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italian studies, Vol. 69 No.

2, July 2014, 301–10

Intervista con Gabriele Pedullà


sull’Atlante della letteratura italiana
Stefano Jossa
Royal Holloway, University of London

La pubblicazione dell’Atlante della letteratura italiana in tre volumi a cura di Sergio


Luzzatto e Gabriele Pedullà presso Einaudi è stata il grande evento degli studi italia-
nistici negli ultimi tre anni. Era dal 1980, data d’inizio della Letteratura italiana
diretta da Alberto Asor Rosa, completata nel 2000, che non si proponeva una visione
complessiva del patrimonio letterario e culturale italiano in una prospettiva interpre-
tativa nuova. I curatori sono uno storico e un letterato che hanno entrambi esperienze
editoriali e giornalistiche di alto livello e sicuro prestigio: di qui un’attenzione
specifica all’aspetto narrativo e comunicativo del testo, che va dalle scelte stilistiche
all’apparato iconografico. Disposta per epoche in ordine cronologico (vol. I. Dalle
origini al Rinascimento, a cura di A. de Vincentiis; vol. II. Dalla Controriforma alla
Restaurazione, a cura di E. Irace; vol. III. Dal Romanticismo a oggi, a cura di D.
Scarpa), caratterizzata ciascuna dal primato di una città (Padova, Avignone, Firenze,
Venezia, Trento, Roma, Napoli, Milano, Torino), la storia della cultura italiana viene
raccontata attraverso eventi capitali, o anche apparentemente marginali, intorno a cui
si dipana una rete di relazioni di cui la letteratura è stimolo, specchio e collettore,
traducibile in cartine, statistiche, diagrammi e istogrammi: si arriverebbe così, nelle
intenzioni dei curatori, a calcolare e interpretare ‘i “sistemi” fondamentali della civiltà
letteraria italiana’.
Stefano Jossa: Cominciamo dal titolo: il lemma ‘atlante’ fu accolto nel Vocabolario
della Crusca solo a partire dalla quinta edizione del 1811 con la definizione di ‘nome
che si dà a Libro contenente carte geografiche o stampe, per servire ordinariamente
di corredo al testo di un’opera’. Nel 1828 Giovanni Tesia pubblicava un Atlante let-
terario e iconologico per lo studio della letteratura italiana con l’intento di facilitare
l’apprendimento e l’insegnamento. In che senso il titolo della vostra opera rappre-
senta un nuovo progetto culturale anziché solo una brillante trovata pubblicitaria?
Gabriele Pedullà: In effetti, negli anni della elaborazione del nostro progetto, dalla
sua concezione (nell’autunno del 2005) sino alla uscita nelle librerie (tra l’ottobre del
2010 e il settembre del 2012), ho visto apparire un gran numero di opere che porta-
vano il titolo di ‘Atlante’. Nella maggior parte dei casi si trattava di storie della let-
teratura, della religione, della filosofia con qualche immagine a colori o in bianco e
nero dei principali protagonisti del volume. Niente altro. Un po’ poco per fregiarsi di
una simile definizione, no? Si direbbe che la parola ‘atlante’ suona oggi più allettante

© The Society for Italian Studies 2014 DOI 10.1179/0075163414Z.00000000073


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che non ‘storia’ per almeno due ordini di motivi. La motivazione ‘alta’ è legata al così
detto spatial turn, collocabile all’incirca all’altezza della svolta del secolo, quando in
tutte le discipline umanistiche si è registrato un crescente interesse per la dimensione
geografica. Come c’è stata un’epoca in cui la linguistica ha svolto una funzione trai-
nante, da qualche tempo sembra succedere qualcosa di simile con la geografia. Ma
questa è appunto la spiegazione ‘alta’. La spiegazione ‘bassa’, che in molti dei casi in
questione mi sembra più verosimile, è un evidente fastidio per il termine ‘storia’, che
evoca manuali scolastici e sfilze di date. Lo sostituisco con ‘atlante’, ed ecco che ho
subito un’opera più sbarazzina e commerciabile — devono aver pensato alcuni editori
a corto di idee. Da questo punto di vista il termine ammicca a una sorta di ‘storiogra-
fia pop’. L’eccezione che conferma la regola è il bell’Atlante della letteratura tedesca
a cura di Francesco Fiorentino e Giovanni Sampaolo (Quodlibet 2010). Eppure, quale
altro titolo avremmo potuto dare alla nostra opera? A lungo, in verità, il titolo di
lavoro è stato piuttosto Atlante Storico della Letteratura Italiana, ma sull’aggettivo
c’erano opinioni diverse in casa editrice e alla fine ha prevalso la linea di chi lo
voleva espungere (ed è stata forse l’unica ingerenza in un’opera che abbiamo gestito
in assoluta libertà). Sul termine ‘atlante’, invece, non ci sono state esitazioni. L’Einaudi
ha una lunga tradizione di opere che si richiamano a questa idea di mappatura ‘per
immagini’, ed era a essa che pure noi intendevamo consapevolmente richiamarci.
Penso in particolare all’ultimo volume della Storia d’Italia di Ruggiero Romano e
Corrado Vivanti e ai due tomi conclusivi della Storia dei Greci di Salvatore Settis.
Puntando moltissimo sulla graficizzazione (diagrammi, pallogrammi, istogrammi,
torte, schemi, linee del tempo, ecc.), Atlante era l’unico titolo possibile. L’Atlante di
Tesia da te citato, lo conosco, ma è una grande delusione: più o meno, quello che con
termine moderno chiameremmo un Bignami, cioè una sintesi immaginata per facili-
tare la memorizzazione di date e di informazioni elementari da parte degli studenti.
In tutto il libro non c’è una sola mappa. . .
SJ: Ok, ma nonostante il grande rilievo che tu dai alla dimensione grafica nella pre-
sentazione dell’Atlante, il lettore ha l’impressione che si tratti sempre di una storia
della letteratura italiana, magari aggiornata metodologicamente ma in fondo fedele
al vecchio impianto storicistico, fondato sull’ordine cronologico e sulla divisione per
epoche. Lo spatial turn non si vede.
GP: Beh. . . ‘al di là dei grafici’, semplicemente l’Atlante non sarebbe l’Atlante! Qui
non parliamo di un’appendice di cinque o cinquanta mappe a chiusura di ogni vo-
lume, cioè di qualcosa che si può togliere o aggiungere a piacimento, ma di oltre 1000
grafiche che innervano profondamente la struttura dell’intera opera. Queste grafiche,
ciascuna frutto di ricerche di settimane o mesi in biblioteca e anche in archivio da
parte dei nostri collaboratori, spesso cambiano completamente quello che noi sape-
vamo di un fenomeno culturale perché — lavorando su grandi numeri — consentono
di far emergere quei processi generali che gli studiosi di letteratura, più attratti in
genere dai grandi classici, tendono ingiustamente a trascurare. L’opera d’arte ecce-
zionale, che scarta dalla media, si spiega meglio quando possiamo collocarla in un
reticolato di libri meno ambiziosi o comunque meno originali. E l’Atlante cerca di
farsi forte di un doppio passo, affiancando al più tradizionale studio dei grandi autori
e delle grandi opere, un’attenzione ai lenti slittamenti delle placche culturali. Qui
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l’elemento numerico e visivo diventa essenziale. Cosa fa epoca? Se la storiografia


idealistica risponde senza dubbio che il senso di una stagione è nei suoi capolavori (la
cattedrale di Chartres o il Don Giovanni di Mozart), noi crediamo che per uno storico
della cultura non sia meno importante confrontarsi con i prodotti medi, e questo
anche perché le opere del nostro canone letterario si comprendono esse stesse meglio
una volta proiettate su uno sfondo fatto di generi letterari, luoghi comuni, trend
generazionali. Una scelta che non è una resa alla sociologia, ma un modo diverso di
avvicinarsi ai grandi autori del passato. Il metodo cartografico e quantitativo è straor-
dinariamente duttile. Grazie alle grafiche, l’Atlante mette infatti a fuoco con preci-
sione temi diversissimi tra loro come gli esili dei letterati dai comuni due-trecenteschi
quali strumento di circolazione dei moduli poetici, la pratica tre-quattrocentesca
della incoronazione poetica, le riscoperte dei manoscritti antichi, i network di potere
e l’uso umanistico della dedica, le penetrazione delle opere di Erasmo o di Newton
in Italia, il trionfo dell’ottava rima, l’impatto dell’Indice dei libri proibiti, la polemica
tra sostenitori dell’Orlando furioso e della Gerusalemme conquistata, la rivincita di
Dante su Petrarca a fine Settecento, l’editoria pirata dell’Ottocento, gli scrittori alla
Grande guerra, il ruolo dell’opera lirica nell’affermazione della lingua italiana nel
mondo e della costruzione di un immaginario condiviso e di un lessico poetico
‘medio’. . . In tutti questi casi la geografia gioca un ruolo decisivo: nelle domande,
come nelle risposte: con una sistematicità che non ha precedenti in nessuna opera
dedicata alla letteratura italiana. Ecco: se questi circa 150 saggi grafici non ci fossero,
allora davvero il titolo sarebbe soltanto il risultato di una operazione promozionale
di corto respiro. Ma, alla luce di queste cartine, credo che la parola ‘Atlante’, oggi
così abusata, ce la siamo guadagnata sul campo! Con una storia della letteratura
italiana tradizionale abbiamo ovviamente contatti: anche qui ci sono Dante Petrarca
Boccaccio e tutti gli altri. Ma per il modo in cui se ne parla, l’Atlante intende proporre
uno strumento di studio e di ricerca completamente diverso. Lo verifico ogni volta
che uso l’opera con i miei studenti appena approdati dalle superiori all’università: il
loro sconcerto iniziale è il segno che noi proponiamo un salto conoscitivo. E il loro
entusiasmo per un’opera dalla organizzazione reticolare e che sfrutta tanto la
cartografia per esprimere concetti complessi è la prova che questo salto ci mette in
contatto con una nuova generazione di lettori. Senza sposare nessuna retorica della
novità a tutti i costi, mi sembra una conferma del fatto che l’Atlante ha se non altro
il merito di porsi la questione di come si può fare storia della letteratura in un tempo
che non è più quello di De Sanctis ma neanche quello di Cesare Muscetta o di
Natalino Sapegno.
SJ: Se la ‘rete dei significati’, con Weber e Geertz, prevale sulla narrazione orientata
verso il presente, pensavate a un’ipotesi di filosofia della storia, con un’opposizione
preliminare tra Benjamin e Hegel (e tra Dionisotti e De Sanctis)?
GP: Quando evochi la figura di Benjamin immagino tu ti riferisca al fatto che, indice
alla mano, l’Atlante appare un’opera estremamente frammentata, con quasi 400
saggi per poco meno di 3000 pagine di grande formato: quasi un mosaico di piccole
tessere che ricorda il saggio ‘puntillinista’ sognato dal filosofo tedesco (fossero solo
citazioni o meno). E — immagino — ti riferisci al fatto che, di questi, circa 250 sono
quelli che noi abbiamo chiamato ‘saggi evento’, vale a dire dei saggi che partono da
un singolo, preciso avvenimento della letteratura italiana, a volte famoso a volte assai
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meno, databile al giorno e qualche volte persino all’ora. Questo evento può essere la
nascita o la morte di una istituzione letteraria (un teatro, una tipografia, un’accademia),
l’incontro tra due scrittori, il passaggio di mano di un libro o di un manoscritto, la
messa in scena di un testo, una innovazione nelle tecniche di produzione dei volumi
(la scrittura carolina-latina, i caratteri di Bodoni), una polemica particolarmente
significativa, la celebrazione di un autore del presente o del passato, una performance
pubblica, uno scambio epistolare, un intervento censorio, una incarcerazione o una
scarcerazione (nei casi più estremi: una esecuzione capitale), una riscrittura di un
classico, le reazioni di uno scrittore o di un gruppo di scrittori a un evento storico
di particolare importanza (la Peste nera, la discesa di Carlo VIII, il terremoto di
Napoli, la Rivoluzione francese) . . . L’elenco potrebbe continuare perché, ovviamente,
le tipologie sono moltissime. L’effetto complessivo di una simile scelta può essere
quello di una ‘esplosione’, e — per i più scettici — di una dispersione. Per questo non
sei il primo che colloca l’Atlante in una costellazione benjaminiana. Eppure proprio
su questo si è creato un grosso equivoco perché, nonostante le apparenze, il filosofo
tedesco non è stato tra i nostri punti di riferimento. In Benjamin esiste un culto del
frammento in quanto tale che non ci appartiene. La contrapposizione tra allegoria e
simbolo, a tutto vantaggio della prima, serviva all’autore delle Tesi di filosofia della
storia per esaltare il tassello che rifiuta di essere ricondotto a unità (una posizione che
condivide con Kracauer, Adorno e Bloch). Ora, negli anni Venti e Trenta questa
posizione era giustificata dalla volontà di opporsi all’edificio hegeliano, con le sue
pretese totalizzanti e — in estetica — con la sua nostalgia per la classicità perduta.
Al principio del XXI secolo le cose stanno invece, ovviamente, in maniera molto
diversa. Non c’è più bisogno di frammentare alcunché perché tutto è stato già fram-
mentato, anzi ci sono solo frammenti. Hegel, De Sanctis, Croce e Gramsci sono alle
nostre spalle (e peggio per chi non se ne è ancora accorto. . .), senza che Luzzatto
e Pedullà abbiano dovuto muovere un dito. In una condizione tanto differente, era
difficile riconoscerci nel progetto di Benjamin. La domanda è stata piuttosto: data per
avvenuta l’esplosione, come possiamo fare ancora storia letteraria? Se guardo alle
risposte empiriche dei miei colleghi che hanno diretto opere editorialmente affini, per
la maggior parte di loro il problema sembra non sussistere nemmeno: da quando io
sono entrato nell’università sono state pubblicate una decina di storie letterarie, tutte,
con l’eccezione di quella per generi letterari di Brioschi e Di Girolamo, improntate al
vecchio modello ottocentesco. Il problema che ci si pone oggi è eminentemente rico-
struttivo. Ma è importante ricordare che quando l’ordine ritorna, si tratta sempre di
un ordine diverso da prima (cosa che i neo-desanctisiani non accettano: nella loro
prospettiva si è tutt’al più chiusa una parentesi e si può ricominciare come se nulla
fosse successo). Per noi la sfida era piuttosto vedere come fosse possibile raccontare
la vicenda della cultura della parola in Italia mettendo a frutto gli enormi passi avanti
compiuti in un secolo, tanto al livello di informazione quanto di consapevolezza
metodologica. Proprio perché sappiamo molto di più su questa storia, più difficile
risulta infatti giungere a una sintesi, ma a questa sintesi non possiamo rinunciare.
L’Atlante parte da questa consapevolezza: e questo pure perché, storiograficamente,
in Italia la decostruzione dei paradigmi l’hanno fatta egregiamente Carlo Ginzburg
con la microstoria e il gruppo di ‘Quaderni Storici’ (negli anni Ottanta) e, su un piano
più teoretico ma non meno importante, anche se ha avuto meno eco internazionale,
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il gruppo di ‘Storica’ negli anni Novanta (Benigno, Mineo, Verga, Salvemini, Bizzoc-
chi, Banti, Lupo, Meriggi, Dogliani, ecc.). Nel nostro caso il frammento assume
dunque un valore completamente diverso da Benjamin. Mentre lui scommetteva
sull’allegoria, noi puntiamo piuttosto sul simbolo — vale a dire sulla possibilità che
alla fine i tasselli si riconnettano tutti in un affresco organico, pur esibendo (a dif-
ferenza delle storie di fattura hegeliana) la parziale sconnessione dei singoli elementi.
Il progetto presentato alla casa editrice era lungo più di 100 pagine a stampa, perché
ci premeva mostrare, saggio dopo saggio, tutti i potenziali rimandi e come, ideal-
mente, un tema dovesse ripresentarsi, mutato, a distanza di alcune centinaia di
pagine. Il lavoro di editing, spesso molto profondo (tagli, aggiunte, integrazioni),
è servito proprio a rinsaldare questi legami tra le singole parti, proprio perché non
abbiamo mai perso di vista questo obiettivo ambizioso. Se rimpiango qualcosa della
nostra impresa, è che per ragioni di spazio abbiamo dovuto rinunciare — oltre a
circa 250 pagine di saggi già impaginati — a una serie di diagrammi che consen-
tissero di leggere diagonalmente, per temi, l’opera, dal primo al terzo volume
(censura, economia della letteratura, tecniche tipografiche, lirica, dediche, suicidi,
polemiche, ecc. . .). Una sorta di meta-Atlante che doveva valorizzare proprio questa
dimensione.
SJ: E Dionisotti vs De Sanctis?
GP: Il caso di Dionisotti è in parte diverso. L’impossibilità di fare una storia letteraria
sulle basi dei suoi grandi saggi metodologici emerge già dal fatto che lui un libro del
genere non lo ha mai scritto. Aveva preso con Einaudi l’impegno di stendere il lungo
capitolo letterario della Storia d’Italia di Romano e Vivanti, ma poi — usando come
pretesto l’avvicinamento della casa editrice ai giovani del Sessantotto — si sottrasse
alla consegna. Certo, dopo Dionisotti chiunque voglia parlare della nostra letteratura
deve farlo in maniera diversa: il policentrismo è scontato (e ancora una volta: peggio
per chi non se ne è accorto. . .). Il problema diventa allora quello di evitare che il
riconoscimento di una pluralità di storie diventi un modo per non scegliere e per
evitare di gerarchizzare. La volontà di proporre delle epoche intitolate alle singole
città è nata da qui: si trattava di guidare il lettore, prendendoci delle precise
responsabilità interpretative. Ci tengo però a precisare che, se nella nostra tradizione
storiografica abbiamo avuto un modello, questo è stato soprattutto il grande
Tiraboschi. Dionisotti ha sostanzialmente fondato il pluralismo della sua lettura
sulla molteplicità dei dialetti e delle parlate regionali (e questo, non a caso, lo mette
in difficoltà allorché si deve confrontare con un’Italia nella quale, dalla metà del
Cinque alla metà del Settecento almeno, la proposta bembesca ha vinto); Tiraboschi
puntava invece sulle istituzioni e dunque su una geografia letteraria legata alle città
(e, secondariamente, agli antichi Stati italiani). Poiché nei saggi grafici noi censiamo
essenzialmente tre cose, cioè istituzioni (biblioteche, tipografie, università, accademie,
giornali. . . .), uomini e manufatti (libri e manoscritti), il grande bibliotecario moden-
ese si è rivelato un punto di riferimento irrinunciabile. Questo è avvenuto anche
perché, tra l’altro, Tiraboschi si era posto proprio il problema che sta a cuore a noi:
tenere assieme l’unità della letteratura italiana con la molteplicità dei dialetti, delle
lingue (italiano, latino, provenzale, francese, ebraico. . .), dei centri politici e dei generi
della scrittura. Un’altra delle cose che traiamo da Tiraboschi è infatti l’idea che una
storia della letteratura non può limitarsi alle Belle lettere, ma deve includere anche le
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discipline sorelle: la giurisprudenza, la medicina, la matematica, la filosofia, la teolo-


gia, l’economia. . . La stessa specificità della scrittura compiuta con finalità eminen-
temente estetiche emerge infatti molto meglio appena riusciamo a coglierla nel
rapporto dialettico con queste altre forme di scrittura. Nonostante, da Foscolo in poi,
la sua Storia sia stata accusata di essere soprattutto un repertorio, basta leggere le
prime pagine di ogni Epoca per vedere come invece Tiraboschi avesse una mirabile
capacità di racconto e di interpretazione sintetica dei fenomeni più complessi. Era un
grande, un grandissimo storico. Esattamente lo statuto che i romantici e De Sanctis
gli negheranno, proprio perché per loro questa unità plurale appariva invece una
giustificazione della frammentazione politica della penisola.
SJ: Fin qui ci hai spiegato ragioni, progetto e modelli dell’Atlante, discutendo (per
colpa mia) di geografia, storia e filosofia; ma la letteratura?
GP: Ovviamente l’Atlante, per come è strutturato, muove dal contesto per giungere
al testo, anche se questo contesto è raramente la storia politica in quanto tale. Ma
nelle mie intenzioni questo non significa affatto una subordinazione del letterario. Se
parliamo dell’ostrica è perché ci interessa la perla; e se l’evento ha tanto spazio è
perché, oltre che guidare il lettore al cuore della questione che ci interessa, esso deve
gettare nuova luce sugli autori e i testi che mette a fuoco. Siamo sempre riusciti in
questo movimento centripeto, da fuori verso dentro? Al solito non sono io a dover
rispondere. Per quanto mi riguarda, posso però dire che in qualità di curatore sono
soddisfatto del modo in cui questo ritorno è stato realizzato nella grande maggioranza
dei saggi. Questa operazione è stata passibile anche grazie alla disponibilità degli
autori, che spesso, su nostra richiesta, hanno potenziato le parti del loro testo pret-
tamente dedicate agli aspetti letterari delle opere affrontate; ma quando i loro inter-
venti non bastavano abbiamo noi stessi aggiunto delle considerazioni supplementari
in fase di editing. Tanto tenevamo a non vedere sopraffatta la dimensione estetica.
Sugli eventi è bene però chiarire un altro punto. Per quanto abbiano di necessità un
punto di partenza aneddotico, essi sono stati scelti perché, meglio di altri, ci offrivano
la possibilità di porre una questione capitale della letteratura italiana. Sono inizi
o fini di fenomeni decisivi, ma anche fenomeni tipici che si mostrano con speciale
chiarezza. E tutti consentono, per lo meno nelle intenzioni dei curatori, di mettere
a fuoco un nodo concettuale. Manzoni a cena con Balzac ci interessa perché grazie
a loro possiamo discutere del diritto d’autore ottocentesco; l’Orlando furioso
riprodotto sulle ceramiche perché ci dice qualcosa del suo immediato e clamoroso
successo ma anche della speciale visività di un poema per eccellenza ispirato dal
senso della metamorfosi e della precarietà delle forme (e delle identità); la presunta
congiura degli umanisti contro il pontefice Paolo II perché ci dice molto delle diffi-
coltà del nascente umanesimo e del potere disciplinante della scrittura carceraria. . .
Per me, quando immaginavo l’Atlante, l’obiettivo di un simile approccio era
soprattutto lottare contro quello che mi appare il difetto principe della storiografia
letteraria: l’astrattezza. Quando studiavo io, la nostra storia della letteratura veniva
raccontata sostanzialmente come una sequenza di incontri di boxe tra poetiche
letterarie, in cui l’Illuminismo viene sconfitto dal Romanticismo, che a sua volta
soccombe sotto i colpi del Verismo, al quale subentra poco dopo, con una magistrale
mossa da ko, il Decadentismo. Eccetera eccetera. E non mi pare che anche dopo le
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cose siano cambiate molto al livello di pedagogia scolastica. Ci insegnano queste cose
sin dal ginnasio e poi finiamo per riproporle a nostra volta come studiosi. Micidiale.
Invece è ora di dire basta: liberando una volta per sempre la storiografia letteraria da
questi pseudoconcetti buoni tutt’al più per preparare gli esami di Stato con cui si
entra nei pompieri o in polizia.
SJ: Invertiamo la critica precedente. A chi rivendica l’abbattimento delle gerarchie
estetiche imposte dalla tradizionale storiografia letteraria grazie soprattutto ai cul-
tural studies sembra che l’Atlante non vada davvero fino in fondo nella sua opera-
zione di apertura di un metodo alternativo o nuovo: l’ordine cronologico è rispettato,
il primato del letterario resta intatto e il canone non si tocca.
GP: Qui ti riferisci alla posizione di Robert Gordon, che ha scritto una splendida
recensione della nostra opera per il ‘Times Literary Supplement’: ma con lui ne par-
lammo anche al tempo della presentazione dell’opera a Cambridge, credo all’inizio
del 2012. Gordon ha senza dubbio ragione: per quanto mi riguarda l’Atlante non
intendeva affatto diluire l’idea di letteratura in un brodo indistinto di manifestazioni
culturali; piuttosto la sfida era quella di allargare, e per questa strada potenziare, il
campo del letterario. Nell’Atlante i minori e i minimi sono spesso accoppiati con i
grandi nomi del canone scolastico su un piano di sostanziale parità, perché, quando
non si sa come la storia andrà a finire, potrebbe ancora aver ragione Giovanni Del
Virgilio nella sua discussione con Dante sul primato del volgare o del latino, mentre
dalla nostra prospettiva è sin troppo facile parteggiare per l’autore della Commedia.
Allo stesso tempo però questa apertura non doveva, per lo meno nelle mie intenzioni,
cancellare le differenze: la pari dignità concessa all’autore di avanguardia e all’autore
di retroguardia, al genio creatore e al versificatore diligente, deve servire soprattutto
a comprendere meglio il primo. Cosa che comunque non potremmo fare se — alla
maniera dello storicismo tradizionale — i ruoli fossero assegnati una volta per
tutte nel momento in cui si comincia a scrivere. L’evenemenzialità dell’Atlante, ivi
compreso il ruolo che viene a giocare il caso nelle vicende che raccontiamo, è una via
di fuga dalle gallerie di busti di marmo (anche perché nel frattempo, da De Sanctis ai
suoi stanchi imitatori, si è passati ai calchi in gesso). Qualcuno potrebbe rimprove-
rarci di fare un uso strumentale dei così detti minori, e almeno in parte anche questo
è vero: per quanto le figure di contorno siano spesso di grande interesse e vengano
molto valorizzate, un’opera come l’Atlante, che non si rivolge solo agli specialisti e
che per questo allo stato attuale ha venduto più di 5000 copie di ciascun volume, per
non diventare incomprensibile deve puntare a illuminare in maniera nuova soprat-
tutto gli autori chiave della nostra tradizione. Allo stesso tempo, però, rimane il
fatto che nessun racconto della nostra vicenda letteraria sia stato così generoso
di attenzione verso figure oggi trascurate. Una rapida scorsa all’indice dei nomi lo
evidenzia bene. Come mi disse un redattore dell’Einaudi, un poco perplesso: ‘Certo,
in quest’opera Francesco Filelfo è citato quasi quanto Dante Alighieri. . .’.
SJ: Ultima domanda metodologica. Dov’è la theory, in Gran Bretagna oggi acca-
demicamente obbligatoria? Che fine fanno le metodologie novecentesche per eccel-
lenza, per esempio la psicologia, lo strutturalismo, la semiotica, la linguistica o il new
criticism?
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GP: La tradizione italiana, idealistica fino al midollo anche nei più scatenati
materialisti, oscilla tra la degustazione astorica dei capolavori del passato e la loro
collocazione in una sequenza cronologicamente ordinata che da questi capolavori
sostanzialmente prescinde. I due elementi sono andati spesso assieme: prima degusto
e poi inserisco il giudizio così formulato in una grande narrazione costruita per lo più
su elementi extra-letterari (grande narrazione che permetteva di distinguere gli autori
in buoni e cattivi a seconda della loro presunta funzione progressiva o regressiva, sul
piano estetico come sul piano più strettamente politico). La storia che a me interessa
è un’altra, ed è una storia che incontra il testo non alla fine ma già durante il proc-
esso di comprensione e apprezzamento. È una storia fatta di immagini tradizionali,
generi letterari, pratiche discorsive e sociali, pregiudizi, battaglie di poetiche, casualità
biografiche, sopravvivenze e riemersioni. È la storia di Aby Warburg, tanto per
intenderci. Mi colpisce molto che, mentre gli studiosi di arte e di musica hanno
metabolizzato la sua lezione, gli italianisti continuano spesso a bearsi di un presunto
isolamento della letteratura. Soprattutto in Italia, direi. Nell’Atlante la psicologia, lo
strutturalismo, la semiotica, la linguistica e il new criticism non ci sono perché quello
che da queste tendenze della critica letteraria noi e i nostri collaboratori dovevamo
imparare lo abbiamo appreso. Essi fanno parte di un patrimonio sedimentato di
saperi: hanno contribuito ad allenare il gusto di chiunque oggi si occupi con serietà
di testi letterari e, da questo punto di vista, mantengono una loro perenne attualità.
Allo stesso tempo essi non possono più ambire a proporsi come metodi prescrittivi:
tutto quello che potevano dare lo hanno già dato. E l’Atlante li storicizza con grande
rispetto in un paio di saggi. I nostri tre volumi si collocano oltre, e vanno giudicati
per quello che offrono: molto o poco che sia. Non abbiamo mai inteso proporre al
lettore una collezione di esercitazioni su testi letterari a imitazione dei grandi critici
del secondo Novecento; ci interessava invece lavorare a una rilettura organica della
nostra tradizione alla luce di tre o quattro principi innovativi (per lo meno rispetto a
come si è fatta storiografia letteraria in opere affini): uso massiccio dei dati quanti-
tativi; sfruttamento delle potenzialità della grafica per trasformare serie numeriche
indigeribili in immagini immediatamente parlanti, tanto agli studiosi quanto agli
studenti (dunque anche con una precisa finalità pedagogica); valorizzazione di
un approccio ‘in re’, in modo da osservare gli eventi nel loro farsi (un altro tratto
chiaramente anti-benjaminiano questo, dal momento che come è noto Benjamin se la
prendeva con quegli storici che dichiaravano di scrivere facendo finta di non sapere
come la vicenda da loro raccontata fosse andata a finire); l’assunzione nella storiogra-
fia letteraria di un’idea che agli storici suona scontata ma non agli italianisti, vale a
dire dell’idea che esistono più temporalità diverse, e che l’unico modo di raccontare
il passato è valorizzare questi ritmi asincroni: l’accensione bruciante, che scompiglia
le carte nel giro di ore, giorni o settimane (nei saggi evento), e la lunga durata delle
istituzioni e delle poetiche, che travalica spesso i secoli (in gran parte dei saggi gra-
fici). Su questo punto, come ricorderai, nella introduzione all’Atlante ci rifacciamo
alla teoria degli equilibri punteggiati dei grandi biologi Stephen Jay Gould e Niles
Eldredge.
SJ: Non si può fare a meno, a questo punto, di menzionare la lunga recensione, for-
temente critica, di Alberto Asor Rosa sul Bollettino d’Italianistica (‘Storia, geografia
e. . . letteratura’, Bollettino di italianistica, VIII, 2011, 1, pp. 5–21), che si riduce a mio
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avviso all’accusa che non avete proposto nulla di nuovo rispetto alla sua Letteratura
italiana: policentrismo, interesse per le istituzioni e le condizioni materiali, individua-
zione delle retoriche e poetiche, plurilinguismo, apertura a scritture tradizionalmente
considerate piuttosto documentarie che letterarie, erano tutti interessi che si sono
sviluppati tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento e che sono stati raccolti
prima dalla Storia d’Italia Einaudi e poi dalla sua Letteratura italiana Einaudi. Ad
alcuni lettori l’operazione di Asor Rosa è sembrata un lancio pubblicitario, secondo
il meccanismo delle polemiche che suscitano curiosità pubblica, mentre altri l’hanno
considerata una vera e propria stroncatura: tu cosa rispondi?
GP: Vedo che insisti sulla pubblicità! No, niente di simile. Siamo persone troppo serie
per accettare di prestarci a giochetti del genere (lo dico anche per Asor Rosa) . . . È
stata una vera stroncatura: per quanto dettata, più che dalla lettura dell’Atlante, da
una logica un po’ clanica, di elementare difesa del territorio — in questo caso la casa
editrice Einaudi — da ingerenze esterne (Luzzatto ed io). In realtà, come nell’aneddoto
caro a Freud dell’uomo che si lamenta con un amico che gli ha appena restituito una
pentola bucata e si sente rispondere in sequenza che la pentola non ha nessun buco,
che era già bucata prima di prenderla in prestito e che non l’ha mai presa in prestito,
Asor Rosa ci rimprovera cose tra loro contraddittorie e addirittura opposte. Ora
l’Atlante è un’assurdità, ora l’Atlante lo ha già fatto lui, anzi avrebbe voluto farlo
all’inizio degli anni Ottanta quando aveva proposto alla casa editrice un tomo car-
tografico da mettere in fondo alla sua opera. . . Come rispondere a simili rimproveri
contraddittori? È vero che nella Letteratura Italiana di Asor Rosa ci sono le cose che
tu dici: ma per il semplice motivo che nei venti volumi si trova di tutto, ma proprio
di tutto (dizionario biografico, storia e geografia, canone delle opere. . .). Ondata
dopo ondata, e stagione dopo stagione, per quasi un quarto di secolo l’opus magnum
di Asor Rosa ha accolto senza mai scegliere qualsiasi ipotesi critica sulla piazza. Per
questo si è trattata di un’operazione di corto respiro, sostanzialmente tattica, che non
ha segnato il campo degli studi con una proposta forte perché di volta in volta non
ha fatto che riecheggiare l’ultima moda del momento. Parlo naturalmente della con-
cezione del progetto, perché poi, nei singoli volumi, e in particolare nei primi, ci sono
anche saggi eccellenti, che, presi uno per uno, hanno lasciato un’impronta duratura
(Pozzi, Battistini-Raimondi, Bologna, Quondam, Fontana-Fournel. . .). Per restare
alla questione centrale, che è quella della geografia, ricorderai come Dionisotti in più
di una intervista abbia demolito il lavoro di Asor Rosa. Tale censura non sorprende.
Nei quattro tomi dichiaratamente intitolati a Storia e geografia, Asor Rosa non fa
infatti che segmentare per regioni un tradizionalissimo manuale. Soluzione legittima
se in quei volumi ad Asor Rosa fosse interessata la storia istituzionale, dove i poteri
statali giocano un ruolo spesso decisivo; mentre essa è del tutto irragionevole se, come
succede nella sua opera, il discorso continua a ruotare quasi esclusivamente attorno
agli autori e alle opere, secondo il più tradizionale modello desanctisiano. Ma Asor
Rosa non si è avveduto della insostenibilità di questa scelta perché — invece di
percorrere davvero la strada della geografia della letteratura — nei quattro tomi in
questione (di gran lunga i meno riusciti di tutta la sua opera) si è limitato ad appro-
priarsi in maniera esteriore di una formula che, grazie al magistero di Dionisotti,
stava diventando allora di moda. L’Atlante, che piaccia o no, questa scommessa la
gioca invece fino in fondo.
310 STEFANO JOSSA

SJ: Molto meno acrimoniosamente Giulio Ferroni ha scritto che l’Atlante ‘finisce per
lasciare in ombra autori e opere canoniche e soprattutto per lasciare ai margini le
interpretazioni dei grandi testi, in favore di un pullulare di situazioni particolari, di
un affollamento che può giungere a effetti di vertigine, mentre l’infittirsi delle stati-
stiche ci ricorda un po’ angosciosamente che siamo nel tempo dei sondaggi, del rating,
della valutazione universale’ (‘Enciclopedie della letteratura italiana: tra espansione e
evanescenza’, Esperienze letterarie, XXXVII/4, 2012, 77–91: alle pp. 89–90). Sei
d’accordo sull’idea che la rilevanza degli elementi grafici e statistici possa portare a
perdere di vista quello che Ferroni chiama lo ‘spessore vitale’ del testo letterario?
GP: Letto nella sua interezza, il testo di Ferroni (il quale ha scritto anche una bellis-
sima recensione del primo volume dell’Atlante su ‘L’Unità’) è in realtà molto più
favorevole alla nostra opera di quanto non sembri dalle righe che tu citi. In tutti e
due i casi però, effettivamente, alla fine appare una riserva o, per meglio dire, una
cautela. E ti dirò che, da parte di uno studioso della sua generazione, questo atteg-
giamento di apertura condizionata mi sembra del tutto comprensibile. Per rassicurarlo
vorrei dire che l’Atlante non si ripropone di cancellare le vecchie storie letterarie, le
quali soprattutto al livello liceale mantengono intatta la loro utilità. Tanto meno
penso che lo studio quantitativo e la cartografia letteraria debbano prendere il posto
della lettura dei testi e del rapporto diretto con la parola dei poeti, dei narratori e dei
drammaturghi. Mi sembra però che lo sguardo ‘ad alzo zero’ dei saggi-evento e i
grandi numeri di quelle che in area anglosassone si chiamano digital humanities
offrano oggi degli strumenti indispensabili per vedere in modo diverso la nostra
tradizione letteraria: e anche per insegnarla. Ma è ovvio che, fino a quando esisterà
la nostra disciplina, il rapporto vivificante con l’opera rappresenta il momento privi-
legiato: il punto di partenza e di arrivo di qualsiasi discorso critico. La scommessa
della nostra opera è che — con l’Atlante accanto — questo incontro possa essere più
ricco e meno scontato. Dagli studiosi più giovani arrivano dei segnali che qualcosa
forse si è già messo in moto.

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