non
so come facciano, dovrei andare a vedere a San Michele
come fanno a bruciare i sassi, perché è ancora uguale
ma non so come facciano a buttarli dentro e a tirali
fuori, perché una volta li tiravano fuori con un badile
da sotto, adesso tirano fuori dei ferri e casca la calcina
cotta in cima a un carrello che poi tirano fuori; io al

290
tempo facevo solo due viaggi al giorno, con un cavallo,
adesso vedo che con i camion è un continuo! Pensa che
invece per andare a portarli a Oderzo potevi farne solo
uno ogni due giorni!
Non andavo neanche a fare il pro militare perché io
i fascisti, hai capito vero? Poi ero sempre a lavorare
distante coi cavalli, e allora mi hanno cancellato, non
sono più venuti in cerca, ma mi hanno rotto lo stesso,
perché dicevano che chi faceva questa cosa invece di
fare due anni faceva due mesi solo, come no! Dovevi
anche difenderti però, perchè se per casa ti venivano i
fascisti dovevi fare quello che volevano, non si poteva
scherzare tanto con loro, e ce n’erano tanti anche qua,
soprattutto quelli delle famiglie più ricche! Come
legge, avevano solo quella del più forte, ma non era
ammesso per legge entrare in casa degli altri! C’erano
quelli più fanatici che entravano di notte, perchè loro
andavano sempre di notte, entravano in casa a pestare
la gente, spaccare i mobili, ma non era ammesso,
quindi tanti, tentavano di tirarti fuori casa con una
scusa per farlo; poi se uscivi ti bruciavano la casa, come
hanno fatto a Roncadelle, allora era meglio stare in
casa e prenderle, perchè se uscivi la bruciavano! Qua
comandava Zanutto, che abitava dove oggi c’è la casa
di Delfino Barro. Erano due fratelli, ognuno aveva il
suo baracchino come “ufficio”, quartier generale; uno
di loro è ancora vivo, e stà là dal mulino di Stabiuzzo
dove facevano dei festini fascisti fino al 1956, poi i
Carabinieri li hanno scoperti e li hanno fatti smettere
tutti. Poi quando si passava davanti alla bandiera
del re bisognava salutarla, altrimenti ti punivano, ti
facevano bere l’olio di ricino! C’era poco da mangiare e

291
i fascisti andavano per le case a sequestrare i prodotti
agricoli se producevi tanto, dovevi andare al sabato
fascista, indossare la camicia nera, cantare le canzoni
sul duce, portare un berretto nero, il cibo era razionato,
avevi un tesserino coi bollini e il fornaio ne staccava
uno ogni giorno e ti dava un solo panino! I fascisti
invece potevano prendersi quello che volevano, come
hanno fatto col tabacco: non hanno voluto pagare le
sigarette e allora hanno ucciso tre persone e il tabaccaio
ha dovuto dargliele tutte! Tante volte entravano nei
pollai, ti rubavano una gallina e poi ti chiedevano di
cucinarla, il mangiare, solo quello che ti davano loro,
eri il loro schiavo, ti tenevano all’amo! Poi quella volta
che Mussolini era scampato all’attentato bisognava
suonare le campane a festa e il prete di Cimadolmo,
che era antifascista non ha voluto, così fu pestato a
sangue e buttato dentro la canonica, l’hanno chiuso a
chiave e non gli hanno dato da bere e mangiare per tre
giorni!
Io me la passavo anche bene per quello, perché il
sabato fascista andavo se proprio ero costretto, sarò
andato due volte in tutto. Il sabato pomeriggio, con
Savoini, che era uno buono, non come Carraro! Se ne
fregava abbastanza, nel senso che era fascista ma se
uno non voleva essere fascista a lui non dava fastidio,
ti rispettava. Una volta gli ho chiesto, prima di partire
per militare, gli ho chiesto se mi dava le carte che
testimoniavano che avevo fatto il pre-militare, e lui mi
fa: “ E ma ti no te sì mia vegnest a far el pro mijtar! Te
vea da farlo tutt!” ma era buono, potevi stare tranquillo;
tornato a casa dalla prigionia l’ho trovato in piazza gli
ho tirato una sberla forte, ma forte forte sulla schiena e

292
gli ho fatto: “Veditu che inveze de sie mesi ghi n’ho fat
tre ani de guera?”
“Toni de domande scusa, curi che ‘nden bever
un’ombra!”.
Sì, era per dire che c’erano le persone cattive e quelle
buone, perché non interessava quello che pensavi, e
facevano i fascisti perché gli conveniva essere fascisti
ma non lo erano in fondo, cussì e và e robe! >>.

Corinto

<<Sono andato via che avevo diciannove anni e due


mesi, al principio del 1942, mandato in Jugoslavia e
dopo mandato in Grecia, ma in Grecia si stava bene,
non era quel disastro che c’era dall’altra banda, in
Jugoslavia; là erano botte, ci uccidevano i partigiani
slavi, sparavano di continuo! Eravamo andati a
comandare in casa sua, facevano bene ad ammazzarci
vuoi che non facessero niente? No ah!
Io ero nel V° reggimento artiglieria, avevo fatto
addestramento a Padova, stavo ai cannoni, avevo
quelli del 76/40, erano grandi, a pezzi messi per terra,
si stava in dieci per cannone e quelli sì che facevano
male alle orecchie! Quei cannoni là erano quattro pezzi
e venivano portati dalle macchine, erano cannoni per la
contraerea, sparavamo le bombe del 76/40, bombe con
tanta carica di lancio, buttava distante per quello, ma
per contare qualcosa no, quando sparava io ero fermo al
pezzo, non facevo pattuglia notturna, ero fermo al pezzo
sul canale di Corinto, in Grecia. Dovevamo sparare

293
agli apparecchi che bombardavano il ponte di Corinto,
perché se lo buttavano giù le navi non passavano più,
toccava fare un giro grande e passare davanti agli
Inglesi. Venivamo bombardati dagli apparecchi e noi
eravamo là coi cannoni che sparavamo alti uno fronte
all’altro, in modo che se arrivava la bomba cadeva
in mezzo al fuoco e veniva colpita in aria, uno qua,
uno là, uno di là, così agli apparecchi toccava stare
alti per non essere colpiti e se arrivavano giù le bombe
erano distrutte da noi in aria, perché se buttavano giù
il ponte non passava più nessuno per di là. Era meglio
comunque il bombardamento della Jugoslavia, perché
di là c’erano i partigiani che non ti lasciavano stare,
ma c’era più povertà in Grecia che in Jugoslavia, là
non mi pare che ci fosse così miseria.
Sono rimasto in Grecia due anni, poi mi hanno fatto
prigioniero, ma siccome i Tedeschi non hanno fatto
a tempo a portarmi via sono rimasto là in Grecia fin
che sono arrivati gli Inglesi, che poi mi hanno portato
a Taranto, dove c’era anche tuo nonno. È andata che
era arrivata la notizia dell’armistizio l’otto settembre;
soliti tradimenti degli Italiani e i Tedeschi ci hanno
preso prigionieri, perché eravamo con i tedeschi, noi
gli abbiamo voltato le spalle e loro sono stati più veloci
e ci hanno preso tutti prigionieri. Mi hanno tenuto un
anno là in prigionia, poi i Tedeschi sono scappati e
non hanno fato a tempo a spostarci e siamo rimasti
là in Grecia; è arrivata l’Inghilterra! Gli Inglesi sono
arrivati che i Tedeschi erano già scappati, ci hanno
caricato e portati a Taranto, circa duecento saremo
stati, alla fine del 1944. L’otto maggio del 1945 mi
hanno anche dato la croce di guerra al valor militare.

294
Sotto prigionia si soffriva, mangiare poco ti davano,
ci avevano messo in un campo, ci facevano anche
lavorare, dopo portavano il mangiare con le marmitte
grandi ma non bastava mai. Ci facevano fare tutto
quello che gli interessava, quello che gli faceva comodo,
anche sciocchezze: mi ricordo che in Grecia, in un
paese che si chiamava Lamia, c’era una polveriera di
bombe, polvere e cannoni tanto grande; là arrivava
tutta la roba dalla Germania e la mandavano dove
serviva, era una specie di centro di distribuzione delle
armi tedesche, poi finita la guerra l’hanno distrutta,
c’erano ancora delle bombe nuove e intatte dentro.
Era come un deposito, la fabbrica era in Germania e
là mandava le armi, se ci cadeva sopra una bomba
degli apparecchi non so cosa succedeva, saltava per
aria la Grecia penso, perché era grande da qua alla
Piave! Fortuna che ero forte da giovane, ho salvato la
vita a tanti perché per esempio uno qua da Monastier
era morto sicuro se non c’ero io, dopo era anche altri,
ma a me è sempre andata bene perché avevo coraggio
non avevo paura, avevo tanto coraggio; a uno quando
che mi penso che toglievo i pidocchi uno a uno dagli
occhi tutte le sere, robe neanche da non credere! Con il
sole non ci vedeva più, diventava orbo del tutt, quando
il sole andava via ci vedeva qualcosa… era Rigato
da Monastier questo che ti ho detto, era malamente
tanto, anche perché era diventato cattivo tanto per la
debolezza, ma aveva la mia età e ascoltava solo me,
perché avevo tanta forza, mi arrangiavo col mangiare
ed ero preso meglio degli altri, allora gli davo di quelle
sberle sulle orecchie per portarlo a lavarsi il muso, mi
toccava dargliele per costringerlo a lavarsi perché non

295
voleva lasciarsi toccare.
Poi fuori dal campo c’erano i Greci, che erano come
noi, precisi, altro che non parlavano l’Italiano, ma se
potevano buttavano dentro qualcosa da mangiare. La
Grecia era il paese più caldo di tutta l’Europa, siamo
passati dai quindici sotto zero, diciotto, ai trenta
della Grecia e quindici gradi tutto l’inverno, ma in
Jugoslavia sono stato poco.
Da Taranto siamo venuti su malamente vestiti da
prigionieri e tutto, venuti su fra Roma e Napoli ma
ancora vestiti malamente, non ci avevano preparato per
tornare in guerra. Dopo ci hanno portati a Bracciano
di Roma, ma ormai gli Italiani erano con le macchine
Inglesi, perché non avevano roba ma i soldati erano
Italiani; era su anche tuo nonno! Là ci hanno vestito
meglio, da Inglesi però! Ci hanno dato subito fucile,
moschetto e cannone, perché dovevamo andare al fronte
contro i Tedeschi, ma su quello che ci preparavano è
arrivato il 25 aprile e la guerra è finita, eravamo pronti
per andar via a combattere, ma su quello è finito tutto,
mejo cussì! I Russi hanno occupato Berlino e la guerra
è finita! Il Tedesco non è stato come gli Italiani che
cercavano solo di scappare, ha combattuto fino alla
fine, Mussolini invece è scappato, quell’altro per non
farsi prendere si è ucciso.
Poi sono tornato su, a casa e qua ho ritrovato quello che
ti ho detto, che mi aveva detto che facevo sei mesi solo!
Prima comandavano i fascisti, dopo all’improvviso non
comandavano più, spariti tutti, prima tutti fascisti,
dopo la guerra spariti tutti, varda ti! Non era più
fascista nessuno, mah! La vita politica è cominciata
poi, era una novità, ma qua non contava niente, anche

296
perché erano tutti democristiani, tutti della DC, io
invece sono un comunista, da sempre, convinto anche,
da sempre! Ma non tante baruffe come adesso, erano
lotte ma mai scoppiate rivoluzioni, qua mai stato il
pericolo della rivoluzione comunista, in Spagna hanno
provato, anche un fratello di Toni Sartor è morto in
Spagna durante la rivoluzione del 1936-1939, che
era ancora più comunista di me. Anche Toni Sartor
è comunista per quello, ma non c’è mai stato qua le
storie di don Camillo e Peppone. I fascisti subito non
c’erano, solo che dopo si sono rifatti vivi, verso gli anni
’60, che è andato al governo l’MSI!>>.

Vita madorbina

<<Quando sono tornato a casa qua era tutto come


prima per fortuna, ma c’era niente da lavorare. Non si
vedeva l’ora che arrivasse il tempo delle vendemmie e
della potatura che i contadini avevano bisogno di gente
per lavorare, perché qua non c’era nulla di nulla, anche
la fornace era chiusa, ha riaperto solo negli anni ’60.
Ho fatto anche il cariota per loro: con un cavallo e un
carro pieno di sassi: per portarli alla fornace di Oderzo
ci mettevo quattro ore, e dovevo far sosta a Faè per dare
da bere al cavallo. Si stancavano tanto, portavano più
di venti quintali, e viaggi così potevi farne solo uno ogni
due tre giorni, di più era impossibile per il cavallo.
Ne avrò fatti a migliaia di viaggi, i camion sono
arrivati dopo, tanto dopo, ma sono stato il primo a
usare il camion qua nella zona, e anche a comprare lo

297
scavatore, perché prima era fatto tutto coi badili. E con
il camion, abbiamo fatto asfaltare la strada che va alla
fornace, perché prima erano tutte in ghiaia. Stavano
asfaltando in piazza a Roncadelle, e Isaia Bortot ha
combinato un buon prezzo per asfaltare anche il pezzo
di strada che interessava a lui. Ma tutti hanno messo
i soldi, tutta la gente del Madorbo ha pagato quella
strada.
Ho fatto anche il barcaiolo, ma prima della guerra,
avevo quindici sedici anni, prima della Maria Gaiotto.
Era un lavoro buono, passava tanta di quella gente;
li portavo di là con la barca, guadagnavo anche 50
lire su una giornata, perché io mi facevo pagare eh!
Li portavo di là e non li facevo scendere se prima non
pagavano! E poi ero l’unico che aveva il coraggio di
passare quando la Piave era alta, perciò mi pagavano
bene, perché quelli che avevano urgenza venivano da
me.
Tornato casa della guerra avevo passione per la
bicicletta e ho comprato una bici da corsa per mio
fratello Decimo, e il lavoro del traghetto l’ha fatto la
Maria e la Dilva Gaiotto.
Eh Decimo…mio fratello più grande Aristide aveva
corso due tre anni, ma ci voleva tanta passione,
un allenatore, tanto tempo perché servivano tanti
allenamenti, 100-150 km al giorno in cima alla
bicicletta se volevi vincere. Decimo era bravo invece,
aveva vinto belle gare, gare grosse, come la Valdastico-
Brenta a Vicenza, il Giro degli Altipiani di Asiago,
tutte strade in terra e ghiaia, mica in asfalto! Ne ha
vinte una decina, ma non davano niente una volta,
davano un qualcosa come 10 euro di adesso, neanche

298
una coppa, non c’erano una volta, la prima coppa che
hanno fatto l’ho presa io vincendo al torneo di “Burea”,
che era un gioco che dovevi colpire tre bastoni in piedi,
simile al cricket. L’avevo vinta a Roncadelle, c’erano
delle zone per la rincorsa, che non potevi superare;
giocavo in coppia con Isaia Bortot. Bisognava stare
dentro i segni per la rincorsa, per la caduta dei birilli,
per il lancio della palla, e l’abbiamo vinta noi in coppia,
e da singolo l’ho vinta io!

Poi qua da noi c’era anche il Sindaco, Attilio Truccolo,


il papà di mia moglie era il Sindaco del Madorbo.
Avevamo fatto una festa tra di noi e lo avevamo
nominato Sindaco, una cosa giovanile, anche goliardica
se si vuole: abbiamo fatto questa festa del Madorbo
là dal Traghetto, ma non c’era un periodo preciso,

299
la prima fu in primavera, ma la facevamo quando
volevamo, era una cosa per ridere. Il primo Sindaco
fu Attilio Truccolo, io non l’ho mai fatto, perché era
lui per noi il nostro Sindaco, e lo rispettavamo. L’anno
che l’abbiamo fatto era il 1950, e poi lo abbiamo
confermato per tre mandati! Era così perché qua nel
Madorbo c’era l’osteria che lavorava più di tutti, perché
la gente diceva: “Dai che ‘nden tutti in tel Madorbo
a passar un po’ el temp!” perché c’era più compagnia
qua, c’era gente di compagnia, venivano tutti qua, da
Cimadolmo, da Roncadelle, anche il papà di Benito
Spagnol era sempre qua, perché dicevano che qua c’era
più compagnia, si giocava alle carte, si parlava di
politica, c’era l’aria aperta, il fiume, c’era compagnia
e svago insomma! E poi durante la festa del Madorbo,
mi pare la seconda o la terza, Valerio Giacomini che
aveva studiato la nostra storia perché era innamorato
di questo posto, aveva anche letto la storia del Madorbo,
e diceva lui che il nome veniva da una leggenda che
qua una volta la gente moriva di una malattia che non
si sapeva cos’era, e che si diceva che era il “mal orbo”,
cioè una malattia che non si sapeva cos’era. Poi qua
c’è sempre stato il “panevin”, e anche adesso viene più
gente qua che da altre parti!
Certo qua è cambiato molto rispetto a una volta.
Una volta non c’era proprio niente, neanche una
coltivazione c’era allora,se venisse qui uno che era stato
qua sessanta settanta anni fa non riconoscerebbe più
nulla! Io mi aspetto che questa zona venga ricordata,
perché è veramente antica, basta vedere le case: quelle
che sono abitate adesso c’erano anche prima della
Grande Guerra e dureranno altri duecento anni,

300
perché le hanno fatte come comanda! Per il resto, lo
dirà il tempo…
L’attività a casa invece, qua con le trote è durata più di
trenta anni, ma è cominciata per caso: avevano messo
i vincoli alla Piave che non potevi più andare dentro a
cavar terra e sassi, allora mi son informato da Bortot
quanto pagavano la ghiaia in giro e gli ho detto che
se mi dava il doppio andavo per le grave, altrimenti
no, perché adesso si trattava proprio di rubare, mentre
prima non c’erano problemi, e non avevo intenzione di
prendere una multa e rimetterci, allora sono rimasto
casa, perché lui mi ha risposto che non ne aveva più
da darmi. Poi quell’anno è venuto secco e si è seccato
il pozzo e noi qua davanti avevamo tutte viti, e allora
o mettevamo giù una pompa che pompava l’acqua, o
un altro pozzo o prendevamo un trattore, perché era
bisogno di dare l’acqua, alle viti. Allora abbiamo messo
giù una pompa in fondo al campo, e da quella è partita
l’idea. Ho chiamato i ragazzi di mio fratello Decimo a
fare il buco con la scavatrice e ho buttato dentro un po’
di trote e là ho detto “se vivono vivono, altrimenti non
importa, mangiamo trote per un po’”. Trenta quaranta
trote in tutto erano all’inizio! Questa è una delle ultime
case fatte nel Madorbo, la vostra c’era già prima della
Grande Guerra, era stata solo messa a posto, così visto
che era tutto nuovo qua, avevamo modo di fare tante
cose, abbiamo provato, è andata bene>>.
<<Però prima, appena finita la guerra anche io ho
fatto per tanti anni la traghettatrice, anche da sola,
ma più che altro con la Dilva Gaiotto, a portare da una
parte all’altra la gente…- è Chiara Truccolo, moglie di
Toni, che parla ora - la Dilva poi era stato un anno in

301
ospedale per via dei polmoni, e sono andata avanti da
sola, e quando è tornata a casa abbiamo fatto quella
fotografia là! Una volta morivi quasi sempre se eri
malato ai polmoni. Poi neanche io sapevo nuotare, ero
brava ma neanche io sapevo nuotare, anche le sorelle
Gaiotto niente nuotare, ma era colpa della società,
perché faceva scandalo una volta una donna nel fiume,
in costume a nuotare, mica come adesso! Una femmina
nella Piave era uno scandalo da matti, faceva schifo,
dovevi andare dentro vestita! Se andavi nella Piave a
nuotare facevi uno scanalo che poi ne parlava tutto il
paese, non si poteva mica! Noi lavoravamo da mattina
a sera con la Piave alta alta alta, torbida, con due
stanghe, una a testa e cinque sei persone alla volta.
Era fatica grande: quando che una volta dicevano:
“Mandateli a tirar barche e allora imparano cos’è la
fatica!”, si capisce quanta era. Fino a prima di sposarmi
l’ho fatto, fino a vent’anni, da finita la guerra fino ai
vent’anni. Facevo la traghettatrice in alternanza,
e quando ero a casa lavoravo coi cesti. Venivano a
prenderseli i Marchi, io andavo a prendermeli nelle
grave, mi portavo casa i vimini con una mussa e un
sacco, poi tornavo a casa la sera, ma una volta non si
trovava per strada nessuno a quelle ore, neanche una
bicicletta, non c’era nessuno. Una qua di Roncadelle,
di Segato, aveva cinque sei anni e io tredici, e mi ha
chiesto una sera se poteva tornare a casa con me che
tornavo dalla raccolta dei vimini, sua mamma le ha
detto di sì ed è stata così contenta, perché per lei era
una gita di quelle che adesso bisogna spendere milioni,
ma lei era così contenta per la gita! Erano altri tempi!
Dopo abbiamo lavorato insieme anche come carioti, da

302
sposati a prendere su i sassi per la fornace, fin su sul
Cellina, partivamo alle due di notte; quando si andava
via con il camion a rimorchio tornavamo alle quattro
del pomeriggio, ma si facevano due viaggi, perché due
ripartivano e gli altri due rimanevano là a caricare
l’altro rimorchio, che aveva le sponde alte, o stavano
là a fare i mucchi, perché con la motrice entravamo
dappertutto, con il carro mai andati lassù, sempre coi
camion, qua da Menegaldo con Decimo sempre avuti
camion grandi, lavoravamo in sei, io, Toni, Decimo, i
nonni e la moglie di Decimo… abbiamo fatto di tutto,
ma non siamo mai andati a rubare!>> – termina
Chiara.

Ricomincia Toni: <<Infine, quando c’è stata l’alluvione


del 1966, qua acqua non ce n’era, ma io ho preso la
barca e sono andato a vedere come stavano quelli nelle
Grave. Ma in realtà anche nelle Grave non ci furono

303
tutti questi disastri, anche se a loro hanno dato degli
aiuti. A Negrisia e Ponte di Piave sì, perché l’argine
aveva rotto, come a Candelù, dai monumenti. Vicino
a casa di Aristide c’era il ponticello per entrare nel
Madorbo vecchio, e crollò durante l’alluvione. Io,
Aristide e Decimo l’abbiamo ricostruito, il Comune
ci diede due tombini, e altri due erano già là. Noi li
abbiamo messi giù e rifatto il ponte, non ci abbiamo
messo tanto, ma abbiamo fatto tutto noi tre. Abbiamo
tirato su il tubo di prima, messo giù uno nuovo, tirato
su il secondo e messo giù l’altro, un lavoro breve,
neanche tanto difficile. A casa di mio fratello Aristide
invece c’erano le stanze piene di gente che aveva portato
animali e altra roba al riparo perché avevano la casa
piena di acqua.
Aristide aveva il compito di ridistribuire gli aiuti agli
alluvionati, e cercava di aiutare tutti senza tenere
niente per sé… tanta gente voleva pagarlo perché aveva
tenuto in casa le loro bestie, ma lui non voleva era un
puro… pensa che quando hanno distribuito i premi per
i volontari che avevano aiutato durante l’alluvione, la
moglie Amelia gli chiese di portare a casa una coperta
pesante, di quelle che costavano soldi, perché avevano
fatto tanto ed era giusto portare a casa qualche cosa.
Mio fratello Aristide si è presentato per ultimo perché
diceva di non aver bisogno di nulla, che l’alluvione non
lo aveva toccato ed era giusto aiutare chi aveva bisogno,
anche se tanti ne hanno approfittato. Insomma, è
tornato a casa con una paio di guanti da lavoro! Amelia
non glielo ha mai perdonato, si è arrabbiata come una
furia, ma mio fratello era così, pensava sempre prima
agli altri!>>.

304
Geremia Furlan

Vivere era dura una volta

<<Sono nato il 10 aprile 1916 qua a Stabiuzzo, dentro


in una baracca: una volta davano fuori le baracche del
Comune durante la guerra. Mio papà era via, dopo ha
preso la pleure causa della guerra ed è morto nel 1922;
una volta con la pleure si moriva.
Nella baracca eravamo in sei: mio papà, mia mamma
e quattro figli, io solo maschio. Stavo là da Segato, da
Onorio e Gino Segato; là c’erano le baracche perché
il Comune avevano concentrato tutto in un posto le
famiglie senza casa, ma mio nonno non ha voluto e
ci ha dato gratis un pezzo di terra, a mio papà e mia
mamma, e hanno fatto la baracca là e dopo la guerra

305
abbiamo comprato di qua. L’ora di Caporetto avevo
un anno, eravamo profughi, ma non mi ricordo dove,
comunque c’era crisi a quei tempi, dappertutto, era nera
insomma, mangiavi polenta e latte con la forchetta per
non bere il latte e usarlo alla sera… per giorno lo stesso
latte finché non era finito. Nel paese era come adesso,
c’erano i signori e la maggioranza tuti poreti!>>
<<Anche a San Polo era così, io stavo là e là ho fatto
le scuole… io sono di Giacomini, la crisi c’era anche
da noi!>> ribadisce la moglie, Arcangela Giacomini.
Poi riprende Geremia: <<Non avevamo terra, non
avevamo niente, facevamo ceste: andavamo a vimini,
se li scussea, se fea quel che se podea par tirar vanti,
el mejo che se podea insomma, per Minuti, che era qua
a Stabiuzzo, l’’ora erano loro ad avere l’attività. Poi
morto mio papà abbiamo tirato avanti noi quel poco che
potevamo, ci pagavano poco, a contratto: tanto facevi
tanto pagavano e la materia prima la portavano un po’
loro e un po’ la mettevamo noi, dipendeva dal lavoro.
Noi fin da piccoli siamo dovuti andare a lavorare,
per questo ho fatto solo le prime quattro scuole, qua
a Stabiuzzo. Si andava a scuola con gli zoccoli senza
calzetti, a piedi, come si poteva. Ho fatto la quarta
a Cimadolmo, andavamo a piedi, sopra l’argine; le
elementari fino al 1955 erano sotto il Municipio, poi
c’era come una recinzione e dalla parte che oggi c’è
la gelateria c’era una casetta che confinava e quella
era la scuola, parte là e parte sotto. La zona dietro il
Municipio invece, quella dove c’è l’ambulatorio nuovo
oggi, era il cortile: si entrava da sotto il Municipio,
cioè da dietro, dove adesso è chiuso, è stata così fino a
cinquant’anni fa, erano già vecchie e fatiscenti quando

306
le ho fatte io, quindi figurarsi! Avevo la Reginetta Basso
come maestra, lei mi ha fatto la quarta classe e anche le
altre tre a Stabiuzzo. Dopo la quarta non contava più
niente, ci voleva anche la quinta ma io non l’ho fatta
perché non si poteva, bisognava andare a San Polo e
noi già si andava a Cimadolmo a scuola a piedi con
gli zoccoli in mano per non frugarli, scalzi, allora era
una vita così. Nella nostra classe eravamo ventidue,
ma erano pochi che arrivavano a fare la quarta, ma ci
insegnavano di tutto, dalla guerra alla matematica!
La maestra poi era buona, cattiva con quelli che doveva
fare la cattiva, ma buona, sapeva comportarsi, aveva
una canna d’india e la batteva sulle mani: “Metti le
mani là!” e bam! Come facevano tutte a quei tempi là,
altrimenti come facevano? Figurati adesso!>>
<<A San Polo era una maestra piccola così… ma come
batteva, anche a quelli alti due metri!>> gli fa eco
Arcangela. Riprende Geremia:
<<Pensa che io ho fatto scuola con quelli che avevano
dieci anni più di me, ma che per causa della guerra non
avevano fatto la scuola, e dopo la guerra chi ha voluto
ha ripreso la scuola e sono andati avanti, e mi sono
ritrovato con loro. Io ero giusto di andare a sei anni,
loro invece ne avevano venticinque, ventisei, facevano
di quei scherzacci che si prendevano le bacchettate.
Facevamo solo la mattina, perché al pomeriggio erano
le altre classi, quelli più grandi. Lei faceva scuola a
due classi, mattina una e dopo mangiato all’altra.
Poi dopo c’era il sabato fascista da fare, ma siccome noi
avevamo di meglio da fare, andavamo a rubar venc par
far un zester, par far ‘na cheba, andavamo nelle grave.
Ci portavano nelle grave e noi ne approfittavamo per

307
andare nei campi di Segato, quelli della famiglia di
mia mamma, a prendere i vimini al sabato. Mai andato
a fare le robe dei fascisti, eravamo a casa il sabato e
quello era giorno di raccolta vimini! Solo che dopo mi
è toccato andare a fare il pro militare alle tre perché
dicevano che se ci andavi non andavi in guerra, invece
io ne ho fatti sei anni! In Libia sono andato a finirla,
già nel 1941 preso prigioniero! Comunque finché ero
caso la nostra risorsa erano le ceste, con le ceste si
mangiava una volta, si riusciva a guadagnar qualcosa,
dopo trovavi certi che pagavano subito e si andava
bene. Cestelli per ciliegie, poi ceste per le damigiane.
I fascisti non sono mai venuti per quello a casa, ma
se avevi taciuto l’avevi indovinata, perché ti toccava
sempre tacere, “il Duce ha sempre ragione!” dicevano,
era dura sotto di loro sa? Trovavi da mangiare i primi
tempi, dopo sempre più fatica: c’erano le schede per
mangiare, poi diventato maggiorenne, che era a ventuno
anni, mi hanno reclutato per la leva nel 1937, un
anno di soldato a Trento, nel 62° reggimento fanteria:
facevamo pratica d’armi, smontare e rifarle, fare i tiri
al poligono e basta, ci avevano dato la mitraglia, lo
schioppo, quella era la dotazione, fucile baionetta e
moschetto. Si andava fuori, si camminava, camminate
di quasi venti chilometri, non pattuglia però, solo
guardia alla caserma, ma altrimenti marce, marce,
marce. Poi un anno di congedo e dopo richiamato di
nuovo il 15 luglio del 1939, rimandato a Trento, sempre
nello stesso reggimento, perché là avevamo la nostra
sede. Là ci hanno motorizzato, ogni tanto si aveva un
camion e facevamo istruzioni, ma no varie mai pensà
‘na roba del genere, come quea che ho vist dopo! Sì

308
perché, quando è arrivato la fine del 1939 eravamo
già in partenza per la guerra, ci hanno portato giù a
Napoli con il treno per prendere le navi per la Libia, e
a Tripoli è cominciato l’inferno!>>.

Buche nella sabbia

<<Venendo giù eravamo passati per Genova, e dopo


là sono cadute le prime bombe, c’erano i binari tutti a
pezzi, la guerra è cominciata subito. Le navi le abbiamo
prese a Napoli, ed erano organizzate bene dentro come
vitto, siamo smontati a Tripoli, poi abbiamo preso le
macchine e siamo andati su al Reticolato Graziani.
Il Reticolato Graziani era il confine tra l’Italia e
l’Inghilterra, non era un paese, era una striscia di
reticolati che dividevano l’Italia libica dall’Egitto
dove erano gli Inglesi. Ci avevano preparato… mejo
che non dico niente perché abbiamo fatto l’avanzata
in braghe corte e canottiera, quando ci hanno preso
eravamo così e ci hanno portato via così! Loro avevano
l’artiglieria e i carri armati, noi il moschetto e basta, ci
hanno massacrato, armatura non ne avevamo, pensa
che tuo nonno Aristide aveva i cannoni con le ruote di
legno! E gli altri avevano l’artiglieria che sparavano
da ogni parte, non sapevi neanche da dove arrivavano
i colpi, poi passavano via e bombardavano con i
quattro motori, tutto un bombardare! Gli ufficiali non
parlavano mai di queste cose con noi, ma fra noi almeno
i rapporti erano buoni, se invece erano i meridionali
che subivano un torto dagli ufficiali, non stavano zitti,
arrivavano anche a ucciderlo! Non andavano tanto

309
per il sottile quelli della bassa, loro si facevano la legge
subito! Avevamo anche poco da mangiare, al Reticolato
Graziani appena arrivati abbiamo fatto tre giorni senza
mangiare, ma questo è niente, perché da prigioniero
ho fatto vent’otto giorni senza mangiare e senza bere!
Bevevamo l’urina in un vasetto; io e un altro, un certo
Patrizio Zanardo che è ancora vivo, si pisciava in un
vasetto tutti assieme e si beveva quel poco di urina che
riuscivamo a fare… pensa te… era da morire… sai come
muore uno da sete? La lingua si attacca sotto il palato
e là ti resta, non tiri più il fiato, ne sono morti diversi
così quando ci hanno preso prigionieri. Ci hanno preso
il 13 luglio del 1941, alla prima offensiva degli Inglesi:
è stato semplice prenderci, hanno bombardato, noi
non abbiamo risposto perché non avevamo niente per
rispondere, sono entrati nel reticolato e ci hanno presi
tutti! Hanno aperto un passaggio e sono venuti dentro,
ci hanno preso in 112, ma hanno preso quelli che non
sono morti in pratica, perché è stata una strage! Ci
hanno portati a Sodum Alto, sempre in Libia, ci hanno
messo dentro in una buca in mezzo al deserto, aperta
dalle granate; dentro là vent’otto giorni senza mangiare
e bere, e loro facevano il bagno con le docce. Noi sotto
il sole cocente, quaranta e passa gradi, ne sono morti
tantissimi, chi poteva resistere ha resistito, ma anche io
se restavo lì altri due tre giorni non tornavo più a casa,
perché urina non ne usciva più e la lingua cominciava
ad attaccarsi… ti senti la morte che arriva, quando la
lingua si attacca sotto addio!
Ci hanno tenuti là con uno col mitra che sorvegliava,
da là non ti muovevi, non avevano neanche il bisogno
di recintarci. Dopo ci hanno tirato fuori e ci hanno

310
portati in Sud Africa con le navi, a Sunton siamo
partiti, dall’Egitto, perché l’Egitto era proprietà inglese
una volta. Mi ricordo che ci hanno dato un po’ di the,
niente da mangiare. Quando siamo arrivati in Sud
Africa eravamo in 60000 su un campo e la sera non si
poteva neanche camminare da quanti che si era là. Ho
fatto quindici giorni nella stiva di quella nave, sotto
là, con un poco di the e una arancia e sette fagioli di
numero a testa il giorno di Natale; mi penso sempre di
quel giorno!
In SudAfrica siamo finiti a Pretoria, la capitale; era un
campo di concentramento con sessantamila prigionieri
tutti italiani, là un siciliano ha anche incontrato suo
padre.
Si stava male dentro là, c’erano le formiche rosse che
ti mangiavano, e mangiare per noi poco. Poi c’erano
quelli a cui toccava anche fare i lavori, a me toccato
raccogliere le immondizie tanto per dire, ma quello
toccava una giornata a uno, una a un altro, poi
dormivamo all’aperto, per terra in una tenda; erano
tende lunghe, ti buttavi giù dove trovavi, bastava fosse
un posto per dormire. Via per giorno era anche buono
il clima, ma la notte faceva freddo, sotto la tenda ti
riparavi il giorno per il sole, ma noi eravamo ancora
braghe corte e canottiera, eravamo ancora vestiti come
quando ci hanno preso, e la doccia ce la facevano
fare con l’acqua ghiacciata, pareva lo facessero per
dispetto. Poi non portavano quasi niente da mangiare
e qualcuno è anche scappato; mi ricordo che alcuni si
sono nascosti nel cofano della macchina di un ufficiale,
e devono essere riusciti a scappare per un po’, poi li
avranno uccisi perché era difficile scappare.

311
Non conoscevo nessuno là. La mia prigionia è durata
fino al 1946, ma per fortuna dopo un mese che ero in
Sud Africa mi hanno portato con le navi in Inghilterra,
a lavorare là. Saranno stati venticinque trenta giorni
di viaggio, poi quando siamo arrivati a Londra ci
hanno selezionati: quelli che volevano collaborare e i
non collaboratori; io non ho voluto collaborare, perché
collaborare voleva dire andare a combattere per loro
contro l’Italia! Io non ho voluto collaborare, perché ho
pensato che fosse meglio restare tranquillo, poi c’erano
i nostri cuochi che cucinavano ai prigionieri e allora
forse me la cavavo da là in avanti, perché nel campo
di concentramento c’era un cuoco che cucinava per
tutti, ma se poteva passava qualcosa in più. Eravamo
a Londra, ma poi ci hanno spostati di nuovo, a
Cambridge, dove sono rimasto fino alla fine, nel campo
26 di prigionia. Ventisei era il numero del campo,
quando scrivevi a casa dovevi mettere il numero 26! Là
ci facevano anche lavorare, ma proprio lavoretti, tipo
tagliare una siepe, potare, caricare carbone, conforme
al bisogno e a cosa saltava a loro. Venivano là, ti
prendevano su, ti facevano lavorare e tornavi, tutto
gratis, ma almeno il mangiare, visto che andavi via la
mattina e tornavi via la sera, ti davano da mangiare
speck e sardine sotto sale per mezzo giorno, perché non
rientravamo. Non era abbondante, ma quanto meno
bastava. Là a Cambridge eravamo solo Italiani, a
parte una volta che abbiamo scaricato una nave di
baccalà con i Russi, ancora a Timbli di Londra. Non
avevamo nessun rapporto con i civili, a parte a Londra
dove si andava per le famiglie a raccogliere i raccolti
di fragole, patate, piselli, secondo quello che serviva

312
ci usavano, ma dopo una volta portati a Cambridge
non abbiamo più potuto avere alcun rapporto. Poi il
13 luglio del 1946 ho potuto tornare a casa: andavamo
a scaglioni, dai più vecchi ai più giovani, secondo le
età ci facevano partire. Ci hanno portato giù a Napoli
in nave, dopo là è successa bella: era un treno merci,
e i nostri bei signori italiani ci hanno caricati in un
treno merci e loro invece viaggiavano sui treni speciali,
gli ufficiali! E noi per combinazione, un certo Carmelo
e io, abbiamo trovato un veneziano che faceva il
macchinista del treno, che ci ha detto: “Se tu vai là
al tuo posto, e arriva l’Express che dentro sono tutti i
Tedeschi e gli Italiani dell’alta burocrazia, te fai ora a
prenderlo e stasera sei a Venezia!”
Allora io, perché io sarei anche stato Caporale Maggiore,
anche se in guerra non contava niente, in tempo di
pace sì, ma in guerra Caporale Maggiore, Sergente,
Sergente Maggiore, Tenente non erano niente, non
avevo comando, era una carica tanto perché quando
eri di guardia mettevano il caporale Maggiore ad
accompagnare il cambio della guardia, ci voleva un
Caporale Maggiore per cambiare la guardia, andavi
via, davi il cambio a tutte le sentinelle e poi avevi
finito, non era una carica speciale, era un uso interno
all’esercito diciamo… e insomma allora lui mi ha dato
la sua roba, che aveva una valigia vuota, come l’avevo
io e ci siamo preparati su quel posto là: lui doveva
tener la porta, e io dovevo montare no? E allora io sono
salito, e in quella che lui teneva la porta, è arrivata una
guardia per tirarlo giù, lui gli ha dato una scarpata
giù per lo stomaco che lo ha buttato per terra banda
di là, e i treno è partito e noi la sera siamo arrivati

313
a Venezia, e invece gli altri prigionieri sono passati
dopo cinque giorni per Conegliano, perché il treno
che aveva su i prigionieri non aveva mai il posto da
passare, dovevano sempre passare quelli che avevano
su gli ufficiali prima! Noi invece ci eravamo infilati
nel direttissimo per i graduati, per l’alta burocrazia,
perché i poveri prigionieri li hanno caricati sui vagoni
bestiame. Dopo da Venezia ho preso un altro treno,
per Conegliano, e dopo arrivato là sono tornato a casa
in corriera, quella che veniva giù per San Michele e
Cimadolmo; non c’era neanche posto a momenti, ma
sul treno per Conegliano avevo anche ritrovato uno di
Riese che era via con me. E alla fine sono tornato a
casa quando ormai non ci speravo più, ma era tutto
cambiato, come da oggi a domani! Pesavo solo 48 kg
quando sono arrivato a casa!>>.

Quale lavoro?

<<Il paese era tutto cambiato: intanto non conoscevo la


gioventù, dopo era tutto un altro fare. Io per la guerra
come risarcimento ho avuto solo 14000£, e invece c’erano
altri che avevano la tavola piena di roba, chi con la
guerra si è arricchito, ma hanno avuto ragione loro
alla fine, perché hanno avuto la possibilità e l’hanno
sfruttata. Eravamo tornati nella baracca del nonno, e
piano piano, lavorando, è ripresa la vita; tagliando la
legna, facendo tutta una serie di mestieretti, era anche
un modo per rimuovere i ricordi brutti.
Per conto mio sono riuscito a fare diverse cose, nessuno

314
aveva un lavoro fisso, non ce n’era, solo più tardi, più
piano è venuto qualcosa ma subito finita la guerra
la situazione è migliorata quando sono venuti fuori
i lavori di fare gli argini. Bisognava fare gli argini
e le banchine qua a Cimadolmo, a San Michele, da
Zanardo; abbiamo lavorato più di un anno là, e con
quello avevamo in tasca un soldino in più e la vita
ti cambiava subito perché eri abituato a non avere
niente. Dalla rampa di Zanardo fino al confine con
Santa Maria abbiamo rifatto la banchina con carriole
e badili, eravamo una trentina, tutti da qua, sotto a
un’impresa, la ICOBS. Ci pagavano ogni quindici
giorni, ogni otto giorni acconto, e ogni quindici saldo,
con otto ore di lavoro al giorno, ma si poteva finire
prima, perché in realtà funzionava che avevi novanta
carriola da portare al giorno, e portate tutte le carriole
erano finite le otto ore. Con quel lavoro là ho messo da
parte i primi soldi e intanto si mangiava, era il 1947-
1948, poi io nel 1947 mi ero anche sposato con la qui
presente!>>
<<Ahhh… non conoscevo neanche niente qua a
Cimadolmo, perché ero da San Polo… anche se stavo
qua nella Cornadella non conoscevo il paese, ma
sono andata a stare da lui e ho imparato a conoscere
qualcosa del posto… stavo a casa con sua mamma,
aiutavo lei che era una brava donna veramente…
intanto che Geremia era via prigioniero aveva le figlie
tutte sposate, teneva con sé la nipote finché non è si è
sposata anche lei…>> racconta Angela…
<<Qua hanno comprato nel 1935: questa casa e
avevamo anche un pezzo di terra dalla peschiera
che era tenuto da Angela e da mia mamma, intanto

315
che io ero via, perché dopo ho fatto le rocce, che era
un lavoro a chiamata: battere martello e scalpello
le rocce per squadrarle, per fare gli argini a difesa
dell’acqua, sia qua a Cimadolmo che fuori, perché le
ho fatte a Maserada, Susegana, Ponte di Piave, dopo
dove era lavoro si andava. Ci davano una croda da
battere, dovevamo fare il quadro giusto, in catasta,
dopo i manovali la portavano a noi che la lavoravamo,
la facevamo una alla volta per essere pronta a essere
messa in opera, e dopo la mettevano giù. Secondo il
lavoro poteva durare un mese, un anno, cinque anni,
sempre per le imprese che prendevano gli appalti,
che pagavano a norma sindacale, sempre otto ore al
giorno; se avevi fortuna che il lavoro era grosso avevi
per tanto altrimenti girare ancora! Infatti dopo mi è
toccato andare su a Bolzano anche: sono andato via nel
1952-1953, a Vipiano di Bolzano, per fare il muratore
sotto Esinberg. Abbiamo fatto un deposito per le mele,
tipo grandi magazzini, perché là dentro c’erano dai tre
ai quattromila quintali di mele. Dopo siamo andati
sotto un’altra impresa, a Fundres; là abbiamo fatto
una galleria per una centrale elettrica, anche se non
mi ricordo il nome dell’impresa. Lassù vivevo in una
baracca della ditta con un certo Luciano Mariotto,
anche lui da qua come me. Dopo sono venuto casa
perché ho trovato lavoro qua a casa con Cadamuro,
Ennio Cadamuro da Stabiuzzo. Faceva l’impresario
lui, e sono andato a lavorare con lui, sempre muratura.
Però prima ho fatto anche un periodo da Susanna
Clorindo a Conegliano, sempre nelle costruzioni, poi
sono andato in pensione con Luciano Mariotto, sempre
muratore. Ma quando sono andato in pensione non

316
mi hanno riconosciuto le marchette della guerra, agli
statali sì, a tutti gli altri no! E pensa che io non dovevo
mica andare in guerra, io dovevo stare a casa, perché
mia mamma era vedova, e io ero orfano di guerra e
figlio unico e la legge di Mussolini era che io dovevo
stare a casa! Però al posto mio è rimasto a casa un
altro e io sono andato via che non dovevo andare via,
ho fatto tra guerra e prigionia nove anni e mezzo, e
noi non potevamo andare all’estero, in Italia potevamo
fare il militare, invece io sono stato mandato fuori,
questo è il fatto, perché la legge era che chi aveva il
padre morto in guerra o a causa della guerra e che era
figlio unico, non doveva andare in guerra e mi i me ha
fregà in stess inveze! Così la è!
E quanto è cambiato questo paese: una volta potevi
andare via a piedi, oggi è tutto un traffico, tutto una
roba sopra l’altra, è un’altra cosa da oggi ad allora!
Bisogna adattarsi anche se non si vuole, così la è e così
bisogna che vada, ma una volta era più compagnia,
tanta compagnia, tanta unione, oggi quasi tutti quanti
vanno per conto suo, una volta non era così, c’era unione,
c’erano i gruppi, si stava più insieme, tutto è cambiato
oggi caro mio, anche andare per strada! Poi certe cose
saranno anche migliorate, ma come compagnia siamo
peggiorati, perché una volta c’era l’unione di trovarsi
anche in una stalla per stare assieme, oggi sono tutti
per conto suo, è stata la macchina a creare la divisione
che manda tutti per conto suo. Cioè la macchina serve
se stai male, anche se stai bene serve, ma è male usata,
e l’unione di una volta secondo il mio parere non c’è
più, e siccome la macchina è male usata la gente va per
conto suo; poi adesso hanno tutto subito, noi invece non

317
avevamo nulla eppure stavamo meglio, avevamo meno
pretese, meno tutto, non hanno neanche più passioni,
perché tuo nonno si divertiva ad allevare le quaglie,
altri avevano la pesca, oggi nessuno ha più nulla, non
sanno più divertirsi, par conto mio.
Speren che cambie, cossa vutu che te dise?>>.

318
Mansueto Marchi

Tu fosti l’avvenire
quando a un tuo avo
qualcuno disse: “Intreccia
il cesto per la mongolfiera”.
Poi tornasti alle aeree forme di sempre
che contrapponi invano
a dilaganti sintetici panieri.
Anonimo

La storia dei Marchi è la storia degli ultimi due secoli


di Cimadolmo, perché l’attività di cestai è stata quella
che ha permesso al paese di sostentarsi, in una fase
storica a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo, in cui la
maggior parte dell’emigrazione italiana proveniva

319
dal trevigiano. Un’attività che ora è stata messa in
ginocchio dal progresso, da un falso progresso a mio
avviso: un progresso che ti fa spendere tre euro per
una cosa di plastica che dopo un anno devi ricomprare,
invece di spenderne ottanta per una bella cesta in
vimini che ti dura una vita… Le ceste sono solo uno
dei tanti esempi che potrebbero essere fatti; erano
usate già nei tempi antichi, le cita la Bibbia, perché
in una cesta fu rinvenuto Mosè, le usavano i romani,
nelle Americhe si portavano a spasso i bimbi con le
ceste… Mansueto ha dedicato la sua vita a quest’arte,
un’arte che gli è stata tramandata dai nonni, che a
loro volta la ereditarono dai loro genitori e nonni e così
via, sino almeno al principio del XVIII° secolo, quando
la presenza dell’industria dei cesti a Cimadolmo è
accertata con certezza, ma… perché no, potrebbe avere
chissà quanti anni di più!

La dinastia dei cestai

<<Sono nato il 25 novembre del 1920 da Antonio


Marchi e Teresa Zorzal in questa casa, cestai da diverse
generazioni. Già mia nonna conduceva questo lavoro
dopo che il nonno si ammalò seguendo personalmente
l’attività.
Ero il 4° di quattro maschi e quattro femmine, una
mia sorella è mancata molto giovane. Sono sempre
vissuto a Cimadolmo dove ho fatto le prime quattro
classi delle scuole elementari. La quinta invece l’ho
fatta a San Polo a 12 anni perché a quei tempi veniva

320
fatta solo là: venivano presi sei ragazzi di Cimadolmo
e sei di Ormelle e li mandavano a frequentare la scuola
a San Polo. Ho avuto delle brave maestre, Savoini
Adelia e Vendrame Margherita: ancora oggi ricordo le
nozioni di diritto che mi hanno insegnato e le trovo
utili tutt’ora.
A scuola andavamo solo mezza giornata perché
l’altra mezza la passavamo ad aiutare nei lavori di
casa e a imparare a fare le ceste: allora tutti i ragazzi
contribuivano ad aiutare la propria famiglia. Io e mio
padre il sabato pomeriggio andavamo ad acquistare il
materiale nei paesi vicini e bagnati dal Piave. La golena
era molto ricca di salici e molte famiglie li raccoglievano
e li preparavano in fasci per poi venderceli al nostro
passaggio: si trattava di vimini già spellati dalla buccia
pronti per essere lavorati. Maserada, Candelù, località
Madorbo, Negrisia dove c’era anche un concentramento
di baracche del ’15 – ’18, erano tutti luoghi dove questa
attività di raccolta era molto fiorente ed era uno dei
pochi mezzi di sostentamento. C’è da dire comunque
che un’altra buona parte del materiale che usavamo
veniva importato anche dall’estero>>.

Pietro Romano Cà Zorzi, in un suo articolo su “La


Sorgente”, intitolato: “Cimadolmo l’arte di intrecciare
i vimini”, narra della nomina a Piovano del veneziano
don Antonio Alberti nella Pieve di San Silvestro di
Cimadolmo nel 1650, dove pare che impiantò una
fabbrica di ceste, mestiere che aveva imparato nelle
carceri della Giudecca, entro le quali era stato rinchiuso
non si sa per quale motivo. Le chiamava “seste da
calar”, e ne inviava grossi quantitativi a Venezia

321
sfruttando il fiume Piave e i suoi zattieri. Erano dette
“seste da calar”, perché i veneziani le usavano per
calarle dalla finestra con una funicella per cogliere il
pane del fornaio e le merci dei venditori ambulanti,
senza scendere dai piani più alti. È un sistema ancora
usatissimo in tutta la laguna. Il religioso fu forse il
pioniere di questa industria che si sviluppò fiorente
nel corso dei secoli a Cimadolmo, dove oltre ai Marchi
vanno ricordati come cestai i Barbaresso e i Minuti di
Stabiuzzo, i fratelli Mazzer e i Beotto.
Ma ora ritorniamo con la storia alla giovinezza di
Mansueto, che delle ceste avremo modo di parlare più
avanti.

<<Nella nostra attività, oltre che alla nostra famiglia,


erano impegnati anche diversi operai. Il nostro
prodotto era molto diversificato: cesti in vimini bianco
per l’Inghilterra, grezzi per Berlino, cestini di varie
dimensioni per la raccolta delle ciliegie per la zona
di Verona e Lago di Garda. Queste cestine, essendo
di piccola grandezza, venivano fatte dalle donne che
di media le producevano nelle proprie abitazioni così
potevano star vicino ai figli e governare la casa. Noi
al sabato passavamo nelle varie case e ritiravamo il
prodotto finito.
Una buona parte di cesti comunque la si commerciava
solamente, ossia si comprava il prodotto già finito dalle
famiglie che lo producevano in proprio.
Era un periodo, che seppur lavorando duramente, si
riusciva a risparmiare qualche soldino e noi giovani di
Cimadolmo siamo stati tra i primi a poterci permettere
le prime biciclette della Michelin e la famosa Piave FM,

322
simbolo di benessere a quel tempo, come la macchina
al giorno d’oggi.
Intanto gli anni passavano e giunse anche per me il
momento del servizio militare>>.

Cimiteri

<<Noi ragazzi del 1920 siamo stati fra i primi ad essere


chiamati al servizio di leva senza avere la maggiore
età, che a quel tempo era di 21 anni. Non sono partito
solamente io, ma anche due dei miei fratelli, mentre
il più vecchio è rimasto a casa continuando il lavoro
di cestaio. Mio fratello Cesare, dopo essere stato in
Albania e Grecia, venne mandato in Russia e purtroppo
è tutt’oggi disperso.

323
Io ero nel 151° fanteria divisione Sassari, batteria di
accompagnamento. La batteria era someggiata e negli
spostamenti il materiale necessario veniva caricato
e trasportato sui muli. Sebbene avessi fatto un corso
per goniometrista per addestrarmi allo sparo con il
cannone, mi ritrovai ad essere addetto al magazzino e a
distribuire coperte, cibo, vestiti e assegnare armi. Dopo
essere arrivato a Trieste il 14 marzo 1940, fui mandato
con tutta la divisione a Massun sul Monte Nevoso fino a
ottobre inoltrato, quando ci hanno richiamato a Trieste
perché sembrava che la Jugoslavia volesse arrendersi,
ma nell’aprile del 1941 invece ci hanno rimandato lì
per attaccare la Jugoslavia che non si era per niente
arresa. La mia divisione è arrivata fino a Denjce, poi
in Bosnia Erzegovina: quei momenti me li ricordo bene,
so quanto era pericoloso presidiare quella zona.
Sono stato fortunato, ma quanti morti! In particolare
a Knin, a Boslacovo e a Serb dove i partigiani di Tito
ci tendevano le imboscate. Questi ultimi erano contro
il gruppo etnico dei cetnici, nostri alleati, che volevano
la Croazia libera dai serbi: l’odio purtroppo tra queste
due fazioni sfociava spesso in violente rappresaglie e
morti. Quello era il territorio dove nacque il fanatismo
per Tito e molti sbandati dell’esercito slavo si sono
uniti a lui. Mi ricordo che i muri erano pieni di scritte
come “Zivio Tito!” e cioè Evviva Tito, a simboleggiare
quanto la sua ideologia si era diffusa tra i militari.
Spesso ricordo i funerali che abbiamo celebrato a
Knin nel piazzale della caserma. Trentuno morti
tra artiglieri del 34° e soldati del 151°, caduti in
un’imboscata tesa dai partigiani di Tito a pochi km
dalla caserma: fra questi anche un certo Rossetto,

324
ragazzo che conoscevo già in gioventù e che abitava a
Cimadolmo. Quella era veramente una delle zone più
pericolose e per questo motivo eravamo armati anche
in libera uscita e la nostra condizione non era affatto
buona perché l’equipaggiamento che ci avevano fornito
non era dei migliori e i miseri vestiti che portavamo
non ci proteggevano a sufficienza dal freddo. Il 25
aprile del 1943, quando sono arrivati i tedeschi, siamo
stati richiamati in Italia e là sono state inviate altre
divisioni. Il tragitto di ritorno non è stato per niente
facile: i partigiani infatti hanno attaccato il nostro
treno mettendo le mine sotto le rotaie e sventagliando
i vagoni con la mitragliatrice, anche tornare a casa è

stato pericoloso! Una volta arrivati in Italia, siamo


stati mandati a Vetralla, poi a Tolfa e infine a Roma
dove ci hanno radunato per darci divise e armi nuove.
Tutto ciò non servì a molto perché ben presto fu firmato
l’armistizio.Quel giorno mi trovavo fuori Roma perché

325
dovevo ritirare del materiale, ma rientrare in città
era impossibile dalla confusione. Siamo rimasti fuori
Roma due giorni e ottenuto il via libera abbiamo preso
il treno per tornare a casa.
A Firenze però i tedeschi avevano bloccato la stazione
e siamo stati costretti a scendere e a sistemarci in riga
per quattro. A volte la fortuna... Convinco un tedesco
a lasciarmi andare a prendere dell’acqua. Mentre
attraverso i binari, arriva il treno per Pisa che per dei
minuti mi separa dal mio convoglio. A quel punto una
ragazza, penso una partigiana, mi afferra il braccio
velocemente e mi trascina via. “Via, via, via!” mi dice
e mi porta a casa sua. Mi ha salvato da una sicura
prigionia. Ho provato a rintracciarla, ma tutto il
quartiere vicino alla stazione era stato bombardato e
non sono più riuscito a ritrovarla. Il giorno successivo ho
preso il treno per Treviso; una volta sceso sono tornato
a casa a piedi attraversando le Grave a Spresiano.
Anche da queste parti la vita non era per niente
tranquilla, infatti verso la metà di settembre una
notte gli americani hanno bombardato le Grave di
Papadopoli, facendo morti e feriti. I tedeschi hanno
fatto un grande rastrellamento in tutti i paesi qui
attorno. A Cimadolmo hanno portato via il parroco e
diversi paesani portandoli a Sacile. Vedendo questo
noi giovani pochi giorni dopo ci siamo presentati
a lavorare: inquadrati in squadre ci hanno messo a
scavare trincee e camminamenti lungo l’argine, altri
tagliavano alberi distruggendo così buona parte delle
Grave di Papadopoli.
Io ero nella squadra per la raccolta del ferro e i
tedeschi ci facevano tagliare anche quello delle viti

326
che usavano per legare i rami lungo i camminamenti.
A chi si presentava al lavoro davano una tessera di
riconoscimento e fu proprio per quest’ultima che riuscii
ad evitare l’arruolamento alla Repubblica di Salò. I
tedeschi hanno mandato a lavorare qui a Cimadolmo
anche diversi giovani di Cremona, che avevano preso
durante dei rastrellamenti. Alcuni dormivano nella
sala del popolo, altri erano ospitati in varie famiglie
della zona. In casa mia ne avevamo due. Don Ernesto
Soligo, cappellano di Cimadolmo, aveva comprato loro
coperte e zoccoli perché erano rimasti senza scarpe.
Dormivano in una grande sala adibita a cinema dove
c’era anche un grande soppalco usato per fare teatro.
Ricordo quando ero ragazzino: ho recitato facendo la
parte di Silvio Pellico. Dopo un po’ di tempo alcuni
di questi giovani decisero di scappare: una notte tre
di loro mi chiesero se li accompagnavo al guado del
Piave vicino all’odierna Botte, dove con l’accordo di un
barcaiolo li avremo traghettati sull’altra sponda. Una
cinquantina sono scappati quella notte, tra loro anche
un certo Ugeri Edoardo che dormiva dalla famiglia
Conte che quest’anno ho rivisto con gran piacere.
Venuto a conoscenza che Cimadolmo era un paese di
cestai, il comandante tedesco ci ha proposto di fare
le ceste contenitori per granate, che portavano alla
polveriera di Castagnole vicino a Treviso. Di queste
poche ne arrivavano perché i partigiani le bruciavano
prima, comunque i tedeschi le pagavano bene: ogni otto
giorni quando le ritiravano, pagavano con rotoli di
banconote proprio come quelli che escono dalla zecca,
che tu poi dovevi ritagliare. Il lavoro di cestaio era ben
visto dai tedeschi e quando sapevano che lavoravi per

327
loro ti lasciavano un po’ in pace: ti rispettavano perfino!
Ma qualcosa stava cambiando. Verso la fine della
guerra gli ufficiali cominciavano a essere più buoni e
anche quelli della Polizei! La guerra era finita!>>.

Boom economico e lento declino

Il ritorno dalla guerra di molti giovani ha portato ad


un’abbondanza di manodopera da impiegare nei vari
laboratori di cesti che in quel periodo si erano creati
in paese.
La produzione più importante era quella delle ceste
per damigiane; produzione che si è protratta fino agli
anni ’70 coinvolgendo una grossa parte della comunità
di Cimadolmo, creando un certo benessere e facendo
nascere molteplici attività ad essa legate come le varie
falegnamerie per la produzione del fondo in legno.
E’ nata in quel periodo la “Commissionaria Cestai
Cimadolmo”: tutti i cestai riuniti per abbattere costi e
aprire nuovi mercati.
<<Io ho continuato a lavorare con mio fratello fino al
1957, poi mi sono messo in proprio e ho continuato
fino al 1993, quando ho ceduto la mia attività a mia
nuora. Adesso è tutto finito. Le nuove tecnologie hanno
sostituito il lavoro fatto a mano ed io, vecchio cestaio,
presumo anche l’ultimo in attività a Cimadolmo, mi
ritrovo a fare qualche piccolo lavoretto tanto per non
perdere la mano e a dare lezione a qualche scolaresca.
Certo, le maestre che accompagnano i ragazzi mi danno
merito del lavoro che ho svolto e che so fare, anche se a

328
volte sottovalutano la difficoltà che c’è nel creare una
cesta. Solo il lungo lavoro e il sacrificio, grazie anche
all’aiuto fisico e morale di mia moglie Rosina, hanno
fatto sì che l’arte di intrecciare i vimini rappresentasse
oltre che una passione, soprattutto l’attività che per
anni ha mantenuto me e la mia famiglia. Ora a quasi
novant’anni mi rendo conto che questo mestiere, che
purtroppo sta scomparendo, si sta portando via tanti
valori e insegnamenti che nella nostra società saranno
difficili da ricreare>>.

Eppure sarebbe davvero un’idea se le cantine


locali tornassero a usare i vimini prodotti in loco,
promuovendo vino e artigianato assieme. Ma più
della fine di un mestiere, cosa tragica e straziante,
a me spaventa un’altra affermazione di Mansueto: i
vimini ora bisogna importarli perché nella Piave non
ne crescono più… ma come diavolo abbiamo ridotto
l’ambiente dei nostri nonni?

329
Luigi Lorenzon

La mia vita è la terra

Luigi Lorenzon, gravariol doc, viene da una famiglia


numerosa, numerosa sia per il numero di fratelli e
sorelle che per il numero delle bestie, che una volta
erano una risorsa talmente grande da essere trattate
con cura e rispetto, come membri della famiglia… “no
come adess, che te compra ‘na bistecca da chilo, te la
cusina e ghin resta manco de ‘na baeta…” ammonisce
Luigi, che faceva crescere le sue vacche con biada,
foraggio e fieno, che rimanevano belle polpose anche
dopo la cottura. <<Il problema è che le pagano a chilo…
la carne si paga a chilo capisci? Allora se pesa tanto,

330
tanto ti danno, ma se pesa meno ti danno meno. Non
lo so io come fanno a far pesare così tanto le bestie,
cosa gli danno da mangiare? Io non lo so, so solo che
adesso cucini una bistecca non resta niente, una volta
era grande così e rimaneva grande così!>>
La parte più importante della sua vita, Luigi l’ha
trascorse nei campi, anzi la trascorre ancora oggi…
<<solo che ormai sui campi non va più nessuno, solo
i vecchi, ai giovani non interessa più niente, non
sanno neanche da dove arrivano le galline. Non sanno
neanche che territorio meraviglioso abbiamo qua, era
incontaminato una volta, adesso vogliono fare strade
dappertutto, rovinano i fiumi, non conta più niente
la natura? A noi la natura ha dato da vivere quando
eravamo poveri, adesso che siamo ricchi non dovremmo
ricambiare il favore?>>. Mamma mia che parole…
queste sono perle di saggezza…

<<Sono nato l’otto marzo del 1921, a Negrisia di Ponte


di Piave, nelle Grave. Eravamo in dieci tra fratelli e
sorelle che dormivano in una baracca, quattro fratelli
e sei sorelle. Vivevamo di agricoltura e una mia sorella,
la Noemi, la seconda più grande, la prima era Ester,
andava a San Polo di Piave a lavorare in filanda. Il
più vecchio di tutti invece era Pietro, che dopo è andato
a diventare prete, mentre noi lavoravamo la poca
terra che avevamo là e qui, di là dell’argine avevamo
due campi, più altri tre quattro fanno sei campi qua
e due scarsi a Negrisia. La coltivazione era mista,
viti e pannocchie, spagna e frumento, tanto qua che
Negrisia, perché avevamo anche una stalla, sia qua che
di là a Negrisia, cioè no, qua abbiamo avuto la stalla

331
solo quando siamo venuti a stare qua. Comunque si
aveva quattro vacche, e quando siamo venuti qua noi,
quelli che stavano qua sono andati a Negrisia dove
stavamo noi; hanno fatto vicino alla nostra baracca un
capannone, perché erano cugini nostri, con poca terra,
che lavoravano tanto di falegnameria, facevano case,
tavoli, di tutto.
Allora sulla baracca nostra, hanno buttato via tutte le
pareti, perché era fatta da tre stanze: noi dormivamo
maschi in una, mamma e papà su un’altra e sorelle
sull’altra ancora. Loro hanno tirato via tutto, l’hanno
spostata di dieci metri e hanno fatto il capannone
per fare i falegnami, perché là dove stavamo c’era
l’elettricità per far funzionare le macchine, mentre qui
no.
Le scuole ho fatto le ultime due classi a Roncadelle, le
prime due a Negrisia e la quinta sono tornato a farla
a Negrisia, partivo da qua a piedi, perché quella volta
biciclette non ce n’erano e andavo via, ma non c’era
differenza fra i paesi, quando ci trovavamo eravamo
tutti a piedi, avevamo solo le vacche, l’uva per fare il
vino, che la pigiavi con i piedi una volta!
Ma la gran parte l’uva la vendevi non per il vino ma
per mangiare, perché era cibo, adesso quando mi penso
certe cose… se penso che andavo via con mio papà e mio
fratello più grande a piedi, con un bastone a portare la
vacca a farsi montare dal toro, adesso è tutto cambiato
che si va male alle volte; prima la povertà era per tutte
le case, adesso c’è la ditta che prima non aveva niente
e adesso è piena di bestiame e altra roba.
Noi facevamo 100 massimo 150 ettolitri di vino, adesso
ne fanno otto diecimila; noi ci toccava andare con un

332
apparecchio fatto apposta per la testa della vacca,
con un morso in bocca, allora uno davanti la tirava
e uno dietro quando la vacca si fermava gli tirava
una bacchettata col bastone, e si andava a Negrisia
dal toro, appena basso dall’argine, da Miotto. Era la
stazione taurina pubblica, a pagamento: non ricordo i
prezzi ma ci volevano almeno cinque sei franchi per un
quarto d’ora e dopo perdevi mezza giornata a portarla
e un’altra mezza a tornare indietro.
Adesso è tutto cambiato e bisogna adattarsi ai tempi,
ma ci si trova malamente alle volte, anche il fiume
Piave non era così; da piccolo correva poco distante da
qua, un ramo arrivava al martello di roccia, perché
il letto era molto più alto, e quando la Piave faceva
una morbida copriva tutto il letto, adesso no perché
hanno scavato il letto e hanno creato un invaso che ha
abbassato il fiume, e ha creato più pericoli di prima,
non so mica cosa succede se viene un altro 1966, perché
quella volta lì era sul limite dell’argine! Perché cos’è
che succedeva una volta?
La piena veniva giù ogni anno diversa, anno dopo
anno non era più sul posto di prima, portava giù terra,
riempiva il letto, cosa succede invece adesso?
Quando c’è una piena, il letto è più basso e più stretto,
l’acqua corre più veloce, crea più danni, porta giù
molta più roba perché è concentrata tutta nel mezzo,
e il pericolo è doppio, perché può rompere i ponti, può
uscire verso San Donà che il fiume si restringe, perché
se l’acqua viene giù dritta non ha ostacoli, non può
rallentare, per questo io dico che oggi è più pericoloso
di una volta, fa molta più paura adesso quando lo
senti crescere la notte. Io mi domando sempre dove sia

333
il progresso se poi peggiorano le cose!
Il sabato fascista ti facevano fare le marce a Ormelle,
poi si andava via in fila marciando. C’era chi non si
presentava, non si poteva però, ti toccava andare e
andavano tutti, solo in pochi non si presentavano, ma
uno due; bisognava andare altrimenti se avevi bisogno
di qualcosa non te la davano, non avevi diritto a niente
se non facevi il sabato fascista, venivano anche per le
case a prenderti le robe che producevi di più, anche
durante il sabato fascista ti capitava che marciando per
il paese ti fermavano davanti una casa e ti obbligavano
ad andare a vedere cosa avevano nel granaio, nelle
stalle e così… cosa potevi fare, o obbedire o botte, ne
avevano sempre una, o per questo o per quello!
Se facevi qualche parola contro il partito o ne parlavi
male in osteria, facevano arrivare i Carabinieri e ti
davano l’olio, perché dopo la gente faceva di tutto per
dire ai fascisti chi parlava male di loro, perché siccome
eravamo tutti poveri, loro promettevano un compenso,
e allora sai anche te come vanno questa cose.
Per noi giovani non era facile vivere come per voi, al
sabato la marcia al resto della settimana lavoro casa,
ma era meglio lavorare a casa che fare tutte quelle cose
di guerra, non potevi stare a casa, poi ti dividevano fra
aviazione, fanteria, marina.
Io ero in marina, avevo fatto la domanda prima della
guerra per fare il marinaio, ma non mi ricordo neanche
perché avevo scelto la marina, mi ricordo che chi andava
volontario in marina prendeva di più, ma io non volevo
andarci mi ha convinto uno di Roncadelle, mi aveva
detto dai che andiamo io e te, poi di Roncadelle siamo
andati in tre se non sbaglio, arruolati in Marina>>.

334
Soldati al massacro, ufficiali in salotto

<<Sono partito per Atene in Grecia nel 1941, in treno;


abbiamo fatto tante tappe notturne per far scendere gli
altri reparti, il viaggio è durato tantissimo, quasi un
mese, poi arrivato ad Atene mi hanno detto:
“Scendi, qua è il tuo posto!” perché i Capitani generali
volevano dei marinai, e mi hanno messo a fare il
piantone agli Ammiragli ad Atene. Pensa te due anni a
fare il piantone agli Ammiragli ad Atene, no mover un
deo da matina a sera! Abbiamo fatto l’addestramento a
Venezia, per poco però, dopo ci hanno portato in Grecia
e mandati a servire gli Ammiragli, tutti i giorni ero in
Ammiragliato, a prendere bottiglie di acqua per loro,
portare la posta, da mangiare, tutti questi servizi qua,
loro in salotto e i soldati al massacro! Io per quello non
avevo rapporti con nessuno, né coi Greci né con quelli
dell’esercito, stavo con gli altri marinai perché dovevo
essere sempre a disposizione, si chiacchierava di questo
e di quello, qualche volta ti portavano a vedere qualcosa
in tutti quanti, si mangiava, si dormiva, andavi a fare
una camminata e stavi via una mezza giornata, venivi
casa a mangiare, stavi là due tre ore, quando era ora
di preparar da mangiare un’ora di cena, alle sei sei e
mezza dopo mezzogiorno eravamo a letto in caserma, e
dopo con l’otto settembre spariti tutti, mi hanno lasciato
là da solo che non sapevo neanche cosa fare, è venuto
dentro in Ammiragliato un Greco che mi ha preso e
mi ha portato da un Tedesco, dopo il Tedesco mi mette
nella stiva di una nave, fin Venezia, dopo buttato su
un camion e portato prigioniero in Germania, vicino

335
a Dusseldorf. Lavoravo in una officina di attrezzi da
cucina, pentole, secchi, cucine economiche, tutte quelle
robe là.
Dormivo con i marinai italiani come tutti là in Grecia,
quella mattina dell’armistizio ero andato in servizio
come al solito dagli Ammiragli, ma non c’era nessuno;
arriva ‘sto Greco che mi porta dai Tedeschi che fin
al giorno prima eravamo assieme! Ero attendente
agli Ammiragli e non mi hanno mai comandato
niente, dovevi portargli le scarpe, il caffé, la tavola la
sparecchiava un greco, non avevo niente da fare, ma
se penso a quelli che morivano intanto che gli ufficiali
facevano quella vita là negli appartamenti, che dopo
son scappati senza dire niente a nessuno! Non era
una zona centrale di battaglia, perché non ci hanno
neanche mai bombardato, ma in Germania una bomba
è caduta a quindici metri da una mia baracca durante
la notte, ha colpito quella delle partigiane russe; tutte
e quindici sono morte, le ho ancora negli occhi quelle
povere ragazze, giovani, nel fiore dell’età!
In Germania ci hanno messo in un campo di
concentramento dove ero l’unico italiano, non so
neanche come mai ero solo io, c’erano reticolati
ovunque. Mi ricordo di un Tedesco che poi un giorno è
arrivato a prendermi, un civile non un militare, perché
aveva chiesto un manovale per la sua attività. Siccome
tutti gli uomini erano in guerra, questo civile aveva
una latteria e aveva chiesto un prigioniero da usare
come corriere per le consegne del latte, così sono uscito
dal campo e ho lavorato per lui, mi trattava bene, come
se fossi a casa mia. Era anziano e mi trattava come
un figlio, perché i suoi erano in Russia, stavo bene con

336
lui. Dopo però ho cambiato ancora, perché da andare
a latte mi hanno mandato in un mulino grande; quello
della latteria si era messo d’accordo con quello del
mulino per farmi lavorare nel mulino, dove c’era tanto
bisogno, e allora sono andato sotto di lui. Eravamo
in tanti là, caricavo la farina, la biada, il frumento,
sposta qua, sposta là, ho trovato anche uno da Rovigo
là, che dopo è venuto anche a trovarmi ed era stato
proprio lui a dire al padrone di portarmi là, perché
mi aveva visto in giro a prendere il latte. Aveva capito
che ero Italiano perché non parlavo il tedesco, poi non
avevo bisogno di impararlo perché trovavi già tutto
pronto la mattina fuori dalle porte, bastava lasciare
quelle piene e tira su le bottiglie vuote. Andavamo a
mangiare assieme ai padroni, e un giorno mi ha chiesto
da dove venivo e cosa facevo e quando ha saputo che
lavoravo la terra, che venivo dalla Piave e che avevo
un po’ di viti, mi ha detto di piantarne anche là: come
se crescessero in due giorni! Ma almeno parlavi un po’,
non eri disprezzato come in prigionia nei campi. C’era
una ragazza che aveva anche un poche di viti appena
piantate, e mi chiedeva cosa bisognava fare per tirarle
su e io andavo a vedere, dopo tanti cambiamenti anche i
Tedeschi hanno cominciato a trattarmi sempre meglio,
a comandarmi meno. Ricordo che avevo perso una
ciabatta non ricordo dove e la padrona mi ha comprato
un paio di ciabatte nuove, poi prendevamo prima niente
e dopo qualcosina di soldi vedevamo, perché avevano
capito che la guerra stava finendo. Nel mulino lavoravo
con altri Tedeschi, quasi tutti anziani o invalidi, e
non facevano parola, non ti dicevano nulla, tu sapevi
che avevi da fare quello e dovevi fare sempre quello,

337
ma era così anche per loro, era come se gli avessero
insegnato a obbedire a comando, come ai cani. C’era
anche la messa per noi prigionieri, perché c’era anche
un prete prigioniero che non so da dove arrivava. Il
campo non era malissimo, non so da dove venivano
gli altri prigionieri, ma mi trattavano come loro, non
come un traditore, forse perché ero l’unico Italiano e
non lo sapevano, ma mi davano da mangiare, anche al
bagno ci andavo tranquillo, in tutto saremmo stati…
non so dire una cifra precisa, ma c’erano anche delle
donne in un campo attaccato al nostro, ma non credo
arrivassimo a cento, e siccome eravamo pochi si viveva
anche se ci davano da mangiare. Quando sono tornato
a casa la prima cosa che ho fatto è stata cambiare in
posta i pochi soldi che mi avevano dato per il lavoro,
perché volevo sapere per quanto avevo lavorato.
Comunque, per tornare alla Grecia, noi non abbiamo
mai fatto niente ai Greci e loro mai detto niente a noi,
e anche da prigioniero mai fatto storie, quello che c’era
da mangiare si mangiava, anche perché se ne volevi
ancora o non ti piaceva non te portavano più, sia che
fossi Italiano, che Greco, che Tedesco o chiunque fossero
gli altri. Sentivamo i Russi arrivare, ma quelle povere
morte sul bombardamento di quella notte; lavoravano
anche loro nelle fabbriche, come noi.
Tre mesi dopo la fine della guerra, mi pare fosse agosto,
ci hanno caricato su un camion; mi ricordo che siamo
partiti in tanti dalla Germania, ci siamo fermati in due
tre posti, perché dovevano scendere altri prigionieri e
l’ultima tappa era Cimadolmo. La fine della guerra è
stata il 7 maggio in Germania, ma noi non abbiamo
potuto muoverci subito, poi sono arrivati a liberarci

338
i Russi, che poi ci hanno caricato su questo camion
guidato da uno che lavorava lì in Germania che poi è
venuto qua in Italia, ma ero solo io che tornavo da là,
gli altri tutti caricati da altri posti.
Tornato a casa ho trovato il disastro: mio padre era
morto da un anno, mio fratello più piccolo era nei
campi che lavorava, non sapeva neanche che fossi a
casa, Pompeo, che era tornato dalla Russia grazie a
mia sorella Ester, perché lei sapeva della clausola
che non potevano esserci due fratelli al fronte e così
hanno richiamato Pompeo che era sul Don, perché non
sapevano dove ero finito io; fatalità Pompeo è tornato
a casa due giorni prima che cominciasse la disastrosa
ritirata. Ma quanto meglio si sta senza la guerra, ma
perché devono esserci sempre guerre, ma cosa serve?
Cosa serve?>>.

339
Ieri e oggi

<<Tornato a casa ho ricominciato come prima, solo


negli anni ’60 ci siamo allargati come attività: da venti
campi a trenta quaranta campi di terra, che è la cifra
di oggi ancora, ma prima si lavorava meno, adesso mi
tocca lavorare di più, perché siamo rimasti in pochi a
lavorare la terra! I grandi allevatori e viticoltori sono
spariti, una volta qua era tutto di Tommasella, dove
è andato Tommasella adesso? Sono spariti! Tutto è
cambiato e la colpa è di tutti e di nessuno, inutile, non
c’è nessuno che vuole prendersi le sue colpe e allora è di
tutti e di nessuno… è un altro mondo oggi, quando che
mi penso di tutte le possibilità di oggi, di tutti i lavori
che ci sono, come si fa? Dopo tante volte sono stufo, mi
fa male dappertutto, anche oggi io e la moglie fino a
una certa ora fuori a tagliar cavi, che quando alzo le
braccia sento di quei dolori… quando che mi penso che
ho quasi ottanta otto anni… chi me lo fa fare? Colpa
di tutti e nessuno dopo, perché se qua stessimo tutti
ci sarebbe tutto lo spazio che vogliamo, ci sono molte
più possibilità di denaro di una volta, le case vecchie
sono grandi, basta metterle a posto, ci sono stanze per
tutta la famiglia, però adesso tutti vogliono andare a
vivere per conto suo, tanti si sposano con le straniere
o con gli stranieri, non si vuole più avere i vecchi in
casa! Io non do la colpa a nessuno, bisogna adattarsi,
ma con gli anni che ho i dolori non vanno via, e se
fossimo tutti a casa non ci sarebbe bisogno di assistenti
sociali o ospedali, perché i vecchi erano aiutati dai
parenti, ci si aiutava tutti insieme, la famiglia era

340
una grande risorsa. Adesso ci sono cose che sessanta
cinquanta anni fa non c’erano: noi avevamo le galline,
le anguille, i porci, le nasse per i pesci, adesso tutto è
andato perso, i fiumi sono inquinati non si pesca più,
quelli che lavorano la terra non ci sono più e vanno a
comprare la terra fuori per lavorare la terra all’estero,
una volta chi aveva comprato metteva dentro i
mezzadri, adesso non ci sono più! Cioè: ci sono ancora
ma hanno cambiato nome, ma la cosa che mi fa più
male è vedere che tutto quello che avevamo una volta
adesso non vale più niente: il maiale non si buttava
via niente, adesso vedere uno che ammazza un maiale
ti mandano a casa gli ambientalisti! E dopo ci sono i
bambinetti che non sanno neanche da dove arrivano
le uova, pensano che le fanno in supermercato, io le
vedo tutti i giorni invece, da quando sono nato!Dime
ti se l’è possibile ‘na roba de ‘sto genere! Ma io vedo
che continuano a fare case, fabbriche, ponti, poi finito
il lavoro? Bisogna distruggere tutto, anche la terra
buona come la nostra viene inquinata, ci passano
sopra le strade, le megastrade sopra le coltivazioni!
Guarda che io dico che sono arrivato a novant’anni e
ho imparato una cosa, e di questo sono sicuro: con la
terra si vive, con l’asfalto no! Ho ragione o no?>>.

Sì, assolutamente ragione! Se fosse un discorso elettorale


io voterei subito per Luigi! Invece non è un discorso
elettorale, ma è molto molto molto più importante: è un
monito verso le nuove generazione e soprattutto verso
quelle attuali, dobbiamo capire che distruggendo il
territorio distruggiamo noi stessi, se non ci sarà più la
terra per coltivare il cibo, che cosa mangeremo?

341
Dismo Campion

Una squadra di calcio

<<Sono nato qua a Cimadolmo, Stabiuzzo, perché una


volta nascevi in casa, non andavi in maternità.
Era il 23 marzo del 1923. Sono andato a scuola qua a
Stabiuzzo, ho fatto fino alla terza elementare, perché
allora era solo la terza e finite le scuole abbiamo
cominciato a lavorare. Avevo il papà invalido di
guerra, e ho cominciato a otto anni fuori per i campi a
cavar erba, con un falcetto e poi a dieci anni avevo già
un faldinet apposta, fatto per me, piccolo e dietro a mio
papà quel che era da fare facevo e sono andato avanti
a lavorare finché sono andato a militare.

342
In famiglia eravamo nati in diciassette, avevamo un
catino per lavarci ma spesso la mattina l’acqua era
ghiacciata, per scaldarsi bisognava stare in cucina
dove si faceva da mangiare o in stalla; si stava in
stalla una volta per scaldarsi, le case erano gelide; la
nostra stalla era piena, compreso di gente anche del
Madorbo, che là non c’erano stalle, non avevano da
scaldarsi, anche da Furlan c’era una stalla come da
noi. Ho avuto il papà che ha fatto la guerra del ’15-
’18 sul Carso e poi è stato ferito a Zenson, quando ha
attraversato la Piave in seguito alla rotta di Caporetto.
Si era rotto una gamba ed era stato portato in Ungheria,
con il ginocchio a pezzi e con una pallottola dentro, ed
è tornato a casa finita la guerra, un bel pezzo dopo,
che non si sapeva neanche se era vivo o morto perché
gli altri prigionieri erano già tornati tutti a casa. Qua
erano via tutti e le case sono state buttate giù durante
l’attraversamento degli Italiani, i nostri nonni hanno
dovuto ricostruire tutto. Anche la scuola era molto
diversa da oggi, c’era solo una maestra che faceva tre
classi, la Basso Margherita, robusta come un taiabosc!
Ma brava! Eravamo trenta quaranta per classe e ci
teneva zitti eh! E un periodo faceva anche due ore o tre
nel pomeriggio!
Essendo tanti in famiglia ho dovuto lavorare subito, e
ho avuto la fortuna di fare poco il militare, perché sono
del 1923 che è stata una delle ultime classi a partire,
l’ultima è stata quella del 1924 che l’hanno chiamata
i fascisti di Salò; già i fascisti! Ricordo sempre del
sabato fascista a correre per le strade e nella Piave
avanti e indietro, avanti riposo, avanti riposo, con un
paio di scarpe che ne avevamo un paio in tre fratelli e

343
ti facevano correre finché non le consumavi! Ma dopo
avevo l’impegno dei cavalieri ed è successo, quando
avevo diciotto, anni che mio papà aveva chiesto se
potevo rimanere a casa da una festa fascista perché
avevamo tutta la foglia dei cavalieri sulla Piave:
avevamo tutta la terra oltre il fiume, e ci dovevamo
andare con la barca. Qua ne avevamo poca, era di là
il grosso, anche se adesso non ne abbiamo più, perché
il fiume se l’è portata via tutta. Mio papà aveva chiesto
al capo dei fascisti se potevo stare a casa un sabato
per andare a tagliar foglie, che erano da passare
due volte con la barca, perché c’erano due canali da
attraversare, e bisognava andare alla sera perché non
c’era il padrone, l’avvocato Levada di Oderzo, perché
una volta nelle Grave erano tutti affittuari di Levada:
alla notte ci preparavano la foglia per i cavalieri e
la portavano sull’altro canale e noi la andavamo a
prendere per portarla a casa. È difficile da spiegare
perché adesso non c’è più niente, ma una volta nelle
Grave, verso Stabiuzzo rispetto alle case di oggi, c’erano
altre quattro cinque case di famiglie che erano là come
affittuari, anche mio papà era nato di là; le case erano
per modo di dire perché fatte su con poco, e la sera
quando era via il padrone venivano questi affittuari
del Levada con il bue e dei carri per caricare le nostre
cose e portarle dall’altro canale. Noi per arrivare nei
campi nostri passavamo due canali; passato il secondo
tagliavamo la foglia e con molti viaggi con la barca,
la portavamo nella terra in mezzo ai due canali, ma
ci voleva tutta la giornata. Alla sera veniva questa
famiglia di affittuari ad aiutarci, caricavano su un
carro una barca e sull’altro le foglie, ed andavamo a

344
passare il secondo canale da Danot, dalla pompa di
benzina, e là altri viaggi per portar di qua tutto. Ci
voleva una giornata intera ogni volta a fare queste cose,
e dovevi sempre chiedere una mano a qualcuno. Quella
volta a mio papà non hanno voluto dare il permesso,
perché dovevo andare a correre, ma poi uno ha fatto
presente al capo che mio papà era invalido di guerra, e
con quella mi hanno lasciato stare a casa per aiutarlo,
così mi hanno dato questo permesso!
Non importava chi fosse il capo, bastava che fosse uno
che aveva una certa autorità, eri abituato a obbedire
perciò obbedivi!
Avevamo anche tanto da fare a casa, perché avevamo
quattro campi di terra qua e tanti nelle Grave, ma
adesso non è rimasto più niente perché dopo la guerra
si è abbassata la Piave, il fiume corre di più e fa più
danno: la Piave dell’altro giorno se era una volta correva
agli argini sia di qua che per di là, e con quella Piave
con la barca si partiva e si andava a Candelù senza
mai smontare, perché copriva tutto, e spesso andava
l’acqua dentro le case a quelli del “Vecio Morer”; allora
si partiva con la barca due stanghe e due badili, andavi
a bere una graspa al “Vecio Morer” e a dare una mano
a chi aveva l’acqua in casa. Adesso vedi che il fiume
sta sempre nel suo canaletto qua da noi, ma una volta
quando la Piave era così i fossi erano in piena, il
fiume correva sugli argini fino a un metro, e se buttavi
una nassa la tiravi su piena di pesci. Ora essendosi
abbassato anche le falde sono calate, ma adesso fa più
paura, perché corre più veloce, la corrente non ha più
ostacoli, una volta il fondo era largo e andava piano,
attraversavi il fiume con l’acqua alta per andare a

345
Treviso. Comunque come dicevo, noi eravamo tanti, io
il primo e poi uno all’anno fino al 1936, solo nel 1925
non ne sono venuti, perciò lavorare subito, e lo svago
era fare il lavoro che più ti piaceva!>>.

La malaria

<<Sono andato via il primo di settembre del 1942 e


sono tornato a casa l’otto settembre del 1943, ma io ero
scappato prima che cascasse il regime, perché quando
sono arrivato a Cimadolmo suonavano le campane e
non sapevo perché le suonavano. Infatti, in quel periodo
ero in ospedale perché avevo preso la malaria, e il sette
di settembre mi hanno mandato fuori con il foglio di
via di raggiungere il mio reparto a Saline di Reggio
Calabria; noi non avevamo né televisione, né radio, e
nessuno sapeva niente, ma io avevo sentito le chiacchiere
che gli Americani erano sbarcati in Calabria, e io ho
detto all’ufficiale: “Ma se hanno sbarcato come faccio
ad andare giù in Calabria?” Allora quello mi fa:
“Vai giù fin Napoli e là troverai qualcuno del centro
smistamenti che ti dirà dove si è ritirato il tuo reparto!”
Ma il mio reparto poteva anche già essere prigioniero,
non si sapeva più nulla di che fine avesse fatto, così
faccio al capo: “E se io invece vado a casa e dopo mi
presento al distretto e mi dicono loro dove andare visto
che non sapete neanche voi dove mandarmi?” e con
quella sono venuto su, a casa.
Io ero mitragliere sul treno contro gli aerei, ho girato
tutta la Calabria e dopo sei mesi mi hanno messo

346
su un treno con una mitraglia, non da solo ovvio, si
era una squadra, e da Reggio a Taranto eravamo di
servizio, andata e ritorno per scorta di passeggeri. Il
treno era fatto di vagoni lunghi con le spondine ai
lati alte un metro, se pioveva avevi uno sgabuzzino
per mettere dentro le munizioni che era l’unico posto
asciutto, altrimenti pioveva dentro; giorno e notte, era
come essere all’aperto, in più c’erano diciotto gallerie
durante i tragitto e il treno andava a carbone: noi
eravamo appena dietro la locomotiva, avevamo due
mitragliere, una dietro la locomotiva e una in coda!
Puoi immaginarti visto che andava a carbone come si
era noialtri: da cambiarsi roba non c’era, eravamo neri
come gli spazzacamini, non potevamo neanche lavarci
perché quando andavi a lavarti quel fumo era come
l’olio, faceva fatica a venir via, e non avendo roba di
ricambio ti toccava andare via sempre con quella.
Ma andiamo con ordine: quando mi hanno chiamato al
militare mi hanno mandato subito a Reggio Calabria,
dove ci hanno tenuto un po’ di tempo per istruirci, dopo
ci hanno mandato a fare il campo a Catanzaro, ma la
Calabria l’ho girata tutta perché facevi un mese da una
parte un mese dall’altra. Dopo ti mandavano a fare i
tiri, dopo sono venuti su quelli del secondo semestre
del 1923 e noi ci hanno fatto tutti subito Caporali
perché dovevamo andare a istruirli, perché pensa che
non avevamo nessun ufficiale, solo un Capitano che
vedevi poco e un Sergente, e allora avevano formato
una squadra con tutti i nuovi, anzi, riformato, perché
avevano ricreato con noi il 207 fanteria che era stato
distrutto in Africa. Dovevamo andarci anche noi in
Africa ma non abbiamo fatto a tempo perché sono

347
venuti prima per di qua loro, gli Americani, prima in
Sicilia e dopo in Calabria. Là ci hanno bombardato
due tre volte a Reggio Calabria, con tanti morti anche
e avevano formato un reggimento per l’Africa, non so
dove volessero andare armati in quel modo là!
Nelle città andavamo fuori di guardia, dopo i
bombardamenti; mi ricordo che uno di noi doveva
uscire con un Carabiniere o un Finanziere di ronda,
in tre, e anche la sera uscivi a controllare, mentre di
giorno ci hanno messo a lavorare per scavare i morti,
perché i rifugi e i camminamenti erano in legno, quattro
pali piantati e delle tavole; allora se la bomba cascava
lontano va bene, ma se cadeva vicino o in cima… hai
mai visto il torcio come funziona, che dalle sfese esce il
vino? Ecco là i morti era successo così, schiacciati come
l’uva nel torcio e noi abbiamo lavorato abbastanza per
tirarli fuori, con il sangue che colava ancora dalle
macerie, tirar fuori quello che era rimasto, a giugno,
dopo una settimana di lavori non era da ridere
andare a scavare là, le carni cominciavano a puzzare
e decomporsi, diventava pericoloso anche per noi! Con
i civili la notte, se non avevamo servizio, andavamo
via dalla città e ci rifugiavamo in campagna o in
collina a dormire sotto gli ulivi per ripararci dalle
schegge, non bombardavano sempre, ma passavano
sopra la contraerea e le scaglie cadevano col pericolo
di essere colpiti anche dalla nostra contraerea, e noi
stavamo là sotto, quando suonava l’allarme uscivamo
dalla caserma che era in centro città e un bersaglio
facile perché c’era anche il porto, e la notte andavamo
a riparaci su in montagna che non c’era pericolo, poi
tornavi giù la mattina perché c’era sempre qualcosa da

348
fare e mettere a posto.
Il giorno che hanno bombardato la caserma fortuna
che non ero di guardia perché quelli che stavano di
guardia fuori sono morti, anche il capoposto; c’erano
camminamenti di terra fatti a curve, perché alle volte
venivano anche a mitragliare, e fatti a curve eri almeno
un po’ riparato, perché se era dritto cadeva una bomba
lontano ma dalla pressione che faceva potevi subire
danni lo stesso, e anch’io sono rimasto coperto durante
quel bombardamento, ma solo di terra per fortuna,
invece gli altri sono morti in tanti, e anche tanti feriti.
Poi mi sono preso la malaria; quasi tutti hanno preso la
malaria là, perché camminavi giorno e notte dentro a
questo treno, con il caldo e con il freddo, la notte c’erano
solo zanzare, e bastava una infezione per prenderla.
C’erano paludi a Metaponto, posti paludosi lungo il
mare, ma più che altro era il mangiare che mancava,
perché sul tragitto avevamo stazioni apposta per il
rifornimento, trovavamo un altro militare lì apposta per
darci da mangiare, perché noi non potevamo muoverci.
Il treno si fermava cinque minuti, scaricava caricava e
dopo andava via, sapevano che arrivavamo a una tal
ora e per quell’ora ci aspettavano, ma spesso capitava
che non arrivavamo, perché avevano bombardato e
rotto la linea, e allora il treno tornava indietro, faceva
il trasbordo delle persone e noi saltavamo il mangiare.
Io l’ho fatto per un anno solo, c’era gente del 1911 che
ha fatto questo servizio per dieci anni, leva, Africa,
Albania e dopo guerra ancora, chi anche è stato fatto
prigioniero.
Sette per squadra, il plotone è formato da tre squadre
da sette, quindi in tutto ventuno, la compagnia da

349
trecento persone, ma eravamo pochi, non c’era una
compagnia completa, avevamo solo un Sergente che
veniva dall’Africa e altri ufficiali non c’erano! Ma dove
vutu ‘ndar a far a guera cussì? Eravamo sette otto a
fare quel lavoro, e i giorni di riposo li facevi a Saline di
Reggio Calabria a dormire sotto gli ulivi con coperta
e pastrano e per andare a mangiare dovevamo andare
allo spaccio in stazione, che ti davano un pezzetto di
pane, una crosta di formaggio e un cazut di brodo!
Stava tutto dentro una giberna, e avevi due marce alla
settimana di trenta chilometri! Ti davano alla sera una
scatoletta di carne, due pagnotte e un po’ di formaggio,
e quello doveva bastarti per il giorno dopo che facevi la
marcia. Dovevi portarlo via, solo che partivi all’alba e
avevamo tanta di quella fame che… venti anni, puoi
immaginarti se bastava quella roba a un giovane!
Quasi tutti si mangiavano tutto durante la notte per la
fame che avevano, e il giorno dopo rimanevano senza
niente! E allora andavi a fare la marcia, ma passavi
sempre in mezzo a campi di arance e mandarini, così
qualcuno ne raccoglieva un po’, ma no tanta roba, solo
che dopo ti arrivava il conto a casa da pagare, e allora te
lo toglievano dalla paga giornaliera perché bisognava
pagare la spesa del danno che avevamo fatto, solo che
non era vero perché i contadini si erano fatti furbi e
avevano imparato a denunciare dove passavamo e
facevano sparire le arance per incolparci e prendere i
soldi, così dicevano che avevamo rubato tante arance e
invece non era vero, ne prendevamo una a testa a farla
grande, e le prendevamo da per terra.
Nel campo dove dormivamo, in una baracca senza tetto
perché quando pioveva entrava acqua dappertutto, là

350
vicino c’era un campo di cavoli, di una qualità loro; una
notte qualcuno di noi è andato fuori e li ha mangiati
tutti, e allora ci hanno messo una tassa da pagare, ma
praticamente ti prendevano i due soldi di paga che ti
davano; eravamo a Squillace quella volta, un paesetto
in mezzo alle rocce vicino a Catanzaro.
Un giorno mi è andata su la febbre a 40°: arrivato in
stazione mi hanno detto di andare su per una scala,
c’era un muro alto quattro metri e una scala appoggiata
al muro; mi hanno detto di salire, andare avanti, ho
spiegato cosa avevo e mi hanno mandato in ospedale
a Taranto, dove sono stato due o tre giorni. Dopo in
dieci accompagnati da un Caporale, ci hanno messo
su un treno per andare a Canosa di Bari, dove sono
stato fino al 14 di agosto. Dopo trasferito ancora con il
treno ospedaliero, ho fatto due giorni, il 15 e il 16 che
era sagra a Stabiuzzo e durante in viaggio mi pensavo
anche che era sagra a casa! Ci abbiamo messo due
gironi per arrivare ad Ascoli Piceno. Là sono rimasto
fino al sette settembre quando mi hanno dato il foglio di
via con l’ordine di raggiungere il mio reparto, solo che
io, come ho detto prima, ho preso e sono venuto a casa.
Me l’avevano vista subito la malaria, con il tremore e la
febbre alta era sicuro che avevi la malaria; ci ho messo
tanto a guarirla, a casa, appena tornato, quando mi
prendeva era tutto su un colpo, un giorno di Pasqua
mi è successa tutto su un colpo in chiesa a messa, come
mi avessero tirato un secchio d’acqua fredda! A letto
saltavi perché andava su a 42 gradi di colpo, senza
preavviso, ho fatto fatica a venir casa, ci volevano
tre quattro giorni, non avevi mai fame, non riuscivi
a mangiare, e quel giorno che riuscivi a mangiare eri

351
sicuro che dopo due tre giorni ti ricapitava ancora;
sarò andato avanti così un anno dopo l’armistizio, già
dopo un mese che ero casa ha cominciato a venire così.
Dopo con delle cure e delle punture speciali è sparita,
è andata via e non mi è più venuta. Mi ha curato
un dottore tedesco, ancora nel 1944: prima ti dava
l’aspirina o qualcosa simile, una pastiglia che davano
per i malarici, dopo mi hanno fatto bere tanta acqua
piena di medicine che berla era robe da morire, ma
non ha contato nulla. Dopo mi ha fatto queste punture,
questo dottore tedesco a Cimadolmo; erano di primo,
secondo e terzo grado, ma non mi ricordo più di cosa
fossero. Comunque la prima faceva male abbastanza,
la seconda di più e il dottore mi fa: “Se riesci a farle
tutte, ti garantisco che la febbre va via!” ma la terza dal
male che faceva ti veniva lo svenimento. Due volte sono
svenuto, prima urlavo dai dolori, quella era tremenda
invece, ma sono riuscito a farle tutte e così non mi è più
capitato niente, per fortuna…e per fortuna che non mi è
capitata tornando su in treno, perché allora non avevo
febbre, ma se succedeva non so cosa capitava!>>.

Testimone

<<Dopo hanno cominciato a fare i rastrellamenti, poi i


partigiani ti chiedevano se volevi andare con loro, ma
c’erano anche gli altri che ti chiedevano di andare con
loro, quelli di Salò. Io non sapevo da che parte stare
e non sono andato con nessuno, poi malato come ero
figuriamoci.

352
Dopo una bella mattina, eravamo nelle Grave a
prendere pannocchie, a tagliare le canne dalla base,
nel settembre del 1944, sentiamo dei colpi, arriva mia
sorella: “C’è il rastrellamento! C’è il rastrellamento!
Scappate a casa, svelti, sbrigheve, scampè casa!”
eravamo io Dante e Settimo, mio fratello del 1930
che abita a Torino. Corriamo a casa dove avevamo
preparato un nascondiglio per nasconderci durante
le perquisizioni, andavamo su con una scala dietro
la casa dove c’era un balcone che si entrava solo da
là, poi mio papà o qualcun altro toglieva la scala e
noi chiudevamo i balconi. Si era fatto uno steccato di
legne e dopo sopra tutte le canne; noi eravamo sotto là e
sentivamo papà venir su per la scala e uno che parlava
tedesco! Era un militare e mio papà davanti e lui dietro,
ma noi eravamo sotto le canne e non vedevamo niente;
allora abbiamo sentito che ordinava a papà di tirar via

353
le canne per vedere cosa c’era sotto, e noi eravamo sotto
là! Ha buttato via due tre pacchi di canne poi fa a papà:
“Ah… fertig, fertig… basta!” e noi ormai vedevamo lui
con il mitra spianato, pensavamo ci vedesse. E doveva
averci visto infatti, perché ha fatto uscire tutti in cortile
e ha dato l’ordine di bruciare la casa; per fortuna c’era
uno di Mazzer là in quel momento, quello che aveva
l’osteria a Stabiuzzo; sapeva qualche parola di tedesco
e aveva capito: “Toni varda che i vol brusar a casa!”
e mio papà si è messo a piangere, ma quelli niente,
volevano bruciarla! Allora è venuta fuori di casa la
mamma, che aveva la pancia alta in cinta quasi da
partorire, un altro piccolo in braccio e una fila di
ragazzini di neanche dieci anni dietro e allora Mazzer
ha detto al tedesco:
“Ma signore, vede cosa c’è qua? E lei vuole bruciare
la casa?” con quella il Tedesco ha visto tutti quei
bambini e ha lasciato stare, ma quel giorno avevano
già bruciato due case nelle grave, da Piaser avevano
dato fuoco alle stalle e siccome avevano un carro di
pannocchie lo hanno tirato fuori per salvare almeno
quelle e un Tedesco è andato a bruciare il carro con il
lanciafiamme!
Era quel giorno che ne hanno presi tanti qua, se tirava
via altre due fascine di canne ci vedeva e ci portava via
tutti, se ci prendeva io con la malaria figurarsi cosa
succedeva! E dopo quella notte là abbiamo sempre
dormito fuori, via per i campi, come arrivava notizia
che si avvicinavano ci buttavamo dentro i campi
di pannocchie, con una coperta per terra e stavamo
là, per la paura che tornassero i nazisti a fare altri
rastrellamenti, o i fascisti. Dopo è cambiata, perché

354
dopo il rastrellamento i partigiani sono rimasti alla
larga dal paese, e allora i Tedeschi hanno cominciato
a prendere su gente per farla lavorare nelle Grave: chi
aveva cavalli e carri al trasporto degli operai e gli altri
nel letto del fiume a far trincee, perché loro volevano
fermare gli Alleati come avevano fatto gli Italiani nella
Prima Guerra contro gli Austriaci, avevano tagliato
tutto l’argine perché non potessero venire di qua, i ponti
tagliati, il lavoro era tutto a mano, e loro pagavano
anche e si era più tranquilli, perché non avevi paura
dei rastrellamenti dei Tedeschi.
Ormai comandavano, anche se c’era qualcosa ogni
tanto, qualche contrario diciamo! Dopo è capitato
che gli Alleati sono passati di qua; era aprile e io mi
trovavo a Cimadolmo a prendere roba per i cavalieri,
e sento tutti:
“I è rivadi i ‘mericani, i è rivadi i ‘mericani! Tuti a San
Poeo che i ‘mericani i ha fat corer i Todeschi!” e allora
sono andato con gli altri a San Polo, dall’Agenzia
di Giol, in piazza, che era la caserma dei Tedeschi;
loro erano scappati verso Tezze, ma hanno trovato i
partigiani e si sono sparati: tanti morti quella volta,
ma noi eravamo là da Giol dicevo: scappati i Tedeschi
là era tutto pieno di vestiario e altre cose, allora tutti
là a tentar di portar casa qualcosa, sigarette; io ho
preso un pacco e sono venuto a casa e siccome qua una
volta erano tutti fumatori, adesso ce ne sono meno, ho
regalato un pacchetto a tutti, le ho date fuori a tutti!
Subito mettere la bandiera italiana fuori sul campanile
di Stabiuzzo, e c’erano gli aerei che vedevano fuori la
bandiera e tornavano indietro bassi a salutarci. Dopo
due tre ore capitano di qua gli Alleati: erano sbarcati a

355
Negrisia, dal cimitero, sono passati davanti qua con i
carri armati e abbiamo capito che finalmente era finita
questa guerra, che per noi Italiani era stata solo un
fallimento completo. Era paura tanta ad andar fuori
durante quegli anni, non sapevi chi potevi trovare, se
eri con uno andavi bene per uno e male per l’altro, non
sapevi chi era il nemico o l’amico.
Dopo dentro nelle Grave, ancora prima del
rastrellamento mi pare, c’erano i partigiani! Ma non so
chi fosse meglio, perché anche i partigiani uccidevano,
come quello che hanno ucciso nelle grave di Persico,
sul confine di Maserada nelle postazioni di mitraglia
delle guerra del ’15-’18. Là era il posto dove i partigiani
si erano installati, erano un ventina e noi avevamo la
terra là, perciò ci passavo sempre, e un giorno uno,
che non so chi fosse, lo avevano legato a un pioppo,
riempito di formiche e lo frustavano con la cintura; lui
ogni tanto urlava e loro anche:
“Parla… disi! Altrimenti te uccidiamo!” non erano
Italiani, li conoscevo di fama, non sapevo i nomi veri
ma conoscevo il nome speciale che si davano, uno era
Felice, lo Slavo e l’altro non so, ma era Slavo anche
lui. So solo che volevano sapere chi erano stati i suoi
complici, ma non ho capito di cosa perché non parlavano
bene la nostra lingua, poi avevo paura e sono tornato a
casa con la spagna che avevo raccolto.
Solo che il giorno dopo c’era una donna che andava a
legna, non per scaldarsi ma per far la polenta e diceva
che era ancora là legato, morto… non era simpatico
neanche con i partigiani a dire la verità, perché
anche loro facevamo come i Tedeschi per far parlare i
prigionieri, era guerra purtroppo! >>.

356
Svizzera

<<Subito finito la guerra non potevi neanche andare


all’estero se non avevi fatto la quinta elementare, allora
tutti abbiamo fatto i corsi serali per avere il certificato
di quinta, e siamo stati tutti promossi.
Io ho lavorato qua due tre anni come prima della
guerra, da contadino, poi sono andato in Svizzera;
là lavoravo sotto contadini, in una grossa azienda
agricola con centinaia di bestie nella stalla, a Ginevra,
parlavo anche un po’ di francese, ma adesso l’ho
dimenticato. Dopo due anni che ero là ho trovato una
donna che mi ha fregato ed è questa qua! Ci siamo
sposati là, a Ginevra e nessuno dei due conosceva i
parenti dell’altro! Abbiamo avuto due figli>>.
<<Io sono francese quasi, della Valle d’Aosta. Fiou
Virginia, il cognome è francese perché una volta la
Valle d’Aosta era francese e noi a scuola parlavamo
francese. Sono di Aosta, proprio Aosta centro!>>
conclude la “donna che lo ha fregato”.
<<Là in Svizzera con due tre soldi fra me e lei ci siamo
fatti su la casa, qua a casa però, lassù si stava in
appartamento, baracche più che altro, e ringraziare
che le trovavamo!
Eravamo contenti là, ho lavorato sei anni in agricoltura
e sei anni di giardiniere paesaggista. C’era un’impresa
di giardinieri che aveva venti trenta operai e andavamo
per tutta la città di Ginevra a far giardini. Delle volte
era il padrone che alla mattina o alla sera ti dava
gli ordini, la maggior parte stava dove costruivano
condomini, far le fognature, murette, giardini, piantar

357
piante, perché là dove si costruiva qualcosa bisognava
che avesse tutto verde intorno, e allora noi si lavorava
tanto, a far le stradine anche per i privati, perché
costruivano le case senza strade, allora le si faceva
noi, trattavamo i giardini di varie famiglie, tagliare
l’erba, mettere a posto le rose, rastrellare foglie, tutto,
poi siamo venuti a casa.
Un poco era cambiato devo dire, dopo dodici anni!
Siamo tornati nel 1962, ero partito nel 1950 e ho
lavorato la terra di mio papà perché ero venuto casa
con la speranza di trovare un lavoro e invece non c’era,
sono andato a vedere dappertutto ma niente, neanche
da Zoppas! Allora ho lavorato la terra a patti con mio
papà, perché una parte spettava a lui giustamente no?
Poi la stalla nostra era un punto di unione, si faceva
anche una specie di teatro alla sera con le altre famiglie
che venivano qua a scaldarsi, si giocava alle carte, a
tria, si stava assieme. C’erano quattro famiglie che non
avevano niente e venivano da noi, le donne si mettevano
a giustar calzetti, mentre gli uomini giocavano, e la
maggior parte si arrangiava anche lavorando di ceste
la sera, da Segato. Anche io per un po’ tornato dalla
Svizzera, perché lavoro non c’era, allora via per il giorno
i cestai avevano i fissi a lavorare, la sera i giovani, che
avevano imparato quasi tutti a far cesti, si mettevano
là per prendersi uno due franchi per andare magari
al cinema, o fuori con gli amici. Una volta ci avevano
ordinati i cestelli per ciliegie, ma prima della guerra
questo, perché ero piccolo, li faceva papà, che era bravo
veramente! Faceva i fiaschi coi vimini che cadevano a
terra, potevi buttare un fiasco pieno di vino sul muro
e non si rompeva neanche se vuoi! Tutti lavoravano di

358
ceste una volta, servivono per tutto!
Una volta si era più contenti, uscivi la sera che c’erano
i posti dei giovani, mica come adesso che avete la
discoteca e i bar! Noi non avevamo neanche la bici, io
la prima l’ho presa per andare a messa e al vespro, che
adesso non si va più neanche a quella! La sera dopo
una festa ero andato nelle grave con Antonio Celotto
a vimini, con sette otto chili per parte e si andava a
venderli in giornata per avere i due soldi da andare al
cinema. Casa avevi una bici solo, ma eravamo anche
molti di più come ragazzi, ci si trovava dall’osteria
lungo il Negrisia che uno raccontava barzellette,
trovavi qualcosa da fare, la corsa del paese chi stava
meno ad arrivare, la mosca cieca, quelli erano i giochi!
E un altro posto era dai pilastri sull’argine, che c’era
un bastone di ferro e passavi la giornata seduto là a
raccontare cosa avevi fatto durante la settimana. E
dopo le feste se volevi andavi al cinema, ma quante
volte sono andato a piedi con Raimondo al cinema
a Ormelle fuori di qua, perché lui aveva la bici, ma
siccome la mia serviva sempre a papà, per farmi
compagnia veniva a piedi anche lui! Non c’era radio,
la radio a Cimadolmo l’aveva solo il podestà che la
metteva alla finestra quando parlava Mussolini e
c’erano i bollettini di guerra, ma ce n’erano una o due
per paese! Adesso tac! Parli con uno in America! Una
volta se uno andava in America o in Australia dovevi
aspettare 40 giorni per sapere che fine aveva fatto…
è cambiato troppo in poco tempo, troppo sviluppo in
troppo poco tempo, e adesso c’è la crisi per colpa di
questo, e chissà come andrà a finire!
E tuo zio è ancora in gamba? È un pezzo che non lo

359
vedo Toni Menegaldo, una volta passava sempre nelle
Grave col trattore. e quant che l’ha lavorà! Pensa che
lui quando abbiamo fatto su le stalle qua, aveva un
anno più di me, perciò io sedici lui diciassette, e sabbia,
sassi, con un carretto e un cavallo ci ha portato a casa
tutto lui, tutto quello che occorreva ce lo ha portato lui,
lui riforniva tutti! Ma per fare la sabbia bisognava
passare la terra al vaglio, non era pronta come adesso,
allora la dovevi filtrare, quanto ha lavorato Toni,
aveva un cavallino giovane che lo faceva lavorare
che erano robe da matti! Ma comunque era meglio di
adesso, sebbene che andasse peggio si era più contenti,
a me pare che si era più contenti, i giovani adesso non
sanno più cosa fare, una volta andare a Oderzo a piedi
era un’avventura! Ricordo che mia zia doveva andare
a vendere le anatre a Oderzo; allora si partiva a piedi
con le cose in mano, chi aveva il cavallo faceva da
“tassista”, andare all’ospedale non c’erano ambulanze,
a parte che si andava meno una volta, anche i dottori
non venivano per le case, da noi sarà venuto due volte
in tutto, sebbene che eravamo in tanti! Dopo di piccoli
ne morivano di più una volta, adesso invece si salvano,
insomma tante cose sono migliorate, per tante altre era
meglio una volta, diciamo così! >>.
È vero, forse dopo quasi trecento pagine di memorie
ormai ne avrete piene le tasche di sentire questi nostri
eroi parlarci di come una volta fosse meglio, di come
fossero tutti più uniti e cose simili… ma è la verità!
Purtroppo, che lo vogliamo accettare oppure no, questa
è la verità, e non avremo occasione di dimostrare
loro il contrario sino a che rifiuteremo la nostra casa
al senza tetto, il pasto ai morti di fame, il diritto a

360
lavorare e dare una casa alla propria famiglia alle
persone bisognose e oneste, agli stranieri che mandano
la nostra economia accettando di fare lavori che gli
Italiani non vogliono più fare... una volta le famiglie
non avevano porte nelle case e non avevano paura di
nessuno, noi ora abbiamo porte e finestre blindate,
chiuse a tripla mandata, eppure abbiamo paura di
tutto e tutti… dovremmo fermarci a riflettere….

361
Pietro Palladin

Vita da schiavo

Pietro Palladin, originario di Vazzola, anzi di Tezze,


nacque il 17 ottobre del 1920, in Via Piave, ha vissuto a
lungo in via Tiepole e solo dal 1960 abita con la moglie
qui a San Michele, nella casa in cui mi ha accolto con
calore e simpatia.
Ma la sua vita, fu molto particolare, particolare per
il mestiere che svolgeva per guadagnarsi da vivere…
anzi dico meglio: per sopravvivere, visto che mangiare
mangiavano gli avanzi e soldi non ne vedevano:
servitore, assieme a fratelli e sorelle, mamma e
papà e poi anche la moglie, presso una ricca famiglia

362
vazzolese: i Bellussi. “Era magra una volta!” comincia
così la nostra chiacchierata, magra soprattutto per
loro che dovevano accontentarsi di ciò che cadeva
dalla ricca e abbondante tavola dei padroni, per loro ai
quali toccava sopportare perfino i soprusi dei figli della
famiglia, che li trattavano come animali: “Padroncino
e padroncina dovevi chiamarli…praticamente si era
schiavi!”. Schiavi e per quanti leggeranno non è affatto
una parola usata a caso.

<<Mangiare ce n’era ma da vestir poco, e fredo tant!


Sempre abitato e nato su una baracca, fin che sono
venuto qua. Eravamo in due sorelle e tre fratelli, io
il più giovane, gli altri sono già morti tutti. Eravamo
dipendenti servitori dei Bellussi a Tezze, operai salariati
come, perché lavoravano le terre in economia loro,
sempre lavorare da servitore e tacere sempre, sempre
pazienza, il padrone era padrone, padrone padrone! Mi
ha anche licenziato a un certo punto, perché io avevo
fatto la quarta elementare solo a Tezze, perché la quinta
non c’era toccava andare a farla a Vazzola, la quinta
l’ho fatta più tardi, alle scuole serali a San Michele.
Il padrone mi aveva licenziato dal lavoro perché non
avevo ancora compiuto quattordici anni e non poteva
assicurarmi, e allora io e mia sorella siamo andati dal
Sindacato a Conegliano e là mi hanno detto:
“Ti và a tornar lavorar là e manda su el tò paron!”
e così ho fatto, sono andato a lavorare e compiuti i
quattordici mi ha assicurato perché aveva fifa! Ho
lavorato là trentatrè anni, dai quattordici ai quaranta,
e per avere 200.000 £ di liquidazione mi è toccato
dargli quattro mesi di licenziamento e non sapevo dove

363
andare! Fortuna che mio cugino Ezio Campion, che
aveva preso l’osteria “Da Rui” mi ha dato questa casa
qua, che poi ho comprato nel 1967, son deventà sior!
La casa dei Bellussi era nel Borgo di sotto, Borgo
Zanette, dalla parte opposta al Borgo Bellussi di oggi,
perché quelli di là erano dei cugini dei padroni miei,
si erano divisi, di quattro fratelli tre sono andati là
e uno a Roncadelle. Per spiegare dove è ora, la via di
oggi si chiama Borgo Cristo, per andare a San Polo
dal centro di Tezze, però noi abitavamo in via Tiepole,
dove era la loro terra! Lavoravamo dappertutto,
servitore eri, preparare l’insalata, la gallina pronta e
pulita, padroni nel vero e proprio senso della parola,
“Sior paròn!” dovevi dire, mia mamma tremava tutta
quando arrivava, c’era anche una bambina che! Mi
ricordo che stavamo grattando la biada sopra, nel
soer e gli avevamo chiesto se ci portava per cortesia un
bicchiere di vino:
“Me pupà te paga!” ha detto… basta, chiuso! E dovevi
chiamarla “Comandi padroncina!”. Pensa che loro
facevano duemila quintali di uva all’anno a quei tempi,
e mio papà per portarci un grappolo d’uva da mangiare
doveva uscire alle quattro di mattina e nasconderlo
sotto la maglia per non farsi scoprire. Eravamo schiavi,
mai conti! E mai ore! Lavorare sempre, anche quando
era da vendemmiare si vendemmiava da mattina fino
a quando era scuro, dopo dovevi caricare le casse di
uva, e dopo andare in cantina fino alle tre di mattina.
E con la brosa anche, perché avevano tanto rabosa!
E poi andar su sui gelsi a prendere le foglie per i
cavalieri: avevano dodici onze di cavalieri, e a noi ne
davano mezza! Lavorare da mezzanotte alle quattro di

364
mattina io e mio papà, che andava dietro anche alle
bestie, e altri tre servitori, a cui davano una lira al
giorno e il mangiare poco da mangiare! Era brutta
perché d’estate dovevi annaffiare, sempre, perché
avevano la Ford loro, e allora giorno e notte, giorno da
loro e la notte dagli altri per prendere soldi, e io dovevo
controllare la macchina anche nei giorni di festa.
La scuola sono andato sempre bene almeno, andavo
scalzo! Sono dovuto arrivare a venticinque anni prima
di comprare una bicicletta! L’ha comprata mia sorella
con i soldi che ho mandato casa dalla Russia, ne avevo
mandati 1000£ a casa e loro hanno comprato la bici e
la stufa economica. Prendevo 3£ al giorno, e in Russia
non potevi spendere allora mandavi a casa, ogni mese
facevo il vaglia, caro mio, così la era.
Poi quando sono andato sotto le armi mi hanno anche
dato cento franchi di mancia! Non so come mai quella
volta! Non hanno fatto tante storie comunque, come
facevano? Arrivava la cartolina di precetto dovevi
partire, via tutti! E a casa bisognava andare al
sabato fascista e se non andavi! Quella volta che sono
andato a fare la visita, era di sabato, e c’era il nostro
Comandante là, Giacomini, che era un fassiston:
“Vardè che dopo mezzodì ve spete!”
“Eh no no l’è festa!” abbiamo risposto io e un altro; e
infatti non siamo andati e lui ci ha mandato casa i
Carabinieri, e loro ci hanno preso e portati a Codognè
a firmare. Allora era così caro, guai se non andavi.
Facevi istruzioni, marcia, correre su e giù in piazza,
come soldati! Qua a Tezze si faceva, perché a Vazzola
erano i radiotelegrafisti. Lo facevamo là dal vecchio
campo sportivo, che adesso non c’è più perché ci hanno

365
costruito sopra la cantina sociale. E anche là: hanno
fatto il campo nuovo perché c’erano i ragazzi ma
mancava il campo, e adesso che c’è il campo ragazzi
neanche uno!
Poi dagli affittuari i fascisti andavano a prelevare se
producevano di più, ma da noi no, dai Bellussi non
ho mai visto andare i fascisti; eravamo obbligati a
fare il sabato, quello sì! Comunque mai visto soldi dai
padroni, patate, biada e latte se ne avevano in più,
soldi mai visti, se avevi bisogno di soldi ti davano un
po’ di formaggio! Quando mi sono sposato è andato il
padrone dal sarto a San Polo, da Brisotto: ha comprato
lui la roba che serviva, e l’ha pagata lui, ma noi soldi
non ne abbiamo visti neanche quella volta, così era!
Ci tenevano come schiavi, solo gran lavoro, se dovevi
prendere mezzo chilo di formaggio loro segnavano e
poi sapevi te quanto valeva e quanto invece notavano
loro?>>
<<Come quando sono andata io – interviene Rina, la
moglie di Pietro – la padrona ci fa:
- Ma veo magnà tut?
- Signora, la varde che sen quattro cinque persone!
Sì, no che davano cinque lire e dicevi queste sono tue,
le hai guadagnate, ti davano un pezzo di formaggio, e
secondo loro doveva durarci di più di quello che era…
e la farina uguale… e questo era dopo la guerra, pensi
prima! Peggio ancora!>>.
Rina Pagotto, sposata da sessant’anni con Pietro, nel
1948, a San Polo… dodici anni di lavoro da serva anche
per lei, per niente, a fare tutto ciò che era ordinato, solo
lavoro e niente soldi, a fare la responsabile dei cavalieri,
<<padrone di qua, padrone di là… padroncini…e

366
parona granda! A vecia… l’avea sempre el tacuin in
scasea… ma par pagar noialtri mai.. l’avea tre tosati,
un l’è mort in Russia, morti tutti adess!>>

Ricomincia Pietro:
<<Se dovea andar a copar el porzel… posse dirla
questa qua? Tanto è verità! Andavamo due servitori
dal macellaio per aiutarlo a uccidere il maiale, e alla
sera:
“E voialtri v’è copà el porzel, ‘ndè casa a magnar!”
nianca a zena i ne ha dat! Pensa ti! E lori cò i so parent
i ‘ndea a magnar e bistecche! Capio che paroni che i
iera? E mio zio, che era il macellaio per capirsi, che
gli piaceva chiacchierare, aspetta la padrona e invece
arriva la serva della padrona e le fa: “Mi ho cusinà e
bistecche!” “Ihhh… i le ha magnade tute, ormai i beve el
caffè!” insomma mio zio aspettava che lo chiamassero
a cena, perché loro avevano un reparto per mangiare,
quelli che lavoravano ne avevano un altro. Allora ha
preso la sua sporta, coi ferri e i coltelli: “Buona notte vi
saluto!” loro non hanno detto niente, hanno mangiato
e detto niente. Allora la padrona vecchia si è accorta e
fa a mio zio: “Piero ho da pagarte. Quanti schei eo?”
“I è diese franchi senza zena!” altrimenti erano cinque!
Li ha presi e non è più andato. Quando invece il maiale
lo uccidevo io, loro venivano a mangiare a mezzogiorno
e anche alla sera! E dovevamo portargli musetto,
salame e braciole! Hai capito che padroni erano una
volta? Ma non sapevamo dove andare, cos’altro fare,
fortuna che mio cugino sapeva la nostra situazione
e ci ha tirato fuori, ma questo però dopo la guerra,
solo che volevo raccontarti queste cose perché credimi:

367
usciti da quella casa, anche se non avevo da lavorare
e non sapevo come fare, era come passare dall’inferno
al paradiso! >>.

Mai come in questi casi è appropriata l’espressione:


“padre e padrone”. Obbedienza cieca e assoluta,
mai un fiato, sfruttati fino all’estremo delle forze,
manodopera praticamente gratuita.. sembra un
mondo lontanissimo quello degli schiavi neri nelle
piantagioni di cotone, e invece lo ritroviamo qua nel
nostro Veneto, pochi, pochissimi anni fa… una realtà
che forse abbiamo dimenticato troppo in fretta, tante
erano infatti le famiglie costrette a questi lavori per
sopravvivere. Oggi le nostre si affollano nuovi tipi di
padroni: quelli del lavoro in nero nei cantieri e nelle
fabbriche, quelli dei super ricchi con in casa le colf,
magari straniere, trattate come pezze da piedi, più
simili a bestie che a esseri umani… come accadde a
Pietro e a Rina, che hanno lavorato per avere meno
dell’elemosina.

In giro per i fronti

<<Quando la guerra è scoppiata, sono stato fra i


primi a partire. Sono partito nel luglio del 1940 e sono
stato in Francia, poi in Jugoslavia e dopo in Russia.
Ho fatto due mesi in Jugoslavia, sempre col camion,
portavo le munizioni, le bombe, bombe grosse anche.
Ero stato chiamato alle armi il 9 marzo del 1940 e
mandato a Civitavecchia, scuola centrale artiglieria,

368
Divisione Torino. Mi ricordo bene io e dopo tre mesi
mandato in guerra in Francia, prima però a Este, a
montare la guardia, poi fronte francese, poi tornato a
Montagnana e dopo Civitavecchia ancora. Dopo siamo
andati in Jugoslavia, dopo a Roma e dopo in Russia.
In Francia non abbiamo fatto niente, perché mentre
andavamo su i Francesi hanno firmato l’armistizio,
siamo stati un mese dopo ci hanno richiamato, e sempre
in treno, allarmi da Este a Imperia; dodici allarmi
aerei, perché c’erano gli apparecchi che mitragliavano.
In Jugoslavia invece fatto l’entrata, mai sparato né
niente, ci si fermava un’ora, due ore, quattro e avanti,
finché mettevano bandiera bianca si andava avanti,
altrimenti ti fermavi. Noi siamo arrivati a Spalato e
Mustar, nel Kosovo. Era una bella cittadina quella,
ma non potevamo muoverci perciò non son riuscito
a vederla tutta. Sempre in giro per un pezzo, poi la
Russia…
Da Roma sono partito il giugno del 1941 in treno fino
ai confini dell’Ungheria, dopo in macchina abbiamo
attraversato la Mesarabia e dopo arrivati in Ucraina,
non mi ricordo tutti i paesi, mi ricordo Dnepropetrovsk
perché c’era il fiume Dnepr da attraversare, che lo
abbiamo passato di notte. In Ucraina dicevano: “Trosckj
trosckj Dnepropetrovskj!” cioè “Piano, piano arrivate a
Dnepropetrovsk!”. Dopo siamo arrivati a Ricovo, una
cittadina come Conegliano o Oderzo… là siamo stati sei
mesi, sempre Ucraina. Eravamo lontani da Kjev, verso
il Mar Nero, Odessa, era dai 35 ai 45 sotto zero, con
mezzo metro di neve! Io ero anche vestito perché facevo
l’autista, mi avevano dato anche il giubbotto di pelle,
ma i soldati no eh! Solo pastrano semplice! Poi noi

369
autisti avevamo i guanti di lana e il passamontagna,
ma io ne mettevo due visto che mia sorella me ne aveva
mandato uno. Guidare con la neve era il meno, perché
sopra la neve si formavano granellini di ghiaccio tipo
sabbia che facevano scivolare le gomme, e poi c’era
sempre un vento che ti rovesciava, camminare sulla
neve con il vento dovevi tenere su gli occhiali con la
rete! Io quei sei mesi là ho fatto poco o niente, sono
andato una volta solo al fronte a portare le bombe con
i camion, ma poi il camion si è rotto.
Ero nel reparto munizioni e viveri, quindi nel Comando,
stavo indietro, sono stato fortunato. Dopo montavamo
la guardia alla polveriera, perché c’erano sempre gli
apparecchi che bombardavano, allora se dovevamo
fare un deposito ne facevamo quattro o cinque, in posti
diversi e lontani, e montavamo la guardia a munizioni
e benzina. Non ci hanno mai preso, c’era un apparecchio
che girava e buttava una bomba qua una là; lo
chiamavamo “Pippo”, non so perché, lo chiamavamo
così, anche quando passava la notte sopra i nostri paesi,
tornato a casa: sentivi il rombo, spegnevi tutte le luci
e sotto il letto, non li vedevi neanche arrivare perché
come erano vicini spegnevano le luci, ma in Russia era
brutta, brutta veramente! L’unica cosa buona era che
tra noi soldati era sempre a posto, mai trovato da far
baruffa, anche con gli ufficiali comunque, ci volevano
bene.
Dormivamo dove capitava, nelle scuole, nei collegi,
col riscaldamento per quello, perché là avevano tanto
carbone e allora buttavamo su fuoco nelle cucine. Dopo
sempre continuato avanti fin sul Don, abbiamo passato
due tre paesi, finché la fanteria avanzava noi andavamo

370
dietro, dopo sono stato anche aggregato alla celere, che
loro avevano i cavalli, andavamo ad aiutarli a tirare
avanti la roba perché noi con le macchine stavamo
poco, strade non c’erano, tutta polvera, quando era
dieci minuti di pioggia non correvi più! Siamo rimasti
fermi quattro cinque giorni dove pioveva sempre, su
una valle fatta a conca, che veniva giù e si fermava
là, ed eravamo bloccati là! Tedeschi, Rumeni, Italiani,
tutti bloccati là e pieni de paltan da quant che piovea!
Poi io non ho visto nessuno durante l’avanzata, gli
ufficiali non sapevano niente di cosa succedeva, perché
da tre mesi non arrivava più la posta: gennaio, marzo,
febbraio, niente posta; solo dopo abbiamo capito di
essere accerchiati, come un abbraccio e in ultima
facendo così hanno ucciso quasi tutti. Io per fortuna
il primo novembre sono tornato indietro perché mi
hanno dato il cambio, e ho scampato l’offensiva; dovevo
partire cinque giorni dopo, ma avevo la macchina in
consegna, nuova, ed ero col Tenente che mi ha concesso
di andare via prima e sono partito prima e gli altri che
dovevano partiti con me, sono partiti il giorno giusto e
non sono più usciti! Eravamo 200 nel reparto, cento li
hanno mandati a casa ai servizi, gli altri sono rimasti
là, più visti, chi sapeva che fine avevano fatto? Nessuno
sapeva niente! Quaranta chilometri in macchina e poi
treno, quindici giorni al freddo per dare spazio a chi
andava dentro a fare l’offensiva, perciò chi andava a
casa doveva aspettare a ogni cambio, ma la fine che
hanno fatto l’ho saputa a guerra finita, la propaganda
non faceva sapere niente!
Siamo arrivati fino a Udine in treno, quindici giorni
contumacia, ma sono scappato a casa due giorni: avevo

371
visto sul giornale che partiva un treno per Conegliano,
così la mattina dopo sono scappato, ho saltato il muro,
preso il treno e venuto a casa due giorni, dopo sono
tornato in contumacia… mat vero? Mi hanno dato due
mesi di licenza; ero tornato a casa sano ma pieno di
pidocchi, pidocchi dappertutto, anche perché li avevo
già presi a Montagnana, perché là si dormiva sulla
paglia bagnata come letto! La Julia è venuta in Russia
dopo ma è stata presa dentro, io sono partito prima e
sono venuto a casa in tempo per schivare la ritirata;
quanti morti… le ho io in consegna le bandiera dei
combattenti lo sa? Siamo in pochi anche noi ormai!
Finita la licenza sono andato a Novara per cambiare
reggimento, il primo gennaio del 1943. 117° Reggimento
fanteria divisione Rovigo! Là ho fatto domanda per i
Carabinieri ausiliari, con una ferma di sei mesi finita
la guerra. In marzo poi siamo andati ad Alberga, poi
Capo Mele, su una montagnola, per la difesa costiera,
Imperia era la provincia. Là ho fatto il portalettere
in bicicletta, ma la portavo sulle spalle più che altro
perché per stare poco scalavo la montagnola altrimenti
se facevo il giro della montagnola, che era a picco sul
mare erano tre chilometri, se invece andavo su per le
scalinate stavo prima, con la bici in spalla. Andavo
al Comando e portavo su le lettere alla postazione e
contrario, come il postino; era un bel posto tranquillo
là devo dire, non c’erano civili vicini ma c’era un centro
di cechi che sentivano di più gli apparecchi, ma era
tutto morto, il paese non c’era nessuno, eravamo là coi
nostri quattro cannoni, perché ogni batteria ne aveva
quattro e mai sparato un colpo! Non so che fine abbiano
fatto tutti quando sono arrivati là gli Inglesi. Non ci

372
hanno mai bombardato, mai arrivate navi, tutto calmo
e tranquillo.
Poi il 25 luglio, quando è caduto Mussolini, ero a
Torino, con allarme aereo continuo, dopo a Vercelli
a fare il corso per Carabinieri, perché avevo fatto
domanda prima; erano solo istruzioni, una paginetta
da leggere con regolamenti, ma era poco tempo,
bisognava sempre stare di guardia, sei ore di guardia
alle banche, al Municipio, alla posta, là è venuto l’otto
settembre e a noi Carabinieri i Tedeschi non hanno fatto
niente, ci hanno dato l’ordine di occupare il distretto
militare e abbiamo fatto, poi io son scappato a casa!
Avevo scritto a mia sorella che preparasse indumenti
borghesi e sono tornato con vestiti borghesi e divisa in
valigia. Tornato in treno e mai fermato, un miracolato
insomma! Era metà ottobre; dopo due giorni che ero a
casa sono venuti in cerca i Carabinieri per portarmi
in caserma! Il Maresciallo è venuto e io gli ho detto
che non andavo via da solo, e intanto che il Tenente
telefonava per chiedere cosa doveva fare, arriva un
Carabiniere anziano, che mi prende, apre la porta, el
tira ‘na speazada in tel cul:
“No stà pì presentarte qua!” son scappato e dopo i
Carabinieri sono tornati ancora a vedere se ero partito,
e hanno trovato mia sorella: “L’ho accompagnato io
in stazione… è partito per Vercelli!” e invece non era
vero, a Vercelli non mi hanno visto e mi hanno messo
disperso! Sono anche andato a vedere in posta per il
sussidio ma risultavo disperso e mi hanno detto:
“No, niente!” capito come? Allora ho preso e sono stato
a casa, nessuno ha più rotto le scatole, e dopo mi è
arrivata la cartolina di lavorare per la Tot a San

373
Michele, a tirar via l’argine con badile e zappa. Noi
dovevamo tirare via l’argine in modo che se arrivavano
gli Alleati non potevano andar su: due qua, due là,
due là, un pezzo al giorno si allontanava il materiale,
per 50£ al giorno! Da ottobre del 1944 all’aprile del
1945, poi hanno cominciato a lavorare a contratto, e
allora si faceva un pezzo e quando finivi a casa, poi
ho fatto un periodo con il cavallo del padrone, perché i
Tedeschi avevano sequestrato i cavalli e dovevo andare
via a portar roba col cavallo e una volta mi è toccata
bella: una volta a Tezze con il cavallo carico e il carro
di cassette vuote da portare a Negrisia e a metà strada
del Borgo Cristo, è passato via un apparecchio… fiiii…
mi son scampà via, e l’altro soto ‘na casa, la cavaea l’è
scampada e tornada indrio e me amigo! Eravamo in
due no, abbiamo sentito l’apparecchio in cima e io ho
fatto correre la cavalla e sono andato più avanti, l’altro
è rimasto dietro, lui è scappato in una casa e il cavallo
è stato ucciso dalla mitragliata dell’aereo. Passavano
sempre a mitragliare, e una volta mentre ero a messa
a san Michele hanno bombardato Tezze; sono saltate
le finestre di tutte le case per lo scoppio. I padroni
avevano tanta paura di morire e che gli rubassero i
soldi, perché erano tanto attaccati alla terra, la paura
era che perdessero tutto.
Poi i partigiani sono venuti giù a prendere i Tedeschi,
e ne avevano presi quattro o cinque nei terreni del
padrone e me li hanno dati a me da far la guardia
perché loro dovevano andare a dividersi la roba; penso
fossero partigiani almeno, ma mi hanno lasciato là
con i Tedeschi in consegna, non ho fatto a niente, anzi
li ho fatti dormire in stalla due notti, sono stati qua

374
due mesi e poi sono tornati a casa >>.
<<Noi invece siamo andati bene coi Tedeschi –
racconta Rina – perché venivano sempre in due da
noi, e un bel giorno ero là che facevo i biscotti con la
mamma, nella nostra casa di San Polo, al confine di
San Michele in via Don Bosco. A loro piaceva tanto la
roba dolce, venivano con zucchero, farina e dovevamo
fargli i biscotti, papà gli dava due ombre di vin bon,
si ubriacavano e con quella noi abbiamo avuto diversa
roba da loro, e mio cugino Luciano Falsarella, era
bravo a cantare! Aveva otto anni e veniva a casa nostra
ad aiutare a far qualcosa, e si è messo a cantare “Dolce
Vienna” e i Tedeschi gli hanno dato cinquanta franchi
che non gli pareva vero, perché non c’erano mica soldi
da Falsarella una volta! L’è corest de corsa casa da
sò mama par farghei veder! Erano dieci fratelli, puoi
immaginare cosa voleva dire!>>
Di nuovo Pietro:
<<Poi la guerra è finita e subito, il primo maggio, mi
sono dovuto presentare in caserma dei Carabinieri
a San Polo per i sei mesi, ne ho fatti tre o quattro a
San Polo e gli altri a Vittorio Veneto, a fare il normale
servizio di controllo. Poi sono tornato a lavorare da
Bellussi, trattato uguale e anche peggio! >>

Finalmente liberi!

<<Dopo essere uscito dall’inferno, come avevo detto


prima, ho trovato lavoro da Visentin, al consorzio qua
a Tezze, vendeva concime, biada, frumento; tre anni ho

375
fatto là. Ma schiavo anche là, tante ore pochi soldi, e
allora mi sono stufato e sono andato in fonderia dalla
Zoppas fino alla pensione. A portare sacchi di quintali
sulle spalle, niente in confronto a sotto paròn però!
Poi avevo conosciuto Rina venuto a casa dalla licenza,
cioè in realtà la conoscevo da tanto perché i suoi campi
erano confinanti coi nostri, ero amico dei fratelli e
andavo sempre a casa sua, e tornato dalla licenza di
Vercelli l’ho conosciuta meglio!
Abbiamo deciso di sposarci e i padroni, per modo di
dire, hanno fatto la figura di comprarci la camera da
letto, anche perché soldi non ne vedevamo, non ce ne
davano, ci avevano messi in regola con l’assicurazione
per paura del Sindacato, ma i sindacalisti non
sapevano niente che non ci pagavano…>>.
<<Tanti sacrifici per venir qua, ma tanti – dice Rina
– ma quando siamo venuti via era solo da ringraziare
il Signore! Pagavamo sessantamila lire all’anno qua,
ma da là a qua era come dall’inferno al paradiso: là
eravamo schiavi, schiavi e schiavi, con un ragazza di
dieci anni e un ragazzo di cinque che per fortuna hanno
voluto studiare! Poi lui è anche andato a lavorare
tre anni da Visentin, magazziniere, portar sacchi,
benzina, concime ai contadini, ma schiavo anche là,
schiavo tuttofare. Anche pestare le legne alle donne
che dovevano accendere il fuoco, pulire le macchine,
lavare i cani, tutto; è passato da un padrone a un altro
padrone, se il padrone ordinava lui doveva obbedire,
erano tutti così i padroni una volta, obbligavano a fare
tutto caro, tu dovevi farlo altrimenti ti dicevano di
andare a casa!>>
Conclude Pietro: <<Ho intoppato male i padroni si

376
vede! Poi ho lavorato dalla Zoppas fino alla pensione,
nel 1978, con quarantatre anni di contributi, due anni
in anticipo. La vita è cambiata tanto, da poveri poveri
a ricchi, è cambiato tutto, sempre in meglio, ma adesso
non so come andrà: finché mi lasciano la pensione però
sono apposto, lei è invalida civile e gli hanno ritirato
due volte la pensione perché io superavo la paga, capito
i nostri deputati? Dopo hanno cambiato legge e gliela
danno ancora, per fortuna, è poco ma si compra il pane
almeno! E sai una volta eri talmente abituato a stare
sotto padrone che non riuscivi neanche ad arrabbiarti
per come ti trattavano, era solo da ringraziare che era
finita! Lui è tornato ancora qua a vedere se tornavo a
lavorare sotto di loro, due volte anche, ma no per l’amor
di Dio non torno più! Sempre sopportare e pazienza,
abituati da piccoli a non parlare mai, quando avevi
parlato ti facevano tacere e allora basta! Non porto
rancore contro nessuno, neanche contro i piccoli viziati
che ci comandavano peggio dei vecchi: nessun rancore
o odio, noi siamo tranquilli, abbiamo sempre fatto il
nostro, siamo in pace con la nostra coscienza! Abbiamo
fatto tante cose, chiuso la bocca anche troppo, ma non
ce l’abbiamo con nessuno anzi, è solo da ringraziare la
provvidenza che ci ha portato via da là, basta! >>.
Nonostante le umiliazioni subite, lo sfruttamento a cui
erano sottoposti, Pietro e Rina sono riusciti a farsi una
famiglia con due figli che hanno studiato, comprarsi
una casa con tanti sacrifici, dare un’educazione sana i
figli e nipoti… perché:
<<Siamo stati a un pranzo che era tutto buono, e c’era
un ragazzo di ventisei anni che no gli piaceva niente:
questo non voglio, questo neanche, questo no! Gli hanno

377
toccato fargli una pasta asciutta! Mi no so sò mama
cossa che la ghe fae, ma mi… te conte: una volta c’erano
tante verze, e mia mamma una sera aveva preparato
le verze e io le ho detto che non mi piacevano: “Le atu
magnade? Saiade? No?” “No me và, no me piase!”
“Prova a magnarle!”… mezzodì, sera, mezzodì domani,
senza mangiare niente, arriva la sera:
“Ah che bone che le iera mama!” capito che voglio dire?
Mia mamma ha fatto così quella volta! Una volta le
ho detto una parolaccia e mi ha dato quattro di quelle
sberle! Ora non puoi più toccarli, vengono su senza
disciplina e comandano loro, i genitori non fanno più i
genitori! Forse una volta era troppo, ma adesso non c’è
proprio più niente, da un estremo all’altra. Mio figlio
aveva paura di me, sapeva che se non faceva bene la
scuola! Adesso vogliono quello, l’altro, sono capricciosi
e i genitori li accontentano, e quello è il male, perché i
bambini capiscono lo scherzo e ne approfittano!>>.

378
Gino De Giorgio
Marcello De Giorgio

Piccola premessa valida per due…

Gino e Marcello, conducono oggi una vita tranquilla


assieme alle mogli, la stessa vita tranquilla che hanno
condotto in famiglia, tra fratelli, papà, mamma e
sorelle. Hanno lavorato tanto per riuscire a mantenersi,
portare qualche cosa a tavola per i figli, costruire una
casa: ora per loro è arrivato il tempo del meritato
riposo, un riposo che però ha ancora molto da dirci…
anch’io avrei voluto poter dire di più, far conoscere in
modo migliore la vita dei fratelli De Giorgio, ma spero
che questo poco sia apprezzato e che renda almeno
loro giustizia, perché faticare, soffrire e patire la fame

379
è toccato anche a loro e, in fondo, il tema conduttore
della raccolta è proprio questo.
Gino, Marcello… e consorti… eccoli qua, tutti e due,
loro quattro….

Gino, il falegname

<<Io sono nato nel 21 novembre del 1922, qua a


Roncadelle, qua, su questa casa qua dietro, verso la
campagna. In famiglia eravamo tanti, una volta le
famiglie erano grosse, con un poca di terra per vivere,
anche se io poi mi sono buttato a fare il falegname.
Sono passati tanti anni, si fa fatica a ricordarsi le
cose: io ho fatto le quattro classi qua a Roncadelle con
la maestra Pullini, che non è morta da tanto, ed era
una brava signora, veramente brava.
Poi qua c’erano i fascisti e si andava male, bisognava
fare il sabato fascista, che erano istruzioni militari
e corse, basta, altro non era, t’insegnavano a far la
guerra. La vita poi era duretta, non c’era mica tanto
da mangiare a quei tempi, si era poveri! Noi eravamo
una famiglia di contadini e basta, lavorar la terra che
non bastava neanche per no. Avevamo viti, che adesso
non ci sono neanche più perché sono morte, o le hanno
tagliate!
Per la guerra sono partito nel febbraio o marzo, forse
era marzo, del 1941, per andare in Sicilia. Io ero
della fanteria, a Caltagirone, dovevamo stare attenti
che non sbarcassero gli Alleati, ma la maggior parte
del tempo stavamo in caserma. Ero Caporale, ma là

380
in tempo di guerra era più quello che lavoravi che
il soldato, perché siccome non c’era più nessuno che
lavorava e allora usavano noi! Poi c’è stato lo sbarco,
ma non sono arrivati gli Alleati, erano Tedeschi io mi
ricordo: sì perché a settembre del 1943 sono arrivati
i Tedeschi e noi non avevamo niente, come armi ne
avevano solo loro, noi non avevamo niente, eravamo
pieni di miseria, niente di niente; ci è toccato accettarli,
non potevamo neanche rispondere, ma non ci hanno
fatto prigionieri, ci hanno lasciati andare via tutti,
sbandati dicevano! Così sono tornato a casa, otto
giorni di viaggio, dormire la notte in mezzo alle siepi.
Ho fatto strada anche con compagni e ufficiali, perché
c’era un buon rapporto con loro, anche i Siciliani per
quello ci trattavano bene, io non ho niente da dire di
contrario, solo che avevamo armi che non contavano
niente, io avevo un fucile mitragliatore che sparava
per miracolo, pesava e basta! Lo portavamo a turno,
ho sparato tante volte, ma come contraerea non serviva
perché non arrivavano i colpi, contro le navi uguale!
La Sicilia era tanto peggio di qua comunque, magra
tanto, condizioni di vita veramente gravi, stavano
male, avevano bisogno di aiuto non di guerra.
Comunque quando sono tornato a casa ho trovato
disastro anche qua, non avevamo più niente, perché
quel poco che era i Tedeschi avevano fatto tabula
rasa: tornato a casa allora mi sono messo a fare il
falegname, avevo vent’anni poco più, perciò avevo le
forze di provare cose nuove, ma lavoro non c’era, era
magra dappertutto, facevo porte e serramenti.
I Tedeschi qua erano meglio dei fascisti comunque
eh! Devo dirlo perché loro mandavano la gente a

381
fare i bunker nelle grave e venivano pagati, per il
servizio ai Tedeschi, poi c’erano anche i partigiani che
attaccavano i Tedeschi e i fascisti, e si sono uccisi, c’è
stato sì qualcosa, ma i peggio erano i fascisti, perché
quando sono arrivati loro andavano per le case a
pestare e rubare. Poi la guerra è finita ma non c’era
più niente, quel poco che era lo avevano portato via
Tedeschi e fascisti. Magra tanto: io ho provato ad aprire
una bottega con un’attrezzatura un po’ più moderna,
ho cambiato tante cose, tenuto meglio la stanza che
usavo come laboratorio, e ho tentato di ingrandire un
po’ il lavoro coi serramenti, ma lavoro non ce n’era,
ho smesso quasi subito. Non ho fatto molto io sa? Non
sono andato da nessuna parte a lavorare, lavoravo per
conto mio coi serramenti, quando capitava, ero solo
io che li facevo, non avevo concorrenza come no? Così
invece di andare a lavorare per le ditte mi sono messo
in proprio, ma era dura.
Poi io ho due fratelli, che hanno fatto fatica anche loro
a trovare lavoro, uno ha fatto il meccanico e Marcello il
muratore, poi la miseria si è sbloccata con il boom e ci
siamo divisi perché abbiamo avuto famiglia! >>
<<Per tirare avanti in famiglia lui ha fatto il falegname,
anche se lui dice che gli è toccato farlo era un artista!
– dice la moglie Stella Vendrame – Lui ha smesso
solo dopo che si è ammalato, ma altrimenti lo farebbe
ancora perché era bravo tanto! È andato a Treviso a
fare un controllo e gli hanno detto che per la polvera e
gli acidi usati nella lavorazione era meglio se smetteva,
e poi nel 1999 lo hanno operato ai polmoni. Ma prima
aveva sempre lavorato, sempre fatto il falegname: qua
sotto era la bottega, ci sono ancora tutte le macchine

382
in laboratorio, ferme da dopo l’operazione. Aveva
cominciato da ragazzo da Ros, poi da Sartor, e dopo
suo cugino qua ha messo su una baracca da Bepi
Meneghel, che adesso l’hanno buttata giù, e si sono
messi a lavorare di falegnameria tutti e due. Dopo
lui si è messo qua da solo, faceva di tutto: lui sapeva
fare mobilia, ma poi anche finestre, camere, di tutto,
era bravo, se vedesse che robe! Era un artista per quel
lavoro, c’erano gli architetti che andavano a vedere
i serramenti che faceva lui perché le consideravano
opere d’arte, anche le porte; era bravissimo a lavorare
il legno, ma poi si è messo coi serramenti perché
rendeva di più. Il 23 aprile del 1954 ci siamo sposati,
abbiamo avuto due figlie, Anna e Paola, la sposa del
dottore; ci siamo conosciuti durante la guerra. Era
brutta veramente; io stavo a Santa Lucia di Piave,
era una baraonda lì perché c’erano tutti: Tedeschi in
casa, croce rossa, fascisti, poi si sono messi a fare le
trincee, operai che lavoravano, partigiano che facevano
attentati. I Tedeschi avevano messo gli uomini a
lavorare dalle grave dove stavamo noi fino al ponte
della Priula. C’erano bombardamenti continui, dovevi
fare le trincee, aerei che venivano di continuo, era un
disastro, da pregare. Mio papà era sopra l’argine un
giorno, con un Tedesco che lo bastonava col fucile
sul sedere per costringerlo ad andare a lavorare, lui
non voleva; è passata una mitragliata di aereo che
ha divorato l’argine, se mio papà non si rotolava giù
dall’argine era finito!>>.
<<L’Associazione Cristiana artigiani italiani mi
ha rilasciato un diploma di fedeltà per aver fatto
venticinque anni il falegname, ma cosa vuole che sia!

383
Se me l’hanno dato si vede che lo meritavo dai, ero
anche contento anzi, è guadagnato, ciapa!>>
<<Atu guadagnà che? L’è ‘na bea roba che i teo vepie
dat, ma no che te vepie guadagnà!>>
<<No, no, infatti schei no ghi n’ho vist! >>
<<No ma guardi: come le ho detto prima lui era
bravissimo, pensi che Botteon gli aveva proposto il
posto da capo, era la più grossa fabbrica di arredamenti
del tempo, adesso non so se c’è ancora, ma lui doveva
andare là a lavorare solo per dirigere, perché avevano
visto i lavori che faceva e lui non ha voluto perché non
gli piace stare sotto padrone, non vuole essere legato
e allora il padrone della fabbrica ha insistito, ma lui
niente! Poteva fare la vita bella, ma lui era bravo e
anche orgoglioso, non voleva stare sotto padrone.
È anche stato socio fondatore dell’enopolio di

384
Roncadelle sa? Hanno messo su la cantina e lui e
altri due sono stati i primi a portare là l’uva, e per
questo hanno nominato questi tre soci fondatori, sono
i primi tre ad aver portato l’uva alla nuova cantina
di Roncadelle, negli anni subito finita la guerra. Io
non ero qua ancora, ma mi raccontavano sempre che
i primi sono stati Gino e altre due persone, che adesso
non so dirti>>.
<<Sì ma avevamo poca uva e adesso qua in paese è
ancora meno perché tutti cavano via i vigneti, una
volta era solo vigneti! Non so neanche se si porti più
l’uva là! È tanto che non la porto più, perché avevamo
la terra nelle Case Rosse, là da mio fratello Marcello, è
cambiato tutto adesso, chi riconosce più qualcosa?>>.

Marcello… prigioniero, contadino, muratore

La testimonianza che segue, è stata raccolta attraverso


la voce della moglie Maria Tonel e i documenti ufficiali
dello stato di leva, spero però, di riuscire a trasmettervi
qualcosa di lui.
<<Lui è della classe del 1920, 14 marzo del 1920; erano
tre fratelli e tre sorelle, uno dei fratelli è Gino, quello
che hai parlato questa mattina.
Ci siamo conosciuti nel 1939, dopo lui nel febbraio
del 1940 è andato soldato e quando è tornato ci siamo
sposati nell’aprile 1947. Eravamo sempre stati in
corrispondenza fino all’armistizio, poi è stato deportato
in Germania e non ho più avuto sue notizie per due anni.
Ma ho aspettato perché sapevo che era là da qualche

385
parte e vivo! Siamo andati a stare dal mulino vecchio
di Roncadelle, perché la casa vecchia dei De Giorgio
era là, come c’è ancora. Stavamo con una famiglia di
Bazzo, che erano affittuari dei De Giorgio, lavoravamo
la terra, ne avevamo un bel pò, cinque sei campi di
terra. Il fratello più vecchio faceva l’autista, Gino il
falegname e Marcello lavorava la terra, poi però ha
fatto anche lavoro da cestaio per i Minuti di Stabiuzzo,
anch’io lo aiutavo nel lavoro perché avevamo bisogno
di soldi. In seguito è andato a lavorare per Cadamuro,
a fare il muratore e a sessantadue anni è andato in
pensione.
Mentre Marcello era via in guerra qua era tutto in
allarme, io lavoravo alla filanda a San Polo di Piave:
partivo da Levada in bicicletta ogni giorno, con
qualsiasi tempo, vento, pioggia, sole, caldo e freddo,
mentre la gente era sulla Piave a fare i bunker e gli
aerei bombardavano in continuo.
La mia casa era a Levada, e ho beccato proprio il giorno
del bombardamento di Ponte di Piave! Ero a messa là
a Negrisia e si sono viste le bombe cadere, che capisci
dove cadono quando scendono, sapevi dove andavano
e che facevano il macello; è stata cattiva la guerra!
Poi dopo il bombardamento di Treviso mi ricordo che
abbiamo portato via i mobili a una famiglia e ti dico
che la guerra è stata spaventosa, vedere cosa aveva
fatto, solo parlare di guerra mi vengono i brividi, è
orribile vedere cosa fa la guerra! >>.

Ora cerchiamo di vedere un pò di notizie su Marcello,


valoroso combattente premiato con tre croci al
merito di guerra, una per la prigionia, e due per la

386
partecipazione agli eventi bellici del 1940-1943, la
medaglia di bronzo al merito di guerra e il distintivo
di Volontari della Libertà per aver rifiutato di tornare
in Italia a combattere per la Repubblica Sociale
Italiana.
Qualche cosa ce lo possono raccontare le carte, molto
poco, ma comunque, un poco da non perdere, come
le cartoline scritte alla fidanzata durante la guerra,
che non è mai riuscito a spedire, ma che ha sempre
tenuto con sé, per avere la forza di sopportare la dura
prigionia.

387
Marcello figlio di Giovanni De Giorgio e Bottan
Carolina, era Caporale di fanteria, chiamato alle
armi e arruolato nel Distretto di Treviso il 12 marzo
1940, da dove partì come artigliere nel gruppo di
accompagnamento del 55 reggimento fanteria divisione
Marche, mobilitato il 20 settembre del 1940 e inviato
a Bari, dove è stato imbarcato sulle navi dirette a
Durazzo, in Albania, dove sbarcarono il 2 aprile del
1941. Marcello raggiunse però da solo la compagnia,
infatti era in licenza mensile sino al 28 marzo, ma come
quella fu terminata fu subito obbligato ad andare sul
campo di battaglia.
Il primo periodo di mobilitazione lo fece a Treviso,
da dove tornava a casa per trovare la fidanzata tutte
le sere. Poi finì in un paesino di montagna e dopo in
guerra, in Jugoslavia, il destino della maggior parte
dei reduci di questi comuni.
Dopo aver girato la Croazia, la Bosnia Erzegovina,
l’Albania, ed aver partecipato a diverse operazioni di
guerra, e due ricoveri in ospedale a causa delle malattie
provocate dal cibo avariato, fu catturato dai Tedeschi
appena dopo l’armistizio, il 12 settembre del 1943 e
deportato in Germania, portato all’interno di carri
di bestiame con altri prigionieri italiani, ammassati
come bestie senza cibo e acqua per giorni. Fu rinchiuso
nello Stamm Lager VI/J (campo di concentramento) di
Krefeld-Fightehein (nome della cittadina) nell’Arbeits
Kommando n.1950 (commando di lavoro forzato), con
il numero di matricola 91324. Anche nello Stamm
Lager Marcello finì in ospedale; ma prima di lui c’era
un ragazzo, un certo Cal dalla Guizza, che gli disse di
scappare da lì se non voleva morire; erano tutti malati

388
della peste dei soldati: la TBC. Così è tornato subito al
campo, a riparare le ferrovie, le strade. Poi ad un tratto
i controlli si sono allentati, alcuni scappavano per le
campagne a recuperare qualche cosa da mangiare,
altri si limitavano a farsi dare qualcosa dalle donne
tedesche e dopo tornavano nel campo: si sentiva che
la guerra stava finendo, ma Marcello dovrà ancora
aspettare, aspettare sino al 15 aprile del 1945 per poter
rivedere di nuovo la libertà, anche se fra contumacia e
altro tornò a Treviso solo l’undici novembre del 1945,
dove era atteso da una ragazza che sapeva sarebbe
tornato. Mentre le sue amiche si sposavano perché
pensavano che i loro ragazzi fossero oramai perduti,
lei ha aspettato, resistette alle comari del paese che
le dicevano di risposarsi: la forza dell’amore è l’unica
cosa che può salvare questo nostro mondo malato,
l’unica!

389
Dino Zanella

L’ultimo a partire

Dino Zanella nacque ottantacinque anni fa, il 3


febbraio del 1924, a Vazzola, ma già dopo un anno di
vita era qui a Tempio, dove vive tutt’oggi con moglie,
figlie e nipoti. Come tanti altri, partì per la guerra; fu
l’ultimo: la classe del ’24 fu l’ultima a essere chiamata.
Non fece molta guerra Dino, almeno così lui dice, ma
a mio parere anche lui, come tanti altri, fece la sua
guerra, quella più dura e infida, quella che sibilava
alle porte di casa, fra partigiani in cerca di cibo e
uomini, repubblichini in cerca di vendetta e Tedeschi
che era meglio non incontrali. Anche quella fu guerra;

390
una guerra truce e meschina come dicevo, nella quale
non ci si poteva fidare di nessuno.
<<I miei genitori hanno comprato qua a Tempio e sono
venuti qua da Tezze, dove avevano cinquanta campi
di terra. Hanno venduto tutto di là e sono venuti di
qua perché la terra di Tezze è molto ghiaiosa, e una
volta non c’erano i mezzi per dare l’acqua ai campi,
bisognava fare tutto a mano, così abbiamo venduto in
cambio di quarantacinque qua a Tempio e tre case, una
coloniale e due di coloni, era una casa padronale. Fra i
genitori e i fratelli hanno comprato tutto, perché erano
cinque fratelli tutti sposati che vivevano tutti assieme,
hanno comprato qua assieme e hanno vissuto qua tre
quattro anni in tutti fino al 1927, poi si sono divisi e
con nove campi di terra per uno.
Poi mio papà è rimasto qua assieme con uno dei
fratelli, quindi di campi ne avevamo diciotto, e poi
nel dopo guerra siamo cresciuti, fino anche a cento
campi, poi abbiamo venduto anche noi e abbiamo
comprato il terreno dove c’è questa casa qua. Noi come
famiglia eravamo due fratelli e due sorelle, ma se ci
metti dentro i figli degli zii e tutto, arrivavamo a una
trentina di persone, finché stavamo assieme. Questo
era un paese agricolo, contadino, di mezzadri più che
sia, i proprietari erano pochi. Ho fatto le scuole qua a
Tempio, la quarta a Ormelle e la quinta a San Polo,
perché qua a Tempio c’erano solo due maestre con troppi
alunni, non ce la facevano a starci tutti in due aule,
così la quarta l’hanno portata a Ormelle in definitiva
e la quinta a San Polo perché non c’era; andare a piedi
con maestri severi, duri, con pioggia e freddo sempre a
piedi, qua a Tempio c’era la maestra Zambaldi.

391
Prima però c’era stata la quota 90! Nel 1929 quando i
fratelli hanno diviso la roba avevano quarantacinque
campi di terra, nove a testa: avevano fatto quattro
o cinquemila lire di debito, che a quegli anni era
tantissimo; con la quota 90 erano diventati di più,
ma i miei genitori si difendevano, è solo che due dei
fratelli avevano sposato le sorelle Colmagro da Tezze,
e i Colmagro con la crisi hanno fallito e i fratelli
avevano firmato per i Colmagro! Cosa è successo? È
successo che i beni dei due fratelli li hanno assorbiti
con le firme i Colmagro, ma i debiti si sono accumulati
su mio padre, così si sono trovati con più debiti che
capitale, perché i debiti nostri e quelli dei fratelli, tutti,
perché la quota fu confiscata dalle firme, e mio papà e
questo mio zio si sono visti sequestrare tutto dovevamo
sloggiare, otto giorni via di casa! Hanno speso 600.000
lire per un capitale di quarantacinque campi di terra;
quando hanno comprato costava seicentomila lire, con
la quota 90 svenduto, ne valeva solo tremila al campo
invece dei tredicimila di prima! Cinque sei campi di
terra non valevano più niente, il proprietario che ci
aveva venduto la terra poteva tornare in possesso di
tutta la campagna per il valore di tremila lire al campo,
pensa quanto si era svalutato il denaro, non contava
più niente, il valore della terra era crollato, il prodotto
dei bachi da seta era passato da trenta lire al chilo a
tre! Da proprietari a non avere niente, sulla strada!
Mio padre e mia madre ci hanno pensato tutta la notte,
poi l’idea: “Scriviamo al Duce!” e allora hanno scritto
al Duce. Hanno scritto a Mussolini che ci trovavamo
con otto figli a carico, che avevamo comprato questo
che ora a causa della quota 90 valeva niente e che ci

392
espropriavano, tutto messo bene per iscritto. Il Duce
dopo otto giorni ha risposto in Prefettura a Treviso,
che ha telefonato al Municipio di Ormelle:
“Accomodare immediatamente la faccenda Zanella
entro otto giorni!” hanno combinato che pagassimo in
quattro cinque anni, e abbiamo risanato tutto perché
poi gli anni sono cambiati ed è andato meglio, abbiamo
piantato viti e sempre lavorato la terra e al sabato
il pre militare da Bertoni, il Tenente Bertoni, che ci
faceva, marciare, era obbligatorio per tutti. Poi dal
1936 l’Italia è entrata in guerra continua, dall’Africa
alla Seconda è stato un continuo di guerra e il 28 aprile
del 1943 mi è toccato partire, è arrivata la cartolina e
via al fronte, a Gorizia, con il 23° fanteria, assieme
ad altri di Roncadelle. Sono rimasto là quattro cinque
mesi, facevamo pattugliamenti in un territorio in cui
agivano gli Slavi, e quando è venuto l’otto settembre
dovevamo partire per il fronte, ma è venuta la disfatta
e io sono scappato via in borghese e sono venuto a casa,
dove sono dovuto scappare di continuo da partigiani e
fascisti, ho fatto lo sbandato perenne, andavo a dormire
di notte nei fossi o da qualcuno che mi ospitava, non
dovevano trovarmi altrimenti rischiavo io e la mia
famiglia, ho continuato così fino alla fine della guerra,
mentre gli altri andavano a lavorare nelle Grave. I
Tedeschi sapevano che ero a casa, allora alle volte mi
facevano portare la gente a lavorare nei bunker con
carro e cavallo. Io ero addirittura infermiere via pensa:
ero stato tirato fuori per fare infermiere, ho fatto tre mesi
di istruzioni, poi tutto è avvenuto in modo scientifico:
è passato uno: “Te, te, te, te, e te, infermieri!” avevano
bisogno in infermeria e sono venuto casa da infermiere,

393
ma avevano bisogno di tutto e non c’erano né mezzi
né uomini, quello che avevano bisogno ti mandavano,
così era.
Tornato a casa è stata una fuga continua, i Tedeschi
facevano i rastrellamenti, noi avevamo preparato pulita
la vasca della fogna della concimaia dei porci e quando
le donne andavano al bagno ci dicevano se arrivavano
o no, oppure avevamo preparato dei bunker nascosti
sotto terra, perché se eri preso andavi in Germania,
e là era nera satu? Almeno non ci hanno mai portato
via le bestie, perchè c’era sempre l’ammasso come sotto
i fascisti, cioè misuravano quanto dovevi fare e tutto
quello che era fatto in più lo prendevano loro, ma
anche là se portavi sbagliato era subito la Germania,
non c’erano mezze misure. C’erano anche i partigiani,
ma la liberazione vera è stato quando è finito tutto,
quando la vita è ripresa con il lavoro nei campi, che
siamo riusciti a espanderci un po’, si respirava, erano
finiti i problemi della quota 90, la fine della guerra è
stata una rinascita, abbiamo comprato terra, fatto una
cantina, una bella azienda, ma io mi sono ritirato dopo,
perché con tre figlie… ho venduto e ho comprato questa
casa qua nel 1985, una casa colonica che abbiamo
restaurato quello che si poteva e il resto buttato giù ma
mantenuto la planimetria.
Certo che adesso è dal giorno alla notte il cambiamento,
troppo benessere qua! Non so più se continuerà ma
momenti di crisi come questo dalla fine della guerra
non ce n’erano mai stati, gli anni erano sempre andati
migliorando, grazie alle macchine, alla voglia di
lavorare, adesso boh? Per quello adesso si vive bene,
soprattutto chi ha risparmiato, per voi sarà diverso

394
adesso, ma siete giovani, avete la tecnologia, noi
si faceva tutto a mano, anche i cavalieri, ogni anno
avevamo fino agli anni cinquanta quattro cinque onze,
quattro o cinque quintali insomma, era lavoro tanto,
ti buttava fuori da casa a momenti, e dopo pompare, i
primi motori sono venuti da poco, il frumento tagliarlo
a mano, raccoglierlo, metterlo di sopra al coperto,
dopo le macchine ci hanno fatto comodo, ma mio papà
non ha più voluto che lavorassimo così tanto solo in
due, così abbiamo comprato terra e messo dentro degli
affittuari, ne avevamo tre e così si stava più tranquilli.
Ma una volta era un’altra cosa il lavoro, lavoro voleva
dire star fuori fino a notte per lavorare, tra la biada e il
vino, che la cantina ce l’ha mio fratello adesso, voleva
dire ogni giorni tutte le ore lavorare, niente in confronto
a oggi caro mio! E guarda che la vita si vive una volta
solo eh, non si può tornare a rivivere i nostri anni, la
gente non ne sarebbe capace! È quello il pericolo di
questa crisi qua! >>.

395
Francesco Bazzo

Dalla mezzadria alla guerra

<<Io sono nato il 23 dicembre 1924 in Borgo Molino,


a Stabiuzzo. Là c’era ancora il mulino a quei tempi,
te non l’avrei visto ma è poco che lo hanno tirato
via. Era un mulino con le roste, aveva un serbatoio
che quando l’acqua arrivava a un certo livello faceva
andare le roste, era una cosa dosata, la capacità era
quella, veniva mossa una rosta in roccia aiutata da
un cilindro. Le ruote erano scavano in una roccia e
scanalate per funzionare da pala.
Ho fatto le prime quattro classi a Roncadelle, la
quinta la faceva chi aveva la bici, ma ce n’era una ogni

396
venti persone. Noi poi in famiglia eravamo ventitre
ventiquattro, in una casa coloniale di contadini
che lavoravamo appena appena per mangiare, con
diciassette campi di terra a mezzadria, poi le ragazze
sono andate a servire a Milano e nel 1937 sono andato
là anch’io, a portare il latte per i condomini però. Là in
Borgo Molino la vita era dura come tutti a quei tempi,
per chi lavorava come mezzadro ero dura, eravamo
costretti a fare a metà col padrone, non eravamo
padroni né della terra né della casa, ma avevamo diritto
a quattro cinque campi e alla casa dopo, invece ha
ereditato quello che è subentrato al posto nostro, perché
la D.C. aveva fatto una legge che non si faceva più metà
e metà, ma settanta per cento a noi e trenta al padrone,
cosa che ha portato i contadini ad abbandonare la
terra dando ai mezzadri la possibilità di comprare la
terra, nessuno più la coltivava altrimenti.
Poi c’era il sabato fascista da fare, e siccome ero a Milano
da due anni e lavoravo da mattina a sera a sedici anni,
i fascisti mi hanno trovato che non ero a casa, perché
non potevi andare in giro senza permesso, bisognava
fare permesso per tutto, così vedendo che non c’era più
alla fine mi hanno trovato e riportato a casa nel 1938 o
39, per costringermi a fare il pre militare al sabato, che
andavo su a farlo a Ormelle con Armando Zanusso in
coppia in bici, una volta la mia una volta la sua, una
bici in due sempre! Quando non siamo andati il sabato
dopo ci hanno messo in prigione senza mangiare e senza
niente fino al mezzogiorno di domenica! Fortuna che
era il periodo dell’uva e l’abbiamo mangiata venendo
casa, morivamo di fame quasi, eravamo giovani già
mangiavamo poco figurarsi niente!

397
I rapporti coi fascisti erano brutti, sempre criticare,
sempre dire questo non va questo non si può, non
avevamo niente da lavorare, niente macchine, tutto a
mano, gli animali ad arare, e ancora il padrone nostro
che era Ros, che stava nella casa dei Moro, ci parlava
addosso, poi i fascisti gli davano corda: vivere qua era
già tutto un campo di concentramento! Poi loro erano
due rami, uno si è inserito in Germania a vendere
gelati, quello dei nostri padroni invece comprava terra
ovunque, anche campagna intere se era occasione, ci
toccava lavorare tutto a gratis, a girare le pannocchie
altrimenti si marcivano, raccogliere il frumento,
macinare la sua parte e la nostra, portare giù le
derrate dal granaio, tutto a gratis fino al 1943, quando
mi hanno chiamato via alle armi, nel giorno di San
Rocco, patrono di Stabiuzzo; il giorno di festa io sono
andato via a Tortona, che non mi avevano ancora
destinato quando c’è stato l’armistizio, perché neanche
un mese dopo è arrivato l’armistizio e c’era ancora
gente senza divisa perché non c’era roba da vestire
per tutti, e quelli che erano ancora in borghese hanno
avuto fortuna, perché loro i Tedeschi non li hanno presi
quando sono arrivati. Poi fuori della caserma hanno
messo un tavolino per le iscrizioni di chi voleva andare
a combattere coi Tedeschi, ma il novanta per cento
io compreso non voleva andarci e abbiamo firmato
di no, il resto sono andati volontari e hanno fatto la
fortuna, perché dopo tre giorni ci hanno caricato sui
treni bestiame e portati a Voghera. Qua abbiamo fatto
due tre giorni di tappa senza cibo e acqua, ogni tanto
passavano degli Italiani che ci buttavano dentro un
poche di scatolette e di gallette, dopo il treno è partito

398
ed è cominciato l’incubo del campo di concentramento
cosiddetto! >>.
L’incubo era cominciato: da Luchenwald a Berlino per
finire poi a Bukov, fra morti, pestaggi, sangue, ferite,
uccisioni e bombardamenti, un’odissea di terrore che
solo chi l’ha vissuta può comprendere sino in fondo.

Kommando 17

<<Ci hanno portato in Germania a Luchenwald, tre


quattro mesi, poi ci hanno portato a Berlino. A Berlino
ci hanno fatto provare cos’era il Natale: c’era un metro
e mezzo di neve e noi ogni due metri dovemmo fare un
buco con le mani sulla neve e metterci dentro, eravamo
mille e duecento, su un campo enorme. C’era una tassa

399
di blocchi, duemila quintali di blocchi, che dovevamo
passarci l’uno con l’altro fino a fare il giro di tutto il
campo, un chilometro e mezzo in tutto.
Al mezzogiorno ci hanno fatto mangiare una scodellina
di sbobba, no robe speciali, una fame caro! Quando
era sera i blocchi erano tutti al posto di prima, bene
intassati: il Natale del 1943 è stata la prima sveglia
che ci hanno dato i Tedeschi. Era una cosa per tenerci
impegnati, ogni festività si ripeteva questa cosa, anche
a Pasqua e di domenica.
A Berlino è stata dura, perché a Luchenwald eravamo
solo prigionieri, ci davano una sbobba al giorno assieme
agli altri prigionieri, Francesi, Russi e tante donne
russe, ma non lavoro massacrante come a Berlino, che
dovevamo riparare i danni dei bombardamenti. Tutte
le mattine sveglia alle cinque, conteggio uomini e alle
sette partire, chiamavano alla porta:
“Kommando siebzehn!” ero io il Kommando siebzehn,
che vuol dire diciassette: eravamo in trenta dentro, e
per Kommando tutti dividi per numero, era il numero
a classificare il gruppo. Partivamo a lavorare dove
c’erano i bombardamenti, dove c’erano i morti, poi
a coprire i negozi bombardati, dove magari il tetto
aveva infiltrazioni e la roba dentro si rovinava, io
ero carpentiere, si mettevano i travi, el tavole e poi in
cima la carta catramata in maniera da impedire che
entrasse la pioggia. In principio ci lasciavano anche
portare dentro patate, perché c’era fame eh! Trovavi
qualcosa se c’era un bombardamento, dentro le case,
o qualche donna che ti dava da mangiare, se trovavi
qualcosa la portavi dentro insomma, perché la sera
era solo sbobba di rape e carote, un pezzettino piccolo

400
piccolo di margarina e una foglia di pane. Quando
portavamo dentro le patate andava ancora bene, ma
dopo non hanno più voluto anche perché noi andavamo
a rubarle, dove vuoi che le trovassimo altrimenti
le patate? Allora niente più patate e siccome la sera
eravamo senza caldo senza niente, si portava dentro
la legna per scaldarsi nelle baracche, così abbiamo
cominciato a metterle in mezzo alla legna come una
specie di zaino. Bene, dopo due sere cominciamo a
vedere due tre appesi per i polsi! Che hanno fatto? Chi
va a chiedere ai Tedeschi perché? Si sapeva solo che gli
era successo qualcosa e li avevano appesi là! Un’altra
sera ancora appesi, poi una sera, mi fanno aprire la
legna e capisco tutto: i Tedeschi trovano le patate e mi
appendono anche a me per i polsi e tirato su; mi hanno
tenuto appeso fino allo svenimento, mi sono svegliato
sul letto che aveva il mio numero di prigionia, non so
neanche dopo quanto perché ero mezzo morto.
A Berlino eravamo mille e duecento Italiani, trattati
come bestie; c’era il Lagerfuhrer come capo che era
Tedesco, ma era l’unico, gli altri erano tutti Polacchi.
Un giorno è arrivato un prete italiano; il Lagenfuhrer
non c’era e il ragazzino che era alla porta lo ha fatto
passare. Il prete arriva da noi, ci chiede come va, noi
gli diciamo che era fame e lui che non poteva aiutarci
granché. Ha tirato fuori un baracchino dalla valigia
e si mette a dire messa, che per noi era importante
per sapere come andava fuori, perché non avevamo
notizie di com’era. Il Lagenfuhrer è arrivato; era alto
due metri e aveva una sessantina d’anni, quando lo
abbiamo visto venire avanti! E’ venuto là, una pedata
al tavolino, butta via il calice e tutto: “Via da qua

401
fottuto Italiano! Qua comando io!” ha preso per il collo
il prete, lo ha portato alla porta, gli ha tirato un calcio
nelle palle e lo ha cacciato via. Là comandavano loro e
non c’era scampo per nessuno.
Berlino ha cominciato a essere bombardata nel 1943,
un capo tedesco ci portava travi, chiodi, martelli,
e l’impresa tedesca ci controllava e noi si lavorava
per loro da prigionieri a tentare di mettere a posto i
bombardamenti degli assassini, che hanno ucciso
donne e bambini più che altro; hanno distrutto Berlino
che era una città stupenda quando siamo arrivati,
mentre quando siamo andati via era rasa al suolo, con
le strade interrotte dai palazzi, che le abbiamo dovute
liberare noi dopo.

Distintivo di “Volontario per la Libertà” conferito a chi rifiutava di tornare in Italia


per combattere con la Repubblica di Salò.

L’ultimo capo che è venuto, poco prima dell’arrivo dei


Russi, era un Tedesco che aveva fatto la guerra del
1915-1918 ed era di stanza a Cimadolmo. Questo ogni
tanto mi portava a casa a mangiare patate e coniglio,
ma non ero capace di mandare giù il coniglio con la
fame che c’era, e poi era sempre quello, adesso se sento

402
l’odore del coniglio vomito addirittura! Questo qui ci
accompagnava sul posto di lavoro, prima lo faceva un
Polacco, che c’erano tanti Polacchi che lavoravano per
i Tedeschi… e poi le feste ci facevano portare i blocchi,
mille e duecento prigionieri e sempre i soliti mille e
duecento blocchi che giravano, sempre i soliti, tanto
per farci passare il tempo; sembra una barzelletta ma
chi non era là dentro deve stare zitto che non sa niente!
Perché lui non li ha visti i bombardamenti e i morti!
Tra malattie e bombardamenti siamo rimasti
cinquecento. La mattina avevano le campane per
l’adunata, se non uscivi entravano ad ammazzarti. Si
dormiva nelle baracche sui letti a castello in file di tre,
io stavo su quello in mezzo. Una mattina suonano, ci
mettiamo in riga: ci si buttava fuori in tuffo dai balconi
per non fare tardi, hanno cominciato a contare, ne
mancava uno; allarme generale! Perché mancava uno
tutto in allarme! Poi si è scoperto che era morto nel sonno
quello sotto di me! C’erano i bombardamenti continui,
anche se avevamo messo i parascheggie in cemento e
terra per le scaglie delle bombe degli aerei, le bombe
grandi spazzavano via tre quattro baracche al colpo,
cadevano bombe che facevano un buco di dieci metri
di diametro, che pesavano sessanta settanta quintali,
robe americane; erano degli assassini veri e propri,
hanno bombardato per niente campi di prigionia e
città dove vivevano donne e bambini, l’unica nostra
speranza era l’arrivo dei Russi, loro non buttavano le
bombe ai civili, sparavano solo ai militari! Io e un’altra
quindicina di Italiani, ci avevano selezionato perché
avevamo la patente, ci hanno caricato su un camion e
portati in periferia per montare su i camion carichi di

403
bombe da portare sul fronte russo. Dovevamo partire
di notte, il capofila era un Tedesco che ci segnava la
strada che vedevano con la lingua di fuoco, un fanale
giallo piegato verso il basso, che si vedeva avanti per
due metri ma da sopra gli aerei non ti scoprivano, non
andavi forte, ma di notte ci muovevamo verso il fronte!
La prima volta l’abbiamo fatta franca per tutti i
centocinquanta chilometri, abbiamo scaricato e siamo
tornati. Dopo otto giorni altro viaggio, ci ricaricano
e dobbiamo ripetere lo scherzo, ma dopo il secondo
viaggio i Russi si devono essere accorti, difatti i caccia
bombardieri rossi sono venuti giù e hanno colpito un
camion… boom! Un camion pieno di bombe non so
se rendo le idee! Ho visto il camion andare per aria e
la terra tremare, eravamo una colonna di cinquanta
mezzi, e a un certo punto vedo uno che scappa, poi un
altro, così me ne sono andato di corsa anch’io, attento
che i Tedeschi non mi sparassero dietro mentre tornavo
al campo, perché vestito di stracci com’ero! Dopo ci
hanno fatto riprovare una terza volta, e là hanno fatto
fuori tutti, fortuna che ero ultimo, quando ho visto
saltare il primo sono scappato, e lontano ottanta metri
è saltato anche il mio! Là si vedeva se uno era bravo a
fare le corse, vedere tutti quei camion saltare in aria e
il fuoco, e le esplosioni, mamma mia, fortuna che dopo
non le ho più portate, era come portarsi in spalla la
morte quel lavoro là!
Poi finalmente l’Armata Rossa si è mossa, è venuta
avanti, hanno circondato Berlino con noi dentro.
Cercavamo di nasconderci ma dove? Tre giorni di
assedio con le bombe che entravano di continuo,
le katiuscia, che erano armi terribili: su 500 metri

404
quadri era come cascasse una bomba atomica; la
chiamavano la “voce di Stalin”, era un’arma terribile,
una katiuscia faceva saltare in aria le rotaie di un
treno per chilometri, il calore che sprigionava faceva
colare i cannoni della contraerea, avevano una tecnica
dentro che faceva una caloria bestiale, le scaglie
entravano nell’acciaio: gli uomini che venivano colpiti
restavano senza niente, la pelle, le ossa, i vestiti, tutto
bruciato, anche le scarpe, non restava più niente,
quando saltavano le rotaie andavano chilometri
in aria e cadevano tutte attorcigliate, era un’arma
tremenda, che quando partiva lasciava il fuoco dietro
e un fischio continuo, perché dietro avevano un’elica,
anche io sono rimasto ferito, stavamo morendo di fame
e io e un altro abbiamo deciso di entrare in una cucina
per prendere delle patate. Siamo saltati dentro per una
finestra, ma tanto ero debole che ho preso una botta
sul balcone, le prendiamo, poi c’erano centocinquanta
metri da camminare per terra per tornare al sicuro,
perché c’erano pallottole dappertutto, e una mi ha
preso la gamba; fortuna che non ha rotto niente, perché
non c’erano ospedali o altro, mi hanno portato in una
stanza dove c’erano una sessantina di persone piene
di sangue, senza mani, senza gambe, senza costole,
che urlavano chiedendo aiuto, che qualcuno andasse
da loro, ma non c’era nessuno che lo faceva, in quei
momenti si pensava solo per se stessi se volevi salvarti.
Quei poveri disgraziati saranno morti tutti, nessuno
poteva salvarli, io ero già quasi svenuto, se non era per
un certo Bello da Susa che mi ha tolto la pallottola e
mi ha curato rimanevo là anch’io, ero svenato ormai,
fortuna che Bello non ha tagliato l’osso, ha tirato fuori

405
la pallottola e mi ha fasciato senza alcol o bende, si
usava quello che c’era perché non c’era più niente.
Poi la guerra è finita, i Russi ci hanno fatto seppellire
i morti, hanno controllato le liste e segnato i superstiti.
Poi ci hanno presi e portati a Bukov, in Polonia, i
Tedeschi nelle baracche dei campi di concentramento,
e noi Italiani liberi in paese.
Si aveva tutto da mangiare, patate, gas, radio fucile,
tutto, non ci mancava niente, meglio che casa! Siamo
stati là da maggio a settembre, poi l’otto di ottobre
sono arrivato a casa, caricato su un treno bestiame.
Arriviamo a Innsbruck, noi eravamo la prima tradotta
dall’Est; i Russi cercano il comando italiano per
consegnarci, gli Americani arrivano e vogliono fare
loro!
“Avanti tutti Italiani!” fanno i Russi, ma noi non
sapevamo dove andare, ma abbiamo visto gli Americani
scappare via perché i Russi avevano minacciato di
sparare, volevano essere loro a riconsegnarci al nostro
Governo. Era un Tenente russo e un sottoufficiale, non
volevano che s’immischiassero gli Americani, e finché
non è arrivato un ufficiale italiano ci hanno tenuto là.
Poi è arrivato un Tenente italiano che ci ha portato a
dormire in una vecchia caserma, dicendo di aspettare
il treno che sarebbe passato domani per Pescantina,
Verona. La mattina dopo andiamo in stazione e andiamo
a Pescantina, abbiamo anche trovato un ponte rotto e
siamo passati con le barche per attraversarlo…tornato
a casa ho ritrovato mio papà che mi ha spiegato cosa
era successo mentre ero via, che i partigiani venivano
a prendere la roba per mangiare e così via; secondo me
hanno fatto dei bei danni anche loro!>>.

406
Dai camion alla pensione

<<Dopo la guerra sono andato in Francia, attraversando


il Monte Bianco a piedi, da clandestino direbbero oggi.
Io e mio fratello, a fare i carpentieri in Francia, solo
che io sono tornato a casa dopo un anno, mentre mio
fratello è rimasto a vivere là. Venuto a casa ho fatto il
camionista sotto padrone fino al 1963, poi ho comprato
il camion nel 1964 e mi sono messo in proprio. Portavo
di tutto in tutta Italia, soprattutto al sud a caricare
l’uva il periodo dell’uva. Poi quando mi sono messo
in proprio lavoravo su commissione, per ventiquattro
anni sono andato avanti, dopo ho aggiunto anche il
rimorchio così lavoravo di più ancora.
Una volta però non c’era mica niente, sono comparsi
capannoni tutti su un colpo, uno dopo l’altro, adesso
è un momento critico per tutti, tutti hanno difficoltà
a trovare lavoro, qualsiasi studio hanno fatto. Non
è facile per nessuno, gli enti pubblici non hanno più
soldi, le fabbriche chiudono, sono rimaste senza ordine,
fa fatica anche chi lavora la plastica: forse è successo
tutto troppo velocemente, non so dire bene il perché,
ma ai tempi della gioventù mia e di quella di tuo
nonno Aristide, che io conoscevo bene… sì voglio dire
che ci accontentava di molto meno e si era più disposti
al sacrificio, forse la colpa della crisi è che si è voluto
tutto troppo in fretta!>>.

“Tasi sù vecio che no te capise nient!”. Io ho sentito


rivolgere queste parole a mio nonno, a mio zio, a mia
nonna… e da piccolo ci ridevo sopra, forse perché lo

407
pensavo: visto che lo dicevano tutti, doveva essere così.
Invece quanto mi sbagliavo! Quanto abbiamo sbagliato
tutti! Con che vergogna potevamo dire quelle parole a
una persona che aveva vissuto la fame, la prigionia,
la miseria, la guerra? Con che vergogna continuiamo
a dirle oggi? Forse sarò presuntuoso, ma spero che
questo piccolo mea culpa, possa essere accettato dagli
anziani che leggeranno, da Francesco soprattutto; a
loro abbiamo il diritto di rivolgere solo una parola:
“Scusateci!”… per il resto, abbiamo il dovere di tacere
e lasciare che siano loro a parlare.

408
Floriano Beltramini

Quella che leggerete ora è una storia molto cruenta,


ancora più cruenta di quelle lette sinora. In questa
storia, una storia di vita, il protagonista non è un
personaggio inventato, ma una persona in carne ed
ossa, viva, ancora profondamente segnata di quanto ha
subito nei campi di concentramento, sia moralmente
che fisicamente.

Ultimo di diciotto

<<Io sono nato il 22 luglio 1922, in una zona di


contadini, questa qua dove vivo oggi; ero l’ultimo

409
di diciotto fratelli, 6 sorelle e dodici maschi. Io però
sono l’unico rimasto; poi non stavamo tutti assieme
dopo, perché le sorelle si sono sposate e sono andate
lontano, qua sono rimasto con un po’ di fratelli, ma
più che sia dopo la guerra, perché prima si era qua
tutti. Stavamo su una casa colonica che è di là ancora
in piedi, siamo nati tutti là. Già da piccoli si lavorava
sui campi e la scuola l’ho fatta fino alla quarta perché
solo i ricchi potevano permettersi la quinta a Oderzo.
Le nostre maestre erano tre suore, che hanno durato
sino a dopo la guerra; si andava a piedi, la mattina
fino a mezzogiorno, tornavi a casa e facevamo altre due
ore dopo mangiato, mentre quando c’erano le vacanze
facevamo dottrina tutte le mattine! No la domenica,
tutte le mattine, no come adess! Una volta andavi via
con gli zoccoli, li dovevi lasciare fuori della porta,
farti il segno della croce e dire un Padre Nostro e l’Ave
Maria, e quando dicevano:
“Muti!” stavamo in silenzio, non come adesso che sento
che parlano, urlano e così via, non si scherzava tanto
una volta. Anche perché se sgarravi chiamavano i
genitori: una volta mi ricordo che ero a scuola nella
classe dall’asilo, all’ultimo piano, e c’era un balcone con
una grondaia dove avevano fatto un nido gli stornelli,
poi sono nati e i genitori gli portavano da mangiare
dentro, allora abbiamo tenuto un diario del nido, e la
maestra ci fa:
“Volete vivi gli uccelli o mangiarli?” la suore diceva
per scherzo, perché con la fame che c’era figurarsi, ma
Boscariol e un altro gli fanno: “No, no l’ha rason Cia!”
perché Cia aveva detto di mangiarli ma lei non voleva,
e perché hanno detto così hanno chiamato i genitori,

410
perché era successo che poi li avevano presi, e la suora
fa: “Chi ha preso gli uccelli?” “Chi che li ha magnadi!”
hanno fatto loro con arroganza, e subito chiamato
mamma e papà, e la suora fa al papà di Boscariol:
“Guarda che tuo figlio ha bestemmiato!”
“El varà imparà qua!” la suora come si è sentita
rispondere così ha chiamato subito il podestà Soligon
che lo ha preso a parole, perché una volta funzionava
così la storia, ma è cambiato tanto comunque, anche in
Municipio una volta lavoravano in quattro adesso ci
vogliono tante più persone, ma una volta era più rispetto
di adesso penso io! Non c’erano neanche i pulmini, noi
andavamo a piedi, c’era la coda per andare, anche
mia moglie che stava qua vicino erano in quindici che
andavano a scuola>>.
<<Sì, si era una bella squadra anche noi, mezzadri
come loro – dice la moglie Angela Dall’Acqua – prima
per Lorenzon, dopo lui è andato via e qua ha comprato
tutto Giol nel 1928… neanche un grappolo d’uva di
lasciavano prendere quelli là!>>
<<Poi noi qua abbiamo comprato nel 1976 con l’Ente
delle Tre Venezie, ma te sai che prima di andare
a scuola andavi a tagliare a mano le gambe delle
pannocchie, oppure d’inverno c’era la polenta con
il latte da mangiare andando a scuola che ti veniva
mal di pancia, e con gli zoccoli di legno con la latta
sotto perché non si rovinassero, con le calze fatte con
lo scarto dei cavalieri, senza mutande, con le braghe
corte di tela che t’irritavano dappertutto; così era una
volta, e mettici anche il pre militare: cammina, marce
fino al Tempio, a Roncadelle, nelle Grave, il sabato
fascista era la preparazione alla guerra. Non era mica

411
bello qua coi fascisti, ma ti toccava stare assieme,
dovevi fare il corso, andare sotto naja, portare la roba
all’ammasso, ti davano i bollini per comprare la roba,
venivano a controllare la macchina quando battevi il
frumento, pesavano il frumento, lasciavano solo trenta
quaranta chili di scarto per farti la pinzha e l’altro
portavano via tutto quelli di Giol, che lo trasportavano
in agenzia e dopo d’inverno dovevamo andare a
prendere e legare i sacchi, poi venivano a contare le
bestie, conigli, galline, se davi un numero di meno
portavano via, ti stabilivano quanto latte dovevi fare,
ai bambini lasciavano solo un quarto di latte a testa,
poi c’era qua davanti una riga di gelsi ed erba, uscivi
con un sacco e fino a sera li prendevi per i cavalieri, poi
alla mattina alle tre sveglia per andare a tagliare il
frumento, legarlo, tutto a mano caro mio, con il caldo
e con il freddo, poi porta a casa, metterlo al coperto,
macinare con la macchina, fare i paglieri per la stalla,
perché la macchina imballatrice è venuta dopo, prima
si portava la paglia con la forca, dopo c’erano le balle
è stato meglio ma lasciamo stare, sono cose che adesso
non ci sono più… mangiavi tanto solo il periodo della
maturazione della frutta, ma se ti beccava il padrone
erano guai! Pensa che qua c’è un pero che è qua da
trecento anni che maturava i frutti a novembre per San
Martino e alla Maddalena era già senza frutti perché
li tiravamo giù coi sassi! Andava così una volta, non
avevamo niente, e ancora a me andava bene perché
ero l’ultimo. Anche perché chi sapeva quanto valeva
il prodotto; dovevamo portarlo via, le bestie erano di
Giol, se avevamo bisogno di una bestia non sapevamo
quanto costava, si andava al mercato tutti gli affittuari

412
di Giol assieme a Conegliano e tornavamo a casa a
piedi con la bestia a mano senza sapere quanto era
costata, su strade di sassi senza macchine. Saveitu ti
cossa che i costea? Lo sapevi a marzo, quanto ti davano
il libretto “dare e avere”, che quando arrivavi in ultima
ti trovavi sempre con il debito, allora si pagava con
la galletta dei cavalieri l’anno dopo, perché Giol le
prendeva per la filanda, dove lavoravano per niente
tutte le ragazze di qua, e non sapevi mai cosa valeva la
roba, facevano tutto loro. Poi il 6 gennaio del 1942 sono
partito per andare sotto le armi, a Treviso in distretto e
a mezzanotte partito per Trieste che arrivato ho trovato
la bora. Quanta fredo!
Hanno fatto un cerchio di roba in mezzo al cortile della
caserma, noi attorno e ci davano la roba così, braghe,
divisa, zaino, cambiati e metti via, la roba tua in una
borsetta che io dopo non ho più visto e a casa non è più
arrivata, dormire sotto la tenda oppure attaccato ai
muretti, con freddo e pioggia; là i partigiani facevano
il disastro!>>

Alt, stop… qui la narrazione comincia a farsi molto,


molto cruenta; era solo un’avvertimento, perché se
siete arrivati sin qui, non potete fermarvi.

Il regno della violenza

<<La notte dormivamo sparsi per non farci ammazzare


tutti assieme, dormivamo mezz’ora a testa per
sorvegliarci, poi si camminava di notte, si facevano

413
rastrellamenti sino sul Monte Nero, contro i Serbi che
erano i peggio di tutti! Io ero nel 124 fanteria, dopo
mi hanno passato nella Brigata Sassari, poi dopo
la disfatta di Russia nel 25, ma mi hanno cambiato
cento volte in un anno, cosa vuoi fare. L’otto settembre
eravamo a Monforte sul Timavo, chi lo sapeva che c’era
l’armistizio? La mattina del nove sono venuti i Tedeschi,
ci hanno preso i fucili e portati in cammino per venti
chilometri sino a Lubiana, dove ci hanno caricato su
un treno e portati nei campi di concentramento.
Ho visto tutta quella zona, la Jugoslavia l’ho passata
tutta, Postumia, Monforte; quelli della Divisione Julia
dovevi vedere come tornavano dall’Albania, erano
distrutti: gli facevano fare la contumacia a Postumia
per otto giorni, e un mio cugino è stato preso mentre ero
in contumacia e portato nel campo dove c’ero anch’io,
solo che non l’ho mai visto. È morto laggiù! Eravamo
novantamila prigionieri, si stava dentro stretti perfino!
Me l’ha detto uno che era con lui ed è tornato, forse
eravamo anche nello stesso treno, lui sarà andato a
Off e io a Weiden, e mi ha raccontato che in aprile
c’era stato un bombardamento che si vedeva il fumo
da Weiden dove ero io: c’erano cento chilometri tra
Weiden e Off e io vedevo i fumi del bombardamento
di Off e questo ragazzo che è tornato mi ha portato
il documento che mio cugino era morto durante quel
bombardamento a causa dello spostamento d’aria:
era del 1914. Eravamo via in quattro fratelli, tre
prigionieri in Germania e uno negli USA ma preso in
Libia, per fortuna tornati tutti e quattro, uno salvato
per miracolo perché gli erano entrate schegge in una
gamba e un altro si è salvato perché durante la strage

414
di Cefalonia era ricoverato con la malaria. Io sono
tornato a casa con gli Americani, con una tradotta di
cinquemila uomini che arrivava fino a Pescantina e
poi arrangiarsi, ma la Jugoslavia era brutta: freddo,
pioggia, passavi in mezzo ai boschi di Villa Nevoso
coi lupi, ne hanno combinate là i nostri, i battaglioni
d’assalto fascisti bruciavano le case, poi hanno preso
degli Slavi e li hanno impiccati al cavo della teleferica
finché non si sono staccate le gambe per far vedere che
non scherzavano! Erano del Battaglione Bologna, tutti
volontari fascisti e hanno fatto il disastro.
Anche tanti dei nostri sono stati ammazzati, diciannove
bersaglieri che si vantavano tanto perché arrivavano
dall’Albania sono stati uccisi nel sonno, non era tanto
da scherzare! Facevamo pattuglie giorno e notte,
rastrellamenti, armati con un fucile e la mitragliatrice
37; il Reggimento andava a compagnie, noi eravamo
la terza del primo battaglione, mitraglieri e fucilieri,
avevamo la mitraglia pesante, dodici chili il fusto
e dodici il treppiede. Io ero Caporale Maggiore e
comandavo una squadra di ventidue uomini con
quattro mitraglie; con me c’era Bassetto da Cimadolmo,
Battistella da Santa Lucia, Battello da Fontanellette,
Sartor da Gaiarine, Brescacin da San Fior, Bortolin da
Combai, morti tutti! C’era un rapporto di fratellanza
con loro, anche se andava male si trovava da scherzare:
una sera siamo andati fuori con freddo, pioggia; loro
hanno i paesetti con la chiesa e il cimitero attorno, con
la camera mortuaria. Siamo entrati per ripararci e
c’era una morta, ma al scuro non lo sapevamo, solo
che sai, un morto lascia l’odore, ce ne siamo accorti la
mattina e abbiamo preso un colpo! E dopo siamo stati

415
un po’ di giorni accampati a Monforte, che stavamo sui
quattro cantoni attorno alla chiesa per controllare, che
eri costretto a passare per il cimitero per andare nel
corpo di guardia! Bassetto era un matto, ha seppellito
uno e si è messo sopra e con una ghirlanda di ferro:
quando sono andati a dargli il cambio lui è saltato
fuori e gli ha fatto prendere una paura incredibili, sono
corsi dentro al corpo di guardia dove c’era la stufetta,
l’hanno rovesciata roba che si bruciassero! Sono dovuto
andare io a convincerli che era uno scherzo e allora
sono usciti; quanto abbiamo riso, avevano preso paura
che fosse uscito un morto invece era Bassetto! Lui è il
Vecio Morer, era il suo nome e dopo una notte, ero di
presidio, vedo per terra una Madonnina; gli Slavi sono
molto più religiosi di noi, ogni stradina o mulattiera
aveva un capitello, una croce, una Madonna e mentre
andavamo su a Monforte con la mia squadra, ho visto
la croce buttata giù per passare coi muli, così io ho preso
la Madonnetta e un altro il crocifisso, l’ho conservata
nello zaino per sei mesi, sempre portata e mai rotta, un
mese prima dell’otto settembre ho avuto un giorno di
permesso e l’ho portata a casa, e adesso è là sul muro
della casa. L’avevo lasciata qua per mia mamma, era
un dono per lei!
Poi i Tedeschi ci hanno preso, chiusi nei vagoni per
tre giorni, quando ci hanno aperto non sapevamo
dove eravamo, forse a nord boh? Non sapevi niente,
eravamo persi, non capivamo neanche dove sorgeva il
sole, non capivamo più che giorno era, ci pareva che il
sole nascesse su un posto diverso, non capivamo più
nulla!
Nel 1944 alla vigilia di Natale ho perso tre unghie

416
andando a pulire gli scambi del tram a Weiden mi
si sono gelate le scarpe, ho dormito così aspettando si
mollassero; si dormiva sulla paglia e una copertina.
Quando ho tolto la scarpa sono venute via tre unghie
del piede, fortuna che le ho guarite senza niente, ma a
me sono capitate tutte, per esempio siccome gli uomini
erano tutti sotto naja, le donne erano diventate capo in
tutti i posti migliori delle amministrazioni, dormivano
su un campo dove c’erano una ventina di baracche, e
un mese ci hanno messo in sei a pulire dove vivevano
queste donne, e riuscivamo a mangiare qualcosa di più
grazie agli scarti che loro buttavano con la spazzatura:
noi li lavavamo e mangiavamo due mesi.
Poi mi hanno mandato in una fabbrica con altri
prigionieri della Grande Guerra addirittura! La
fabbrica era tutta circondata da mura, e noi andavamo
a pisciare insieme per far crescere l’erba; in cinque ci
eravamo messi d’accordo per andare a pisciare sul
tratto di muro dove c’era il sole, così l’erba è cresciuta
e a marzo era alta un bel po’ e la notte ne portavamo
dentro per metterla da mangiare nel brodo che ci
davano. Abbiamo fatto un mese così, fino ad aprile,
dopo ci hanno scoperto e ci hanno coperto di botte, e
per due mesi dopo siamo stati costretti ad andare a
lavorare tenendo le mani in alto, quattro chilometri
al giorno come da qua a Roncadelle con le mani alte,
prova te cosa vuol dire!
Poi un’altra volta mi hanno trovato scorze di patate
nel letto e mi hanno pestato la schiena con una verga,
adesso non posso neanche prendere il sole perché ho la
pelle piena di buchi, mi diventa tutta bianca, sai cosa
ti facevano? Ti portavano fuori, alle quattro di mattina

417
con lo scuro, ti tiravano venti per squadra per andare
a lavorare nella polveriera e quegli schifosi, che erano
tutta gente che non potevano andare a combattere
perché vecchi o feriti, facevano apposta a sbagliare il
conto, arrivavano a dieci facevano: “Ho sbagliato colpa
tua!” ti prendevano a calci con gli stivali con la punta
di ferro, calci alle gambe che le spaccavano, ogni giorno
per due mesi, ho tutte le gambe piene di buchi! Poi in
polveriera c’erano vecchi borghesi che ci ordinavano di
caricare le bombe, e faceva così freddo che dovevamo
rivoltare il pastrano per coprirci le mani; a mezzogiorno
ti davano un gamella con un po’ di brodo schifoso, ma
dovevi arrivare a quell’ora e non chiamavano assieme,
poi soprattutto c’era una guardia a posto e gli altri tre
bastardi, che aspettavano fuori dal baraccone dove
andavi a rifornirti, che c’era una marmitta e tutti in
fila in piedi per mangiare… loro stavano in fondo, gli
ultimi che arrivavano prendevi la gamellina e loro
quando facevi per uscire si mettevano uno per parte a
buttarti la roba per terra e restavi senza cibo per tutto
il giorno! Poteva toccarti ogni giorno, ogni venti giorni,
per questo facevamo a turno a stare ultimi, ma la cosa
peggiore erano i calci alle gambe, la gamba sinistra è
distrutta. Io sono stato fortunato che sotto la naja c’era
un ufficiale da Ponte di Piave che mi aveva preso in
simpatia e mi aveva passato Caporale e mi aveva fatto
fare il corso da Sergente, solo che bisognava fare due
anni di servizio per avere i gradi. Insomma ho avuto la
fortuna che prima dell’otto settembre, siccome questo
Colonnello sapeva che la disfatta era vicina, faceva
fare agli ufficiali le punture speciali, anche a me le ha
fatte fare perché mi voleva bene come fossi suo figlio;

418
loro sette punture e io una, che ho ancora il segno, cosa
fosse non lo so, ma non sono mai stato male, anche un
medico che mi ha visitato dopo la guerra per i polmoni
e un altro anche, che adesso è qua a San Polo, ho
spiegato loro cosa mi avevano fatto, e hanno detto che
è stata la puntura a salvarmi, ma sapere cos’era chi lo
sa, so solo che non sono mai stato male dopo di quella
puntura.
Comunque ho fatto tre campi di prigionia: il primo A,
che non so dove fosse, ma là mi hanno preso il nome e le
impronte, dopo due tre mesi a raccogliere patate e curar
bestie d’inverno, poi nel campo 13 B nella polveriera,
dove ho preso tutte quelle botte e infine a Weiden, una
giornata di treno dal campo 13 B, il primo mese a
pulire dove dormivano le donne, dopo nella fabbrica
dei treni, dove mi hanno insegnato a guidare il treno,
facevo venti trenta chilometri al giorno di collaudo.
Ma me ne sono toccate di tutte le sorti: la fabbrica di
Weiden era la Josef Witt, che faceva le locomotive, in
una fabbrica davanti a un castello; mi sono portato a
casa questa sveglia qua dall’ufficio del Direttore per
ricordo, funziona ancora. Sono andato a vedere il posto,
nel capannone dove c’era il comando c’era una vetrata
dove c’era il padrone che vedeva tutto il capannone, e
di sicuro mi avrà visto entrare mentre andavo verso
il magazzino, e anche che mi ha dato un pugno uno
di loro! Quando sono arrivati gli ingegneri mi hanno
trovato a terra sanguinante all’occhio, perché avevo
preso una sberla penso con l’anello e sanguinavo; hanno
bloccato quello che mi aveva colpito, hanno litigato ma
poi hanno chiamato un interprete italiano e mi hanno
portato su dal Direttore e ho visto questa, che venti

419
giorni dopo quando sono arrivati gli Americani sono
andato a prendermela per portarla a casa. E anche
loro: facevano una puntata coi carri armati e dopo
tornavano indietro e la notte bombardavano! Nella
baracca dormivamo in sei sul pavimento per non essere
colpiti, poi una mattina sono arrivati, ma un carro
armato è rimasto impigliato nei reticolati e lo hanno
abbandonato là! Tanto presuntuosi loro e noi scemi:
c’erano due da Bergamo che hanno fatto ammazzare un
comandante Tedesco, non dovevano farlo; era scappato
in una casa, lo hanno scoperto, hanno chiamato gli
Americani che là avevano il comando, quasi tutti
italo americani: hanno portato il Tedesco sul campo e
sparato col mitra; il cervello è schizzato fuori!
La fabbrica l’hanno fatta ripartire subito coi primi
Tedeschi tornati dalla naja, e io ho trovato quello
che mi aveva tirato la sberla: poveretto, si è messo a
piangere, aveva paura che lo uccidessi. Invece siccome
fumavo e avevo un pacchetto di sigarette gliene ho date
un poche, tremava dalla paura e poi è andato via! Se
io lo dicevo agli Americani lo uccidevano, ma non è
così che si fa! Loro erano pericolosi, tutti drogati per
andare a combattere, non bella gente neanche loro
perché alla fine si sono comportati come i Tedeschi.
Dopo ci hanno preso, fatto squadre da dodici e montati
in treno con vagoni scoperti, da bestiame. Cambiamo
treno prima di Innsbruck e veniamo giù. Abbiamo
avuto l’ordine di montare di qua, uno siccome non
capiva e aveva fatto tardi lo hanno ammazzato perché
non si sbrigava; gli Americani questi eh, no i Tedeschi!
Gli hanno buttato fuori i polmoni con un colpo, un
ragazzo dell’aeronautica che gli era morto il padre

420
nella Grande Guerra.
Siamo partiti e arrivati a Trento, dove c’erano quelli di
Roncadelle e Ormelle con il camion che ci aspettavano,
ma non siamo riusciti a smontare io e Lazzer. Andavano
a prendere i prigionieri con il camion di Fadel, ma
non siamo riusciti a scendere, sono dovuti scendere
a Pescantina, ci fanno: “Veniamo a Verona!” sai te se
li trovavamo a Verona? O ci toccava tornare a casa
a piedi? Vediamo scritto su una corriera San Donà
quando siamo arrivati a Pescantina e siamo saltati
su… chio che ne tira pì zò daea coriera? Da San Donà
a venir casa a piedi la fai, da Verona no, allora quando
saliamo il prete di San Donà fa: “Figlioli, ma ci sono
qua anche i vostri di Roncadelle e Ormelle!”
“Non è vero! Noi li abbiamo visti a Trento ma qua ancora
no!” perché loro portavano a casa i suoi, ma non siamo
scesi finché non abbiamo visto Ormelle Roncadelle. Poi
il prete è arrivato con Fadel da Tempio, che ci ha dato
da bere e mangiare e fatto montare su un camion a
rimorchio strapieno, tutti in piedi! Ci siamo fermati a
Treviso a ricevere la benedizione del Vescovo, ci hanno
dato notizie della famiglia e portati dopo a Ormelle,
dove sono sceso e sono venuto casa a piedi, ma su ce
n’erano di tutti i paesi, chi lo rifiutava un passaggio?
Solo che per un pochi di giorni non ci pareva neanche
di essere casa, non ricordavamo più le strade! Ancora
adesso se vedo queste cose alla televisione non dormo
la notte, ci sto male a ripensarle! Quei sette milioni
di ebrei poi; sono stato a vedere cosa hanno fatto, ma
ci sono ancora dei delinquenti che dicono che non è
successo niente! Non meritano neanche che si parli
di loro, se uno si permette di dire che le camere a gas

421
non sono mai esistite non deve neanche essere preso
in considerazione, se fai polemica o ne parli perché è
scandaloso si fa il gioco di queste persone stupide, che
non sanno neanche quello che dicono! >>.

Ho visto cose orribili

<<Tornato a casa ho ripreso a lavorare nei campi, ho


rifiutato il lavoro in ferrovia perché ero stanco, volevo
stare a casa con mamma e papà, nel 1955 ci siamo
sposati io e Angela e abbiamo messo su famiglia su
questa casa qua, fatta nel 1926 da Lorenzon; era una
stalla, ci siamo venuti ad abitare sotto Giol, dopo
abbiamo venduto le bestie e ristrutturato qua a casa,
mio nipote di là e io qua, diviso la terra, ventisei campi
erano in tutto ma lui è giovane e ha tenuto le viti, io
ho avuto quattro figlie. Adesso è un mondo a parte,
nessuno crede a cosa c’era una volta, che in tredici si
mangiavano quattro fichi a pranzo, che si cucinava
la polenta sulle braci del larin, che ti entravano le
galline a mangiartela e tu restavi senza, famiglie che
erano in quarantacinque come quella di Angela e non
avevano niente da mangiare, che il pane era un lusso,
si sentiva il suo odore a un chilometro, che durante la
ricreazione ai tempi della scuola avevi voglia perché
non lo mangiavamo mai, e c’erano il figli del fornaio
Lorenzon che andavano a prendersi una bigna di
pane e venivano a farci voglia, e la Madre Superiora
li mandava a casa perché era come togliere l’anima
a una persona mettersi a mangiare il pane davanti a
uno che non poteva permetterselo. Solo ogni quindici

422
giorni, oppure quando c’era la messa e la comunione,
siccome non facevi a tempo a tornare a casa, i genitori
compravano una bigna di pane come pranzo perché
dovevamo stare via! Altri tempi quelli, se racconti in
giro ti dicono che ti sei inventato tutto. L’unico modo
per sfamarsi era raccogliere qualcosa durante il giorno
nel periodo della frutta, trovarsi di notte a mangiarla
assieme. Adesso troppo, da troppo poco a troppo troppo;
eppure se ci penso a quanto eravamo magri nel campo,
eravamo scheletri, alla mattina ci mettevano in riga e
chi era ingobbito lo ammazzavano, chi aveva problemi
di respiro e se andavi fuori di testa ti facevano morire,
venivano a farti una puntura: uno che dormiva con
me erano otto giorni che delirava e una sera lo hanno
scoperto e sono venuti a fargli la puntura, dopo due ore
era morto. I malati erano uccisi, una volta ogni venti
giorni facevano la disinfestazione, prendevano la roba
per toglierti i pidocchi, perchè dormivi vestito sulla
paglia, non ti cambiavi e non ti lavavi mai; allora la
roba la buttavano nel forno e tu eri pelato dappertutto,
anche in mezzo alle gambe, passavi in un’altra
stanza dove avevano un secchio e con un pennello da
imbianchini ti passavano il collo, in mezzo alle gambe,
dappertutto, ti facevano diventare giallo come l’urina:
era la disinfestazione da tifo petecchiale, e dopo
passavi di là, ti davano la roba e vestire e per giorni
non riuscivi a camminare, ma ci voleva altrimenti
erano guai, sotto le braccia e in mezzo alle gambe si
attaccavano i pidocchi, e le cimici ai piedi alla notte.
Guarda ti giuro io che quando sono saltate le unghie
pensavo di fare infezione e morire, le botte che ho preso
ho avuto fortuna, perché il giorno dopo lavoravo alle

423
macchine del treno a tirare via l’olio in un capannone
con la sabbia che bolliva, che usavi per pulire; c’era
tanta sabbia, è venuto un bombardamento la notte,
sono finito due ore nella sabbia disteso ed è stata la mia
fortuna, perché mi ha fatto uscire le bolle delle botte
invece che rimanessero dentro, se restavano dentro ero
finito, si vede che è stato destino che non morissi. Così
è stata, niente da fare; perché era successo che ho fatto
la seconda cavolata della guerra: mai fare finta di star
male in guerra! Perché la prima volta mi hanno tolto
un dente in Jugoslavia, in Serbia: mi avevano detto
che bisognava che mi dessi malto perché altrimenti
finivo al fronte, così ho avuto la pensata di dire che
mi faceva male un dente! Lla mattina marco visita e
vado dentro nell’ospedaletto che era in una tenda così,
perché gli altri che avevano detto che gli facevano male
i denti davano un mezzo bicchiere di olio per la purga:
ho detto berrò mezzo bicchiere e poi sono a posto,
mentre sono là che aspetto arriva uno che mi prende
da dietro e hop! Mi dà un tiron e mi frega un dente a
caso! Crack e sangue fuori dappertutto! L’unico dente
che mi manca è quello, gli altri tutti sani! L’altra volta
invece, nel campo, non ce la facevo più ho detto che mi
faceva male la schiena; mi mandano alla visita e invece
della visita mi prendono a bastonate con una verga per
tutta la schiena e il giorno dopo c’è stato l’allarme del
bombardamento e sono finito nella sabbia: due volte ho
fatto finta di star male ed è andata così, adesso basta
ho detto! Ho visto cose veramente orribili, e sentirle
sulla pelle ancora peggio!>>.

Già e, dico io, noi ora abbiamo il dovere di diffonderle,

424
far sapere cosa significhi vivere la guerra, la prigionia,
la violenza della gente, fino a che punto l’esssere
umano è così meschino da spingersi. Le testimonianze
hanno questa forza: quella di farci riflettere perché le
udiamo da persone che hanno vissuto direttamente la
barbarie, persone che hanno trovato la forza, come ha
fatto Floriano, di perdonare il carnefice ed elevarsi a
un livello più alto. Non è da tutti rinunciare a una
facile vendetta come ha fatto Floriano nel campo
di Weiden… ma se vogliamo che la nostra società
progredisca completamente verso lo stato umano,
questo è l’esempio da seguire.

425
Silvio Peruzzetto

Il colono va alla guerra

Silvio Peruzzetto, nato a San Polo di Piave il 18 maggio


1924, anzi a Rai precisamente, vicino alla torre, ha
attraversato una vita avventurosa: colono come tanti,
soldato come tanti, partigiano come pochi. È stata una
bella esperienza parlare con lui, giacca e cravatta,
parlare forbito in italiano corrente, con voce pacata,
tranquilla.

<<Eravamo coloni dei Giol, lo siamo stati fino al 1940.


eravamo un’onesta famiglia di mezzadri, solo nel 1975
ci siamo potuti permettere di comperare qua dieci ettari

426
di terra fra me e mio fratello, divisi a metà. In famiglia
però eravamo quattro maschi e sei sorelle in tutto,
stavamo da Giol in una casa grande tipo coloniale,
ma là con zii e cugini eravamo in quaranta persone,
quando eravamo a vivere nella Guizza, la casa grande
che esiste ancora adesso e si chiama “Casa Guizza”. Qua
siamo venuti nel 1940; io sono nato a Rai, dopo siamo
andati a vivere che avevo solo un anno nel Belvedere e
dopo nella Guizza che avevo sei anni appena. Adesso
la casa della Guizza non è più abitata, ma fino a dieci
anni fa facevamo lì dentro il pranzo della classe mia, e
a stare là siamo andati nel 1930 precisamente.
Sono andato a fare le scuole in parte a San Polo, le prime
quattro, poi la quinta e la sesta serali a Ormelle, con
il maestro Zecchin. Una volta vivere significava avere
famiglie grandi, zii, cugini, dodici del ramo nostro e il
resto i rami dei miei zii, tutti mezzadri, che facevamo
cinquanta e cinquanta con il padrone. E a quel tempo
almeno con i padroni era meno male, ma i fascisti no,
ce n’erano di buoni e cattivi, ci pesavano il latte fatto
dalla mucche, alla fine di ogni mese controllavano
la produzione, sono passati anni neri, ci contavano i
cucchiai di latte per metterlo nelle scodelle, c’era un
addetto a pesare il latte alla mungitura, arrivava ogni
giorno di sorpresa a vedere quanto si produceva…
anni neri, anni neri, il papà mia era il più giovani dei
fratelli, tanti sono andati all’estero perché non c’erano
sbocchi, le donne in filanda, ma i ragazzi non avevano
lavoro, sono andati tutti a fare i contadini in Francia,
nelle campagne di Tolosa, nella zona delle centrali
nucleari.
Inoltre c’era il sabato fascista da fare, obbligatorio

427
anche, e a diciannove anni ero già via a militare perché
il fascismo aveva bisogno di uomini, siamo partiti che
eravamo poco più di ragazzini.
Sono partito ai primi di agosto del 1943, per andare
a Cividale del Friuli, dove eravamo tremila reclute
alle caserme principe Umberto; ero nel I° Reggimento
fanteria, ma non hanno neanche fatto a tempo a
destinarci che è arrivato l’armistizio; l’otto settembre
prima ci hanno disarmato, poi dopo due giorni il
Generale comandante del reggimento, che era fascista,
ci ha ritornato le armi; lui infatti non ha voluto
arrendersi e ci ha fatto mettere attorno alle mura ogni
dieci metri uno di guardia, perché c’era un mormorio
che diceva di scappare, ma così uno appena si muoveva
subito gli tiravano!
Nel frattempo sono arrivati gli Alpini dalla Jugoslavia,
sono venuti a sapere che eravamo in caserma con il
Generale fascista, e tutta la notte hanno bombardato le
mura e con gli altoparlanti ci hanno detto di scappare,
che avevano bombardato il comando e il Generale era
morto, così tutti sono scappati, chi di qua chi di là,
io ero con due tre da Cimadolmo, abbiamo passato
assieme il ponte del Tagliamento, un ponte lungo un
chilometro: siamo passati con l’acqua al collo perché
sopra c’erano le mitragliatrici e le moto tedesche, e i
contadini là ci hanno salvato, ci davano da mangiare
e ci nascondevano di notte per dormire, assieme alle
bestie stavamo, e ci dicevano:
“No stè pensarve de ciapar el treno parchè i ve porta
direttamente in Germania!” allora a piedi, tre giorni
siamo venuti a casa, tutta a piedi.
A casa sempre nascosti, poi è uscito il bando di lavoro

428
e siamo andati a lavorare nelle Grave coi Tedeschi, a
fare i bunker. Poi venivano sempre per casa, erano qua
tutte le notti i fascisti, per nasconderci avevamo fatto
un bunker sotto la concimaia. Ma una volta i fascisti mi
hanno preso a Tempio: andavamo in cerca di sale per
i maiali, e assieme a me c’erano due amici, uno aveva
una pistola in tasca; ci siamo lasciati fregare quella
volta. Perché io nel frattempo, nel corso del 1944, avevo
deciso di andare a fare il partigiano, dato che ero amico
di Antonio Cesana, il capo della cellula partigiana di
Ormelle, che in guerra era stato sottoufficiale. E noi
quella volta che le stavo raccontando andavamo in
cerca di sale a Tempio nei bar proprio per i partigiani,
solo che il mio amico non mi aveva detto di avere in
tasca una pistola, e la ragazza del bar a quel tempo
era assieme a un fascista e quando li abbiamo salutati
per andare a casa, a cinquanta metri ci fermano per
parlarci e i fascisti sono arrivati a perquisirci. Era
scuro, la pattuglia era ancora lontana, ho detto al
mio amico di buttare via la pistola, avevamo tempo di
salvarci, ma lui si vede che era bloccato dalla paura
e non è riuscito a buttarla via, così ci hanno fregato e
portato nelle carceri.
Le carceri erano dal castello di Giol a San Polo, e sono
stati il prete e il nostro fattore a salvarci perché ci hanno
picchiato per giorni, dovevano impiccarci, avevano già
messo fuori i manifesti, impiccagione al castagno in
piazza, solo perché eravamo in giro armati, infatti che
eravamo partigiani non lo sapevano. E fortuna poi che
la pistola non ha funzionato, perché ce l’hanno messa
alle tempie e facevano scattare il grilletto ma non
sparava; eravamo io e due fratelli.

429
Chi ci ha salvato è stato il nostro fattore, Arcangelo dal
Favero di Tempio, podestà di Ormelle, e il prete; lui
mi conosceva bene perché andavo a cantare in chiesa
nel coro, hanno cercato ogni giorno di mettere buone
parole per noi, siamo stati tanto fortunati! Ci avevano
presi il 21 novembre, il giorno della Madonna della
Salute, ci hanno tenuto dentro venti giorni, i primi
quindici alla sera ci legavano a una sedia grande con
la testa per in giù e ci pestavano a sangue, in quattro
si mettevano attorno con cinghie e manganelli, pezzi di
legno, tutto: la stanza quando avevano finito era come
un mattatoio, e non eravamo tutti insieme, ma uno
per stanza, poi ci liberavano e ci buttavano a dormire
sulla pietra viva, in mezzo al sangue. Tutti Tedeschi,
perché là era il loro centro di comando, avevano le
carceri, la caserma, il comando, tutto dietro la mura
dell’agenzia di Giol. Poi dopo venticinque giorni di
suppliche ci hanno liberato, dicendoci che dovevamo
portare là tutte le armi che avevamo e raccomandare
gli altri ragazzi che facessero lo stesso, e siccome il
prete ci aveva detto che ci avrebbero lasciato stare se
avessimo consegnato le armi, gliene abbiamo portato
di rotte, ma per tutto quel tempo non so come ce la
saremmo cavata senza l’aiuto di mia moglie e delle
altre donne che ci portavano da mangiare di nascosto;
il solito bravo Valenti diceva loro quando era lui di
turno e così riusciva a far entrare dei viveri per noi:
questo è importante perché voglio sottolineare che
c’erano anche molte donne nella Resistenza e anche dei
fascisti buoni, che combattevano per loro solo per avere
un pezzo di pane da mangiare.
Prima di essere preso prigioniero avevamo fatto delle

430
belle azioni, ma anche dopo io ho continuato a fare
il mio compito di partigiano con Cesana: andavamo
a disarmare i fascisti e senza uccidere nessuno:
aspettavamo che uscissero di ronda la notte da
Colfrancui, dov’era il loro comando, li prendevamo
a tradimento e li disarmavamo, senza mai sparare
un colpo e senza bisogno di uccidere! Anche perché
il Comandante Cesana ci diceva sempre che era
assurdo uccidere un fascista o un Tedesco se dopo
loro ne uccidevano dieci! Io ero un barbiere, e il mio
compito era quello di radere i capelli alle donne che si
comportavano male con la gente, perché a quei tempi
con gli uomini a fare la guerra erano le donne nei
posti di comando, e dovevano obbedire ai fascisti, così
la notte a quelle che non davano niente alle persone
che avevano bisogno oppure trattavano male la gente
facevamo così.

431
Cesana era una bravissima persona sa? Pensava per
l’avvenire, diceva che era troppo facile uccidere o fare
certe azioni, cosa si risolveva uccidendo la gente? Certo
i fascisti sapevano che c’era il movimento di resistenza
e non risparmiavano nessuno, ma noi non avevamo
il diritto di comportarci come loro, ci ha insegnato a
essere superiori! Ci ha fatto capire che anche i fascisti e
i Tedeschi erano costretti a combattere dai comandanti,
che tanti erano andati a fare il soldato per fame,
perché non c’era niente da mangiare neanche per loro!
Su questo punto era severissimo, e per fortuna: anche
al mio amico gliene ha dette tante per la storia della
pistola, non si poteva entrare nelle osterie armati, si
spaventava la gente così! Era un grande capo secondo
me! Anche nel 1945 poi è cambiato il modo di fare
il partigiano, eravamo meglio organizzati, sono
cominciati i lanci di armi degli Alleati in montagna
per favorirci, e Cesana non rischiava mai gli uomini,
piuttosto faceva spostare sempre le armi.
I giorni della liberazione noi eravamo alle caserme
di Villa Bortoluzzi, a Oderzo, dove prima c’erano i
fascisti, il comando fascista: in parte li abbiamo presi
e disarmati, quindici giorni dopo, il termine che ci
avevano dato quelli del governo per la consegna delle
armi, siccome Cesana le aveva seppellite, tante si sono
guastate e le altre le ha consegnate, le ha portate via
per darle ai Carabinieri; io ero di guardia al cancello
della villa e gli altri sono usciti con le armi, e tutta
la roba dei fascisti l’abbiamo data ai Carabinieri che
sono venuti a vedere com’era la situazione. La guerra
è finita e io ho portato fuori la pelle, nonostante i
bombardamenti, perché una bomba qua vicino aveva

432
fatto un buco di dieci metri, un’altra era caduta vicino
al cimitero perché avevano visto la scintilla di uno
che fumava, un povero ragazzo che è andato per aria
ed è ricaduto a testa in giù! Era una domenica notte,
lo sapeva che non si potevano accendere luci perché
Pippo veniva a bombardare la notte dove vedeva luci;
era un figlio buonissimo, mi dispiace tanto perché non
meritava di finire così! Alle volte ne buttavano a caso,
perché il Comandante mi ha detto che alle volte gli
aerei si caricavano troppo e per non tornare indietro con
roba dentro scaricavano a caso: si aprivano dei crateri
fondi due metri di acqua, perché sotto qua se si scava
un poco si trova subito l’acqua, è zona di risorgiva.
La popolazione aveva un po’ sospetto di noi, Cesana ci
diceva sempre di non fidarsi di nessuno, ci spostavamo
di notte senza parlare mai con nessuno, solo tra la
nostra cellula di quindici.

433
Era la sorella di Cesana a spostare le armi, una donna
coraggiosa e forte! La gente era d’accordo con noi, solo
che non tutti i partigiani si comportavano bene, perché
una volta è venuto di qua lo Slavo che ci ha fatto rischiare
tutti, la gente poteva darci la colpa: ha dato fuco alla
camionetta della polizia e poi è scappato, fortuna
che gli hanno corso dietro e hanno visto chi era, ma
è troppo comodo buttare una bomba e dopo scappare,
noi ci siamo sempre presi le nostre responsabilità e non
abbiamo mai fatto male a nessuno. Pensi che tutte le
notti venivano qua i fascisti e c’era uno che era matto
per mia sorella e si confidava con lei, senza saperlo
rivelava a mia sorella i loro spostamenti, avevamo
fatto amicizia: Valenti si chiamava, un bravo figlio,
davvero bravo e umile! Diceva sempre che se poteva
scappare lo avrebbe fato subito, ma noi tacevamo come
ci era stato insegnato dal Comandante: “No stè mai
fidarve de nisun!” infatti era solo lui a trovarsi con
le altre brigate, anche perché tanti bevevano e dopo
andavano a chiaccherare nelle osterie; c’erano anche
quelli, purtroppo! Questo per dire che ci sono tanti tipi
di persone, Valenti era un ragazzo d’oro, ma gli altri
erano cattivi, si divertivano a pestare la gente.
Poi la guerra è finita! Dopo un mese abbiamo fatto
un pranzo tutti assieme qua da me, parenti, figli,
partigiani, un evviva che non finiva più, un grazie
che tutto fosse finito, organizzato e pagato tutto
dall’avvocato Reggini! C’era anche mio cugino Guido
Simioni che aveva perso una gamba durante un
attacco ai Tedeschi alla fontana delle Fossadelle; dopo
la vita è ripresa come prima, da mezzadri. Ma se penso
a quando ero in prigione, a quello che ho subito, alla

434
convinzione di non rivedere più i miei genitori; fortuna
che il podestà ci ha aiutato, ci ha dato quattro fucili
da portare ai Tedeschi che non funzionavano neanche,
tanto per accontentarli, sono stati gli uomini che mi
hanno salvato la vita, non li dimenticherò mai!>>.

Un tempo queste persone si chiamavano eroi… il


prete, il podestà, i partigiani come Cesana e Silvio
che disarmavano i rivali senza spargere una goccia
di sangue, ragazzi nel fiore dei loro anni che hanno
rischiato la vita non solo per liberare il paese dagli
invasori Tedeschi e dai fascisti, ma che l’hanno
sacrificata per fare in modo che chiunque vincesse non
avesse di che vendicarsi sull’altro.

In conclusione

<<Finita la guerra ho ripreso con la mezzadria sotto


un altro padrone, è cambiata subito: sotto Giol c’era
un’amministrazione troppo severa, qua a Ormelle
invece avevamo un fattore che era come un fratello! Era
il podestà il nostro fattore, quello che aveva comprato
la campagna; bei periodi con lui, liberi di lavorare, ci
ha lasciato piantare viti, ci ha lasciato liberi di fare
quello che volevamo noi, diceva: “Cò fè ben par valtri fè
ben anca par mi!” si è innamorato subito di noi, c’era
rispetto reciproco, se dovevamo prendere bestie, vacche
da latte, qualsiasi cosa, diceva che il bene nostro era il
bene suo, ci dava soddisfazione. Era un cadorino, dopo
che è morto è subentrato Visentin da Oderzo, un’altra

435
brava persona. Poi nel 1965 abbiamo comprato con
il mutuo trentennale, casa e terra, la casa c’era già,
l’abbiamo restaurata. Ho mandato i figli a studiare e il
mutuo è già pagato, cambiato padrone abbiamo avuto
tutto un altro reddito, con l’uva abbiamo fatto i soldi,
abbiamo pagato la terra senza accorgercene, da Giol
invece ce n’era poca, facevano vino solo per loro, il resto
era tutta produzione per le bestie.
E quando al fattore abbiamo chiesto di fare qua la
cantina lui ci ha incoraggiato, anche perché a fine
anno guardava il reddito annuo netto, e con noi diceva
sempre di prendere il quattro mezzo per cento fra
mais, frumento e vino, era una soddisfazione per noi,
eravamo quelli che gli davano di più. Ma abbiamo
fatto i soldi nel periodo giusti, quegli anni con l’uva
abbiamo fatto miracoli, ma oggi quei soldi là non
riusciresti più a pagarli: io mi sento perfino impacciato
a elencare quanto è cambiato da ieri a oggi, una volta
tutti ti comandavano, poi siamo diventati liberi e ci
diciamo che abbiamo avuto fortuna a trovare padroni
così, i coloni di Giol infatti dicevano tutti che avevamo
trovato l’oro, sapevano che la nostra terra era migliore,
si scola con niente, non patisce secco, fa prodotti buoni,
non occorre bagnarla; una fortuna uguale capita una
volta e bisogna saperla prendere perché il ciclo della
vita và e toglie, e io sono contento di averla vissuta, ho
potuto far studiare i figli, che per me è importante, mi
sono costruito gli appartamenti di questa casa da solo,
come piaceva a me, tutte le tavolette del soffitto qua le
ho messe io, le malte anche.
Come le dicevo la vita dà e toglie, bisogna essere
contenti di quello che si ha, non si deve volere di più

436
perché potresti avere ancora meno>>.
Gli scrittori dicono infatti che solamente i poeti riescono
a penetrare i cuori della gente per farli pensare,
riflettere. Storia, memoria, vita, la fame patita, il
rapporto coi padroni, coi fascisti, coi partigiani, la
guerra, la figura ancora tutta da studiare di Antonio
Cesana, leader della Resistenza di Ormelle, ma la
cosa più bella è la consapevolezza di Silvio di aver
partecipato a qualche cosa di grande, un qualcosa di
così grande che va oltre ogni esperienza, è una cosa
che porto nel cuore e nella mente, una cosa che nei
libri non si trova, non è scritta: la Resistenza senza
sparare un colpo… Gandhi liberò uno stato intero
con la non violenza, i partigiani di Cesana i paesi di
Ormelle e Colfrancui. Come ha detto Silvio: “la vita
dà e toglie”, ma nessun essere umano ha il diritto di
togliere una vita e questa convinzione ha permesso al
Comandante Cesana di salvare molte vite: Capitano,
Silvio, umilmente, grazie!

437
Enrico Cescon

Dalla scuola alla guerra

Enrico nacque a Visnà di Vazzola il 30 luglio 1923,


uno dei tanti Cescon di Visnà che finirono a fare la
guerra giovani, giovanissimi. Partiti da Fontanellette,
dal borgo detto “Soer”, i Cescon si sono diffusi nelle
zone circostanti, prima assieme, poi sparsi sempre di
più nel corso del tempo, finendo ovunque.

<<La vita allora non era come adesso, se mamma e


papà parlavano conveniva obbedire, rigare dritto,
altrimenti c’era sempre la bachettina per le gambe e a
letto senza cena, non come adesso che non si usa anche

438
se ogni tanto farebbe bene.
Noi stavamo bene, non abbiamo mai patito la fame,
gli altri sì perché lavoravano sotto padrone, noi invece
avevamo terra nostra, biada, frumento, viti, bachi da
seta, mucche nella stalla, cavalli per andare nei campi,
perché i trattori non esistevano. Io i bachi se li pagassero
li terrei anche adesso, era il più bel raccolto di tutti,
in otto giorni avevi fatto un raccolto, ma purtroppo lo
hanno distrutto: era una nostra produzione storica.
Le scuole sono andato a farle a Visnà, fino alla terza
elementare, poi sono andato nei campi a lavorare.
Le maestre erano severe, si imponevano sui genitori,
dovevamo sapere a scuola, se non sapevamo c’era la
bacchettina, i compiti li facevamo il pomeriggio a
scuola perché la maestra diceva che altrimenti se li
facevamo a casa ce li facevano i genitori, allora quando
a mezzogiorno andavamo a casa a mangiare ci faceva
togliere le cartelle e le lasciavamo a scuola. Sì perché
la scuola era mattina e pomeriggio a quei tempi, dalle
otto al desinare e poi altre due ore il pomeriggio, tre
chilometri andare e tre chilometri tornare di strada
a piedi, non c’erano vetture che ti portavano come
adesso, e tutta con gli zoccoli su strade in ghiaino.
Però con quel sistema là noi abbiamo imparato bene,
ho saputo insegnare ai miei figli poi, perché eravamo
costretti a fare le cose per conto nostro, a sapere bene,
sapevamo fare di conto meglio delle calcolatrici che
usano adesso. E poi alla domenica, siccome le maestre
erano di Visnà, dopo la messa prendevano i genitori
assieme al prete ed era l’occasione per informarli di
come ci comportavamo, chi faceva malanni quando i
genitori tornavano a casa prendeva il battesimo!

439
Su questo punto di vista sarebbe meglio tornare a
quei tempi là, per conto mio! Noi da piccoli pestavamo
l’uva coi piedi e con le mani con una rete chiamata
“gratoeon”, con la quale facevamo colare l’uva nelle
brente separata dalle raspe durante il periodo della
vendemmia, appena si tornava da scuola; adesso
invece i ragazzi hanno la libertà di andare a giocare e
fare tante cose, ma si staccano un po’ dalla casa, non si
interessano dei lavori dei genitori, voglio dire che per
conto mio se i ragazzi di oggi passassero più tempo coi
genitori sarebbe la cosa migliore, potrebbero imparare
tante cose ma anche verrebbero su più educati perché
sanno capire cosa va bene e cosa è sbagliato.
Poi io se devo dirti la verità in merito ai fascisti, per
conto mio bastava non intrigarsi e non ti infastidivano,
se facevi il tuo non venivano a disturbarti, bisognava
fare il sabato, perché se non si andava ti mandavano
dai Carabinieri o ti mettevano a pestar legne, c’era
anche da portare la roba all’ammasso, venivano a
misurare la produzione, controllavano la battitura del
frumento, compravi con la tessera, ma non altro.
Da giovane eravamo una famiglia di venti persone,
tornato dalla guerra in quarantacinque, tutti
dipendenti dal padre ma divisi in quattro case;
dipendenti significava che potevamo fare quel che
volevamo, ma gli dovevamo un tot di soldi e ogni otto
giorni dovevamo andare in corrispondenza con lui,
come la famiglia Bruniera, che loro erano però in
centocinquanta. Noi come famiglia di fratelli eravamo
otto, poi tra nipoti, cugini eccetera ne facevamo
quarantacinque, in un anno e mezzo nati in diciotto…
sempre nel dopoguerra; noi stavamo presso l’attuale

440
casa della Pro Loco di Visnà, uno a Cimavilla, uno
verso Rai, tutti dipendenti da papà finché era vivo, poi
ci siamo arrangiati.
In guerra sono andato via nel giorno del panevin, 5
gennaio 1943, chiamato a Vittorio Veneto dove abbiamo
fatto tre mesi d’istruzioni nel 72 fanteria e poi in aprile
mi hanno mandato in Albania con il treno. Siamo partiti
l’intero battaglione completo, non so quanti saremmo
stati, abbiamo raggiunto l’esercito di stanza in Albania
con un fucile in spalla e basta, che per la strada verso
la Serbia dovevo stare attento che non me lo rubassero
perché saltava la gente dentro i treni: non c’era molta
disciplina neanche tra i soldati a dire il vero. In Albania
dovevo andare a prendere la posta, ma poi ho preso
la malaria, giusto appena arrivato, nel maggio, poi
non ho neanche fatto a tempo ad uscire dall’ospedale
che mi hanno portato in Germania. Eravamo come le
galline, mentre eravamo lì a chiaccherare ti veniva la
febbre e crollavi di fatica, non facevi in tempo a capire
perché. Mi hanno portato in ospedale a Pristina, nel
Kosovo, ma là mi sono curato da solo, perché ero in
una tenda, sono stato dentro due mesi in tenda siccome
nelle baracche mi prendeva lo svenimento, ero arrivato
a pesare venticinque chili! C’era un mio cugino da
Visnà anche lui che mi assisteva, mi ha portato in
mezzo a un campo in una tenda, è passato il dottore
dicendo che mi dava il rancio speciale e io mi dico:
chissà cos’è questo rancio speciale, perché riuscivo solo
a mangiare roba acida, altrimenti non la mandavo giù
e restavo senza mangiare. Mi hanno portato due uova e
due cucchiai di zucchero! Il primo era marcio, così l’ho
preso e ho buttato fuori dalla finestrella tutti e due e

441
ho preso il chinino; loro non mi avevano detto niente e
io l’ho preso tutto; insomma la mattina dopo il dottore
mi domanda il tubetto di chinino:
“L’ho zà ciot tut ieri!” “Ma situ mat?” e con quella
non ho guarito la malaria? Mi ha detto che avrebbe
potuto girarmi la testa, ma il giorno dopo sono riuscito
a mangiare di tutto, per quanto portassero mangiavo
tutto, anche quello della cucina veniva sempre a
domandarmi se volevo mangiare e io mangiavo, di
continuo mangiavo; sono guarito e dopo otto giorni mi
hanno portato in campo di concentramento ma non
mi hanno più trovato tracce della malattia, perché
in Germania appena arrivati ci hanno fatto fare la
contumacia: appena arrivati ci hanno punturati e
controllato che malattie avevamo avuto, ma della
malaria era sparito tutto!>>.

Prigioniero

L’otto settembre del 1943 fu una data spartiacque per


tutti: molti vennero catturati dall’alleato divenuto
nemico, molti scapparono, molti vennero uccisi
tentando di resistere alla cattura. Enrico, appena
uscito dall’ospedale, fu preso e portato nel campo di
concentramento di Vissendorf, da dove cominciò la
sua odissea.

<<Arrivato l’armistizio dalla contentezza ho buttato


via tutta la roba che avevo nello zaino convinto di
tornare a casa, invece poi sono arrivati due Tedeschi

442
in moto e da soli hanno fatto prigioniero un esercito.
Ci hanno fatto mettere con le mani alte, depositato le
armi, ci hanno detto che ci portavamo in Italia invece
siamo partiti per la Germania, a Vissendorf, un campo
di concentramento enorme dove ci hanno smistati, poi
io sono finito a Emden, verso l’Olanda, dove ho fatto
due anni. Da prigioniero lavoravo al porto navale
di Emden, anche a pulire dentro i sommergibili, o a
trasportare i pezzi di ricambio da una parte all’altra,
oppure a pulire le maschere a gas nei rifugi, attaccare
e staccare i vagoni dalle locomotive e portarli in
fabbrica. Eravamo in settantacinque in quel campo,
uno solo è morto. Eravamo trattati anche bene, a me
almeno non hanno mai fatto niente, c’erano quelli
cattivi sì! Io poi ho avuto la fortuna di guadagnare la
fiducia dell’ingegnere che dirigeva i lavori, tanto che
durante i bombardamenti non andava a chiamare i
vecchi ma veniva in cerca di me che ero un ragazzino,
mi chiedeva sempre se avevo mangiato, perché mi
mandavano a pulire negli uffici delle impiegate, ho
fatto anche qualche giro nei sommergibili sott’acqua, e
i Tedeschi alle volte mi prendevano in giro dicendo:
“Badoglio kaputt, Badoglio kaputt!” e io rispondevo:
“Anche Hitler kaputt!!” Perchè ormai sapevo che
mancava poco che succedesse.
Il mangiare era regolare ma poco, un chilo di pane da
dividere in cinque, un mestolo di minestrone e caffè
finché si voleva, una marmitta intera la mattina,
per il resto bisognava arrangiarsi. C’era anche un
altro ragazzo di Vazzola via con me nel campo,
un certo Pevero ma ero arrivato lì con tutti gli altri
miei compagni di battaglione, solo che i più vecchi li

443
hanno mandati a lavorare in ferrovia e i giovani in
fabbrica. Dormivamo nelle baracche, che avevano una
stufetta a legna che ci ha scaldato d’inverno. Eravamo
quattordici quindici per baracca, nei letti a castello.
Pensa che appena arrivati ci avevano consegnato posate
e tovaglioli, che però non ci sono mai servite a nulla,
tanto non ci davano da mangiare! E poi alle undici
della sera e alle cinque di mattina di tutti i giorni
allarme aereo, perché passavano sopra gli apparecchi
americani; fortuna che hanno bombardato solo due
volte; la prima è stata perché i Tedeschi avevano messo
le sagome e i Tedeschi ridevano della grossa perché
dicevano di averli fregati, ma otto giorni dopo sono
tornati gli apparecchi e hanno dato una spianata alla
città che si vedeva solo fuoco ardere, palazzi, baracche
e tutto. Il Pevero che avevo nominato prima era della
Croce Rossa Internazionale, teneva la corrispondenza
con la mia famiglia, così ogni tanto tramite la sua
attività riusciva a farmi avere un pacco di roba, una
camicia, roba da vestire; lui era là, stava nell’Albergo
Italia e conosceva bene mio papà, così la mia famiglia
sapeva come stavamo; poi è andato in Italia e ha
lasciato lì la sua impiegata, che otto giorni prima che
cadesse la Germania mi ha fatto avere un pacchetto
di cioccolata e caramelle scusandosi che non poteva
venire a trovarmi.
Poi nel corso della fine del 1944 ci hanno spostato, ci
hanno tirato fuori dal campo che eravamo in tremila
per portarci scortati in Olanda; camminavamo tutti
in riga e passato la frontiera ci siamo trovati da
soli, senza guardie né senza sapere dove eravamo,
ci hanno lasciato là e loro sono tornati indietro. La

444
mattina hanno fatto saltare il ponte e siamo rimasti
in Olanda, appena tutta la colonna dei Tedeschi in
fuga dall’Olanda lo ha attraversato, i Tedeschi che ci
avevano portato là hanno fatto saltare il ponte e noi
siamo rimasti da soli in Olanda. Ci siamo nascosti
due notti dentro un mulino, dove un Olandese ci
portava da mangiare qualche patata pregandoci di
non uscire perché c’erano le SS nei paraggi, e infatti la
mattina dopo se non era per la Croce Rossa olandese
ci avrebbero ammazzati tutti. Le crocerossine sono
venute a prenderci e ci hanno nascosto nelle scuole per
quindici giorni, poi ci hanno riportato nei campi di
Wessenfulle in Germania.
L’esercito olandese, la resistenza credo, ci ha caricato
nei carri a cavallo e riportati in Germania nel campo
di Wessenfulla, dove c’erano gli internati politici, i
depositi, gli ufficiali. Là ne sono morti seicento di
Italiani: gli Olandesi non potevano mantenerci, perché
i Tedeschi mano a mano che si erano ritirati avevano
portato via tutto, persino le biciclette! Eravamo una
ottantina di persone, non solo Italiani ma anche
Russi, Francesi, Polacchi, donne e uomini, i pochi che
erano stati raccolti dagli Olandesi quando ci hanno
portato di là,perché eravamo rimasti a dormire in una
chiesa protestante, gli altri invece erano tutti scappati
per conto proprio e vai te a sapere dove! Scappati per
la campagna, alcuni uccisi dalle SS, noi abbiamo
ascoltato l’Olandese che ci ha detto di non muoverci e
poi le crocerossine ci hanno trasferito e gli Olandesi ci
portavano una volta al giorno da mangiare, ma come
detto non avevano niente e così ci hanno riportato in
Germania. A noi è andata così, ma quelli che erano nella

445
ferrovia erano stati messi in un’altra colonna e portati
all’interno della Germania, fra i quali c’era anche un
mio cugino, che quando sono tornato a casa è arrivato
dopo due giorni e lui allora so che si è salvato.
A Wessenfulle, dove c’erano tre campi grandi, c’erano
ufficiali, che loro non li mettevano a lavorare, tubercolosi
e internati politici, e noi in una baracca sono arrivati
gli Inglesi alla fine di aprile, ci hanno caricati nei
camion e portati alla prima stazione funzionante, per
metterci sui treni diretti verso l’Italia. I prigionieri
di Wessenfulle ci hanno raccontato che ogni mattina
i Tedeschi passano per le baracche coi trenini, e vivi
o morti se non si muovevano erano presi e caricati
nei vagoncini, una botta in testa per stare sicuri, li
portavano fuori dalle baracche e seppelliti nelle buche.
Da aprile a settembre sono rimasto lì ad aspettare,
tanti altri invece sono scappati, sono saltati sui treni o
sui camion per tornare, ma io ho preferito aspettare che
gli Inglesi ci portassero a casa, anche se gli Americani
erano meglio; in un primo tempo infatti erano loro a
tenerci e ci davano tutto quello che volevamo, poi invece
sono subentrati gli Inglesi e con loro doveva esserci più
disciplina, perché appena finita la guerra succedeva
che alcuni dei prigionieri andassero a uccidere le
bestie dei contadini, a dare fastidio alle donne. Io sono
sempre stato tranquillo, e a settembre ci hanno messo
sui treni e dopo otto giorni sono arrivato a Pescantina
di Verona, dove è venuta la Croce Rossa Italiana a
prendermi col camion. L’otto settembre di notte sono
arrivato a Conegliano: ero io e altri due di Vazzola, ma
non volevano lasciarci andare perché dicevano ci fosse
pericolo, ma noi abbiamo detto: “La strada la sappiamo,

446
grazie e arrivederci!” e siamo scappati a casa, fuori per
gli argini del Monticano, in mezzo ai campi, alle due
di notte si era a Vazzola. Avevamo anche trovato chi ci
voleva dare un passaggio in bicicletta, ma non ci siamo
fidati perché a Rovigo era successo che la popolazione
è corsa dietro al camion con i bastoni, avevamo paura
che succedesse anche qua. Non so perché è successo, ci
urlavano che eravamo contro l’Italia perché avevamo
fatto la guerra, ma che colpa ne avevamo noi? Ci hanno
rubato la gioventù senza che noi sapessimo nulla e
siamo stati accolti a insulti!
I crocerossini ci hanno detto di stare calmi, di
non muoverci, di lasciarli dire, ma non si possono
dimenticare quelle parole! io non ho voluto andare in
guerra, mi hanno costretto, che colpa ne avevo?>>.

Un grido disperato che ben evidenzia le divisioni del


paese all’indomani della guerra: chi aveva combattuto
coi perdenti era un traditore, chi era stato prigioniero
non aveva diritto neanche a una parola di conforto.
Ci vorrà molto prima che le ferite aperte dalla guerra
trovino una ricucitura. Anzi, molte sono ancora
aperte!

Sono a casa!

<<Arrivato a casa mi hanno preparato l’acqua calda


e sono andato in mezzo ai campi a farmi il bagno, mi
sono tolto tutto e dopo sono andato a letto a dormire.
Mi sentivo un uccello appena uscito dalla gabbia!

447
Abbiamo ripreso a lavorare la terra, avevamo cinquanta
campi di terra, tutti e otto, sette maschi e una sorella,
lavoravamo tutto a mano, fuori finché era luce o con la
lampada, senza macchine.

Ma all’inizio eravamo anche obbligati a dare lavoro a


chi non ne aveva perché avevamo capitale, solo che poi
mio papà non aveva neanche soldi da dare a noi figli.
Poi sono andato a vivere quattro anni a Roncadelle, ma
quando ci siamo divisi l’eredità a me non è toccata la
casa, solo i soldi, così invece di fare la casa a Roncadelle
ho venduto tutto e sono andato a stare a Cimetta per
quattro anni, e dopo là io volevo comprare un pezzo di
terra accanto alla mia e sono venuti a esibirmela, ma
mi hanno chiesto troppo, allora io ho detto:
“Par chei schei là vendee anca a mea!” con quel scherzo
là non ho venduto la terra che avevo al doppio del
valore? I cinque campi che avevo li ho venduti e ne ho
comprati otto qua a Tempio, così ho fatto contenta mia

448
moglie che qua aveva tutti i parenti, ma è successo
tutto per scherzo in pratica. Ci eravamo sposati il 4
novembre del 1950 e abbiamo avuto tre figli, due qua
e il primo a Roncadelle. Solo che ora è cambiato da
giorno a notte, noi non avevamo neanche la bicicletta,
dovevamo andare sempre a piedi. Ce ne siamo comprata
una a testa dopo che ci siamo sistemati, ma era un
lusso grande a quei tempi! Qui ci siamo sistemati bene
con la viticoltura, ma adesso si lavora per pareggiare i
costi, non rende più: la uva la comprano a poco e il vino
lo vendono a molto, le bestie te le hanno fatte vendere,
la produzione delle gallette l’hanno fatta chiudere, la
biada quest’anno abbiamo recuperato a stento le spese
e non vale neanche più la pena piantarla. Non so come
ha fatto a cambiare tutto così in fretta, perché è stato
così veloce che faccio fatica a fare l’abitudine, ma se
non rimediano i figli non restano più a lavorare la
terra, nessuno resta a casa a lavorare la terra se non
rende soldi, non si può farsi una famiglia se lavori fino
a notte per recuperare le spese e basta… io posso tirare
avanti qualche anno ancora, poi devo partire e chi
lascio la terra se nessuno la lavora? Per me abbiamo
perduto un capitale e nessuno se ne rende conto: pensa
che in Albania tanto contava la terra per loro, io ho
fregato un grappolo d’uva quando avevo la malaria e
mi hanno tolto i soldi per rimborsare il furto! Adesso
non te la pagano niente! Per conto mio stiamo andando
nella direzione sbagliata, se poi chi comanda dice che
va bene non so dove si andrà a finire!>>.

Credo non occorra aggiungere altro a questa triste


conclusione.

449
Antonio Masier

La Grande Fuga

L’avventura incredibile vissuta da Antonio Masier


durante la fuga dai Balcani meritava questa
introduzione cinematografia (penso tutti abbiano
presente il film con Steve McQueen).
Nato il 5 di febbraio del 1921 a San Michele di Piave,
un anno prima del cugino Sigirfredo, reduce di Russia,
Antonio visse a lungo nella baracca che il padre aveva
guadagnato dal Governo combattendo nella Grande
Guerra, dentro nelle Grave, oltre l’argine. Sette anni
di guerra fece il padre, reclutato già per la Libia, tre
ne farà invece Antonio, reclutato nell’artiglieria della

450
Guardia Frontiera a Tarvisio. Ma prima di partire,
e soprattutto dopo, la vita della famiglia di Antonio
fu quella dei carioti, i famosi carioti della Piave, che
prima dell’arrivo dei camion trasportavano sassi,
ciottoli, ghiaia e calce ovunque fosse richiesto con un
carretto e due cavalli, fino alle “Basse” cioè la zona
di Annone Veneto e San Stino, tornando su carichi di
paglia o fieno conforme alle stagioni.

<<Partito come recluta nel 1941, a Tarvisio, eravamo


cinque batterie, io ero nella quarta, quinto gruppo
quarta batteria, e il giorno di Pasqua del 1941 siamo
entrati in Jugoslavia.
Noi però eravamo dietro, avevamo i cannoni, artiglieria
di accompagnamento, entravamo in azione quando
quelli che erano davanti trovavano la strada sbarrata:
alpini, artiglieri, fanti, noi si sparava al bisogno. Poco
prima di Lubiana ci siamo fermati a presidiare per
tre quattro mesi, eravamo aggregati ai Tedeschi. Da
Tarvisio a là sempre a piedi, due anni di cammino
andata e ritorno, non c’erano caserme, sempre dormire
fuori, con la tenda o case dei civili, abbandonate dalle
donne per la paura, perché gli uomini erano tutti via,
e per questo non c’era un buon rapporto con gli Slavi,
mentre tra di noi ci si aiutava, anche gli ufficiali per
me erano buona gente, non per tutti, ma io mi sono
trovato bene. Avevamo un Tenente da Treviso che era
un pezzo d’oro, ci mandava a casa tante volte, e noi gli
portavamo graspa, salame, vino, perché non era facile
ottenere licenze per tornare a casa dalla Jugoslavia,
ma lui appena poteva riusciva a mandarci a casa.
Dopo abbiamo proseguito sempre a piedi sino alla

451
Grecia, già nel 1941. Là però ho sempre lavorato, e
avevo un ufficiale Tedesco che mi voleva bene, perché
gli pulivo gli stivali, la camera e lui riusciva a portarmi
fuori da mangiare, perché ce n’era poco, un pezzetto
di pane che ora che servivano il caffè era già sparito
dallo stomaco; poi lui mi porterà fuori dall’isola di
Cefalonia, perché nel 1942 eravamo stati portati là
per fare pattuglia e artiglieria d’accompagnamento,
ma non contraerea, perché bombardavano le città, noi
eravamo fuori, neanche mai sparato alle navi! Lì dopo
l’armistizio i Tedeschi hanno ucciso cinque o seimila
Italiani. Lui mi ha portato via prima, ma non so dire
che ufficiale fosse perché i gradi non li conosco. Sono
uscito da Cefalonia con lui e sono finito fin sui crepacci
della Russia! Lui mi ha portato via dall’isola e messo su
una nave, siamo sbarcati a quaranta chilometri da là,
verso la Romania penso, perché la Romania stava con
i Tedeschi e mi ricordo che abbiamo passato i Carpazi
e da lì siamo finiti vicino al Don, perché stavamo
per finire in Russia se non trovavamo chi ci diceva
di tornare indietro, perché a un certo punto ci siamo
trovati coi Russi, che erano buoni ma non riuscivo a
capire niente di quello che dicevano!
Poi siamo tornati verso l’Austria con i Tedeschi fino
a Gochau, e lì ci hanno lasciato andare e ci siamo
ritrovati a scappare in tre: io, Dalla Pozza Antonio da
Vicenza e Benvenuto Guido da Belluno, tutti e tre del
1921. Siamo riusciti ad arrivare a Tarvisio a piedi,
e là ho riconosciuto un ragazzo del 1924 che avevo
conosciuto i primi mesi da militare, perché il papà
aveva là in paese un’osteria.
“Com’ea che te sì casa?” gli faccio, perché quelli del

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1924 erano via…
“Scampè se podè, parchè i Tedeschi i ve porta in
Germania!” ci fa lui e allora cosa facciamo? Alla sera
pensiamo e pensiamo, vediamo i Tedeschi in giro col
mitra la notte, allora diciamo meglio scappare, che ci
uccidano qua, che ci uccidano là cambia niente! I due
partono saltano i reticolati come lepri, io dietro che
faccio fatica a seguirli: finiamo sul monte Maghart,
che è alto duemila e passa metri, scalato di notte con
le rocce che franavano sotto i nostri piedi. La mattina
dopo dalla cima non sapevamo cosa fare, di là c’era
una montagna più grande ancora, dovevamo essere in
Jugoslavia, perché il monte fa da confine ma chi lo
sapeva? Dove andare? Ci siamo riparati sotto un sasso
grande come una casa e ci siamo tolti le piastrine di
riconoscimento, che saranno ancora là sicuro, dopo
siamo partiti e per tre giorni e tre notti siamo andati
avanti senza mangiare; bever te catea, tra la neve e
l’auaz dea not! Mamma mia quanta fatica, dopo tre
giorni troviamo una capra; quello da Vicenza fa:
“La scanen!” “E la magnene cruda?” faccio io… lo
avrei anche fatto, ma quello di Belluno fa: “Varda che
se l’è ‘na cavera qua, allora l’è anca case, parchè l’è
impossibie che ghe sie a cavera e no le case…” porca
miseria aveva ragione! Andiamo giù trecento metri
vediamo una casetta bassa laggiù, che davanti era
bella alta, dietro si poteva salire sul tetto. Saliamo e
ci mettiamo ad ascoltare da una finestrella stretta:
pareva slavo!
“E cavolo dove siamo?” abbiamo pensato! Andiamo
davanti, bussiamo, si apre la porta e si presentano due
belle ragazze giovani e la mamma, che però non ha

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mai parlato. Abbiamo chiesto se ci davano qualcosa
da mangiare e che le avremmo pagate! Ci chiedono da
dove veniamo e dove dobbiamo andare, non sapevamo
neanche dove eravamo e loro ci dicono che eravamo
arrivati trenta chilometri sotto Caporetto, dentro in
Jugoslavia praticamente, stavamo andando in bocca
ai partigiani di Tito. Allora loro ci hanno portato una
pignatella di riso con latte di capra da dividere in tre,
che ne avrei mangiate due da solo io; le abbiamo pagate
centocinquanta lire e poi dopo aver visto i soldi ci
dicono che ci portano fuori loro. Alla sera a mezzanotte
passata ci fanno partire, una con la pistola davanti e
una col mitra dietro e noi tre ancora vestiti da militare
nel mezzo.“Qua è finita!” ho pensato subito.
Abbiamo camminato a lungo costeggiando un canale,
ma non lo vedevo, sentivo il rumore ma era notte, non
lo vedevo. Arriviamo a un ponte e ci danno l’alt; quella
con la pistola va avanti a parlare con il partigiano di
guardia; ce n’era uno all’inizio e uno alla fine del ponte.
Non so cosa ci dicono, ma si sono salutati, salutano
anche noi e ci lasciano passare, sia al primo blocco che
al secondo. Dopo il ponte abbiamo trovato un paesetto
di quindici case e le ragazze ci dicono: “Prendete
questa strada qua e arrivate in Carnia, noi torniamo
indietro!”. Ci siamo salutati e poi ovviamente non le
abbiamo più viste.
Cammina e cammina siamo arrivati in Carnia, la
mattina eravamo a Gemona. Siamo entrati in una
casa dove c’era una vecchina che si mette a piangere
quando ci vede vestiti da militare: “Ho anca mi me
fiol che l’è ancora via, no l’ho pì vist…” le abbiamo
chiesto se aveva qualcosa da mangiare e ci ha dato

454
tutto quello che poteva, tre fettine di polenta larghe un
dito. In quella arriva un altro suo figlio, che piangeva
come un bambino e ci fa: “Ve porte fora mi da qua!
Aspettiamo stanotte: a Osoppo l’è i Tedeschi che i te
porta in Germania…”
Alle undici partiamo con lui, ci fa passare canalette,
ponticelli persi nei campi, giù per il muro di cemento
del canale ci hanno sentito grattare la parete tatam
tatam tatam: tre raffiche di mitra coi proiettili che
schizzavano dappertutto, non ci hanno preso perché
eravamo già troppo bassi per essere a tiro.
Siamo arrivati di là, passato il Tagliamento in
pratica, perché è là che stavano per scoprirci. Ci siamo
divisi: quello di Belluno è partito da solo per andare
su in montagna, io e Dalla Pozza siamo venuti in qua.
Cammina e cammina arriviamo a Sacile di sera, dove
avevo una zia, sorella di mio papà. Siamo arrivati là e
ci ha dato da mangiare finché volevamo, perché loro ne
avevano: “Ste qua e ‘ndè casa doman de matina!”
“No, no… cò l’è undese boti tornen partir, no se pol
fermarse cò i Tedeschi in giro! Assa vert e noaltri ‘nden
via!”
Alle undici partiamo come da tabella di marcia e
camminiamo tutta la notte, e dicevo a questo mio
amico: “Ma mi no me cate… no me cate… me par che
ho sbaià strada!”
E allora cammina e cammina ancora vediamo un
chiarore su una casa; al piano terreno una finestra
con un lume: bussiamo e spengono: “No ste aver paura
no, sen Masier da Zimadolmo…” insomma ci siamo
spiegati chi eravamo, da dove si era e dove si voleva
andare, allora con quella aprono la finestra e vedo

455
una testa bianca senza neanche un capello, un vecchio
insomma: “Ven da ‘ndar a Zimeta, Vazzoea…”
“Ciapè a strada del zimitero!”
“Ea dove a strada del zimitero? Noaltri no saven nianca
dove che sen!” … eravamo a Bibano!!!
“Voaltri ciapè a strada del zimitero, ‘ndè vanti par
dusento metri, girè a sinistra e rivè zò a Zimeta!”
Arriviamo a Cimetta che ormai cominciava a fare
chiaro, c’era un mulino ma non potevamo entrare
perché ci volevano le tessere per andare al mulino.
Troviamo uno che usciva con il carro e gli abbiamo
chiesto dove andava e se potevamo salire.
“Sì sì, monta su monta su, mi vae a Vazzoea a
masenar!”
Siamo saliti sopra il carro e ci ha portati a Vazzola e
da Vazzola alle undici si era a San Michele. Arriviamo
dalla osteria di Botteon, e trovo uno che ha sposato
mia cugina e dentro a bere due bicchieri di vino per
festeggiare che ero tornato! Ti puoi immaginare senza
niente da mangiare nello stomaco, due anni che non
ne bevevo più, sono tornato a casa ubriaco completo! E
non è neanche finita lì, perché arrivato a casa c’è stato
subito il rastrellamento delle Grave; noi eravamo tre
fratelli, uno era a letto, io sento una mitragliata, esco e
trovo due Tedeschi con un mitra in mano:
“Papir, Papir!” io sapevo cos’era il Papir, perché lo
avevo sentito tante volte:
“Bisogna che vae rento a ciorlo parchè no l’ho qua!”
“Nein, nein, via, via…” esce mio fratello via anche
lui, esce mio padre, prendono anche lui! Ci prendono
tutti e tre e ci portano via, su da Vendrame, e ci
chiudono in un tinello. Là c’era anche uno da Mareno,

456
che doveva andare a Treviso per portare la moglie
a fare un’operazione; non è passato per il ponte per
paura di trovare i Tedeschi, ma l’hanno preso lo
stesso. Mezzogiorno ci caricano lo zaino sulle spalle a
me e mio fratello e ci tocca seguirli mentre fanno il
rastrellamento dei partigiani nelle Grave della Piave.
Proiettili, esplosioni, arriviamo dall’osteria di Zanotto,
dove avevano preso duecento persone e li dovevano
portare a San Michele. Venendo su trovo mio zio e gli
urlo: “Zio com’ea?” mi guarda e non mi bada neanche
ho detto: ah qua la è finida, qua la è finida! Ci mettono
su un campo e mi ritrovo vicino al prete di Cimadolmo,
preso anche lui. Prima che venga scuro arrivano tre
camion, ci caricano e ci portano a Treviso, in carcere
a Santa Bona. Mio papà ha girato per un pezzo per
sapere dove eravamo finiti io e mio fratello, e a forza
di andare attorno è riuscito a sapere che eravamo
a Treviso. A forza di fare è riuscito a convincere i
Tedeschi a liberarne almeno uno, e allora la momento
di liberarci ci fa: “Vardè valtri!” ma mio fratello era un
ragazzino, aveva diciotto anni!
“Fa vegner casa el bocia, chissà che mi me salve
mejo!” faccio a mio papà. Così dopo undici giorni di
prigionia mio fratello viene liberato, poi due giorni
dopo, dopo tredici interrogatori, non uno, tredici! Col
mitra alla schiena! Quella mattina ne chiamano fuori
uno, senza mitra alla schiena senza niente; poi due,
tre, quattro, cinque, sei e il settimo ero io! In tredici
messi là in fila, senza fucile puntato. Viene fuori uno
con quelle macchine da scrivere che una volta facevano
un repetun che metà basta, e fa: “Io constatare non
essere partigiano. Mandare vostre famiglie adibiti

457
lavori fiume Piave.” Assieme a noi c’era anche uno
dei Carabinieri, preso come noi, e quando il Tedesco
fa: “Mangiare e poi andare casa!” il Carabiniere gli
risponde: “No ocore magnar! Suito, suito!” entra
nell’ufficio e si prende subito la busta con la carta dei
lavori e se ne va, allora ci fanno andare tutti: abbiamo
corso come mai per la paura.
Siamo arrivati a Carbonera, siamo andati dentro in
una osteria, ordinato due bicchieri di vino e il ragazzo
che ci ha serviti non ha voluto niente, poi ci fermiamo
in un’altra a Candelù e anche lì la vecchina non ci
fa pagare, attraversiamo la Piave e arriviamo dalla
fornace di Bortot, dove i Menegaldo portavano sassi,
nel Madorbo: là c’era uno di Favaretto che era stato
preso con noi e abitava là nel Madorbo, ci fa:
“Vegnè rento a casa mea che ve dae da bevar mi!”
Insomma questo esce dalla cucina con un secchio
di vino ed ero ubriaco da essere quasi impedito a
camminare sull’argine, perché per tornar casa ho fatto
quella strada là e da quella volta non mi ha più rotto
le balle nessuno! Sono tornato a lavorare per conto mio
a fare il cariota e non ho più visto nessuno, basta!
Finalmente a casa ho fatto il cariota, che si prendevano
bei soldi, pagavano bene una volta. Si pagava per
viaggio, una tariffa fissa conforme al trasporto e al
materiale, generalmente si faceva un viaggio alla
mattina e uno al pomeriggio, per Bortot, Rigoni,
soprattutto per le fornaci lavoravo, poi con i camion
si sono potuti fare più viaggi, ma non è durato tanto
il camion perché sono rimasto da solo, e a quel tempo
il lavoro era duro, tutto a mano, farlo da solo non era
conveniente. Poi quello che guidava era mio fratello,

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io non ero capace, e dopo pagare l’autista e i caricatori
restavo senza niente, così ho ascoltato mia moglie, che
veniva da una famiglia di contadini qua di Cimadolmo,
i Bortolin. Così ho venduto il camion e ho comprato
terra, tutta vigna, prosecco, verduzzo, cabernet, merlot,
pinot grigio, chardonney, sauvignon, ma adesso non
si campa più con l’uva, pagare gli operai e il resto, il
vino vale soldi ma l’uva vale poco e a noi contadini
non resta niente. Poi adesso io faccio fatica a capire,
cioè abbiamo così tanto, è cambiato così tanto che
non riesco neanche più a capire la vostra lingua, mi
pare un mondo completamente diverso! Una volta il
divertimento era la partita a carte, tresette, zinquilio,
zogoeon, ero bravo io al zogoeon, adesso non so neanche
più se voi sapete cos’è!>>.

Lo spaesamento che vive Antonio in questi giorni


sembra quello di Odisseo tornato nella sua Itaca, dopo
tanti anni di lontananza non la riconosce più. Antonio
però è vissuto sempre qui… e certamente non è lui
quello che si è perduto.

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Favorino Spagnol

La bella Africa

Favorino Spagnol nacque a San Michele il 17 settembre


del 1921, cresciuto giocando con le fionde assieme
agli altri ragazzi, in una famiglia con mamma, papà,
fratello e sorella; quattro fratellini sono morti appena
nati per la fame e gli stenti che caratterizzavano quegli
anni, mentre la sorella Maria morì mentre Favorino
era prigioniero a Casablanca.
<<Ho fatto le scuole qua a San Michele, che il maestro
era uno di quelli che quasi tutti si prendevano un bel
tirone d’orecchi e dopo ti metteva fuori dalla porta! Ho
fatto fino alla quarta e dopo la quinta sotto un privato,

460
Corrado Sanson; sono stato promosso ma non ho mai
ricevuto il diploma; comunque ho fatto l’esame di
quinta assieme ad altri due a San Polo, che ci aveva
insegnato Sanson, e siamo passati in due.
Dopo per guadagnarmi da vivere sono andato a
Torino a quindici anni, a fare il lavapiatti. Mio papà
era Latina, oggi Latina, allora si chiamava Littoria.
Ma mentre ero a Torino mi arriva la carta che dovevo
tornare a casa perché ero obbligato a fare il pre militare
e dopo mi è arrivata subito la cartolina di presentarmi
a Trieste. Allora sono andato a Littoria per salutare
papà e dopo ho preso il treno per tornare a Banne,
vicino Trieste, inserito nel V° Reggimento del Genio.
Da Trieste ci hanno mandato tutta la compagnia
in Africa, circa sessanta uomini. Siamo sbarcati a
Tripoli, siamo rimasti fermi due giorni, e dopo abbiamo
cominciato ad andare verso il fronte. Là abbiamo
preso la stazione ricetrasmittente, io ero motorista,
dovevo stare attento al motore, che funzionasse sempre
perché ci fosse corrente. Siamo arrivati a Bengasi che
è stata occupata, e poi fino a El Alamhein, dove gli
Inglesi ci hanno fatto correre, perché bombardavano
e mitragliavano in continuazione, noi nascosti sempre
dentro nelle buche. Siamo scappati indietro, ma siamo
stati fatti prigionieri dei Neozelandesi, che ci hanno
fatto buttare i fucili dentro un pozzo e ci hanno portato
fino a Casablanca, nel Marocco francese. Là siamo stati
quasi tre anni in prigionia, portati dagli Inglesi. Nel
campo di concentramento però erano gli Americani che
ci facevano la guardia. Poi ci chiedevano se avevamo
voglia di lavorare o no e siccome il campo era enorme,
fatto di tutte tendine piccole per due persone che con il

461
caldo che c’era puoi immaginarti, ho preferito lavorare
che stare là sotto. Sono anche stato ferito una volta, mi è
entrata una scheggia nella gamba! Quando ci avevano
preso ci avevano detto che saremo tornati a casa con
loro, e infatti finita la guerra ci hanno caricati sulle
navi da combattimento, abbiamo attraversato lo stretto
di Gibilterra e portati a Napoli, con tutte le bombe
mina che andavano a spasso per il Mediterraneo per
far saltare le navi, con due che dovevano sempre stare
fuori con una luce per evitare di prenderle.
A Napoli abbiamo dormito in una caserma militare e
alla mattina dopo ci siamo ritrovati senza scarpe; ce
le eravamo tolte, ma non siamo tornati a casa senza,
no! Appena tornati a casa con il treno, ci hanno anche
mandato a casa la carta di andare ad Ancona a ritirare
i soldi che ci avevano promesso per andare a lavorare
per loro: infatti quando sono andato giù mi sono
trovato il mio nome sulla lista delle mie spese, perché
nel campo avevano una specie di negozio con tutta la
roba per i militari, dove noi prendevamo le cose senza
pagare ma se le segnavano loro su un taccuino. Così
mi ritrovo la lista di quello che avevo preso e il totale
delle Am–lire che la banca doveva darmi per il lavoro
svolto da prigioniero; le Am-lire erano le lire date dagli
Americani, e con quei soldi quando sono tornato a
casa, erano 60.000 lire, ho comprato subito il pezzetto
di casa che era qua in piazza e ho abitato là fin quando
mi sono fatto il capannone, dove ho sempre lavorato
da solo e per conto mio, come fabbro: per esempio ho
fatto io l’antenna del monumento ai caduti, quella su
cui è appesa la bandiera. Ma se devo parlare della
guerra devo dire che le abbiamo sempre prese e basta,

462
dagli Americani, dagli Australiani, dagli Inglesi, dai
Neozelandesi, dagli Arabi! Ci si rifugiava nelle buche
per dormire, avevamo dei carri armati piccolini che
erano trappole, avevamo due pacchi di cartucce per
uomo e due bombe a mano, quella era la nostra potenza
di fuoco, era sempre di stare nascosti nelle buche. I
Tedeschi erano bene armati invece, avevano gli Stukas:
sette, otto che venivano dalla Germania, sono calati solo
due volte ma mettevano una paura tremenda, anche
perché eravamo tutti mischiati quasi, prendevano sia
noi che loro; venivano giù in picchiata raso terra quasi,
tu ti buttavi sotto la sabbia e non uscivi fino a quando
non li sentivi più. Quegli altri invece venivano sopra
con le superfortezze volanti che erano così grosse che
oscuravano il sole perfino, e buttavano giù spezzoni
antiuomo a raffica che sembravano pioggia, lunghi
dieci centimetri; c’era il Sergente, anzi no il Tenente
Pigliucci, che ci diceva sempre: “Buttatevi per terra e
state fermi finché non sentite più niente!” ecco, quella è
stata un’altra fortuna nostra: abbiamo avuto ufficiali
sinceri e leali, che stavano allo scherzo.
Noi come dicevo, avevamo la ricetrasmittente 50
Rommel, perché tenevamo i collegamenti con Rommel,
che ci diceva che spostamenti fare, ma poi l’abbiamo
anche perduta durante la fuga. È stata una battaglia
continua che non ricordo neanche quando ci hanno
messo in rotta, anche se mi sono tracciato sulla cartina
dell’Africa tutti i nostri movimenti: so dirti dove siamo
stati, anche perché l’anno scorso sono tornati a vederli
quei posti, guarda qua: siamo sbarcati in Libia a
Tripoli, poi ci siamo spostati a Bengasi dove abbiamo
avuto il primo vero scontro a fuoco, contro gli Inglesi;

463
da là siamo avanzati fino a Tobruch, Solum, e avanti
sino quasi ad Alessandria d’Egitto, dove abbiamo
la disfatta. Da lì siamo stati presi e portati indietro,
attraverso Capo Bon e poi Casablanca, sui camion e
sul trenino coi vagoni da bestiame, perché ne avevano
uno solo che funzionava. Ma l’Africa è bella sai? Bella
che merita un viaggio anche alla mia età! Sono stato
l’anno scorso a rivedere quei posti e il sacrario militare
di El Alamein, il cimitero americano, il cimitero
inglese, il cimitero italiano, abbiamo comprato anche
un libro e fatto tante foto, perché ragazzo mio credimi
che quando ti trovi lì davanti non hai più forza di
aprire bocca! E ci voglio tornare quest’anno perché mi
sono sentito stringere la gola da quanto stavo male, ma
era un male diverso; un male che mi ha fatto piangere,
vedere i miei amici che non sapevo dove fossero finiti
scritti là sulle mura! Perché durante la prima parte
della fuga abbiamo passato una palude, eravamo
in diciassette nella stazione, ci siamo impantanati e
l’abbiamo abbandonata lì e siamo scappati a piedi, non
potevamo recuperarla perché gli apparecchi venivano
giù a mitragliare di continuo, ma tanto non serviva
più a niente perché una mina anticarro l’aveva passata
parte per parte! Eravamo in contatto con Rommel, che
ci diceva che ordini diramare, ma io so che il motorino
era avviato a mano, il Guidetti! Mi è anche toccato
smontarlo perché si era spaccato un rullo della biella,
l’ho aggiustata con un pezzo di ferro e un sasso! Due
giorni prima di abbandonarla era successo! Gli Inglesi
buttavano bombe come avessero in mano un sacco di
biada, sai quanti morti: chi mancavano le braccia, chi
mancava una gamba, chi mancava la testa, chi aveva il

464
busto spaccato in due! Ne ho seppelliti due io e davanti
al cimitero ti senti veramente prendere al cuore!
C’erano buoni rapporti tra noi, perché non c’era
nient’altro, anche perché noi eravamo separati dal
resto della truppa, eravamo su una Spa 38 con le
gomme piene, con due tavole da mettere sotto le ruote
per passare la sabbia fina e dietro il rimorchietto con
quattro brande per dormire quando non buttavano le
bombe, che cadevano giorno e notte e il caldo non era
niente in confronto all’acqua che non c’era proprio!
Non c’era, la dovevamo togliere dal radiatore della
Spa 38, piena di ruggine, la passavamo con un po’
di stracci e succhiavamo quella, perché noi non ce la
portavamo dietro, erano i Tedeschi ad avere le scorte,
noi ci avevano mandati allo sbaraglio senza niente! E
i fascisti io non li ho mai visti davanti a combattere: c’è
anche il motto lì a El Alamein: “Mancò la fortuna non
il valore!” Poi ci hanno portato in prigionia in Marocco,
dove gli Americani avevano una grande officina per
la riparazione delle macchine che arrivavano rotte, e
noi abbiamo lavorato per loro ad aggiustarle, ed è per
questo lavoro che abbiamo preso i soldi. Io ho una sola
cosa da dire a voi giovani: godetevi la vita e amate gli
altri, perché altrimenti tornerà un’altra guerra, e se
torna, con le armi che ci sono adesso finisce anche il
mondo! Certo che l’è dura volerse tutti ben… noi non
potevamo rifiutarci di farla, altrimenti ci mettevano al
muro e PAM! Tanti erano anche volontari e adesso uno
fa il militare da volontario quindi… non so più se è
meglio o peggio! Io sono anche contento di aver fatto la
guerra perché sono tornato a casa vivo, ma la paura…
tanta, tanta! >>.

465
Camillo Bontempi

Diploma di “Assessore Benemerito” donato al padre di Camillo dal Re Vittorio


Emanuele III per i suoi meriti nell’Amministrazione Comunale.

La fortuna nella tragedia

La guerra di Camillo Bontempi, classe 1914, è durata


poco ma è stata molto dolorosa; non per le battaglie
combattute, le ferite che non ci sono state, la fame
che non ha patito anzi, Camillo dice sempre che il
minestrone era buono nonostante tutto. Camillo
era già sul treno che lo avrebbe portato in Russia,
in partenza da Vittorio Veneto, quando il Tenente è
salito sul vagone urlando: “Bontempi, Bontempi!”
“Eccomi qua!” “Sei dispensato dal partire perché tuo

466
fratello Alfredo è morto in Grecia!”
Alfredo era il maggiore dei tre figli maschi (otto in
tutto con cinque sorelle) di Augusto Bontempi, e aveva
trovato la morte durante la campagna di Grecia.
Camillo si è salvato dalla Russia grazie alla scomparsa
di Alfredo; triste e sarcastica è la guerra, tornare a casa
grazie a un fratello che non c’è più e veder partire gli
amici verso un paese straniero e lontano, tanti amici
che poi non sarebbero più tornati. Ecco, la guerra ha
fatto anche questi scherzi: quanto la guerra può essere
crudele e sadica, solo chi l’ha combattuta lo può dire!

<<Io sono nato il 9 dicembre del 1914, stavamo nella


casa che si trovava dove adesso c’è il supermercato
di Contessotto. Qua una volta era miseria, eravamo
profughi alle Monde di Portobuffolè durante la
Grande Guerra e avevano bombardato la casa del
nonno radendola al suolo qua a Cimadolmo. Era un
disastro, noi eravamo via profughi in tanti, anche con
le zie, e i Tedeschi mentre eravamo via hanno anche
messo in prigione mio fratello più grande assieme a
mia zia, perché li avevano pescati ad andare a rubare
le zucche nei loro campi, capito come? Tu adesso puoi
andare tranquillo a prendere su le tue zucche nei tuoi
campi, ma allora in guerra, non potevamo neanche
raccogliere la nostra roba, serviva a loro, comandavano
loro, ti mettevano in prigione perché dovevi chiedere il
permesso per raccogliere la tua roba per mangiare!
Questa è la guerra, non si era più padroni delle nostre
cose! Qui a Cimadolmo siamo tornati nel dopoguerra,
e abbiamo trovato che non c’era più la casa ma solo
un gran buco, anche la chiesa e il campanile erano

467
stati bombardati, erano tutte macerie. Noi abbiamo
dovuto arrangiarci, non so se il Governo o il Comune
ci avevano dato una baracca dove andare a vivere, ma
tanti erano nella nostra stessa situazione.
Solo dopo dieci anni abbiamo cominciato a costruire
questa casa qua, una delle più vecchie del centro, ma
prima siamo stati anche in affitto in due case diverse, ci
abbiamo messo molto a costruirla questa, perché allora
non c’era lavoro ed erano successe tante cose in giro
che avevano fatto crollare l’economia come la quota 90,
bisognava ingegnarsi per mangiare e mio papà ha fatto
così. Io intanto però ero giovane e andavo a scuola, a
quel tempo erano là dal Municipio, e le maestre erano
tutte e due di Cimadolmo, la Adelia Savoini che era
un angelo, mentre la maestra Tuna era piccolina e un
po’ cattiva, ma brave tutte e due, ci insegnavano tanto
la religione e la dottrina, mi ricordo che su questo si
insegnava tanto, poi le altre materie sento dai nipoti che
a noi insegnavano cose che adesso non insegnano più,
è cambiato tanto. Il pomeriggio al sabato c’era da fare
il pre militare, la ginnastica dicevamo noi; mi ricordo
che era Checchino Castorina che mio papà lavorava
anche per lui, perché Castorina aveva una fabbrica per
la produzione dei blocchi di cemento, e mio papà aveva
comprato due buone cavalle e due carretti e assunto
due lavoratori, per andare a prendere la sabbia nelle
Grave e portarla a Castorina che la usava per fare i
blocchi. Noi abbiamo faticato tanto per vivere, mio
papà aveva ottenuto dal Comune qualche cosa, ma
soprattutto mio papà si è inventato di andare a fare
il mediatore nelle fiere e nei mercati e dopo un po’ ha
cominciato a prendersi anche cento lire alla volta: il

468
mediatore era quello che trattava i prezzi fra venditore
e compratore, e dopo prendeva le mance da chi faceva
l’affare, si interessava della compravendita di capre,
vitelli, porci, poi siccome era bravo e se ne intendeva
chiamavano sempre lui quando lo vedevano, hanno
cominciato tutti a conoscerli: “Signor Bepi, signor Bepi,
el vegne qua, el vegne qua!” chiamavano mio papà
ogni volta che dovevano fare una trattativa! Augusto
Giuseppe Bontempi, nominato assessore benemerito
dal Comune di Cimadolmo dopo, ho anche il quadro
là fuori con le bandiere del re ancora! E mentre mio
papà era in giro per fare questo tipo di lavoro, mia
mamma Matilde Giacomazzi era a casa a badare a
otto figli, tre maschie cinque femmine e qua in paese
non c’era un bel clima, i fascisti hanno portato via una
volta mio papà, il prete, il barbiere, in cinque sei non
ricordo di preciso, dopo li hanno liberati, ma mio papà
era stato preso per primo, perché loro volevano sapere
tutto del paese e prendevano le persone che avevano
più contatto con la gente e che erano più conosciute,
ma siccome mio papà era molto intelligente, più di loro
sicuro, ha raccontato tutto quello che sapeva, ma le ha
raccontate a modo suo, e così siccome avevano fiducia
di mio papà gli hanno creduto, e nessuno è stato più
disturbato in paese, perché mio papà ha fatto in modo
di far credere ai fascisti che in paese non ci fossero
problemi contro di loro. Poi mi hanno chiamato via in
guerra, ma causa che al Comando di Vittorio Veneto è
arrivata la notizia della morte di mio fratello Alfredo,
mi hanno ritirato ed è stata la mia salute, perché ero
già sul treno per la Russia! Non ho fatto a tempo a fare
combattimenti o altro, sono stato poco nelle zone dove

469
mi avevano dislocato; a Trieste mi hanno inquadrato
nel 73 fanteria, poi ci hanno mandati a Fiume, in
Croazia. Non abbiamo avuto compiti particolari, solo
che non potevamo muoverci ed era un peccato, perché là
con cento lire mangiavi tutta la cioccolata e lo zucchero
che volevi. Nessun rapporto coi Croati dunque, neanche
pattuglie notturne perché ancora non si era formata la
Resistenza titina. Dopo poco ci hanno fatto rientrare a
Vittorio Veneto e là è arrivata la notizia della morte di
mio fratello Alfredo. Era una disciplina via che non se
sgarravi c’era solo la prigione, non è simpatico no fare
la guerra, proprio per niente! Tornato a casa la vita qua
era meschina, chi non aveva niente andava a rubare
nei campi, fagioli, uva, portavano via pannocchie,
chi non aveva niente viveva rubando, non poteva fare
altro, c’era la miseria più completa. Poi sono venuti giù
anche i partigiani dopo l’armistizio, e hanno portato
via mio papà: anche i Tedeschi lo avevano portato via
prima, perché avevano capito tutti che era una persona
che aveva un certo peso in paese, lui conosceva tutti
e tutti conoscevano lui, perciò ne avevano bisogno
per conoscere chi dovevano controllare e chi era dei
loro, solo che, come dire: mio papà era un artista a
raccontare le cose a modo suo, poteva fare lo scrittore
per questo perché qualunque cosa dicesse la girava in
modo che a nessuno potesse essere fatto del male; avrà
anche salvato la vita a più d qualcuno facendo così!
La cosa buona è che non ci sono stati bombardamenti,
e che si lavorava un poco con i Tedeschi, ma è stato mio
fratello a voler andare a lavorare nelle Grave a fare i
bunker al posto mio, andava con un cavallo a prendere
alberi, tagliarli, portarli agli operai che costruivano i

470
bunker, qualcosa la portava a casa per noi e io intanto
ero casa a coltivare i campi di mio nonno assieme a
lui. Avevamo tanta terra, sparsa in giro perché ne
avevamo per andare a Roncadelle, a Stabiuzzo, tutta
terra che avevamo comprato nel 1928 a debito, poi
quando è venuta la quota 90 e il crollo delle borse ci
siamo ritrovati che ci hanno tolto la casa e tutto, se non
era per il Comune che ci aiutato eravamo sulla strada.
Finita la guerra in paese andava male, non c’era
niente da mangiare, tutti guardavano di arrangiarsi
per conto proprio; ho cominciato a seguire mio padre
a fare un po’ il mediatore, perché lui aveva fatto tanta
strada già prima della guerra, tutti avevano fiducia di
lui, lo chiamavano per qualsiasi trattativa di ogni tipo
di bestiame. È stato grazie a questo tipo di lavoro che
siamo riusciti a pagare i debiti, perché grazie al fatto
che mio papà lo conoscevano tutti non ci sono stati
problemi ad aiutarci, mio papà poi ha lavorato anche
per il Comune, anzi dopo la guerra siamo riusciti
addirittura a comprare ancora, mio papà sempre a
debito ha comprato trenta campi di terra nelle Grave,
che ancora li abbiamo anche se mezzi sono interrati o
adesso ci corre sopra la Piave!
Adesso sappi comunque che è rose e fiori rispetto alla
miseria di una volta, sento che oggi c’è criminalità per
me rubavano di più una volta, solo che non lo facevano
con le armi. Per conto mio una volta tutti cercavano di
arrangiarsi per conto proprio, ci si aiutava in famiglia
ma per il resto tutti pensavano a sé stessi, oggi è il
contrario: in famiglia per conto suo e tra amici ci si
aiuta e c’è più unione, almeno per quello che capisco
io che ho novantacinque anni! Una volta era così dura

471
che nonostante avessimo erba sul nostro andavamo a
prenderla anche dagli altri, per seccarla e darla alle
bestie; avevamo la stalla dove adesso hanno fatto i
condomini di Via Degli Alpini, una bella stalla con
otto vacche e tre o quattro cavalli, quando le cose sono
andate bene, ma prima andavano tanto male, non
credere che sia sempre stato rose e fiori, qua in paese
non c’erano industrie se non quella di Castorina che
noi gli portavamo sabbia e ghiaino per fare i blocchi
di cemento, ma c’era più miseria che altro, la maggior
parte della gente era contadino o mezzadro, qualcuno
si arrangiava e andava meglio, ma anche i cestai
hanno dovuto lavorare giorno e notte per far andare
meglio le cose, si sono dovuti fare in quattro anche loro,
come tutti d’altronde. Io ormai ho le gambe che non mi
reggono più da quanto ho lavorato, nei campi a tutte le
ore, con ogni tempo, caldo, freddo, pioggia, da solo, con
mio nonno; così è stata la vita a miei tempi!”.

472
Arcangelo Dal Ben

La guardia degli Slavi

<<Io sono nato a San Polo il 19 maggio 1922, nella


Guizza. Eravamo tutti là noi Dal Ben, noi in famiglia
tre fratelli maschi, io in mezzo. Eravamo affittuari di
Giol; con loro funzionava che si portavano via tutto
loro e quello che restava lo davano a noi, mezzadri
si era.Ho fatto le scuola qua a Roncadelle, che sono
ancora là, le maestre erano così e così, ma scuola l’ho
fatta anche in una baracca perché nella Guizza siccome
eravamo in tanti avevano messo una baracchetta e
andavamo a scuola dentro là, pieni di freddo e tutto,
che mangiavamo pane e latte e ci si vestiva come si
poteva, anche di stracci>>.

473
<<Una volta era così, non c’erano tante mode! – gli
fa eco la moglie Alice Maschietto di Fontanelle – Noi
bambini se non si era a scuola o in chiesa eravamo nei
campi a dare una mano o in casa, si dava una mano
ai genitori!>>
<<Sì anche da noi nella Guizza c’era tanta gente una
volta, soprattutto durante la festa della Madonna di
Lourdes.
Io poi dovevo andare a fare il pre militare con il dottor
Trombetta, non era bello con loro, bisognava stare
attenti a cosa si diceva, non li si poteva criticare, chi
parlava troppo si prendeva l’olio di ricino, voi siete nati
liberi vi sembrano barzellette, ma se ti dico che non si
potevano fare tante cose è la verità, le ho vissute. Poi
per la guerra sono stato chiamato il 6 gennaio del 1942,
nella fanteria. Sono finito per un brevissimo periodo
in Jugoslavia, portato giù con il treno, ma siamo
stati sempre accampati sotto le tende o fare pattuglie,
perché la mia classe era andata quasi tutta in Russia
e ne sono morti tanti, ma io mi ero procurato un’ernia
inguinale brutta, e quella mi ha salvato la Russia.
Non riuscivo neanche a camminare, così sono stato
mandato a Cervignano del Friuli a fare la guardia
agli Slavi nel campo di concentramento che avevano
organizzato là gli Italiani. Lì a fare la guardia nel
campo eravamo tutti quelli che non erano più in grado
di combattere, mutilati, infortunati, con una gamba
rotta, con la polmonite, e a dire la verità io avevo
l’ernia già prima di partire e non dovevo neanche
andare a militare, ma ce n’era bisogno perché l’Italia
non aveva uomini e mi è toccato partire. Ma gli
Slavi nel campo stavano meglio di noi, perché i loro

474
parenti gli mandavano sempre dei pacchi con roba
da mangiare dentro, con il the, il caffè, lo zucchero;
ho anche avuto modo di parlare con loro, ma non
capivano tanto l’italiano e io non conosco lo slavo, ma
mangiavano meglio di noi, erano signori al confronto,
a noi il comando non portava neanche da mangiare
a momenti, un pasto al giorno! E là dove eravamo
c’erano tutti i prigionieri slavi catturati dal nostro
esercito e dovevamo fargli la guardia giorno e notte,
con loro che mangiavano e bevevano con i pacchi che
gli mandavano e noi a stecchetto!
Poi è venuto l’otto settembre e siamo venuti a casa;
abbiamo aperto i cancelli del campo di concentramento
per far scappare gli Slavi e ce ne siamo andati anche
noi, a piedi ci siamo incamminati verso casa in gruppo,
attraverso i campi, in mezzo alla campagna e c’era
sempre qualcuno che ci aiutava, che ci diceva dove i
fascisti avevano fatto i posti di blocco. Sono arrivato con
tutti gli altri a Portogruaro e dopo da là ho continuato
da solo, a piedi per i campi, con la gente che mi diceva
dove passare per non incontrare i fascisti.
Tornato a casa ho ripreso a lavorare la terra, avevamo
quattordici campi o sette ettari se fa lo stesso, coltivati
a vigna, in più una stalla con sei vacche. Non sono
mai venuti a cercarmi per casa, perché avevamo una
campagna immensa ed eravamo sempre nei campi, a
casa non mi trovavano sicuro se venivano! Finita la
guerra qua è tornato tutto più tranquillo, si è lavorato
di più, ma io non sono rimasto qua a lungo, perché nel
1947 sono partito per il Belgio>>.
<<Lui non andava tanto d’accordo con i genitori
e allora ha deciso di partire – prosegue Alice – ed è

475
andato in Belgio nelle miniere di carbone!>>
<<Mestiere delicato, la polvere e soprattutto entravi
senza sapere se ne uscivi, si lavorava duro, non c’era
tempo neanche di raccontarsi come andava, sempre
sotto!>>
<<Sono stata anche io sette anni in Belgio; ci siamo
conosciuti perché stavamo vicino, lui nel 1951 è
tornato a casa per sposarsi con me e siamo tornati
via in Belgio tutti e due. Ha lavorato lì finché non ha
preso la pensione e siamo tornati a casa con quella. In
Belgio si viveva come qua, bisognava lavorare tanto
per mangiare e vestirsi, fare i salti mortali per mettere
via due soldi e comprare una casetta, che l’abbiamo
comprata a Negrisia, una casa vecchia in cui abbiamo
abitato per ventiquattro anni, poi l’abbiamo venduta
per comprare un pezzo di terra qui e siamo venuti a
stare qua. Facevo la casalinga in Belgio, ed era una
disperazione vederlo tornare dalla miniera, perché
tornava con la schiena e le braccia tagliate, c’era sempre
qualche sasso che cadeva e ti colpiva, lui è pieno dei
segni di questi incidenti…>>.
<<Si andava dentro e non sapevi se tornavi fuori! E
dentro là eravamo tante nazioni, non solo Italiani,
ma tutta Europa, erano tanti Slavi, tanti Tedeschi,
Olandesi, c’era tutta l’Europa dentro le miniere di
carbone e adesso è così in tutto il mondo!>>
<<Tornati in Italia abbiamo vissuto con la pensione che
ci davano e i frutti del nostro orticello, che tenevamo
bene… ma in Belgio, a Negrisia e qua, le cose erano
uguali: ogni paese ha i suoi, la gente buona, la gente
cattiva, tutto il mondo è paese, le stesse cose le trovi
ovunque. I cattivi sono là come ci sono qua e uguale

476
per le brave persone, basta andare a vivere da un’altra
parte e vedi che le cose sono così ovunque.
Poi lui ha fatto tanto ospedale a causa dell’asma
cronica contratta nelle miniere, e sta male ancora
adesso. Allora di là abbiamo venduto per venire a stare
qua, vivendo con la nostra piccola pensione…>>
<<Sì perché ero sempre in mezzo alla polvere; la polvere
che fa il carbone quando si rompe ti entra nei polmoni
e li senti proprio che si stringono, sputi nero poi sai? Si
sputa nero e adesso è tutto cambiato! Così la vita!>>.

Una vita che ha tolto molto e dato poco ad Arcangelo


e Alice, anche se il loro buon cuore li porta a dire che
sono contenti di quel poco che hanno avuto.

477
Rino Facchin

Rino Facchin è nato a Cimadolmo il 13 giugno 1923


nell’attuale Via Toti, dietro il ristorante “da Rui”. La
vita militare di Rino è stata breve ma intensa, molto più
lunga la sua vita di fuggitivo, costretto a nascondersi
nelle Grave amichevoli del fiume sacro per sfuggire a
Tedeschi e fascisti. A proposito di questo Rino, dice
una cosa stupenda, una cosa così vera che spesso ci si
dimentica con troppa facilità: a rischiare la vita più di
tutti non erano Rino e chi come lui si nascondeva, ma
tutte le donne, le fidanzate, che sfidando il coprifuoco
tutte le notti portavano di nascosto da mangiare ai
loro cari. Donne coraggiose, come la stessa moglie di
Rino, che fu una di queste giovani forti e fiere, che
non avevano paura di sfidare l’autorità per andare in
soccorso delle persone che più avevano care. Spesso

478
e volentieri ci si dimentica delle donne quando si
parla di guerra, soprattutto quando si parla della
Seconda: le donne russe che davano da mangiare quel
poco che avevano ai ragazzi in fuga dalla disfatta di
Nikolajevka, le giovani madri e fidanzate italiane
che nascondevano e portavano il cibo ai partigiani in
montagna, e che poi venivano fatte sfilare in coda ai
cortei perché ci si vergognava a far vedere che c’erano
anche loro, le donne delle fabbriche che lavorando
pensando ai mariti e ai figli portati a combattere in
terre straniere solo per la brama di potere dei capi.

Una fuga continua

<<Qua il paese non è cambiato molto rispetto alla


mia adolescenza. Le scuole erano dal Municipio, dove
oggi ci sono le Scuole medie era il dopo lavoro, una
specie di osteria dove la sera si passavano un pò di ore,
poi l’hanno fatto diventare la sede della Gil, perché
comandavano loro, ti toccava fare il sabato fascista,
marciare, correre, fare niente; era così che funzionava
al tempo del ventennio, comandavano loro e zitti! Non
potevi neanche andare all’elemosina se non avevi la
tessera del partito, uccidevi un maiale gliene dovevi
portare un quarto, venivano a vedere quanta biada e
quanto frumento avevi in solaio, dura era! Contavano
quante vacche avevi, quante galline, quanti vigneti,
quanta uva facevi, perché non potevi produrre più
di quello che dicevano loro, e ti toccava macinare
di nascosto perché ne potevi macinare solo un tanto

479
al mese e non di più. Noi eravamo una famiglia di
contadini immagina che dura che era, quindici campi
tra qua e le Grave, la zona del campo sportivo era
nostro per esempio. Non potevi parlare, comandavano
e basta e la gente moriva da fame, come le mie sorelle,
morte perché non c’era niente da mangiare subito dopo
la Grande Guerra e quelli venivano a prenderti la roba
se ne producevi di più di quello che avevano deciso?
La fame era tanta, ci sono stati ragazzi che sono partiti
volontari per la guerra di Spagna per mangiare,
lavoro non c’era, dall’Italia non si poteva uscire, non
rilasciavano passaporti, tanti ragazzi sono andati a
fare quella guerra per vivere, eravamo alla fame già
prima della guerra, e guai se non avevi la camicia
nera, neanche a scuola potevi andare! A me una volta
uno mi fa: “Tu non sei un Italiano!” perché avevo su
una blusa bianca invece di quella nera; ero in terza
elementare! A Efrem Dal Bò perché non è andato un
sabato a fare il pre militare hanno dato l’olio di ricino,
Rigoni, il padrone della fornace di Tezze è stato portato
via e pestato a sangue, don Dal Poz lo hanno bastonato
e rotto gli occhiali perché si era rifiutato di suonare le
campane perché Mussolini era scampato all’attentato,
perché i fascisti avevano ordinato che fossero suonate
in tutta Italia: “Le campane si suonano solo per l’uso
religioso!” ha risposto lui, e i quattro capi fascisti di
Cimadolmo lo hanno portato via e bastonato, i fascisti
andavano a messa per sentire cosa predicavano i preti,
per controllarli, non c’era un minuto di libertà! Non
ti era permesso fare niente, dovevi portare il frumento
all’ammasso, un tanto di chili ogni carico lo dovevi
dare al partito fascista, non c’era niente da fare, o

480
obbedire o botte! Militare sono stato tre mesi a Belluno,
dopo siamo venuti a Treviso per fare un corso per la
patente, che è durato altri tre mesi. Dopo siamo tornati
a Belluno, dove ho fatto solo la notte perché dopo ci
hanno mandato a Ponte nelle Alpi nella batteria dei
reduci della Russia, con il Capitano Antonio Aurigli. Se
non veniva la disfatta sul Don noi ormai eravamo già
stati mobilitati per andare là, invece la mia salvezza
è stata che è venuta e non siamo andati via, ci hanno
aggregato ai reduci. Da lì ci hanno mandato a Osoppo,
dove sono stato dodici giorni e poi a Mernico, sul confine
con la Jugoslavia, presso il Monte Santo. Dopo da là
siamo tornati giù a Oraria del Friuli, dove è venuto
l’otto settembre e ci è toccato scappare; è venuto la sera
il Capitano, ha riunito la batteria: “Si salvi chi può,
ognuno trovi la sua strada! Il nemico non è più quello
di ieri, è il primo che trovate sul vostro cammino!”
Io e uno di Tezze, di Casagrande, siamo scappati, ho
rotto in due pezzi il moschetto, buttato le giberne e
tutto quello che avevo e siamo partiti a piedi, mi sono
tenuto solo lo zainetto tattico e la mantellina. Abbiamo
camminato tutta la notte per i campi perché le strade
erano sorvegliate, poi ci avevano anche detto che la
Divisione Julia sarebbe stata tenuta come ordine
interno, ma erano bugie e infatti noi non ci abbiamo
creduto. Solo che la prima notte non abbiamo fatto
neanche cento metri! Siamo arrivati a Codroipo, dove
ci siamo seduti lungo un fosso per la stanchezza e un
cane si è messo ad abbaiare, così una signora si affaccia
dalla finestra di casa e urla: “Chi è là? Chi è là?”
“No la stae aver paura signora, sen do soldati
scampadi…”. Con quella è venuta giù, ci ha fatto

481
stendere su una balla di paglia sotto il portico e ci
siamo addormentati là. Poi la mattina ci ha svegliato
alle otto; ci aveva preparato un po’ di polenta e una
scodella di latte, abbiamo mangiato, l’abbiamo salutata
e siamo tornati a casa. Era un bel carnevale vedere la
gente che tornava a casa: chi era vestito da femmina,
chi da mendicante, che affari! Ci si raccontava quello
che avevamo trovato, cosa ci era capitato, abbiamo
mangiato fichi e uva, era settembre, abbiamo avuto
fortuna che era un mese in cui c’era da mangiare,
anche perché quando eravamo via a militare non ci
davano niente da mangiare, immagina te: il rancio
era quello dei muli, si pativa la fame! Diciannove anni
a Belluno, aria fresca, la mattina alle otto ginnastica
con un metro e mezzo di neve, come una tazza di caffè
a colazione che era acqua nera, il pane alla sera che
era grande come il pugno di una mano, che doveva
durare per il giorno dopo e dalla fame le mangiavi
la sera per riuscire ad addormentarti, il brodo era
acqua sporca, con la carne potevi fare una fionda,
alla sera si mangiava una fetta di castagnaccio per
riuscire a riempire lo stomaco, la pasta si mangiava
una volta alla settimana, di domenica, che solo i primi
la mangiava col condimento, sotto era scotta, lunga,
bianca, senza niente, la fame più completa!
Arrivo a casa, dopo otto giorni che sono arrivato portano
a casa la cartolina del precetto di presentarmi al centro
raccolta alpini di Conegliano, firmata dal Colonnello
Perico, che dopo è anche stato ucciso dai Tedeschi. Ma
io non mi sono presentato, sono scappato nelle Grave, e
una sera mentre ero nel mio nascondiglio ad aspettare
mio fratello che mi portasse da mangiare, arriva

482
senza niente e mi fa: “Vien casa parchè l’è vegnest i
Carabinieri in zerca de ti!”
Vengo a casa, mangio, la mattina dopo faccio:
“Vardè che mi parte e vae in tee Grave, se i torna qua
disè che voialtri no savè nient, mi son partio e voialtri
no savè nient!” Dopo quattro cinque giorni si presenta
a casa il Maresciallo dei Carabinieri: “Suo figlio?”
Io avevo detto a mio papà di dire così, invece lui gli
risponde: “L’è in tei camp in tee Grave!”
“Gli dica che si presenti sennò viene fucilato qua a
casa!” Allora io sono tornato a casa, ma gli ho detto che
piuttosto che tornare via preferivo che mi sparassero
qua a casa, perché avevo già due fratelli via, Pietro
che stava tornando su con gli Americani, Francesco
che era stato preso dai Tedeschi a Cefalonia e portato
in prigionia a Kjev, Domenico in Grecia, allora sono
andato fuori nei campi, ma per fortuna si sono calmati,
perché altrimenti mi portavano via… a un mio amico
è toccato presentarsi perché avevano portato via sua
mamma, ma per fortuna è riuscito a scappare di
nuovo. Anche perché i macchinisti cercavano di dare
una mano ai prigionieri, perché in aperta campagna
facevano rallentare il treno per dar modo ai prigionieri
di saltare giù, Zeno De Lorenzi si è salvato così, è
riuscito a buttarsi giù prima di Conegliano.
Abbiamo fatto una vita nelle Grave! Dormivamo
fuori, sotto gli alberi, nelle case disabitate o di chi ci
ospitava, nei fossi, sotto le siepi, quattro notti sotto
un noce, cambiavamo sempre posto, otto giorni da
Ferruccio Rui, che parlava tedesco, e quella volta che
dormivamo nelle Grave da Masetto, a mezzanotte
abbiamo cominciato a sentire su per le tavole cric croc,

483
cric croc…
“Adess la è finida!” e dopo invece è partita una civetta
e ha cominciato a cantare! Ci siamo messi a ridere ma
eravamo gelati dal sudore ormai, perché se volevano
ci prendevano subito, anche perché ti dico che solo la
Liberazione ha portato tranquillità, ma prima tutte le
sere dicevamo alle donne, mia moglie, sua sorella Lena
e la Cuzziol, dove trovarci per portarci da mangiare
e ogni notte con l’oscurità ce lo portavano, ma chi è
che sapeva dov’ero? Chi aveva detto ai fascisti che
ero scappato? Le voci partivano da Cimadolmo, il
Colonnello Perico non sapeva se ero casa o no, invece
la cartolina è arrivata! I capi non sapevano niente di
dove ero, ma i capetti qua di Cimadolmo sì; invece
di mandare il mio nome non potevano andare via
loro? I soldati di Mussolini mandavano te a fare la
guerra, ma loro restavano a casa! Io casa stavo bene,
non disturbavo nessuno! Matti erano, non si possono
fare guerre così! Noi eravamo quattro fratelli tutti via
come militari, e i capoccioni del paese qua a fare la
bella vita! Io mi sono salvato, lo dico sempre, perché ho
sempre girato nell’alta Italia senza andare mai fuori,
e dopo in paese perché i Carabinieri non obbedivano ai
fascisti! Mi ricordo poi una volta di quando dormivamo
nelle Grave, venti trenta minuti a testa si dormiva, per
la paura che venissero a prenderti, comunque vediamo
tutto un fuoco e un aeroplano che girava e girava; la
mattina vediamo a terra tutti volantini: dei partigiani
avevano bruciato delle foglie secche per fare un segnale
agli Alleati, e loro hanno buttato giù qualcosa, era un
bidone pieno di bombe a farfalla, altro che si è aperto
e le bombe sono cadute sparse. Servivano ai partigiani

484
per minare le strade e le ferrovie, per sabotare Tedeschi
e fascisti, ma invece gli abitanti delle Grave le hanno
trovate, le hanno prese in mano e a forza di toccare sono
esplose: due sono morti e altri due mutilati. Dicevano
che nelle Grave c’erano tanti partigiani, e qua in paese
i Tedeschi hanno dato fuoco a due case, c’era anche
una spia inglese che si nascondeva nella zona.
Poi quando hanno fatto il rastrellamento nelle Grave,
dicevano che erano tanti partigiani ma non erano tanti
invece, hanno portato via uno solo perché era vestito di
rosso, il prete don Piran lo hanno portato via, e dopo
anche il cappellano che gli doveva dare il cambio e li
hanno portati a Sacile, dove hanno ucciso Carmelo
Lazzer. Io ho sempre rifiutato di fare il partigiano,
perché se capitava che uccidevano qualche Tedesco
bruciavano il paese, accadeva come a Marzabotto, che
hanno fatto una strage o come a Bassano, dove hanno
impiccato un uomo su ogni pino; bisognava stare attenti
a cosa si faceva, una volta è passata una colonna e per
fortuna i partigiani di Felice si sono ritirati, perché se
si sognavano di attaccarli addio, perché ogni morto ne
uccidevano dieci di Italiani, quella era la loro legge!
Ormai si era ridotti che non potevamo più vivere, anche
i repubblichini poveri Cristi, ragazzi che andavano
volontari in guerra per mangiare un boccone!
Ma a leggere quello che hanno passato i reduci
di Russia viene da piangere, tutti quelli che sono
impazziti, che si sono uccisi o mutilati per evitare il
fronte, bisogna che tutti leggano Mario Rigoni Stern
per capire cosa voleva dire essere là, andare ad
ascoltare Berto Battistella, Alfredo Masier, se uno si
sedeva per riposarsi non si alzava più, mio cugino da

485
San Polo si è fermato perché non ce la faceva più e non
è più ripartito! Tanti non sono più tornati, congelati
fino alle ginocchia, c’è stata una strage di morti laggiù
in Russia, è stato un calvario per quei ragazzi, hanno
rovinato la loro vita per sempre, vestiti malamente,
con le scarpe che non contavano nulla, la pelle dei
piedi che veniva via, piaghe dappertutto, cercare di
ripararsi dal freddo nelle buche sotto la neve; i Russi
lo chiamavano il Generale Inverno, come successe a
Napoleone. L’uomo non impara mai dalla storia, sono
partiti duecentocinquantamila uomini e ne sono tornati
in diecimila, sono stati bravi a tornare, e per niente,
per il capriccio di un uomo! Noi non siamo stati invasi,
siamo noi che abbiamo invaso; la Russia stava bene
là, non è mai venuta lei in Italia, siamo stati noi ad
andare a invadere in Grecia, in Jugoslavia, in Albania,
la stessa cosa, siamo stati noi ad andare là, non loro a
venire di qua! A Cefalonia una divisione intera è stata
sterminata; perché? Siamo stati noi gli invasori, per i
capricci di uno che voleva essere il padrone del mondo!
Sei milioni di ebrei, sei milioni di ebrei, morti da fame
e bruciati e perché? Per il capriccio di un uomo, non
si può fare così! Nelle guerre non ci sono né vinti né
vincitori, c’è solo da perdere a farle!
Par fin impossibile che un essere umano possa
sopportare queste cose, che possa arrivare a pensare
queste cose! Chi è tornato dalla guerra era un cadavere,
un resto umano, nessuno li voleva vedere, eravamo
esseri bestiali, pieni di fame, croste e pidocchi! Questa
era la guerra, ti ha rubato la gioventù, gli anni migliori
della tua vita; mai più, mai più, mai più, speriamo
non vengano più! >>.

486
In conclusione

<<Finita la guerra ho ripreso a lavorare la terra, due


volte emigrato in Svizzera, operaio per la Tesse, la
BST, poi a coltivare viti e asparagi e il mio premio
è qua, questa poltrona qua! Ma il peggio è passato,
una volta si mangiava un uovo in due e ringraziare
il Signore che c’era l’uovo! Senti che bella questa, per
farti capire la libertà che avete voi oggi, quanto siete
fortunati! Quella volta avevano fatto le votazioni, negli
anni venti per far andare su Mussolini: le schede erano
già firmate e con il nome del Duce sbarrato, bastava
solo piegarle e metterle nei cassettoni, dopo quelli che
erano andati a votare avevano un piatto di trippe; era
già tutto pronto, bastava andare là! Pensate voi la
fortuna che avete oggi e no sapete neanche di averla,

487
dovete lottare per non permettere a nessuno di portarvi
via questa libertà! Una volta c’era la miseria e adesso
che c’è questa grande crisi si rischia che si torni com’era
col fascismo sai? Bisogna che state attenti ragazzi miei,
con questa crisi qua non è tanto bella sai? Spero che
per voi giovani non tocchi patire quello che è toccato
a noi, ma può sempre capitare; abbiamo preso Trento
e Trieste con seicentomila morti, da qua a cento anni
salta fuori uno che dice: “Quelle città erano nostre!”
se gli gira il cervello così non viene un’altra guerra
poi? E un’altra guerra per chi? Seicentomila morti,
seicentomila morti e settecentomila invalidi; centomila
gavette di ghiaccio rimaste in Russia, di vent’anni,
per fare che? Per che scopo? Combattere per chi? Per
uno che ti ha mandato una cartolina e ti tocca partire,
lasciare mogli, figli, amici e casa, partire e non tornare,
morire per chi? Bisogna ragionare, non si può, non si
può! tutti stavano bene a casa propria, ma non potevi
dire di no, venivano a bruciarti la casa altrimenti,
non potevi dire di no! Speriamo non ce ne siano più, la
guerra non risolve mai i problemi, anzi serve sempre a
sviare le colpe, perché le guerre i capi le fanno sempre
per dare agli altri le colpe per i propri fallimenti, così
la gente pensa ad altro! È per questo che voi dovete
lottare ancora, per tenervi stretta la vostra libertà, voi
giovani che non avete casa né lavoro, che non vi potete
sposare perché non riuscite a mantenervi, questi sono i
problemi che abbiamo noi oggi, c’è un grande pericolo
con tutti questi licenziamenti, ma questi problemi
sono venuti fuori perché i capi hanno fallito, ma si
sono presi le loro responsabilità? No, vedi sempre che
parlano di altro così nessuno parla dei problemi veri,

488
e ci fanno credere che le cose sono come dicono loro! E
così succedeva con le guerre: Mussolini aveva ridotto
alla fame i paese, gli ha fatto credere che la guerra
avrebbe portato benessere; tutti gli hanno creduto, ha
mandato una generazione intera al macello per non
far vedere i suoi fallimenti, e i politici di adesso fanno
così, quando sbagliano parlano di altro; dove finirà la
tua generazione se si continua così? Io ti auguro tutto il
bene del mondo, a tutti quelli della tua età, perché oggi
vedo che avete gli stessi problemi che abbiamo avuto
noi ai nostri tempi, ma ci sono tante cose che vedo e mi
fanno paura! Voglio solo dire che se vogliamo vivere
bene dobbiamo metterci in testa che abbiamo tutti gli
stessi diritti, che siamo stati fatti uguali, che dobbiamo
vivere e lasciar vivere, rispettare gli altri, amare, essere
onesti con la gente; perché purtroppo al giorno d’oggi
c’è tanta gente che aspetta solo di fregarti!>>.

489
Giovanni De Lorenzi

Periot

<<Chi lo sa perché ci chiamavano così? Ogni famiglia


aveva un soprannome ai tempi che eravamo giovani
noi! Da noi però venivano sempre a ballare e a fare
festa quando stavamo a Stabiuzzo, verrà fuori da là
penso, non lo so!
Ballavamo e c’erano anche quelli che si ubriacavano,
e poi alle volte i ballerini si fregavano anche un fiasco
di vino, e siccome le donne non bevevano il vino i
maschi facevano una colletta per prendere qualcosa di
più raffinato per loro, e allora andavamo a prendere
il marsala! Avevamo una cucina che era nove per

490
undici; quanti festini fatti là! Non hai mai sentito che
di andava a ballare da Periot? >>
Così Giovanni mi spiega il soprannome con cui è
conosciuto in paese. Nato il 9 novembre del 1921 a
Stabiuzzo in una casa colonica con nonno, bisnonno
e tanti animali, come vacche, tori, galline; fra i tori
il più terribile era quello chiamato Turco; un giorno
Zeno cadde dalla sua groppa e rimase sotto la pancia
del Turco, e tutti ormai pensavano venisse schiacciato
dalla sua furia: “San Antonio iuteme!” urlò la madre e
Turco, come sollevato da una mano invisibile, si rizzò
sulle gambe e si allontano dal corpo di Zeno, che riuscì
a salvarsi la pelle.
La casa dei Periot poi ospitava ogni domenica e a ogni
festa tutta la gente del paese che si radunava lì a
ballare, nell’enorme cucina in cui viveva questa umile
famiglia di mezzadri dei Vascellari di Tezze. Cinque
fratelli e una sorella componevano il nucleo familiare
di Giovanni, figlio primogenito e partito per la guerra
assieme al fratello Zeno.
Ester Troi, moglie di Giovanni, era nata invece in una
famiglia con cinque sorelle e un maschio, disperso in
Russia e della stessa classe di Giovanni; uno stesso
destino li ha accomunati, un’infanzia molto dura e
travagliata. Giovanni era nato da una famiglia che
lavorava sotto padrone, un padrone che era come tutti
i padroni del tempo, che era buono se stavano buoni
gli affittuari, bastava non chiedere troppo. Era nato
settimino, morto; stava dentro su una scatola di scarpe
in bombato, perché al tempo non c’era l’incubatrice,
con una bottiglia da una parte una dall’altra. Era tanto
piccolo da stare in una scatola di scarpe: il dottore

491
aveva detto: “E’ morto!”, ci hanno messo sopra un
lenzuolo e fanno per uscire. Mentre escono Giovanni
alza una manina…
“Porco… !” il dottore tira una bestemmia “E’ vivo, è
vivo!”, lo hanno curato e sfamato, è riuscito a vivere, a
soffrire, a combattere.
Ester invece è rimasta orfana a quattro anni, con altre
cinque sorelle e un fratello. La mamma morì a soli
trentanove anni, quando la più piccola aveva un anno
solamente, il padre era in Argentina, dove faceva
l’impresario edile, tornando dalla moglie e dai figli una
volta l’anno, ma che ha mantenuto la famiglia sino
alla maggiore età della figlia più giovane, mandando
a casa molti soldi:
“Si è comportato sempre da vero signore con noi!”
dice Ester, consapevole dei sacrifici fatti dai genitori
e di quelli che lei stessa ha dovuto sopportare; la
lontananza dai fratelli prima di tutto: due sorelle a
Cimadolmo con la nonna, una nelle Grave in casa di
una famiglia di cugini, il maschio e un’altra sorella
ancora in montagna, ad Agordo, da un fratello del
papà, la cui famiglia era originaria di Rocca Pietore,
ai confini con l’Austria, mentre Ester fu “adottata”
da una coppia di fratelli, i Masetto di Stabiuzzo, che
l’hanno cresciuta come una figlia.

Tempi di guerra

<<Sono andato via nel 1942, in Croazia, a Karlovac, ma


non ho tanti ricordi. Ricordo però che come mangiare ci

492
davano farina di frumento, quella che si usava per fare
il pane. C’era il Sergente che sapeva parlare un po’ di
sloveno, siamo andati in una casa dove c’era un forno
e io ho cucinato il pane, perché a casa a Stabiuzzo il
nonno aveva fatto un forno circolare in cemento con la
bocca per l’impasto e il vano per la legna, e lì facevamo
il pane, io ero bravo a cucinarlo. Allora succedeva che
il giorno dopo, siccome avevamo lavorato il Sergente
diceva che io e lui avevamo diritto a una bigna di pane
in più degli altri, e puoi immaginarti: a casa si faceva
a botte per averne una! Così i compagni venivano da
me e facevano: “Balilla, dame un toc de pan!” perché
siccome ero piccolino e senza barba, che parevo più
ragazzino di tutti, mi chiamavano sempre balilla.
L’otto settembre hanno dato il via libera di andare dove
si voleva, e noi con l’autoscarpa abbiamo preso e siamo
andati. Dalla Croazia sino al confine con l’Italia siamo
stati accompagnati dai partigiani, e quando siamo
arrivati ci hanno detto: “Noi siamo a posto, voi andate
dove volete!” ma come facevamo? C’erano i Tedeschi che
se ti prendevano vestito da militare, perché eravamo
ancora vestiti da soldati, ti portavano in Germania!
Abbiamo camminato in autoscarpa tre giorni, mi
facevano male i piedi da tanto camminato. A un certo
punto mi sono tolto le scarpe e ho messo i piedi su uno
strato di trifoglio per riposarmi i piedi, ma tanto che
mi facevano male e tanto erano pieni di sangue, mi
pareva che fossero spine. Poi ci siamo persi in un bosco
e ci abbiamo messo due giorni per uscire, e quando
siamo venuti fuori c’era una vasca con uno strato di
melma verde e noi morivamo di sete, abbiamo messo
sotto la borraccia e abbiamo bevuto! Siamo stati due

493
giorni senza bere e mangiare, che mangiare era niente,
siamo dimagriti tanto, ma senza bere non potevi stare
e poi era tutta collina, dovevi dormire con un pino in
mezzo alle gambe perché altrimenti la mattina dopo
ti ritrovavi a valle rotolandoti nel sonno, dormivi per
terra vestito, giorni e giorni senza togliersi le scarpe,
che ti scorticavano dappertutto! Poi abbiamo trovato
una donna che ci ha portato fuori una pignatta di latte,
ma noi eravamo in sette morti di sete e di fame:
“Fioi mi ho sol che questo par darve da magnar!”
allora, uno a testa abbiamo bevuto un cucchiaio a
turno per farlo durare di più, e poi cammina di nuovo,
non potevi usare il treno, eri costretto ad andare a
scavezza campi ed evitare le strade principali per non
farci prendere dai Tedeschi. Poi abbiamo passato un
posto dove i Tedeschi sorvegliavano tutto, e per fortuna
abbiamo trovato uno che in cambio del telo della mia
tenda ci ha portato ad attraversare dove i Tedeschi
non potevano prenderci, quello che potevamo dargli gli
abbiamo dato. Siamo arrivati fino a San Michele al
Tagliamento con il Sergente della compagnia, che ci ha
dato da vestire in borghese, che poi mia moglie gliel’ha
riportata e l’abbiamo scampata. C’era uno che andava
a latte con il cavallo, ed era d’accordo a portarci fino a
che non finiva il giro, e quando siamo arrivati in riva
alla Bidoggia, a Portogruaro, prima mi ha detto di far
finta di lavorare, poi mi ha detto: “Segui sempre questo
canale che ti porta sin quasi a casa tua!”
Io l’ho preso e sono arrivato sin dall’agenzia di Marcante
nelle Fossadelle, a Negrisia; arrivato sulla strada di
Ponte di Piave sono anche stato un pezzo a vedere se
c’era qualcuno in giro, perché avevo paura di essere

494
preso dai Tedeschi, ma dovevo attraversare quella
strada e alla fine mi sono deciso, così sono arrivato
da Lucchese, dove mi hanno dato una bicicletta e sono
arrivato a casa, e quando sono arrivato dal mulino di
Bettino mi urlano: “Vara che tò papà l’è dal muin!” torno
indietro, vado dal molino, caricato sulla canna della
bici, torno a casa, mia mamma mi ha abbracciato e si è
messa a piangere, perché mio fratello Zeno era ancora
via. Viene da piangere anche a me, mio fratello Zeno
era stato preso dai Tedeschi e caricato sul treno per la
Germania, ma in stazione a Conegliano, siccome c’era
tanta gente che cercava di far scappare i prigionieri
italiani, avevano fatto salire in treno una cesta con
pane e sotto un vestito da borghese. Uno non vuole,
l’altro neanche, mio fratello fa:
“Mete su mi!” si toglie la roba da militare, si veste con il
vestito da borghese, butta via tutta la roba da militare
e salta giù dal treno e torna a casa, con la cesta di
pane in mano. Andava in Germania altrimenti, si è
salvato perché nessuno ha avuto il coraggio di mettersi
su il vestito da borghese! Poi la guerra è finita, ma
prima che finisse mi sono sposato, a ventitre anni, nel
febbraio del 1945: non si poteva aspettare.
Nel 1955 abbiamo rotto con i Vascellari, perché loro
volevano obbligarci a piantare tabacco, ma noi ci
siamo rifiutati perché non aveva senso. Loro dicevano
che lo volevano usare come avevano sempre fatto, cioè
come terapia da naso contro il raffreddore eccetera, ma
se la finanza veniva a controllare i guai erano per noi,
e allora noi ci siamo rifiutati e gli abbiamo risposto
che la terra era sua e non nostra, così se voleva il
tabacco se lo lavorava lui visto che qua non era mai

495
stato piantato! Noi allora siamo andati a vivere nella
vecchia casa delle sorelle Troi a Cimadolmo; solo che
là aveva la bottega di frutta e verdura tuo bisnonno
Visentin, e gli abbiamo dovuto dare la buona uscita
per riavere la casa e io sono andato a lavorare da Cella
come manovale, ma mi è venuto un eczema sulla pelle
che mi faceva disastri appena sudavo! Ho fatto tanti
di quei giorni in ospedale, mi è toccato mollare quel
lavoro lì, ma per fortuna ho trovato un buon posto in
segheria da Elio Camerot (Cadamuro) e con quello ce
la siamo cavata sino alla pensione!>>.

496
Lino Sarri

Prima di partire

<<Io sono nato a Mansuè il 20 febbraio 1922, sulla via


per andare a Oderzo, da Moras. Una volta si chiamava
Via Lunga, se adesso l’hanno cambiata non lo so.
Eravamo una famiglia di mezzadri, abbiamo avuto
diversi padroni; quello con cui abbiamo lavorato di più
era Battista Ongaro, che non era cattivo, ma lui è venuto
nel 1941, prima eravamo sotto Domenico Nespolo.
Quando abbiamo preso la terra e fatto il contratto con
Ongaro, che si ricorda anche mia moglie Adelia che
abbiamo vissuto assieme sotto di lui, andavo da lui a
lavorare, segare e altri mestieri per niente, adesso ci si
fa pagare, ma una volta si facevano certi lavori anche

497
per mangiare bene, ti davano da mangiare e infatti a
noi non è mai mancato. Lui magari era un po’ tirchio,
la moglie no, ma non era una cattiva persona; sia con
lui che con Nespolo abbiamo sempre mangiato, soldi
pochi, anche perché erano anni difficili per tutti, non
solo per noi>>.
<<Anni duri per tutti, sia a Mansuè che fuori –
ribadisce la moglie Adelia Consorti, di Tessere – e
famiglie numerose!>>
<<Sì, basti pensare che noi Sarri eravamo in trentatre
in famiglia e si mangiava con un’anatra, anzi ne doveva
restare anche! Questo sotto Nespolo, nel 1925-1930, il
periodo del fascismo, in cui ti toccava stare agli ordini,
ma non solo a Mansuè, in tutta Italia; quando il Duce
parlava dovevi alzarti in piedi e stare zitto, altrimenti
botte! Maria Vergine che anni! Si era ridotti a non poter
neppure parlare, eravamo tutti fascisti anche se non
volevamo: quando sono andato alla visita militare il
Colonnello mi fa: “Sei giovane fascista?” “Signor no!”
“Non sei giovane fascista?” “Signor no!” era in piedi ha
fatto uno scatto: “SEI GIOVANE FASCISTA?”
“Signor sì!” mi è toccato dirgli di sì, tutti ti toccava
essere fascisti, infatti eravamo arrivati a un punto
ormai! Bisogna leggere i libri di storia per capire
tutte le loro malefatte, come questo di Petacco che sto
finendo, perché ho scoperto anch’io tante cose che non
sapevo, perciò chi non ha vissuto quegli anni è ancora
più importante che legga questi libri.
Io poi fino alla quarta ho fatto le scuole a Mansuè,
che avevano due sedi, una classe dalla chiesa e tre dal
Municipio, mentre la quinta bisognava andare a farla
a Oderzo. Però… ai tempi nostri a tredici quattordici

498
anni andavo a segare nei Prà dei Gai alle due di
mattina, ed eravamo tutti contenti perché non c’era
niente, eravamo tutti poveri uguali, non c’era neanche
da comperarsi un paio di zoccoli, che ci mettevamo sotto
qualcosa perché non si frugassero. Il sabato fascista
tutti i sabati, altrimenti se mancavi in prigione a
Treviso; si cantava “Fuoco di Vesta” in continuo e si
marciava fino a Portobuffolè, sei chilometri…
E il due febbraio del 1942, ad appena diciannove anni,
sono partito sotto naja!>>.

Corsica

<<Sono andato a Roma dove mi hanno messo nei


granatieri; in realtà sarei stato artiglieria alpina
a Osoppo, nella Divisione Julia, ma dopo mi hanno
cambiato ed è stata la mia fortuna, altrimenti ci avrei
lasciato la pelle in Russia, come tanti; poveri ragazzi,
li hanno mandati al massacro! Del nostro paese,
Mansuè, Portobuffolè, tutti sono rimasti là!
A Roma invece stavamo in caserma, tutte le mattine
a marciare e poi siamo passati all’isola d’Elba, Porto
Ferraio, per quattro mesi, da maggio fino al giorno
di San Martino, poi in Corsica. La Corsica era già
occupata, abbiamo raggiunto i nostri e le truppe
tedesche di occupazione, con cui abbiamo convissuto
sino all’otto settembre, quando Badoglio ha firmato la
resa, ma noi prima che i Tedeschi si organizzassero ci
siamo messi con i partigiani corsi e abbiamo cacciato
i Tedeschi dall’isola, li abbiamo sconfitti. Aulele,

499
Serra di Scopamene, Ajaccio, me li ricordo tutti quei
paesi là, venti giorni di combattimenti per mandare
via i Tedeschi dall’isola, noi e i partigiani li abbiamo
costretti a ritirarsi tutti. Da là, sconfitti i Tedeschi, ci
siamo imbarcati su una nave italiana però portati dagli
Americani e siamo sbarcati a Iglesias, in Sardegna,
dove siamo rimasti nove mesi in caserma. Là è stata
dura, tutti pativano la fame, io sono arrivato a pesare
quarantasette chili, se ti mettevi vicino a una stufa per
non sentire il freddo eri morto, perché la stufa asciuga
il sangue; il Capitano diceva sempre:
“Ragazzi non mettetevi vicino alla stufa!” ma quello
che era malato non era capace di star senza, si
metteva lì e dopo poco addio e come vivevi? Venti anni
avevamo, durare un giorno con duecento grammi di
pane e cinquanta grammi di sardine sotto sale, come
fai a vivere? Poi in caserma non c’era niente, si usciva
ogni tanto, ma non avevamo più neanche le scarpe, ci
toccava andare in giro scalzi e si usciva solo per andare
a raccogliere un po’ d’erba o di spagna, perché eravamo
in collina e sai che in Sardegna le colline sono rocciose,
perché il clima è più caldo, insomma si usciva solo per
andare in cerca di qualsiasi tipo di erba potessimo
cucinare per riuscire a sopravvivere.
Per quello eravamo anche liberi, non si può dire
che eravamo prigionieri degli Americani perché ci
lasciavano lì in pace, solo che poi sono venuti a chiederci
di combattere con loro, anzi erano stati i nostri ufficiali
a venirci a dire che gli Americani ci offrivano di
andare volontari, ma in un primo momento abbiamo
detto di no, solo che poi abbiamo accettato perché noi
si moriva proprio di fame, e così abbiamo preferito

500
tornare su combattendo con loro e morire prendendoci
una pallottola piuttosto che stare là a morir di fame.
Siamo sbarcati a Napoli, Afragola, dove ho fatto
sessanta giorni di ospedale! Ospedale… erano delle
baracche, ma comunque ero a Maddaloni in ospedale a
causa di una broncopolmonite doppia. Ma la cosa più
tremenda per noi è stato vedere le armi che avevano:
ci hanno armato come loro, con il mitra Thompson,
pieni di cartucce, mentre noi avevamo le armi che si
inceppavano di continuo, e poi i nostri comandanti
avevano la mania di farci smontare le mitraglie per
vedere quanto ci mettevamo, ma butta qua e butta là i
pezzi dopo si ammaccavano e quando dovevi sparare
non sparavano più! E volevamo vincere la guerra
contro di loro? Siamo arrivati in Sardegna, avevamo i
pantaloni tutti sbregati, senza scarpe, perché le nostre
scarpe erano un pezzo di tavola legata con il ferro a
fare una ciabatta; insomma mi ricordo eravamo sulla
banchina aspettando di montare sulla nave, ero là
che guardavo una macchina che correva, correva…
zumm… dentro sul mare! Era una di quelle macchine
anfibie, noi ci siamo rimasti perché non le avevamo mai
viste, e ci siamo detti: “Ma come? L’Italia vol vinzer a
guera contro l’America?”
Poverina l’Italia! Gli Americani si mettevano a ridere
a vedere come eravamo presi! Si andava a raccogliere
i mozziconi di sigaretta da per terra per fumare e
riempirci lo stomaco, perché eravamo alla fame più
completa. Vederci in quelle condizioni avrei riso
anch’io se ero al posto loro, ma erano buona gente,
ci hanno trattato bene. Ci hanno portato sul fronte
del Senio, vicino a Forlì, la patria del Duce; la mia

501
paura più grande era di morire a pochi passi da casa.
Ho combattuto dal dicembre del 1944 all’offensiva
dell’aprile del 1945, solo che gli Americani ci davano
da bere e da mangiare che metà bastava, e tanti sono
morti perché hanno esagerato, perché ormai dopo anni
che non si mangiava niente lo stomaco si era ristretto,
e il Capitano diceva sempre: “Ragazzi mangiate ma
con calma!” e chi si teneva dopo tre anni che facevi
la fame? C’era quello che aveva il fisico per farcela,
chi invece no ed ha mangiato troppo ed è morto di
indigestione! Bisogna provarlo per capire, perché
sembra una barzelletta ma invece!

Tornando su la gente ci accoglieva con le feste, ragazze


e donne che venivano fuori in strada ad abbracciarci,
fuochi di artificio, tante grazie e feste; erano contenti

502
di vedere che gli Italiani erano assieme agli Alleati,
perché la gente non ne poteva più di Mussolini e dei
fascisti, ma erano così distrutti e affamati che non
avevano più la forza di reagire, per loro vederci assieme
agli Americani è voluto dire rinascere.
Sono tornato su con gli Americani e ad agosto ero a casa,
perché ho avuto il congedo prima degli altri in quanto
figlio unico e con il papà mutilato di guerra, perché era
stato ferito durante la Grande Guerra. Il paese era molto
povero, tutto il contrario di oggi, che si è ingrandito
molto! Ma essendo che sono tornato a piedi da Verona
con mezzi di fortuna, ho visto che fame e miseria erano
tanto uguale dappertutto, a dire la verità sarebbe
un’esperienza che rifarei anche… sapendo di portare
a casa la pelle! Altrimenti no eh! Se mi penso: c’era un
certo Sentimenti, che stavo osservando con lui dov’era
il nemico, e lui aveva la famiglia là poco distante, a
duecento metri; avevamo i tiri da fare verso casa sua,
perché c’erano i Tedeschi, e lui due giorni dopo è saltato
su una mina! È dura a duecento metri da casa morire!
Io sono stato malissimo, anche perché tra di noi c’era
grande accordo ormai, avevamo passato insieme tante
tragedie, tanta fame, non avevamo niente, quindi ci
facevamo forza l’uno con l’altro e sapevamo che ognuno
di noi poteva contare sugli altri. Gli ufficiali invece
erano buoni ma c’erano anche i fascistoni, che non si
sono mossi da Roma per paura di fare una brutta fine!
Quella volta che c’è stato l’affondamento del Crispi, la
nave che portava i nostri in Corsica il 19 aprile, c’era
il Maggiore Gatto a bordo, che comandava il nostro
reggimento: “Salvami che quando siamo salvi ci penso
io a te!” ha fatto il Maggiore a un ragazzo, perché lui

503
non sapeva nuotare. Allora questo povero Cristo lo ha
preso e lo ha portato a riva rischiando di morire anche
lui, come è arrivato ad Ajaccio, il Maggiore gli ha dato
dodici giorni di prigione, puoi immaginarti che razza
di bestia che era!
E dopo trentasei mesi di guerra sono tornato a casa e
mi è anche toccato pagare quattromila lire di debito al
Governo; perché mio povero papà, durante il periodo
che io risultavo disperso ha sempre percepito il mio
stipendio, ma siccome ero disperso non gli toccava più
e invece gli è arrivato lo stesso. Io quando sono venuto
casa non volevo pagare, ma mi hanno detto che se mi
rifiutavo dovevo pagare il doppio! E allora ho dovuto
pagarle! E intanto c’era stato chi era andato per le
case a rubare e ha avuto i premi perché si è messo in
politica! Io non voglio discutere queste cose, però il
Governo italiano ai prigionieri di guerra non ha dato
un soldo e perché? La guerra l’abbiamo fatta anche
noi, la fame l’abbiamo patita anche noi, valiamo meno
degli altri? Io so che tornato a casa mi è toccata così, ho
dovuto accettare e riprendere a lavorare da mezzadro
sino al 1972, ma non sempre sotto Ongaro, perché nel
1947 ci siamo sposati e Adelia è venuta a stare da noi,
che ha conosciuto anche lei Ongaro, e dopo Ongaro nel
1957 ha venduto a un gelataio, un certo Panciera che
lavorava in Germania e che veniva dal Friuli, da Forno
di Zoldo. Lui era un buon padrone, io gli ho fatto porte e
balconi alla loro casa, il legno lo mettevano loro, ma la
casa gliel’ho messa a posto io per niente, anche perché
funzionava così sotto padrone, ma lui ci voleva bene.
Poi siamo andati a stare quattro anni a Visnà e poi
qua a Cimadolmo, dove abbiamo trovato gente buona

504
e brava, e qui alla Tiesse ho lavorato per dieci anni
finché non sono andato in pensione, anche se Adelia ha
ancora Mansuè nel cuore!>>
<<Ah… io a Mansuè tornerei subito domani mattina!
Eppure a me non pare ancora vero di aver vissuto
tutti questi anni, perché è cambiato tutto in maniera
impressionante da allora a oggi! Una volta si era più
contenti e senza pensieri, tutti avevano poco o niente,
adesso si uccide la gente come fossero animali da
allevamento, anzi peggio!>>
<<Troppi soldi, troppi soldi, troppi soldi hanno portato
a questo livello, prima non avevamo niente e si potevano
lasciare porte e finestre aperte, la trasformazione
più grande è stata proprio questa, la ricchezza che è
arrivata qui tutta su un colpo ha causato una caccia
al denaro impressionante, se continua così c’è da avere
molta paura, perché con la crisi che c’è adesso, la
gente senza lavoro aumenta, e se uno ha una famiglia
la deve sfamare e come fa uno a mangiare se non ha
lavoro?>>.
Bhè, non ci vuole molto a concludere questo pensiero,
che peraltro condivido pienamente.
Io sono convinto che gli anziani possano darci ancora
moltissimo, anche se per molti, sono solo gli ultimi
reduci di un mondo che non c’è più… ma quando gli
ultimi se ne saranno andati e ci saremo dimenticati di
loro, che ne sarà della nostra storia?

505
Alessandro Piccoli

Alessandro Piccoli, nativo di San Polo di Piave, Via


Risera per la precisione, venne al mondo il 17 novembre
1923. La famiglia era affittuaria dei Giol, i più grandi
possidenti terrieri dei dintorni, la cui villa famosa si
ammira ancor oggi. Abitavano in una grande casa
colonica tutti e quattro i rami della famiglia: il nonno
e i suoi tre fratelli.
Queste erano le classiche famiglie di una volta, che
adesso i sociologi chiamano “famiglie allargate”; quella
di Alessandro assommava più di trenta persone,
una grande famiglia di mezzadri che lavorava la
terra (tanto, tantissimo) e mangiava di magro (poco,
molto poco), perché miseria ce n’era per tutti, specie
per chi lavorava la terra degli altri in cambio di una

506
percentuale. Alessandro di lavoro ne ha passato molto
e purtroppo ne è stato fortemente segnato nel fisico,
ha avuto diversi “datori di lavoro” diremmo oggi, ma
nonostante tutte le difficoltà e le traversie è riuscito a
costruire una casa fra mille sacrifici e crescere tre figlie
e un figlio, grazie allo straordinario supporto della
moglie Vittoria Zanardo, una signora forte e piena di
vita che ancor oggi si rimbocca le maniche e si rende
utile nei confronti di coloro che sono in difficoltà, come
fece il fratello, quando abbandonò di corsa il lavoro
nei campi per correre a donare il sangue a mio fratello
essendo uno dei pochi donatori compatibili in paese.
Ecco, mi piaceva ricordarlo questo, perché credo sia
importante capire quanto siamo fortunati di poter
ancora parlare con queste persone, che nonostante
abbiano attraversato grandi sofferenze e abbiano
raggiunto la loro età, si mettono in prima fila per
dare una mano a chi ha bisogno… e coi tempi duri che
corrono è una bella lezione.

La dura vita del mezzadro

<<Noi non siamo mai rimasti fissi su un posto a vivere,


abbiamo sempre girato tanto. Sono nato a San Polo,
ma lì ci sono rimasto solo sino alla seconda elementare,
perché ricordo bene di aver fatto là le prime due classi
e le altre due a San Michele di Piave, dove siamo
arrivati nel 1931, se non erro. Siamo venuti a stare
nella casa grande davanti alla chiesa del paese, dove
adesso abitano i Giacomazzi, sempre come affittuari,

507
però stavolta di una signora di San Michele, la signora
Pagotto, che era una zia di mia moglie, ma noi ancora
non ci conoscevamo. La casa non era nostra comunque,
e dopo poco abbiamo cambiato un’altra volta, siamo
andati a stare in una vecchia casa, che oggi cade a
pezzi perché è disabitata, ma ci stavamo noi una
volta; si trova dietro al centro di raccolta dei rifiuti,
quello vicino al cimitero, e sta proprio sul confine con
Spinazzè. Poi ultimamente, ma non so dire di preciso
quanto tempo fa, lì fu fatto anche un deposito per i
maiali, ma è tanto che è disabitata comunque.
Poi ci siamo spostati di nuovo e quindi abbiamo
anche cambiato padrone, siamo passati sotto un’altra
signora, ma per pochissimo tempo. Era successo che
mio papà era emigrato in Sardegna nel 1939 per
andare a lavorare in miniera, che è un lavoro molto
duro e pesante, e quindi noi ci siamo trasferiti vicino
alla piazza di San Michele, nella casa dove oggi sta
Pietro Palladin e che si trova di fronte a quello che ai
tempi nostri era l’asilo del paese. Ora lì ci abitano delle
famiglie, ma quando io ero adolescente era l’asilo. La
nostra nuova padrona era una signora di Cimadolmo,
che dopo poco tempo è andata ad abitare in Francia, così
noi abbiamo dovuto cambiare un’altra volta e ci siamo
trasferiti nel Borgo di Sopra, che oggi viene chiamato
Via Prese; uno o due anni dopo, non ricordo di preciso
se era il 1941 o 1942, ma comunque l’importante è che
a quel tempo siamo passati sotto i Buosi, e stavamo su
una casa che anche se è vecchia è in piedi ancora oggi,
una bella casa colonica che era ed è ancora proprietà
dei Buosi. E lì in Via Prese, avevo la mia futura moglie
come Vittoria come confinante, perché io stavo di qua

508
dell’argine e lei di là, nelle Grave.
Poi il 10 gennaio 1943 sono partito per la guerra, che
è stata un’esperienza molto dura e faticosa, siamo
tornati a casa tutti molto segnati, ma bisogna sempre
pensare che per ogni persona che è tornata tre ne sono
rimaste via; la guerra non risparmia nessuno! Ad
Alessandria, centro di reclutamento a cui sono stato
destinato, mi hanno inserito nel 37° Reggimento
fanteria e il 20 maggio dello stesso anno, dopo un
poco di addestramento, sono partito per la Sardegna
assieme al 139° Reggimento Divisione Bari, e lì sono
rimasto sino al luglio del 1944, soffrendo la fame, senza
scarpe, con gli zoccoli in legno! Oggi se io racconto come
eravamo vestiti e armati, prima mi viene da ridere
perché l’ho scampata, se poi penso agli altri ragazzi;
eravamo ragazzini, poco più che ragazzini!
Quando è venuto l’otto settembre a noi non è successo
nulla, credevamo tutti di poter tornare a casa e che la
guerra fosse finita, anche perché i Tedeschi, che erano
accampati a poca distanza da noi, avevano lasciato in
fretta e furia l’isola, perciò non siamo stati attaccati
da loro. Siamo rimasti sotto le tende senza ordini per
giorni, pieni di pidocchi e con niente da mangiare…
poi sono arrivati gli Americani, che ci hanno fatto la
proposta di tornar su e combattere per loro. Allora ci
siamo imbarcati per Napoli, lì ci hanno vestito e armato
come loro e poi siamo partiti per Monte Cassino, dove
sono rimasto per quaranta giorni, poi sono tornato a
Napoli, dove mi era stato affidato il compito di fare la
scorta ai camion di viveri e di vestiario che arrivavano
dagli U.S.A. e venivano portati alle popolazioni
devastate dal conflitto. In seguito, dopo aver usufruito

509
di quindici giorni di licenza, mi hanno mandato in un
paese tra Pisa e Livorno, mi pare si chiamasse Coltano,
a fare la guardia a un campo di concentramento per
quattro mesi, finché questo non è stato svuotato e i
prigionieri destinati ad altre parti. Infine, siccome ero
Caporale Maggiore, nell’ultimo periodo del servizio
militare, sono stato assegnato come istruttore al 7°
C. A. R., Centro Addestramento Reclute, dove sono
rimasto per i primi cinque mesi successivi alla guerra,
che per noi soldati in realtà è terminata dopo che si è
arreso anche il Giappone, cioè nel settembre del 1945,
dopodichè ho dovuto fare altri quattro mesi si servizio
ad Arezzo prima di ricevere finalmente il congedo nel
1946, il 19 agosto del 1946>>.
<<Vivere qua in tempo di guerra era dura però –
interviene Vittoria – sono stati fatti tanti rastrellamenti,
non potevi uscire di casa dopo una certa ora, c’era molta
violenza da parte dei fascisti perché si sentivano come
traditi, ogni pretesto era buono per alzare le mani,
c’era un clima molto difficile da vivere!>>
<<Comunque siamo riusciti a continuare la nostra
vita: io nel 1948 ho cominciato a lavorare come
stagionale in Svizzera; l’ho fatto per tre anni circa,
fino al 1951. Partivo in febbraio e tornavo in ottobre,
lavoravo in una casa a spaccar rocce per una fornace
di calce, un lavoro duro, faticoso, che ti rovinava tutte
le mani. Poi sono tornato a casa e ci siamo sposati,
quando ancora stavamo dai Buosi, perché nel 1959
abbiamo cambiato padrone per l’ultima volta, siamo
passati sotto Sanson Ferdinando, una brava persona.
Quando lavoravamo per lui stavamo sulla casa posta
sulla curva prima di arrivare in piazza, oggi è un

510
condominio. Abbiamo abitato là fino al 1990, anno
in cui ho subito un’operazione che mi ha costretto a
lasciare il lavoro e l’anno dopo siamo venuti a stare
qua, che allora era una casetta cadente, noi l’abbiamo
comperata e praticamente ricostruita, messa a posto
da cima a piedi grazie ai soldi della liquidazione della
Svizzera.
Padroni ne abbiamo passati tanti, ma devo dire che
ne abbiamo sempre avuti di buoni, ragionevoli, che ci
trattavano bene. Solo con l’ultimo ci siamo trovati in
difficoltà, perché lui era buono, ma è morto giovane
e la sua signora non si comportava come lui. Io sono
stato male e non potevo lavorare, a casa ero rimasto
solo con il figlio perché le ragazze erano già sposate,
e a lavorare la terra erano in due, lui e Vittoria, ed
era molto faticoso per loro due da soli, anche perché
Vittoria era preoccupata per la mia salute, cercava
di restarmi vicino più che poteva e così la padrona la
accusava di non lavorare. Noi abbiamo cercato di fare
quello che potevamo, Vittoria ha sopportato tanto, ma
alla fine ci ha mandato via di casa lasciandoci senza
niente, neppure la casa alla quale avevamo diritto
perchè erano passati i quarant’anni di mezzadria, che
era il minimo per poter vantare questi diritti.
Abbiamo provato a protestare ma non è servito,
avevamo qualche cosa da parte e siamo venuti a stare
qua, che come ti ho detto è come se avessimo costruita
noi questa casa, perché l’abbiamo presa che cadeva a
pezzi.>>
<<E’ andata così purtroppo – conclude Vittoria – ma la
cosa più sconvolgente per noi è vedere quanto in fretta
è cambiato il paese. Una volta era magra per tutti, ma

511
da quel punto di vista si era tutti eguali: perché anche
nel 1944, quando qua c’erano sempre fuori Tedeschi
e fascisti, non dico fosse come durante la Grande
Guerra, ma se qualcuno legge il libro che ha scritto il
Monsignor Chimenton su San Michele e ha vissuto la
Seconda Guerra Mondiale, può dirti tranquillamente
che se non era uguale era simile, eppure guarda: in
confronto ad adesso viene da dire che si stava meglio
quando si stava peggio, perché eravamo poveri ma
tranquilli e felici, nessuno entrava in casa a farti del
male e potevi lasciare le porte aperte. Adesso invece
non aspettano altro!>>

512
Francesco Zecchin

La dura vita degli anni Trenta e Quaranta

<<Io mi chiamo Francesco Zecchin, nato a Ormelle


il 27 ottobre 1924. Fui il primo di dieci fratelli, tre
maschi e sette femmine, abitavamo su questa casa qua
anche allora. La vita era molto dura a quel tempo,
inoltre mio papà durante la Grande Guerra è stato
fatto prigioniero in Libia, ed è tornato a casa dopo sette
anni, perciò aveva sofferto molto per le privazioni della
prigione e aveva bisogno di molto aiuto.
Una volta poi le famiglie erano molto numerose perché
la risorsa maggiore era la terra, dovrebbe essere così
anche oggi però secondo me, perché è la terra che ci

513
permette di bere e mangiare, inoltre fa parte della
nostra tradizione, i nostri avi erano tutti contadini e
hanno fatto molti sacrifici per dare ai discendenti il
benessere di oggi. Ai miei tempi infatti non c’era tutto
quello che oggi potete avere voi giovani; tanto per fare
un esempio noi da bambini venivamo vestiti coi sacchi
del semolino, le bambole delle bambine erano fatte dai
genitori con i cartocci delle pannocchie, non esistevano
i materassi, si dormiva sopra le scorze più molli delle
pannocchie, quelle attaccate ai grani, che erano più
morbide. Però eravamo tutti nella stessa situazione e
nessuno si lamentava, anzi si era contenti del poco che
si aveva. Il cibo era scarso, soprattutto per noi piccoli:
la carne si mangiava a festa, ma noi non la vedevamo,
toccava agli adulti che dovevano lavorare, a noi piccoli
restava il sugo dove ci inzuppavamo un po’ di pane,
oppure il sugo della verdura, perché a quei tempi non
si condiva con l’olio perché non c’era, tutto era condito
con il grasso del maiale, l’unico animale di cui non
si butta via niente, di lui si mangia tutto. Inoltre
erano anni duri per causa del fascismo, che faceva
le requisizioni degli alimentari se producevi troppo,
noi dovevamo nascondere in soffitta le pannocchie
altrimenti le portavano via, dovevi andare a comprare
la roba con una tessera e sono andati per le case a
requisire tutto l’oro, anche le fedi nuziali, se qualcuno
portava una collanina o un braccialetto d’oro era
punito e gli veniva presa la roba. Nel 1932 mi ricordo
che ero un Balilla, dovevamo vestirci con un cappellino
nero con il fiocco rosso e la blusa nera, poi quando
nel 1938 ho finito la quinta hanno chiamato la mia
classe a fare il sabato fascista, che consisteva in una

514
serie di esercizi di ginnastica, nell’uso delle armi, nelle
marce, nel salto della muretta del cimitero. A istruirci
era il maestro Bertoni da Ormelle, e ricordo bene che
all’epoca dovevi essere fascista anche se non volevi, non
potevi esprimere la tua opinione, se non ti dichiaravi
fascista ti davano da bere un bicchiere di olio di ricino,
tante volte davano anche le botte.
La crisi più grande è arrivata con l’inizio della guerra,
e nel 1941 io e Cella da Roncadelle, che facevamo i
falegnami assieme, io ero apprendista da lui, abbiamo
preso e siamo andati in Istria e ad Abbona, in
Jugoslavia. Le cose però non andarono meglio, perché
ci avevano chiamato per costruire una stalla a una
famiglia di contadini con altri cinque colleghi, ma
anche là si mangiava con la tessera, e dopo qualche
mese la donna dove mi recavo a prendere il pane e a
fare la spesa dice a me e agli altri: “Mi dispiace dirtelo,
ma scappa! Scappa perché ho sentito che i giovani
Italiani vengono presi e spariscono non so dove…”
A quel tempo non immaginavo cosa stava succedendo,
poi dopo che è finita la guerra è venuto fuori il dramma
delle foibe. Noi siamo scappati perché ci fidavamo di
lei e le abbiamo creduto, siamo stati fortunati, forse
se decidevamo di restare lì saremmo finiti anche
noi là sotto, non lo so. Quando sono tornato a casa,
il 20 giugno del 1943 mi è arrivata la cartolina che
mi chiamava alle armi. Sono stato mandato a Roma
nella caserma di Monte Mario, sistemati in camere
che avevano dei letti a castello pieni di cimici, senza
lenzuola; usavo l’asciugamano che mi aveva dato mia
mamma per lenzuolo, ma non sono neanche riuscito a
portarlo a casa! Ti svegliavi la mattina con la faccia

515
rossa, poi li abbiamo anche bruciati quei materassi
là, erano pieni di tutto! Lì a Monte Mario hanno
cominciato a farci qualche istruzione militare, come
si adoperano le armi, facevamo i tiri al poligono, non
mancavano i bombardamenti ovviamente; ogni notte
eravamo costretti ad andare nei rifugi.
Poi il sette settembre arriva l’ordine di prepararsi a
partire per la Sicilia, dove erano sbarcati gli Alleati.
La notte dopo è stata la disfatta, eravamo tutti allo
sbando, cercavamo di scappare per non farci prendere
dai Tedeschi o dai fascisti, poi abbiamo cominciato a
scappare in gruppetti, e io mi sono ritrovato da solo
con uno di Maserada. In treno, a piedi, ma soprattutto
grazie all’aiuto della gente, dopo nove giorni siamo
riusciti a tornare a casa, e ormai nessuno pensava più
che io tornassi! Subito il giorno dopo però è cominciata
la grande paura per i fascisti e soprattutto per gli
spioni, perché c’era della gente che per ingraziarsi
i Tedeschi e i fascisti poteva denunciarti come
collaboratore dei partigiani anche se non era vero. Più
volte mi sono dovuto rifugiare nel bosco qui vicino, non
da solo, eravamo in diversi nella stessa situazione,
delle notti ci si ritrovava anche in una quindicina.
Passavamo lì le notti, all’interno delle buche scavate
dalle bombe durante la Grande Guerra. Poi un giorno,
disgraziatamente, mi hanno preso assieme a mio
cugino e altri ragazzi, mentre ero nascosto in mezzo
al campo di mais. Ci hanno portati tutti in prigione
a San Polo, chiusi in undici all’interno di una stanza
di tre metri per quattro, dormivamo in piedi tanto era
stretta. Ricordo che era il 14 dicembre; siamo rimasti
in attesa per giorni, poi la vigilia di Natale, grazie alle

516
buone parole del parroco di Ormelle, hanno rilasciato
me e mio fratello, gli altri sono rimasti dentro e non so
cosa è successo loro.
Nel 1944 i Tedeschi hanno aperto i lavori di
sbarramento sulla Piave, il taglio degli argini e la
costruzione di trincee e camminamenti; ogni famiglia
era obbligata a mandare un operaio. Per la mia
famiglia sono andato io che ero il fratello maggiore,
e il periodo successivo è stato più tranquillo, perché
si lavorava poco in realtà, c’erano donne e ragazzi di
ogni età sorvegliati da un vecchio Tedesco con un fucile
sempre in spalla; ogni tanto ci guardava lavorare e ci
sorrideva se vedeva che non stavamo lavorando. Come
paga prendevamo cinquanta lire al mese, tutte nuove
di zecca, fresche di stampa. Mi ricordo anche che dopo
il bombardamento di Treviso siamo dovuti andare per
due giorni a tirar fuori i morti dalle macerie presso
la zona della stazione, si partiva la mattina presto in
bicicletta e si tornava la sera. Anche qua a Ormelle
hanno bombardato, perché la notte non si potevano
accendere luci altrimenti facevano cadere gli spezzoni
antiuomo, e la notte che hanno bombardato il cimitero
perché avevano visto la scintilla di uno che si era
acceso una sigaretta, io tornavo a casa dal bar e prima
ho sentito una mitragliata e mi sono buttato nel fosso
per ripararmi, poi il botto; ci toccava tappare tutte le
fessure perché non scampasse fuori la luce, altrimenti
come vedevano un filo giù le bombe!
Così siamo arrivati alla Liberazione del 25 aprile 1945,
e quel giorno lì ha scatenato gli episodi peggiori, perché
tanti hanno cominciato a farsi vendetta da soli.
Finita la guerra c’erano tanti contrasti, chi era fascista

517
o comunista oppure democristiano, chi era monarchico
oppure repubblicano, insomma non eravamo più un
paese unito; ci sono stati parecchi morti e disordini,
ma non solo qua, in tutta Italia si è verificata questa
situazione. Subito finita la guerra infatti c’è stata
diversa gente che ne ha approfittato per saccheggiare,
svaligiare magazzini di scarpe, vestiti, ecc. qui vicino
per esempio i partigiani avevano un deposito di scarpe
e vestiario, tutta roba rubata ai fascisti. Noi non siamo
mai andati a prendere niente lì, tanta gente andava ma
noi no, perché potevano accusarci di aver collaborato
coi fascisti solo perché avevamo lavorato per i Tedeschi,
invece noi cercavamo solo di vivere e portare a casa di
che sfamarci, solo che purtroppo in quel momento era
un tutti contro tutti.
Poi io e altri ragazzi siamo anche stati presi dai
partigiani, perché avevano bisogno di gente che li
aiutasse a svaligiare i depositi di Giol. Io dico così,
perché sono stato obbligato ad accompagnarli, ma poi
una volta arrivati là mi sono rifiutato di partecipare al
saccheggio, perché loro la chiamavano requisizione, per
me invece era rubare, per conto mio non erano cose da
fare, anche se loro parlavano tanto della lotta di classe,
a mio modo di vedere c’era chi ci credeva veramente e
chi invece voleva solo approfittare, come succede per
tante cose purtroppo e da là sono nati i contrasti del
dopo guerra, democristiani contro comunisti, gli uni
sabotavano i comizi degli altri, poi però si arrivava
anche al compromesso, e quella è una differenza rispetto
a oggi, perché ricordo che alla Casa del Popolo, che
oggi è chiamata “Sala Bachelet”, andavamo a ballare
e al cinema e c’erano i comizi; allora al comizio ci si

518
urlava gli uni contro gli altri, ma quando era finito
si andava a bere qualcosa assieme, il confronto era in
politica non nella vita, nella vita si andava d’accordo,
non come adesso che i politici sembra che si odiano!
Io il 2 giugno del 1945 sono stato richiamato in servizio
e ho potuto vederne ancora di scontri del genere: ho
fatto il C.A.R. a Modena, sono passato Caporale e dopo
tre mesi mi hanno trasferito a Firenze come istruttore
delle nuove reclute e quindi mi hanno nominato
Caporale Maggiore.
Poi è venuto il referendum per decidere se volevamo
la monarchia o la repubblica. È stato un referendum
molto combattuto e sofferto, io ero ai seggi elettorali
a Sassuolo assieme ad altri due Veneti e ricordo che
la tensione era altissima, la gente non voleva neppure
che si andasse a votare perché eravamo di guardia noi,
perché dicevano che siccome il Veneto era fedele alla
monarchia eravamo monarchici anche noi e avremmo
costretto la gente a votare per il Re. Noi invece non
avevamo fatto nulla di tutto questo, dovevamo solo
sorvegliare che non vi fossero incidenti, ma tanto
per farti capire quanto la tensione era alta, quando
si è saputo che la repubblica aveva vinto, uno degli
scrutatori, che era un monarca, si è sparato in testa in
mezzo alla folla che festeggiava.
Erano tempi veramente tesi quelli, ma molto molto
tesi! Io avevo intenzione di fare carriera nell’esercito,
ma come dicevo all’inizio ero il primo di dieci fratelli,
con un padre che stava poco bene, e alla fine mi è
toccato rientrare a casa, con grande dispiacere mio ma
soprattutto del Tenente, che mi aveva detto che avrei
fatto strada perché avevo la stoffa giusta>>.

519
Rientrato a casa anche Francesco si è trovato a dover
fare i conti con la più grande ferita lasciata dalla
guerra: la mancanza di lavoro.

All’estero

<<Nel 1948 ho provato ad andare a lavorare in Belgio


in miniera, ma sono scappato a casa subito, troppo
pericolo. Poi è arrivata una richiesta dalla Francia che
cercavano falegnami, e così visto che era il mio mestiere
sono andato via con altri due ragazzi e la legge era che
dovevamo firmare un contratto annuale e che dopo,
una volta che questo fosse scaduto, potevi andare dove
volevi. E io là in Francia ho fatto sedici anni alla fine,
perché dopo questo primo anno ho cercato un altro
posto, sempre come falegname, ma non operaio bensì
caposquadra e mi sono guadagnato da vivere bene,
sebbene che noi Italiani fossimo considerati come noi
consideriamo gli stranieri oggi. Tutta la mia famiglia
però si è dovuta muovere per cercare lavoro, perché qua
non c’era nulla, lì in Francia invece c’era molto lavoro
e pagavano bene, tanto che potevo tornare in Italia, in
villeggiatura diciamo così, una volta l’anno e nel 1958
sono tornato con l’auto, che qui in paese non ce l’aveva
ancora nessuno tanta povertà e crisi che avevamo noi
Italiani! All’inizio mandavo a casa tanti soldi perché
c’era un bisogno disperato, l’inflazione da noi era
andata alle stelle e i prezzi erano altissimi, ma poi
diventava pesante per me mandare tanto e tenere poco
per me, così ho parlato col datore di lavoro e ho ottenuto

520
che i miei due fratelli mi raggiungessero e venissero
anche loro a lavorare da falegname. In seguito sono
riuscito a portare in Francia anche mamma, papà e
le due sorelle più piccole, mentre le altre erano andate
tutte a servire in Svizzera.
Stavamo in Alsazia, a Meluse era il posto di lavoro,
mentre noi eravamo su una pensione a San Louis,
vicino a Basilea, sul confine con la Svizzera; è una
bella cittadina attraversata dal Reno. Si stava bene
in Francia, c’era molto lavoro perché i paesi erano
tutti distrutti dalla guerra e avevano bisogno di
essere ricostruiti, ed eravamo tantissimi Italiani ma
anche tanti immigrati da tutto il mondo, soprattutto
africani, perché i Francesi avevano molte colonie in
Africa. C’erano anche tanti furti però, e all’inizio la
gente aveva le nostre stesse paure, facevano fatica ad
accettare gli stranieri, poi però dopo hanno capito che
c’era sia chi si comportava bene che chi si comportava
male, ha cominciato a distinguere le due categorie e
a rispettarci, ma anche noi dovevamo rispettare loro,
come è ovvio che sia se si vuole vivere bene insieme.
Una volta che le persone avevano capito chi eri, che
avevi un lavoro ed eri onesto, venivi rispettato tutti,
anche perché la polizia sapeva tutto di te, cosa facevi,
dove vivevi, lo sapeva sin da quando scendevi dal
treno la prima volta. Eri controllato perché, per fare
un esempio, non potevi neanche girare senza soldi,
dovevi provare che avevi un lavoro e non andavi a
rubare; sembra una sciocchezza, ma girare senza soldi
voleva dire finire in galera, avevano leggi dure e severe
ma giuste, perché chi faceva il delinquente pagava
la sua colpa sino all’ultimo. Poi mio papà è venuto

521
a mancare, e mia mamma stava male, così nel 1967
siamo dovuti tornare a casa, in Italia, dove ci siamo
dovuti riprendere la casa, che nel frattempo era stata
affittata a una famiglia, dando una cospicua buona
uscita. Avevamo un po’ di terra e ho ricominciato a
lavorarla e adesso continuo a lavorare ancora, perché
mi sento bene quando sono fuori nel campo a potare,
faccio movimento, mi tengo allenato, voglio continuare
a farlo finché posso perché mi fa sentire bene, spero che
duri ancora un po’… >>.

La semplicità delle piccole cose! Forse noi oggi non


riusciamo a capire, e quindi non possiamo neppure
apprezzare, questo quasi ostinato attaccamento alla
terra, ma per queste persone essa è tutto. È tutto perché
ha dato loro di che vivere quando non avevano nulla:
frutti, spesso per la fame divorati anche quando erano
crudi, verdura, erbe; è tutto perché ha dato loro di che
nascondersi durante i rastrellamenti, le ispezioni dei
fascisti, i saccheggi dei Tedeschi; è tutto perché hanno
capito, e forse gli anziani sono stati gli unici in Italia a
rendersene conto, che quando il paese ha abbandonato
la terra ha dato inizio alla grande crisi di oggi.

522
Giuseppe Raggiotto

Il (non) combattente

Giuseppe mi ha accolto in casa sua assieme al figlio e


alla nipote con molta cortesia e affabilità, sapeva già per
cosa venivo e sembrava quasi dispiaciuto di deludermi,
o almeno credeva di deludermi. Sommessamente, con
grande umiltà mi spiega che lui di guerra in realtà
ne ha fatta poca, anzi nulla, perché non è mai partito
per il fronte. In realtà, in quei tempi oscuri, il fronte
era ovunque, come lo stesso Giuseppe mi ha più volte
ripetuto. Al di là del fatto che non importa quanta
guerra abbiamo fatto le persone, perché questo libro
vuole essere una raccolta soprattutto della vita dei

523
nostri avi, i giorni neri, di fame e miseria, li ha vissuti
anche Giuseppe, come tutti gli altri, anzi forse di più,
avendo avuto un padre emigrato in Argentina per
cercare il lavoro che qui mancava.

<<Sono nato qui a Roncadelle il 14 dicembre 1922, la


stessa classe di tuo zio Toni. Sono nato dove stanno oggi
i Narder, perché eravamo suoi affittuari; la vita era
misera, mio papà era partito per l’Argentina nel 1926
quando avevo sei anni, perché qui non c’era lavoro.
Eravamo rimasti mia mamma e cinque fratelli, anzi
sei, l’ultima doveva ancora nascere quando è partito
il papà.
Ho fatto le scuole a Roncadelle, che a quei tempi
quando sbagliavi qualcosa le maestre davano le
bacchettate sulle mani, e confusione era meglio se
non ne facevi proprio perché era peggio. Ricordo che
quando si andava a dottrina, che si andava a piedi
e con gli zoccoli, senza asfalto sulle strade e pieni di
freddo, scambiavo i frutti con gli altri per mangiare
qualcosa di diverso; cosa volevi mangiare a quei tempi
là, avevamo meno di niente?
Per Narder il papà coltivava a vigneto e a biada, ma
quando è andato via noi non avevamo l’età per lavorare,
vivevamo con i soldi che mandava dall’Argentina, dove
era andato a fare il muratore e stavamo nella casa
qua, che l’aveva costruita mia papà assieme al papà di
Giovanni Bottero: qua non c’era lavoro, facevi qualche
piacere alle famiglie dei contadini per prendere un
poco di cibo, come portare via una vacca per un pezzo
di polenta, solo ai capifamiglia davano il lavoro, come
è successo durante i lavori di costruzione degli argini

524
con Piccino Gaiotto.
Coi fascisti poi non era neanche male per me, perché
mi facevo i fatti miei e non ci siamo mai presi a botte,
ma da giovani noi dovevamo crescere in fretta, si
diventava uomini prima noi, eravamo più coraggiosi.
E poi c’era il sabato fascista da fare a Ormelle; io ero
giovane fascista, era obbligatorio e bisognava andare
a piedi, non c’erano neanche le biciclette a quei tempi!
Ti facevano marciare e saltare la mura del cimitero
di Ormelle, avevi solo un paio di scarpe e le rompevi
per fare il sabato fascista! Inoltre io non ho neanche
mai indossato la divisa da fascista, perché non avevo
i soldi per comprare il berretto con il fiocco nero; così
era, noi eravamo quelli che andavamo a mangiare
nelle famiglie, ti spiego: una volta qua in Italia
funzionava che alle feste, mandavano i bambini delle
famiglie povere a mangiare nelle famiglie benestanti,
perché avessimo almeno un pasto da mangiare a
Pasqua, Natale, ecc., ci sono andato più di una volta,
non dovevamo dare qualcosa in cambio, dicevano che
eravamo “sussidiati”, era una specie di carità. Ma sotto
naja non è che il cibo fosse migliore, brodino e gallette,
ogni tanto arrivavano i pacchi da casa che ora che
arrivavano avevano la muffa alta dieci centimetri!
Pian pianino io e i miei colleghi lo curavamo e lo
mangiavamo, soprattutto se era del pane, perché noi
non lo vedevamo neanche sotto militare.
Il 2 febbraio 1942 sono partito militare da Treviso con
la tradotta per Roma, ma io sono sceso a Bracciano,
per Roma ci sono solo passato, poi a Civitavecchia.
Sono partito borghese, poi a Treviso mi hanno detto
che ero nel 6° Alpini ma non ho mai ricevuto neanche

525
la divisa, come sono arrivato a Bracciano mi hanno
messo nell’82 fanteria; sono partito da Bracciano dopo
ventiquattr’ore con la croce sul berretto, che voleva dire
che ero stato ridestinato alla scuola centrale di fanteria
di Aurelia, fuori Civitavecchia… che ti toccava mettere
una stecca nella bustina perché i coni del berretto
stessero alti. Comunque solo all’inizio stavamo in
caserma, poi sempre in giro e dormire all’addiaccio
con le tende, per non rischiare di essere bombardati.
Dovevamo fare l’addestramento militare, sparare,
lanciare le bombe a mano, assaltare i carri armati,
immagina questo: ci istruivano che dovevamo aspettare
i carri armati in una fossetta, saltarci sopra quando
si avvicinavano per buttare dentro la bomba a mano:
figurati te se era possibile farlo davvero! Era scuola di
guerra, le tre armi erano mortaio, pistola 45 e fucile 91,
ma al fronte non sono mai stato, anche se il fronte in
realtà era ovunque, perché la guerra era ovunque. Ogni
giorno sceglievano i partenti nel nostro battaglione,
non so come avvenissero le scelte perché non hanno mai
scelto me, forse vedevano che ero troppo magro, non lo
so, penso che scegliessero anche a caso. Fortuna che a
me non è mai toccato, non mi hanno mai destinato ai
fronti stranieri. Con i civili non c’era nessun rapporto,
soprattutto erano vietati con le donne, anche se alcune
durante le pattuglie ci venivano vicino per chiedere un
soldo, perché pativano la fame… non si poteva uscire,
la disciplina era rigida. Si era di pattuglia nel paese
di Aurelia, che era sulla costa, ma cosa potevamo fare
se arrivavano le navi degli Alleati con le mitraglie
e le bombarde, con le armi che avevamo potevamo
solo scappare! In quindici contro le mitraglie delle

526
corazzate? Poi è arrivato l’otto settembre, che quando è
successo ero presso il campo di aviazione di Firenze; noi
ci avevano allertato per andare già contro i Tedeschi,
si capiva che qualcosa era nell’aria, poi il Comandante
è arrivato e ci fa: “Ragazzi si salvi chi può!”
Siamo scappati, che dovevamo fare? Chi non è scappato
è stato preso e portato in Germania. Io ho attraversato
a piedi questo campo, sono entrato in una casa dove ho
trovato chi mi ha aiutato dandomi dei vestiti borghesi
e sono partito con il treno fino a Bologna. Poco prima
di Bologna sono saltato dal treno e ho attraversato la
città a piedi, perché le città grandi erano controllate,
perquisivano i treni. Dopo Bologna sono risalito sul
treno per Mestre, perché i ferrovieri cercavano sempre
di aiutare gli sbandati, rallentavano prima delle città
per farci saltar giù, e dopo le città per farci salire. E
scappare senza scarpe, ci eravamo legati i piedi con le
fasce, perché non avevano neanche le calze, e braghe
corte sopra le ginocchia;a Mestre il treno si è fermato
perché era occupato dai Tedeschi, e sono montato su
un carro bestiame che andava a Treviso. Ce n’erano
tanti che scappavano, ma tutti senza divisa nessuno
più sapeva chi era civile o militare.
A Treviso trovo i Tedeschi sopra il cavalcavia della
stazione che facevano: “Komm, komm, komm!” cioè
“Vieni, vieni, vieni!”… te pol imaginarte! Sono risalito
sul treno e sono arrivato a Ponte di Piave, dove ho
trovato il Periot, Toni Periot che mi ha prestato la bici
perché era venuto via con due, una per Gino Zago, solo
che c’era un fascistone che voleva denunciarci, allora
Periot gli ha tirato in testa la bici e ce la siamo andata a
gambe. Arrivati a Negrisia incrocio mia sorella Maria

527
che mi stava venendo incontro con la bici, ma non mi
ha neanche riconosciuto, ho dovuto richiamarla perché
ero messo così male che non mi aveva riconosciuto, e
voleva perfino portarmi dalla morosa! Tornato a casa
venivano in cerca di te sia partigiani che Tedeschi che
fascisti, qua a casa mia, mia mamma aveva anche
nascosto un ragazzo napoletano che fuggiva dal fronte,
un bravo ragazzo che è rimasto qua a fare il calzolaio,
uno di prima categoria tanto era bravo, faceva le scarpe
per tutti, è tornato giù subito dopo la Liberazione.
Qua però non c’era lavoro, non mi volevano neanche
a fare i bunker nelle Grave perché non c’era il
capofamiglia a casa nostra, e poi c’erano i partigiani
che giravano e ci sono stati diversi morti, soprattutto
nella zona del Madorbo, che era la zona più povera
di tutte, perché il terreno è sassoso e duro, e la Piave
va dove vuole. No, comunque, io non ho avuto tanti
problemi durante gli ultimi due anni coi fascisti, a
parte quella volta che mi hanno tagliato la cravatta
con la baionetta una domenica, perché non volevano
che ci vestivamo bene. A no aspetta, prima ci avevano
portati tutti a Roncadelle, in piazza; eravamo in tanti,
c’era stato un grande rastrellamento e avevano fatto
una colonna per portarci via, c’eravamo anche io e i
miei fratelli.
Io però sono scappato, ho saltato la mura del cimitero e
mi sono nascosto nel campo di pannocchie, i miei fratelli
invece sono riusciti a prendere l’argine e rifugiarsi a
San Michele. E poi eri obbligato ad ascoltare la radio,
quello che diceva Mussolini, finché il discorso non era
finito non potevi andare via, dovevi stare là e aspettare
che fosse finito! >>.

528
Argentina e ritorno

<<Finita la guerra non c’era lavoro e nel 1948 sono


partito con mio fratello per l’Argentina, in un paesino
a venticinque chilometri da Buenos Aires. Poi l’anno
dopo ho mandato a casa i soldi per far fare il viaggio
a mia moglie ed è venuta a vivere con me là in
Argentina, mentre mio papà un pochi di anni dopo è
tornato a casa. Lì si viveva da signori, non mancava
niente, c’era molto lavoro, tanto da bere e mangiare,
abbiamo fatto su la casa tutti e tre i fratelli, qui in
Italia invece non c’era niente. In Argentina avevamo
il bagno in casa e tutti gli elettrodomestici, che qua
ancora non c’erano, è stato un colpo tornare indietro,
perché quando siamo tornati a casa nel 1959 abbiamo
trovato una povertà grande, anche se c’era più lavoro
di quando siamo partiti. Ma qui non c’era neanche il
bagno in casa, ed eravamo l’unica famiglia assieme al
prete ad avere la televisione, che invece in Argentina
ce l’avevano tanti e adesso la situazione si è come
ribaltata, perché qua c’è stata una crescita enorme in
pochissimo tempo. Abbiamo lavorato per il Cavalier
Orazio Cella, sempre come muratori, lo stesso lavoro
che facevamo in Argentina. E ultimamente è cambiato
ancora, perché si sta andando in peggio, anche come
lavoro, perché ce n’è meno, vedo che tanti, li mandano
a casa; chissà cosa succederà!>>.

Oggi fatichiamo molto a immaginare che solo pochi


pochi decenni fa eravamo noi l’Argentina; ecco
perché credo che le testimonianze di queste persone

529
possano veramente aiutarci a crescere e affrontare le
difficoltà del nostro presente: esse ci dicono da dove
siamo venuti, ci mettono in guardia sui rischi in cui
potremmo incorrere prendendo la strada sbagliata,
ci danno suggerimenti per il futuro! Se sappiamo da
dove veniamo, sapremo dove possiamo andare: ciò che
siamo, lo dobbiamo tutto a queste persone che hanno
lavorato come schiavi per costruire una famiglia
serena e per garantire loro un avvenire tranquillo, e
il modo migliore per ringraziarli di quanto ci hanno
dato, è rimboccarsi le maniche e lavorare con serietà,
come fecero loro prima del grande boom che cambiò
per sempre il nostro paese.

530
Francesco Moro

Credo che fosse dovuto il fatto che a concludere


questo libro vi sia la testimonianza del Presidente
dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci
della Sezione di Ormelle perché, come disse proprio
Francesco nel suo discorso del 9 novembre 2008, “il
fuoco della Grande Guerra non era ancora spento
quando nacque la nostra Associazione, perché la
grande gioia per la vittoria non fece dimenticare ai suoi
fondatori la desolazione delle vedove e degli orfani,
nonché il dolore di coloro che erano ancora vivi, ma
mutilati o invalidi”. Ma cosa ne sarà di tutto questo
quando l’ultimo reduce sarà defunto?
L’attività dell’Associazione Nazionale Combattenti
e Reduci, a molti sembra solo la cerimonia

531
dell’alzabandiera, il pranzo di soci, le corone di alloro
ai defunti e il panettone a Natale. Non è così: si
tratta di un gruppo di persone che hanno vissuto una
storia fatta di tragedie ed errori enormi, un gruppo di
persone che allora perdettero la loro gioventù, i loro
amici e le loro famiglie, tanti caddero, molti tornarono
mutilati o malati… persone che oggi sentono dentro di
loro il forte desiderio di incontrarsi per stare assieme
e ricordare quei momenti, non per gioco o sfizio, ma
per ragionare assieme su come trasmettere ai giovani
la memoria delle vittime e della follia della guerra,
fare storia, raccontare da testimoni viventi quello che
fu la guerra per la gente, far capire a ragazzi e ragazze
quanto si soffra e quanto si faccia del male.
Quando l’ultimo reduce non ci sarà più, dove finirà
tutto questo?

Agli esami di quinta in “baracchina”

<<Sono nato il 9 gennaio del 1920 a Ormelle, in


Via Gere. La vita a quel tempo era semplice, più che
vivere era tirare a campare, non c’erano giochi, dolci o
divertimenti, niente.
Ho fatto la prima classe nell’edificio dove adesso hanno
fatto una banca, poi ho fatto fino alla quarta, ma con
la stessa maestra e nella stessa classe ho fatto anche
la quinta; mi aveva messo in ultimo banco assieme
ad altri quattro, perché eravamo in cinque in tutto a
fare la quinta, quattro ragazzi e una ragazza. Lei ci ha
fatto il programma e siamo andati a fare gli esami a

532
Negrisia perché la quinta era a Ponte di Piave. Siamo
andati via in tre con un cavallino e una.. la chiamavano
“baracchina”, una specie di carretto con un sedile,
guidato da uno zio della ragazza; gli altri due ragazzi
invece sono andati via in bicicletta; mi ricordo che mi
hanno interrogato sulla geografia del fiume più grande
del mondo, e me la ricorderò per tutta la vita!
Fatta la quinta era da rispondere messa e lavorare
nei campi, anche se io poi sono diventato segretario
dell’Azione Cattolica, perché avevo passione e mi
piaceva anche molto studiare, così la maestra mi ha
detto che a casa sua c’era un reparto dove facevano una
specie di collegio. Lei era di Torino, mi ha chiesto se
volevo andarci e mi ha iscritto, ma sono stati dei vicini
ad aiutarmi, una signora mi ha pagato il corredo,
perché la mia famiglia non aveva la disponibilità.
Sono partito per il collegio di Cotolengo, dai Tommasini,
poi mi hanno dato i numeri da mettere sulla biancheria.
Era la “Piccola casa della divina provvidenza”, c’erano
vari reparti, anche uno per i portatori di handicap, che
venivano chiamati “i buoni figli”. Il nostro reparto era
condotto da dei chierici che ci facevano scuola per i
primi due anni di ginnasio, ma per avere il diploma
bisognava andare a fare gli esami negli istituti statali
della città. Lì comunque ho fatto un anno solo, per
cause di salute sono dovuto tornare a casa, dove c’era
sempre bisogno di lavorare, ma lavoro non ce n’era,
a parte il periodo delle vendemmie o della potatura
quando i contadini avevano bisogno, ma pagavano
con vino e polenta perché i soldi erano pochissimi
anche per loro. Per avere qualche soldino andavo in
canonica, dove c’era il cappellano che mi voleva bene e

533
mi faceva ricopiare gli spartiti musicali e i quadernetti
per la Scuola Chantorum, perché fotocopiatrici non ce
n’erano e i divertimenti dei bambini erano giocare per la
strada con le pietre o con le scatolette dei fulminanti.
Dopo quando è arrivata l’età dei diciotto anni, tutti
quelli che li avevano compiuti erano obbligati ad andare
a fare il sabato fascista, dove venivano inquadrati in
squadre e mandati a marciare per le vie del paese.
Io mi sono fatto escludere perché ho fatto domanda
di andare a Treviso per andare a fare la scuola pre
aeronautica, che una volta preso quel diploma avevo
la possibilità di chiedere l’ammissione alla Regia
Aeronautica in qualità di specialista. C’erano solo due
posti da scegliere: uno da motorista che lo ha preso
il mio amico Massimiliano Fantuzzi, che vive a La
Plata, in Argentina e uno da montatore che l’ho preso io
nonostante avessi più cognizioni di meccanica. Allora
mi sono fatto fare una dichiarazione da un falegname
e così risultavo che ero anche falegname, una qualifica
che mi ha fatto prendere una licenza premio quando
ero a Rodi, ma te lo dirò dopo. La domanda mia e di
Fantuzzi è stata accettata e ci siamo presentati al campo
di aviazione di Taliedo di Milano per fare la visita,
ci hanno inquadrato: un Sergente ci ha dato venti
centesimi di trasferta e ci hanno mandati a Torino dove
abbiamo ricevuto le divise alla caserma La Marmora,
e da là si andava in tram a scuola vicino alla fabbrica
della Lancia, che bisognava attraversare tutto il centro
di Torino. Ad aprile hanno cominciato a scavare delle
fosse nei cortili, noi non capivamo il perché ma poi ci
hanno detto che si stava avvicinando la guerra, un
giorno gli altoparlanti hanno fatto sentire la voce di

534
Mussolini che ce l’aveva con gli ebrei e con gli Inglesi,
insultava il Primo Ministro inglese Chamberlain che
veniva raffigurato come un ombrello.
Noi abbiamo continuato le nostre lezioni, ma un giorno
c’è stato un allarme, hanno fatto l’adunata di tutti i
quattrocento della caserma per mandarci nei rifugi
sotterranei. Nell’entrare nei rifugi abbiamo visto un
militare vestito da generale, piccolino e circondato
da altri due un po’ più grandi; il piccoletto era il Re,
gli siamo passati vicino e intanto che si passava lui
era arrabbiato perché diceva che la contraerea aveva
permesso agli Alleati di sganciare le bombe senza
sparare, che bisognava essere più veloci e svegli: la
guerra era appena iniziata e gli italiani erano contenti,
Mussolini aveva fatto credere a tutti che la guerra
fosse finita in presto e vittoriosa, perché Hitler aveva
già conquistato la Francia e gli Inglesi sembrava che
stessero per arrendersi. Siamo scesi nei rifugi e ci
proibivano di accendere le sigarette perché se gli aerei
vedevano una scia di luce mollavano le bombe…>>.

“Di uomini ne abbiamo tanti, ma aerei pochi!”

<<Quando abbiamo finito la scuola e superato


brillantemente gli esami, io mi sono classificato
quattordicesimo su centonovanta e mi hanno mandato
a Capua a fare una scuola di perfezionamento per gli
strumenti di bordo, e mi hanno fatto fare delle marce
insostenibili per prepararci ad andare in guerra, robe
da cadere per terra… io sono riuscito a tener duro

535
ma tanti altri no, perché non ce la facevi proprio più
col poco che davano da mangiare. Abbiamo fatto
l’esame anche lì e io sono stato promosso e mi hanno
mandato a Roma Ciampino, dove ho preso l’aereo
per Brindisi. Lì sono salito su un Savoia Marchetti S
79 e siamo atterrati a Rodi, Rodi Mariza, il secondo
campo di aviazione dell’isola, a diciannove chilometri
di distanza da Rodi, dove si andava in corriera, ma
raramente davano il permesso. Siamo stati inseriti
nel 51° Stormo, questo qui che oggi è a Treviso e che
per simbolo ha il gatto che si getta a caccia dei ratti;
siamo stati spesso sotto i bombardamenti lì a Rodi.

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Ogni tanto mi chiamavano perché bisognava andare a
bordo di un aereo a fare i voli sperimentali per il volo
notturno, così ho fatto anche il libretto di volo, perché
la nomina non l’avevo ancora avuta; avuta la nomina,
siccome prima mi pagavano solo le ore di volo, dopo ho
cominciato a ricevere anch’io l’indennità mensile di volo.
Sono rimasto un periodo poi sono passato agli aerei da
caccia, così invece di rimanere nella palazzina avieri
sono passato dall’altra parte del campo, dove c’erano
dei capannoni di lamiera bassi e la palazzina ufficiali.

Là in principio il mangiare era anche buono, ma poi


le portaerei nemiche hanno circondato l’isola, le navi
non portavano più i viveri e noi siamo stati ridotti alla
fame: io sono arrivato a pesare quarantotto chili dagli
ottantadue che avevo quando ero partito. Eravamo in

537
riva al mare, che quando c’era un temporale dovevamo
alzarci e raggiungere i nostri caccia per ancorarli,
altrimenti il vento ce li portava in mare perché erano
molti leggeri e il campo era stato fatto troppo vicino
all’acqua. Un giorno è venuto un Colonnello, abbiamo
fatto l’adunata e ci fa: “Mi raccomando tenete di conto
gli aerei perché di uomini ne abbiamo abbastanza,
ma di aerei ne abbiamo pochi!” Noi gli abbiamo fatto
presente che non ci davano neanche da mangiare, allora
un giorno è venuto un ufficiale a mangiare con noi per
controllare, ma quella volta abbiamo mangiato un po’
meglio e dal giorno dopo peggio di prima! Sono andato
avanti finché un giorno capita in caserma un Tenente
che mi fa: “Tu Moro… mi risulta che sei falegname!
Verresti a Rodi a montarmi la camera?” “Sì dottor!”
“Allora ti farò avere una licenza!”
Quando arrivavano gli ufficiali avevano la camera da
mettere a posto, perché arrivava dall’Italia smontata.
Lui mi ha promesso la licenza e io ci sono andato,
gliel’ho messa a posto ma la licenza non arrivava mai,
finché un giorno mi chiamano e mi fanno:
“Guarda Moro che hai la licenza di quindici giorni!”
e fortuna che invece di partire in aereo sono andato
via in nave, perché l’avevo ottenuta con un altro che
è partito il giorno prima di me in aereo e che fatalità
si è schiantato sul Monte Paradiso! Ovviamente l’ho
saputo dopo la guerra, loro là non ti facevano sapere
nulla, noi soldati non sapevamo niente di quello che
succedeva. Comunque sia io vado a Rodi per partire, mi
imbarco e per strada mi vengono fuori cinque foruncoli
sul collo, grossi! Un giorno scopro che sulla nave c’è
anche l’infermeria, così ci entro e li faccio vedere al

538
dottore, perché facevano male! Mi hanno ricoverato
e lì ho trovato le lenzuola, perché prima dormivamo
nella stiva delle bestie. Ho dormito per tutto il viaggio,
abbiamo passato l’istmo di Corinto, ci siamo fermati
ad Atene, dove c’era la gente morta di fame sulle
barchette che ci pregava: “Pane, pane!” erano ridotti
alla fame più di noi, questo combina la guerra, fame e
distruzione. Io mi sono commosso, ho buttato giù uno
sfilatino di pane a una ragazza e lei mi ha buttato un
accendino, poi siamo ripartiti e sbarcati a Bari.

Dal porto di Bari ho preso un taxi assieme a un altro,


che al tempo era una carrozza trainata da un cavallo,
e pioveva a dirotto. Siamo arrivati al Comando, dove
mi hanno fatto i biglietti per tornare su a Treviso, così
sono tornato a casa. A casa ho trovato mia mamma
che mi ha detto: “Fiol… che magro che te sì!” “Eh sì, i
ne ha fat patir a fame!” “Te farò ‘nò sbaturìn ogni dì e

539
te vedarà che te te tira su!” Infatti non ho neanche più
avuto malattie, ho guarito i foruncoli ma poi mi è venuto
fuori una piaga sulla gamba. Mi è scaduta la licenza
e sono andato in stazione a Oderzo per ripartire, ma lì
ho trovato un militare vestito in grigio verde con una
grossa croce rossa sul braccio: “Sei della Croce Rossa?”
“Sì abbiamo il comando qua vicino… perché?”
“Perché mi fa male la gamba e ho paura che se faccio il
viaggio è peggio!” “Se te ha la freve te fae ricoverar!”
E febbre ne avevo infatti, mi ha portato al Comando
dove un Tenente di Oderzo, farmacista, mi ha provato
la febbre e mi ha fatto ricoverare, e dopo un pochi di
giorni mi ha anche operato, perché il problema che
avevo era un flemone. Sono stato dentro una quindicina
di giorni, poi mi hanno tolto i punti e il primario mi
ha dato sessanta giorni di convalescenza, che per me è
stata una fortuna. Mi sono ripresentato a Lecce finiti i
sessanta giorni, e subito mi è venuto il mal di pancia,
perché dietro agli aerei ti respiravi un polverone che
non finiva più, perché i cambi erano tutti di fortuna,
così un giorno, mentre ero in servizio all’aeroporto, dove
dovevo stare attento agli aerei che si calavano perché
dovevo andare a far loro assistenza, ma avevo messo
fuori due avieri di fatica per avvisarmi, ma se ne sono
fregati del servizio per andare non so dove. Arriva un
Colonnello con un CA 100 monoplano leggero e non
c’era nessuno a prenderlo, perché c’era vento, lui è
atterrato ma si è trovato da solo… quando me ne sono
accorto sono corso fuori per andargli incontro, ma lui
è sceso come una furia: “Chi è qua il Comandante?”
“Io sono di servizio, il Comandante è il Tenente De
Nicola!” “Bene! Il Tenente De Nicola si prenderà gli

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arresti e tu sarai in cella di rigore!” ho preso cinque
giorni di cella di rigore perché non sono stato pronto
ad andare fuori, tutto perché i ragazzi di guardia non
mi avevano avvertito che lui arrivava.
L’ho dovuto accompagnare dentro e poi mi hanno
messo in prigione, ma ci stavo solo la notte a dormire…
siccome non c’era nessuno che mi sostituiva, facevo
servizio di giorno e prigione la notte anziché cella tutto
il giorno, ma io ero sottoufficiale di giornata in servizio
all’aeroporto, con quella punizione mi sono mangiato
la carriera! Da là poi mi hanno trasferito a Grottaglie,
dopo sono salito su un Caproni 100, che aveva un
rumore! Siamo andati in linea di volo, dentro eravamo
in cinque, che dovevamo fare da assistenza ai caccia,
dovevamo prendere la direzione dell’Albania, Tirana,
poi prendere per il Caucaso, Bucarest, Romania, fino
in Russia!

541
Mi avevano invogliato ad andare volontario perché
dicevano che là c’erano belle donne, pellicce e ogni ben
di Dio, solo che a un certo punto l’aereo faceva fatica
ad alzarsi, allora è tornato indietro in linea di volo e
il Comandante Sforza si alza dal posto di comando
e fa: “Qua abbiamo un peso in più!” infatti oltre alle
persone c’era anche il cassone delle attrezzature, che
non era stato contato. Io fortunatamente ero vicino allo
sportello per scendere: “Comandante vado giù io!” sono
sceso e sono partiti; non ho più saputo nulla di loro,
perché sono andati in Russia e…
Sono stato mandato allora all’aeroporto di Reggio
Calabria, dove c’erano bombardamenti tre volte al
giorno, che quando c’erano gli allarmi si scappava
nelle campagne. Compravamo il latte dai contadini e
mettevamo la galletta nel latte in modo che quando
tornavamo indietro dal turno facevamo delle belle
mangiate. Un giorno però scappiamo via e quando
torniamo troviamo la gamella vuota: si erano mangiato
tutto i cani! Da là siamo ancora saliti in aereo, abbiamo
passato lo stretto e siamo sbarcati a Castel Vetrano,
l’ultima tappa prima di andare in Africa. C’era una
palazzina avieri dove stavamo e spesso avevamo la
libera uscita perché non c’erano ordini, così andavamo
anche al cinema. Un giorno uscendo vedo un aereo
atterrare all’interno degli argini, perché attorno alla
pista di atterraggio c’erano gli argini in modo che se
cascava una bomba le schegge non colpivano gli aerei
e dentro uno di questi argini vedo un Savoia Marchetti
S 79 con sopra un aviere, Massimiliano! L’ho salutato
e poi sono andato su un bar a mangiare qualcosa e
andando ho trovato anche il fratello di Massimiliano,

542
che era con un battaglione pronto per andare in Africa,
così ho gli ho detto che Massimiliano era qui e gli ho
indicato dove trovarlo, poi non li ho più visti sino alla
fine della guerra.

Da là si andava su un altro aeroporto di cui non ricordo


il nome, ma era nella punta meridionale della Sicilia,
con un aereo Swordfish che a Rodi i nostri piloti lo
avevano sforzato durante un atterraggio, così adesso
era usato come taxi da un aeroporto all’altro. Dopo un
breve periodo sono stato riportato alla base di Lecce,
per mandarmi a Castiglione del Lago, dove c’erano gli
hangar ai bordi del lago, che era pieno di canne come
il fiume Lia; lì noi avevamo solo da fare il servizio agli
aerei, e andavamo a dormire in collina a Pozzuoli,
spostandoci in corriera o con il camion. Si dormiva
in una casa privata che doveva essere stata requisita,
partenza la mattina e ritorno alla sera.

543
Infine è arrivato l’otto settembre, l’armistizio: eravamo
tutti contenti, pareva fosse finita la guerra invece le
noie sono cominciate per quelli che sono stati portati
via… un giorno un Capitano ci fa un’assemblea in
mezzo al campo, duecento persone:
“Guardate che noi abbiamo fatto un patto con un altro
stato e dobbiamo continuare a combattere ancora!”
I ragazzi però erano stanchi e hanno cominciato a
scappare, dopo due tre giorni hanno dato il compito di
fare la guardia ad alcuni in modo che non scappasse
più nessuno, e io ero uno di questi. Una sera però, io
ho buttato per terra il fucile, la divisa e i gradi buttati
via, il berretto buttato via, le piastrine, niente, siamo
venuti via mezzi svestiti con una coperta attorno al
collo e abbiamo camminato fino alla prima stazione. I
treni erano tutti vuoti perché avevano paura di essere
portati via dai Tedeschi, così dopo una decina di
chilometri siamo riusciti a salire su un treno che ci ha
portato fino a Firenze. A Firenze bisognava cambiare,
e in mezzo fra la gente ho trovato uno di Roncadelle,
Remo Floriani, che mi ha riconosciuto: “Ti vatu casa
Chechi?” “Sì, se posse vae casa!”
“Te me fa un piazer? Parchè mi torne a Roma! Te và
da i me genitori e te ghe dise che te me ha vist, che stae
ben, ma mi torne a Roma parchè ho vist un manifesto
che bisogna rientrare anca chi che l’è scampà!” Così
lui è tornato giù, io invece sono venuto verso casa.
Arrivo di notte a Treviso, dove sono andato alla scuola
elementare Gabelli, vicina alle Poste, dove c’era mia
cugina e suo marito, che era mutilato della Grande
Guerra; loro sono stati molto gentili perché mi hanno
dato da dormire per la notte perché non volevano che

544
andassi in giro la notte, c’era il coprifuoco, e anche
qualche cosa da mangiare. Dopo aver dormito la notte
su una brandina, mi hanno dato qualcosa da vestire e
io mi sono avviato la mattina presto verso la stazione,
che era là vicina. Sono salito sul treno per Oderzo, che
era quasi deserto e i pochi che c’erano erano pieni di
paura perché già erano cominciate le deportazioni in
Germania. Sono arrivato alla stazione di Oderzo e ho
trovato Paladin con due biciclette; mi saluta e mi dice
che siccome non è arrivato l’amico che doveva arrivare
poteva prestarmi la bici per tornare a Ormelle.
Sono arrivato a casa e qua era da paura, perché facevano
i rastrellamenti, portavano la gente in Germania, dopo
mi sono dovuto presentare a Villa delle Rose perché a
casa risultavamo disertori, ma là hanno trovato tutto
quello che avevo fatto e mi hanno mandato a casa il
congedo con i gradi di primo aviere, posso portare
quattro stelle sul petto, qua a sinistra, come i quattro
anni di servizio che ho fatto.

545
Il mio amico Massimiliano Fantuzzi che sta in
Argentina, invece può vantare due stelle per le
campagne di guerra 1942-1943, la medaglia di bronzo
della battaglia di Pantelleria del 15 giugno 1942
quando ha affondato il caccia torpediniere inglese
“Bedouin”, la croce di guerra al valor militare per la
battaglia del Mediterraneo del 12 e 14 agosto 1942,
la croce di guerra al valor militare per la battaglia
dell’Africa Settentrionale dall’otto novembre al dieci
dicembre 1942 in cui ha affondato una portaerei che
si trovava in porto, e anche la medaglia d’argento per
aver compiuto cinque azioni vittoriose di siluramento,
ed è autorizzato a portarle tutte sulla divisa.
È che lui vive in Argentina, ma avrebbe tanto da
raccontare, io invece sto cercando di raccogliere la
mia vita in questo quadernetto, che mi piacerebbe
finire per lasciarlo ai futuri nipoti, perché credo che
possono capire meglio la guerra se possono sentire o
leggere le parole di uno che l’ha vissuta direttamente,
perché non facciano gli errori che sono stati fatti,
vorrei che capissero che la guerra è sempre una cosa
sbagliata!>>

L’Associazione

<<Adesso lavoro per gli ex combattenti, perché questa


è stata la mia guerra, oltre che fumavamo tanto contro
la malaria! Dicevano di fumare contro la malaria, in
realtà non c’era nulla da mangiare e fumavamo per
riempire lo stomaco, e ci davano il chinino. La guerra è
brutta, ne ho fatte ancora dopo, qua a casa con il lavoro

546
e altro, ma la guerra ti ho raccontato tutto, il resto è la
mia vita privata che non credo interessi, anche perché
dopo sono sempre rimasto qua a Ormelle e lavorare.
Poi quando è morto il Commendator Nenzi, il Sindaco
allora in carica, Bianchi, ha fatto l’adunata-assemblea
perché venisse nominato il nuovo presidente, ma io
non c’ero ancora, partecipavo come associato, perché
la memoria dei reduci mi è sempre stata a cuore.
Presidente è stato nominato Emilio Zanardo, solo che
hanno voluto inserire anche me come consigliere, ma poi
è successo una confusione incredibile, perché quando è
arrivata la festa dei reduci, l’impiegata comunale, non
so perché e non so come, ha mandato a tutti l’invito
con la lista delle cariche e io risultavo Presidente che
invece non lo ero! È andata così, io non ero presidente,
è stato uno sbaglio; ho cercato di spiegare a Treviso
che questo rischiava di causare problemi, perché il
presidente era un altro, anche il Sindaco ha provato
a rimediare, ma niente! Poi mancava poco alla festa
e mi dispiaceva che si fosse creato questo problema,
mi è dispiaciuto molto! Adesso sono arrivato al sesto
anno di presidenza perché ho deciso di buttarmi a
capofitto nell’impresa, che è appassionante ma non
pensavo fosse così impegnativa, anche perché io scrivo
tutto con la macchina da scrivere, hanno provato a
insegnarmi il computer ma non fa per me! Avrei tanto
bisogno che i giovani si interessino attivamente, perché
ho una bacheca, un pittore che mi fa i manifesti, ma
c’è da fare il passaparola, organizzare le feste e gli
incontri, ce ne sono tanti simpatizzanti giovani, ma
vorrei proprio trasmettere a loro l’impegno, è una sorta
di eredità che noi dell’Associazione lasceremmo a voi

547
tutti alla fine: le famiglie restano contente, non siamo
solo la bandiera, una parola dolce, la corona d’alloro
e l’epigrafe, noi vogliamo ricordare tutte le persone che
hanno dato la loro vita in quegli anni, le loro famiglie,
che hanno dovuto soffrire tanto, io sento che è una cosa
importante ricordarci di tutti loro.
In questi ultimi giorni alcuni di noi se ne sono andati
per sempre; ricordarsi chi erano, cosa hanno fatto,
quanto hanno dovuto soffrire, può aiutare i giovani a
capire quanto male faccia una guerra, ce ne sono tante
di guerre ai giorni nostri, ma sono lontane e a noi non
fanno né caldo né freddo, ma se passa l’idea che la
guerra sia un gioco, o che non sia così tremenda solo
perché è lontana, purtroppo potrebbe succedere che
capiti di nuovo anche qua. Quando tutti si saranno
dimenticati delle sofferenze che la guerra porta, ho
paura che sarà il primo passo perché ne venga un’altra,
e con le armi di adesso potrebbe essere l’ultima.
Se noi vogliamo che i nostri nipoti possano avere un
futuro sereno, abbiamo il dovere di ricordare loro
cosa significa veramente la guerra! Ecco io sento che
è questa la missione di noi reduci, è per questo che
ho voluto impegnarmi tanto, nonostante la mia età
io spero tanto che questo possa servire davvero, e se
fra vent’anni, quando noi non ci saremo più, sarà un
gruppo di giovani a portare avanti questo lavoro, allora
avremo buone possibilità che quello che è toccato a noi
non si ripeta>>.

548
Giovanni Bottero

The outsider

In inglese outsider significa “estraneo” o meglio


“persona che non appartiene a una certa categoria di
persone”. Quando decidemmo di produrre questo libro,
la prima domanda fu: come li consideriamo? Sono
reduci dei due paesi chi è nato o chi vi vive ora? Forse
sbagliando, abbiamo optato per la seconda delle due,
abbiamo scelto di intervistare chi risiede attualmente
nei due comuni. Ma Giovanni Bottero è una scelta
mia: lui non vive qui, ma a Montebelluna, cosa che lo
escluderebbe dal presente libro se non fosse per due
cose: la prima è che è nato a Cimadolmo e la sua è una
testimonianza non solo della guerra ma della storia

549
d’Italia, avendo attraversato, in veste di Carabiniere,
tutti i momenti più bui della rinascita democratica.
La seconda ragione per cui ho voluto fortemente in
questo libro Giovanni è, e non me ne vergogno, che è
nato qui, nel Madorbo, questa borgata antichissima,
risalente ai tempi della costruzione della Postumia
romana, dove fu attivo un guado che traghettò persone
per secoli e secoli, sino a trenta anni fa. Giovanni,
grande appassionato di toponomastica, nutre una
passione e un amore enorme per la storia del suo paese
e della sua gente, cosa che fin da bambino lo ha portato
a curiosare e a chiedere a mamma e papà come fosse
una volta il Madorbo. Il racconto di Giovanni, per me
è stato molto più che un’intervista, ma un tuffo nel
passato del mio piccolo paradiso terrestre, questo Mal
orbo così antico e tutto da scoprire, ma che molti si
permettono di deturpare… e su questo io e Giovanni
siamo in sintonia: guai a chi ce lo tocca!

Madorbo

<<Innanzi tutto premetto che è una cosa molto


importante che tu mi chieda com’era la vita una volta,
perché a quei tempi c’era molto più affiatamento fra le
famiglie, perché tutti avevamo bisogno di aiutarci l’uno
con l’altro, anche i lavori nei campi erano possibili
solo grazie all’aiuto reciproco, perché si faceva tutto a
muscoli, non c’erano mezzi agricoli come oggi.
Io sono nato il primo settembre del 1923, qui nel
Madorbo, nella casa dove sta la zia tua, Angiolina.

550
Allora la casa era molto più piccola, fatta dopo la
guerra. Nel 1919 lo stato aveva dato gratis una baracca
a tutti gli sfollati della Grande Guerra, la mia famiglia
era fra questi. La baracca stava dietro la casa della
Angelina, poi nel 1922 mio papà ha fatto la casa, ma
nella baracca era già nata mia sorella, e allora non
c’erano tutti i ritrovati di oggi contro i parassiti, così
per salvarla dalle pulci i miei avevano appeso quattro
ferri alle capriate del tetto, messo mia sorella in una
cesta di vimini e appesa ai ferri; poi oliavano i ferri con
il grasso per impedire che le pulci andassero a pungere
la bambina, perché la vita era così allora. Io sono nato
nella casa invece, anche se originariamente saremmo
di Ormelle e forse, siccome ho fatto un po’ di ricerche sul
mio cognome, siamo venuti qua dal Piemonte durante
le Guerre Garibaldine.
Il Madorbo era un bel posto per nascere, le testimonianze
ci sono ancora: qua c’è una trincea della Grande Guerra
che durante il conflitto era collegata a un binario messo
giù dai Tedeschi, sul quale passava un trenino, perché
qua c’era un Generale e questo piccolo binario portava
viveri, armi; partiva dalla trincea, saliva di là verso
l’osteria e arrivava a Ormelle dove c’era un deposito
grande, e un altro trenino partiva dalla casa di Oreda,
con lo stesso sistema, solo che la trincea di Oreda
era sotterranea, passava di fianco a Periot, di fianco
a un’altra trincea messa sulla Guizza, e arrivava a
San Polo dove c’era un altro comando. Questi trenini
portavano armi e viveri alle prime linee poste qua
sul Madorbo, e mio papà tornato dalla guerra mi ha
raccontato bene di averle viste queste cose, e di come le
rotaie siano state tolte per costruire le case, che erano

551
state tutte distrutte. Ma guarda che la strada qua
davanti, che adesso tanti la sottovalutano, ma questa
era la strada Postumia romana, quella di là che va al
Traghetto non esisteva, sono stati i Tedeschi a farla,
mentre questa in origine era tutta dritta, poi è stata
rifatta per andare lungo i confini, ma qua il Vescovo
di Treviso passava il fiume per venire a visitare le
parrocchie di qua della Piave, dove ci sono le “risoe”,
cioè l’idrometro, dove ci sono tre scalini in marmo,
perché l’argine originario era quello piccolo, l’altro
l’hanno fatto dopo la Grande Guerra, e là dagli scalini
c’era l’approdo del guado dove passavano tutti, e da lì
partiva la Postumia dritta fino a Oderzo. Quanto che
ho giocato su quegli scivoli là, che tornavo a casa con
le braghe tutte linde e non c’erano mica i cambi una
volta! E poi, sulla casa qua di fianco, che una volta
stavano i Pin, mio papà ha trovato dentro due Tedeschi
morti, con i cappotti grigi e la mitraglia ancora rivolta
verso la Piave, con le pantegane che entravano da
dietro e uscivano per la bocca. Allora non era come
adesso, ognuno doveva arrangiarsi coi suoi morti, se
li doveva seppellire lui e qua alla fine della guerra ce
n’erano tanti, perché gli Italiani qua hanno sfondato
per attaccare il Comando tedesco di Roncadelle.
La vita era molto diversa, bisognava lavorare sodo i
campi e si lavorava con il prodotto della guerra, non
c’erano pensioni, perché solo chi aveva perduto figli in
guerra le riceveva. Ogni casa aveva qualche mucca, il
maiale, si faceva il burro in casa: bisognava riempire
un fiasco di latte, poi la mamma lo passava a noi,
che eravamo sei fratelli e la nonna e uno alla volta lo
sbattevamo fino a che veniva burro. Anche il formaggio

552
si faceva in casa, denaro non ce n’era, avevamo cinque
campi, due ettari e mezzo, coltivati prevalentemente a
granoturco, poi bachicoltura che era il primo raccolto
dell’anno e frumento. Il frumento lo si portava a
Roncadelle al mulino per fare la farina, e un giorno
alla settimana andavamo da Periot a fare il pane,
perché loro avevano il forno dietro la casa… partivamo
io e mia mamma con la farina e una carriola con due
tre fascine di legna, lievito e sale; il Periot ci faceva il
pane e noi portavamo la materia prima per produrlo, lo
coceva e alla sera tornavamo con il sacco pieno di pane.
A proposito: il Periot sarebbe De Lorenzi, Giovanni De
Lorenzi è ancora vivo di loro!
Qua era dura, zona agricola ma povera, bisogna capire
che tuo bisnonno Luigi partiva alla sera con un cavallo
e un carro pieno di sassi per fare la calce e andava
a Grisolera, che oggi è chiamata Jesolo. Andava fin
laggiù, tornava il mattino, caricava di nuovo nella
Piave e via ancora. Ma i Menegaldi erano in dieci
allora, da noi sei, Oreda sette, c’erano di quelle belle
compagnie qua nel Madorbo una volta, alla sera ci si
trovava a cantare; nella povertà c’era molta solidarietà,
molta amicizia, si andava via in bici a trovare le morose
assieme, ci si trovava a turno a casa di uno per cantare
fino a sera le belle canzoni di una volta, raccontare la
vita dei campi, senza calze, senza zoccoli, ci aiutavamo
a vicenda: allora la nascita di un bambino nel Madorbo
era giorno di festa, la morte giorno di lutto… oggi muori
o nasci e non cambia niente a nessuno, non ci sono più
emozioni, un tempo nascere qui significava una grande
festa di gioia e sentimento, le donne si trovavano solo
per stare assieme, non c’era invidia, la ricchezza porta

553
invidia, è la bestia più brutta di tutte! Io ho fatto le
prime tre classi a Stabiuzzo, poi la quarta a Roncadelle
con le suore e sono andato a fare la quinta a San Polo,
dopo ho fatto la scuola serale a Oderzo, perché siccome
in casa c’era una bici soltanto e serviva al papà per
andare al lavoro, io avevo disponibilità della bicicletta
solo alla sera, così per non dimenticare quel poco che
avevo imparato a scuola sono andato a fare scuola di
sera. Mia mamma ci teneva molto, mi ha fatto rifare la
quinta perché non perdessi quello che avevo imparato,
anche un insegnante è venuto a casa per dirle che mi
mandasse a scuola perché ero bravo, ma strade non
ce n’erano, le poche che c’erano non erano asfaltate e
non c’erano corriere, così bisognava andare a piedi o in
bicicletta a Conegliano o a Oderzo. Mia mamma allora
è andata a San Polo a chiedere al direttore didattico se
mi riprendevano per rifare la quinta, non voleva che mi
dimenticassi quello che avevo imparato e poi a Oderzo
ho fatto la famosa prima media, ero un laureato per
quei tempi, tutti finivano alla terza e poi a casa, quella
era purtroppo la vita di allora.
Poi qua c’era il fascismo che comandava, i Comuni
erano retti dai Podestà, che venivano eletti dal partito,
bisognava andare a fare il pre militare al sabato a
Cimadolmo, nella casa del fascio; ci insegnavano a
marciare, a usare il fucile, imparare a memoria gli
inni fascisti. Ognuno doveva avere la sua divisa, si
cominciava con i figli della lupa, avanguardisti, giovani
fascisti, a seconda delle età. Dovevamo dimostrare
di essere entusiasti di fronte a loro, ma in famiglia
eravamo antifascisti tutti quanti, loro si comportavano
da padroni, ci governavano con il bastone e la carota,

554
erano superbi, altezzosi, dovevamo dire sempre bene e
mai parlare male, poi ogni borgata aveva il fascista di
riferimento, con cui bisognava stare attenti perché poi
riferivano ai superiori. Una volta io mentre facevo il
pre militare ho detto: “Ma che el vae in mona i fassisti
e Mussoini!” il giorno dopo è arrivato a casa un fascista
che ha preso mio papà:
“Abita qua Giovanni Bottero?”
“Sì!” “Lei è il padre?” “Sì!”
“Venga a Cimadolmo subito!” “Perché?” “Non lo so!”
allora le risposte erano così, non ti facevano sapere
niente. Mio papà si è messo a piangere, volevano darci
una multa, poi loro avevano un elenco non ufficiale,
perché la storia non ne parla ma era così: avevano un
libro nero e un libro bianco, chi era segnato nel libro
nero non avrebbe mai avuto un lavoro, che era nel bianco
poteva avere quello che voleva, ecco perché le dittature
sono brutte, perché un solo uomo poteva fare quello che
voleva. Poi se per disgrazia uno veniva chiamato in
Caserma, il Maresciallo era costretto a obbedire, chi
nel verbale si trovava scritto: “È antifascista” veniva
messo in galera, ecco cosa vuol dire la dittatura, è una
cosa tremenda, i giovani dovrebbero saperlo!
Poi ho continuato ad aiutare qua in casa sino a
quando sono arrivato ai diciotto anni, quando mi sono
arruolato nei Carabinieri, nel 1941; anzi dovrei dire
che è stata mia mamma ad arruolarmi, perché non ne
poteva più di vedermi senza lavoro. Qua infatti i miei
genitori non avevano la possibilità di garantirci un
lavoro sicuro, loro avrebbero tanto voluto sistemarci
bene, così un giorno mi fa: “Dai Iovanin che ‘nden in
Caserma a San Poeo!” Siamo andati e mia mamma mi

555
ha arruolato, ma avevo paura io ad andare in Caserma,
solo che la preoccupazione di una mamma per il futuro
del figlio alla fine ha vinto! Le mie sorelle partivano la
mattina alle sei per andare a piedi in filanda a San
Polo, con un direttore che faceva la morale già prima
di entrare in fabbrica; queste povere ragazze partivano
con il buio e tornavano la sera tardi con il buio, con un
piccolissimo stipendio, mentre qui c’erano i mezzadri
che dovevano portare l’uva in cantina per fare il vino
senza essere pagati, tutto lavoro che dovevano fare per
il padrone, che altrimenti dava loro lo sfratto! Sino
a dopo la seconda guerra il mezzadro era schiavo del
padrone, non poteva far nulla, ecco perché mia mamma
aveva tutta quella preoccupazione, ma alla fine ho
anche avuto fortuna, se così posso dire>>.

Gli orrori della guerra

<<Sono partito nel 1942 per andare in guerra nei


Balcani, Jugoslavia e Grecia, poi con l’otto settembre
anch’io ero fra i tanti sbandati alla mercè di tutti,
perseguitati dai fascisti che ci volevano nell’esercito di
Salò e dai Tedeschi.Sono andato via come Carabiniere:
i primi mesi li ho fatti a Torino alla scuola allievi
Carabinieri, poi mobilitato e mandato nei Balcani, con
compiti di polizia militare. Avevamo molti rapporti coi
civili, buoni con i Greci, ma con Macedoni, Serbi e Croati
no, ci odiavano, eravamo invasori, se ci prendevano
prigionieri era veramente brutta; gli Italiani catturati
venivano inchiodati alle porte, oppure venivano

556
tagliati i genitali e ficcati in bocca. I partigiani di Tito
non perdonavano, erano cattivi con noi, ma avevano
ragione, siamo andati noi a distruggere a casa loro;
conveniva mettersi una pistola alla testa e spararsi
piuttosto che essere presi da loro, perché la fine era
brutta. E non è che noi usassimo mezzi duri o violenti,
non abbiamo mai fatto prigionieri o fucilazioni,
dovevamo auto difenderci, facevamo servizio lungo la
ferrovia perché facevano saltare treni e binari, attentati
continui, odiavano gli Italiani per quello che aveva fatto
loro il fascismo, ecco perché dopo sono venute le foibe.
Non va dimenticato che con noi combattevano anche i
fascisti slavi, i Cetnici: era una guerra civile fra di loro
e siccome combattevano per noi ci odiavano uguale,
anche perché erano ancora più cattivi e vendicativi
dei Titini, così l’odio era tremendo. Poi dovevamo fare
la scorta alle tradotte militare fino al confine, che era
a Pola, scortarle per prevenire il rischio di attentati,
eravamo una Brigata Scorta-tradotte, eravamo più
di cento, ma eravamo solo un nucleo, poi nelle altre
città ce n’erano altri, Carabinieri, Alpini, Guardia di
Finanza e Cetnici assieme; se ci prendevamo potevamo
solo rivolgerci al Cristo! In Grecia invece le cose erano
diverse, avevamo gli stessi compiti ma la gente era
diversa, non erano cattivi con noi, ma loro non avevano
collaborazionisti, gli Slavi sì. Io in quelle zone ho
preso la malaria, così poco prima dell’otto settembre
mi hanno portato in ospedale militare a Pavia per
curarmi. Là in ospedale ho sentito alla radio la voce di
Badoglio chiedere l’armistizio, tutti che correvano nel
cortile: “E’ finita la guerra, è finita la guerra!”
Sì, sì, altro che finita! Io me la sono cavata grazie agli

557
Alpini. Bisognava saltare tutte le stazioni principali;
sono partito da Pavia e bisognava saltare giù dal treno
prima della stazione, attraversare la città a piedi, su
automobili o con carri e carretti e risalire sul treno
dopo il paese, perché tutte le stazioni erano presidiate.
Se non c’erano gli Alpini finivo male, perché io
appena sceso dal treno non ci vedevo più a causa della
malaria, come facevo a risalire sul treno? Sì è vero,
tutti cercavano di darti una mano per scappare, ma se
non era per quei sette ragazzi che avevo trovato e che
mi dicevano sempre: “Tien duro balilla, tien duro che
te porto casa!” Mi hanno portato sino a Vicenza, dove
c’erano delle donne che dovevano prendere la linea per
Castelfranco Treviso…“A Cittadella e Castelfranco
no trovi nessuno, perché è una linea piccola… a
Treviso scendi e sta attento che ci sono i Tedeschi che
controllano!” mi dicono prima di farmi salire su questo
vagone pieno di donne, e io mi sono seduto fra loro:
“Femene me raccomando: vardè de no dargheo in man
ai Todeschi, sinò lo varè sua cossiensa!”
Loro da Vicenza sono andati a casa a piedi, mi hanno
rincuorato e messo con queste donne che andavano
a Treviso, dove le donne mi hanno fatto scendere e
mischiato fra loro. Sono sceso e ho visto la polizia, e
già sentivo dentro che se mi prendevano non arrivavo
neanche al Brennero viste le condizioni che ero, senza
mangiare e bere chiuso in una tradotta, prima del
Brennero ero già in Inferno o in Paradiso!
Avevo vent’anni, biondo, di carnagione pallida, magro,
le donne mi rincuoravano dicendomi: “Caro bel, no i te
ciapa no ti, te dimostra quindese ani!”
Bhè, io non lo so se è stato quello, ma i Tedeschi mi hanno

558
guardato mentre camminavano lungo la pensilina, io
mi sono sforzato di andare verso la sala d’aspetto dove
vendevano le caramelle; ho preso un pacchetto per mio
fratello più piccolo, ne ho messa una in bocca e mi
sono seduto; forse hanno pensato veramente che fossi
un bambino. Le donne mi hanno avvicinato e poi sono
andate via: “Me raccomando adess cò riva el treno, fate
iutar ma butate su!”

Ce l’ho fatta a salire su quello per Ponte di Piave,


mi hanno lasciato andare. Arrivato a Ponte che tutti
scappavano a destra e sinistra, in mezzo ai campi;
ad andare a casa erano dieci chilometri a piedi, a
me no tenevano le gambe, come facevo? Pian pianino
ho raggiunto la strada che porta sull’argine, senza
forze, quasi esanime, mi fermavo ogni venti metri,
dovevo sedermi spesso, non ce la facevo proprio. Era
il 14 settembre, e dopo otto ore sono riuscito a tornare
a casa, più morto che vivo, e a casa c’era la tragedia
della febbre malarica e dell’essere sbandato.
Viene il Maresciallo da San Polo: “Bottero, se ti

559
prendono ti portano in Germania, se vieni in Caserma
fai il Carabiniere, come prima, facciamo il nostro
compito, dobbiamo solo prendere i ladri, non ci
interessa di partigiani, fascisti, Tedeschi, ma non mi
sono presentato e ho fatto lo sbandato. Ma cercare di
curarmi era dura! Tutti i giorni alle tre mi veniva
puntuale la febbre malarica, che faceva venire molto
freddo, avevo sempre freddo nonostante la mamma
facesse fuoco di continuo e non c’era chinino, l’unico
modo per curare la febbre a quel tempo; la mamma è
andata dalla Amelia Menegaldo per chiederglielo, tutti
i giorni eravamo da lei, e mi chiedeva sempre dov’era
Aristide, che era via anche lui in Africa:
“Iovanin dime dove che l’è Aristide!” eravamo entrati in
confidenza, ma io dovevo dire le cose per rassicurarla
perché no sapevamo niente. Mi dava le pastiglie del
chinino, che erano rosa e dentro dei tubetti, ma poi
sono finiti e il medico di Cimadolmo mi ha dato una
cosa liquida color marrone, amaro come non so cosa,
che mia mamma lo assaggiava ogni volta per farmi
coraggio. Un cucchiaio due al giorno, ma non mi ha
fatto migliorare. Fortuna che poi, non so grazie a chi,
la Amelia è venuta a sapere che la farmacia di Musile
di Piave vendeva il chinino, così mio papà mi ha preso,
seduto sulla canna della bicicletta e portato a Musile.
Il dottore mi guarda e mi fa: “Ah caro mio, ti te ha
proprio la febbre malarica!” Mi ha dato un pacco di
tubetti di vetro da dieci pastiglie rosa di chinino, da
prendere una la mattina e una alla sera, e così sono
guarito. Ma se non era per Amelia! Pensa che aveva
preso una carta geografica e l’aveva appesa in cucina
per farsi dire dov’era Aristide! Che brava donna che

560
era, mamma mia! E poi, è anche vero che a quei tempi
la vita mondana era andare a Jesolo in bicicletta la
domenica, che per noi era una vera e propria gita, ma
farsela di corsa fin Musile con sessanta chili da portare
a cinquantacinque anni non era uno scherzo!
Dopo che sono guarito mi sono dovuto presentare
di nuovo a San Polo, in caserma dai Carabinieri, e
mentre sono dentro si presentano i partigiani, di cui
uno lo conoscevo, era stato a scuola con me.
“Vutu vedar che more adess che l’è finida a guera?”
Perché la guerra era già finita, ma nel frattempo
bisognava ogni volta scappare dai Tedeschi,
nascondersi nei campi di pannocchie, anzi una volta
hanno anche dato una sferzata di mitraglia alle canne
perché avevano visto che ci nascondevamo lì in mezzo,
non solo io ma tutti quelli che erano sbandati dovevano
scappare di continuo. Comunque finita la guerra c’era
il problema di chi comandava, però intanto dovevo
presentarmi, e quando ci sono andato ho trovato quella
sorpresa lì: “Ti cossa situ?” “Ma te lo sa cossa che son,
no te vede come che son vestio? Po’ ere a scuoea cò ti,
no te te ricorda?” “Mi no conosse i fassisti!” “Varda che
no son mia fassista mi!” “Carabinieri non ne vogliamo
sapere! Basta, finita la guerra, via il Re, via la Regina,
via i Carabinieri, via tutti: siamo noi che decidiamo
adesso chi ci deve governare!”
I partigiani erano di due tipi, i rossi Comunisti e i
blu che radunavano tante cose, dai Democristiani ai
liberali. I rossi non volevano i Carabinieri, ho cercato
di farli ragionare, poi è venuto un capo partigiano, che
ha cercato che ero fascista o no e ha verificato che non lo
ero. Così mi hanno tollerato, e poi a San Polo è arrivato

561
Furlan come capo nostro, con l’ordine di custodire i
fascisti, che erano stati messi sul solaio della Caserma,
senza inferriate né niente; i partigiani ci dicevano:
“Vardè che se i ve scampa ve copen voialtri!”
Bene ciò! E siccome mi conoscevano si rivolgevamo a
me, ci andata bene che non sono mai scappati. Venivano
a prenderli al mattino e dicevano che dovevano fare
loro il processo, ma non so poi cosa succedeva, non ho
visto. Poi, siccome in Germania c’erano dei prigionieri
Italiani che si erano rifiutati di combattere con la
Repubblica Sociale, mentre tanti altri avevano aderito
per tentare di scappare e altri per combattere perché
ci credevano, e uno di coloro che avevano aderito alla
RSI ma solo per scappare buttandosi dal treno, una
sera è passato per San Polo, durante la sagra.
Lo hanno riconosciuto i partigiani e lo hanno portato
in caserma, ci hanno minacciato di non farlo scappare,
ma noi ci siamo fatti raccontare la sua storia, che
aveva accettato di tornare solo per scappare, che era
venuto a trovare la morosa, ma la mattina dopo si sono
presentati a prenderlo per processarlo, ma poi è partita
una raffica di mitra: ha tentato di scappare e lo hanno
ucciso. Non era un clima tranquillo qua appena finita
la guerra: nel Madorbo i partigiani hanno anche ucciso
il Maresciallo dei Carabinieri di Oderzo, e sepolto con
la mano fuori!
Era così durante la guerra civile, bastava un vecchio
rancore, anche una lite per la morosa, e quello era il
pretesto per ammazzare qualcuno con la scusa che
fosse fascista o antifascista! Infatti poi, quando sono
rientrato in servizio, sono stato mandato a Pieve di
Soligo, e anche lì la stessa storia>>.

562
Lotte italiane

<<Appena prima di arrivare a Pieve di Soligo, troviamo


i partigiani, che non ci lasciano passare: “Dove andate?”
“Noi abbiamo ordine dagli Americani di andare a
istituire la caserma di Pieve di Soligo!” perché era
stata bruciata dai fascisti durante un rastrellamento,
noi la dovevamo istituire di nuovo, in Municipio.
“Non vogliamo Carabinieri!” “Maresciallo, mal che
vada andiamo a casa!” “Bottero, abbiamo le stellette,
siamo militari, sanno chi siamo. Ci hanno chiamati e
bisogna andare!”
Siamo tornati giù a Conegliano e torniamo su con gli
Americani scortati dai carri armati, due davanti e
due dietro, noi in mezzo. I partigiani non ci hanno più
fermati e siamo entrati in paese:
“Maresciallo ma crede che sia finito il dramma? Qua
sono tutti partigiani che non vogliono i Carabinieri,
qua ci uccidono, non ne vogliono sapere di noi!”
Noi infatti rappresentavamo ancora il Re, sul fregio
avevamo V. E., Vittorio Emanuele, ed eravamo detti
Carabinieri Reali. “Bottero dobbiamo resistere, vedrai
che ce la faremo!”
Ci sistemano in Municipio, ci danno due brande gli
Americani, che ci portano anche da mangiare, tutto
cibo in scatola e un tavolino. Dovevamo fare il servizio
di pattuglia coi partigiani: “Ah no Maresciallo, qua sì
i ne copa proprio! Fuori di notte, un colpetto e tanti
saluti!” L’accordo era di fare servizio assieme, poteva
succedere di tutto, invece la cosa funzionava. A piedi
per il paese, su e giù, ma c’erano anche momenti brutti,

563
perché una sera ci hanno detto che i partigiani avevano
ucciso un prigioniero russo, un ragazzo che era scappato
dai campi di concentramento tedeschi ed era riuscito
ad arrivare a Pieve di Soligo, poco prima che finisse
la guerra; si sono ubriacati e dopo lo hanno ucciso.
C’era una grande differenza tra partigiani rossi e blu,
a seconda delle zone c’era una corrente preminente e
una in minoranza, oppure anche metà e metà.
Poi da Pieve di Soligo, a guerra conclusa, perché a quel
punto la Germania si era arresa, mi mandano a Genova.
Ora, a Genova erano tutti repubblicani ostici alla
Monarchia, siamo arrivati in novecento Carabinieri,
un treno completo. Siamo smontati a San Pier d’Arena
e abbiamo trovato partigiani repubblicani che non
volevano saperne neanche loro dei Carabinieri:
“Non vogliamo robe del passato! Faremo un governo
nuovo e decideremo noi se farete ancora i Carabinieri,
via il vecchiume, via il Re, via la Monarchia, via
tutto!” Qua è dura ho pensato… facevamo servizio
lì, avanti e indietro: alla mattina mettevamo su la
targa Carabinieri e alla sera con una raffica di mitra
i partigiani la buttavano giù; passavano in fretta con
una jeep e tatam tatam… per dire il sentimento che c’era
finita la guerra. La strada per andare al Comando poi,
era tutta piena di scritte “A morte i Carabinieri” oppure
le scritte “Carabinieri” una cassa da morto disegnata,
“Carabinieri”, cassa da morto eccetera.
Eravamo solo noi a rappresentare lo Stato, non c’era
ancora la polizia, ma noi per loro rappresentavamo il
vecchio, non ne volevano sapere, ci dicevano:
“Faremo il Governo e poi decideremo se vi vorremmo o
no, adesso non vi vogliamo!”

564
L’ordine del nostro Comando Centrale era di resistere,
la gente si è calmata, hanno addirittura fatto delle
ricerche loro per accertarsi che non fossimo fascisti,
così ci hanno tollerato e piano piano siamo andati
d’accordo. In servizio si usciva due tre alla volta per
stare attenti che non succedessero baruffe, poi ci hanno
spostato di nuovo, a Palermo, in Sicilia, perché c’era la
grande piaga del bandito Giuliano, che faceva strage di
tutti. Là ragazzi era dura! Dovevamo uscire in due in
libera uscita, perché uno se usciva da solo lo facevano
fuori di sicuro. Dovevamo fare servizio di scorta alle
corriere coi carri armati, due davanti e due dietro alle
corriere, che venivano riunite per fare il tragitto, fino ad
Alcamo, dove era il dominio di Giuliano, che sparava
a tutti. Poi ci mandano in provincia di Agrigento
perché avevano bruciato la caserma, e là c’era la mafia
che aveva bruciato la caserma, fortuna che i colleghi
si erano salvati. Ci hanno sistemato in Municipio e

565
dovevamo uscire per fare servizio in sette otto assieme,
con le autoblinda, perché lì la mafia sparava ad altezza
zero, per ucciderti. Ma lì ero solamente provvisorio, poi
sono risalito a Genova finiti i miei turni, e lì ho finito i
miei sei mesi di servizio di leva, ogni sei mesi bisogna
cambiare il luogo del servizio, perché la vita è dura, si
dorme poco, si mangia male, eccetera. La situazione
a Genova si era calmata molto, non si sparava più, a
Roma hanno fatto il Governo e la gente ci ha accettato
in pieno, così ho deciso di dire al Maresciallo: “Adesso
che mi scade la ferma vado a casa a costo di mangiar
patate, perché ormai sono stufo e l’ho fatta franca troppe
volte, altrimenti mi aiuti che io voglio tornare nella
mia legione a Padova, sono Veneto, torno nel Veneto
no?” “Va bene Bottero, ti faccio una bella letterina!”
È stato gentile e di parola e così mi hanno trasferito
in provincia di Padova, a Vigonovo, ai confini con la
provincia di Venezia e non potevi neanche avere la
ragazza nel posto in cui eri di servizio, non volevano
che ci fossero coinvolgimenti in paese, non potevi
neanche sposarti prima dei trent’anni, la prima l’ho
dovuta tenere di nascosto. Là sono stato bene, ma dopo
mi hanno spostato ancora, a Venezia, a fare il controllo
con la grande uniforme e il cappello col pennacchio in
Piazza San Marco. Quattro ore la mattina e quattro
al pomeriggio, otto-dodici e quattordici-diciotto!
Con quel sole poi! La nostra salvezza erano i bagni
in fondo alla Piazza, ma dovevamo stare attenti,
perché se passava il Maresciallo e non ci trovava al
posto erano guai, poi c’erano anche gli stranieri che
volevano fare la fotografia con noi, solo che allora i
turisti erano meno di oggi. Prima però, nel 1951

566
sono stato ad Adria, dopo la grande alluvione che ha
sconvolto il Polesine; abbiamo passato il Po a Mantova,
perché tutti gli altri ponti erano crollati, poi abbiamo
raggiunto Ferrara, Occhiobello, e da lì con le barche
fino ad Adria. Ad Adria era tutto allagato, una decina
circa di chilometri con due metri d’acqua, quasi fino
a Rovigo, dove sono state svuotate anche le carceri
per precauzione. Ad Adria ci hanno sistemato in un
convento di suore, da dove facevamo servizio di ordine
pubblico tutti i giorni in barca, perché c’erano in giro
i famosi sciacalli, i ladri che approfittavano delle
case abbandonate dall’evacuazione, aziende agricole,
fabbriche, l’acqua arrivava fino alle punte dei cancelli.
Aiutavamo le persone che non potevano muoversi,
portando loro il cibo a casa, l’acqua, oppure evacuarle,
con le buone o con le meno buone, perché tante signore
non volevano lasciare la casa per cui avevano faticato
così tanto, le caricavamo sulle spalle e le portavamo in
un piazzale dove dei camion le caricavano per portarle
in zone più sicure, allora non c’era la protezione civile,
facevamo tutto noi Carabinieri, eravamo noi l’ordine.
Non eravamo neanche serviti, dovevamo arrangiarci a
mangiare, c’erano tante anatre e noi… ben facevamo
loro la festa! Siamo rimasti là sino all’epifania del
1952, io sono stato l’ultimo ad andare in licenza perché
ero di spalla al Capitano. Quando abbiamo finito il
servizio il vescovo di Adria è venuto a congratularsi
con noi, e assieme c’era la Madre Superiora delle suore,
e dopo tante congratulazioni ho fatto: “Eccellenza: il
nostro motto è: usi obbedir tacendo, tacendo morir!”
In quella la Madre Superiora si commuove, si butta
fra le mie braccia e mi bacia al collo e fa al Vescovo:

567
“Eccellenza! Anche i Carabinieri hanno il nostro motto!”
era molto commossa perché anche la loro congrega
aveva quel motto, che è lo stesso dei Carabinieri, e ci
hanno donato un crocefisso. Dopo sono tornato dalla
fidanzata a Padova, che poi è diventata moglie, ma
dato che avevo saltato le feste era arrabbiata… e
qualche anno fa mi portano a casa un giornale del
periodo dell’alluvione, dove c’era una foto grande con
un Carabiniere che portava fuori la gente dalle case
ad Adria ed ero io! Ai Carabinieri che hanno operato
nella zona lo Stato ha dato la Medaglia d’oro.
Da lì sono andato a Portogruaro, da dove ho avuto il
congedo il 15 gennaio del 1969, ma lì stavo bene perché
stavo in ufficio e avevo la moglie e la famiglia. Poi sono
andato a fare il sorvegliante per la fabbrica di vestiti
si San Remo a Montebelluna, perché nel 1968 una mia
sorella mi aveva portato una lettera di un mio ex collega
Carabiniere che mi offriva di andare a lavorare con lui
in questa fabbrica, dove si prendeva bene. Io ho fatto
i conti che effettivamente mi conveniva, così mi sono
presentato in Caserma al Tenente, un sardo, e mi sono
congedato: “Eh Bottero! Anche quella fare mi vuoi?”
“Sì sono stufo ormai, ho trovato un posto tranquillo e
penso che sia meglio per la mia famiglia!” “Tu andare
non devi! Qua tutti conosci, un bel posto hai!”
Ma non c’era verso, ormai avevo deciso.
“Bhè Bottero, se proprio andare devi trovami un posto
anche per me!” “Sì signor Tenente!”
Mi dà la licenza dal 15 dicembre al 15 gennaio, io mi
trasferisco a Montebelluna e il 19 dovevo andare in
fabbrica, dove ho fatto quindici anni, che era il minimo
per avere la pensione, terminati il 31 dicembre 1983,

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e così è finita la mia avventura… altro che adesso che
sei vecchio tutti ce l’hanno con te, anche i bottoni delle
camicie!>>.

Permettetemi di concludere questa lunga e


appassionante odissea di memorie con delle piccole
parole, che forse, anche spero di no, non varranno
che un decimo di quanto è stato raccontato dai reduci
intervistati.
Parlando diverse volte con ognuno di loro, ho potuto
vedere quanto queste persone tengano al loro passato,
alla vita di quegli anni, non solo perché ne ricordano i
sacrifici, ma perché sentono dentro di sé il bisogno di
raccontare alle generazioni di oggi cosa fu la dittatura,
cosa fu la guerra, cosa fu la fame; prima che sia troppo
tardi, prima che non ci sia più nessuno che possa
far capire ai più piccoli quanto terribili fossero quei
momenti. Credo che se mamme e figli, papà e figlie,
leggeranno assieme queste avventure, alla sera, prima
di dormire, durante la notte sogneranno quello che è
stato, il sangue, la miseria, le persecuzioni, gli stermini
e la mattina dopo forse, se non saranno così insensibili
come sembra che siamo diventati, guarderanno a ciò
che accade nel mondo con occhi diversi. Qualcuno
comincerà magari a capire che se vuole essere aiutato
deve prima aiutare gli altri, qualcuno ammetterà che
non può avere sempre ragione ma che tutti sbagliano
e quindi bisogna ascoltare gli altri, qualche ragazzino
potrebbe dire: “Aspetta che vado da mio nonno a
sentire se è tutto vero!”
Ma certo che è vero! Lascio al lettore la responsabilità
di imparare qualcosa dalle vite di queste persone, le

569
vite che hanno avuto la gentilezza di raccontarmi, che
io ho avuto il privilegio di ascoltare e raccogliere in
questo volume che vuole essere un dono alla nostra
società, una sorta di piccolo monumento alla vita di
questi anziani, dei quali molto, anzi troppo spesso non
ci si ricorda.

Giovanni e la storia del Madorbo.


Indice

Prefazione 7
Ioti (Emilio Zanardo) 11
Berto Battistella 49
Antonio Sartor 67
Rapido (Sigirfredo Masier) 76
Luigi Daniotti 89
Rino Narder 99
Cornelio Savoini 109
Domenico Negro 131
Alfredo Narder 142
Antonio Brugnerotto 155
Pietro Lorenzon 165
Alfredo Baro 185
Raimondo Moro 198
Pietro Camerotto 219
Domenico Bernardi 238
Giovanni Saccon 254
Antonio Paladin 274
Toni Menegaldo 288
Geremia Furlan 305
Mansueto Marchi 319
Luigi Lorenzon 330
Dismo Campion 342
Pietro Palladin 362
Gino De Giorgio e Marcello De Giorgio 379
Dino Zanella 390
Francesco Bazzo 396
Floriano Beltramini 409
Silvio Peruzzetto 426
Enrico Cescon 438
Antonio Masier 450
Favorino Spagnol 460
Camillo Bontempi 466
Arcangelo Dal Ben 473
Rino Facchin 478
Giovanni De Lorenzi 490
Lino Sarri 497
Alessandro Piccoli 506
Francesco Zecchin 513
Giuseppe Raggiotto 523
Francesco Moro 531
Giovanni Bottero 549
Finito di stampare
nel settembre 2009 da
Grafiche Biesse
Scorzè (VE)
per conto di
Sismondi Editore
via Capitello, 1
31040 Salgareda (TV)

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