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Publications de l'École française

de Rome

Les origines et le développement du culte des Pénates à Rome


Annie Dubourdieu

Résumé
Les Pénates sont une collectivité de dieux non individualisés qui tirent leur nom de la partie la plus retirée de la maison, le
penus ; ils sont donc spécifiquement attachés à ce lieu et, par extension, à toute la maison qu'ils désignent souvent
métonymiquement, ce qui explique la forte valeur affective dont ils sont chargés. Dans le culte privé, pourtant, les Pénates ne
sont pas autrement représentés que sous les traits de divinités ayant par ailleurs une individualité propre (Jupiter, Fortuna, etc.),
rassemblées là par le paterfamilias.
Le culte public des Pénates est une extrapolation du culte privé, sans doute le culte du foyer du roi devenu celui de l'État. Les
Romains honorent leurs Pénates dans l'Aedes deum Penatium de la Vélia, où les dieux étaient représentés comme deux jeunes
gens assis, mais aussi sans doute dans l'Aedes Vestae du Forum, dont la partie la plus secrète, le Penus Vestae, renfermait de
mystérieux sacra de provenance troyenne plus ou moins nettement affirmée. Le culte public des Pénates est en effet
étroitement lié à la légende des origines troyennes de Rome, selon laquelle Énée apporte et installe à Lavinium les Pénates
troyens, fruit d'une longue élaboration qui fait fusionner la légende de la venue d'Énée en Italie avec des éléments de la
civilisation lavinate et transforme à la fois le personnage d'Énée et l'identité de ses dieux. Rome a annexé à son profit cette
tradition, et reconnaît en Lavinium sa métropole, ce dont témoigne le pèlerinage annuel des magistrats romains à Lavinium,
pour y sacrifier à Vesta et aux Pénates. L'existence de trois cultes des Pénates publics s'explique par la superposition de deux
légendes des origines, troyennes et albaines, de Rome, à celle d'une fondation indigène.

Citer ce document / Cite this document :

, . Les origines et le développement du culte des Pénates à Rome. Rome : École Française de Rome, 1989. pp. 5-566.
(Publications de l'École française de Rome, 118);

https://www.persee.fr/doc/efr_0000-0000_1989_ths_118_1

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COLLECTION DE L'ÉCOLE FRANÇAISE DE ROME

ANNIE DUBOURDIEU

LES ORIGINES

ET LE DÉVELOPPEMENT

DU CULTE DES PÉNATES À ROME

ÉCOLEPALAIS
FRANÇAISE
1989
FARNESE
DE ROME
© - École française de Rome - 1989
ISSN 0223-5099
ISBN 2-7283-0162-X

Diffusion en France : Diffusion en Italie :


DIFFUSION DE BOCCARD L'«ERMA» DI BRETSCHNEIDER
11, RUE DE MÉDICIS VIA CASSIODORO, 19
75006 PARIS 00193 ROMA

SCUOLA TIPOGRAFICA S. PIO X - VIA ETRUSCHI, 7-9 - ROMA


PREFAZIONE

Gli scavi condotti a Lavinio in questi ultimi decenni hanno


suscitato nuove riflessioni intorno ad alcuni temi della religione romana e alla
leggenda delle origini di Roma. Accanto agli studi che si sono avuti,
oltre che sulla formazione del mito di Enea nel Lazio, sulla storia e il
significato cultuale di Castore e Polluce, di Minerva, di Indiges ecc,
non poteva mancare un riesame del culto dei Penati, che a Lavinio
aveva un ruolo privilegiato, così efficacemente indicato dalle parole di
Varrone : Oppidum quod primum conditum in Latto stirpis Romanae
Lavinium : nam ibi dii Penates nostri. La presente opera affronta
questo argomento con ampiezza di visione e organicità di struttura,
utilizzando tutti gli strumenti offerti dalla linguistica, dalla filologia,
dall'archeologia. Si tratta infatti di un tema di particolare difficoltà : esso
si presentava oscuro già agli antichi, che ci hanno lasciato al riguardo
opinioni contrastanti. Lo stesso Varrone sembra avere espresso in
diversi luoghi della sua opera concetti diversi, secondo quanto
leggiamo in Servio Danielino {ad Aen. Ili, 148). La situazione è resa ancora
più difficile in quanto l'erudizione degli antichi ha, come in altri temi
della religione e della mitografia, introdotto elementi che sono soltanto
il frutto di dotte speculazioni.
L'opera esamina anzitutto il problema etimologico, importante per
la definizione del significato stesso dei Penati. In ordine a questo stesso
obiettivo è acutamente approfondito (soprattutto attraverso lo studio
dei larari di Pompei) il carattere che essi hanno nel culto privato. Ma la
maggior parte dell'indagine riguarda naturalmente i Penati pubblici,
articolandosi nello studio dei luoghi di culto : il tempio di Vesta nel
Foro, il tempio sulla Velia, il tempio di Lavinio.
Con grande efficacia viene sostenuta, contro il parere di molti
studiosi, la presenza dei Penati nel tempio di Vesta : è proprio questo che
deve essere ritenuto il vero luogo di culto originario dei Penati a Roma.
Lo stretto collegamento cultuale tra Vesta e i Penati ha una grande
importanza come elemento indicativo per la definizione del significato
stesso dei Penati, sostanzialmente affine a quello di Vesta.
VIII ORIGINES ET DÉVELOPPEMENT DU CULTE DES PÉNATES À ROME

Questa unione dei due culti nel tempio del Foro trova un preciso
riscontro a Lavinio, dove i magistrati romani sacrificavano ogni anno
Penatibus pariter ac Vestae. Questa analogia penso debba estendersi, a
mio avviso, alla tipologia stessa dell'edificio templare : infatti, secondo
Dionisio di Alicarnasso, i Penati di Lavinio si trovavano in una καλιάς,
cioè in un tempio circolare a forma di capanna, che corrisponde
dunque al tempio del Foro (che ha un rapporto strutturale con la capanna,
come è affermato dagli scrittori). La καλιάς di Lavinio è rappresentata,
in tale forma, nei medaglioni di Adriano e di Antonino Pio e in altre
fonti iconografiche.
L'analogia dei culti di Vesta e dei Penati a Lavinio e a Roma trova
spiegazione nella comune appartenenza alla civiltà latina (mentre non
mi sembra proponibile l'ipotesi di una priorità cronologica di Lavinio).
E quanto al fatto che i Penati di Lavinio venissero considerati Penati di
Roma, si deve trovarne la ragione, come è ben dimostrato dalla Du-
bourdieu, nella leggenda troiana e nel foedus del 338 con cui Roma
accettava il mito di una unità dei popoli latini che traeva origine da
Lavinio.
Particolare attenzione è dedicata al tempio dei Penati sulla Velia.
Anzitutto si affronta il problema della duplicità dei luoghi del culto in
Roma, e se ne trova la soluzione in una recente teoria che il tempio
della Velia debba la sua origine ad un ipotetico trasporto a Roma, nella
casa di Tulio Ostilio, dei Penati di Alba. Tuttavia possiamo domandarci
se sia veramente un problema questa duplicità dei luoghi di culto: non
abbiamo forse più luoghi di culto in Roma, per esempio, per la triade
Giove Giunone Minerva, per Giunone Regina, per Giove Statore, per
Èrcole Vincitore? Ma soprattutto è da osservare che non mancano
motivi precisi per spiegare un tempio particolare, autonomo, dei
Penati; altro è il carattere arcaico, legato a Vesta e al penus, nel tempio di
Vesta, altro è quello del tempio sulla Velia quale ci è documentato da
Varrone e Dionisio di Alicarnasso. Né appare convincente il fatto che il
culto di una città distrutta sia stato posto nella casa privata di un re. Da
rilevare inoltre che non abbiamo testimonianze sull'esistenza di un
culto dei Penati ad Alba, e che è da dimostrare l'alta antichità del tempio
dei Penati sulla Velia.
Su questo tempio veliense, come è noto, sono state in questi ultimi
anni formulate nuove ipotesi : il tempio sarebbe da identificarsi con
l'edificio rotondo noto come tempio del divo Romolo; ovvero sarebbe
stato nell'area della basilica di Massenzio e quindi distrutto, mentre le
immagini dei Penati avrebbero preso posto nelle aule fiancheggianti il
PREFAZIONE IX

«tempio del divo Romolo» (identificato, quest'ultimo, come tempio di


Giove Statore) : queste immagini sarebbero riprodotte nelle monete di
Massenzio che raffigurerebbero questo edificio. Da questa teoria altre
conseguenze vengono sviluppate dalla Dubourdieu : avremmo
recuperato, nelle monete di Massenzio, l'iconografia dei Penati come figure
giovanili con un bastone in mano; questo attributo troverebbe un
riscontro nella raffigurazione dell'Ara Pacis (dove sarebbe
rap resentato un sacello portatile immaginato a Lavinio) nonché nei «caducei»
visti da Timeo nel santuario di Lavinio. Questi bastoni vengono spiegati
in rapporto ad un ruolo dei Penati come itineranti, messaggeri, ruolo
dovuto alla creduta origine troiana. Si aprono così prospettive di
grande rilievo non solo sulla iconografia ma anche sul significato dei
Penati. È tuttavia evidente che il loro accoglimento è subordinato a quello
delle nuove teorie sulla topografia della via Sacra e della Velia e della
interpretazione delle figure nelle monete di Massenzio (che sono
invece, a mio avviso, Eroti funerari nel sepolcro di Massenzio sulla via
Appia).
Un punto centrale per la comprensione del ruolo dei Penati è il
collegamento con la leggenda troiana, che portò all'identificazione coi
sacra portati da Enea. Del resto già R. H. Klausen, un secolo e mezzo
fa, nel suo celebre Aeneas und die Penaten. Die italischen
Volksreligionen unter dem Einfluss der griechischen, aveva visto la necessità di
affrontare congiuntamente i due temi. A questo proposito la
Dubourdieu svolge un'approfondita discussione sul dibattuto problema della
leggenda troiana nel Lazio, e, tra le varie ipotesi che si sono formulate,
aderisce alla teoria che la leggenda lavinate di Enea si sia affermata e
sia stata accettata da Roma stessa nel corso del IV secolo. Se così è,
viene a stabilirsi un dato cronologico fondamentale per la storia del
culto dei Penati : è soltanto da questo momento che essi vengono
inseriti nell'ideologia delle origini di Roma. La «troianizzazione» di queste
divinità indigene spiega molti aspetti oscuri e contradditori : il culto
ufficiale dei magistrati romani a Lavinio; la presenza del Palladio nel
tempio di Vesta nel Foro; la connessione con gli dei di Samotracia; la
identificazione dei Penati con Nettuno e Apollo (i costruttori delle mura
di Troia). Inoltre, la determinazione cronologica di questa integrazione
del mito troiano viene a indebolire le ipotesi che sono state avanzate da
alcuni studiosi sulla interpretazione come Palladi di due teste di età
arcaica, una marmorea dal Palatino (a meno che non sia stata, come è
possibile, importata dalla Grecia in età successiva) e una fittile dalla
Velia (mentre non reca difficoltà per una statua fittile di Lavinio, ispi-
X ORIGINES ET DÉVELOPPEMENT DU CULTE DES PÉNATES À ROME

rata molto probabilmente alla iconografia del Palladio, in quanto essa è


databile al IV secolo). Sempre per lo stesso motivo (affermazione
relativamente tarda della leggenda troiana) è difficilmente accettabile la
teoria che i Penati e Vesta siano stati introdotti, in età arcaica, dalla Grecia
a Roma, tramite Lavinio, nonché l'ipotesi che i Penati siano da mettere
in rapporto, sino dalle origini, con i Castori (il rapporto dei Castori -
come anche dei Lares Praestites - con i Penati è verisimilmente da
limitarsi ad una pura ispirazione iconografica, come già pensava G. De
Sanctis).
Si sono qui evidenziati i motivi portanti su cui è costruita questa
ricerca : intorno ad essi si articola l'esame di moltissimi temi introdotti
in funzione dello studio del problema centrale. È così che la presente
opera, con l'apporto di chiarimenti decisivi, con la presentazione di
ipotesi suggestive, con le ampie discussioni parimenti fondate su basi
filologiche e archeologiche, reca un contributo di grande rilievo ad un
tema che è tra i più significativi nella storia della religione romana, e
che per i suoi aspetti oscuri e contraddittori metteva in difficoltà gli
antichi stessi.

Ferdinando Castagnoli
AVANT-PROPOS

Ce livre a pour origine une thèse de doctorat soutenue en mars


1983 à Paris. Pour mener à bien ce travail, j'ai eu la chance de
bénéficier, grâce à Monsieur Georges Vallet, de plusieurs mois de bourse à
l'École française de Rome qui me fait aujourd'hui l'honneur de
l'accueillir dans sa Collection, avec le soutien bienveillant de son directeur,
Monsieur Charles Pietri.
Cette recherche doit beaucoup à l'aide généreuse et savante de
Monsieur Jacques Heurgon, mon directeur de thèse. Elle a été nourrie
par les travaux et les exceptionnelles découvertes archéologiques de
Monsieur Ferdinando Castagnoli, qui a eu l'amabilité de venir à Paris
pour participer à mon jury de thèse. J'ai essayé de tirer profit de ses
observations et de celles des autres membres du jury, Monsieur
Raymond Bloch, Monsieur Alain Hus, Monsieur Robert Schilling. Enfin
Monsieur François-Charles Uginet, secrétaire aux publications de
l'École française de Rome, par sa sollicitude et ses conseils, m'a
beaucoup aidée dans la réalisation matérielle de ma tâche. Que tous soient
ici profondément remerciés.

Paris, mars 1988


INTRODUCTION

«C'était dans le temps que Monsieur le Prince de Brunswick faisait


à mes petits pénates le même honneur que vous avez daigné leur faire»,
écrivait Voltaire au duc de Richelieu1. De tous les dieux de la religion
romaine, les Pénates sont parmi les rares qui soient passés dans notre
langue sous la forme d'un nom commun. Certes, l'emploi du mot en
français reste très limité, puisque, selon le dictionnaire de Littré, il
apparaît pour la première fois chez La Fontaine, et qu'on ne le
retrouve plus après les Encyclopédistes; il semble toujours employé, sinon
avec une nuance d'humour, du moins avec le sourire d'une certaine
complicité créée par une commune culture; les «petits pénates» de
Voltaire, du reste, paraissent bien une allusion précise à un vers de
Virgile2.
Il est de fait que cette acception de «pénates» au sens figuré, pour
désigner la maison, remonte à l'emploi du mot le plus courant dans les
témoignages de la littérature latine.
Il suppose un usage métonymique du nom de ces dieux pour
désigner le lieu où ils étaient honorés et qu'ils ont fini par symboliser.
Il apparaît donc que, dans la plupart de ses emplois, «Pénates» désigne
les dieux de la religion privée, domestique. Les Pénates, certes, ne sont
pas les seuls dieux honorés à l'intérieur de la maison, où ils figurent,
pour ne citer qu'eux, à côté des Lares; mais il faut croire qu'ils
entretiennent avec la maison une relation d'une qualité particulière, puisque
ce sont eux qui la désignent symboliquement. La nature de cette
relation devra donc être éclairée par l'étude étymologique du mot d'abord,
par l'analyse des contextes dans lesquels il apparaît ensuite. Cette étude
essaiera de se dégager de la confusion qui a régné chez les Romains
eux-mêmes, puisque les Pénates ont fini par être, suivant la définition

1 Lettre à Richelieu, 19 août 1766.


2 En. VIII, 543-44 : paruosque penatis / laetus adit.
2 ORIGINES ET DEVELOPPEMENT DU CULTE DES PENATES A ROME

de Servius, «tous les dieux honorés à la maison»3, ce qui impose, entre


l'analyse du sens premier du mot et cette dernière acception, une étude
de l'histoire de la notion, de son évolution à l'intérieur du culte privé.
A côté du culte des Pénates privés, nous savons qu'il existait un
culte des Pénates publics, des Penates populi Romani, ce qui pose
évidemment le problème de la relation entre les deux cultes, privé et
public, et de l'antériorité de l'un par rapport à l'autre. Sans doute faut-
il admettre, avec G. Wissowa4, que le culte privé est originel et que le
culte public en dérive, encore que ce point de vue ait été parfois
vivement controversé5. Cette explication se conçoit du reste plus aisément
pour d'autres cultes que pour celui de nos dieux; le Genius du maître
de maison par exemple, est honoré au foyer domestique à côté des
Pénates; lorsqu'on honora les empereurs comme des dieux, on en vint
tout naturellement à rendre public, de privé qu'il était, le culte de leur
Genius. De même, sur un autre plan, on conçoit comment on peut
passer du culte privé des Lares de tel domaine, au culte des Lares des
carrefours, qui réunit plusieurs familles au point de rencontre des
différents domaines6.
Toutefois, le culte de nos dieux semble résister davantage à ce type
d'explication; car si les Pénates sont spécifiquement les dieux de la
maison, dans ce qu'elle a de plus intime, l'idée même qu'ils puissent
recevoir un culte public paraît contraire à leur nature. Il nous faudra
donc chercher à rendre compte de l'existence, bien attestée, d'un culte
public des Pénates du peuple romain, et tenter d'éclaircir ses parentés
éventuelles avec le culte privé, plus aisément saisissable.
Pour l'étude de ce dernier, nous disposons d'une documentation
abondante, fournie par les villes de Campanie détruites lors de
l'éruption du Vésuve de 79 après J.-C. Ces cités nous offrent un ensemble
exceptionnel d'habitats privés, datant d'une période qui, pour Pompéi,
va du IVe siècle avant J.-C. au Ier après J.-C. Au demeurant, notre
information reste lacunaire, dans le temps et dans l'espace : dans les traces
de cabanes retrouvées sur le Palatin, rien n'a subsisté qui évoque un
quelconque culte domestique, et nous n'avons peut-être aucune trace

3 Ad Aen. II, 514 : Penates sunt omnes di qui domi coluntur.


4 Religion und Kultus der Römer, 2e éd., Munich, 1912, p. 164.
5 F. Bömer, Rom und Troia, Baden-Baden, 1951, p. 106 sq.
6 Cf. J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, Paris, 1957,
p. 64.
INTRODUCTION 3

des Pénates, ni d'aucune divinité domestique d'ailleurs, à l'époque


archaïque. De plus, à Rome même, les reconstructions successives de
maisons sur un même emplacement, l'occupation continue du site, ont
fait à peu près disparaître toute trace d'habitat privé antérieur à
l'époque augustéenne, mises à part les huttes du Palatin citées plus haut.
Les conclusions que l'on peut tirer de l'étude du culte domestique à
Pompéi ne devront donc être utilisées qu'avec prudence.
En ce qui concerne le culte public, nous connaissons deux
sanctuaires des Pénates à Rome même, ou plutôt, deux sanctuaires qui
passaient pour contenir les images de ces dieux. L'un, situé en bordure du
Forum, sur la Vèlia, leur était spécifiquement consacré : c'est l'Aedes
deum Penatium, dont l'existence et le nom sont bien attestés, mais dont
les remaniements successifs du site rendent très difficile de retrouver
la trace aujourd'hui, malgré les tentatives d'identification diverses qui
ont été faites de ce sanctuaire avec des bâtiments qui subsistent
encore : le monument rond dit «Hérôon de Romulus», ou les parties
d'édifices anciens incluses dans l'église des SS. Còme et Damien. Il existe
aussi une tradition selon laquelle les Pénates du peuple romain seraient
conservés dans l'Aedes Vestae sur le Forum, tradition récemment
controversée d'ailleurs, car seul Tacite nous offre un témoignage
formel mentionnant la présence des Pénates dans ce sanctuaire dont ils. ne
sont pas les dédicataires spécifiques7; les autres textes relatifs à ce
monument se contentent d'attester l'existence de sacra dans ses murs,
ce qui nous amènera à poser le problème de la relation entre ces
derniers et les Pénates. Ce point est d'autant plus intéressant d'ailleurs,
que c'est de ces deux termes, sacra - ou l'équivalent grec ίερά - et
Pénates, que sont souvent désignés dans les textes les objets sacrés apportés
par Enée de Troie jusqu'en Italie. Par conséquent, nous serons conduit
à nous demander si, en plus de leur relation avec Vesta, dans le
sanctuaire de laquelle ils étaient conservés, et indépendamment de la
lumière que peut jeter sur eux l'histoire propre de ce monument, l'identité
des sacra - Pénates conservés sur le Forum ne doit pas aussi
s'expliquer en liaison avec la légende d'Enée et de sa venue en Italie, encore
que très peu d'auteurs attribuent au héros troyen la fondation de
Rome. De plus, il nous faudra essayer de rendre compte de ce fait
surprenant, qu'il y ait eu à Rome deux lieux de culte officiel des Pénates
publics du peuple romain.

7 Ann. XV, 41.


4 ORIGINES ET DÉVELOPPEMENT DU CULTE DES PÉNATES À ROME

Paradoxalement, c'est peut-être l'existence d'un troisième lieu de


culte officiel des Pénates publics qui nous permettra de comprendre les
raisons de cette pluralité. On sait en effet que les Romains rendaient
officiellement un culte, en une sorte de procession annuelle
comprenant les plus hauts magistrats de Rome, aux Pénates de Lavinium,
aujourd'hui Pratica di Mare, au sud-est de Rome; or, Varron déclare
que ces Pénates étaient, aux yeux des Romains, les leurs propres : nam
ibi dii Penates nostri8. Cette affirmation, qui explique le sacrifice
annuel des magistrats romains, nous renvoie à la légende des origines
troyennes de Rome : Enée fuit Troie en ruines avec son père, son fils, et
ses dieux Pénates; après diverses errances, il arrive en Italie, et plus
précisément, au Latium, terre que lui avaient assignée les dieux; il
épouse Lavinia, fille du roi Latinus, et fonde Lavinium, où il installe ses
dieux; son fils Ascagne quittera plus tard la ville et fondera lui-même
Albe, d'où sont originaires Romulus et Rémus, lointains descendants de
ce dernier. La légende de la filiation troyano-lavinate de Rome, par
l'intermédiaire d'Albe, explique que les Romains, qui se voient comme les
héritiers et les descendants de Troie et d'Enée, vénèrent dans les
Pénates de Lavinium, supposés apportés par Enée, leurs propres Pénates. Il
est clair que ce culte lavinate des Pénates du peuple romain nous
apparaît tout chargé d'affabulations légendaires, liées à la tradition des
origines troyennes de Rome; nous aurons donc à examiner comment s'est
élaborée cette dernière. Mais, si le culte des Pénates publics est
l'expression de traditions concernant les origines d'une cité, comme nous
le croyons, il nous faudra essayer de rendre compte de la coexistence
de plusieurs légendes des origines de Rome, qui, semble-t-il, permet
seule d'expliquer qu'il ait existé trois cultes des Pénates publics, rendre
compte aussi des relations que ces différentes légendes entretiennent
entre elles.

*
* *

Le premier ouvrage moderne, qui ait traité substantiellement des


Pénates est dû à R. H. Klausen: Aeneas und die Penaten9; le propos
essentiel de son auteur est d'étudier le personnage du héros troyen,

8 De L.L. V, 144.
9 Hamburg-Gotha, t. 1, 1839; t. II, 1840.
INTRODUCTION 5

dans la tradition grecque d'une part, latine d'autre part. L'étude des
Pénates proprement dits n'occupe qu'une petite partie du second
volume de l'ouvrage10, consacré aux dieux liés à Enée. Elle consiste en une
étude étymologique du mot Penates, dont R. H. Klausen affirme qu'il
est rattaché à la racine de penus sans toutefois expliquer le suffixe
-ates; le savant allemand étudie ensuite la signification de ces dieux
dans le culte privé, l'emplacement de leur culte dans la maison, la
valeur affective qui leur est accordée comme symboles de la prospérité
et de la pérennité de la famille; puis il passe à l'étude du culte public,
dans lequel il voit une extrapolation, à l'échelle de l'Etat romain, du
culte privé. Utilisant certaines des données littéraires dont nous
disposons, Virgile en particulier, R. H. Klausen accepte la légende du
transfert des Pénates de Troie en Italie par Enée, sans chercher à dater
l'apparition de cette légende dans la tradition; les dieux d'Enée - et, sur ce
point encore, Klausen suit exactement Virgile - furent installés à Lavi-
nium par le héros troyen, et honorés là par les Romains qui se
considéraient comme des descendants d'Enée; cependant, ce dernier culte, qui,
selon Klausen, ne fut jamais tout à fait oublié, tendit à s'effacer
progressivement au profit d'un culte des Pénates publics à Rome même,
sorte de duplication du culte lavinate. Sur l'identité des Pénates,
Klausen fait état des différentes spéculations antiques, sans chercher entre
elles une cohérence quelconque; il constate qu'à Rome même, il est
certain que les Pénates publics étaient au nombre de deux (R. H. Klausen
s'appuie là sur la description que fait Denys d'Halicarnasse des statues
cultuelles du temple de la Vèlia), couple qu'il rapproche de celui des
jumeaux fondateurs dans une démarche dont il nous semble qu'elle
annonce déjà celle de G. Dumézil11 un siècle plus tard. Klausen se
borne à constater qu'à côté de cette conception dualiste des Pénates, les
traditions antiques mentionnent une identification de nos dieux avec
ceux de la Triade Capitoline, et qu'il existe une tentative de définition
des Di Penates Consentes étrusques. Cet ouvrage, vieux d'un siècle et
demi, reste, au demeurant, fondamental pour l'étude de notre sujet.
Presque cinquante ans plus tard, G. Wissowa étudiait, dans un très
long article intitulé Die Ueberlief erung über die römischen Penaten 12, la

10 P. 620-662.
11 La religion romaine archaïque, 2e éd., Paris, 1974, p. 263-266.
12 in Hermes, 1886, XXII, p. 45 sq.; repris dans Gesammelte Abhandlungen zur
römischen Religions und Stadtgeschichte, Munich, 1904, p. 95-128.
6 ORIGINES ET DEVELOPPEMENT DU CULTE DES PENATES A ROME

tradition littéraire concernant les Pénates et, plus précisément, les


spéculations des érudits anciens à leur sujet. Signalant que les traditions
antiques se présentaient de façon particulièrement confuse à travers
ces spéculations, il s'est efforcé d'en mener une critique comparative,
présentée d'abord sous la forme d'un tableau très clair, qui met en
regard trois versions de la tradition sur les Pénates : celle d'Arnobe,
celle de Macrobe, et celle de Servius-Daniel ; les différents thèmes de cette
tradition sont désignés, dans le tableau, par des lettres, puis étudiés très
méthodiquement dans la suite de l'article; s'efforçant de retrouver la
source utilisée par ces trois commentateurs tardifs, dont les textes sont
très souvent voisins, voire semblables, G. Wissowa pense pouvoir
l'identifier chez l'érudit du IIIe siècle Cornelius Labeo, auteur du De Dis ani-
malibus ; c'est en grande partie à travers lui, selon G. Wissowa, que
nous sont connues les théories de Varron et de Nigidius Figulus; par la
comparaison et l'étude très serrée qu'il fait des différentes traditions,
Wissowa s'efforce aussi de mettre un nom, ou des noms, sous les
traditions présentées anonymement par nos trois commentateurs. Nous
avons, dans le cours de notre étude, largement utilisé ce travail.
Le lien très étroit qu'entretient le sujet de notre recherche avec le
problème des origines troyennes de Rome (Enée, dans une tradition
largement répandue, est supposé avoir apporté de Troie à Lavinium les
Pénates vénérés comme leurs par les Romains) a tout naturellement
amené les savants qui ont travaillé sur cette question à aborder le
problème des Pénates. En étudiant Les origines de la légende troyenne de
Rome13, J. Perret a minutieusement rassemblé et étudié les documents
littéraires qui attestent l'existence de la légende de la venue d'Enée en
Italie, le caractère d'ancêtre fondateur, et le culte que ce caractère
implique, donnés par les Romains au héros troyen. J. Perret pense que
cette légende est née vers le début du IIIe siècle avant J.-C, au temps de
la guerre contre Pyrrhus, et refuse de se fier aveuglément aux données
de l'annalistique et de l'historiographie romaines. L'organisation de
l'ensemble des traditions constituant la légende des origines troyennes
de Rome recevrait alors son plein épanouissement à une date
relativement tardive, à l'époque de César, puis d'Auguste, dans la mesure où

13 Paris, 1942.
INTRODUCTION 7

elle contribue puissamment à fonder les prétentions dynastiques de la


Gens Iulia14.
Les années 1950 marquent une étape importante dans l'histoire des
études sur la légende des origines troyennes, avec l'essor que les
découvertes archéologiques vont apporter à l'étude des témoignages
littéraires, jusque là base à peu près unique des recherches. Dès 1938, la
découverte, à Véies, de plusieurs exemplaires d'un groupe statuaire de
terre cuite représentant Enée portant Anchise sur ses épaules, daté du
début du Ve siècle15, ainsi que le scarabée «étrusque» de la collection
de Luynes, daté du VIe siècle, montrant une scène analogue, ont
considérablement modifié les données du problème. F. Borner, dans Rom
und Troia10, étudie, dans une première partie, les origines de la
légende de la venue d'Enée au Latium à la lumière des découvertes
archéologiques, en montrant que le foyer de diffusion de cette dernière a été
l'Etrurie, et explique pourquoi Enée a été choisi par les Romains
comme héros fondateur17; la seconde partie, intitulée Les Pénates, combine
les données de la tradition littéraire, Varron en particulier, et les
témoignages archéologiques, notamment les petites figurines primitives de
terre cuite découvertes dans les tombes albaines, en qui F. Borner voit
une première figuration des Pénates, tandis que l'urne funéraire où
elles étaient enfermées serait, selon le savant allemand, une image du
penus, réserve aux provisions qui constituait primitivement un édifice
distinct de la maison; les Pénates seraient bien, ainsi, les dieux du
penus, le culte public s'étant modelé sur le culte privé. Cette
interprétation des figurines albaines et des urnes funéraires a été très vivement
contestée par H. Müller-Karpe dans Vom Anfang RomsÏS, étude elle
aussi fortement appuyée sur les données archéologiques, alors toutes
récentes, fournies par les statuettes de Véies et le scarabée «étrusque».
A la fin de la même décennie, A. Alföldi reprenait ce sujet dans Die
trojanischen Urahnen der Römer19, sujet que, comme F. Borner et

14 Le savant français est revenu sur ce problème dans Rome et les Troyens, REL, 49,
1972, p. 39-52.
15 Cette datation a parfois été contestée; voir infra, p. 199-201.
16 Baden-Baden, 1951.
17 Cf. aussi les comptes rendus de l'ouvrage faits par P. Boyancé, Les Pénates et
l'ancienne religion romaine, REA, 54, 1952, p. 109-115; J. Heurgon, in Latomus, 11, 1952,
p. 231-233.
18 Heidelberg, 1959.
19 Bale, 1957.
8 ORIGINES ET DÉVELOPPEMENT DU CULTE DES PÉNATES À ROME

H. Müller-Karpe, il éclaire de données archéologiques et


iconographiques. Il étudie, en particulier, une amphore trouvée à Vulci, de
fabrication locale, qu'il date de la première moitié du Ve siècle avant J.-C. Sur
ce vase est représenté Enée portant Anchise sur ses épaules, et donnant
la main à Ascagne, dont l'autre main est tenue par une femme,
identifiée comme Creuse; cette dernière porte sur la tête un vase oblong, un
doliolum, qu'elle maintient de sa main libre, et qui est supposé, selon
A. Alföldi - hypothèse, nous le verrons, souvent reprise - contenir les
sacra. Ces sacra-Pénates seraient donc ceux de Troie, venus en Etrurie,
puis à Rome, qui serait l'héritière de la cité de Priam. D'autre part,
A. Alföldi, s'appuyant sur l'iconographie, fournie notamment par le
monnayage romain, de la tête féminine désignée comme Rhomè,
héroïne troyenne éponyme de Rome dans certaines légendes, confirme par
elle l'existence d'une tradition très ancienne concernant les ancêtres
troyens de Rome, en relation avec la légende d'Enée; dans la diffusion
de ce culte, l'Etrurie aurait joué un rôle essentiel. L'ouvrage d'A. Alföldi
nous intéresse surtout ici dans la mesure où il touche à la légende de la
venue d'Enée en Italie, et, aussi, où l'étude iconographique permet de
reculer fortement dans le temps cette tradition «troyenne».
Ce mouvement va du reste s'accentuer dans les années 60 avec les
découvertes archéologiques faites à Rome et dans l'ensemble du La-
tium. Ces dernières tendent à confirmer les dates que les historiens
latins assignaient à la fondation de Rome, à la domination étrusque à
Rome, à l'influence de la Grèce et de la Grande-Grèce20. Les fouilles
menées à Pratica di Mare, l'ancienne Lavinium, par l'Istituto de
Topografia antica dell'Università di Roma, sous la direction de F. Castagnoli,
ont abouti, depuis 1949 jusqu'à nos jours21, à une série
d'extraordinaires découvertes qui ont grandement élargi les données de notre sujet.
En particulier, l'enthousiasme soulevé par la mise au jour d'une
inscription du VIe-Ve siècle, dédiée à Castor et Pollux, dans l'aire d'un
sanctuaire où se trouvaient alignés treize autels archaïques datés du VIe
au IVe siècle, a amené A. Alföldi, dans un nouvel ouvrage22, et G. K.

20 Cf. J. Heurgon, Note sur les sources de l'histoire romaine primitive : de l'hypercriti-
que à la réhabilitation de la tradition, in Rome et la Méditerranée occidentale, 2e éd., Paris,
1980, p. 378-385.
21 Pour une chronologie détaillée des découvertes, cf. F. Castagnoli, Lavinium I,
Rome, 1972, p. 36-37.
22 Early Rome and the Latins, University of Michigan Press, Ann Arbor, 1964.
INTRODUCTION 9

Galinsky23, à reconnaître dans ce sanctuaire celui des Pénates,


identifiés avec les Dioscures, le nombre très élevé des autels s'expliquant par
le fait qu'il s'agit d'un sanctuaire fédéral. La présence, à peu de
distance de cet ensemble, d'une tombe à tumulus dite «Hérôon d'Enée»
semble au reste venir à l'appui de cette identification.

On comprend donc que notre sujet se trouve largement renouvelé


par les recherches actuelles, d'ailleurs encore en cours, puisqu'on est
en train de fouiller une aire cultuelle située à l'est du village de Pratica,
où furent découvertes en 1977 une cinquantaine de statues votives24.
De plus, des fouilles sont actuellement en cours sur la Vèlia, sous la
Basilique de Maxence. Il n'est pas certain qu'on puisse retrouver des
traces du temple des Pénates, sans doute démoli lors de la construction
de la Basilique, mais on a déjà mis au jour quelques vestiges
appartenant très probablement au temple de Jupiter Stator, dont nous verrons
qu'il est peut-être en rapport avec les statues des Pénates. Aussi
devrons-nous constamment, à côté des données littéraires et des ouvrages
fondamentaux, cités plus haut, qui les ont interprétées, tenir compte de
l'actualité archéologique, à Pratica, mais aussi à Rome et dans toute
l'Italie centrale.
En effet, dans la mesure où les Pénates se trouvent liés à la légende
des origines de Rome, origines troyennes et origines albaines, leur
étude pose des problèmes dont la solution a été controversée au cours des
dernières décennies. C'est, d'abord, celui du rôle de l'Etrurie dans
l'introduction au Latium des légendes chantées par les poèmes
homériques, et en particulier du personnage d'Enée, présent dès les VIe- Ve siè-

23 Aeneas, Sicily and Rome, Princeton, 1969.


24 Deux volumes ont à ce jour été publiés : Lavinium I : Topografia generale, fonti e
storia delle ricerche, Rome, 1972; Lavinium II : Le Tredici Are, Rome, 1975; un troisième
volume, consacré à l'Hérôon d'Enée, est en préparation. Pour le dépôt votif, cf. P. Som-
mella, Le dépôt de statues votive découvert à Pratica di Mare, Archeologia, mars 1978,
p. 20-21; F. Castagnoli, II culto di Minerva a Lavinio, Accademia Nazionale dei Lincei,
quaderno 146, 1979, p. 3-14. La synthèse la plus récente sur l'ensemble des découvertes
du Latium se trouve dans deux articles de J. Poucet, Le Latium protohistorique et
archaïque à la lumière des découvertes récentes I, AC, 47, 1978, p. 566-601; II, ibid., 48, 1974,
p. 177-190. Cf. aussi Enea nel Lazio, Archeologia e Mito, Catalogue de l'Exposition, Rome,
1981.
10 ORIGINES ET DÉVELOPPEMENT DU CULTE DES PÉNATES À ROME

cles en Etrurie : nous aurons à nous demander si sa reconnaissance par


les Romains comme l'ancêtre des Latins est la conséquence de
l'hégémonie étrusque sur le Latium. C'est aussi celui du rôle de la Grande-
Grèce comme intermédiaire entre la Grèce et le Latium, dont les
découvertes archéologiques récentes de Lavinium ont montré qu'il a dû être
très important. Ces problèmes, qui touchent à l'élaboration de la
civilisation latine, sont étroitement liés à d'autres, très délicats, d'ordre
chronologique. La légende d'Enée est présente très tôt en Italie
centrale, mais le Troyen n'a pas été dès l'abord considéré comme le porteur
des Pénates et l'ancêtre fondateur. D'autre part, le fait qu'il n'ait jamais
reçu de culte à Rome, où sont pourtant conservés les Pénates du peuple
romain, semble former avec ce rôle d'ancêtre des Romains une
curieuse contradiction, que seule permettra de résoudre l'étude des relations
entre Rome et Lavinium.
En définitive, l'orientation qu'a prise notre recherche semblera
peut-être paradoxale : en voulant étudier des dieux dont nous avions pu
penser que, de par leur nom, ils étaient éminemment rivés au sol
romain, nous nous sommes aperçu qu'ils étaient, en réalité, liés à toutes
les influences extérieures à la cité qui ont contribué à en modeler
l'image.
PREMIÈRE PARTIE

ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT


CHAPITRE I

ETYMOLOGIE : PENATES ET PENUS

I - L 'ETYMOLOGIE DE PENATES

L'explication étymologique du mot Penates semble avoir été


incertaine dans l'Antiquité, si l'on s'en rapporte à un passage où Cicéron a
cherché, le premier, à expliquer le nom de ces dieux : di Penates, sine a
penu ducto nomine (est enim omne quo uescuntur homines penus), siue
ab eo quod penitus insident; ex quo etiam penetrates a poetis uocantur1.
Cicéron propose ici deux etymologies de Penates : le mot vient soit de
penus, soit de penitus, chacune des deux explications permettant
d'expliquer une caractéristique de ces dieux : la première, à laquelle
Cicéron fait allusion sans l'expliciter, semble être de protéger la nourriture,
ce pourquoi leur nom est expliqué comme un dérivé de penus, mot
défini par Cicéron comme signifiant «la nourriture»; leur seconde
caractéristique est de résider dans la partie la plus retirée de la maison; aussi
leur nom peut-il s'expliquer comme apparenté à penitus «à l'intérieur».
Mais entre ces deux etymologies possibles (siue), Cicéron n'établit
aucune relation, n'indique pas s'il faut considérer les radicaux de penus et
de penitus comme hétérogènes (ce que semble suggérer le sens qu'il
donne à l'un et à l'autre mots), ou s'il existe un rapport entre eux.
Penates est formé sur un thème pen-, auquel est ajouté un suffixe
-ates, -atium2; sur ce thème sont formés aussi penus, penes, penitus,
penetro, penetralis, et quelques autres mots moins fréquents. Or, il
semble qu'il existe dans cette famille de mots un flottement sémantique
entre le sens de «à l'intérieur», présent dans penes, penitus, penetro, et

1 De Nat. Deor. II, 68 : « les dieux Pénates, qui tirent leur nom soit du penus (tout ce
dont les hommes se nourrissent s'appelle penus), soit du fait qu'ils résident à l'intérieur;
de là vient que les poètes les appellent aussi penetrates ».
2 A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, 4è éd., Paris,
1960, s.u. penus.
14 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

celui de «nourriture», attesté dans l'usage courant de penus qu'exprime


sans ambiguïté la définition de Cicéron : est . . . omne quo uescuntur
homines penus. Mais il existe un autre emploi du mot penus, dans
l'expression Penus Vestae, qu'il faut rattacher aux mots de la première
série, étant donné la définition qu'en donne Festus : Penus uocatur
locus Intimus in aede Vestae tegetibus saeptus3; locus y indique
clairement un sens spatial. Nous retrouvons donc, dans ce groupe de mots,
les deux sèmes que Cicéron percevait dans le nom des Pénates.
Penates est-il formé sur penes ou sur penus? Penes est considéré
comme un locatif sans désinence de penus4, devenu préposition avec
le sens de «à l'intérieur de» ou «chez»5. E. Norden6, S. Weinstock7,
P. Monteil8 supposent que Penates est construit sur penes. Mais la
morphologie de penus permet d'expliquer Penates comme l'un de ses
dérivés. Nous savons en effet, par les propos qu'Aulu-Gelle prête à un
grammairien, que penus avait une pluralité de formes : Penus quoque,
inquit, uariis generibus dictum et uarie declinatum est. Nam et «hoc
penus» et «haec penus» et «huius peni» et «penoris» ueteres dictaue-
runt9. Plutôt que de considérer que les deux premières formes
correspondent à une variation du genre du mot, et les deux suivantes à une
variation de déclinaison, il faut, croyons-nous, prendre en compte les
quatre formes dans leur ensemble, ce qui donne pour penus la
morphologie suivante : penus, oris (n), penum, i (n), clairement indiqués par
Aulu-Gelle; huìus peni doit sans doute être rapporté à un masculin

3 296 L.
4 A. Walde, Lateinisches Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg, 1906, p. 572;
F. Muller-Izn, Altitalisches Wörterbuch, Göttingen, 1926, p. 330; J. Pokorny,
Indogermanisches Etymologisches Wörterbuch, Berne-Munich, 1948-59, p. 807; Α. Walde- J. Β. Hofmann,
Lateinisches Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg, 1930-35, p. 282; A. Ernout-A. Meillet,
loc. cit. ; ces formes de locatif sans désinence ont été étudiées par M. Leuman-J. B.
Hofmann, Lateinische Grammatik I, 2e éd., Munich, 1977, p. 412.
5 Dans ce dernier sens, penes est à peu près synonyme de apud, mais il est moins
usité que lui (on le trouve cependant chez Cicéron, Horace, Tite-Live); Festus (20 L)
établit une différence d'emploi entre les deux prépositions : apud et penes in hoc differunt,
quod alterum personam cum loco significai, alterum personam et dominum ac potestatem,
quod trahitur a penitus ; cette dernière explication, qui rapproche curieusement potestas
et penitus, se fonde peut-être sur un passage de Varron cité infra p. 15 n. 13.
6 Alt Germanien, Leipzig-Berlin, 1934, p. 98 n. 4.
7 R.E., XIX, 2, s.u. Penates, col. 419.
8 Eléments de phonétique et de morphologie du latin, Paris, 1970, p. 194.
9 N. AU. IV, 1, 2.
ETYMOLOGIE : PENATES ET PENUS 15

penus, i, attesté chez Piaute10. Nous avons, par conséquent, trois


thèmes dans ces formes : un thème sigmatique -os/es dans penus, oris, un
thème en —o/-e dans penus, i, un thème en -u, enfin, dans penus, us; le
mot a donc une morphologie multiple : trois genres et trois
déclinaisons11.
Sur la forme penus, i, Pen-ates a pu être formé par dérivation, à
l'aide du suffixe -aies ajouté au radical sans la voyelle thématique. On
forme de même, à partir d'Arpinum, Arpin-ates. Il est donc inutile de
supposer, comme l'a fait F. Borner12, l'existence d'une forme *penua-
tes, construite à partir du thème en -u, et d'où viendrait Penates13.

II - Sens de penus

Si l'on considère que les Pénates sont les «dieux du penus», il reste
à éclairer la signification de ce mot. Il est employé, nous l'avons vu,
dans deux acception : le Penus Vestae du sanctuaire de la déesse sur le
Forum est un locus, mais partout ailleurs, le mot désigne des provisions
de diverses sortes, et ses dérivés portent soit l'un, soit l'autre de ces
deux sèmes.

10 Pseud., 178 : penus annuus.


11 Le texte d'Aulu-Gelle est corroboré par un passage de Servius {Ad Aen. I, 703) :
Sane dicimus et hic et haec et hoc penus, sed a masculino et a feminino genere quarta est
declinatio, a neutro tertia, quo modo pecus pecoris; unde Horatius «portet frumenta penus-
que»; masculino uero genere Plautus «nisi mihi annus penus datur», feminino Lucilius
posuit, ut «uxori legata penus». Quartae autem declinationis esse Persius docet, ut «in locu-
plete penu defessis pinguibus Vmbris ».
12 Rom und Troia, Baden-Baden, 1951, p. 56.
13 G. Radke a proposé une tout autre hypothèse {Die Götter Altitaliens, Münster,
1965, p. 247-252, reprise dans Die dei Penates und Vesta in Rom, A.N.R.W., Π, 17, 1,
Berlin-New-York, 1981; p. 355-358): pénates viendrait de penes, lui-même dérivé de* potis,
« maître » ; les Pénates seraient les dieux s'occupant de tout ce qui relève de la potestas du
maître de maison. A l'appui de cette hypothèse, G. Radke cite Varron {De L.L. V, 58),
selon qui, dans les Libri Augurales, les Pénates étaient appelés diui qui potes, nom qui
rappelle les θεοί δυνατοί de Samothrace. Cette explication, reprise par D. P. Harmon {The
Family Festivals of Rome, A.N.R.W., II, 16, 2, Berlin-New- York, 1978, p. 1593), ne nous
paraît pas convaincante; on comprend mal la relation établie entre pen- et pot-, et la
signification qu'aurait ici le suffixe -aies, que nous étudions plus loin. Il est également
peu probable qu'il y ait un rapport étymologique entre Penates et les Penestes étrusques
(cf. J. Heurgon, Les Penestes étrusques chez Denys d'Halicarnasse (IX, 5, 4), Latomus, 18,
1959, p. 715).
16 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

1) Penus dans le vocabulaire profane

Envisageons d'abord l'usage courant, profane, de penus. Cicéron


en propose comme définition : omne quo uescuntur homines ; définition
brève, et assez restrictive, car elle implique que le penus ne représente
que ce qui compose l'alimentation, et non pas, plus généralement, les
produits nécessaires à la vie matérielle des hommes.
C'est Aulu-Gelle qui, parmi les auteurs anciens, donne la plus
longue et la plus complète définition du mot penus. Il rapporte une
conversation que sont censés tenir le philosophe Favorinus et un
grammairien un peu hâbleur. Favorinus, interrogeant son interlocuteur sur
la nature du penus, fait remarquer, pour expliquer les difficultés que ce
dernier éprouve à répondre, que le sujet est fort ardu, et que les
spécialistes n'ont pas toujours su donner une définition juste du mot : ne Uli
quidem ueteris iuris magistri, qui sapientes appellati sunt, definisse satis
recte existimantur, quid sit «penus»14. Cette remarque est intéressante à
un double titre : elle indique nettement que, pour les Anciens, la
définition du penus n'était pas claire et était un sujet de controverse entre
juristes15. Par ailleurs, la référence aux ueteres iuris magistri est
significative : si les anciens juristes se sont intéressés à la définition du mot,
c'est qu'elle intervenait dans les questions de propriété et d'héritage; on
est donc fondé à penser que, pour eux, le penus est bien un ensemble
de denrées, dont il s'agira de préciser très exactement la nature, non
une pièce ou un lieu particulier de la maison car on voit mal alors
comment, dans les questions d'héritage, sa destination aurait pu être fixée
indépendamment de celle des autres pièces de la maison. C'est en ce
sens aussi qu'il faut interpréter l'un des plus anciens emplois de penus
que nous connaissions, chez Lucilius :

Legauit quidam uxori mundum omne penumque;


Quid mundum (atque penum)? Quid non? Quis diuidet istuc?16

Penus désigne sans doute ici un ensemble de biens de consomma-

14 N. Att. iv, 1, 16.


15 L'O.L.D. (p. 1326 s.u. penus) distingue un sens «juridique» à l'intérieur de la
rubrique consacrée au sens de «nourriture», «provisions» (sens lb).
16 XVI, 6.
ETYMOLOGIE : PENATES ET PENUS 17

tion, mais le poète suggère que sa délimitation est fluctuante, ce qui


justifie les querelles d'héritage17.
Aulu-Gelle, dans le texte déjà cité, nous offre une image très
significative des débats grammaticaux (nous l'avons vu), mais aussi
philosophiques et juridiques auxquels donne lieu la définition du penus. Débat
philosophique d'abord, à propos de la notion même de définition; à la
question de Favorinus concernant la nature du penus, le grammairien
donne une réponse naïve, qui consiste à énumérer ce qui peut être
qualifié de penus : quis adeo ignorât «penum» esse uinum et triticum et
oleum et lentim et fabam atque huiusce modi cetera18; mais Favorinus
objecte aussitôt que certaines céréales, ou certaines graines (milium et
panicum et glans et hordeum) ne font pas partie du penus,
contrairement à ce que laisse entendre l'expression huiusce modi cetera, et cela
pose le problème logique de la définition19. Favorinus aborde alors la
question sous le seul aspect qui offre une réponse à peu près
satisfaisante, son aspect juridique; encore souligne-t-il que les définitions
qu'ont données du penus les ueteris iuris magistri divergent sur certains
points.
Ces juristes semblent à peu près unanimes sur la personne des
destinataires du penus : il ne peut s'agir que du paterfamilias, ses enfants
et sa familia, à l'exclusion de ceux qui travailleraient pour lui dans une
entreprise20. Toutes les denrées destinées à la vente sont, de même,
exclues du penus selon Q. Mucius Scaevola, pour qui le penus se limite
aux provisions qui peuvent être consommées dans l'année par le
paterfamilias et son entourage proche, à l'exclusion de toutes les denrées
excédant cet usage, qui seront donc vendues21. Cet usage familial, non
mercantile, du penus, est fondamental, et paraît être la pierre de
touche permettant d'admettre ou de refuser à certaines denrées le titre de
penus. C'est ainsi que, selon Masurius Sabinus, la nourriture des ani-

17 Voir F. Charpin, Lucilius, C.U.F., Paris, 1979, Notes complémentaires, p. 249-250.


18 IV, 1, 7.
19 Cf. Aulu-Gelle, Les Nuits Attiques I-IV, éd. de R. Marache, C.U.F., Paris, 1967,
p. 190, n. 1.
20 C'est ainsi qu'il faut comprendre, selon R. Marache (op. cit., p. 191-192 n. 3)
l'expression familiae eius, quae circum eum aut liberos eius est et opus non facit (IV, 1, 17).
21 N. AU., IV, 1, 23 : ex his autem quae pomercalia et usuaria isdem in locis essent esse
ea sola penoris putat (Q. Mucius Scaevola) quae satis sint usu annuo. Sur Q. Mucius
Scaevola, voir Kubier, R.E., XVI, 1, s.u. Mucius, n°22, col. 437-446.
18 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

maux dont le maître se sert peut être considérée comme penus22, par
opposition, sans doute, à celle des bêtes utilisées dans les exploitations
agricoles.
Sur la nature des provisions constituant le penus, les doctrines des
juristes anciens, selon l'exposé qu'en fait Favorinus, paraissent diverger
davantage; d'après Q. Mucius Scaevola, le penus est quod esculentum
aut poculentum est, définition étroite, semblable à celle qu'en donne
Cicéron; au contraire, Catus Aelius et Servius Sulpicius, aux dires de
Favorinus, incluent dans le penus, outre boissons et aliments, des
produits utilisés dans la vie domestique comme l'encens et les bougies
{thus, cereos)23, et certains juristes y comprennent également ce qui
sert à préparer les provisions, comme le bois et le charbon24; dans
cette définition élargie, il faut mettre aussi la nourriture des animaux
utilisés par le maître.
Enfin, la troisième caractéristique des provisions que l'on peut
légitimement désigner du terme de penus, selon Q. Mucius Scaevola cité
par Favorinus, est l'usage différé qui en est fait; le penus ne fait pas
l'objet d'une consommation immédiate, mais est tenu en réserve au
fond de la maison, et il est remarquable qu'un rapport étymologique
implicite soit établi ici entre penus et penitus, renforcé par l'emploi des
mots reconduntur et intus pour caractériser le mode de conservation
propre au penus25; il ne nous paraît pas douteux que l'auteur de cette
définition joue sur les deux sèmes contenus dans le radical pen-.
L'usage à long terme des provisions contenues dans le penus est également
suggéré dans un passage de Perse26, et nettement affirmé par Servius :
inter penus et cellarium hoc interest, quod cellarium est paucorum die-

22 IV, 1,21: etiam quod iumentorum causa apparatum esset quibus dominus uteretur;
sur Masurius Sabinus, voir Steinwenten, R.E., I A2, s.u. Sabinus, n°29, col. 1600-1601.
23 IV, 1, 20. Sur Catus Aelius, voir Klebs, R.E., I, 1, s.u. Aelius n° 58, col. 492-493; sur
Servius Sulpicius, Münzer et Kubier, R.E., IV, Al, s.u. Sulpicius n° 95 (Münzer, col. 851-
857, Kubier, col. 857-860).
24 Ibid.
25 IV, 1, 17 : nam quae ad edendum bibendumque in dies singulos prandii aut cenae
causa paratum, «penus» non sunt; sed ea potius, quae huiusce generis longae usionis gratia
contrahuntur et reconduntur, ex eo, quod non in promptu sint, sed intus et penitus habean-
tur, «penus» dicta est.
26 Sat. Ill, 73-75 :
Bisce nee inuideas quod multa fidelia putet
In locuplete penu defensis pinguibus Vmbris
Et piper et pernae, Marsi monumenta clientis.
ETYMOLOGIE : PENATES ET PENUS 19

rum, penus uero temporis longi27. Nous avons dit plus haut que la
limite de ce long terme était, pour les juristes, une année28.
Dans tous les emplois que nous en avons relevés, penus désigne les
provisions elles-mêmes, non la réserve aux provisions. Le seul cas qui
prête à discussion est sans doute le passage de Perse : in locuplete penu
pourrait en effet désigner une pièce, ou une sorte d'armoire; mais il est
possible aussi de l'interpréter comme signifiant «parmi les provisions»,
«dans les provisions», et nous penchons plutôt pour cette
interprétation, en raison du caractère d'hapax que revêtirait une interprétation
spatiale du mot dans le vocabulaire profane.
Pour désigner le local où l'on conserve les provisions, on emploie
l'expression cella penaria, où la parenté entre penaria et penus est
manifeste. Nous trouvons une mention de la cella penaria, au sens large de
«réserve à provisions», chez Cicéron : itaque ille M. Cato Sapiens cellam
penariam rei publicae nostrae, nutricem plebis Romanae Siciliani nomi-
nabat29. Mais d'autres emplois de l'expression permettent d'en préciser
le sens. Un autre texte de Cicéron établit une distinction entre trois
types de cellae : semper enim boni assiduìque domini cella uinaria,
olearia, etiam penaria referta est30; l'idéal du bon propriétaire est donc
d'avoir trois réserves, parmi lesquelles la cella penaria se définit dans
un système d'opposition aux deux autres. A première vue, on pourrait
penser que les deux premières cellae contiennent les aliments liquides,
la cella penaria les aliments solides, notamment les céréales, comme la
désignation par cette expression de la Sicile, grand fournisseur de
Rome en blé31, invite à le faire. Mais ce passage du Cato Maior, censé
reproduire les paroles de Caton lui-même, doit plutôt être éclairé par
un rapprochement avec quelques lignes du De Agricultural·, patrem
familiae uillam rusticani bene aedificatam habere expedit, cellam olea-
riam, uinariam, dolia multa, uti lubeat caritatem exspectare. Seules sont
mentionnées les cellae contenant l'huile et le vin, réserves qui
permettent au bon propriétaire d'attendre le moment où ces denrées
atteignent leur cours le plus élevé {uti caritatem exspectare lubeat) pour les
mettre en vente; il faudrait donc comprendre que, par opposition, et

27 Ad Aen. I, 703.
28 L'expression penus annuus se trouve aussi chez Plaute (Pseud. 178).
29 Verr. II, 2, 5.
30 Cat. Mal, 56.
31 Cf. M. Finley, La Sicile antique, Paris, 1986, p. 129-130 (trad. J. Carlier).
32 De Agr., 3.
20 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

conformément à la définition de Q. Mucius Scaevola, la cella penarla


renfermait les provisions destinées à l'usage familial.
Plutôt que penus, on disait donc cella penarla pour désigner la
réserve aux provisions33, expression dans laquelle il est clair que
cella donne la référence spatiale, et penarla définit un contenu. Sur la
localisation de cette cella dans la domus romaine classique, c'est Var-
ron qui nous fournit les renseignements les plus précis : circum
cauum aedium, erant uniuscuiusque rei utilitatis causa parietibus dis-
septa : ubi quid conditum esse uolebant, a celando cellam appellarunt;
penariam ubi penus, ubi cubabant, cubiculum, ubi cenabant, cenacu-
lum3A; l'expression cauum aedium désigne sans aucun doute Y atrium,
d'après une indication fournie peu auparavant par Varron35; la cella
penaria était donc l'une des chambres latérales donnant sur l'atrium,
et le penus se trouve ainsi conservé dans la partie la plus ancienne,
la plus centrale de la maison. Mais le texte de Varron donne en outre
de la localisation de la cella penaria dans la maison une justification
intéressante : l'étymologie fantaisiste qui met en rapport cella avec
celare souligne que la réserve aux provisions se trouvait dans un
endroit «caché» de la maison, ce que, d'autre part, exprime aussi
conditum. Il faut d'ailleurs rapprocher l'emploi de ce terme du verbe
reconduntur, que Q. Mucius Scaevola, cité par Aulu-Gelle, utilisait
pour définir le penus.
Signalons, enfin, que des esclaves étaient attachés à
l'approvisionnement de la réserve. Certains, selon Caton cité par Festus, étaient
chargés de porter le penus : penatores qui penus gestanti. Il est
probable qu'il s'agissait de simples exécutants, d'esclaves à qui on confiait la
charge de transporter les provisions dans la cella penaria, et de les en
sortir. C'est là l'unique attestation du mot penator, mais Plaute, pour sa

33 L'expression que l'on trouve chez Vitruve, cum penu cellas (VI, 150), dans la
description de la demeure grecque, ne nous semble pas pouvoir être considérée comme un
terme d'architecture désignant spécifiquement «la réserve aux provisions». Varron
consacre les dernières pages du 1. I des Res Rusticae à la conservation des fruits, mais il
n'y désigne pas comme cella penaria la réserve où on les entreposait.
34 De L. L. V, 162.
35 De L. L. V, 161 : cauum. aedium dictum, qui locus intra parietibus relinquebatur
patulus qui esset ad omnium usum.
36 268 L.
ETYMOLOGIE : PENATES ET PENUS 21

part, cite un procurator peni37, le Pseudolus lui-même, qui, dans ces


fonctions, se présente comme un esclave38.

2) Le Penus Vestae

Sur le Penus Vestae, la source principale de nos renseignements est


Festus : Penus uocatur locus intimus in aede Vestae tegetibus saeptus qui
certis diebus circa Vestalia aperitur39. L'Aedes Vestae est celle du
Forum, contigue à l'Atrium Vestae et à la Regia40. Le témoignage fourni
par ce texte est précieux, car le Penus, selon les indications qu'il donne,
étant délimité par des nattes, matériau périssable, on s'explique la
minceur des données archéologiques à ce sujet; peut-être, comme le
suggère F. Coarelli41, faut-il reconnaître l'emplacement du Penus dans une
cavité de forme trapézoïdale d'un peu plus de 2 mètres de côté, s'ou-
vrant sur le podium, et auquel on ne pouvait accéder que depuis la
cella.
Festus donne une définition spatiale du Penus qui va à l'encontre
des emplois du mot dans le vocabulaire profane, tandis que intimus et
tegetibus, lui-même dérivé de tego «couvrir»42 expriment l'idée d'«
intime», de «profondément caché». D'autre part, l'usage des tegetes pour
former les cloisons doit sans doute être interprété comme une marque
de conservatisme religieux; selon W. Altmann, ce mode de
cloisonnement était le plus ancien, et servait à délimiter les espaces intérieurs
dans la hutte primitive43; Ovide souligne d'ailleurs le caractère
archaïque qu'a toujours conservé l'extérieur de l'édifice, reproduisant de son
temps encore l'aspect qu'il avait «au temps de Numa»44; les cloisons de

37 Pseud. 608 : Condus promus sum, procurator peni.


38 Pseud. 601 : Nunc quidem etiam seruio.
39 296 L; cf. G. Radke, Die dei Penates und Vesta in Rom, p. 358-361.
40 Pour une bibliographie sur YAedes Vestae, voir infra p. 454 n. 1.
41 Roma (Guide archeologiche Laterza), Rome, 1980, p. 82.
42 A. Ernout-A. Meillet, op. cit., s.u. tego.
43 Die Italischen Rundbauten, Berlin, 1906, p. 59; selon l'auteur, ce type de cloison
séparait, dans la maison primitive, la partie réservée aux hommes de celle réservée aux
femmes.
44 Fastes VI, 263-266 :
Hic locus exiguus, qui sustinet atria Vestae
tune er at intonsi regia magna Numae;
forma tarnen templi, quae nunc manet, ante fuisse
dicitur et formae causa probanda subest.
22 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

nattes, à l'intérieur de l'édifice, seraient une autre illustration de cet


archaïsme.
La seconde partie du texte de Festus a trait à l'ouverture du Venus
certains jours de l'année, et au caractère sacré de cette ouverture, lié à
la nature des objets contenus dans le sanctuaire45. Le grammairien
Véranus, cité par Festus, parle d'un penus exterior, où serait conservée
la mûries, saumure préparée par les Vestales en vue de certains
sacrifices46. A. Preuner fait justement remarquer que la notion de penus
exterior ne contredit pas celle que suggère l'expression locus intimus,
comme en témoigne la présence du mot intus47. La mention d'un penus
exterior, impliquant l'existence d'un penus interior (au demeurant
jamais mentionné dans les textes qui nous sont parvenus) suggère qu'il y
avait, en quelque sorte, deux degrés dans le secret : le penus interior
représentait «le saint des saints», où étaient sans doute conservés les
pignora imperii. Il est à noter, d'autre part, qu'aucun texte ne désigne
par le terme de Penus Vestae ni les ingrédients nécessaires aux
sacrifices, ni les sacra populi Romani : conformément à la définition qu'en
donne Festus, le Penus Vestae est un locus.

3) Rapport entre les deux sens de penus. Le thème pen-

Les deux significations du mot penus renvoient, nous l'avons dit, à deux
séries de mots, construits sur le thème pen-, spécialisées l'une dans le
sens de «à l'intérieur de», l'autre de «nourriture»48. Ce sont, d'une
part, les mots formés sur penes, lui-même ancien locatif de penus,
préposition signifiant «à l'intérieur de», «chez»: l'adverbe penitus «à
l'intérieur de, au fond» (cf. funditus, radicitus, stirpitus), parfois employé
comme adjectif dans la langue archaïque et post-classique avec le sens
de «qui se trouve au fond»; penetro «pénétrer», formé sur penitus, d'où
penetralis «secret, retiré», et, tardifs, penetrabilis, penetrano et penetra-
tor; d'autre part, autour du sens de «nourriture, provisions», on a,

45 Voir infra p. 454-470.


46 152 L : mûries est quae est intus in aede Vestae in penu exteriore ; voir C. Koch,
R.E., VIII A2, s.u. Vesta, col. 1730 : les Vestales conservaient aussi dans le Penus les
différents ingrédients sacrés nécessaires aux sacrifices : mola salsa, paille de fève du rituel des
Parilia, sang du Cheval d'Octobre, cendres des veaux morts-nés extraits des vaches
sacrifiées lors des Fordicidia.
47 Hestia-Vesta, Tübingen, 1864, p. 268.
48 A. Ernout-A. Meillet, op. cit., s.u. penus.
ETYMOLOGIE : PENATES ET PENUS 23

construits sur penus, penarius «où l'on range les vivres», et penator
«celui qui est chargé des vivres».
L'existence de deux sèmes pour cet ensemble de mots a conduit
A. Walde à supposer qu'ils sont construits sur deux thèmes49; il
distingue un thème pen-, contraction de deux prépositions, έπί («sur») et en
(«dedans»), donnant une forme epen, puis pen, signifiant à peu près
«tout là-dedans»50; la contraction des deux prépositions serait un fait
isolé, spécifique du latin, et sans correspondant dans d'autres langues;
sur ce thème serait formé le mot penus au sens de «l'intérieur de la
maison», dont Penates serait un dérivé. A. Walde distingue ce penus
d'un mot homophone, signifiant «la réserve aux provisions», et qu'il
conviendrait de mettre en relation avec le lituanien penù, peneti
«nourrir», les messapiens πανία «l'abondance» et πανός = lat. panis; ce
thème pa- se trouverait aussi dans le latin pascor. Ainsi, A. Walde suppose
que seul l'un des deux mots penus serait à l'origine du nom des
Pénates, «dieux de l'intérieur de la maison»51.
Cette hypothèse n'a pas été reprise, et les savants qui ont, après
A. Walde, étudié l'étymologie de ces mots, les rattachent à un thème
unique, pen-, qu'ils rapprochent toutefois d'autres thèmes
indo-européens, mais sans indiquer clairement la relation existant entre ces
différentes familles de mots.
Ainsi, F. Muller-Izn52 considère que tous les mots qui nous
intéressent, penus, penes, penitus, pénates, dérivent d'un seul radical pen-
signifiant «l'intérieur de»: penus désigne l'intérieur de la maison, ou
du temple dans l'expression Penus Vestae, et c'est sur ce dernier mot
qu'est formé, à l'aide du suffixe -ates, pénates «les dieux de l'intérieur
de la maison». Muller-Izn rapproche ce radical de ceux que citait, sans
en tirer de conclusion, Walde, pen-/pon- «travailler», et le lituanien
penù «nourriture», que lui-même met en relation d'une façon assez
curieuse: «travailler pour s'assurer de la nourriture»; malgré cette
série de rapprochements hasardeux, Muller-Izn n'explique pas la
relation sémantique qui existerait entre pen- «à l'intérieur de» et pen-
«travailler pour s'assurer de la nourriture».

49 Op. cit., p. 571 sq.


50 Op. cit., p. 573 : «dabei drinnen, ganz drinnen».
51 La même distinction entre deux mots penus est reprise dans A. Walde-J. Pokorny,
Vergleichendes Wörterbuch der Germanischen Sprachen, Leipzig, 1926, t. II, p. 25.
52 Op. cit., p. 330-331.
24 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

Pour J. Pokorny53, penus, penes, pénates sont formés sur une base
unique pen-, mais le sens premier de cette dernière serait «nourrir»,
«nourriture», et aussi «dépôt de nourriture»; c'est grâce à ces sens
multiples du mot penus que se fait le passage du sens de « nourriture » à
celui d'« intérieur» : il désigne en effet soit «les provisions de bouche»,
soit «l'intérieur de la maison», où la nourriture était conservée; c'est ce
dernier sens que l'on trouve dans le locatif penes «chez», dans
l'adjectif -adverbe penitus «profond, profondément», dans la désignation
comme pénates des «dieux de l'intérieur de la maison». J. Pokorny
rapproche ce thème du lituanien penù «nourriture», et de la base pa-.
J. B. Hoffman54 estime, pour sa part, que sur le radical pen- ont
été formés penus «l'intérieur de la maison», Penates «les dieux de
l'intérieur de la maison», le sème «à l'intérieur de» se trouvant aussi dans
penitus, penetro, etc. . . Ayant mis en doute l'explication donnée par
Walde de ce radical, consistant à voir en lui la contraction de deux
prépositions, Hofmann n'en propose aucune autre, et constate la fragilité
du rapprochement de ce radical avec la racine pen-/pon-
«travailler»55; mais il estime aussi qu'il est bien difficile de refuser, comme
l'avait fait Walde, de considérer que penus «l'intérieur de la maison», et
penus «les provisions de bouche» sont le même mot; en ce denier sens,
penus lui paraît pouvoir être rapproché de la racine de pasco, mais il
constate que la relation entre pen- et pa- n'est pas claire56.
A. Ernout et A. Meillet57 renoncent à rapprocher le thème pen-
d'autres racines indo-européennes, et réussissent à rendre compte de la
relation entre les deux sens de penus, qui ne constitue pour eux qu'un
seul mot, par une explication historique : à l'origine, le mot aurait
signifié «la partie intérieure de la maison», sens qu'il a conservé dans le
domaine religieux pour le Penus Vestae; mais à l'époque classique, il
signifie «les provisions de bouche», cachées à l'intérieur de la maison,
ce qui apparaît très clairement, notent-ils, dans la définition de Cicé-
ron : est ... quo uescuntur homines penus; les Pénates seraient «les
dieux dont les images sont conservées à l'intérieur de la maison»58;

53 Op. cit., p. 807.


54 Op. cit., p. 282.
55 Op. cit., p. 281.
56 Op. cit., p. 283.
57 hoc. cit.
58 Cette définition semble appuyée par un passage de Festus : penetralia sunt Pena-
tium deorum sacrarla (231 L). Mais un texte de Servius {Ad Aen II, 484 : penetralia id est
ETYMOLOGIE : PENATES ET PENUS 25

dans penitus, penetralis, etc. . ., on trouverait la signification de


«profond» originellement présente dans penus. Toutefois, ajoutent A. Er-
nout et A. Meillet, aucun rapprochement sûr n'est permis entre cette
famille de mots et les racines pa- «nourrir», et pen- «travailler
péniblement». Nous ne sommes pas très éloignés, dans cette hypothèse, de
l'explication proposée par Muller-Izn, mais, à l'encontre du savant
allemand, A. Ernout et A. Meillet renoncent à établir une explication
étymologique de ce groupe de mots, «malgré son aspect indo-européen».
Si, refusant l'hypothèse selon laquelle deux thèmes de sens
différents auraient servi de base à la formation des mots qui nous occupent,
et admettant qu'ils ont été formés sur un thème unique, nous
cherchons à rendre compte de leurs différents sens, nous sommes conduit à
nous demander quelle est la signification originelle du thème pen-.
Deux hypothèses sont alors possibles : ou bien le sens premier est
«nourriture» (c'était la suggestion de Pokorny), et le sens de «à
l'intérieur de» en est dérivé, ou bien (comme le pensent A. Ernout et A.
Meillet), c'est le phénomène contraire qui s'est produit.
Examinons la première de ces hypothèses. Du sens de «nourriture»
qu'a penus dans le vocabulaire profane, on passerait à celui de
«profondément caché à l'intérieur de»; c'est l'évolution sémantique
suggérée par l'O.L.D.59, qui donnerait à un substantif désignant d'abord une
entité, «les provisions», le sens de «lieu où se trouve cette entité,
«réserve aux provisions», d'où «lieu retiré, lieu caché au fond du bâtiment».
Une telle hypothèse présente des difficultés pour expliquer l'usage de
l'expression Penus Vestae : d'une part, cette réserve ne contient pas que
des provisions destinées aux sacrifices, mais aussi les sacra du peuple
romain60, et il faudrait alors considérer que le Penus n'était pas
originellement destiné à les renfermer, ce qui reste indémontrable; d'autre
part, les objets enfermés dans cette «réserve» ne sont jamais, nous
l'avons vu, désignés du terme de penus.
Considérons à présent l'autre hypothèse : le sens primitif de penus
serait «la partie intérieure de la maison», puis le mot aurait désigné «la
réserve aux provisions», qui occupait cet emplacement, et enfin «les

domorum secreta, dicta penetralia aut ab eo quod est penitus, aut a penatibus) semble
considérer que penitus et pénates ne sont pas construits sur le même radical; voir infra
p. 29 sq.
59 P. 1326, s.u. penus.
60 Ovide, Fastes VI, 450; Liv., V, 40; Plut., Cam., 20; voir infra p. 454 sq.
26 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

provisions qui y étaient conservées». Il y aurait eu, comme dans la


première hypothèse, un glissement sémantique, mais en sens inverse : un
mot désignant par son caractère essentiel («caché, profond») le lieu où
se trouve une entité (les provisions) aurait fini par désigner cette entité
elle-même. On pourrait d'ailleurs rapprocher cette évolution de celle
du sens d'un mot comme sinus, désignant d'abord «le pli de la toge
situé sous la poitrine», puis «la poitrine», et enfin «les sentiments»,
dont la poitrine est le siège supposé61. De même, et dans un registre
sémantique plus proche de celui de penus, le substantif français
«cave», qui désigne, par un mot exprimant sa localisation dans la
maison, «toute espèce de réduit souterrain», puis «une construction sous
terre destinée à loger le vin et autres provisions», a fini par désigner,
par extension, «les vins mêmes qu'on a en cave»62. Dans les mots
formés sur la base pen-, le premier sème, celui de «profond», ou «à
l'intérieur de», se serait maintenu dans les formations penes, penitus, pene-
tralis, etc., et dans l'expression Penus Vestae, où il faudrait voir la
fixation, dans un terme de la langue religieuse, d'un sens que le
vocabulaire profane a perdu. Comme les cloisons de nattes qui le délimitaient,
comme l'aspect extérieur du bâtiment qui l'abritait, le Penus Vestae, par
son nom même, serait un vestige de l'époque archaïque.
Si l'on admet cette hypothèse, comment expliquer que penus, au
sens de «partie intérieure de la maison, réserve aux provisions», semble
avoir complètement disparu du vocabulaire profane? Nous avons vu
qu'à l'époque de Caton, la réserve aux provisions est appelée cella
penarla. Qu'en est-il pour l'habitat primitif? Dans ce qui a été retrouvé des
huttes du Palatin, par exemple, rien ne peut être identifié comme une
réserve aux provisions63. Il est d'ailleurs peu probable que, dans ces
cabanes de taille modeste, le penus ait constitué une pièce à part, et il
faut plutôt se le représenter comme une sorte de fosse creusée dans le
sol, comparable à la cavité trapézoïdale dans laquelle F. Coarelli croit
pouvoir reconnaître le Penus Vestae64. On peut penser, enfin, que si le

61 O.L.D., p. 1771, s.w. sinus, sens la et b, et là.


62 P. E. Littré, Dictionnaire de la langue française, s.u. cave.
63 S. M. Puglisi, Gli abitatori primitivi del Palatino attraverso le testimonianze archeo-
logiche e le nuove indagine sratigrafiche sul Germalo, Mon. Line, XLI, 1951, p. 1-98; P.
Romanelli, Certezze e ipotesi sulle origini di Roma, Stud Rom, 13, 2, 1965, p. 4-18 (notamment
tables I et II).
64 II n'est pas du tout certain que l'on puisse identifier comme une «réserve aux
provisions» la fosse de 1,50 m de profondeur que l'on a trouvé sur le flanc d'une des cabanes
ETYMOLOGIE : PENATES ET PENUS 27

mot penus ne désigne jamais «la partie intérieure de la maison» dans


les textes littéraires, c'est que l'évolution de l'architecture domestique a
rendu sans objet son emploi, comme pourrait le faire penser le terme
de cella penaria, dont nous avons déjà relevé l'emploi; à mesure que la
maison s'agrandit, les pièces se multiplient et se spécialisent dans tel ou
tel usage bien défini. Le mot penus, qui n'aurait en fait jamais désigné à
proprement parler une pièce de la maison, mais une réserve
souterraine, n'aurait plus alors eu d'emploi que pour exprimer ce que contenait
la cella penarla, avec laquelle son rapport étymologique devait être
senti comme évident.
F. Borner a proposé à ce problème une solution originale65. Selon
lui, le penus, dont le sens premier est «réserve aux provisions», était
originellement un édifice distinct de la maison, un silo de forme ronde.
Cette forme se retrouve, note-il, dans le plan de YAedes Vestae - dont
d'autres savants ont donné une tout autre interprétation66 -, ce qui n'a
rien de surprenant puisque cet édifice contient le Penus Vestae, celui de
la cité. La situation de cette construction ronde, distincte de la Regia,
maison du roi, mais néanmoins proche d'elle, est sans doute analogue,
pense F. Borner, à celle de la maison primitive et de son penus, type
d'architecture privée dont le savant allemand estime qu'il est
particulièrement bien représenté dans les Monts Albains, proches de Rome, d'où
il tire son origine. Mais F. Borner va plus loin : ces magasins à
provisions (penora) ont donné leur forme, non seulement, dans la vie
religieuse officielle, au sanctuaire de Vesta sur le Forum, mais aussi, dans
la vie privée, aux urnes funéraires, rondes également. Tandis que la
forme de ces urnes, généralement désignées par les archéologues du
terme d'« urnes-cabanes», a été interprétée comme la reproduction à

du Palatin; S. M. Puglisi (op. cit., P. 66) émet avec prudence l'hypothèse selon laquelle ce
serait une carrière. Si on admet que le penus ait pu être une réserve souterraine, sa
fonction serait alors en partie celle du mundus, et W. Warde-Fowler (Mundus patet, JRS, 2,
1912, p. 52 sq) a proposé de voir dans le mundus non pas une fosse mettant en rapport
les vivants et les morts, mais le penus de la cité. Sur le mundus, voir F. Coarelli, Ara
Saturni, Mundus, Senaculum. La parte occidentale del Foro in età arcaica, DArch, 9-10,
1976-77, p. 346 sq; A. Magdelain, Le Pomerium archaïque et le mundus, REL, 54, 1977,
p. 71-109; A. Piganiol, Recherches sur les Jeux Romains, Strasbourg, 1923, p. 1-14.
65 Rom und Troia, p. 95-96.
66 Notamment G. Dumézil (La religion romaine archaïque, 2e éd., Paris, 1974, p. 322-
326), pour qui cette forme est l'expression du caractère terrestre de Vesta, qui règne dans
un espace non orienté et non inauguré, par opposition aux dieux célestes, dont les templa
sont définis par les quatre directions du ciel.
28 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

échelle réduite des huttes primitives67 rondes, ovales ou carrées avec


des angles arrondis, F. Borner, reprenant une hypothèse déjà avancée
par Oelmann68, rejette cette interprétation pour voir dans ces objets
des «urnes-garde-manger» («Speicherurne»); ainsi, ajoute-il -, les
rapports entre les vivants et les morts sont plus étroits encore, l'urne à
provisions appartenant elle-même au domaine de la vie, comme tous
les objets découverts dans ces urnes ou auprès d'elles : ustensiles
d'argile, armes, lampes; il arrive également, dit F. Borner, que l'urne ne
contienne pas de cendres, mais simplement ces ustensiles, ces
«suppléments de la tombe», comme il les appelle.
Cette thèse originale présente des difficultés, fort justement
relevées par P. Boyancé69. Nous voudrions ajouter ici quelques remarques
pour ce qui concerne directement notre propos. Tout d'abord, F.
Borner assimile et confond l'ensemble de la construction de l'Aedes Vestae,
et le Penus Vestae proprement dit; la forme ronde de la première ne
préjuge en rien de ce qu'était celle du Penus (nous avons vu qu'une
hypothèse archéologique lui donnait une forme trapézoïdale plutôt que
circulaire); il est dès lors difficile de penser que le modèle architectural
du Penus Vestae, c'est-à-dire du penus public, était celui du grenier à
provisions rond de la maison privée. En second lieu, admettre que le
penus, «réserve aux provisions», était à l'origine un édifice distinct de
la maison paraît incompatible avec le sens du thème pen- dans penes,
penitus, penetro, etc. . . : si le penus a d'abord été une construction
indépendante de la maison, aucune métonymie, aucune évolution
sémantique, ne peut expliquer qu'il se rattache à une famille de mots dont le
sens est «à l'intérieur».
C'est donc la seconde hypothèse, donnant comme premier sens à
penus «lieu le plus profond de la maison», puis de «réserve aux
provisions», d'où viendrait celui de «provisions», qui nous paraît la plus
probable. Cette hypothèse, qui considère le sens spatial comme originel70,

67 Cf. F. Cumont, Lux Perpetua, Paris, 1949, p. 15 : «Fréquemment, l'urne funéraire


elle-même reproduit plus ou moins exactement l'apparence de la hutte où s'abritaient les
vivants»; voir aussi W. Altmann, op. cit., p. 14 et 59.
68 Bonner Iahrbücher, 134, 1929, p. 1 sq.
69 Les Pénates et l'ancienne religion romaine, REA, 54, 1952, p. 109-115 (compte
rendu de l'ouvrage de F. Borner, Rom und Troia) ; voir aussi le compte rendu de J. Heurgon,
in Latomus, 11, 1952, p. 231-233.
70 Pour R. H. Klausen (Aeneas und die Penaten, Hambourg-Gotha, 1839-40, p. 636-
637), le sens de cette famille de mots n'est pas «à l'intérieur» au simple sens spatial, mais
ETYMOLOGIE : PENATES ET PENUS 29

et fait donc des Pénates les «dieux de la partie intérieure de la maison»,


nous semble d'ailleurs confirmée, nous allons le voir, par la présence,
dans le nom des dieux, du suffixe -aies.

III - Le suffixe -ates

Le suffixe -as, -atis est défini par A. Ernout71 comme l'un des
«suffixes de dérivation, marquant la provenance ou l'appartenance, et
qui servent à former des ethniques», à côté de -no- (-ano-, -ino-,
-uno-), -ensis (-esis, iensis); A. Ernout note qu'il est moins usité que les
deux autres, et distingue trois catégories de mots dans lesquelles il
apparaît : ce sont d'abord les adjectifs dérivés de thèmes pronominaux,
cuias, «de quel pays», nostras, «de notre pays», uestras «de votre pays»,
et «d'autres dérivés» : Infernas et Supernas désignant la mer Adriatique
et la mer Tyrrhénienne, summas et infumas, ou infimas, «gens de la
plus haute ou de la plus basse qualité», optimates «les hommes du
meilleur rang» (dans ces derniers mots, selon A. Ernout, le sens local s'atté-
nuant pour faire place à un «sens moral»), Primas et Magnates «du
premier rang» et «les Grands» (formes tardives du latin d'église). A.
Ernout range dans cette série Pénates, où «penas est dérivé correctement
d'un thème pen- figurant dans penes, penitus, penus»72; une autre
catégorie, beaucoup mieux représentée que la première, est celle des
noms gentilices, indiquant l'identité des individus, en particulier des
affranchis, par un nom dérivé de celui de leur ville d'origine73. Ces
anthroponymes, cependant, ne sont qu'une extension d'un type de for-

de l'intérieur «dans la mesure où il est le cœur et le centre vital de tout»; penes nos est
voudrait dire non pas «il se trouve dans notre maison», mais «il est associé à la maison».
Cette valeur affective nous paraît certaine (cf. infra p. 51 sq.) pour certains emplois
métonymiques de Penates, plus contestable pour les autres mots formés sur le thème pen-.
71 Le suffixe en-as, -atis, in Philologica III, Paris, 1965, p. 29. P. Monteil {op. cit.,
p. 194) note que ce suffixe, dérivé de thèmes en -a- du type Antemna-tes, a été utilisé, par
extension, dans d'autres thèmes, du type Arpin-ates.
72 Op. cit. p. 32; le mot, comme un certain nombre d'autres présentant ce suffixe,
n'est employé qu'au pluriel, malgré la possibilité morphologique d'un singulier* Penas
ou* Penatis, relevée par le jurisconsulte Antistius Labeo cité par Festus (298 L) : Penatis
singulariter Labeo Antistius posse dici putat qui pturaliter Penates dicantur; cum patiatur
proportio etiam dici, ut optimas, primas, Antias.
73 Ce procédé a été relevé par Varron, De L.L. VIII, 83 (cité par A. Ernout, op. cit.,
p. 33).
30 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

mation d'ethniques en -as, atis (comme Antias, Arpinas. . .), dont Pline,
au livre III de son Histoire Naturelle, nous fournit une longue liste : on
les rencontre dans le Bruttium, en Calabre, Apulie, Lucanie, Campanie,
dans le Latium et le Samnium, en Ombrie, en Ligurie, et dans la
Celtique.
Ce tableau des emplois du suffixe -as, -atis nous donne une
première indication sur le sens qu'il est préférable de considérer comme
originel dans le thème pen-. Dans tous ses emplois, le suffixe -as
s'ajoute à une base à sens spatial, ce qui nous invite à donner à pen-,
dans la formation Penates, le sens de «la partie la plus retirée de la
maison». D'autre part, le suffixe -as, -atis exprime lui-même
l'origine74, et on ne peut guère songer à l'associer à un mot ne désignant pas
un lieu. Le sens de Penates est donc «ceux de l'intérieur de la maison»
ou «ceux de la réserve aux provisions», et non «ceux qui s'occupent des
provisions»; le suffixe -as n'entre pas dans la formation des noms
d'agent, et ce serait penatores, attesté, selon Festus, chez Caton, qui cor-

74 Seuls deux mots présentant ce suffixe ne semblent pas exprimer l'origine; c'est
anas, attesté chez Paulus-Festus (26 L : anatem dicebant morbum anuum),
«incompréhensible» pour M. Leuman-J. B. Hofmann {op. cit., p. 233), «forme suspecte» ou
«imagination de grammairien» pour A. Ernout {op. cit., p. 32); l'autre est sanates, défini par
Paulus-Festus (475 L : Sanates dicti sunt, qui supra infraque Romam habitauerunt. Quod
nomen ideo his est inditum, quia, cum defecissent a Romanis, breui post in amicitiam,
quasi sanata mente, redierunt). S'agit-il du nom d'un peuple voisin de Rome, comme
supra infraque Romam pourrait le faire penser? Festus, en tout cas, ne met pas le mot
Sanates en rapport avec un nom de ville, mais en donne une étymologie évidemment
fantaisiste {sanata mente). Le témoignage d'Aulu-Gelle est assez sensiblement différent; un
jurisconsulte rapporte aux «réglementations archaïques des Douze Tables» les notions
juridiques suivantes {N. Att. XVI, 10) : proletarii et assidui et sanates et uades et subuades
et uiginti quinque asses et taliones furtorumque quaestio cum lance et lido. Il est clair que
les trois premiers termes font allusion à des catégories sociales, mais seules les deux
premières sont connues par ailleurs; M. Leuman et J.B.Hofmann {loc. cit.) y voient une
confusion avec sanatus; on trouve chez Pline la forme Manates, que M. Lejeune
{Problèmes de philologie vénète I-VI, RPh, 25, 1951, p. 222-223) attribue à une lecture fautive
d'une inscription du Ve siècle, «probablement apposée au lieu des réunions de la Ligue
latine»; selon ce même savant, Sanates a pour origine un mot vénète, l'ethnique Sainatis,
devenu en Vénétie une épithète divine, et, dans le Latium, l'ethnique Sanates. A. Ernout
{op. cit. p. 33) admet l'hypothèse d'un nom de peuplade. Il faut sans doute écarter,
comme le fait S. Weinstock {op. cit., col. 418) la suggestion de Norden {loc. cit.) selon laquelle
Penates désignerait à l'origine une classe sociale tôt disparue, ou les dieux de cette classe
sociale. P. Monteil {op. cit. p. 194) considère que les mots de la série optimates, summates,
infimates ont fini par désigner des classes sociales.
ETYMOLOGIE : PENATES ET PENUS 31

respondrait à ce dernier sens75. Il faut remarquer, toutefois, que


Penates représente un type de formation isolé dans le groupe des dérivés
en -as. En effet, les mots appartenant au premier groupe défini par
A. Ernout sont formés sur des thèmes pronominaux, ou des radicaux
servant à la formation d'autres adjectifs {infernas/inferus, supernas/su-
perus, etc. . .). A cet égard, et bien qu'A. Ernout le rattache à ce groupe,
Penates, s'il est, comme nous le pensons, formé sur penus, se
rattacherait plutôt, par son type de formation (substantif désignant un nom de
lieu + suffixe -as), au groupe ethnique (Arpinas), à cette différence près
que penus n'est pas un nom propre.
On peut se demander, à ce point de l'enquête, quelle est la
formation la plus ancienne, celle des noms ethniques ou celle des adjectifs du
type nostras. Cette dernière ne se rencontre qu'en latin, et elle est très
souvent attestée chez Plaute, et une fois dans un fragment d'Ennius76;
les ethniques se trouvent, nous l'avons vu, en latin, mais aussi dans
d'autres langues italiques, ainsi qu'en étrusque et en gaulois77. En
raison de l'ancienneté attestée de la formation de type nostras en latin,
E. Seyfried78 note qu'on pourrait considérer cette dernière comme
l'origine du développement du suffixe -as dans les noms d'ethniques,
italiques et non italiques, dont l'emploi se serait donc étendu à partir
du Latium. Contre une telle hypothèse, il formule à juste titre
l'objection suivante : étant donné que la plus grande partie des noms
d'ethniques en -as que nous connaissons n'apparaissent pas dans le Latium, il
y a quelque invraisemblance à supposer que le suffixe est originaire de
cette région. Aussi E. Seyfried, comme M. Leuman et J. B. Hofmann79,
conclut-il au caractère primaire du suffixe dans les noms ethniques,
son utilisation dans les mots du type nostras n'étant qu'une extension
de cet emploi.

75 268 L : Penatores qui penus gestant. Cato aduersus M. Acilium quarta : postquam
na[ti]uitas e nauibus eduxi, non ex militions atque nantis piscatores et penatores feci. Peut-
être faut-il voir, dans cet unique emploi attesté de penatores, une création μη peu
artificielle, appelée par piscatores (cf. S. Weinstock, op. cit., col. 419); mais l'emploi du suffixe
reste, néanmoins, significatif.
76 Cf. A. Ernout, op. cit., p. 31-32.
77 Cf. A. Ernout, op. cit., p. 34-54; pour l'osco-ombrien, voir R. von Planta,
Grammatik der Oskisch-Umbrischen Dialekte, 2e éd., Berlin-New- York, 1973, t. II, p. 51-52; pour
l'étrusque, W. Schulze, Zur Geschichte Lateinischer Eigennamen, 2e éd., Berlin-Zurich-
Dublin, 1966, p. 529.
78 Die Ethnike des alten Italiens, Zurich, 1951, p. 114.
79 hoc. cit.
32 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

II est donc intéressant de connaître la répartition géographique du


suffixe -as, -atis dans les noms ethniques, et d'essayer d'en tirer des
conclusions sur l'origine de cette formation. E. Seyfried a établi un
classement de ces appellatifs d'après leur provenance géographique80,
qui fait apparaître que, si la formation en -ates est présente dans
l'ensemble du domaine italique, en Etrurie, et en Gaule, c'est dans le
Latium (18 exemples, dont 5 seulement se trouvent chez les Latins
proprement dits), mais surtout en Ligurie (23 exemples), et en Ombrie (28
exemples), qu'elle est le mieux représentée. Quelles conclusions peut-on
tirer de ces constatations? J. Wackernagel81 fait remarquer que, pour
le choix des suffixes d'ethniques, les considérations euphoniques
semblent avoir joué un rôle très important : par exemple, pour former des
ethniques sur des noms de ville dont le radical se termine et -n- ou
-nn-, les suffixes -anus et -inus ne peuvent pas être utilisés, et on leur
préfère -ensis ou -as. De telles remarques rendent difficile de tirer des
conclusions de la répartition géographique des différents suffixes.
Pourtant, E. Seyfried82 a essayé de trouver une justification à l'emploi
du suffixe -as dans les cas où les raisons euphoniques ne s'imposent
pas. Il pense qu'il faut y voir un emprunt des peuples italiques à un
pays étranger; à cause de la fréquence de son apparition dans le sud de
la Gaule, il conclut à l'origine ligure, et peut-être même celte, de ce type
de formation83, à laquelle il trouve des parallèles dans le domaine illy-
rien; l'origine très ancienne du peuple ligure lui semble une preuve
supplémentaire du bien-fondé de cette hypothèse. J. Wackernagel, en
revanche, reste beaucoup plus réservé sur les origines du suffixe -as,
dont il se contente de mentionner, à la suite de R. von Planta, la
présence très fréquente en osco-ombrien; mais il rappelle, d'autre part, que le
latin semble avoir très bien accueilli les suffixes des autres langues
italiques, ce qui tendrait à faire penser qu'il donne au suffixe -as une
origine osco-ombrienne, le suffixe d'ethnique spécifiquement latin étant, à
ses yeux, -ensis. W. Schulze84 attribue à l'influence étrusque la forma-

80 Op. cit., p. 104.


81 Zu den Lateinischen Ethnika, ALL, 14, 1906, p. 9.
82 Op. cit., p. 113.
83 Op. cit., p. 115. Cette thèse avait déjà été soutenue par E. Norden (op. cit., p. 100-
102), pour qui ce suffixe ethnique est spécifique du sud de la Gaule, et d'origine ligure ou
celte. C. Jullian (cité par A. Ernout (op. cit., p. 51 n. 1) assignait à ce suffixe une origine
ligure.
84 Op. cit., p. 529.
ETYMOLOGIE : PENATES ET PENUS 33

tion des ethniques en -as, à partir du modèle observé dans les


cognomina présentant ce suffixe, majoritairement d'origine étrusque; à quoi
A. Ernout objecte à juste titre qu'«il est impossible que la domination
étrusque ait été assez puissante et d'assez longue durée pour couvrir un
aussi vaste domaine»85, et que des ethniques en -as se trouvent dans
des régions qui n'ont jamais subi l'influence étrusque. Il conclut donc
qu'il faut raisonnablement supposer une commune origine au suffixe
-as en Italie et en Gaule, preuve possible, parmi d'autres, de la parenté
des langues parlées dans ces pays.
D'un côté, donc, on a un suffixe d'ethniques utilisé largement dans
un vaste domaine géographique, de l'autre, un emploi, dérivé du
premier, de ce suffixe exprimant l'origine, dans un petit nombre de mots,
anciennement attestés, et spécifiquement latins86, parmi lesquels il faut
ranger Penates.
L'étude du suffixe -ates nous a donc permis de préciser à la fois la
fonction propre des Pénates et le sens qu'il convient de donner à la
base pen- dans cet appellatif : elle désigne un lieu, le penus au sens de
«la partie la plus retirée de la maison»; les Pénates, de par leur nom,
sont les dieux d'un lieu, sont attachés à ce lieu, qu'ils protègent. Mais
leur dénomination exprime aussi leur ancienneté et leur origine
proprement latine, deux caractéristiques essentielles de leur personnalité.

85 Op. cit., p. 53.


86 Cf. M. Leuman-J. B. Hofmann, op. cit., p. 233. Il est à remarquer que le grec, par
exemple, ne peut rendre exactement Penates, pour lequel Denys d'Halicarnasse (I, 67, 3)
propose une série de synonymes.
CHAPITRE II

L'USAGE DU MOT PENATES


DANS LA LITTÉRATURE CLASSIQUE

Le présent chapitre se propose d'examiner l'utilisation qu'a faite


du mot Penates la littérature de l'époque classique. Nous laisserons
provisoirement de côté tous les problèmes posés par l'étymologie et
l'histoire du mot, pour essayer de voir, très concrètement, à quelle réalité
correspondaient les Pénates pour les écrivains latins.
Il n'est pas douteux en effet qu'il s'agisse d'une réalité familière,
car, à de très rares exceptions près, parmi lesquelles l'exemple de Cicé-
ron déjà cité1, les écrivains ne donnent la plupart du temps aucune
définition religieuse du mot : ils l'emploient sans en expliquer le sens,
comme s'ils se référaient à une réalité quotidienne dont la banalité
dispense d'explications. Il nous a paru intéressant de voir quels écrivains
ont employé le mot Penates, avec quelle fréquence ils l'ont fait, et
d'examiner dans quel contexte et en quelles circonstances le mot
apparaissait.

I - Penates et di pénates

Le premier problème qui retiendra notre attention est


morphologique : faut-il dire di pénates ou pénates seul? Pour S. Weinstock2, la
réponse n'est pas douteuse : «Dans la langue correcte», écrit-il, «on dit
toujours di pénates». Cette affirmation nous paraît éminemment
contestable. En effet, sur quelque deux cents emplois du mot chez des
écrivains allant de Naevius à Suétone, nous n'avons rencontré que 27
emplois de di à côté de pénates. Le reste du temps, pénates est employé

1 De Nat. Deor., II, 68; cf. supra p. 13.


2 R.E. XIX, 1, s.u. Penates col. 418.
36 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

seul. Mais, après ces constatations brutes, nous devons examiner de


plus près le détail des faits. Il apparaît tout d'abord un clivage entre la
prose et la poésie : sur les 27 exemples relevés d'emploi de l'expression
di pénates, quatre seulement se trouvent chez des poètes, Plaute et
Térence3. Il semble que l'expression di pénates soit, sinon la plus
correcte, du moins la plus fréquente : Cicéron la préfère à pénates seul
(deux fois sur trois environ) et le seul exemple du mot chez César est
également di pénates; de même, Salluste écrit toujours di pénates. Il
semble donc qu'il s'agisse là d'une préférence assez sensible chez les
prosateurs de l'époque républicaine. En revanche, Tite-Live, chez qui
l'on rencontre 27 fois le mot pénates, ne l'accompagne que 5 fois de di;
on ne peut pas saisir une évolution à travers l'œuvre de Tite-Live, car
une étude livre par livre des emplois de di pénates en face de pénates
montre que la première expression, de beaucoup la moins fréquente,
apparaît dans les livres I, V, VII et XXX, une fois par livre. Tacite écrit
systématiquement pénates seul. Il semble donc bien qu'il y ait. une
évolution chez les prosateurs, pénates se substituant peu à peu à di pénates,
pour des raisons de simplification évidentes4. Mais il faut ici se garder
de vouloir présenter une évolution trop systématique et trop
schématique : le premier emploi de pénates se trouve, dès les débuts de la
littérature latine, chez Naevius :
Postquam auem aspexit in tempio Anchisa
Sacra in mensa penatium ordine ponuntur5,

où nous constatons que pénates est employé sans di ; au IIe siècle, on


trouve chez l'annaliste Cassius Hemina, cité par Servius6 la mention
des pénates; cependant, l'état du texte de Servius, s'il permet de lire à
peu près certainement penatibus, ne nous fait pas savoir si le mot était
accompagné ou non de dis. Ces remarques nous invitent à une pruden-

3 Mere, 834 et 836; Phorm., 311. Chez ces deux écrivains, du reste, qui ne disent
jamais pénates seul, l'emploi de la formule di pénates s'explique très bien par la facilité
métrique qu'elle offre dans les vers iambiques.
4 Cette évolution a pu être facilitée par le fait que Penates, étant une formation
originellement adjective, comme nostras, a peut-être suivi, dans son emploi comme
substantif, l'usage des ethniques du type Arpinates (cf. supra p. 31).
5 Fr. 3; cf. commentaire de M. Barchiesi (Nevio epico, Padoue, 1962, p. 368 sq.) pour
la construction assez délicate du génitif penatium. Voir aussi infra p. 47.
6 Ad Aen. II, 717 : (Aenean cum dis pena)tibus.
L'USAGE DU MOT PENATES DANS LA LITTÉRATURE CLASSIQUE 37

te réserve dans tout jugement sur la prétendue incorrection de pénates,


comme sur l'évolution de di pénates à pénates.
Il existe une autre raison à la préférence donnée à pénates sur di
pénates : c'est que pénates, s'il désigne à proprement parler des dieux,
est très souvent aussi employé dans un sens métonymique, pour
désigner le foyer, la maison, la patrie. On peut dès lors concevoir que,
dans une acception métonymique, la présence de di à côté de pénates
soit gênante. Examinons-en quelques exemples : chez Lucain, nous
lisons :
. . . altos fecunda pénates
impletura datur1.

La métonymie est ici très nette. Penates désigne évidemment, non


les dieux du penus, mais la maison. De même, nous trouvons chez
Ovide :
Rex ibi Lyncus erat; régis subit Me pénates*.

Dans cet exemple encore, pénates est employé seul au sens


métonymique de «maison», ou plus précisément, puisqu'il s'agit d'un roi, de
«palais royal». On trouve des exemples analogues en prose9. Il semble
donc bien que, dans certains cas, l'utilisation de pénates dans un sens
métonymique, qui lui ôte son sens originel de «dieux du foyer», rende
difficile la présence du substantif di à côté de l'adjectif pénates. Mais
on ne saurait faire de cette constatation, qui se vérifie en effet pour un
certain nombre d'exemples, une règle imperative, car on pourrait
trouver des cas nombreux où pénates a le sens précis de «dieux» et n'est pas
accompagné de di, comme dans l'exemple de Naevius que nous avons
mentionné plus haut; il est des cas où le sens métonymique n'exclut pas
la présence de di. On ne saurait donc voir dans l'opposition entre
l'utilisation du mot pénates dans son sens propre et son acception
métonymique une explication systématique de l'alternance di pénates /pénates.
Nous avons mené notre étude à partir d'un corpus de deux cents
emplois de pénates, dans une période allant de Plaute à Suétone. Exa-

7 II, 333-34 : «Elle est donnée pour remplir par sa fécondité d'autres pénates» (trad.
A. Bourgery, C.U.F., Paris, 1947).
8 Met. V, 660 : « Là régnait Lyncus. Il (= Triptolème) entre dans les Pénates de ce
roi» (trad. G. Lafaye, C.U.F., Paris, 1961).
9 Par exemple, Tacite, Ann., XIII, 4, 3.
38 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

minons tout d'abord la fréquence des emplois du mot chez ces auteurs :
y a-t-il une évolution historique de la fréquence d'emploi de pénates?
Peut-on dire qu'il apparaît plus volontiers chez certaines familles
d'esprit, dans certains genres littéraires, en poésie ou en prose?
L'étude de notre corpus ne nous permet guère de dire que le mot a
été plus employé à telle époque qu'à telle autre. On en trouve très peu
d'exemples avant l'époque cicéronienne (un exemple chez Naevius, un
chez Cassius Hemina, cité par Servius, deux exemples chez Plaute et un
exemple chez Térence seulement), beaucoup chez Cicéron (15), 24 chez
Ovide et Virgile, 27 chez Tite-Live, 16 chez Sénèque, 14 chez Lucain, 22
chez Tacite, et 43 chez Stace. Encore faut-il tenir compte, pour
apprécier ces chiffres, du fait que les œuvres de ces écrivains sont
inégalement importantes et que la plus grande partie de l'œuvre de Naevius ou
de Cassius Hemina, par exemple, est perdue pour nous. Il est assez
difficile, donc, de voir une évolution historique de la fréquence d'emploi
du mot. On peut constater sa rareté chez Plaute et sa fréquence chez
Cicéron, mais doit-on dire pour autant qu'il était plus fréquemment
employé à l'époque cicéronienne? César ne l'utilise qu'une fois - dans
sa correspondance -, Catulle une fois aussi, et Lucrèce jamais. De la
même façon, pour la période impériale que nous avons considérée, Sta-
ce emploie le mot 43 fois, Apulée, jamais.
Il nous a semblé en revanche que, plus qu'à des différences de
mentalité dues à telle ou telle époque, la plus ou moins grande
fréquence des emplois du mot venait des différentes familles d'esprit
auxquelles appartenaient les écrivains, et surtout des différences entre les
genres littéraires où pénates apparaît. C'est ainsi que l'on peut dire que le
mot est très rare chez les comiques (3 exemples) alors qu'il est fréquent
dans les tragédies de Sénèque (16 exemples). Encore l'exemple de
l'emploi de pénates chez Plaute doit-il être examiné avec un peu d'attention.
Les deux emplois du mot chez cet auteur se trouvent dans la même
tirade, à deux vers d'intervalle10: Charinus, jeune homme de bonne
famille, va quitter la maison paternelle et s'exiler; au moment de son
départ, il adresse une invocation solennelle aux dieux de son foyer,
parmi lesquels les Pénates. Il n'y a donc rien là qui appartienne
spécifiquement au genre comique. L'origine sociale du personnage et les
circonstances dans lesquelles cette invocation est prononcée relèveraient plu-

10 Mere, 834; 836.


L'USAGE DU MOT PENATES DANS LA LITTÉRATURE CLASSIQUE 39

tôt de la tragédie. Il semblerait donc qu'il y ait dans le mot pénates des
connotations qui le font préférer dans un langage théâtral noble.
On peut dire aussi que le mot est fréquent dans l'éloquence
judiciaire (Cicéron), très fréquent chez les historiens (Tite-Live et Tacite).
Peut-être, là encore, la fréquente apparition du mot s'explique-t-elle par
une certaine hauteur de ton de ces œuvres. Une remarque que nous
pouvons faire à propos de la poésie semble aller dans le même sens : le
mot est fréquent dans l'épopée (Virgile et Lucain) et dans les «grands
poèmes» d'Ovide, comme les Métamorphoses, alors qu'il n'apparaît que
très rarement dans la poésie élégiaque, en particulier chez Ovide qui
n'offre que quelques exemples de pénates dans les Amores et les
Tristes. En revanche, chez d'autres auteurs, cette opposition s'explique par
le contenu des œuvres, par les sujets abordés, plutôt que par une
différence de ton entre les œuvres; c'est ainsi que Cicéron emploie
fréquemment pénates dans ses discours, très rarement dans ses œuvres
philosophiques, Sénèque fréquemment dans ses tragédies, jamais dans ses
ouvrages philosophiques.

II - Le sens du mot Penates

Dans le corpus des citations du mot pénates sur lequel repose notre
étude, ce dernier, nous l'avons déjà vu, est employé tantôt au sens
propre de «dieux du penus y>, tantôt dans un sens métonymique, soit que
pénates désigne à la fois les dieux du penus et une autre entité, la
maison ou la patrie par exemple, soit que pénates désigne uniquement une
entité différente de celle des «dieux du penus», auquel cas il y a
métonymie complète.
Dans notre corpus, pénates est utilisé au sens de «dieux du penus»
74 fois, c'est-à-dire une fois sur trois environ. Nous pouvons donc déjà
constater que l'acception du mot dans son sens propre n'est pas la plus
courante. Employé en ce sens, pénates désigne les dieux de la maison,
du foyer. Parmi les très nombreux exemples que nous pourrions citer,
nous en avons choisi un de Catulle qui nous a semblé significatif :
Venistine domum ad tuos pénates
Fratresques unanimos anumque matrem?11.

11 Catulle, 9, 3-4 : «Es-tu de retour auprès de tes pénates, de tes frères si unis et de ta
vieille mère?» (Trad. G. Lafaye, C.U.F., Paris, 1932).
40 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

Dans cet exemple, domum ne désigne pas la maison, au sens


architectural, mais représente globalement un ensemble explicité dans la
suite par tuos pénates d'une part, fratres unanimos anumque matrem
d'autre part. Dans sa domus, le personnage auquel est adressé le poème
va retrouver tout ce qu'il aime, les gens de sa famille auxquels il est
attaché, et aussi les dieux du foyer, qui sont cités les premiers.
Mais il arrive aussi que pénates, pris dans son sens propre, désigne,
à côté des dieux de la maison particulière, ceux de l'Etat, de la patrie.
Nous lisons chez Tacite : Proprium esse militis decus in castris : illam
patriam, illos penatis 12. Sans doute dans cet exemple penatis désigne-t-il
les dieux du foyer de chaque soldat, mais il représente probablement
aussi les dieux de la patrie, comme le suggère le mot de patriam placé
juste avant lui; en effet, cette phrase signifie que le soldat considère le
camp non comme un lieu de passage, un domicile provisoire, mais
comme son pays, et, par conséquent, le lieu où se trouve sa maison, les
deux notions étant étroitement unies.
Il arrive aussi - c'est le cas le plus rare - que pénates désigne à la
fois les dieux de la maison et une autre entité, et, en ce cas, la
métonymie n'est pas complète. Parfois, pénates désigne les dieux du foyer et la
maison au centre de laquelle ils résident; ainsi, Ovide, évoquant la peste
d'Egire :
Corpora deuoluunt in humum fugiuntque pénates
quisque suos : sua cuique domus funesta uideturn.

A notre avis, pénates représente ici les dieux du penus, mais aussi la
maison tout entière. On pourrait évidemment objecter à cette
interprétation que domus est employé dans le vers suivant, et qu'il faut y voir
une opposition de sens entre domus et pénates. Nous pensons qu'il
s'agit plutôt d'une alternance destinée à éviter la répétition, et que les
deux termes sont presque synonymes, à cette nuance près que le
premier désigne, en plus de la maison à proprement parler, les dieux
domestiques.
Dans d'autres cas, pénates désigne, outre les dieux du foyer, la
patrie. C'est ainsi qu'on peut lire chez Cicéron : Exterminabit dues

12 Hist. Ill, 84, 3 : « pour le soldat, le véritable honneur était dans le camp ; là était sa
patrie, là étaient ses pénates» (Trad. H. Goelzer, C.U.F., Paris, 1921).
13 Met. VII, 575-6 : « Ils se roulent sur la terre ; chacun prit ses pénates, chacun
regarde sa demeure comme un séjour funeste» (trad. G. Lafaye, C.U.F., Paris, 1928).
L'USAGE DU MOT PENATES DANS LA LITTÉRATURE CLASSIQUE 41

Romanos edicto consul a suis dis penatibus?14. Dans cet exemple, on


peut fort bien comprendre que pénates désigne les dieux de la maison;
mais il évoque aussi la patrie, par référence au contexte, où les mots
consul, dues,- placent la phrase dans le registre du vocabulaire
politique, et la réalité désignée par pénates, ce ne sont pas seulement les
dieux d'un foyer particulier, mais toute la ciuitas et son organisation.
Enfin, pénates, par le même procédé de la demi-métonymie,
désigne parfois, à côté des dieux domestiques, la famille. C'est le cas,
notamment, chez Virgile : Enée, racontant ses malheurs à Didon,
évoque son arrivée chez le roi thrace Lycurgue :
Hospitium antiquom Troiae sociique Penates
dum fortuna fuit15.

Il est tout à fait possible d'interpréter ici pénates comme «les dieux
du foyer». En effet, les associations de dieux (socii) sont connues par
ailleurs, et il est assez naturel de considérer qu'à l'occasion d'un
mariage, les dieux des deux familles se trouvent associés16. Mais il n'est pas
douteux non plus qu'il faille donner au mot pénates un sens plus large
et qu'il désigne non seulement les dieux particuliers de la famille
d'Enée et de celle de Lycurgue, mais aussi, par extension, ces deux
familles elles-mêmes, le terme de socii s'appliquant parfois à la relation
conjugale17 et se justifiant tout particulièrement ici, à propos d'une
alliance politique entre deux grandes familles.
A côté de ces quelques exemples d'une métonymie partielle, nous
en trouvons de nombreux de métonymie totale, où pénates ne semble
plus désigner du tout les dieux du penus. Au sens métonymique, pénates
représente presque toujours la maison, comme on le voit chez Lucain,
évoquant l'austérité de Caton :

14 Sest., 30: «Un consul pourra-t-il bannir par un édit les citoyens romains loin de
leurs Pénates?» (trad. J. Cousin, C.U.F., Paris, 1965).
15 En. III, 15-16 : «nation liée à Troie depuis toujours, pénates alliés des nôtres tant
que notre fortune dura» (trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1977).
16 Pourtant, les divinités invoquées lors des cérémonies du mariage semblent plutôt
être celles qui ont pour fonction spécifique de protéger ce lien : cf. G. Dumézil, La
religion romaine archaïque, 2è éd., Paris, 1974, p. 603-604; id., Mariages indo-européens, Paris,
1979, p. 17 sq.; D. P. Harmon, The Family Festivals of Rome, A.N.R.W. II, Berlin-New-
York, 1978, p. 1598-1600.
17 Ovide, Mei. XIV, 678 : tori socium.
42 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

. . . magnique pénates
summouisse hiemem tectols.

La désignation de pénates par magni montre clairement qu'il ne


s'agit pas des dieux du foyer, mais de la maison elle-même, sens
explicité d'ailleurs par l'utilisation du mot tecto. De même, nous pouvons lire
chez Tacite : expugnationes urbium, populationes agrorum, raptus pena-
tium hauserunt animo19; il ne s'agit évidemment pas de piller les dieux,
mais la demeure. Il arrive assez fréquemment que pénates désigne non
pas la maison d'un simple particulier, mais le palais royal. Par
exemple, chez Sénèque, Jocaste déclare à Polynice :
Te profugam solo
patrio pénates régis externi tegunt20.

Dans d'autres exemples, la métonymie est pleinement réalisée, et


pénates désigne alors soit, dans le domaine privé, le foyer, soit, dans le
domaine public, la patrie, sans référence réelle à des divinités. C'est le
cas par exemple dans un texte de Sénèque, où pénates désigne «le
foyer » avec une forte valeur affective :
Cur me in pénates obsidem inuisos datam
hostique nuptam degere aetatem in malis
lacrimisque cogis ? 21.

Il se trouve aussi des exemples où. pénates signifie «patrie», comme


chez Horace :
Caesar Hispana repetit penatis
uictor ab ora22.

18 Π, 384-5: «De grands pénates, un toit suffisant pour écarter l'orage» (trad.
A. Bourgery, ibid.). Magni pénates est peut-être à rapprocher de l'expression de Virgile
Penatibus et Magnis Dis (En. III, 12; VIII, 679).
19 Hist. I, 51,7 : «Le soldat se repaît l'imagination d'assaut donné aux villes, de
territoires ravagés, de maisons pillées (trad. H. Goelzer, ibid).
20 Phéniciennes, 503-4 : «transfuge de la patrie, abrité par les pénates d'un roi
étranger» (trad. L. Hermann, C.U.F., Paris 1924).
21 Sénèque, Phèdre, 89-91 : «Pourquoi m'ayant livrée en otage à un foyer qui m'est
odieux et m'ayant mariée à mon ennemi, me forces-tu à passer ma vie dans l'infortune et
dans les larmes ? » (trad. L. Hermann, ibid.).
22 Odes III, 14, 3-4: «César, de l'extrême Espagne, regagne victorieux, ses pénates»
(trad. F. Villeneuve C.U.F. Paris 1917).
L'USAGE DU MOT PENATES DANS LA LITTÉRATURE CLASSIQUE 43

Nous trouvons ici, dans le rapprochement Hispana-penates,


l'antithèse entre l'étranger et le sol de la patrie23.
Un autre emploi métonymique donne parfois à pénates le sens de
«famille». Nous avons vu qu'il y avait parfois métonymie partielle avec
ce sens, pénates signifiant alors à la fois «les dieux du penus» et «la
famille». Mais il arrive aussi qu'il y ait métonymie complète. On en
trouve l'exemple chez Tacite : An quia ueram progeniem penatibus Cae-
sarum datura sit24? L'enfant, au dies lustricus, était présenté par son
père aux dieux du foyer domestique, parmi lesquels figurent les
Pénates25; cet usage explique peut-être qu'ici pénates désigne par
métonymie la famille, comme le souligne l'emploi de progeniem.
Dans une acception plus étendue que «maison» ou que «famille»,
pénates désigne aussi parfois le territoire, comme par exemple chez
Virgile. Ainsi, un compagnon d'Ulysse abandonné chez les Cyclopes est
trouvé par Enée et ses compagnons et il leur déclare :
Scio me Danais e classibus unum
et bello Iliacos fateor petiisse penatis26.

Penates nous semble ici avoir la signification de «territoire», mais


avec une valeur religieuse et sentimentale que l'on ne trouve
évidemment pas dans fines.
Enfin, notre corpus nous offre un exemple d'un cas où par
métonymie, pénates désigne le train de maison. Il se trouve chez Tacite, dans
un discours de Valerius Messalinus : et panca feminarum necessitatibus
concedi quae ne coniugum quidem penatis, adeo socios non onerent27.
Nous venons de voir que pénates était employé assez souvent dans
son acception originelle de «dieux du. penus», plus souvent encore, avec
métonymie partielle ou totale, au sens de «maison», «palais royal»,
«foyer», «patrie», «famille», «territoire», et enfin «budget de la mai-

23 On trouve chez Stace (Silves III, 5, 12-13) un exemple tout à fait analogue où
pénates évoque la terre natale du poète.
24 Ann. XIV, 61, 3-4: «Serait-ce parce qu'elle va donner une descendance légitime
aux pénates des Césars?» (trad. P. Wuilleumier, C.U.F., Paris, 1978).
25 D. P. Harmon, op. cit., p. 1596-1598.
26 En. III, 603-604. Je sais que je fus homme de la flotte des Grecs, j'avoue que j'ai
porté la guerre contre les Pénates d'Ilion» (trad. J. Perret, ibid.).
27 Ann. Ill, 34, 3: «On faisait aux femmes un petit nombre de concessions, qui,
n'étant pas même à charge pour le foyer de leurs époux, ne l'étaient assurément pas pour
les alliés» (trad. P. Wuilleumier, C.U.F., Paris, 1974).
44 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

son». Il est vrai, et l'exemple de Catulle que nous avons cité le montre
assez clairement, que le passage du sens propre à la métonymie est
parfois subtil. Il nous a semblé aussi que ce jeu sur le sens du mot n'a pas
toujours existé : pénates n'est jamais employé au sens
semi-métonymique ou métonymique chez les auteurs les plus anciens, Naevius, Plaute,
Terence, Cassius Hemina; les premiers emplois métonymiques se
trouvent au Ier siècle, peut-être déjà chez Catulle, à coup sûr chez Cicéron,
après qui la métonymie est systématiquement présente.

III - Penates et son contexte

Dans la moitié environ des exemples que nous avons examinés, le


mot pénates est employé seul, sans entrer dans une enumeration où il
serait associé à d'autres mots de sens voisins. Mais le mot apparaît
souvent associé à d'autres dans des enumerations par exemple, où il est
coordonné ou juxtaposé à d'autres substantifs. Nous avons essayé de
classer d'après leur valeur sémantique les mots qui accompagnent
pénates et sont mis en parallèle avec lui. Etant donné que par son sens
propre le mot pénates appartient au vocabulaire religieux, il nous a
semblé intéressant de voir si les mots auprès desquels on le rencontre
appartenaient ou non à ce vocabulaire. Il apparaît que dans un certain
nombre de cas, ces mots ont une valeur religieuse, dans d'autres cas
une valeur non religieuse, parfois enfin un sens qui, sans en faire à
proprement parler des mots du vocabulaire technique de la religion, les
apparente à lui.
Les Pénates sont parfois associés avec des dieux qui, de par leur
nature, sont en rapport avec les dieux du penus. C'est au premier chef,
Vesta, avec laquelle ils apparaissent liés deux fois dans notre corpus de
référence. Nous le trouvons d'abord chez Cicéron : Nobis aram Pena-
tium, nobis illum ignem Vestae sempiternum commendai28. Il s'agit ici
des Pénates publics de Rome, et ce texte fait allusion à la tradition
selon laquelle ils se trouvaient dans le sanctuaire de Vesta : aussi le feu
qui symbolisait dans le temple la présence de la déesse et les Pénates de
Rome, plus ou moins mis en relation avec le Penus Vestae, sont-ils ici
associés. De cette association entre les Pénates publics et Vesta, nous

28 Cat. IV, 18 : «c'est à nous qu'elle (la patrie) confie les autels des Pénates et le feu
de Vesta qui brûle éternellement» (trad. H. Bornecque et E. Bailly, C.U.F., Paris, 1961).
L'USAGE DU MOT PENATES DANS LA LITTÉRATURE CLASSIQUE 45

trouvons également un écho dans Tacite, lors de la description de


l'incendie de Rome sous Néron : Aedesque Statoris louis uota Romulo
Numaeque regia et delubrum Vestae cum Penatibus populi Romani exus-
ta29; ici encore c'est une commune présence dans ÏAedes Vestae qui
justifie le rapprochement.
Parmi les dieux qui sont, de par leur nature, associés aux Pénates
publics, nous trouvons aussi, cités à deux reprises dans notre corpus,
les Grands Dieux. Enée, racontant ses malheurs à Didon, évoque le
moment où il vient de quitter Troie :
Feror exsul in altum
cum sociis natoque, penatibus et magnis dis30.

Les Pénates sont associés ici avec les Grands Dieux, les deux noms
étant coordonnés par et. Le rapprochement entre ces deux groupes de
divinités est l'écho d'une tradition qui va même parfois, comme chez
Cassius Hemina et Servius, jusqu'à l'assimilation entre Pénates et
Grands Dieux31. On trouve une expression analogue dans un autre
passage de Y Enéide :
Hinc Augustus agens halos in proelia Caesar
cum patribus populoque, penatibus et magnis dis32.

Enfin, on lit chez Cicéron33 l'expression pénates patriique dei; là


encore, le rapprochement n'a rien de fortuit; nous avons vu que
l'emploi métonymique de pénates lui donnait parfois le sens de «patrie»; ce
rapprochement, comme pour celui des Pénates et des Grands Dieux,
aboutit presque à une identification.
Les Pénates du culte privé sont souvent associés aux Lares ce qui
n'est pas surprenant, puisqu'il s'agit dans l'un et l'autre cas de divinités

29 Tacite, Ann. XV, 41, 1 : «Le temple de Jupiter Stator, voué par Romulus, le palais
royal de Numa et le sanctuaire de Vesta, avec les Pénates du peuple romain, furent
consumés» (trad. P. Wuilleumier, ibid.).
30 En. III, 11-12: «Exilé, je mets le cap sur le grand large avec mes compagnons,
mon fils, les Pénates et les Grands Dieux» (trad. J. Perret, ibid.); Cf. R. Schilling Penatibus
et Magnis Dis (Virgile, Enéide III, 13 et VIII, 679), Mise. E. Manni, VI, Rome 1980, p. 1963-
78.
31 Ce point très délicat sera repris ci-dessous, p. 285-92 ; 430-9.
32 VIII, 678-79 : «D'un côté Auguste César conduisant au combat les Italiens avec les
Pères et le peuple, les Pénates et les Grands Dieux» (trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1978).
33 Sest., 45.
46 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

du foyer, donc proches par le lieu de leur culte, et qu'en outre les deux
groupes de divinités présentent d'autres traits communs, notamment
d'être des ensembles au sein desquels ne se dégage aucune
individualité. De ce rapprochement, on trouve un exemple chez Cicéron : Ista tua
pulchra Liberias deos Penates et familiäres meos Lares expulit, ut se ipse
tamquam in captivis sedibus collocar et?34. Il existe, à côté de ce texte,
beaucoup d'autres exemples de ce voisinage des Lares et Pénates35.
Les Pénates du culte public, comme ceux du culte privé, sont
parfois associés à des divinités dont les affinités avec eux sont moins
évidentes. Ce sont, pour le culte public, Jupiter et Quirinus :
Mox ait : «O magnae qui moenia prospicis urbis
Tarpeia de rupe, Tonans, Phrygiique pénates
gentis Iuliae et rapii secreta Quirini. . .36.

Il s'agit d'une invocation de César au moment où il s'apprête à


franchir le Rubicon. L'instant est donc solennel. César s'adresse aux
divinités qui sont les plus imposantes du panthéon romain : Jupiter,
dieu suprême, représentant la souveraineté absolue sur les dieux et sur
les hommes; Quirinus, qui est présenté ici, ainsi qu'en témoigne
l'allusion à son mystérieux enlèvement, comme le fondateur de Rome,
divinisé sous le nom de Quirinus; les Pénates enfin sont ceux qu'Enée a
apportés de Troie, comme le montre l'adjectif Phrygii qui les qualifie, et
par là-même, sont ce que la religion d'Etat a de plus ancien et de plus
sacré; mais l'expression Phrygiique pénates gentis Iuliae, en même
temps qu'elle rappelle les origines troyennes des Pénates, laisse deviner
les prétentions de la Gens Iulia - c'est César qui parle ici - à être elle-
même d'origine troyenne et même, à identifier les Pénates de Troie aux
siens propres, ce qui fonde ses prétentions politiques37. Le choix des
divinités (Jupiter, Pénates, Quirinus) invoquées par César en ces cir-

34 Dont., 108 : «Ta belle liberté (= de Clodius) a-t-elle pu chasser mes dieux pénates
et mes lares domestiques, pour prendre place elle-même en terrain conquis?» (trad.
P. Wuilleumier, C.U.F., Paris, 1952).
35 Cf. notamment Lucain, VII, 397; Plaute, Mere, 834; Liv., I, 29, 4; Virgile, En. VIII,
543.
36 Lucain, I, 196-198 : «Bientôt il dit : «O toi qui regardes les murailles de la grande
ville du haut de la roche tarpéienne, Dieu du Tonnerre, pénates phrygiens de la famille
Julia, enlèvement mystérieux de Quirinus » (trad. A. Bourgery, ibid.).
37 Voir infra p. 210; 217; cf. P. Wuilleumier-H. Le Bonniec, M. Annaeus Lucanus, Bel-
lum Ciuile I (éd. comm., Coll. Erasme), Paris, 1962, p. 46.
L'USAGE DU MOT PENATES DANS LA LITTÉRATURE CLASSIQUE 47

constances solennelles, obéit donc à la fois au désir de nommer les


cultes les plus imposants ou les plus anciens, mais aussi à celui
d'exprimer l'idée de souveraineté : Jupiter est le dieu suprême, Romulus-Quiri-
nus le roi-fondateur de la cité, divinisé, les Pénates sont liés à Enée,
fondateur de Lavinium, cité-mère de Rome, et par là-même, ancêtre
mythique des Romains.
Dans le domaine du culte privé, nous trouvons chez Horace une
association intéressante de divinités dans laquelle entrent les Pénates :
Quod te per Genium dextramque deosque Penatis
Obsecro et obtestor, uitae me redde priori™.

Il s'agit ici d'un serment dans lequel la dextra est invoquée comme
le symbole de la valeur religieuse inébranlable du serment; Genius,
dextra et Penates ont en commun d'être ce que l'interlocuteur possède
de plus personnel et de plus précieux.
Nous avons rencontré dans notre corpus des citations où pénates
était associé à des mots du vocabulaire religieux qui ne sont pas des
noms de dieux : ce sont, notamment, sacra et ara. De la première
association, nous avons un exemple chez Naevius, dans le premier emploi
connu de Pénates :

Sacra in mensa penatium ordine ponuntur.

La relation entre sacra et penatium dépend de l'interprétation que l'on


donne du génitif penatium; si on le fait dépendre de mensa*9, le lien
entre sacra et penatium est simplement celui d'un voisinage à l'occasion
de la célébration d'un culte; si au contraire, comme M. Barchiesi40, on
le fait dépendre de sacra, il s'agit d'un génitif de définition, et il y a
presque identification entre les deux termes. De même, on trouve chez
Virgile, au moment où Hector apparaît en rêve à Enée et s'adresse à
lui:

38 Ep. I, 7, 94-95 : « Aussi, par ton Génie, par ta main droite, par tes Dieux Pénates, je
t'en prie, je t'en supplie, rends-moi à ma première existence» (trad. F. Villeneuve, C.U.F.,
Paris, 1964); pour la valeur du Genius, voir G. Dumézil, op. cit., p. 362-69.
39 Cf. C. Goudineau, ΊΕΡΑΙ ΤΡΑΠΕΖΑΙ, MEFR, 79, 1967, p. 77.
40 Nevio epico, ibid. ; c'est cette construction que nous préférons. Cf. ci-dessous,
p. 85.
48 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

Sacra suosque Ubi commendai Troia penatisi.

Le terme de sacra est ici assez imprécis et, comme dans l'exemple
de Naevius, la relation entre ce terme et les Pénates semble presque
une assimilation, au moins partielle, puisque les Pénates font partie des
objets sacrés emportés de Troie par Enée.
On rencontre enfin, chez Cicéron, deux exemples de ara associé à
pénates*1 : les arae en question sont celles de son culte personnel et
privé et il n'est pas surprenant qu'il les associe à ses Pénates.
Mais le mot pénates n'est pas toujours environné de mots
appartenant au vocabulaire strictement religieux. Il arrive qu'il soit associé à
des mots qui, sans avoir un sens technique religieux, ont pourtant, par
leurs connotations, certains rapports avec les valeurs religieuses. Ce
sont, en particulier, les noms de parenté, qui figurent assez souvent à
côté de pénates. Par exemple, dans le texte de Catulle précédemment
cité :

Venistine domum ad tuos pénates


Fratresque unanimos anumque matrem43,

Penates est mis sur le même plan que fratres et mater. L'ensemble
de ces mots a une valeur sentimentale, est destiné à émouvoir : les
Pénates représentent la maison dans ce qu'elle a de plus attachant, et
l'attendrissement suscité par l'évocation des frères et de la mère est
fortement souligné par les mots unanimos et anum44. Mais le
rapprochement de pénates avec fratres et mater suggère en outre que l'on peut
être attaché à ses Pénates au même titre qu'à des membres de sa
famil e, que les Pénates, en quelque sorte, font partie du cercle de famille
dans ce qu'il a de plus émouvant. Nous trouvons une association tout à
fait analogue chez Virgile, lorsqu'Enée dit :

41 En. II, 294. «Troie te confie ses choses saintes et ses Pénates», (trad. J.Perret,
ibid.); malgré la traduction de J. Perret, nous ne pensons pas qu'il faille distinguer
radicalement les sacra et les Pénates. Cf. ci-dessous, p. 183; 193-4.
42 Dom., 109; Sest., 145.
43 9, 3-4.
44 Voir E. Ellis, A Commentary on Catullus, Oxford, 1876, p. 22-23; A. Baehrens,
Catullus (éd. revue par K. P. Schulze), Leipzig, 1893, p. 112.
L'USAGE DU MOT PENATES DANS LA LITTÉRATURE CLASSIQUE 49

Ascanium Anchisenque patrem


Teucrosque penatis commendo sociis45.

Des noms propres figurent ici à côté des noms de parenté, ou les
remplacent, mais l'effet est le même : ils représentent ce qu'Enée a de
plus cher au monde. Dans ces deux exemples, étant donné le caractère
sacré des liens de famille, on ne peut pas dire qu'il y ait hétérogénéité
entre pénates et les mots qui l'environnent.
Il en va de même pour le mot focus, qui se trouve à plusieurs
reprises dans nos textes, associé à pénates, par exemple dans Cicéron :
Nudum eicit domo atque focis patriis diisque penatibus praecipitem,
judices, exturbat46. Le focus, c'est évidemment le feu qui sert à cuire les
aliments et le mot a alors un sens profane, mais c'est aussi le foyer
autour duquel ont lieu les sacrifices de la religion domestique, et,
comme en français, il a une valeur affective.
Enfin, on trouve des exemples où pénates est associé à des mots qui
n'ont pas de valeur religieuse. Ce sont, en gros, ceux qui signifient
«maison», «cité», ou «territoire». Nous les avons classés dans cet ordre,
en allant de ceux qui sont le plus près de la réalité matérielle des
Pénates (ceux qui signifient «maison») à ceux qui en sont le plus éloignés.
En effet, pénates est très fréquemment associé à domus ou, dans
quelques cas, à tectum47 pris métonymiquement au sens de «maison».
Ainsi, on lit chez Cicéron : Cum domum ac deos pénates suos ilio
oppugnante defenderet48. Cette association s'explique par deux raisons. Tout
d'abord, il n'est pas surprenant que domus et pénates soient
rapprochés, puisque les Pénates se trouvent à l'intérieur de la maison et sont
une sorte de symbole de la vie domestique. Mais de plus, il y a, là aussi,
une valeur sentimentale donnée à chacun des deux mots : la domus et
les pénates représentent ce que Milon a de plus cher. On trouve chez
Ovide une variante intéressante de domus, qui est torus :

45 En. II, 747-48 : «Ascagne, mon père Anchise, les Pénates troyens, je les confie à
mes compagnons » (trad. J. Perret, ibid.).
46 Rose. Amer., 23 : «il le jette nu hors de sa maison, il l'expulse, il le bannit, juges,
loin des foyers de ses ancêtres, loin de ses dieux pénates» (trad. H. de la Ville de Mir-
mont, C.U.F., Paris, 1921).
47 Par exemple, Liv., I, 29, 4.
48 Mil., 38 : « quand il défendait sa maison et ses pénates contre les attaques de Clo-
dius» (trad. A. Boulanger, C.U.F., Paris, 1967).
50 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

Ecce fugit notumque torum sociosque pénates


Fallacisque uias ire Corinna parat49.

Domus est ici remplacé par torus, qui évoque les relations
amoureuses de Corinne et du poète; cette substitution va tout à fait dans le
sens de l'analyse que nous avons faite précédemment à propos de
l'association de domus et de pénates : en effet, le torus et les pénates sont
symboliques de la vie commune d'Ovide et de Corinne, et représentent
donc ce à quoi le poète tient le plus.
Penates est parfois associé à des mots signifiant «cité», urbs ou
civitas, comme chez Tite-Live50: Si ... consensus aliqui patrum, non
Gallicum bellum, nos ab urbe, a penatibus nostris ablegatos tenet. Le
rapprochement de pénates et de urbe s'explique parce que Yurbs est
constituée par les maisons qui renferment les Pénates de chacun, mais
on peut aussi considérer que penatibus nostris désigne, outre les
Pénates particuliers, les Pénates de l'Etat, et l'association est alors "des plus
naturelles.
Il arrive également que Penates soit environné de mots désignant
«la terre», «le territoire», comme tellus, arua, agri, rura. Par exemple,
on lit chez Tacite : delegata domus et penatium et agrorum cura feminis
senibusque et infirmissimo cuique ex familia51. Penatium s'oppose ici à
agrorum, comme l'intérieur de la maison a tout le domaine qui
appartient au maître de maison, et penatium représente la vie domestique
dans ce qu'elle a d'intime, alors qu agrorum renvoie aux activités
extérieures.
Enfin, aussi souvent qu'à des mots signifiant «la maison», pénates
est associé à des mots désignant « la patrie » : ce sont patria, patria terra,
solum patrium. Nous lisons par exemple chez Cicéron : Si in patriam, si
ad deos pénates redire properaret52. Certes, la patrie est le lieu où se
trouvent les dieux pénates de chacun, mais l'association des deux mots

49 Am. II, 11, 7-8 : «Voici que, fuyant le lit connu et nos pénates communs, Corinne
va s'engager sur ces chemins dangereux» (trad. H. Bornecque, C.U.F., 1930).
50 VII, 13, 8 : «Si c'est quelque entente des sénateurs et non la guerre gauloise qui
nous tient éloignés de la ville et de nos pénates» (trad. R. Bloch, C.U.F., Paris, 1968).
51 Germ., 15, 1 : «le soin de la maison, des pénates et des champs abandonné aux
femmes, aux vieillards, aux plus faibles de la famille» (trad. J. Perret, C.U.F., Paris,
1949).
52 Prov. Cons. 35 : «s'il avait hâte de retrouver sa patrie et ses pénates» (trad. J.
Cousin, C.U. F., Paris, 1962); cf. aussi Cicéron, Sest., 145; Salluste, Hist. 2, 47, 3; 2, 47, 4;
Tacite, Hist. Ill, 84, 3, etc.
L'USAGE DU MOT PENATES DANS LA LITTÉRATURE CLASSIQUE 51

prend une couleur affective particulière. Il s'agit en effet d'un retour,


et l'amour du personnage en question va à sa terre natale, et aussi à ses
dieux domestiques, comme à ce qu'il a de plus cher. On rencontre
fréquemment cette association de pénates et de patria, et elle a toujours la
valeur sentimentale que nous venons d'indiquer.
Au terme de cette étude des mots qui environnent le plus souvent
pénates, nous pouvons dire que c'est en partie par la fréquence de ces
associations que s'explique l'emploi métonymique du mot pénates. Nous
avons vu qu'il était souvent employé au sens de «maison», ou de
«patrie» par exemple, c'est parce qu'en effet il était très souvent associé
avec ces deux notions qu'il a pu les désigner métonymiquement.

IV - Circonstances de l'emploi de Penates

II nous reste, pour terminer cette étude, à voir en quelles


circonstances les écrivains latins de la période que nous avons envisagée
emploient le plus volontiers le mot pénates.
Il nous est apparu que les circonstances dans lesquelles le mot
apparaissait le plus souvent pouvaient se diviser en deux catégories :
d'une part, les circonstances qui, de par leur nature, justifient la
mention des dieux pénates, et d'autre part, celles dont le caractère
dramatique, ou chargé de signification affective, explique la présence de ce
mot.
Les Penates sont mentionnés fréquemment dans l'évocation d'une
maison, lorsqu'il s'agit de décrire la pièce où se trouvent les dieux ou
leurs effigies. Nous lisons ainsi chez Sénèque, dans Oedipe, au moment
où le messager évoque la fumée du corps des enfants de Thyeste brûlés
par Atrée :
Ipsos pénates nube deformi obsidet53.

Atrée fait probablement brûler les corps de ses neveux sur le foyer
familial, près des effigies des Pénates. De même, les statuettes
représentant les Pénates sont assez souvent mentionnées, par exemple chez
Suétone : ultimo templis compluribus dona detraxit simulacraque ex

53 Oed., 708 : «Elle environne les pénates eux-mêmes de ses affreuses vapeurs» (trad.
L. Hermann, ibid.).
52 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

auro uel argento fabricata conflauit in Us Penatium deorum, quae mox


Galba restituii54.
Très souvent aussi, Penates est employé métonymiquement pour
dire «maison» et s'emploie là où on aurait pu dire domus, quand il
s'agit d'entrer dans une maison par exemple, comme dans le texte
d'Ovide que nous avons déjà cité plus haut :
Rex ibi Lyncus erat; régis subit Me pénates.

Il arrive également assez souvent due Penates soit mentionné dans


les diverses circonstances de la vie privée, par exemple à propos d'une
naissance. Nous avons déjà cité le texte de Tacite : an quia ueram proge-
niem penatibus Caesarum datura sit?55. Certes, nous l'avons vu, penati-
bus peut désigner métonymiquement la famille des Césars, mais il
désigne d'abord, au sens propre et religieux du mot, les dieux Pénates
de la famille auxquels l'enfant était présenté quelques jours après sa
naissance. Les Pénates sont encore mentionnés par Tite-Live à propos
de la prise de la toge prétexte : magis pro maiestate uidelicet imperii Ari-
mini quant Romae magistratum initurum, et in deuersorio hospitali
quant apud pénates suos praetextam sumpturum56. Les Pénates sont
mentionnés également au moment du mariage qui se déroulait devant
leurs images, ainsi qu'en témoigne un texte de Tite-Live : tamque prae-
ceps festinatio ut, quo die captant hostem uidisset, eodem matrimonio
iunctam acciperet et ad pénates hostis sut nuptiale sacrum conficeret57.
De même chez Tacite58, lorsqu'Auguste, follement épris de la beauté de
Livie, l'enlève à son premier mari, c'est devant ses Pénates qu'il
l'installe. Enfin, le nom des Pénates est évidemment mentionné à propos du
culte dont ils sont l'objet et des sacrifices particuliers que ce culte
implique, ainsi que le signale Horace :

54 Nér., 32 : «en dernier lieu il dépouille une foule de temples des dons qu'ils avaient
reçus et fit fondre les statuettes d'or et d'argent, entre autres celles des dieux pénates, qui
plus tard furent rétablis par Galba» (trad. H. Ailloud, C.U.F., Paris, 1961).
55 Ann. XIV, 61, 3-4.
56 XXI, 63, 10 : «sans doute il est plus conforme à la majesté de son commandement
d'entrer en charge à Ariminum qu'à Rome et de prendre la robe prétexte dans un hôtel
qu'auprès de ses pénates » (trad. E. Lasserre).
57 XXX, 14, 2 et 3 : «cette hâte si téméraire que, le jour même où il avait vu cette
ennemie prisonnière, il l'avait unie à lui par le mariage, en accomplissant devant les
pénates de son ennemi le sacrifice nuptial (trad. E. Lasserre); voir supra p. 41.
58 Ann. V, 1, 3.
L'USAGE DU MOT PENATES DANS LA LITTÉRATURE CLASSIQUE 53

inmunis aram se tetigit manus


non sumptuosa blandior hostia
molliuit auersos pénates
jarre pio et saliente mica59.

Il se produit aussi que le nom des Pénates est cité en des


circonstances variées, où on ne l'aurait pas forcément attendu, et dont nous
nous efforcerons de trouver les caractères communs.
Le mot Penates est fréquemment usité lorsque quelqu'un revient
dans sa demeure. Par exemple, nous lisons dans Tite-Live, à propos
de Tullia, au moment où Servius vient d'être assassiné : contaminata
ipsa respersaque, tulisse ad pénates suos uirique sui60. Cet exemple
appelle deux remarques : tout d'abord, pénates est pris ici dans une
acception métonymique, au sens de domus; d'autre part, il s'agit de
circonstances dramatiques : un assassinat vient d'avoir lieu, et la
femme dont il est question est couverte du sang de la victime, qui se
trouve de plus être son père. Ce sont d'ailleurs les Pénates qui
vengeront ce crime61.
De même, pénates est très souvent employé métonymiquement
lorsqu'il s'agit d'expulser quelqu'un de sa maison. Ainsi on lit dans le De
Lege Agraria de Cicéron : se moueri possessionibus auitis suis sedibus ac
dis penatibus negant oportere62. Dans cette citation, pénates apparaît
dans un contexte destiné à souligner que cette dépossession serait
odieuse, parce que contraire à la tradition ancestrale (auitis) et l'accent
est mis sur le caractère sacré conféré à la propriété par le fait qu'elle
vient des ancêtres. Par ailleurs, il s'agit de circonstances tragiques,
d'une expulsion.
Le mot pénates apparaît très fréquemment à la place de domus
lorsque l'on décrit les effets de la guerre, par exemple chez Lucain :

59 Odes III, 23, 17-20: «si une main qui n'a rien à expier a touché l'autel, elle a pu,
sans qu'une victime somptueuse l'eût rendue plus agréable, apaiser les Pénates hostiles
avec un froment pieux et un grain de sel pétillant» (trad. F.Villeneuve, C.U.F., Paris,
1927).
60 Liv., I, 48, 7: «souillée elle-même par les éclaboussures, elle revient au foyer
conjugal» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1958).
61 J. Heurgon, Tite-Live I (éd. comm.), Coll. Erasme, Paris, 1970, p. 162.
62 2, 57 : «ils déclarent qu'on ne doit pas les déposséder, les arracher à leur antique
résidence et à leurs dieux pénates» (trad. A. Boulanger, C.U.F., Paris, 1932).
54 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

Premii undique helium


inque domum iam tela cadunt quassantque pénates621.

Penates est souvent usité en de semblables circonstances chez Tite-


Live64. De même, on est frappé, chez le même historien, de voir qu'en
des circonstances particulièrement dramatiques pour Rome, lorsque
Véturie s'adresse à Coriolan65, ou que Camille essaie de convaincre les
Romains de ne pas fuir à Véies66, le mot pénates apparaît toujours
particulièrement chargé de valeur affective.
Enfin, pénates apparaît également très souvent lors des invocations
solennelles, où l'on prend ces dieux à témoin des paroles qui vont être
prononcées : quare per diuos oratus uterque Penatis, écrit Horace67 à
propos d'un père mourant qui adresse ses dernières recommandations
à ses deux fils. Là encore les circonstances sont à la fois tragiques et
solennelles.
Pouvons-nous, aux divers types de circonstances, qui viennent
d'être énumérés, où apparaît pénates, trouver des traits communs?
Pour mieux les saisir, il nous faut essayer de comprendre ce que
représentaient les Pénates dans la sensibilité romaine. Ils sont ce que
l'homme a de plus cher au monde, à côté de la famille et de la patrie68. Il
faut les défendre en toutes circonstances, et il est criminel de s'attaquer
à eux69. Les Pénates sont donc chargés d'une valeur à la fois religieuse
et sentimentale. Cela explique qu'on les nomme, parfois métonymique-
ment, à la place de domus, dans toutes les circonstances graves, ou
celles dont la charge affective est forte, lors d'une invocation solennelle70,
ou au moment d'abandonner la terre ancestrale71. Ils sont une
référence à un système de valeurs où entrent en jeu en même temps le
sentiment religieux et la sensibilité personnelle, et il n'est pas douteux que le
mot pénates ait contenu pour les Romains une forte charge d'émotion.

63 Χ, 479-80 : « de toutes parts la guerre se fait pressante : déjà tombent dans


l'intérieur du palais des traits qui l'ébranlent» (trad. A. Bourgery, ibid.).
64 I, 29, 4; V, 53, 5; VI, 3, 3; VII, 13, 8; XXII, 3, 10.
65 II, 40, 7 : intra ilia moenia domus ac pénates mei sunt, mater coniunx liberique.
66 Le mot revient à trois reprises dans la bouche de Camille : V, 30, 6; V, 53, 5; V, 53,
8.
67 Sat. II, 3, 176.
68 Sénèque, Phéniciennes, 663.
69 Liv., I, 29, 4; II, 40, 7.
70 Cic, Dom., 144; Horace, Ep. I, 7, 94-95.
71 Cic, Rose. Amer., 23; Quinci., 83.
L'USAGE DU MOT PENATES DANS LA LITTÉRATURE CLASSIQUE 55
*
* *

Nous nous sommes proposé, dans ce chapitre, d'étudier la valeur et


l'usage du mot pénates dans la littérature. Nous avons examiné la
fréquence des emplois du mot, son sens exact, le contexte dans lequel il
apparaissait, les circonstances dans lesquelles il était employé. Il nous
semble, au terme de cette étude, que l'on peut tirer les conclusions
suivantes.
Tout d'abord, pour tenter de préciser les circonstances d'usage du
mot Penates, nous avons distingué le sens propre du sens métonymique
et semi-métonymique. Le classement n'a pas toujours été aisé à faire et
certains exemples demeurent ambigus. Ainsi, dans Tite-Live72, à
propos d'un centurion qui a perdu toute sa fortune et qui veut la
reconquérir en combattant on lit : restituentem euersos pénates. S'agit-il, pénates
ayant alors le sens métonymique de domus, de remettre debout la
maison dont le centurion a été dépossédé, ou, au sens propre, de redresser
les statuettes de ses dieux pénates renversés73? L'emploi de euertere
peut fort bien se justifier dans les deux cas. Peut-être d'ailleurs, à côté
d'exemples où l'on peut clairement voir si pénates est employé au sens
propre ou métonymique, faut-il admettre dans quelques cas l'existence
d'une certaine ambiguïté.
D'autre part, nous remarquerons que, dans les textes dont nous
disposions, qui s'étendent sur cinq siècles environ, les deux emplois de
pénates, au sens propre et au sens métonymique, ne se sont pas
toujours trouvés concurremment. Le sens propre apparaît dans les
exemples les plus anciens de notre corpus, chez Naevius, Plaute et Térence,
alors que la métonymie ne nous semble s'être pleinement réalisée qu'à
partir de Cicéron. Peut-on pour autant dater avec certitude de l'époque
classique l'apparition du sens métonymique? Il faut ici être très
prudent, car nous ne possédons qu'un exemple de pénates chez Naevius,
Plaute, et Térence; dans ces conditions, il est peut-être abusif de
conclure que le sens métonymique n'existait pas aux IIIe et IIe siècles.
En revanche, nous trouvons à partir de Cicéron74 l'un et l'autre emploi,

72 VI, 14, 7.
73 J. Bayet {Tite-Live, Histoire Romaine VI, C.U.F., Paris, 1966, p. 25) traduit pénates
par «foyer».
74 Par ex., Rose. Am., 23, pour le sens propre; Sest. 30, pour le sens métonymique.
56 ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

et il en va de même chez Tacite75. Chez l'auteur le plus tardif de notre


corpus, Suétone, les deux exemples existant de pénates76 sont à prendre
au sens propre. Ces faits nous renseignent sur l'histoire sémantique de
la notion comme sur l'importance de ces dieux dans la mentalité
religieuse des Romains. En effet, on aurait pu penser que la valeur
religieuse précise des dieux Pénates risquait de s'effacer peu à peu pour
laisser la place à un emploi purement métonymique, survivance d'un
sens originel perdu. Or il n'en est rien; à partir de Cicéron, les deux
sens se trouvent employés concurremment. Cela nous montre la vitalité
de cette notion de dieux Pénates, dont nous savons du reste, par l'édit
de Théodose, qu'en 392, ils faisaient encore l'objet d'un culte
spécifique77.
A côté de l'emploi de pénates au sens propre, on trouve, comme
nous l'avons vu au début du présent chapitre, un large emploi du sens
métonymique, dont nous avons dit qu'il était plus fréquent que le sens
propre dans l'ensemble de notre corpus. L'importance du sens
métonymique de pénates prouve que le mot contenait des possibilités
d'extension que nous pensons avoir expliquées par l'étude des circonstances
dans lesquelles il apparaissait. Certes, pénates n'est pas le seul mot à
désigner métonymiquement le foyer, la maison ou la patrie; Lares est
parfois employé dans le même sens. Mais cela témoigne de la valeur
affective dont cette notion est dotée, de même qu'en français les mots
«foyer» ou «patrie» ne désignent pas de simples entités matérielles.
Les Pénates représentent une réalité du monde romain si familière
qu'on éprouve peu le besoin d'en donner des définitions. Le mot est
tellement associé à l'intimité de la vie familiale, à son essence, qu'il a
fini par la symboliser. Ainsi s'expliquent à la fois l'emploi métonymique
du mot pour désigner la maison ou la patrie, et le caractère dramatique
ou affectif des circonstances dans lesquelles on aimait particulièrement
à l'employer.

75 Par ex., Germ. 15, 1; Hist. I, 15, 2.


76 Aug., 92; Mer., 32.
77 Cf. ci-dessous p. 83 sq.
DEUXIEME PARTIE

LES PÉNATES PRIVÉS


INTRODUCTION

Nous avons vu que l'on pouvait définir les Pénates comme «les
dieux du penus», ou, plus exactement «ceux du penus». Cette définition
implique l'existence d'un penus de la maison privée dans la religion
domestique, ou, dans la religion publique, du penus de l'Etat, le Penus
Vestae. Les témoignages antiques indiquent clairement l'existence de
deux catégories de Pénates : d'une part, il existe des Penates priuati,
mentionnés sous cette forme dans de nombreux textes, et nettement
définis comme tels par Tertullien1, en association avec les Lares:
priuatos enim deos, quos lares et pénates domestica consecratione perhi-
hetis; d'autre part, les textes littéraires et les inscriptions attestent
l'existence de Penates populi Romani, honorés par les Romains à Lavi-
nium, l'une des cités-mères de Rome, et aussi, selon le témoignage de
Tacite, dans le sanctuaire de Vesta2, où était ménagée une partie
secrète désignée comme Penus Vestae. L'existence de ces deux
catégories de Penates n'est pas pour nous surprendre, dans la mesure où il
s'agit de dieux domestiques, honorés au foyer, et où il y a un
parallélisme évident entre le culte du foyer privé et celui du foyer de l'Etat, le
maître et la maîtresse de maison jouant un rôle comparable à celui des
prêtres et prêtresses de l'Etat; cette correspondance a été soulignée
notamment par Wissowa3.
Mais remarquer cette correspondance n'est pas aborder le
problème le plus difficile, celui d'un éventuel rapport chronologique, d'une
relation de filiation, entre le culte des Penates priuati et celui des
Penates publici. Sur ce point, deux théories s'opposent. Pour D. G. Orr, le
culte public des Pénates a existé dès les origines de Rome et a peut-être
précédé celui des Pénates privés : «II est possible que le culte domesti-

» Ad Nat. I, 10, 46.


2 Ann. XV, 41, 1.
3 Religion und Kultus de Römer, 2e éd., Munich, 1912, p. 156; S. Weinstock, R.E.
XIX, 1, s.u. Penates, col. 422; G.Dumézil, La religion romaine archaïque, 2è éd., Paris,
1974, p. 359.
60 LES PÉNATES PRIVÉS

que soit une sorte de version miniature des rituels publics»4; G.


Dumézil, au contraire, considère que «les Penates. . . ont sûrement été
promus du culte privé au culte public»5; question d'autant plus complexe
que les Pénates apparaissent très liés à Vesta6, voire confondus avec
elle7. G. Dumézil pourtant, à l'encontre de K. Latte8, voit dans la
déesse du feu une des divinités les plus anciennes de la religion
publique9.
En face d'opinions aussi contradictoires, nous serions tenté
d'invoquer le principe méthodologique de J. Bayet : «En commençant par les
aspects familiaux de la religion, on ne les suppose pas antérieurs aux
aspects tribaux ou fédératifs, ni plus purs qu'eux; on en constatera au
contraire l'hétérogénéité : obstinés sur certains points jusqu'à la
sclérose, sur d'autres sensibles aux variations sociales ou idéologiques. Mais
la première cellule humaine constitue un tout saisissable; une
multiplicité de rapports s'y engagent, propres à faire concevoir la complexité
vivante de faits que l'analyse de la religion d'Etat est contrainte à
disjoindre»10. Cependant, le choix que nous avons fait de commencer
l'étude du culte des Pénates par la religion privée nous paraît justifié
par la nature même de ces dieux. En effet, chargés de la protection de
la réserve aux provisions, ils nous semblent étroitement rivés à la
maison privée; l'emploi métonymique de leur nom explique en partie qu'ils
aient contribué à donner naissance aux Penates publici, dont l'existence
se justifie d'autre part très bien par la transformation des cultes du
foyer du roi en cultes d'Etat11. Le culte public n'est donc, croyons-
nous, qu'une extrapolation du culte privé.
On pourrait invoquer comme argument en faveur de l'antériorité
du culte public le fait que les Penates populi Romani sont liés à la

4 Roman Domestic Religion, A.N.R.W., II, 16, 2, Berlin-New- York, 1978, p. 1559.
5 La religion romaine archaïque, p. 359.
6 Cicéron {De Nat. Deor. II, 68) écrit : nec longe absunt ab hac ui (= Vesta) di
Penates; selon le témoignage de Tacite (Ann. XV, 41), les Pénates étaient honorés à Rome dans
le sanctuaire de Vesta : cf. infra p. 467-70.
7 Macrobe, III, 14, 41; Servius, Ad Aen. II, 296; pour l'étude du sacrifice des
magistrats romains à Vesta et aux Pénates, voir infra p. 355-61.
8 Römische Religionsgeschichte, Munich, 1960, p. 90.
9 Ibid.
10 Etude politique et psychologique de la religion romaine, Paris, 1957, p. 62.
11 S. Weinstock, R.E. XIX, 1, s.u. Penates, col. 441; F. Coarelli, // Foro Romano I:
Periodo arcaico, Rome, 1983, p. 70-71; cf. infra p. 519.
INTRODUCTION 61

légende de la venue d'Enée en Italie; mais, nous le verrons12 cette


dernière n'est pas antérieure, au plus tôt, au VIe siècle, et il n'y a aucune
preuve qu'Enée ait été considéré comme l'ancêtre des Latins avant le
IVe siècle; or, il y a de bonnes raisons de penser que le culte privé des
Pénates existait déjà à cette époque; enfin, la désignation comme
«Pénates» des dieux apportés de Troie par Enée peut fort bien n'être que la
marque de la superposition, à la légende, d'une tradition indigène.
Nous commencerons donc par l'étude des Pénates privés. Cela ne
veut pas dire que le sujet soit simple. Notre documentation, en effet,
présente de grandes lacunes en ce qui concerne les réalités de ce culte;
les témoignages littéraires nous renseignent assez bien sur lui à
l'époque classique, mais, dans les débuts de la littérature latine, chez Nae-
vius, nous n'avons sur lui qu'une indication très mince, et difficile à
interpréter. Ce caractère fragmentaire se retrouve également dans
l'iconographie : ce qui nous est parvenu de l'habitat privé ne nous a guère
livré de représentations des divinités domestiques, sauf dans le cas de
Pompéi. D'autre part, à côté de ces images, ou de ces commentaires sur
le culte des Pénates privés, nous nous trouvons devant des définitions
et des interprétations très variées de la personnalité de nos dieux : en
bref, il semble que les Pénates aient été primitivement une collectivité
indistincte de dieux veillant sur le penus, alors que des témoignages
plus tardifs, comme ceux des fresques de Pompéi, les assimilent à des
dieux à la personnalité bien distincte, Jupiter, Vesta, Mercure, etc. . .
Nous nous trouvons donc, là encore, devant un problème de méthode :
ayant à étudier le culte des Pénates privés et la nature de ces dieux,
nous avons choisi de parler d'abord des réalités du culte, puis de la
définition des Pénates. On peut certes objecter à cette méthode qu'il
paraît plus logique de définir des dieux avant de parler du culte dont
ils sont l'objet. En fait, la démarche inverse nous a paru plus adaptée à
notre propos. Elle présentait en effet l'avantage d'aller du niveau de la
description, de la réalité matérielle, presque tangible, des faits, à celui
de l'interprétation, beaucoup plus complexe et sujette à caution. Cette
méthode n'a pas toujours été celle de nos investigations, mais elle nous
a semblé préférable pour rendre plus clair l'exposé de notre sujet.

12 Cf. infra p. 161 sq.


CHAPITRE I

LES RÉALITÉS DU CULTE DES PENATES PRIVÉS

Nous nous proposons, dans un premier temps, d'aborder l'étude


des Pénates privés par l'examen des réalités matérielles de leur culte,
assez bien connu. Nous avons appuyé notre étude sur deux sortes de
témoignages : d'une part, les textes des auteurs anciens, d'autre part les
données archéologiques; pour ces dernières, les villes de Campanie
détruites lors de l'éruption du Vésuve en 79 offrent évidemment un
ensemble très complet d'architecture domestique; nous avons
essentiellement utilisé les exemples fournis par Pompéi, ce qui n'a d'autre
justification que pratique : les lararia de la cité ont fait, contrairement à
ceux d'Herculanum, l'objet d'une publication méthodique1.

I - La localisation du culte

1) Dans la maison en général

Nous avons vu que les Pénates pouvaient être considérés comme


des di priuati, ainsi que le rappelle Tertullien dans le texte
précédemment cité. A ce titre, les Pénates ont leur siège et leur culte dans la
maison particulière, comme l'indique Servius2 : Penates sunt omnes di qui

1 G. K. Boyce, Corpus of the Lararia of Potnpei, in Memoirs of the American Academy


in Rome, XIV, 1937; D. G. Orr a présenté dans un article {Roman Domestic Religion : The
Evidence of the Household Shrines, A.N.R.W., II, 16, 2, Paris-New- York, 1978, p. 1557-
1591) un resumé d'une étude non publiée sur la religion privée (Roman Domestic
Religion, : A Study of the Roman Household Deities and their Shrines, Ph. D. Dissertation,
University of Maryland, College Park, Maryland, 1972).
2 Ad Aen. II, 514.
64 LES PÉNATES PRIVÉS

domi coluntur. Cette indication n'est pas très surprenante3, dans la


mesure où nous avons déjà remarqué que la notion de «Pénates» était à
ce point proche de celle de «maison» que les deux mots étaient parfois
confondus et que l'on utilisait métonymiquement Penates pour désigner
la maison. Essayons à présent de préciser la localisation du culte de
nos dieux dans cette dernière.
De nombreux témoignages de textes anciens attestent que le
Pénates sont honorés dans la maison d'une manière très vague et très
générale. Nous en avons vu des exemples en étudiant l'usage du mot Penates
dans la littérature classique. Quelques textes, en revanche, localisent
plus précisément la résidence de ces dieux dans la maison. C'est ainsi
que Cicéron écrit, dans un texte que nous avons précédemment
commenté4 : penitus insident. Servius s'exprime en termes apparemment à
peu près analogues quand il dit5 : penetralia id est domorum secreta,
dicta penetralia aut ab eo quod est penitus, aut a penatibus. L'une des
deux etymologies proposées par Cicéron pour le mot Penates le met
donc en relation avec penitus. L'explication fournie par Servius pour le
terme penetralia est en fait un peu différente : le choix donné entre
deux etymologies, l'une qui le rapproche de penitus, l'autre de pénates,
semble exclure la possibilité d'une parenté entre ces deux derniers
termes, comme le souligne l'emploi de aut. Pourtant, nul doute que pour
Servius, les Pénates soient liés à une partie retirée, ou mystérieuse, de
la maison, puisque le nom des domorum secreta est tiré du leur. Cela
indique donc bien que les Pénates ont leur séjour dans la partie intime
de la maison, peut-être sa partie secrète, cachée; que Servius ne
désigne pas cette dernière du terme penus nous paraît aller dans le sens
des remarques faites précédemment : il est probable que pour lui,
comme pour Cicéron, ce mot désigne «les provisions», non l'endroit où on
les conservait. Ces indications, toutefois, restent encore assez vagues,
puisqu'elles ne mentionnent le nom d'aucune pièce, ou partie précise
de l'architecture de la maison, qui serait le lieu du culte des Pénates.

3 Cf. G. Radke, Die dei pénates und Vesta in Rom, A.N. R.W. , II, 17, I, Berlin-New-
York, 1981, p. 253-255.
4 De Nat. Deor. II, 68 : di Penates, siue a penu ducto nomine. . . siue ab eo quod
penitus insident.
5 ,4c? Aen. II, 484; voir supra p. 24 η. 58.
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PÉNATES PRIVÉS 65

2) Dans une pièce particulière de la maison

Les premières traces archéologiques certaines que nous possédions


du culte des Pénates privés se trouvent dans les plus anciennes maisons
de Pompéi qui datent de l'occupation samnite du territoire, c'est-à-dire
d'une période allant du dernier quart du Ve siècle avant J.-C. à la fin du
IIIe siècle6. Mais la plupart des maisons datent d'une période
comprise entre la «romanisation» de la ville à l'époque de Sulla, et sa
destruction en 79 après J.-C. L'état de conservation de l'ensemble permet une
étude assez précise du culte domestique. Les divinités domestiques y
sont vénérées dans des petites chapelles pouvant revêtir des formes et
des tailles différentes, appelées laraires7, «improprement», comme le
note P. Boyancé8, puisque ce terme n'apparaît qu'à l'époque
impériale, et que son usage systématique à propos des lieux du culte
domestique est le fait des modernes.
Il arrive, assez exceptionnellement (dans six cas seulement9 sur
l'ensemble des cinq cents laraires recensés par G. K. Boyce), que les
divinités domestiques se voient réserver une pièce particulière de la
maison, que l'on désigne du terme de sacrarium; il y a trois autres
exemples où il n'est pas absolument certain que ces pièces aient été
réservées exclusivement au culte domestique. Les sacrarla se
distinguent des autres pièces de la maison par une architecture particulière :
deux d'entre eux10 ont un plafond voûté, l'un11 est souterrain, deux
encore12 ont des bancs le long des murs où pouvaient s'asseoir les
fidèles; ces caractères architecturaux rappellent ceux des sanctuaires de
divinités orientales, en particulier de Mithra. Tous ces sacraria
présentent des niches où étaient représentés les dieux et un autel en
maçonnerie où se faisaient les sacrifices13.
Mais dans la majorité des cas, les dieux domestiques se voient sim-

6 R. C. Carrington, Notes on the building materials of Pompeii, JRS, 23, 1933, p. 125-
152; E. La Rocca-M, et A. de Vos, Guida archeologica di Pompei, Milan, 1976, p. 13 et 31.
7 G. K. Boyce, ibid.; A. Maiuri, L'ultima fase edilizia di Pompei, Rome, 1942; pour
une bibliographie plus complète, cf. Guida archeologica di Pompei, p. 349-354.
8 Les Pénates et l'ancienne religion romaine, REA, 54, 1952, p. 112.
9 Op. cit., p. 18: VI, 1, 1; VI, 15, 18; VII, 2, 20; IX, 8, 3 et 6; IX, 9, 6; Villa des
Colonnes de mosaïque.
10 VI, 15, 18 et VII, 2, 20.
11 VI, 1, 1.
12 VI, 1, 1 et IX, 9, 6.
13 G. K. Boyce, op. cit., pi. 41.
66 LES PÉNATES PRIVÉS

plement consacrer une petite chapelle en forme de niche plaquée


contre le mur d'une des pièces de la maison. Celle dont l'attestation est
la plus fréquente est la cuisine. Du reste, l'un des sacello, dont nous
venons de parler14, adossé au mur d'un jardin, offre dans son
architecture des particularités qui ont pu faire penser qu'il s'agissait
originellement d'une cuisine15: notamment, de possibles traces d'un foyer dans
les ruines d'une structure maçonnée se trouvent dans l'un des coins de
cette pièce rectangulaire. Souvent, donc16, les dieux domestiques sont
honorés dans la cuisine à Pompéi, et, ians les fresques des villes cam-
paniennes étudiées par W. Helbig17, sur vingt-huit représentations où
figurent les Pénates seuls ou accompagnés d'autres divinités
domestiques, huit se trouvent placées dans la cuisine. Ce fait est du reste
confirmé par les témoignages littéraires. Servius écrit : singula entm
domus sacrata sunt dus ut culina penatibus18; dans un passage de
Martial, il est question d'un sanglier, tué à la chasse par l'un des amis du
poète, que l'on va faire cuire chez ce dernier :
Pinguescant madido laeti nidore pénates
flagret et exciso festa culina iugo19.

D'après ce texte, la localisation des Pénates dans la cuisine n'est


pas douteuse, puisque les dieux seront nourris des vapeurs qui se
dégageront dans la pièce lorsqu'on cuira l'animal20. Plus précisément,
certains textes indiquent que le lieu privilégié du culte des Pénates est le
foyer, dont Servius nous dit même qu'il constitue véritablement l'autel

14 ix, 9, 6.
15 G. K. Boyce, op. cit., p. 91 ; cette hypothèse est reprise de A. Mau, Pompeji in Leben
und Kunst, 2e éd., Leipzig, 1908.
16 Par exemple I, 2, 6; I, 2, 19; I, 3, 8; V, 1, 18; V, 2, 3; VI, 1, 10; VII, 3, 11-12 etc. . .;
sur les 505 exemples de Pompéi étudies par G. K. Boyce, la chapelle des dieux
domestiques se trouve dans la cuisine 90 fois, et plusieurs fois dans une petite pièce contigue à
cette dernière; en outre, il faut tenir compte de ce que cet ensemble comporte de
nombreuses tabernae et cauponae où il n'y a pas toujours de «laraires».
17 Wandgemälde der vom Vesuv verschütteten Städte Campaniens, Leipzig, 1868.
18 Ad Aen. II, 469.
19 VII, 27, 5-6: «Que mes pénates s'engraissent joyeusement à la vapeur de son
fumet et qu'on déboise une hauteur pour le feu de ma cuisine en fête» (trad. H.-J. Izaac,
C.U.F., Paris, 1930).
20 Mais la fumée aura aussi pour effet de déposer de la graisse sur les images des
dieux (pinguescant est à prendre au sens métaphorique et au sens propre).
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PÉNATES PRIVÉS 67

de ces dieux: cum focus ara sit deorum penatium21. Cette explication
permet d'éclairer une expression de Virgile, dans la description du
palais de Didon : l'une des tâches des cinquante servantes est de flam-
mis adolere penatis22; les parfums sont brûlés dans le foyer, où sont
vénérés les «Pénates» de la reine, selon l'interprétation d'A. Belles-
sort23; J. Perret va plus loin : il voit dans l'emploi de Penatis une
métonymie pour culina, «et l'expression signifierait embraser la cuisine de
flammes, faire grand feu dans la cuisine»24. Du reste, nous avons vu
que pénates était souvent employé métonymiquement pour focus25.
Dans le vers qui précède immédiatement ceux que nous avons cités,
Martial dit du sanglier : iacet. . . nostris focis, où il ne nous semble pas
qu'il faille voir dans focis une métonymie; l'animal, tué, va être cuit
dans le foyer.
La cuisine n'est cependant pas la seule pièce où l'on trouve des
représentations des Pénates dans les maisons de Pompéi; il existe pour
leur image, ou l'autel de leur culte, une grande variété
d'emplacements : l'atrium26, le péristyle ou le pseudo-péristyle27 un mur bordant
le jardin28 ou, beaucoup plus rarement, les fauces29, ou encore une
petite pièce, ou un recoin, attenant au tablinum30, peut-être une fois le
tablinum lui-même, mais l'identification de la base de maçonnerie
comme les restes d'un laraire n'est pas certaine31; peut-être faut-il voir une
cella penaria dans une petite pièce très étroite, voisine du triclinium,
dans une maison de Pompéi32 : la présence d'étagères, taillées dans le

21 Ad Aen. XI, 211.


22 En. I, 704.
23 Enéide I-VI, 2e éd., C.U.F., Paris, 1966.
24 Enéide I-IV, 2e éd., C.U.F., Paris, 1981, Notes complémentaires, p. 151-152.
25 Cette métonymie, remarque fort justement S. Weinstock (R.E. XIX, I, s.u. Penates,
col. 423) était préparée par l'expression penetrates focos que l'on trouve chez Catulle (68,
102) et Cicéron (Har., 57).
26 I, 2, 3; I, 7, 10-12; I, X, 4; V, 1, 26; V, 2, 1 ; VI, 7, 3; VI, 11, 19; VI, 16-27; VII, 6; 7;
VII, 9, 47; Vili, 3, 18; IX, 1, 22; IX, 3, 5; IX, 7, 20, etc. . .
27 I, 3, 8; I, 3, 20; I, 7, 7; V, 1, 7; V, 4, 2; VI, J, 1 VI, 8, 5; VI, 9, 6-7; VI, 12, 2; VI, 16,
7; VII, 6, 3.
28 I, 2, 10; I, 4, 9; V, 3, 7; V, 4, 3; VI, 14, 30; VI, 15, 7-8; VII, 2, 14, etc. . .
29 I, 2, 17; I, 10, 3; V, 2, 2A; VI, 11, 15; VII, 6, 30.
30 V, 2, 2, C; VI, 15, 6; VI, 16, 26-27; VIII, 5-6, 9; IX, 2, 21 ; IX, 6, 9.
31 VII, 7, 10; cf. G. K. Boyce, op. cit., p. 68 n° 297.
32 I, 7, 10-12 B. Cf. G. K. Boyce, op. cit., p. 26 n° 41 ; l'identification comme cella pena-
ria de la petite pièce où figurent les dieux domestiques au V, 2, 3 Β (op. cit. p. 38 n° 110)
n'est pas du tout certaine.
68 LES PÉNATES PRIVÉS

mur, peut constituer un élément en faveur de cette identification; or


dans cette pièce sont représentées, dans une niche, plusieurs divinités
domestiques; on trouve un exemple de laraire dans le triclinium33; la
présence des dieux domestiques dans une pièce où l'on reconnaît un
cubiculum est exceptionnelle34; enfin, on trouve des images des dieux
domestiques dans de nombreuses boutiques et arrière-boutiques,
parfois dans la cuisine des tabernae ou cauponae, ou dans la pièce
principale de ces dernières, quelquefois dans des moulins35.
De cette localisation du culte des Pénates dans les différentes
pièces de la maison, de sa fréquence dans telle ou telle pièce, nous
pouvons essayer de tirer quelques conclusions. D'une façon très générale,
la chapelle des dieux domestiques est située dans des lieux servant à
l'usage commun, cuisine, atrium, péristyle, vestibule, en particulier. Ce
fait est aisément explicable : Pénates et Lares, même s'ils sont la
plupart du temps accompagnés du Genius spécifiquement attaché au
maître de maison, ne sont pas les divinités personnelles de ce dernier, mais
celles de toute la famille, et, pour les Pénates, celles de la maison elle-
même. De plus, cette localisation du culte domestique dans des pièces
où chacun pouvait se rendre permettait à l'ensemble de la maisonnée
de rendre hommage aux dieux familiaux. Lorsque leur chapelle était
située dans le vestibule, ou dans l'atrium, les visiteurs eux-mêmes
pouvaient les saluer au passage. C'est ce à quoi nous assistons dans le
Satiricon, lorsque Encolpe et ses deux amis arrivent au dîner chez Trimal-
cion36: sur les murs de l'atrium sont peints les épisodes de la vie du
maître de maison, et dans un coin se trouve une armoire (armarium)
contenant les dieux domestiques; chez Trimalcion, le ridicule se sent
dans la vanité et la richesse ostentatoire qui s'étalent dans ces peintures
et cette sorte d'autel domestique; mais, sous un aspect caricatural, elles
nous renseignent tout de même sur les pratiques de la vie privée37. La
répartition de ces chapelles domestiques se fait à peu près également
entre l'atrium (56 exemples), le péristyle (59 exemples), et l'un des murs
bordant le jardin (49 exemples); mais la cuisine reste, de loin, avec 90
exemples, le lieu le plus fréquemment utilisé pour y placer les laraires.

33 ix, 2, 16.
34 VIII, 3, 14 C; la distinction entre cubiculum et sacellum donne parfois matière à
controverses ; à ce sujet, cf. G. K. Boyce, op. cit., p. 75 n. 2.
35 I, 3, 27; V, 3, 8; V, 4, 1, etc. ..
36 Sat., XXIX.
37 Voir E. Paratore, // Satyricon di Petronio II (Commento), Florence, 1933, p. 94-95.
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PÉNATES PRIVÉS 69

II nous semble que cet état de choses est le résultat d'une double
évolution : de l'architecture de la maison privée d'une part, de la conception
des Pénates, d'autre part.
Dans l'une des plus anciennes maisons de Pompéi, la «Maison du
Chirurgien»38, datant du IVe siècle, les pièces constituent un seul corps
de bâtiments s'organisant autour de l'atrium, et le laraire des dieux
domestiques est dans la cuisine; c'est une peinture présentant deux
zones : dans la zone inférieure se trouvent deux serpents affrontés
symétriquement à un autel; dans la zone supérieure, le Genius versant
une libation sur un autel, à la droite duquel se tient un camillus; deux
figures indistinctes encadrent ce groupe central, mais on peut penser
avec quelque vraisemblance, étant donné la similitude avec
l'iconographie d'autres laraires, qu'il s'agit des Lares; au-dessus encore sont
représentés deux autres figures indistinctes : sans doute, croyons-nous,
les Pénates39. Servius, nous l'avons vu, considère la cuisine comme la
«pièce des Pénates». Dans la cabane primitive, constituée d'une unique
pièce, les Pénates ne pouvaient être honorés que dans cette dernière, si
l'on refuse toutefois l'hypothèse proposée par F. Borner d'une réserve
aux provisions distincte de la maison, dont les Pénates auraient été les
dieux. De toute façon, à supposer même que le penus de la maison
primitive ait été séparé du reste de l'espace domestique par des cloisons
d'osier tressé, comme le Penus de YAedes Vestae, les dieux du penus
n'en auraient pas moins été vénérés dans la pièce unique. Mais, à partir
du moment où la maison comporte plusieurs pièces à destination
spécialisée, s'organisant autour de l'atrium, il faut expliquer que ce soit,
plus volontiers qu'ailleurs, dans la cuisine qu'on les ait honorés40. Leur
présence dans la cella penaria n'est attestée que dans un cas, peut-être
deux : cette pièce, petite, aveugle, au total plutôt ingrate, convenait sans
doute assez mal à l'importance qu'ont prise les Pénates. En revanche,
la localisation de leur culte dans la cuisine de préférence s'explique
sans doute par l'évolution du sens du mot penus. En effet, à partir du
moment (difficile à dater précisément, mais la définition de Cicéron, est

38 VI, 1, 10; cf. E. La Rocca-M. et A. de Voos, op. cit., p. 327; G. K. Boyce, op. cit.,
p. 43, n°135.
39 Cf. G. K. Boyce, ibid.
40 Selon D. G. Orr {op. cit., p. 1563), les Pénates étaient primitivement honorés dans
le penus, réserve aux provisions située derrière le foyer, au fond de l'atrium, et, dans le
temple de Vesta, le penus a dû servir à la fois de réserve pour les ingrédients du sacrifice
et de cuisine où on les apprêtait.
70 LES PÉNATES PRIVÉS

omne quo uescuntur homines penus, constitue de toute façon un


terminus post quern) où penus désigne les provisions, la nourriture, et non un
espace particulier de la maison, il paraît assez naturel que la cuisine ait
été le séjour des dieux du penus. C'est sans doute ainsi qu'il faut
expliquer la présence de représentations des Pénates dans les moulins (pis-
trinae) : la relation entre nos dieux et le blé et la nourriture, nous paraît
ici assez claire, de même d'ailleurs que dans les cauponae.
D'autre part, la présence de ces dieux dans des pièces communes
autres que la cuisine s'explique par une évolution dans la conception
que l'on s'est faite d'eux : nous y reviendrons plus loin. De fait, nous
avons vu que les Pénates étaient compris comme le symbole même de
la maison, qu'ils désignaient parfois métonymiquement. Dans cette
mesure, on conçoit que leurs images aient été placées dans les lieux où
l'ensemble de la maisonnée avait le plus souvent l'occasion de passer,
en particulier l'atrium, et, pour les maisons qui en comportent un, le
péristyle. Il semble que cette pratique soit apparue tôt à Pompéi, car,
dans la «Maison de Salluste», qui date du IIIe siècle, le laraire se trouve
dans l'atrium : c'est une peinture qui représente le Genius entouré de
deux Lares, avec, en dessous, un serpent; des trous dans le mur, sous
cette peinture, font penser que l'on y avait placé des statuettes d'autres
dieux domestiques, les Pénates41. Dans cet exemple, comme dans celui
de la «Maison du Chirurgien», nous constatons que les dieux
domestiques, Genius, Lares, Pénates, paraissent avoir été vénérés dans la même
chapelle, dès les IVe-IIIe siècles; aussi conçoit-on qu'on ait voulu les
mettre à une place d'honneur dans la maison, même si cette place ne
correspondait pas à la définition primitive de certains de ces dieux.
C'est sans doute ainsi que s'explique une expression assez curieuse de
Suétone, à propos de la superstition d'Auguste : enatam inter iuncturas
lapidum ante domum suam palmam in compluuium deorum Penatium
transtulit42; compluuium désigne métonymiquement Y atrium de la
maison d'Auguste sur le Palatin43. L'atrium, cœur de la demeure, centre de

41 G. K. Boyce, op. cit., p. 44 n° 139.


42 Aug. 92, 3 : «Un palmier ayant poussé entre les pierres devant sa maison, il le fit
transporter dans le "compluvium" à côté des dieux Pénates» (trad. H. Ailloud, C.U.F.,
Paris 1961).
43 C'est à cette interprétation que se rallie finalement S. Weinstock (op. cit., col. 448)
après avoir aussi envisagé l'explication selon laquelle ce compluuium deorum Penatium
ferait partie du temple de Vesta construit par Auguste sur le Palatin ; cf. S. T. Platner-
Th. Ashby, A Topographical Dictionary of Ancient Rome, Oxford-Londres, 1929, p. 557-58.
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PÉNATES PRIVÉS 71

la vie domestique, paraît tout naturellement désigné pour abriter les


dieux qui symbolisent la maison. On peut d'ailleurs considérer que
l'atrium, qui était à l'origine la seule pièce de la maison romaine, a dû
être le siège premier des Pénates, antérieurement à la cuisine, dont
l'existence représente déjà un développement de l'architecture
domestique; de cette antériorité, il n'y a malheureusement aucune trace
archéologique à Pompéi44. Le péristyle, pour les maisons qui présentent
ce type d'architecture45, joue un rôle tout à fait analogue, comme
centre de l'univers domestique, à celui de l'atrium. Du reste, dans les
maisons d'une taille très importante, comportant à la fois un atrium et un-
péristyle, il arrive qu'il y ait plusieurs laraires : c'est le cas à la «Maison
du Faune», où l'on trouve deux niches abritant les images du culte
domestique, l'une dans le péristyle, l'autre dans la cuisine.

3) Les différentes formes de chapelles domestiques

Nous avons vu que certaines maisons pompéiennes comportent un


sacrarium, pièce qui semble exclusivement réservée au culte privé; mais
dans la plupart des cas, les dieux domestiques sont honorés dans une
pièce par ailleurs destinée à un autre usage; l'espace assigné à leur
représentation, d'une architecture plus ou moins élaborée, va alors de
la simple peinture murale à une véritable petite chapelle miniature : on
le désigne généralement du terme de lararium, qui, répétons-le, ne
semble pas correspondre à un usage ancien.
Il arrive que cette chapelle des dieux domestiques soit une simple
peinture murale, d'une taille variable. Dans la «Maison du Chirurgien»,
l'une des plus anciennes de la ville, nous l'avons vu, les dieux
domestiques sont représentés sur le mur sud de la cuisine, mais de tels
panneaux peuvent aussi bien se trouver sur le mur d'un péristyle46 ou d'un
atrium47, ou encore du jardin48. Dans une maison49, cette peinture
couvre un mur entier de la cuisine, mais ces laraires n'occupent le plus

44 Cf. K. Schefold, La peinture pompéienne. Essai sur l'évolution de sa signification,


trad. J. M. Croisille, Coll. Latomus, vol. 108, Bruxelles, 1972, p. 52-68.
45 Cf. R. Etienne, La vie quotidienne à Pompéi, Paris, 1966, p. 277-307 (en particulier
les plans des p. 279 et 287).
46 Par exemple I, 3, 24.
47 Par exemple V, 2, 1.
48 Par exemple, V, 2, 4 C; V, 2 3 B.
49 V, 4, 3 B.
72 LES PÉNATES PRIVÉS

souvent qu'une portion du mur, et ils ne constituent pas la forme la


plus fréquente du culte domestique, puisqu'on ne la trouve que dans 59
des 505 cas étudiés par G. K. Boyce.
Plus fréquente est la niche50, cavité ménagée dans le mur,
généralement à une hauteur telle que l'on puisse aisément l'atteindre
lorsqu'on est debout; il y a à Pompéi deux exceptions : une niche est placée
à ras du sol, l'autre, dans la «Maison du Faune», très haut dans le mur
de la cuisine. La niche, sous sa forme la plus simple, est un réceptacle
carré ou rectangulaire taillé dans le mur; mais cette forme dépouillée
se trouve rarement, et la plupart des niches sont rehaussées par des
ornements. On trouve par exemple, dans la partie supérieure de la
niche, différentes variétés d'arc51. Plus fréquemment encore, la niche
est décorée par des éléments plus ou moins complexes destinés à lui
donner l'apparence d'une facade de temple, ou de chapelle; c'est, dans
le cas le plus simple, un fronton triangulaire, souvent complété par des
pilastres ou des colonnes52; ils peuvent être simplement peints autour
de la niche, ou exécutés en stuc, parfois même en marbre53. Etant
donné les dimensions relativement réduites de ces niches (elle ont en
moyenne une cinquantaine de centimètres de haut et une dizaine de
centimètres de profondeur), tous les éléments du culte domestique ne
sont pas représentés à l'intérieur de la cavité; en particulier, le ou les
serpents, l'autel54, quelquefois même une ou plusieurs divinités55
peuvent être peints sur le mur, en-dessous de la niche ou à côté d'elle. A
Herculanum, on trouve de nombreux exemples de laraires de bois, bien
conservés, dont la sobriété contraste souvent avec la richesse
décorative du panneau sur lequel ils sont placés56.
Le plancher de la niche est quelquefois constitué par la surface
brute du réceptacle taillé dans le mur; dans la majorité des cas
cependant, il est couvert par une plaque de pierre ou un carrelage, qui

50 72 exemples selon G. K. Boyce.


51 Cf. G. K. Boyce, op. cit., pi. 2, 3, 4, 6.
52 Op. cit., pi. 5, 7.
53 A. Maiuri (Ercolano, Rome-Novara-Paris 1932, p. 54-56) cite l'exemple de la
«Maison du Squelette», à Herculanum, où la chapelle des dieux domestiques est richement
ornée d'une mosaïque en pâtes de verre de diverses couleurs; quelques autres exemples à
Pompéi, en place et au Musée de Naples.
54 Op. cit., pi. 9 et 10.
55 Op. cit., pi. 12 fig. 4; pi. 25 fig. 1.
56 Cf. D. G. Orr, op. cit., p. 1585, et pi. X.
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PÉNATES PRIVÉS 73

déborde légèrement du plan du mur pour constituer une sorte de


rebord comportant parfois des moulures57, ou décoré d'une frise à
méandres58; le rebord est parfois aussi réalisé avec un morceau de
tuile de toit59; il permet d'agrandir le plancher de la niche et, ainsi, de
poser des statuettes des divinités tutélaires de la maison, et aussi les
offrandes qui leur sont destinées. Les murs de la niche sont tout
d'abord recouverts de stuc blanc, et demeurent parfois tels. Mais dans
la plupart des cas, ce stuc est peint de couleurs variées : jaune, orange,
rouge, vert, noir. La peinture est unie lorsqu'elle sert de fond à des
représentations figurées des dieux domestiques, elles-mêmes peintes.
Mais il arrive aussi que les dieux du foyer soient présents dans la niche
sous forme de statuettes. Les parois intérieures de la niche sont alors
souvent décorées de motifs comme des fleurs, des feuilles, parfois des
oiseaux. Les trous dans le plancher de certaines niches donnent à
penser que les statuettes des dieux y étaient fermement fixées.
Dans beaucoup de niches, la façade avait l'apparence d'un temple
en miniature. Mais il y a des cas où le temple en miniature est plus
complet et ne comporte pas seulement une façade : il s'agit alors de
Yaedicula, dont la caractéristique, outre d'offrir une sorte de modèle
réduit de temple, est d'être placée sur un podium. Cette forme
architecturale semble représenter une tradition continue et très ancienne60.
Elle correspond, en fait, à des modèles réduits de temples61, qui
apparaissent en Italie, non seulement à Pompéi, mais aussi dans le Latium
et en Etrurie62. Les aediculae, à Pompéi, se trouvent parfois assez
curieusement placées dans l'angle d'une pièce, et offrent alors deux
façades et deux frontons, les deux autres côtés étant fermés par les
murs mêmes de la pièce contre lesquels s'appuient les aediculae63. A
côté de la véritable aedicula, on trouve à Pompéi un autre type
architectural assez voisin, qualifié par G. K. Boyce de «pseudo-aedicula»64.

57 G. K. Boyce, op. cit., pi. 5 fig. 2 («Maison du Faune»).


58 Ibid., pi. 6 fig. 1.
59 Ibid., pi. 13 fig. 1.
60 Ibid., p. 12 η. 6.
61 Ibid., p. 12 η. 4.
62 D. G. Orr (op. cit., p. 1576) insiste sur la probable origine étrusque des sanctuaires
domestiques, dont il croit reconnaître une représentation sur un sarcophage de Volter-
ra.
63 G. K. Boyce, ibid., pi. 29 fig. 3 et 4.
64 Ibid., p. 12-13.
74 LES PÉNATES PRIVÉS

La structure générale de la construction est la même, mais on ne


trouve pas les colonnes du temple en miniature : il s'agit d'une niche
creusée dans un bloc de maçonnerie, surmontée d'un fronton, et souvent
ornée, comme les niches murales, d'une façade a'aedicula; comme Yae-
dicula, la « pseudo-aedicula » est placée sur un podium d'un peu plus
d'un mètre de haut65. Quant à la décoration intérieure de ces deux
types architecturaux, elle est tout à fait analogue à celle des niches
murales, dont nous avons déjà parlé plus haut.
Il apparaît qu'en Campanie même, Yaedicula n'était pas toujours
posée sur un podium. Cette sorte de petit temple portatif était placé,
dans la maison de Trimalcion, à l'intérieur d'une armoire : praeterea
grande armarium in angulo uidi, in cuius aedicula erant Lares argentei
positi Venerisque signum. marmoreum et pyxis aurea non pusilla, in qua
barbam ipsius conditam esse dicebant66. D'après cette description, il
semble que l'on devait ouvrir les portes de l'armoire pour montrer aux
visiteurs les images des dieux domestiques, ou que Y armarium en
question n'avait pas de porte, puisqu'on voit Yaedicula qui se trouve à
l'intérieur. Tous les détails {argentei, marmoreum, aurea) attestent la
richesse, ici ostentatoire, du maître de maison; en revanche, il est difficile,
faute de points de comparaison, de juger de la singularité ou de la
banalité de la pratique consistant à mettre une aedicula dans une
armoire.
Notre étude a pris en compte les différentes formes de l'espace
réservé au culte des dieux domestiques à Pompéi, et, dans les cas où
c'était possible, nous les avons comparées avec des faits latins. Pompéi
présente l'avantage d'offrir un ensemble très important de maisons
privées, mais il n'est pas possible de généraliser les conclusions que l'on
peut en tirer, ni de les transposer dans le domaine proprement romain,
même s'il est permis de penser qu'il y a eu de grandes ressemblances
entre les cultes privés à Rome et à Pompéi, surtout à partir du Ier siècle
avant J.-C. où s'opère, sous l'égide de Sulla, la romanisation de la
cité67. A Rome même, aucun laraire antérieur à l'époque impériale n'a

65 Op. cit., pi. 34 fig. 1 et 2.


66 Sat., XIX: «En outre, je remarquai dans un coin une grande armoire avec, au-
dedans, un reliquaire contenant les Lares d'argent, une statue en marbre de Vénus, et
une boîte d'or non des plus petites, qui passait pour renfermer la première barbe du
maître de maison» (trad. A. Ernout, C.U.F., Paris, 1923).
67 E. La Rocca-M. et A. de Voos, op. cit., p. 14 sq.
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PÉNATES PRIVÉS 75

été conservé68. On en a découvert un, en très bon état, avec un


Mithreum souterrain attenant, dans une maison de l'Esquilin69. Cette
construction, datée de l'époque de Constantin, présente de grandes
analogies avec celles de Pompéi. Il s'agit d'un sacrarium, petite chapelle
adossée à l'un des murs de la cour intérieure; sur son côté droit se
trouve la porte qui donne sur l'escalier descendant au Mithreum. Le
sacrarium a trois murs indépendants, et est surmonté d'un fronton.
L'intérieur et l'extérieur des murs étaient revêtus de plaques de
marbre, dont il subsiste quelques traces; la voûte était peinte en rouge; la
niche principale contenait la statue d'Isis-Fortuna, tandis que celles des
côtés, de forme carrée, abritaient les images de divinités considérées
par C.L.Visconti comme «les Lares et les Pénates»70: Zeus-Sérapis,
Zeus, Diane, Vénus, Mars, Hercule, Ariane, et d'autres fragments
difficilement identifiables. De même, dans le Trastevere, Y Excubitorium de
la VIIe cohorte des vigiles71, daté du IIe siècle après J.-C, comporte une
pièce rectangulaire avec une entrée à arc, dont un graffito indique la
fonction : c'est le sacrarium de la caserne, un laraire consacré au
Genius de Y Excubitorium.

II - Les représentations des Pénates

Les laraires de Pompéi - peintures murales, niches, aediculae,


sacraria - contiennent généralement plusieurs divinités domestiques;
elles apparaissent parfois peintes sur les murs intérieures des niches ou
des aediculae, soit sur le fond blanc constitué par le stuc, soit sur un
fond d'intonaco de couleur variée, qui peut être lui-même décoré de
différents motifs animaux ou végétaux; il se produit également, nous
l'avons vu, que les dieux domestiques soient peints pour partie dans le
laraire, pour partie sur le mur environnant; enfin, ces dieux sont
représentés sous deux formes, peintures et statuettes, dont A. De Marchi72

68 Cf. M. Floriani Squarciapino, s.u. Lares, Enciclopedia dell'Arte antica, IV, p. 482-
485.
69 C. L. Visconti, Del larario e del mitreo scoperti nell'Esquilino presso la Chiesa di
S. Martino ai Monti, BCAR 13, 1885, p. 27-38; F. Coarelli, Roma (Guide archeologiche
Laterza) Rome, 1980, p. 213.
70 Op. cit., p. 29.
71 C. L. Visconti, op. cit., p. 28; F. Coarelli, op. cit., p. 356.
72 // culto privato di Roma antica, Milan, 1896, p. 104.
76 LES PÉNATES PRIVÉS

pense que la seconde a précédé chronologiquement la première. Les


chapelles domestiques de Pompéi contiennent généralement plusieurs
types de divinités domestiques dont la définition et la distinction ne va
pas sans quelques difficultés, et sur lesquelles nous reviendrons dans le
chapitre suivant. Servius définit les Pénates comme omnes di qui domi
coluntur7i, ce qui impliquerait alors que tous les dieux représentés
dans les laraires de Pompéi sont les Pénates. En fait, nous avons suivi
le classement opéré par G. K. Boyce qui distingue le Genius et les Lares
de toutes les autres divinités domestiques, considérées par lui comme
les Pénates. D'un point de vue purement iconographique, ce classement
nous a semblé justifié, car Genius et Lares se présentent sous des traits
caractéristiques et aisément reconnaissables74. Le Genius est souvent
représenté sous la forme d'un serpent, ou de deux serpents affrontés,
mais parfois aussi sous des traits anthropomorphiques : il a alors une
couronne, et, à la main, une corne d'abondance; ce type de
représentation anthropomorphique n'exclut d'ailleurs pas la présence des
serpents : c'est le cas notamment dans la «Maison du Chirurgien». Quant
aux Lares, ils portent une tunique ou une chlamyde, retroussée,
particularité vestimentaire qui les fait qualifier d'incincti75 ou de succinc-
ti76; ils sont généralement représentés avec des traits juvéniles, une
expression paisible; leur chevelure est bouclée; ils tiennent dans la
main une corne d'abondance, ou un rhyton avec lequel ils versent du
vin; le peintre ou le sculpteur leur a toujours imprimé un mouvement
caractéristique, celui de la danse; enfin, s'il arrive que le Lar familiaris
soit représenté seul, on voit le plus souvent les Lares représentés par
deux, mais ils ne sont jamais plus nombreux77. Du point de vue
iconographique, Lares et Genius d'une part, Pénates d'autre part, sont
distincts dans la mesure où les premiers ont un type de représentation
spécifique, tandis que les seconds n'en ont pas, et sont figurés sous la
forme de divinités auxquelles ils s'identifient, comme Jupiter, Fortuna,
etc. . . Dans la disposition générale des représentations des divinités, s'il
est impossible de trouver un type immuable, on constate tout de même
quelques modes de représentation particulièrement fréquents : le ser-

73 Ad Aen. II, 514.


74 Cf. D. G. Orr, op. cit., p. 1563-1575.
75 Ovide, Fastes II, 634.
76 Perse, V, 31.
77 La distinction entre Pénates et Lares sera étudiée plus amplement ci-dessous,
p. 101-110.
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PÉNATES PRIVÉS 77

pent seul enroulé autour de l'autel, les deux serpents affrontés


encadrant l'autel, le Genius représenté comme un jeune homme encadré par
les deux Lares. De plus, le Genius et les Lares d'un côté, les autres
divinités domestiques de l'autre, sont assez fréquemment représentés à des
niveaux différents dans les peintures murales, les niches ou les aedicu-
lae, soit dans le sens de la hauteur - il y a différentes zones
superposées dans les panneaux - soit dans le sens de la profondeur : les uns
figurent en avant des autres.

1) Peintures et statuettes

Nous avons vu que les panneaux peints représentant les divinités


domestiques sont de tailles très variables; en règle générale, cependant,
ils n'excèdent pas une vingtaine ou une trentaine de centimètres, en
particulier dans les niches. Les statuettes, elles, avaient le plus souvent
une dizaine de centimètres de hauteur, et étaient soit posées sur le
plancher du laraire, soit fichées dans ce plancher, où l'on a parfois
retrouvé des trous qui servaient à cet usage. Il semble qu'il y ait eu une
évolution vers une richesse de plus en plus grande de la matière dans
laquelle elles étaient faites, malgré le traditionalisme attaché à ces
représentations religieuses : à Pompéi, on a retrouvé, à côté de
modestes statuettes de terre cuite, des statuettes de marbre, de bronze, ou
d'argent, parfois de véritables pièces d'orfèvrerie78. Aussi peut-on se
poser la question de savoir si ces statuettes avaient une destination
spécifiquement religieuse, ou si elles étaient seulement des objets d'art : le
départ entre les deux destinations semble impossible à faire, comme le
montre l'exemple des Lares d'argent de Trimalcion. Au reste, parmi les
statuettes de dieux retrouvées à Pompéi, certaines, isolées ou en
groupes, ont été découvertes en dehors des laraires79 : comme dans
plusieurs cas figurent parmi elles Genius et Lares, nous considérerons
qu'elles étaient destinées au culte domestique.
Très souvent, peintures et statuettes de dieux domestiques sont
associées dans un même laraire, et il arrive même que certains soient

78 A ce propos, A. De Marchi (op. cit., p. 105) rappelle un passage du festin de


Trimalcion (Sat., LX) où Trimalcion fait apporter des statuettes d'argent de ses Lares, que
les convives doivent baiser; des pièces analogues ont été trouvées à Pompéi (loc. cit.,
n. 4).
79 29 exemples selon G. K. Boyce, loc. cit.
78 LES PÉNATES PRIVÉS

représentés sous les deux formes, comme c'est le cas des Lares dans la
«Maison des Murs Rouges»80 où les Lares sont peints sur le mur du
fond de Yaedicula, et présents sur le devant de cette dernière, sous
forme de statuettes, et beaucoup plus petits. Pourtant, Lares et Genius -
surtout sous la forme d'un ou deux serpents - sont la plupart du temps
peints81.
Il en va de même pour les Pénates, représentés peints dans 60
laraires, et dont il n'existe que 27 exemples de statuettes trouvées,
seules ou en groupes, dans des niches ou aediculae, 29 hors des chapelles
domestiques. Sauf dans un cas82 où une peinture murale représente les
Pénates, tandis que l'on a retrouvé des statuettes des Lares, c'est
généralement l'inverse qui se produit; ce fait peut du reste s'expliquer en
partie de la façon suivante : les Lares ont une identité plus strictement
définie que les Pénates, et leur nombre ne dépasse jamais deux; au
contraire, il était possible au maître de maison, à l'occasion de telle ou
telle circonstance, d'ajouter une nouvelle divinité au nombre de ses
Pénates, groupe de divinités à la définition plus vague, donc plus
accueillant; l'ajout d'une statuette sur le devant de la chapelle
domestique était alors particulièrement facile. Néanmoins, sur un ensemble de
505 laraires, G. K. Boyce a relevé 60 exemples de Pénates peints, 27 de
statues des Pénates; 87 laraires seulement comportaient donc des
images de nos dieux, et, même si l'on admet que les statuettes trouvées en
dehors des petits édifices de culte appartenaient en fait à certains
d'entre eux, on n'arrive qu'à un total de 116 chapelles domestiques ayant
comporté des représentations des Pénates; dans certaines des autres, la
décoration murale est complètement effacée, mais ni cela, ni la
disparition probable de statuettes ne nous semblent suffire pour affirmer que
toutes les chapelles de Pompéi ont contenu des images des Pénates.
Inversement, il est des laraires où les Pénates sont représentés peints,
sans être accompagnés d'autres divinités domestiques83; mais le plus
souvent (41 exemples), ils sont accompagnés des Lares et du Genius (21
exemples), du Genius seul (16 exemples), et, dans un seul cas, d'un Lare
unique : encore son identification est-elle douteuse84.

80 VIII, 5-6, 37; cf. G. K. Boyce, op. cit., pi. 31 fig. 1.


81 Le serpent est symbole de fécondité, et représente souvent le Genius : G. Wissowa,
Religion und Kultus der Römer, 2e éd., Munich, 1912, p. 176-77.
82 V, 4, 3.
83 11 exemples sur les 60 cités plus haut.
84 Cf. G. K. Boyce, op. cit., p. 92, n° 463.
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PÉNATES PRIVÉS 79

2) Les divinités représentées comme Pénates

Elles ont comme caractéristique commune d'avoir, outre le rôle


particulier qu'elles jouent comme dieux domestiques de telle maison,
une identité autre, bien définie dans le panthéon romain, ou celle de
divinités étrangères, orientales en particulier, ce qui explique que l'on
puisse les désigner par des noms propres.
Parmi les figures peintes, on trouve les divinités suivantes :
Fortuna (12 fois dont une identification incertaine), Vesta (10 fois), Bacchus
(8 fois), Jupiter (7 fois), Amor (7 fois), Hercule (6 fois, dont 2 où il n'y a
que les attributs du dieu), Mercure (6 fois), Vénus Pompeiana (6 fois),
Sarnus (4 fois), Isis-Fortuna (3 fois), Minerve (3 fois), Vulcain (3 fois,
dont une identification incertaine), Luna (2 fois, dont une identification
incertaine), Pan (1 fois, mais il y a deux représentations du dieu dans le
même laraire), Apollon, Cérès, Diane (ses attributs seulement), Epona,
Lunus (l'identification du dieu est due à G. K. Boyce) Mars, Sol, Vénus,
Victoria (1 fois); parmi les divinités égyptiennes, on trouve Isis (4 fois,
dont 1 où il n'y a que les attributs de la déesse), Harpocratès (3 fois),
Anubis (2 fois), Osiris et Sérapis (1 fois); quatre divinités, deux dans le
panthéon romain, deux parmi les divinités égyptiennes n'ont pas pu
être identifiées.
On est tout d'abord frappé par la variété et le nombre des dieux
considérés comme Pénates (27 au total). C'est Fortuna qui apparaît le
plus souvent; plus qu'à la déesse du hasard aveugle, équivalent de la
Τύχη grecque, nous avons affaire ici à la déesse assurant la prospérité,
ainsi qu'en témoignent ses attributs, gouvernail et corne d'abondance
en particulier; Fortuna veille à la bonne marche des affaires de la
maison, à leur heureux succès. Cette même déesse, du reste, est représentée
sur le mur de l'atrium de la maison de Trimalcion, près de l'armoire
contenant Yaedicula des dieux domestiques : Praesto erat Fortuna cornu
abundanti copiosa85; si la taille de la corne d'abondance est ridicule et
signale le nouveau riche, cet attribut est le même que dans les fresques
pompéiennes. La présence fréquente de Vesta parmi les dieux pénates
s'explique, elle aussi, aisément. Bien qu'à l'origine elle ait été, croyons-
nous, une divinité distincte des Pénates, elle a fini par être considérée

85 Sai., XIX; cf. J. Champeaux, Fortuna. Recherches sur le culte de la Fortune à Rome
et dans le monde romain, Coll. de École Française de Rome, 64, Rome, 1982, p. XXII-
XXIII.
80 LES PÉNATES PRIVÉS

elle-même comme «penate»86, confusion qui s'explique sans doute par


une commune présence près du foyer domestique. Bacchus, quant à
lui, est représenté huit fois dans ces fresques, et on a là un témoignage
de la ferveur que le culte de ce dieu connut à Pompéi à partir de la fin
du Ier siècle avant J.-C.87. La représentation de Mercure, qui, du reste,
figurait fréquemment sur les murs extérieurs des maisons, parmi les
dieux de la chapelle domestique, témoigne plutôt, nous semble-t-il, d'un
choix personnel du maître de maison, sans doute en relation avec son
activité88; là encore, on peut évoquer l'atrium de Trimalcion où, à côté
de Fortuna, est représenté Mercure, dieu du commerce, auquel
Trimalcion se considère comme redevable de sa richesse.
La présence dans notre corpus de Sarnus et Vénus Pompeiana
témoigne, à côté des dieux vénérés dans tout le monde romain, de
l'importance des divinités locales dans le culte domestique. Sarnus est le
nom de la rivière qui arrose Pompéi, le Sarno; Vénus Pompeiana est la
divinité protectrice de la cité89; Pompéi, en effet, est désignée comme
Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum 90, dénomination qui lui fut
donnée en l'honneur de Sulla, et, parce que Vénus était l'objet d'un
culte particulier dans la Gens Cornelia, la cité s'est trouvée, de ce fait,
placée sous sa protection91. Or, si le culte public de Vénus existait dès
avant la fondation de la colonie sullanienne, il connut alors un grand
développement92, dont on retrouve l'écho dans le culte privé. Dans ce
dernier, les représentations de Vénus Pompeiana se réfèrent à un type
iconographique bien différent de celui de la peinture profane, où elle
est représentée surtout dans ses amours avec le dieu Mars; dans son
image cultuelle, Vénus Pompeiana est vêtue d'une tunique et d'un riche
manteau, avec, à la main, un sceptre, attribut de la divinité, mais aussi
parfois un timon de navire dont la signification est double : il rappelle
les origines marines de la déesse, mais aussi la prospérité maritime de

86 Cf. infra p. 292-6.


87 K. Schefold, La peinture pompéienne. Essai sur l'évolution de sa signification (trad.
J. M. Croisille), p. 172 sq.
88 K. Schefold, op. cit. p. 58-59 n. 2.
89 A. Maiuri, Pompéi ed Ercolano, Padoue, 1950, p. 85 sq.
90 E. La Rocca-M, et A. de Voos, op. cit., p. 15.
91 Martial désigne Pompéi comme Veneris sedes (IV, 44, 5); sur les liens entre Vénus
et Sulla, voir R. Schilling, La religion romaine de Vénus depuis les origines jusqu'au temps
d'Auguste, 2e éd., Paris, 1982, p. 284 sq.
92 E. La Rocca-M. et A. de Voos, op. cit., p. 95-96.
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PÉNATES PRIVÉS 81

la cité. Enfin, les divinités égyptiennes, qui occupent, dans notre


corpus, une place non négligeable (12 exemples), montrent qu'à Pompéi,
comme à Rome, certaines divinités orientales avaient été adoptées dans
le culte domestique93, parfois même assimilées à des divinités
romaines, comme c'est le cas d'Isis-Fortuna (3 exemples dans ces peintures).
De même à Herculanum, les sanctuaires domestiques offrent des
représentations de divinités orientales, notamment Isis et Harpocratès94.
Dans les 60 laraires où les Pénates sont peints, ils sont 19 fois
représentés seuls, c'est-à-dire sans être accompagnés d'une autre
divinité domestique, Genius ou Lares; il n'existe que 11 exemples où soit
représenté un seul Penate : 4 fois Fortuna, 3 fois Hercule, 2 fois
Jupiter, 1 fois Bacchus, Cérès, Diane, Isis-Fortuna, Mercure, Sarnus, Vénus
Pompeiana, Vesta; en revanche, dans 26 laraires, on ne trouve qu'un
seul Penate, mais accompagné du Genius, des Lares, ou des deux. On
voit donc que ne figure qu'un seul Penate, accompagné ou non d'autres
divinités domestiques, dans 37 laraires, donc dans les trois quarts des
exemples à peu près, ce qui constitue sans doute un témoignage
important sur l'histoire de l'évolution de la notion de «Pénates», dans la
mesure où, à l'origine, elle comporte une pluralité de dieux. Lorsque
plusieurs Pénates sont représentés, leur nombre va de 2 à 8; certaines
associations s'expliquent par des souvenirs mythologiques : Mars et
Vénus, Hercule et Bacchus, Minerve et Vulcain; celle de Vénus
Pompeiana et du Sarnus reflète l'influence des cultes locaux; mais la
plupart n'expriment sans doute que les choix personnels du paterfamilias
ou de ses ancêtres. On peut noter aussi que, pour le nombre de dieux
représentés, on a 9 fois deux dieux, 1 fois trois dieux, 2 fois quatre
dieux, 1 fois huit dieux. Mais ces chiffres ne prennent pas en compte la
présence possible de statuettes, qui ont pu disparaître des laraires : par
exemple, dans un laraire où Bacchus et Fortuna sont représentés peints
comme Pénates95, à côté d'eux ont été trouvées sept statuettes, dont
l'une seulement a pu être identifiée à coup sûr comme une divinité,
Diane; de même, un laraire qui offre l'image de divinités égyptiennes
peintes96 contenait également deux statuettes d'Isis et d'Horus. On peut
simplement constater que, généralement, les Pénates n'étaient pas très

93 K. Schefold, op. cit., p. 172.


94 Cf. D. G. Orr, op. cit., p. 1586.
95 Cf. G. K. Boyce, op. cit., n° 13.
96 Op. cit., n°220.
82 LES PÉNATES PRIVÉS

nombreux dans ces laraires, les chiffres qui apparaissent le plus


fréquemment étant un et deux; mais l'interprétation de notre
documentation est forcément rendue incertaine par la disparition possible de
statues et ne prend pas en compte les fouilles en cours.
Parmi ces dernières, les divinités les plus fréquemment
représentées sont un peu différentes des peintures : Mercure (12 exemples),
Minerve et Vénus (11), Jupiter (8), Hercule (7 exemples), Diane,
Fortuna, Isis-Fortuna, Esculape (3 exemples), Apollon et Neptune (2
exemples), Bacchus, Hygéia, Junon, Persephone, Priape, Sol (1 exemple);
parmi les divinités égyptiennes, on trouve Harpocratès (5 exemples),
Isis (3 exemples), Anubis et Horus (1 exemple). Faut-il en conclure que
certains dieux étaient plus volontiers représentés sous forme de
peinture que sous forme de statue, comme cela semble être le cas de Vesta,
par exemple97? Pour les statues trouvées dans des laraires, dans 12 cas
sur 27 ne figure qu'un seul Penate; si on laisse de côté un exemple où
les deux statues de Mercure et Minerve accompagnent une figure
peinte d'Hercule98, on trouve 2 exemples d'un groupe de deux Pénates, 2
exemples de groupes de trois, 5 exemples de quatre, 1 exemple de 2
statues de divinités égyptiennes dans une niche où par ailleurs sont
peintes les figures d'Anubis, Harpocratès, Isis, Sérapis, et une divinité,
égyptienne aussi, non identifiée. Les groupements de ces statuettes
semblent répondre à la personnalité du propriétaire de la maison
essentiellement, sauf en un cas99 où l'on reconnaît Jupiter, Junon,
Minerve - les dieux de la Triade Capitoline donc -, et Mercure, ce qui
correspond à une des définitions des Pénates selon les Anciens100.
Quant aux statuettes trouvées en dehors des laraires, lorsqu'elles ont
été trouvées en groupes, les seuls de ces derniers qui nous aient paru
significatifs sont ceux de divinités égyptiennes101.
Pour précieux que soient les laraires de Pompéi, les
renseignements qu'ils nous donnent nous apparaissent doublement limités. Ils le
sont, bien évidemment, dans l'espace, puisque nous avons vu le rôle

97 Dans ce cas particulier, la raison en est peut-être la tradition selon laquelle il


n'existait pas de représentation figurée de Vesta dans le sanctuaire du Forum (cf. Ovide,
Fastes VI, 295); cette tradition a été très controversée dès l'Antiquité (cf. Cicéron, De Nat.
Deor. III, 80; De Or. III, 10). Cf. C. Koch in R.E. Vili A 2, s.u. Vesta, col. 1728.
98 G. K. Boyce, op. cit., n° 108.
99 Op. cit., n°221.
100 Cf. infra p. 147-9.
101 G. K. Boyce, op. cit., n° 202 et 372.
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PÉNATES PRIVÉS 83

important joué, parmi les Pénates, par deux divinités locales, Vénus
Pompeiana et Sarnus; cela doit nous inciter à la prudence, en nous
empêchant de généraliser à l'Italie, et même d'appliquer à Rome, les
conclusions que l'on peut tirer des représentations des Pénates dans la
cité campanienne. Mais ils sont aussi limités dans le temps, et il est
clair que les laraires où les figures des Pénates sont aisément recon-
naissables privilégient une période qui va du Ier siècle avant J.-C. à 79
ap. J.-C. Exemple significatif, la «Maison du Chirurgien», dont les
peintures du laraire ne nous sont plus connues que par un relevé de Piranè-
se102, nous montre, à côté du Genius et des Lares, deux figures de
divinités impossibles à identifier. Aussi notre documentation reste-t-elle, en
définitive, très lacunaire, même dans un ensemble aussi bien conservé
que Pompéi; pour ne rien dire de l'époque archaïque, la religion privée
des IV-IIe siècles nous est extrêmement mal connue.

III - Le culte des Pénates

Nous avons vu que le lien entre les Pénates et le foyer était si fort
que Servius allait jusqu'à voir en ce dernier l'autel propre de nos
dieux103: en effet, attachés qu'ils sont à la partie la plus intime de la
maison, ils demeurent liés au centre même de la vie domestique, le
foyer, lui-même compris comme étant à la fois essentiel à la vie
matérielle de la maisonnée - on y prépare les repas -, et primordial dans la
vie religieuse domestique - on y entretient le culte des dieux
protecteurs de la maison. Nous avons d'ailleurs noté, en étudiant l'usage du
mot Penates combien, en dehors même de tout contexte religieux, il
était fréquemment cité à côté de focus, voire employé métonymique-
ment à sa place.
Cependant, si le foyer est l'autel des Pénates, il arrive souvent, dans
les laraires de Pompéi, que soit représenté un autel peint, parmi les
figures des dieux domestiques : un type iconographique
particulièrement bien attesté est une peinture représentant un autel orné de
feuillages, encadré par deux serpents104; mais on trouve de nombreuses

102 Antiquités de la Grande-Grèce, Pompeia I, pi. 20-21 (cité par G. K. Boyce, op. cit.,
p. 43).
103 Ad Aen XI, 211 : Cum focus ara sit deorum penatium.
104 G. K. Boyce, op. cit., pi. 9 fig. 1 et 2; pi. 16, fig. 1 ; pi. 24 fig. 1, etc. . .
84 LES PÉNATES PRIVÉS

variantes: serpent près de l'autel105 dont les anneaux sont aussi hauts
que ce dernier, ou enroulé autour de l'autel106, ces deux derniers types
étant du reste parfois réunis107; il n'est pas rare non plus que l'autel
soit représenté deux fois, soit sur le même plan108 soit dans deux plans
différents du laraire, une fois sur la bande supérieure, une fois sur la
bande inférieure109. Ces autels ne sont pas toujours dans la niche; ils
sont parfois aussi placés en-dessous d'elle. Dans certains laraires, on a
un autel de maçonnerie, soit placé directement dans la niche110, soit en-
dessous d'elle, accompagné d'un serpent peint111; ces autels véritables
se trouvent de préférence dans les sacraria, pièces sans doute
uniquement consacrées au culte des dieux domestiques112. On peut donc
supposer que ces autels peints ne peuvent être qu'une projection de ce
culte, ou, plus exactement, la transposition, dans le monde de la
religion domestique, des usages de la religion publique, où de grands
sacrifices s'accomplissaient sur des autels placés devant le temple des. dieux.
C'est ainsi que, dans une peinture murale placée sur un mur de cuisine,
on peut voir deux zones nettement séparées dans le sens de la
hauteur113 : en bas, deux serpents sont affrontés de chaque côté d'un autel
sur lequel sont posés des œufs et des fruits; en haut, deux Lares
encadrent une scène centrale, où les personnages s'ordonnent autour d'un
axe de symétrie constitué par un second autel, décoré de feuillages : à
gauche, un tibicen dont le pied est posé sur un scabellum, suivi par un
camillus, représenté beaucoup plus petit, conduisant vers l'autel un
porc; à droite, un Genius vêtu de la toge prétexte, tenant dans sa main
droite une corne d'abondance, derrière qui se tient un second camillus
en tunique blanche, tenant dans sa main droite des guirlandes ou des
bandelettes, dans la gauche un plat plat, sur lequel sont posées des
broches.
Il semble qu'en fait, le véritable lieu du culte des Pénates soit la

105 Par ex. ibid., pl. 24 fig. 2.


106 par ex fad., pi. 23 fig. 2.
107 Par ex. ibid., pi. 9 fig. 3.
108 Ibid., pi. 25 fig. 2.
109 Par ex. ibid., pi. 24 fig. 1.
110 Ibid., pl. 5 fig. 2 («Maison du Faune»).
111 Ibid., pl. 11, fig. 1.
112 Ibid., pl. 41 fig. 1 et 2.
113 G. K. Boyce, op. cit., n° 265 (peinture reproduite in Guida archeologica di Pompei,
p. 339).
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PÉNATES PRIVÉS 85

table, située devant le foyer, et S. Weinstock, à ce propos, note à juste


raison que, «dans le domaine sacré, la table et l'autel ont au fond la
même fonction»114. La différence entre les deux réside, en fait, dans le
type d'offrandes que l'on y dépose, comme le souligne C. Goudineau115 :
«Tandis que l'autel est réservé aux sacrifices sanglants, la table reçoit
les offrandes telles que galettes et gâteaux, fruits, œufs, sel, boissons,
ou encore tel mets considéré comme particulièrement cher et
traditionnellement consacré à telle divinité». Nous en avons sans doute un
témoignage dans le fragment de Naevius déjà cité :
sacra in mensa penatium ordine ponuntur116.

Si l'on fait dépendre le génitif penatium de mensa117, on a alors


affaire à la désignation spécifiquement d'une table sacrée, dédiée à la
seule divinité, en l'occurrence les Pénates; mais même si l'on construit
sacra penatium., la table, dont l'usage est alors simplement domestique
au lieu d'être sacré, n'en est pas moins, semble-t-il, le lieu réservé aux
Pénates. Selon S. Weinstock118, il faut voir là, dans le domaine grec, où
les témoignages sont plus nombreux, une preuve du transfert des
usages du culte public au culte privé. Il nous semble au contraire que l'on
peut parfaitement concevoir le schéma inverse, si l'on accepte l'idée
que la table du dieu était, à l'origine, et au moins pour certains cultes,
la table de la maison où l'on préparait les repas. Là encore, donc, la
religion privée aurait servi de modèle à la religion publique, dans
laquelle, évidemment, les tables utilisées pour les sacrifices ne peuvent
être que des sacrae mensae ou les mensae deorum119.
Ce lien entre les Pénates et la table trouve du reste une
confirmation dans la grande fréquence avec laquelle, dans les laraires de Pom-
péi, par exemple, les Pénates sont situés dans l'atrium ou dans la cuisi-

114 Op. cit., col. 426; cf. aussi A. De Marchi, op. cit., p. 114-119.
115 IEPAI ΤΡΑΠΕΖΑΙ, MEFR, 79, 1967, p. 77.
116 Fr. 3.
117 Cf. ci-dessus, p. 47.
118 Ibid.
119 En. II, 763-766 :
Hue undique Troia gaza
incensis erepta adytis, mensaeque deorum
crateresque auro solidi, captiuaque uestis
congeritur.
Il faut comprendre que les mensae deorum, de même peut-être que les cratères d'or,
sont arrachés des sanctuaires de Troie lors du sac de la ville.
86 LES PÉNATES PRIVÉS

ne : l'atrium était originellement la seule pièce de la maison, et la table


familiale s'y trouvait donc; la cuisine contient elle aussi une table. Par
ailleurs, la relation entre les Pénates et la table se trouve peut-être
renforcée par l'étymologie qui fait d'eux les dieux du penus au sens où
l'entend Cicéron (omne quo uescuntur homines); du moment où l'on
considère que penus désigne la nourriture, n'est-il pas tout naturel que
les dieux du penus aient leur place sur la table? C'est en ce sens qu'il
faut comprendre le texte de Naevius : on suppose que les statues des
Pénates sont alignées {ordine ponuntur) sur la table. Il y a lieu de
penser aussi que les statuettes que l'on voit dans certains laraires de Pom-
péi, par exemple, pouvaient, au moment des repas, être déplacées et
posées sur la table. Même dans les cas où les images des dieux n'étaient
peut-être pas présentes sur la table, il semble qu'on leur ait rendu un
culte à chaque repas. Le lieu du culte des Pénates est donc non pas la
réserve aux provisions, mais la table, la gestion de la première étant
sans doute confiée à un esclave120, tandis que les repas, sous la
présidence du paterfamilias, réunissaient toute la maisonnée.
Peut-être ce lien entre la table et les Pénates constitue-t-il l'une des
explications du premier prodige qui, dans l'Enéide, annonce à Enée
qu'il a atteint la terre que lui réservaient les dieux121; c'est l'épisode de
la manducation des tables : Anchise avait prophétisé à Enée que ses
errances connaîtraient un terme lorsque la faim l'aurait poussé, ainsi
que ses compagnons à «manger ses tables»; or, sur le rivage latin, les
Troyens, épuisés, chargent de fruits trouvés là des galettes de blé,
galettes qu'ils finissent par manger elles-mêmes pour assouvir leur faim;
c'est alors qu'Ascagne s'écrie :
Heus, etiam mensas consumimus 122.

120 Cf. Plaute, Pseud., 608 :


Condus promus sum, procurator peni :
«Je suis le dépensier, l'administrateur des vivres» (trad. A. Ernout, C.U.F. Paris,
1957); pour la relation entre condus et promus, cf. A. Ernout, ibid., p. 56 n. 1 ; on peut
rapprocher ce «couple en asyndète» d'une expression de Varron : promuni condita (R.R.
I, 62).
121 On trouvera une étude détaillée de ce prodige in P. M. Martin, Deux interprétations
grecques d'un rituel de l'Italie proto-historique, R.E.G., 84, 1972, p. 281-292; cf. aussi
G. Dury-Moyaers, Enée et Lavinium. A propos des découvertes archéologiques récentes,
Coll. Latomus, vol. 174, Bruxelles, 1981, p. 205-208. La première mention du prodige se
trouve chez Lycophron (Alexandra, v. 1226 sq.).
122 En. VII, 116.
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PÉNATES PRIVÉS 87

Et Enée, qui a reconnu l'accomplissement du prodige annoncé,


adresse une invocation solennelle à la terre latine et aux Pénates. J.
Perret123 a rapproché ces gâteaux des mensae paniceae, sortes de galettes
sur lesquelles on disposait les offrandes destinées aux dieux124; or, dans
notre texte, ce sont les Pénates qu'invoque immédiatement Enée. Du
reste, J. Perret125 rapproche ce texte de la figure d'Enée sur le relief de
Y Ara Pacis, tenant dans sa main gauche «une telle galette, chargée de
fruits et de gâteaux divers». En fait, c'est l'un des camilli, nous semble-
t-il, qui tient ce plat dans sa main gauche, et il est impossible de dire s'il
s'agit d'une galette ou d'une patella; mais la présence des Pénates, juste
au-dessus de ce plateau d'offrandes, illustre bien notre propos. Comme
l'a souligné J. Carcopino126, ce rituel ne doit pas être interprété comme
un trait spécifique de la religion lavinate. Il s'explique bien plutôt par
un jeu sur le sens de ce Cereale solum, comme l'appelle Virgile
quelques vers plus haut : on offrait aux Pénates un mélange de sel et de
froment127, qui pouvait peut-être se présenter sous forme de galette; le
prodige de la manducation des tables serait donc une allusion à l'une
des pratiques du culte domestique de nos dieux.
Deux objets sont spécialement consacrés au culte des dieux
domestiques : la patella, sorte d'assiette ou de coupe plate, et le salinum, la
salière. Il est probable qu'à l'origine, on utilisait dans le culte
domestique les objets usuels, profanes, souvent assez grossièrement modelés en
terre cuite128. Mais ils ont dû devenir rapidement des objets réservés au
culte, ce qui explique que, même dans les demeures par ailleurs
modestes, ils aient été faits dans une matière précieuse129; les gens riches les
font orner au gré de leur imagination, comme le montre un passage de

123 Les origines de la légende troyenne de Rome, Paris, 1942, p. 493-495.


124 Cf. Servius, Ad Aen. I, 736; III, 257.
125 Ibid., p. 494 n. 2.
126 Virgile et les origines d'Ostie, 2e ed., Paris, 1968, p. 672 sq.
127 Cf. Wörner, s.u. Aineias, in Roschers Lexicon I, col. 177; pour l'offrande de farine
et de sel, cf. Horace, Odes III, 23, 17-20 : voir infra p. 89-90.
128 par exemple, Perse (II, 60) rapporte aux temps légendaires de Numa l'usage de
ces objets de terre cuite: uestalesque urnas et tuscum fictile; cf. A. De Marchi, op. cit.,
p. 124..
129 A. De Marchi, op. cit., p. 123; il s'appuie sur un texte de Cicéron (ibid., η. 2) qui
nous montre Verres et ses complices, faute de trouver les richesses qu'ils attendaient
dans les maisons qu'ils vont piller, se rabattant sur les objets réservés au culte
domestique : Ma quidem certe pro lepuscuHs capiebantur; patellae, paterae, turibula (Verr. II, 21,
46).
88 LES PÉNATES PRIVÉS

Valére Maxime : in C. uero Fabricii et Q. Aemilii Dapi, principum saeculi


sui, domibus argentum fuisse confitear oportet. Uterque enim patellam
deorum et salinum habuit : sed eo lautius Fabricius, quod patellam suam
corneo pediculo sustineri uoluit130'; l'expression patella deorum indique
clairement l'usage purement cultuel qui était fait de cet objet. Cicéron
rapporte expressément la patella aux Pénates; un riche sicilien, du fait
de sa citoyenneté romaine, se croit à l'abri de la cupidité de Verres :
apposuit patellam in qua sigilla erant egregia. Iste, continuo ut uidit, non
dubitauit illud insigne penatium hospitaliumque deorum ex hospitali
mensa tollere111. Nous voyons ici une patella particulièrement décorée,
sans doute une véritable pièce d'orfèvrerie : les sigilla en question sont
ceux des dieux domestiques, mais il ne s'agit pas de statuettes,
habituellement abritées dans le laraire, qui seraient pour l'occasion posées sur
le bord de la patella : sigilla désigne ici les figures en relief qui l'ornent,
tandis que l'expression illud insigne penatium montre bien le rapport
très étroit établi entre la patella et les Pénates. Quelle relation les
divinités désignées comme hospitalium deorum («les dieux de son hôte»)
entretiennent-ils avec les Pénates? Faut-il comprendre qu'il s'agit de
dieux domestiques autres que les Pénates? Nous pensons plutôt que
l'expression penatium hospitaliumque deorum est un hendiadyn, les
deux termes désignant les Pénates, mais le second étant destiné à faire
ressortir le caractère doublement impie du geste de Verres par le
rapprochement hospitalium / hospitali : Verres va violer à la fois la
religion et les droits sacrés de l'hospitalité. Enfin, la patella décorée des
images des Pénates est définie par sa présence sur la table, par là-
même revêtue d'un caractère sacré auquel la qualification d'hospitali
vient encore ajouter.
Sur ce plat sacré étaient posées les offrandes faites aux Pénates;
sous leur forme la plus simple et la plus fréquente, elles consistaient en
une portion du repas, mélange de sel et de farine, comme le montrent
ces vers d'Horace :

130 ΐγ^ 4; 3 : «n faut que j'avoue qu'il y avait de l'argent chez C. Fabricius et Q. Aemi-
lius Dapus, premiers de leur siècle. En effet, chacun d'eux avait la patella et la salière des
dieux : mais Fabricius était plus somptueux en ce qu'il voulut que sa patella fût soutenue
par un pied de corne».
131 II, IV, 48 : «II fit servir un petit plat orné de figures en relief d'une rare beauté.
Aussitôt que Verres le vit, il n'hésita pas à enlever de la table de son hôte cet ornement
consacré aux dieux pénates et hospitaliers» (trad. G. Rabaud, C.U.F., Paris, 1959). Cf.
aussi F. Borner, Rom und Troia, Baden-Baden, 1951, p. 102-103.
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PÉNATES PRIVÉS 89

ïnmunis aram si tetigit manus,


non somptuosa blandior hostia
molliuit auersos Penatis
jarre pio et saliente mica 132.

Peut-être arrivait-il parfois que cette offrande aux Pénates


comportât aussi de la" viande, comme le suggère un texte de Varron133. Le blé,
ou la farine, constitue la base de l'alimentation, et le sel en est
considéré, lui aussi, comme un élément essentiel134. Aussi comprend-on le
caractère sacré accordé à la salière (salinum) à côté de la patella; l'une
et l'autre sont considérées comme indispensables au culte. A ce sujet,
Tite-Live raconte comment, pendant la Seconde Guerre Punique, en
210 avant J.-C, le trésor public manqua de métaux précieux et tous les
sénateurs, en conséquence, décidèrent d'offrir tout l'or, l'argent et le
bronze qu'ils possédaient personnellement, à quelques réserves près,
notamment argenti, qui curuli sella sederunt, equi ornamenta et libras
pondo, ut salinum patellamque deorum causa habere possint 135. Un texte
de Perse136 nous confirme que le blé et le sel étaient considérés comme
la base de l'alimentation, et en même temps comme les offrandes
posées sur la patella 137.
Cette offrande de farine et de sel posée sur la patella, considérée
comme la part des Pénates, était jetée au feu, ainsi que le suggèrent les

132 Odes III, 23, 17-20 : «Si une main qui n'a rien à expier a touché l'autel, elle a pu,
sans qu'une victime somptueuse l'eût rendue plus agréable, apaiser des Pénates hostiles
avec un froment pieux et un grain de sel pétillant» (trad. F.Villeneuve, C.U.F., Paris,
1927).
133 Sat. 265.
134 J. André, L'alimentation et la cuisine à Rome, Paris, 1981, p. 191-193.
135 XXVI, 36, 6 : « en fait d'argent, pour les sénateurs qui ont siégé sur une chaise
curule, les ornements des harnais de leurs chevaux, plus une livre, afin de pouvoir garder
une salière et une coupe pour le culte» (trad. E. Lasserre, Paris, 1950).
136 III, 24-26 :
Sed rure paterno
Est tibi far modicum, purum et sine labe salinum
- Quid metuas ? - cultrixque foci secura patella est.
«Mais tu as sur le domaine paternel une récolte de blé majeure, tu as une salière
propre et sans tare - qu'as-tu à craindre? - et un modeste plat qui assure le culte du
foyer» (trad. A. Cartault, C.U.F., Paris, 1929).
137 A. De Marchi (pp. cit., p. 121) considère que le terme de salinum désignait à
l'origine non la salière, mais la patella elle-même, sur laquelle étaient placés le sel et les
prémices offerts aux dieux.
90 LES PÉNATES PRIVÉS

mots de Perse cultrix foci. . . patella, et l'indication donnée par Horace


dans saliente mica : le grain de sel pétille dans le feu domestique. Cet
usage éclaire peut-être la difficile expression de Virgile que nous avons
déjà mentionnée, et flammis adolere penatis 138, dans la mesure où il
établit un rapport entre le feu et les Pénates, par l'intermédiaire de
l'offrande, à eux dédiée, habituellement jetée dans le foyer domestique.
Enfin, il explique sans doute aussi les termes du code de Théodose
interdisant en 392 d'honorer les dieux domestiques païens, et, en
particulier, de faire des offrandes avec «du feu aux Lares, du vin pur au
Genius, du parfum aux Pénates»139.
Mais il arrive aussi que l'on fasse en l'honneur des dieux
domestiques un sacrifice sanglant, sans doute dans des occasions
exceptionnel es de la vie familiale. Les victimes sont alors de petite taille (hostiae) et
l'on pouvait éventuellement les acheter au marché140. On immolait sans
doute aussi des agneaux141, mais il semble que le porc ait été
particulièrement voué aux dieux domestiques142. Il faut peut-être expliquer ainsi
la scène figurée sur l'un des reliefs de l'Ara Pacts, représentant le
sacrifice fait par Enée aux Pénates 143. De ce sacrifice du porc fait sur l'autel
domestique, les peintures de Pompéi que nous avons mentionnées plus
haut, représentant des camilli conduisant un porc vers un autel près
duquel se tient le Genius, portent un témoignage irréfutable144.
Il semble que les Romains aient considéré que les Pénates, à qui on
réservait une portion du repas, étaient présents autour de la table sous

138 En. I, 704; cf. supra p. 67.


139 XVI, 10, 12 : Nullus omnino. . . secretiore piaculo Larem igne, maro Genium,
Penates nidore ueneratus accendat lumina, accendat tura, serta suspendat.
140 Cf. A. De Marchi, op. cit., p. 138.
141 Cf. Plaute Rud., 1208 : sunt domi agni et porci sacres (il s'agit d'en faire le sacrifice
aux Lares); Tibulle (I, 10, 25) promet aux Lares hostia. . . rustica porcus.
142 A. De Marchi, op. cit., p. 138 n. 3; H. Le Bonniec, Le culte de Cérès à Rome des
origines à la fin de la République, Paris, 1958, ρ . 82.
143 Cf. infra p. 209 sq. ; 424-6.
144 Peut-être devons-nous voir une autre attestation du lien existant entre le porc et
les divinités domestiques dans l'existence d'un culte des Lares Grundiles, dont R. Schilling
(Les «Lares Grundiles », in Mélanges J. Heurgon, Rome, 1976, p. 956), faisant allusion au
second miracle qui marque l'arrivée d'Enée au Latium, celui de la truie aux trente
porcelets, écrit: «Qui peuvent être ces Lares "grognons", sinon les porcins prophétiques qui
ont été élevés, en vertu d'une sorte de sublimation sanctifiante, au rang de protecteurs de
la mission confiée à Enée».
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PÉNATES PRIVÉS 91

la forme de statuettes dressées sur cette dernière : quand Enée décide


de s'arrêter en Sicile chez Aceste, il déclare à ses compagnons :
Bina boum uobis Troia generatus Acestes
dai numero capita in nauis; adhibete penatis
et patrios epulis et quos colit hospes Acestes 145.
Nous"
soulignerons, pour terminer, la valeur sentimentale attachée
à ce culte des Pénates. Ce qui importe en effet n'est pas la richesse de
l'offrande, mais la pureté d'intention avec laquelle elle est faite, comme
le dit Horace dans lé texte que nous avons cité plus haut {immunis. . .
manus). Il suggère même que l'offrande sera d'autant plus agréable
aux dieux qu'elle sera plus modeste {non somptuosa blandior hostia),
attachant ainsi à la simplicité, voire à la pauvreté, une valeur religieuse
qui est bien dans la tradition du mos maiorum. Ce sont les Pénates que
l'on salue lorsqu'on quitte sa maison, ou au contraire, qu'on la retrouve
après une longue absence. Ils partagent les tracas du maître de maison,
éprouvent les mêmes sentiments que lui146. La force de la croyance en
ces dieux, la vitalité de leur culte, s'expliquent par leur
quasi-identification avec la maison; il nous paraît intéressant de noter, pour conclure,
qu'à la fin du IVe siècle après J.-C, comme nous le montre le code de
Théodose, l'empereur éprouvait le besoin d'interdire expressément le
culte des Pénates, ce qui prouve qu'il était encore largement pratiqué.

145 En. V, 61-63 : «Aceste, fils de Troie, vous offre à tous pour chaque navire un
couple de bœufs. Appelez au banquet les Pénates de nos pères et ceux qu'honore Aceste notre
hôte» (trad. J. Perret, op. cit.).
146 Comme Horace, Ovide les qualifie à'auersos {Tristes I, 3, 47) pour dire qu'ils
partagent sa propre amertume pendant son exil.
CHAPITRE II

LES PÉNATES PRIVÉS : ESSAI D'INTERPRÉTATION

II semble à première vue qu'il existe deux conceptions différentes


des Pénates. D'une part, suivant le sens étymologique, les Pénates,
«ceux du penus» sont définis comme une collectivité, une pluralité de
dieux indistincts parmi lesquels aucune individualité ne se dégage et
qui ne sont définis que par leur lieu de résidence et la fonction de
protection qu'ils exercent sur lui. D'autre part, dans la religion
domestique, ainsi que nous l'avons vu au cours du précédent chapitre, nous
avons trouvé une tendance à «pénatiser» - le mot est de G. Dumézil1 -
à peu près n'importe quel dieu du panthéon gréco-romain, parfois
même des divinités orientales, ayant par ailleurs une personnalité bien
définie.
Le passage d'une collectivité indifférenciée de divinités attachées à
un lieu, le penus, à des divinités individualisées et qui, par ailleurs, ont
d'autres fonctions que de veiller sur le bien-être de la maison, constitue
une première question; elle se double d'une autre, qui lui est
étroitement liée, celle de la représentation figurée des Pénates. Avec les
divinités de Pompéi considérées comme Pénates, nous sommes en présence
de représentations anthropomorphiques, mais, des Pénates considérés
comme collectivité indistincte, nous ne possédons aucune image
identifiable, et on peut même se demander si pareille représentation est
concevable. Quelle est la nature du rapport entre ces deux conceptions
des Pénates? Il semble exclu d'espérer pouvoir les réduire l'une à
l'autre, et une hétérogénéité totale serait peu vraisemblable. Le plus
naturel est de penser qu'il y a eu une évolution de l'une à l'autre, de la
collectivité indistincte, sans images, aux divinités individualisées sous une
forme anthropomorphique; il faut alors essayer de déterminer les
facteurs de cette évolution, ce qui pose des problèmes d'autant plus diffici-

1 La religion romaine archaïque, 2e éd., Paris, 1974, p. 360.


94 LES PÉNATES PRIVÉS

les qu'ils mettent en jeu, non pas la seule question des Pénates, mais les
conceptions d'ensemble de l'histoire de la religion romaine.

I - Les Pénates et les autres dieux domestiques

Le problème de la distinction entre les Pénates et les autres dieux


domestiques semble ne pas se poser, si l'on s'en tient à la définition de
Servius plusieurs fois mentionnée selon laquelle les Pénates sont omnes
dii qui domi coluntur. D. G. Orr2 voit dans des passages de Cicéron3
et d'Horace4 une preuve de la véracité de cette affirmation. Pour
notre part, nous sommes plus réservé sur la valeur à accorder à cette
définition. D'abord, Cicéron comme Horace citent les seuls Pénates5
sans doute parce qu'ils les considèrent comme les dieux les plus
importants dans le culte domestique. Ensuite, il nous paraît que, s'il y a
parfois confusion entre les Pénates et d'autres divinités domestiques - di
patrii et diui parentes notamment - l'iconographie des laraires
distingue nettement les Lares, d'une part, le Genius d'une autre, et enfin tous
les autres dieux. Cette distinction se retrouve d'ailleurs dans l'édit de
Théodose interdisant les cultes domestiques païens, qui différencie
nettement ceux du Genius, des Lares et des Pénates.
Pour essayer de définir plus précisément la valeur des Pénates
dans la pratique religieuse romaine, nous nous proposons d'abord de
voir avec quelles autres divinités ils ont été associés, parfois
confondus.

1) Pénates, θεοί πατρώοι et di patrii

On a parfois considéré6 que les Pénates étaient l'équivalent, la


transposition, dans la pratique religieuse romaine, des θεοί παθρφοι

2 Roman Domestic Religion, A.N. R.W. , II, 16, 2, Berlin-New- York, 1978, p. 1563.
3 Har. Resp., 17, 37.
4 Odes II, 4, 15; III, 23, 19; D.G. Orr. s'appuie aussi sur l'exemple des laraires de
Pompéi.
5 En fait, Cicéron dit patrii penatesque dii, expression qui nous paraît en effet,
comme à D. G. Orr, désigner les seuls Pénates, ici du moins, car dans d'autres cas, il peut
s'agir de divinités différentes : cf. infra p. 95-8.
6 Notamment S. Weinstock, in R.E., XIX, 1, s.u. Penates, col. 421-422. G. Dumézil, au
contraire {op. cit. p. 360) souligne le peu d'exactitude de cette équivalence.
LES PÉNATES PRIVÉS : ESSAI D'INTERPRÉTATION 95

grecs. Cette idée se fonde en partie sur un passage où Denys d'Halicar-


nasse essaie de donner des équivalents grecs du terme Penates : τους δε
θεούς τούτους 'Ρωμαίοι μεν Πενάτας καλουσιν ■ οί δέ έξερμηνεύοντες εις
την 'Ελλάδα γλώσσαν τούνομα οί μέν πατρφους άποφαίνουσι7. Cela dit,
le grec θεοί πατρφοι correspond très exactement au latin di patrii, et
nous allons essayer de voir quelles relations ces deux termes
entretiennent avec les Penates.
Le rapprochement entre les θεοί πατρφοι et les Penates est justifié
par l'usage romain. Nous avons déjà remarqué, dans un précédent
chapitre, que le mot pénates était souvent associé à la maison, à la patrie,
parfois même employé métonymiquement pour domus et patria. De
fait, on rencontre de nombreux exemples d'emploi du mot pénates à
côté du mot domus, par exemple chez Cicéron : cum domum ac deos
pénates suos ilio oppugnante defenderet*. On pourrait citer nombre de
cas où pénates est ainsi employé à côté de domus ou d'autres mots de
sens voisin, comme fundus9, mais aussi associé parfois à auitae se-
des10, c'est-à-dire à la demeure paternelle, et, de là, à la patria11. Le
fait que les Pénates, d'une part, la domus, la patria et les dieux qui les
protègent d'autre part, soient fréquemment associés, indique à lui seul
que, dans la sensibilité romaine, ces notions sont très proches et
s'appellent, pour ainsi dire, l'une l'autre. Mais l'usage de la langue va
beaucoup plus loin. On trouve en effet dans Plaute l'expression di pénates
meum parentum n, ce qui implique que les Pénates sont considérés ici
comme des dieux que l'on se transmet de père en fils, de génération en
génération. C'est sans doute par l'intermédiaire d'expressions de ce
type que l'on arrive à une sorte de confusion des Penates et des di
patrii; ainsi Horace écrit, à propos d'Ulysse :
Iamne doloso
non satis est Ithacam reuerti patriosque pénates
aspicere13,

7 I, 67, 3 : « Les Romains appellent ces dieux les Pénates ; ceux qui traduisent ce
nom en grec disent, les uns, πατρφοι. . . ».
8 Mil, 38.
9 Cic, Quinci., 83 : De fundo expulsus, iam a suis dis penatibus praeceps eiectus. . .
10 Cic, Leg. Agr., 2, 57.
11 Cic, Phil., 12, 14.
12 Merc, 834.
13 Sat. II, 5, 4-6.
96 LES PÉNATES PRIVÉS

et l'on pourrait citer d'autres exemples où l'on trouve pénates patrii14.


Il faut remarquer que di patrii peut, dans à peu près tous les cas où il
apparaît, être compris de deux façons. Il s'agit tout d'abord des dieux
«paternels», c'est-à-dire, comme nous venons de le voir, de ceux que
l'on se transmet, à l'intérieur d'une famille, de père en fils. Mais ce sont
aussi les dieux de la patria, c'est-à-dire de l'Etat, les Penates populi
Romani. Cette expression de pénates patrii désigne donc à la fois les
Pénates au sens le plus étroit du terme, les dieux protecteurs de la
famille, et les dieux protecteurs de la patrie, l'ensemble de ces divinités
étant confondues dans un même sentiment d'attachement et de
tendresse qui les fait qualifier de cari15, ou de ueteres16, adjectif dans
lequel s'exprime un respect ému.
Ayant constaté que les di pénates étaient parfois appelés patrii et
donc assimilés à ces derniers, il nous faut à présent essayer d'expliquer
comment le rapprochement a pu se faire entre ces deux catégories de
dieux. Comment les dieux du penus, «garde-manger» selon certains,
«partie la plus retirée de la maison» selon d'autres, ont-ils pu être
associés, voire assimilés aux di patrii, dieux paternels, ou même, ce qui est
plus surprenant peut-être, aux dieux protecteurs du populus Roma-
nus?
Ce problème a été diversement résolu. S. Weinstock17 se borne à
noter le rapprochement des Penates et des di patrii, ou l'assimilation
des uns aux autres. F. Borner18 part d'une constatation que nous avons
faite à plusieurs reprises : il existe à coup sûr une distinction entre les
Pénates comme dieux du penus - F. Borner donnant à ce mot le sens de
«réserve aux provisions» -, et les Pénates que l'on voit honorés à
l'époque classique, c'est-à-dire, au fond, n'importe quelle divinité choisie par
le maître de maison pour protéger sa demeure et sa famille; c'est cette
dernière catégorie qui est représentée dans les laraires de Pompéi.
F. Borner rappelle alors la thèse de Wissowa, selon laquelle les dieux de
la première catégorie, ceux du penus, sont les plus anciens mais ne sont
pas parvenus jusqu'à nous sous une forme iconographique, car ils
remontent à une époque très ancienne où les dieux n'avaient pas de

14 Par ex., Cic., Dom., 144; Phil, II, 30, 75; Lucain, IX, 230, etc. . .
15 Lucain, VII, 347.
16 Ovide, Tristes I, 5, 81.
17 Op. cit., col. 421-22.
18 Rom und Troia, Baden-Baden, 1951, p. 106-110.
LES PÉNATES PRIVÉS : ESSAI D'INTERPRÉTATION 97

représentation figurée; ce dernier fait, selon Wissowa, plaide en faveur


de l'ancienneté, plus grande que celle des di patrii, des «dieux du
garde-manger». F. Borner, pour sa part, critique cette idée, car il lui paraît
impossible que les di patrii soient postérieurs aux dieux du penus, et il
estime que, selon toute probabilité, ils sont aussi anciens les uns que les
autres; dans ces conditions, le problème reste entier de savoir pourquoi
les Penates sont aussi appelés di patrii19.
F. Borner propose l'explication suivante : les deux notions de
Penates et de di patrii, originellement distinctes, mais aussi anciennes l'une
que l'autre, ont été peu à peu confondues en raison du voisinage des
deux catégories de dieux dans la maison. P. Boyancé a fait justement
remarquer20 que la solution proposée par F. Borner est assez malaisée
à accepter dans l'hypothèse où se place cet auteur, d'un sens originel
du penus comme «garde-manger», ce qui, donnant au mot un sens très
précis, rend difficile l'assimilation des dieux censés y résider aux di
patrii) la difficulté est d'autant plus grande que, F. Borner voyant dans
les urnes rondes en forme de cabanes retrouvées à Albe l'image des
anciens greniers à blé, édifices distincts de la maison, il est alors délicat
de parler de proximité, à l'intérieur de la maison, des dieux de ces silos
et des di patrii du foyer domestique. En revanche, note P. Boyancé - et
nous approuvons entièrement cette remarque -, si l'on donne comme
sens premier à penus celui de «la partie la plus retirée de la maison»,
comme le suggèrent A. Ernout et A. Meillet, cette difficulté disparaît :
les dieux qui résident dans le penus compris en ce sens ont pu être peu
à peu confondus avec les di patrii, présents dans la maison en tant que
protecteurs de la famille.
Au demeurant, ce ne sont sans doute pas des raisons purement
topographiques qui expliquent le rapprochement fait entre les deux
groupes de dieux. Nous avons vu que le penus semblait, aux yeux des
anciens juristes, faire partie de l'héritage21 : on conçoit qu'à ce titre, on

19 Notons que F. Borner résout dans un sens assez proche de D. G. Orr {op. cit.,
p. 1559) le problème de la relation chronologique entre culte public et culte privé, le
premier, celui des di patrii, étant, selon lui, contemporain de l'autre tandis que Wissowa
soutient la thèse contraire {Die Ueberlieferung über die römischen Penateti, p. 96), reprise
par G. Dumézil {op. cit., p. 359).
20 Les Pénates et l'ancienne religion romaine, REA, 54, 1952, p. 133.
21 Gell., Ν. AU. IV, 17: Scaevola s'est préoccupé pour cette raison de le définir; cf.
supra p. 17-9.
98 LES PÉNATES PRIVÉS

ait pu qualifier de patrius et de patrii les dieux qui veillaient sur lui22. Il
est d'ailleurs curieux de constater qu'à côté de l'expression assez
fréquente pénates patrii que nous mentionnions plus haut, on trouve aussi
pénates et di patrii employée deux fois chez Cicéron23 : il est permis de
se demander s'il ne s'agit pas là d'un hendiadyn, ayant un effet
d'amplification oratoire, comme c'est le cas, nous semble-t-il, dans un
passage de Tite-Live où la ferox Tullia exhorte Tarquin à revendiquer le
trône de Rome qui lui est dû : di te pénates patriique et patris imago et
domus regia et in domo regale solium et nomen Tarquinium créât uocat-
que regem24. Cette phrase nous paraît illustrer particulièrement bien la
confusion qui s'établit entre pénates, di patrii, et domus, le rappel de la
patris imago ordonnant du reste les termes autour de la figure du père,
dont Tarquin tient cet héritage à la fois matériel, religieux et affectif.
Sans doute aussi l'emploi très fréquent de Penates à côté at patria25, ou
de domus20 ou encore de focus21 a-t-il facilité cette assimilation des
Pénates avec les di patrii. Encore peut-on se demander si ces derniers
ont une existence réelle indépendamment des Pénates. L'expression
n'apparaît pas avant Cicéron, et nous semble pouvoir s'expliquer
comme une traduction latine des θεοί πατρώοι grecs, sans toutefois
recouvrir une notion religieuse bien précise, si ce n'est peut-être les Pénates,
avec lesquels, en définitive, les di patrii se confondent.

2) Pénates et diui parentes

Parmi les divinités avec lesquelles les Pénates ont été associés ou
confondus, à côté des di patrii, on trouve aussi les diui parentum ou
diui parentes. Dans leur sens le plus strict, ces derniers sont les ancê-

22 On trouve aussi chez Tacite (Hist. Ill, 86, 8) l'expression in paternas pénates; de
même, Plaute écrit (Mere, 834) : Di Penates meum parentum ; si l'on interprète meum
parentum comme un génitif possessif, ainsi que le fait A. Ernout (Comédies, IV, C.U.F.,
Paris, 1956), il faut comprendre que les Pénates ici invoqués ont été reçus en héritage de
ses parents par le jeune Charinus.
23 Sest., 45; Har. Resp., 17, 37.
24 I, 47, 4. Ce n'est pas l'interprétation de J. Heurgon (Tite-Live I (éd. comm), Coll.
Erasme, Paris, 1970, p. 158), qui distingue di pénates «dieux de ton foyer» et di patrii
«dieux de ta patrie».
25 Par ex. Cic, Prov. Cons. 35; Salluste, Hist., 2, 47, 3; 2, 47, 4; Ovide Met. IX, 640;
Liv., VI, 14, 8; XXII, 3, 10; Sénèque, Phéniciennes, 557; 664; Tacite, Hist. Ill, 84, 3.
26 Par ex. Cic., Mil., 38; Liv. XXX, 13, 13.
27 Par ex. Cic., Sest., 145, etc.
LES PÉNATES PRIVÉS : ESSAI D'INTERPRÉTATION 99

très morts divinisés et honorés par le culte funéraire familial. Il semble


du reste, si l'on en croit le témoignage de Festus, que l'expression diui
parentum soit la plus ancienne, car elle figurait, selon lui, dans une lex
regia qu'il rapporte aux règnes de Romulus et Tatius et de Servius Tul-
lius28, et qu'elle ait été corrigée plus tard en diui parentes. En effet,
comme le fait remarquer G. Dumézil29, le génitif assez étrange
parentum «conduit à faire reposer sur diui tout le poids du concept. . . sans
qu'il soit possible de préciser le rapport qui était senti entre ces «dieux»
et les parentes ou ancêtres dont ils étaient les dieux». Or, nous
possédons un témoignage au moins, celui de Servius, qui assimile les pénates
aux di parentes : etiam domi suae sepeliebantur (maiores) : unde orta est
consuetudo ut di pénates colantur in domibus30. C'est le seul
témoignage que nous avons trouvé de cette assimilation, et il est tardif : deux
raisons pour qu'il soit examiné avec prudence, mais ce n'est sans doute
pas là pure invention de Servius. Cette assimilation des di parentum et
des di pénates n'a pu se faire qu'à un moment où la nature originelle
des pénates ne se comprenait plus. Cependant, elle a pu être préparée
par certains points communs entre les deux groupes de dieux. D'une
part, une expression comme celle de Plaute, di pénates meum
parentum31 a pu faciliter cette confusion, dans la mesure où le génitif meum
parentum peut se comprendre comme un génitif de définition, et non
de possession. D'autre part, une commune résidence dans la maison, et,
plus précisément, autour du foyer ou de l'autel domestique, facilitait
cette assimilation : des imagines maiorum, portraits des ancêtres
défunts, ont été retrouvées à Pompéi dans des sacrarla contenant aussi les
images des Pénates32, ce qui explique qu'on ait pu avoir tendance à les
confondre : c'est ainsi que, dans le texte de Tite-Live que nous avons
cité plus haut33, Tullia cite la patris imago juste après les di pénates

28 260 L. : In régis Romuli et Tati legibus : «Si nurus. . . (nurus) sacra diuis parentum
estod». In Servi Tulli haec est : «Si parentum puer uerberit, ast olle plot assit paren(s) puer
diuis parentum sacer esto».
29 La religion romaine archaïque, p. 370.
30 Ad Aen. V, 64: «Les anciens étaient ensevelis dans leur propre demeure: de là
vient la coutume d'honorer les dieux Pénates dans les maisons».
31 Mere, 834.
32 Cf. A. Zadoks, Ancestral Portraiture in Rome, Amsterdam, 1932, passim; Ο. Vess-
berg, Studien zur Kunstgeschichte der römischen Republik, Lund, 1941, passim.; A. De
Franciscis, // ritratto romano a Pompei, Naples, 1951, notamment fig. 1 (sacellum avec des
imagines maiorum).
33 I, 47, 4.
100 LES PÉNATES PRIVÉS

patriique. Toutefois, ce qui nous semble différencier les imagines maio-


rum des Pénates, c'est le type iconographique : les Pénates sont
assimilables à des dieux du panthéon romain connus par ailleurs, et leur
visage est généralement empreint d'une sérénité qui contraste avec le
réalisme des visages d'ancêtres34.
Le témoignage de Servius suggère à S. Weinstock35 une remarque
fort intéressante. Dans les cas d'incinération, les cendres des morts
étaient conservées dans des doliola à l'intérieur de la maison, ce qui
explique que les ancêtres morts ont été confondus avec les Pénates,
parce qu'ils faisaient partie, comme eux, des sacra vénérés dans le culte
domestique. Or, note S. Weinstock, une tradition relative au culte
public des sacra conservés dans le Penus Vestae, parmi lesquels auraient
figuré, selon Tacite, les Pénates, assure que, lors de l'invasion gauloise
de 390 av. J.-C, ces sacra furent enfermés dans des doliola, et emportés
ou enfouis sous terre par les Vestales36. D'autre part, Varron rapporte
une tradition concernant le lieu-dit Doliola, qui semble être celui où
furent enterrés les sacra : locus qui uocatur Doliola ad Cloacam
Maximam. . . a doliolis sub terra. Eorum duae historiae, quod alii inesse aiunt
ossa cadauerum, alii Numae Pompila religiosa quaedam post mortem
eius infossa37. Le rapprochement entre ces deux textes suggère
l'existence d'un lien, dans le culte privé, entre cendres des morts, doliola, et
Pénates, qui trouverait un correspondant exact dans le culte public38.
Dans le culte privé, les Pénates, confondus avec les di parentes, ne sont

34 Cf. A. De Franciscis, op. cit., p. 19-21.


35 Op. cit., col. 426.
36 Liv., V, 40, 8 : optimum ducunt condita (sacra) in doliolis sacello proximo aedibus
flaminis Quirinalis. . . defodere; cf. infra p. 475 sq.
37 De L.L. V, 157.
38 F. Coarelli (// Foro Romano I : Periodo arcaico, Rome, 1983, p. 283) remarque que
les religiosa quaedam enfouis post mortem Numae ont, comme les ossements, une valeur
funéraire, religiosus étant l'adjectif qui désigne spécifiquement le caractère sacré de la
tombe (sur le sens de religiosus, voir E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions
indoeuropéennes II, Paris, 1969, p. 267-272). Toutefois, S. Weinstock estime que la tradition
rapportée par Varron est une conséquence de la confusion des di parentes et des Pénates
dans le culte privé, alors que F. Coarelli {op. cit., p. 292-98), se fondant sur des
témoignages archéologiques, considère que la tradition d'ensevelissement en ce lieu est datable du
VIIe- VIe siècle, mais que, dans la vénération dont sont l'objet les doliola jusqu'à l'époque
impériale, s'était perdu peu à peu le sentiment de leur signification; ils rejoignent sur ce
point les sacra du culte de Vesta et des Pénates, auxquels ils ont fini par être assimilés.
LES PÉNATES PRIVÉS : ESSAI D'INTERPRÉTATION 101

pas très différents des Di Manes, expression beaucoup plus fréquente


pour désigner les ancêtres morts divinisés39.

3) Pénates et Lares

II est une autre catégorie d'êtres divins dont les Pénates ont été très
souvent rapprochés: les Lares; ils ont parfois même été confondus.
Tertullien les unit comme dieux du culte privé : priuatos enim deos,
quos lares et pénates domestica consecratione perhibetis40. Mais ce
témoignage tardif ne fait que corroborer l'usage assez fréquent de la
littérature classique, où les Pénates sont invoqués à côté du Lar familiaris
ou des Lares : Ista tua pulchra Liberias deos Penates et familiäres meos
Lares expulit41. Il est remarquable que les Lares, comme les Pénates,
apparaissent à la fois dans le culte privé (Lar familiaris, au singulier,
ou les deux Lares figurés dans les peintures ou les sculptures des larai-
res de Pompéi) et dans le culte public (Lares compitales, Lares militares,
Lares praestites)42.
Cette association des Pénates et des Lares, ou du Lar familiaris,
voire l'emploi de l'une ou l'autre expression dans des circonstances
semblables, s'explique par les nombreux points communs entre ces deux
catégories de divinités43. A part le cas où l'on parle du Lar familiaris au
singulier, les Lares sont une collectivité d'êtres divins, tout comme les
Pénates. Le mot de «collectivité» paraît plus approprié, s'agissant des
Lares, que celui de «communauté indifférenciée», car il existe
différentes sortes de Lares : compitales, praestites, Lar familiaris. . . Il n'en reste
pas moins que nous avons affaire à deux groupes d'êtres divins qui
sont, dans la plupart des cas - et c'est, pour les Pénates, leur caractère
originel -, présentés collectivement sans différenciation
d'individualité.

39 Cf. G. Dumézil, ibid.


40 Adu. Nat. I, 10, 76.
41 Cic, Dom. 108; de même Rep. V, 5; Phil II, 30, 75; Plaute, Mere. 834; Lucain, VII,
394; Ovide, Tristes I, 3, 45; Liv., I, 29, 4; Virgile, En. VIII, 543; IX, 258.
42 Voir D. G. Orr, op. cit., p. 1563-69; D.P.Harmon, The Family Festivals of Rome,
A.N.R.W., II, 16, 2, Berlin-New- York, 1978, p. 1593-95. Voir aussi J. Marquardt-A. Mau,
Das privatleben der Römer, 2° éd., Darmstadt, 1964, p. 28 sq., 124 sq., 378 sq.; L. Preller-
H. Jordan, Rom. Mythologie, 3° éd., Berlin, 1881, p. 105-123; Böhm, R.E., XII, I, s.u. Lares,
col. 806-833; Κ. Latte, Römische Religionsgeschichte, Munich, 1960, p. 89 sq.
43 Cf. G. Piccaluga, Penates e Lares, SMSR, 32, 1961, p. 81-97.
102 LES PÉNATES PRIVÉS

Un autre trait commun aux Pénates et aux Lares est d'être des
divinités attachées à un lieu44. Les Pénates tirent leur nom de ce lieu, le
penus, et, par extension, leur domaine est devenu l'ensemble de la
maison. Il en va de même pour les Lares, bien que la maison ne soit pas
leur unique séjour. Ils figurent parmi les dieux domestiques séjournant
auprès du foyer au même titre que les Pénates; du reste, il semble que,
dans les demeures de Pompéi, Pénates et Lares soient fréquemment
représentés côte à côte, soit dans les peintures, soit dans les statuettes
contenues dans les laraires; toutefois, nous avons noté que les uns et
les autres n'étaient pas toujours dans le même plan du laraire; d'autre
part, ils sont nettement différenciés du point de vue iconographique :
les Lares, comme nous l'avons vu dans le précédent chapitre, ont une
attitude et un costume bien particuliers, tandis que les Pénates ont le
costume ordinaire de la divinité avec laquelle ils sont identifiés, ce qui
revient à dire qu'ils n'ont pas de type iconographique spécifique.
Cette communauté de séjour dans la maison privée s'accompagne
d'une autre ressemblance, qui en est vraisemblablement la
conséquence : les Pénates et les Lares sont des divinités protectrices. Les uns et les
autres sont en principe bienveillants et, si nous avons vu précédemment
que les Pénates sont quelquefois présentés comme hostiles, cette
attitude n'est pas une caractéristique de leur nature, mais bien plutôt le fruit
de circonstances qui ont justifié leur courroux. Nous avons montré
dans une précédente étude que les Pénates ont pour fonction de veiller
sur le penus, mais aussi sur le bien-être de la maisonnée d'une manière
générale. A cette vigilance matérielle s'ajoutent des fonctions relevant
de la protection morale et religieuse de la famille, qui expliquent en
partie la charge affective dont nous avons déjà à plusieurs reprises
souligné qu'elle accompagnait généralement la mention des Pénates. On
place leurs images sur la table où sont dressés les plats, dont une
portion leur revient. De même, on met les statues des Lares sur la table45
et, lorsqu'un morceau de nourriture tombe au cours du repas, on le
pose sur la table, puis on le brûle au foyer devant les Lares46. Cette
part prise par les Pénates et les Lares aux repas qui réunissent l'ensem-

44 G. Piccaluga, pourtant (p. 82-96), voit là une raison de les opposer plutôt que de
les rapprocher : voir infra p. 107-8.
45 Pétrone, Sat., LX.
46 Pline, N.H., XXVIII, 27.
LES PÉNATES PRIVÉS : ESSAI D'INTERPRÉTATION 103

ble de la famille montre la place que ces dieux tiennent dans la religion
domestique.
De même, nous avons vu que les Pénates étaient fréquemment
invoqués lorsqu'on quittait, ou qu'on retrouvait sa maison, dont ils
représentent en quelque sorte toute la valeur affective et sentimentale,
et qu'ils désignent même souvent par métonymie. Nous avons des
exemples d'invocations aux Lares dans des circonstances analogues : on
s'adresse à eux au moment de partir en voyage47 et aussi au moment
où le fils disparu revient dans la maison de son père48. En arrivant
chez soi, on salue indifféremment, semble-t-il, les uns ou les autres.
Ainsi, chez Térence, un personnage qui regagne son logis déclare :

Ego deos pénates hinc salutatimi domum


Deuortar49,

tandis qu'on lit chez Caton : paterfamilias ubi ad uülam uenit ubi harem
familiärem salutami50. Enfin, comme les Pénates, le Lar familiaris est
chargé de la protection du patrimoine familial et c'est à ces divinités
collectivement que dans le passage du Mercator que nous avons cité
plus haut, le jeune Charinus confie le bien hérité de ses pères au
moment de son départ pour l'exil :

Di Penates meum parentum, familiae Lar Pater


Vobis mando meum parentum rem bene ut tutemini51.

La même valeur sentimentale est attachée aux Lares et aux


Pénates. Le Lar familiaris est lié de très près au sort de la maison, ce que
confirme le prologue de YAululaire.
Comme les vicissitudes de la famille sont celles des Pénates, elles
sont aussi celles des Lares, et leur sort et celui de la maison sont liés :
ils voyagent avec la famille52 et chasser leur image d'une maison prou-

47 Mere, 834; Mil. Gîor., 1339.


48 Rud., 1206.
49 Phorm., 311-312; «Et moi, je vais de ce pas au logis saluer mes dieux pénates»
(trad. J. Marouzeau, C.U.F., Paris, 1947).
50 De Agr.; 2.
51 Mere. 834-835 : «Dieux pénates de mes parents, vénérable Lare de la famille,
protégez bien leur fortune, je les recommande à vous» (trad. A. Ernout, C.U.F., Paris, 1956).
52 Ovide, Fastes IV, 802; Tibulle, II, 5, 42.
104 LES PÉNATES PRIVÉS

ve que la famille qui habite cette maison n'a plus d'avenir53; comme
pour les Pénates, se séparer d'eux est particulièrement douloureux54.
Enfin, Pénates et Lares ont encore ceci de commun qu'ils sont les
uns et les autres apparentés, ou confondus, avec les esprits des
ancêtres morts. Nous avons dit plus haut que les Pénates étaient parfois
identifiés avec les di parentes, ou di parentum, dieux des parents morts
dont la nature exacte reste, comme l'a noté G. Dumézil55, assez
obscure. Or, les Lares, eux aussi, ont été rapprochés de ces di parentum, ou
di Manes, notions qui semblent assez voisines56, et du reste l'une et
l'autre peu précises. Un commentaire de Servius affirme très
clairement cette identification : Omnes in suis domibus sepeliebantur, unde
ortum est ut Lares colerentur in domibus : unde etiam umbras Laruas
uocamus a Laribus57. Ce texte nous intéresse particulièrement pour les
contradictions apparentes qu'il présente avec le témoignage du même
Servius cité plus haut à propos des Pénates. Le culte domestique des
Lares se trouve ici justifié par la coutume, imputée aux maiores, de
l'ensevelissement dans la maison, comme l'était le culte domestique des
Pénates. Cela implique, en fait, une identification des deux groupes de
dieux, Lares et Pénates, par l'intermédiaire d'une commune
identification aux esprits divinisés des ancêtres morts. Cette assimilation des
Lares et des di parentes peut cependant être mise en relation avec un
certain nombre d'autres témoignages qui font des Lares des esprits
apparentés au monde infernal. Sans nous attarder ici à exposer en
détail les problèmes, d'ailleurs fort complexes58, posés par aspect de la
personnalité des Lares, nous nous bornerons à ceux qui peuvent nous
éclairer sur les rapports de ces dieux avec les Pénates. Le témoignage
de Servius concorde en partie avec un texte de Varron cité par Arnobe :
Varrò similiter haesitans nunc esse illos (= Lares) Mânes et ideo Maniam
matrem esse cognominatam Larum, nunc aerios rursus deos et heroes

53 Suétone, Caligula, 5.
54 Tibulle, II, 4, 53; Juvénal, VIII, 110.
55 Ibid.
56 Cf. J. Β. Jacobsen, Les Mânes (trad. Philippot), Paris, 1924 passim; D.P.Harmon,
op. cit., p. 1603.
57 Ad Aen. VI, 152: «Tous étaient ensevelis dans leurs maisons; de là vient que les
Lares sont honorés dans les maisons; à cause de cela aussi nous appelons les ombres
Laruae, de Lares».
58 Cf. G. Wissowa in Roschers Lexicon s.u. Lares; id., Religion und Kultus der Römer,
2e éd. Munich, 1912; Böhm, loc. cit.; G. Piccaluga, ibid.
LES PÉNATES PRIVÉS : ESSAI D'INTERPRÉTATION 105

pronuntiat appellari, nunc antiquorum sententias sequens Laruas esse


dicit Lares, quasi quosdam genios et functorum animas59. Ce texte
indique avec une certaine prudence, dont témoigne l'emploi de quasi, que
Varron considère les Lares comme les âmes des morts {functorum
animas). Un texte d'Augustin va beaucoup plus loin dans le sens d'une
confusion entre'Génius, héros et Lares : inter lunae uero gyrum et nim-
borum ac uentorum cacumina aerias esse animas, sed eas animo, non
oculis uideri et uocari heroas et Lares et genios60. Cette confusion entre
Lares, héros et Genius d'une part, l'assimilation des Lares aux âmes des
morts d'autre part, s'expliquent par différentes raisons. Nous ne nous
risquerons pas ici à trancher du difficile problème de l'origine et de la
nature primitive du culte des Lares, dont le nom même ne va pas sans
difficultés : si l'on admet, comme J. Heurgon61 qu'il est d'origine
étrusque et signifie «grand» «puissant», «on ne s'étonnera pas qu'il ait pu
s'appliquer aussi bien, sans les caractériser, aux diverses activités du
Lar familiaris et des Lares, genii et functorum animae. . . Il
n'exprimerait en fait qu'une vénération indistincte en présence de certaines
manifestations de la puissance divine»62. Leur nom, par conséquent, ne
saurait nous suffire pour définir la personnalité des Lares. Mais la
tradition selon laquelle les Lares seraient les ancêtres morts divinisés doit
être rapprochée de la personnalité de Larentia, ou Larunda, dont le
nom est de la même famille que Lares ; cette dernière, parfois présentée
comme l'épouse du berger Faustulus, qui recueillit Romulus et Ré-
mus63, est parfois identifiée comme une divinité chthonienne, en
l'honneur de qui un sacrifice était fait aux Larentalia du 23 décembre,
sacrifice dont la signification exacte nous échappe64; mais le caractère

59 Ad Nat. Ill, 41 : «Varron, hésitant lui aussi, dit tantôt qu'ils (= les Lares) sont les
Mânes et que pour cette raison la mère des Lares est nommée Mania, tantôt au contraire
déclare qu'ils sont les esprits aériens et sont nommés heroes, tantôt, suivant les opinions
des anciens, il affirme que les Lares sont les Laruae, c'est-à-dire en quelque sorte les
génies et les âmes des défunts ». Voir U. Pestalozza, Mater Larum et Acca Larentia, Reale
Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Rendiconti, XLVI, 1933.
60 De Civ. Dei VII, 6 : « Entre le cercle de la lune et les sommets des nuages et des
vents, il y a des âmes aériennes, mais on ne peut les voir que par l'esprit, pas par les yeux
et on les appelle héros, Lares, Genius». Cf. D. P. Harmon, op. cit., p. 1593-95.
61 Lars, largus et Lare Aineia, in Mélanges d'archéologie et d'histoire offerts à André
Piganiol, 1966, p. 655-664.
62 Ibid., p. 660; U. Pestalozza, loc. cit.
63 Ovide, Fastes III, 55-56.
64 Cf. Ovide, Fastes 1. 1 (trad. H. Le Bonniec), Catane, 1969, p. 162 η. 11.
106 LES PÉNATES PRIVÉS

chthonien de la déesse, dont le nom présentait une parenté avec celui


des Lares, a pu faciliter l'assimilation de ces derniers aux di parentes.
Comme tels, on les comptait aussi parmi les Di Manes. D'autre part,
ainsi qu'en témoigne le texte de Varron cité par Arnobe, le nom de
Mania, considérée parfois comme la mère des Lares, fournit un
argument de plus pour assimiler les Lares aux Mânes. Enfin, l'assimilation
des Lares et des héros, qui date, semble-t-il, de l'époque augustéenne65,
traduit sans doute une influence grecque car, d'une part, ils sont
assimilés aux δαίμονες66, d'autre part, Denys d'Halicarnasse traduit Lar
familiaris par ήρως κατοικούμενος67, et Lares familiäres est traduit
parfois68 par ήρωες κατοικούμενοι. Les Pénates étant traduits, dans la
version grecque du Monument d'Ancyre, par οί κατονκούμενοι69, il est
possible que la parenté des deux traductions ait favorisé la confusion
des deux termes qu'elles traduisaient; mais il est plus probable, selon
un schéma inverse, que la confusion existant entre Pénates et Lares ait
entraîné des traductions très proches. Quoi qu'il en soit, les Mânes
étant mal différenciés des di parentum, auxquels étaient parfois
assimilés les Pénates, Lares et Pénates se trouvent confondus dans une même
identification aux âmes des ancêtres morts.
Cependant, si Pénates et Lares ont pu être assimilés, chez des
auteurs tardifs surtout, il n'en reste pas moins qu'il existe entre eux des
différences non négligeables. La première est celle de la nature et de la
formation de leur nom. Lar ou Lares est un nom propre70, parfois
même un prénom71. Le mot n'est jamais accompagné de di, mais au
contraire, le nom de Lar ou Lares est souvent qualifié par un adjectif
désignant différentes sortes de Lares {Lar familiaris, Lares compitales,
Lares militares, Lares praestites). En revanche, nous avons vu que
pénates était une formation adjective, fréquemment accompagnée du mot
di. Les Lares, jamais désignés du terme de di, n'étaient donc sans doute
pas, au contraire des Pénates, considérés comme des divinités, mais
plutôt comme des êtres secondaires dans la hiérarchie des puissances
supérieures aux hommes, des sortes de «démons», ainsi qu'en témoigne

65 Cf. G. Wissowa, in Roschers Lexicon, s.u. Lares, col. 1870.


66 Cic, Tim., 38.
67 IV, 2, 3.
68 Corp. Gloss. Lai. Ili, 167, 56.
69 Χ, 12.
70 Cf. J. Heurgon, ibid. ; pour les origines étrusques du mot, id., op. cit., p. 655 n. 2.
71 Op. cit., p. 660.
LES PÉNATES PRIVÉS : ESSAI D'INTERPRÉTATION 107

la traduction grecque par ήρωες72. D'autre part, on trouve le singulier


Lar dans l'expression Lar familiaris, alors qu'il n'existe rien de tel pour
les Pénates. Certes, nous avons vu qu'à Pompéi, il se trouvait que fût
«pénatisée» une seule divinité, mais le mot Pénates n'a jamais été
employé au singulier. Au contraire, et sans aborder ici la question de
l'ancienneté du culte du Lar familiaris par rapport aux autres aspects
du culte des Lares, il est certain que cette expression se trouve très tôt
attestée dans les textes au singulier73. L'existence de ce singulier, ainsi
que l'usage de qualifier par des adjectifs le Lar ou les Lares, dès les
premiers témoignages littéraires74, atteste que, contrairement aux
Pénates, il ne s'agit pas d'une pluralité indistincte, mais plutôt d'une
collectivité d'êtres divins, très souvent désignés comme un ensemble, ce
qui a facilité leur confusion avec les Pénates.
D'autre part, nous l'avons vu, Pénates et Lares ont en commun
d'être, dans leur essence même, attachés à des lieux. Ils sont les uns et
les autres présents dans la maison, ainsi qu'en témoigne l'iconographie
des laraires de Pompéi. Mais, alors que les Pénates résident
uniquement dans la maison, et tirent du reste leur nom d'une partie de cette
dernière, il en va tout autrement pour les Lares, dont le nom n'a rien à
voir avec elle. Cette différence a été nettement mise en lumière par
G. Piccaluga75 : alors que les Pénates sont les dieux d'un monde clos,
celui de la demeure dans le culte privé, celui des temples dans le culte
public, les Lares, eux, sont en rapport avec le monde extérieur. Ils sont
les dieux des champs et des carrefours, donc ils se situent à la frontière
où l'univers familial de la maison ou du domaine côtoie ou affronte les
forces extérieures. Il se trouve que la sphère de leur action coïncide
avec celle des Pénates, mais en partie seulement, car les lieux où ils
séjournent sont infiniment plus vastes et d'une nature très différente de
ceux où résident les Pénates. Ces derniers symbolisent la vie calme et

72 Cf. B. Liou-Gille, Cultes «héroïques» romains. Les fondateurs, Paris, 1980, p. 8.


Pourtant, il est un fait qui semble témoigner de l'importance des Lares : leur nom figure,
à côté de celui de dieux aussi éminents que Jupiter ou Mars, dans la formule de la deuo-
tio (voir Liv., VIII, 9, 6), occasion particulièrement chargée de solennité : cf. G. Dumézil,
R.R.A., p. 108-110; B. Liou-Gille, op. cit., p. 102; Ch. Guittard, Tite-Live, Accius, et le rituel
de la deuotio, CRAI, 1984, p. 581-600. Sans doute apparaissent-ils alors comme des
divinités chthoniennes.
73 Plaute, Mere, 834.
74 Par exemple, chez Plaute ou chez Caton.
75 Op. cit., p. 88-89.
108 LES PÉNATES PRIVÉS

réglée de la famille; les Lares, sans être le symbole de la nature


sauvage, représentent aussi le monde extérieur; c'est même, selon G. Wisso-
wa76 le sens originel de leur culte, puisque, selon lui, les Lares ont
d'abord été des divinités des champs, puis des carrefours, et ensuite
seulement serait apparu le Lar familiaris, divinité domestique77.
Lares et Pénates, nous l'avons vu, ne se contentent pas d'avoir leur
séjour dans la maison; ils la protègent, ainsi que ceux qui l'habitent. Or,
là encore, nous constatons que le champ d'action des Lares est plus
étendu que celui des Pénates. Ces derniers en effet ne veillent que sur
les maîtres, et la présence d'esclaves sur les fresques pompéiennes
représentant le sacrifice aux Pénates, ne doit pas faire illusion : le
camillus et le uictimarius assistent en effet au sacrifice, mais c'est pour
aider le maître de maison, lui passer les objets dont il a besoin et lui
présenter la victime, non pour prendre eux-mêmes une part vraiment
religieuse à la cérémonie78 qui se déroule, dont ils ne sont que les
simples assistants. Les esclaves n'ont pas de Pénates. Au contraire, les
Lares protègent l'ensemble de la maisonnée, maîtres et esclaves. Le Lar
familiaris est tout spécialement le protecteur de la familia : le seul
office religieux que le uilicus et la uilica ont à accomplir est de lui offrir
des couronnes aux jours de fêtes79 et l'esclave affranchi lui consacre
ses chaînes80.
Les occasions auxquelles on fait des sacrifices ou des offrandes
aux Lares et aux Pénates sont, elles aussi, différentes. La fonction
essentielle des Pénates dans la vie familiale est leur présence et leur
participation aux repas, mais ils n'ont pas de rôle spécifique dans les
circonstances solennelles ou exceptionnelles de la vie domestique, aux-

76 Op. cit., col. 1870-1876.


77 Le lien étroit unissant le Lar familiaris et le foyer est particulièrement bien illustré
par une des légendes concernant la naissance de Servius Tullius, connue par Ovide
(Fastes VI, 633 sq.) : alors que la mère du futur roi, une esclave, versait des libations avec sa
maîtresse Tanaquil sur le foyer royal, le Lar familiaris, ou Vulcain, lui serait apparu, et,
sur ordre de sa maîtresse, elle se serait unie à lui : cf. J. Champeaux, Fortuna. Le culte de
la Fortune à Rome et dans le monde romain, Coll. de l'Ecole Française de Rome, 64,
Rome, 1982, p. 295-296, et 441.
78 Cf. J. Scheid (Piété et impiété, dans id., Religion et piété à Rome, Paris, 1985, p. 21),
qui souligne le rôle généralement «passif et subordonné» des esclaves dans les
cérémonies religieuses.
79 Caton, De Agr., 5, 3.
80 Horace, Sat. I, 5, 65.
LES PÉNATES PRIVÉS : ESSAI D'INTERPRÉTATION 109

quelles pourtant ils assistent81. Au contraire, le jeune garçon suspend


sa bulla à la statue du Lar familiarisé2 lors de la prise de la toge
virile83, la fiancée dépose un as à ses pieds lors des cérémonies du
mariage84, on lui sacrifice des béliers après un deuil85 pour purifier la fami-
lia funesta*6. Dans toutes ces pratiques, on relève un caractère apotro-
païque direct (mariage, et purification après la mort d'un membre de
la famille), ou un lien avec des pratiques apotropaïques (port de la
bulla par les jeunes garçons), qui semblent à peu près étrangers au culte
des Pénates.
De tout ce qui sépare les Lares des Pénates, il nous a semblé qu'on
pouvait tirer quelques conclusions pour définir plus clairement la
nature de ceux-ci par opposition à ceux-là. Les Pénates sont attachés à la
maison; les Lares étendent leur action au monde extérieur. Les Pénates
protègent uniquement ceux qui sont le plus étroitement liés à la
maison, les maîtres; les Lares sont honorés aussi par les esclaves. Les
Pénates n'ont guère de rôle que dans une routine familiale paisible,
mais on les invoque lorsqu'elle est perturbée87; les Lares sont honorés
dans les circonstances particulières de la vie domestique; il semble que
l'on associe les Pénates à la vie de la maison, alors qu'on semble plutôt
chercher à conjurer une éventuelle influence maléfique des Lares par
des pratiques superstitieuses. Les Pénates sont généralement présentés
comme bienveillants, alors qu'il y a dans la nature des Lares quelque
chose d'un peu inquiétant qui apparaît dans différents aspects de leur
culte signalés plus haut : leurs relations avec le monde des morts
l'explique sans doute en partie. Certes, nous avons vu que, selon Servius,
les Pénates étaient assimilés aux di parentum. Mais ce témoignage isolé
reflète sans doute une tradition déjà assez confuse et mal comprise à
l'époque de Varron88. Les rapports des Lares et des Mânes reposent

81 Voir supra p. 52.


82 Horace, Sat. 1, 5, 65; Perse, 5, 31 ; Pétrone, Sat., LX, 8 : Lares bullatos.
83 Le passage de Tacite {Ann. XIV, 61, 3-4) cité supra p. 43 et 52 nous paraît offrir un
exemple d'emploi métonymique de Penates pour signifier «foyer» beaucoup plutôt que
faire référence à une pratique cultuelle précise.
84 Varron apud Nonius, p. 531; cf. J. Champeaux, op. cit., p. 289-91.
85 Cic, Leg., II, 57; voir G. Dumézil, La religion romaine archaïque, p. 372.
86 Cicéron (Leg. II, 57) parle du sacrifice d'un porc ou d'une truie fait en l'honneur
des morts (cf. D. P. Harmon, op. cit., p. 1602-3), mais sans mentionner les Pénates.
87 Cf. supra p. 51 sq.
88 Son exactitude est d'ailleurs formellement récusée par Böhm (loc. cit.).
110 LES PÉNATES PRIVÉS

vraisemblablement sur une tradition plus solide, sur laquelle s'est peut-
être appuyé Servius, qui, réunissant en une seule réalité religieuse le
Lar familiaris et les Lares en général, a fait du foyer le lieu du culte
funéraire primitif. Or, comme on a eu de plus en plus tendance à
confondre Lares et Pénates, pour toutes les raisons que nous avons
exposées, Servius a pu en déduire que les Pénates étaient assimilables
aux Mânes, et aux di parentum, et qu'ils étaient les âmes des membres
morts de la famille, enterrés dans la maison. Aussi nous semble-t-il que,
pour comprendre cette confusion, il faut retourner le raisonnement de
Servius: ce n'est pas «parce que» (unde orta est consuetudo. . .) les
morts étaient anciennement enterrés dans la maison, qu'on a honoré
les Pénates dans ses murs, mais parce que les uns et les autres ont pu
être, à des titres différents, honorés dans la maison, que Servius a cru
pouvoir les confondre, ce qu'il est le seul à avoir fait. En réalité, tout ce
qui touche au monde des morts a un côté inquiétant profondément
opposé à la nature des Pénates, alors qu'au contraire les Lares, en tant
qu'esprits chthoniens, peuvent être dangereux. C'est cette commune
identification des Lares et des Pénates aux âmes des ancêtres morts qui
a entraîné une confusion entre eux, en dépit de certaines différences
profondes de nature.
Les Pénates ont donc été rapprochés d'un certain nombre de
pluralités divines, di patrii, di parentum, et Lares, ou identifiés avec elles. Ils
sont étymologiquement «ceux qui résident dans la partie la plus retirée
de la maison». Or, les pluralités divines dont nous avons parlé, quelles
que puissent être leurs différences avec les Pénates, ont en commun
avec eux de résider dans la maison, même si ce n'est pas leur unique
fonction et qu'elles n'en tirent pas leur nom : les di patrii résident dans
la maison ou la propriété de famille, ou, pour le culte public, dans la
patrie; les Lares résident en partie dans la maison, et, même si ce n'est
pas leur unique résidence, ils sont en tous les cas définis comme les
dieux d'un lieu; ce caractère est évidemment beaucoup moins net pour
les di parentum, mais il se peut que leur soit confusément liée l'idée
d'une résidence dans la maison, soit à cause de la présence des
imagines maiorum dans certains laraires89, soit que, dans les temps primitifs
on enterrât parfois les morts sous la hutte, soit encore parce qu'on
pensait que, lorsqu'elles n'avaient pas été apaisées, lors des Parentalia, par

89 Voir supra p. 99.


LES PÉNATES PRIVÉS : ESSAI D'INTERPRÉTATION 111

les sacrifices rituels, les âmes des morts venaient rôder autour de la
maison qu'ils avaient habitée de leur vivant90.
La notion de Pénates était assez vague pour pouvoir être
confondue avec d'autres, avec lesquelles elle offrait quelques parentés. Mais,
nous l'avons vu dans le précédent chapitre, elle s'est étendue au point
de désigner n'importe quel dieu choisi comme protecteur d'une
maison, comme l'attestent les laraires de Pompéi. Ainsi, nous passons de
l'idée précise de dieux qui se définissent par leur localisation et leur
absence d'individualisation, à une extension de cette notion à toute
divinité que le bon plaisir, les goûts, ou le métier d'un maître de maison
aura choisi pour «penate», ce qui justifie la définition des Pénates
donnée par Servius : omnes dii qui domi coluntur91. Comment ont pu se
faire, d'une part, la confusion de la notion originelle des Pénates avec
les pluralités divines mentionnées plus haut et, d'autre part, l'extension
de cette notion à tous les dieux honorés dans la maison, c'est ce que
nous allons nous efforcer d'élucider à présent.

II - Histoire des pénates privés

Si les auteurs anciens se sont livrés à d'abondantes spéculations


sur les Pénates publics, leur origine, leur histoire, on ne peut en dire
autant des Pénates privés. Sur ces dieux, si souvent mentionnés, dont
l'existence semble si présente dans la réalité quotidienne romaine,
aucun écrivain ne nous a laissé la moindre indication «théologique», peut-
être justement parce qu'ils appartenaient à un monde si familier que
l'on n'éprouvait pas le besoin de les définir. Pour connaître l'histoire de
nos dieux, nous devrons essayer d'en reconstituer les éléments
essentiellement à travers les témoignages iconographiques,
malheureusement très fragmentaires, que nous comparerons à ce que l'étymologie
peut nous apprendre de la conception originelle des Pénates, et qui
s'exprime dans leur nom.

90 Cf. Ovide, Fastes II, 546-553.


91 Ad Aen. II, 514.
112 LES PÉNATES PRIVÉS

1) La définition étymologique des Pénates

Nous avons vu92 que Penates était une formation adjective


signifiant «ceux qui résident dans le penus», «ceux du penus». De par leur
nom, donc, les Pénates sont définis d'après leur localisation dans la
maison, ou plutôt dans «la partie la plus intime» de cette dernière, ce
qui reste encore assez imprécis. «Ce vague même», note P. Boyancé93,
«est en harmonie avec la tendance du Romain à définir très
extérieurement la personnalité de son dieu, par la seule mention du lieu ou des
circonstances où s'exerce son activité. Si obscurs que soient des
composés comme di indigetes, di nouensides, les éléments les plus clairs de ces
mots (indu-, -sides) paraissent bien relatifs au séjour, à la
résidence»94. Il faut sans doute reconnaître dans les Pénates des divinités qui,
comme les di indigetes et di nouensides dont les rapproche P. Boyancé,
appartiennent au fonds le plus ancien d'une religion spécifiquement
latine; nous avions déjà noté, du reste, ce caractère latin de nos dieux à
propos du suffixe en -as, -atis utilisé en dehors des noms ethniques;
dieux très anciens, spécifiquement latins, et, dans leur sens
étymologique du moins, tout à fait indépendants de l'influence de la religion
grecque (il n'y a pas d'équivalent exact de Penates en grec), les Pénates
ont aussi en commun avec les di indigetes95 et di nouensides de se
présenter comme une pluralité; sans nous attacher ici à examiner les
problèmes très difficiles posés par l'étude de ces divinités,
particulièrement obscures, bornons-nous à rappeler que leur nom figurait dans un
certain nombre de formules rituelles, et notamment celle de la deuotio,
qui nous est connue par Tite-Live96: ils y sont cités au pluriel, sans
distinction d'individualité, et, bien que l'épithète d'Indiges ait été
donnée à Enée et Sol, il semble qu'elle soit moins ancienne que la mention
collective des Indigetes97.
L'étymologie de leur nom définit donc les Pénates comme une col-

92 Cf. ci-dessus, p. 29 sq.


93 Les Pénates et l'ancienne religion romaine, p. 113.
94 G. Wissowa a fondé le plan de son livre Religion und Kultus der Römer sur la
division entre les di indigetes, « dieux anciens, autochtones », et di nouensides, « dieux
importés». Cette conception est critiquée notamment par G. Dumézil (op. cit., p. 32) sans que le
sens de ces deux termes ait été définitivement éclairci (cf. B. Liou-Gille, op. cit., p. 103).
95 Sur les di indigetes, cf. Β. Liou-Gille, op. cit., p. 99 sq.
96 VIII, 9, 6; cf. le commentaire de G. Dumézil, op. cit., p. 108-110; cf. supra p. 100.
97 Cf. B. Liou-Gille, op. cit., p. 115 : «Du groupe anonyme des Indigetes, seuls Enée et
Sol ont émergé».
LES PÉNATES PRIVÉS : ESSAI D'INTERPRÉTATION 113

lectivité de dieux indifférenciés, caractérisés uniquement par leur


localisation dans une certaine partie de la maison. Peut-il alors s'agir de dei
à proprement parler, revêtus d'une personnalité véritable? Il paraît
difficile de répondre positivement à cette question, et on serait alors tenté
de rapprocher les Pénates des Indigitamenta dont la liste, dressée par
Varron, nous a été transmise par Servius98 : divinités au pouvoir menu,
extrêmement limité à une action précise, et sans existence en dehors de
cette action, dans lesquels les tenants des théories prédéistes ont voulu
reconnaître le type le plus ancien des numina romains, parmi lesquels
auraient ensuite émergé des dei à la personnalité plus affirmée".
Indépendamment des pertinentes objections formulées par G. Dumézil à
l'encontre de ces théories, il nous paraît, en tout état de cause, difficile
de souscrire à une telle assimilation. Les Indigitamenta se définissent
par une action; ils sont du reste individualisés, chacun portant un nom
- nom d'agent en -tor formé sur un radical de verbe100 -, qui exprime
clairement sa fonction propre et l'oppose par là-même aux autres
Indigitamenta du groupe auquel il appartient. Au contraire, les Pénates ne
sont pas définis par leur action, mais par leur localisation dans la
maison, et aucune individualité ne se détache parmi eux. Aussi, bien qu'ils
apparaissent, comme certains Indigitamenta, dans la sphère de la vie
privée, leur personnalité nous semble tout à fait différente.

2) Les figurines des tombes albaines

Nous avons exposé précédemment101 l'interprétation donnée par


F. Borner102 des urnes funéraires découvertes dans les Monts Albains;
rappelons-la brièvement : ces urnes funéraires, rondes ou à angles
arrondis, dans lesquelles on s'accorde généralement à voir des modèles
réduits de cabanes primitives d'où leur nom d'urnes-cabanes, sont en
réalité des urnes-greniers («Speicherurne») reproduisant les silos
ronds, forme architecturale du penus primitif, selon F. Borner; les
figurines de terre cuite que l'on y a retrouvées, représentations très primiti-

98 Ad Georg. I, 21.
99 Pour l'exposé et la critique de ces théories, cf. G. Dumézil, op. cit., p. 36-48.
100 Par exemple, pour les Indigitamenta présidant à la vie agricole, on a Insitor, Occa-
tor, Vervactor, etc. . .
101 Cf. supra p. 27-8.
102 Rom und Troia, p. 90 sq.
114 LES PÉNATES PRIVÉS

ves d'hommes et de femmes nus103, doivent être identifiées, non comme


des images des morts104, mais comme celles des divinités résidant dans
le penus, donc les Pénates, ou leurs ancêtres. La datation de ces
tombes, et des statuettes, est très discutée; F. Borner admet qu'elle se situe
entre le Xe et le VIIIe siècle environ. Il appuie cette interprétation sur
une étude approfondie de découvertes comparables, comportant ce
qu'il désigne comme «Kleinplastik», dans le domaine italique, mais
aussi dans l'ensemble du bassin méditerranéen, et en conclut qu'il s'agit
toujours, non d'images d'ancêtres morts, mais de divinités. Dans cette
analyse, l'interprétation des figurines des urnes albaines prend donc
tout naturellement sa place. F. Borner voit une preuve supplémentaire
du bien-fondé de sa thèse dans le fait suivant : les urnes étaient elles-
mêmes placées dans de grands vases de terre cuite, des doliola105; or,
les statuettes des tombes albaines ont été retrouvées, soit dans l'urne
elle-même, soit dans l'espace compris entre la paroi du doliolum et
l'urne; il existe donc, à Albe, un lien entre les statuettes anthropbmor-
phiques et les doliola, tout comme il existe un lien entre les Pénates et
les doliola.
Toutefois, voir dans les statuettes des tombes albaines des images
primitives des Pénates soulève deux difficultés, relevées par F. Borner
lui-même. La première est que, dans la mesure où l'on identifie des
urnes comme des urnes-greniers, il faut admettre, comme nous y oblige
la présence des cendres du défunt à l'intérieur de ces urnes, qu'on
enfermait les restes des morts dans des images du grenier à blé; cette
coutume, affirme F. Borner106, remonte à la préhistoire la plus
lointaine. D'autre part, l'existence à une date aussi haute de représentations
figurées, anthropomorphiques, des divinités, semble se heurter à une
affirmation de Varron, qui nous est connue par Augustin : Dicit etiam
(= Varrò) anttquos Romanos plus annorum centum et septuaginta deos
sine simulacro coluisse107. Cette phrase a eu une importance très
grande, car elle a été le fondement d'une véritable doctrine, illustrée notam-

103 cf. op. cit., pi. m.


104 Cette interprétation était celle de F. von Duhn (Italische Gräberkunde, Heidelberg,
1924-1939, 1. 1, p. 391-408). Cf. F. Borner, op. cit., p. 83 n. 15, 16, 17.
105 Op. cit., p. 65.
106 Op. cit., p. 96.
107 De Ciu. Dei IV, 31 : «Varron dit aussi que les anciens Romains honorèrent les
dieux sans images pendant plus de cent-soixante-dix ans».
LES PÉNATES PRIVÉS : ESSAI D'INTERPRÉTATION 115

ment par G. Wissowa108, selon laquelle la religion romaine primitive


n'avait pas connu d'images des dieux, avant, si l'on en croit Varron, 583
avant J.-C. environ, c'est-à-dire le règne de l'étrusque Tarquin l'Ancien.
Comment expliquer cette apparente contradiction? L'affirmation de
Varron, poursuit F. Borner109, s'applique fort bien aux grands dieux,
notamment à ceux de la Triade Capitoline : la tradition romaine nous
apprend en effet - et cela confirme les données de Varron - que c'est
Tarquin l'Ancien qui fit construire le temple de Jupiter sur le
Capitole110, et que les statues des dieux furent exécutées par un sculpteur de
Véies, Vulca111; toutefois, remarque F. Borner, ce culte archaïque sans
image, remplacé au VIe siècle par un culte anthropomorphique, n'a
existé que pour les dieux «indo-germaniques», tandis que, pour ceux
qui appartenaient au vieux fonds «méditerranéen» primitif, des images
ont toujours existé : les figurines des tombes albaines en sont une
illustration; par conséquent, aussi haut que nous puissions retrouver des
traces d'un culte des Pénates, ou des dieux du grenier à blé, ces
derniers ont été représentés sous forme anthropomorphique.
Nous avons déjà signalé les difficultés que présentait la thèse de
F. Borner à propos du sens de penus et de l'interprétation qu'il donne
des urnes elles-mêmes : si le penus est primitivement un édifice distinct
de la maison, on voit mal comment il pourrait désigner «la partie la
plus intime» de cette dernière. D'autre part, il n'existe aucun
témoignage archéologique prouvant l'existence de ces sortes de silos à une
époque antérieure à l'époque archaïque; si même on admet, en suivant
l'hypothèse proposée par F. Coarelli112, que le mundus du Forum, qui
se présente comme une fosse circulaire et que la tradition rattache à la
fondation de la cité par Romulus, a pu constituer un silo collectif,
contenant les prémices des récoltes de l'année et symbolisant la
richesse publique, il s'agit là d'une fosse souterraine, dont l'architecture est
sans rapport avec les urnes funéraires retrouvées dans les Monts
Albains. La plupart des archéologues113 reconnaissent bien dans les
urnes contenant les cendres, dont la partie figurant le sol est soit
ronde, soit ovale, le modèle des maisons primitives : certains détails archi-

108 Religion und Kultus der Römer, p. 32 sq.


109 Op. cit., p. 99 sq.
110 Liv., I, 38, 7.
111 Pline, N.H., XXXV, 157.
112 // Foro Romano I, p. 209-225.
113 Cf. Civiltà del Lazio primitivo, Catalogue de l'Exposition, Rome, 1976, p. 68-98.
116 LES PÉNATES PRIVÉS

tecturaux font préférer cette interprétation à celle qui voit en elles des
«urnes-réserves aux provisions»: l'une d'elles, par exemple, trouvée
dans une tombe à puits de Grottaferrata, présente la figuration d'une
fenêtre rectangulaire, et des ouvertures pour laisser passer la fumée114.
Par conséquent, et indépendamment même de la signification des
figurines à forme humaine retrouvées dans certaines d'entre elles, il nous
semble qu'il faut renoncer à l'hypothèse, pourtant séduisante, qui fait
reconnaître dans ces urnes des penora très anciens, présentés comme
siège des «Pénates» dans le culte privé.
Mais la signification que F. Borner donne aux figurines
elles-mêmes nous paraît pouvoir soulever des objections. Nous laisserons de
côté l'hypothèse selon laquelle des divinités «méditerranéennes» ont
toujours connu des représentations figurées, au contraire des divinités
«indogermaniques» : la question dépasse le cadre de cette étude. Mais,
nous l'avons vu, les Pénates se présentent toujours comme une pluralité
divine. Or, dans les urnes funéraires des Monts Albains, on a retrouvé,
semble-t-il, une seule statuette par urne, ou par doliolum115; même si
l'on pense, avec F. Borner, qu'il s'agit d'une divinité, et du dieu du
grenier à blé, peut-on vraiment y voir l'ancêtre des Pénates, dont la
pluralité semble un des caractères essentiels? Cette première difficulté se
double d'une autre : les statuettes des tombes albaines sont soit
masculines, soit féminines; ce fait paraît en contradiction avec le genre du
mot Penates, toujours employé au masculin pluriel, ce qui implique
que, si le groupe peut comporter des déesses, il ne peut pas ne
comporter que des déesses. La présence de divinités féminines parmi les
Pénates nous paraît un phénomène relativement tardif, datable du Ier siècle
avant J.-C; c'est ce que l'on voit dans les laraires de Pompéi; mais un
rapprochement avec quelques éléments du culte des Pénates publics
peut appuyer notre hypothèse. Denys d'Halicarnasse nous dit qu'on
voyait dans le temple des Pénates à Rome, sur la Vèlia, leurs statues
sous la forme de «deux jeunes gens. . ., ouvrages d'une facture
ancienne»116; cette dernière expression exclut toute datation précise, mais
pour que Denys puisse s'exprimer en ces termes, il faut que les statues
lui soient apparues comme largement antérieures à son propre temps :
or, ce sont deux divinités masculines qui sont représentées. Enfin, en

114 Ibid., p. 74 n° 1.
115 Cf. F. von Duhn, Italische Gräbenkunde, p. 401-2.
116 I, 68, 2.
LES PÉNATES PRIVÉS : ESSAI D'INTERPRÉTATION 117

tout état de cause, il subsiste un vide de plusieurs siècles entre les


images des tombes albaines et les premières attestations sûres du culte
privé des Pénates : IVe siècle avant J.-C. pour la plus ancienne attestation
iconographique, le laraire de la «Maison du Chirurgien» à Pompéi, IIIe
siècle avant J.-C. pour le fragment du texte de Naevius où figure la
première mention de nos dieux. Pour sujette à caution qu'elle nous
apparaisse en définitive, la thèse de F. Borner nous semble avoir néanmoins
le très grand intérêt d'avoir su dégager une unité de la civilisation latia-
le, que les données archéologique qui ont suivi la publication de Rom
und Troia117 n'ont pu que confirmer: pour l'histoire des Pénates en
particulier, la mise en relation du culte romain et des trouvailles des
Monts Albains a permis de montrer les éléments historiques, attestés
par l'archéologie, sur lesquels s'est fondée la légende de la filiation
albaine de Rome.
En définitive, les figurines des tombes albaines nous paraissent
avoir été interprétées de facon beaucoup plus convaincante par H. Mïil-
ler-Karpe118 qui voit en elles, comme F. von Duhn, des figurines
humaines, et non des dieux : il s'agirait d'orants dont les gestes sont ceux de
la prière ou de l'offrande. H. Müller-Karpe, d'autre part, pense que ces
statues ne sont pas l'une des expressions du fonds indigène de la
religion romaine primitive119, et les compare, d'une facon tout à fait
éclairante, avec des figurines analogues trouvées dans le monde égéen : elles
seraient la preuve de contacts très anciens entre des commerçants
venus de ces régions et l'Italie centrale120.

3) La signification du nombre deux

Denys d'Halicarnasse nous apprend que, dans le temple de la


Vèlia, on honorait les Pénates sous la forme de deux jeunes gens, et que
ces statues étaient «anciennes». La première image que nous possé-

117 Cf. Ensemble des articles contenus dans le catalogue Civiltà del Lazio primitivo.
118 Vom Anfang Roms, Heidelberg, 1959, p. 76 sq.
119 Ibid., p. 51-56.
120 P. 81 sq.; voir pi. 21-25; pour l'élaboration de la civilisation latiale, voir J. Heur-
gon, Rome et la Méditerranée occidentale, 2e éd. Paris, 1980, p. 74-79. D'autre part, en
Etrurie, il ne semble pas qu'on trouve de représentation figurée de la divinité avant la fin
du VIIIe ou le début du VIIe siècle av. J.-C. : cf. A. Hus, Les Etrusques et leur destin, Paris,
1980, p. 119-120; M. Pallottino, Etruscologia, 7e éd., Milan, 1984, p. 325 sq.; id., Storia della
prima Italia, Milan, 1984, p. 55 sq.
118 LES PÉNATES PRIVÉS

dions des Pénates dans le culte privé est la peinture du laraire de la


«Maison du Chirurgien» à Pompéi121 : il s'agit d'une peinture qui
présente, au-dessus de deux serpents, eux-mêmes surmontés d'un Genius
accompagné d'un camillus encadrés par deux personnages, en qui il
faut sans doute reconnaître les Lares, deux figures indistinctes, qu'il
nous paraît difficile de ne pas identifier comme les Pénates, en
comparant cette représentation avec celles des autres laraires pompéiens. En
l'état où nous sont offerts ces Pénates, il est impossible de voir si, de
par leurs vêtements, leurs attributs, ou tel détail de leur iconographie,
on peut reconnaître en eux d'autres divinités connues par ailleurs dans
le panthéon romain. Mais il nous semble que le fait qu'ils soient deux
peut n'être pas sans signification122, puisque ce nombre est celui des
statues de la Vèlia. Quel sens peut-on lui donner? Nous en voyons deux
interprétations possibles. La première est de dire que représenter deux
dieux a pu apparaître comme la manière la plus simple de suggérer
une pluralité divine, de rendre la notion de pluriel. La seconde nous a
été suggérée par les remarques de G. Dumézil à propos de dieux qu'il
désigne comme ceux de la «troisième fonction», c'est-à-dire ceux qui
assurent le bien-être matériel123: le plus important est Quirinus, l'un
des dieux de la première Triade Capitoline, lui-même assimilé à
Romulus; or, dans la légende des origines, Romulus a un frère jumeau;
G. Dumézil, rapproche cette donnée de la présence des deux frères
Nasatya, «généralement indiscernables», dans le Rg Veda, et dont le
rôle, en bien des aspects124, rappelle celui de Romulus et Rémus; s'ap-
puyant aussi sur la légende d'un couple de jumeaux comme oncles de
Caeculus, fondateur de Préneste, G. Dumézil essaie de dégager la valeur
que l'on peut accorder à la gémellité: «On conçoit l'importance du
concept de gémellité au niveau de l'abondance, de la vitalité, de la
fécondité : par une convenance naturelle, chez un grand nombre de peuples,
la naissance de jumeaux est signe et gage de tout cela»125. Dans

121 Cf. supra p. 69.


122 Notons toutefois (cf. supra p. 81) que l'on rencontre dans des laraires pompéiens
beaucoup plus récents des exemples de groupes de deux Pénates auxquels il ne faut sans
doute pas accorder la même signification.
123 Op. cit., p. 268 sq.
124 Op. cit., p. 253-54.
125 Op. cit., p. 252. D. Briquel (Les Pélasges en Italie. Recherches sur l'histoire de la
légende, B.E.F.A.R., vol. 252, Rome, 1984, p. 480 n. 112) relève l'importance de ces
légendes de héros fondateurs non seulement à Rome, mais en Italie (Gabies, Crustumérium,
LES PÉNATES PRIVÉS : ESSAI D'INTERPRÉTATION 119

la mesure où les Pénates sont à mettre parmi les dieux qui, résidant
dans la réserve aux provisions, veillent par là-même sur elle, et donc
sur le bien-être de la maison en général, on peut concevoir que la
représentation des Pénates sous la forme de deux dieux - ancienne
semble-t-il, peut-être attestée au IVe siècle sans qu'il soit possible de
préciser davantage - soit explicable par cette valeur symbolique de la
gémellité. Il faut sans doute croire d'ailleurs que, à l'époque où ils sont
représentés sous cette forme, les Pénates ont conservé leur personnalité
propre, et ne sont pas assimilés à d'autres divinités bien individualisées
par ailleurs : c'est le cas, selon nous, pour le culte public sur la Vèlia,
où le type iconographique des Pénates nous paraît non pas identique à
celui des Dioscures, comme on l'a dit souvent, mais tout à fait original
et exprimant la personnalité propre de ces dieux126; au demeurant, le
mauvais état de la peinture du laraire de la «Maison du Chirurgien» et
le caractère isolé de cet exemple, ne permettent que des hypothèses
prudentes127.

4) La pluralité et la confusion avec d'autres dieux

Lorsque, laissant de côté les quelques maisons antérieures à


l'époque sullanienne, on considère l'ensemble des laraires de Pompéi, on
constate qu'à peu près toutes les divinités considérées comme Pénates
sont assimilées à des dieux bien connus par ailleurs, et que leur nombre
est très variable, et, semble-t-il, de peu d'importance : il varie, ainsi que
l'identité des Pénates, selon les goûts, le métier, ou le bon plaisir du
maître de maison. Cela nous impose les conclusions suivantes : à une date
impossible à préciser entre, probablement, le IVe et le Ier siècle avant
J.-C, on a perdu le sentiment de l'identité propre des Pénates. Cette plu-

Tibur, Préneste, Lavinium, où les Pénates ont «un rôle analogue par rapport à Enée à
celui des frères Digidii ou Depidii par rapport à Caeculus»).
126 Cf. ci-dessous, p. 430 sq.
127 J. Heurgon {Recherches sur l'histoire, la religion et la civilisation de Capone
préromaine, 2e éd., Paris, 1970, p. 370-72), à propos d'une monnaie de Capoue représentant une
déesse double, note que ce phénomène de déboublement de la divinité est fréquent dans
le monde grec, mais qu'on en trouve aussi d'autres exemples en Italie, par exemple dans
le sanctuaire de la Fortune de Préneste. A propos de la double Fortune d'Antium,
J. Champeaux {op. cit., p. 169-174) a fort bien montré que ces «dyades divines» résultaient
de la duplication d'une divinité unique à l'origine, et que ce processus était attesté, non
seulement dans le monde italique ou méditerranéen, mais dans tous les polythéismes. Les
Pénates, néanmoins, semblent avoir été une pluralité dès leurs origines.
120 LES PÉNATES PRIVÉS

ralité indifférenciée de divinités agissant collectivement et résidant


ensemble, s'est maintenue à l'intérieur de la maison, mais transformée, en
prenant la forme d'un groupement de dieux à la personnalité bien
définie, et ayant d'autres caractéristiques que de résider dans le penus. Ils
sont toujours désignés du terme de Penates dans les témoignages
littéraires, invoqués comme tels, et leur nom conserve toute sa valeur
affective, mais leur identité s'est profondément modifiée. Peut-être faut-il
voir là, en partie, une trace de l'influence grecque sur la religion
romaine, qui tendait à faire prévaloir les grands dieux assimilés à ceux du
panthéon grec128. Mais une si profonde transformation ne s'explique
que parce qu'en définitive la fonction des Pénates a changé. Ils ne sont
plus compris comme «ceux qui résident dans le penus», puisque, sem-
ble-t-il129, le mot n'est pas ou n'est plus employé pour désigner une
partie de la maison; de divinités attachées à un lieu, et définies par lui, ils
sont devenus les protecteurs de la maison et de ses occupants, et on
comprend dès lors que chacun ait choisi, en fonction de sa propre
personnalité, le dieu qui lui semblait le mieux convenir à cette fonction : la
présence de Mercure chez Trimalcion est très révélatrice à cet égard.
Mais on conçoit aussi, dans cette définition nouvelle, que le nombre de
ces dieux protecteurs de la maisonnée ne puisse avoir grande
signification : lorsque les Pénates sont deux, Bacchus et Fortuna par exemple, ils
n'offrent aucune ressemblance entre eux, contrairement aux couples de
dieux dont nous avons parlé plus haut; ce nombre, quel qu'il soit,
n'exprime rien d'autre que la juxtaposition de divinités qu'ont réunies les
hasards des goûts, ou de l'histoire, du paterfamilias.
Dès l'époque classique, donc, les Pénates semblent avoir perdu
leurs caractères originels. Assimilés à d'autres dieux des panthéons
romain ou étrangers, ils sont parfois aussi confondus avec d'autres
dieux honorés dans la maison, θεοί πατρώοι, di parentes, ou Lares, ce
qui explique qu'au IVe siècle après J.-C, Servius ait pu les définir
comme omnes di qui domi coluntur. Ce phénomène nous paraît d'ailleurs
spécifique du culte privé. Les Pénates du culte public, eux, ont mieux
conservé leur caractère originel, sans doute parce que, mêlés à la
légende des origines de Rome, ils ont pu ainsi préserver, beaucoup mieux
que les dieux du culte privé, leur identité propre.

128 Cf. J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, Paris, 1957,
p. 121-122.
129 Voir supra p. 19.
TROISIÈME PARTIE

LES PÉNATES PUBLICS


INTRODUCTION

LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES

II existe un étonnant contraste entre l'usage, très courant si l'on en


juge par les témoignages littéraires, du mot Penates, et l'embarras où
semblent s'être trouvés les Romains dès qu'il s'agit de donner de ces
dieux une définition exacte, et, plus encore, d'expliquer leur origine. Du
reste, nous l'avons vu, le culte privé n'a guère été l'objet des réflexions
des érudits, moins encore des historiens. Les traditions antiques
concernant les Pénates se rapportent à peu près toutes au culte public.
Nous voudrions montrer ici que dès les débuts de l'annalistique
romaine s'est posé le problème d'une définition des Pénates, et que
l'ensemble de la tradition les concernant offre, lors même des premières
ébauches de réflexion sur le sujet, des difficultés, des obscurités, des
contradictions, écheveau particulièrement embrouillé dont on a parfois de la
peine à retrouver le fil conducteur.
Le mot Penates apparaît pour la première fois dans les tout débuts
de la littérature latine, au IIIe siècle avant J.-C. avec Naevius :

postquam aues aspexit in tempio Anchisa


sacra in mensa penatium ordine ponuntur1.

Bien que ces vers ne contiennent, en l'état où ils nous sont connus,
aucune réflexion ni sur l'origine ni sur la nature des Pénates, il est
curieux de souligner le hasard qui nous a fait parvenir cette première
attestation du mot dans le contexte d'usages de la religion privée,
certes, mais expressément rapportés au troyen Anchise, père de l'ancêtre

1 Fr. 3 (Ribbeck) ; on voit généralement dans ce passage (cf. G. Wissowa, Die Ueber-
lieferung über die römischen Penateti, Hermes, 23, 1886, p. 45 sq. = Gesammelte
Abhandlungen zur römischen Religions und Stadt Geschichte, Munich, 1904, p. 104; M. Barchie-
si, Nevio epico, Padoue, 1962, p. 368 sq.) une transposition anachronique des usages du
paterfamilias romain au troyen Anchise.
124 LES PÉNATES PUBLICS

mythique des Romains, Enée; ainsi, lorsque le mot Pénates apparaît


pour nous dans la littérature romaine, se trouvent suggérés les
problèmes essentiels qui nous ont retenu au cours de cette étude : culte des
Pénates privés, relation de ces derniers avec les Pénates publics de
l'état romain, origine troyenne des Pénates de Rome.

Timée

L'historien Timée, né à Tauromenium, en Sicile, mais qui séjourna


longtemps à Athènes, écrivit, entre le milieu du IVe et le milieu du IIIe
siècle avant J.-C, plusieurs ouvrages sur l'histoire de Rome2, dont un
très court fragment concernant les Pénates nous est parvenu par
l'intermédiaire de Denys d'Halicarnasse : σχήματος δε και μορφής αυτών
(= les Pénates) πέρι Τίμαιος μεν ό συγγραφεύς ώδε αποφαίνει · κηρύκεια
σιδηρά και χαλκά και κέραμον Τρωικον είναι τα εν τοις άδύτοις τοΐς έν
Λαουϊνίω κείμενα ιερά, πύθεσθαι δε αυτός ταύτα παρά των έπιχωρίων3.
Nous avons ici le premier témoignage sur les Pénates de Lavinium, que
les Romains, à l'époque de Varron, considéraient comme leurs, mais
aussi l'unique description de ces mystérieux Pénates, description
d'autant plus précieuse d'ailleurs que Timée, selon Denys, aurait mené son
enquête sur place auprès des Lavinates. Ce texte nous apprend d'une
part que les Pénates de Lavinium, aussi appelés ίερά, étaient cachés aux
regards des profanes (έν τοΐς άδύτοις), et que les dieux n'y semblaient
pas représentés sous une forme anthropomorphique; d'autre part, bien
que le fragment conservé par Denys nous laisse dans une totale
ignorance de la conception qu'avait Timée de ces dieux, la désignation de la
poterie comme «troyenne» suggère très fortement la légende de la
fondation de Lavinium par Enée, et aussi celle des origines troyennes de

2 Cf. A. Momigliano, Atene nel III secolo a.C. e la scoperta di Roma nelle storia di
Timeo di Tauromenio, RSI, 71, 1959, p. 529-556; repris dans Terzo contributo alla storia
degli studi classici e del mondo antico. Storia e Litteratura, 108, 1, Rome, 1966, p. 23-53.
3 I, 67, 4 : «Concernant leur apparence et leur forme, l'historien Timée s'exprime en
ces termes : les objets sacrés conservés dans la partie secrète du sanctuaire de Lavinium
sont des caducées de fer de bronze, et de la poterie troyenne ; il tient ces informations des
habitants ».
LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES 125

Rome. On conçoit en tout cas que ces indications aient pu servir à


alimenter la seconde.

Cassius Hemina

L'annaliste Cassius Hemina, vers la fin du IIe siècle av. J.-C, est le
premier auteur que nous connaissions à avoir mené une véritable
réflexion sur l'identité des Pénates, du moins ceux du culte public, dans
l'ouvrage qu'il consacra à l'histoire de Rome depuis Enée et la chute de
Troie. Mais l'ouvrage de Cassius Hemina ne nous étant parvenu que
par les fragments cités par des auteurs plus tardifs, il se pose à son
propos le problème, qui est celui de toute citation dans les textes
antiques, de savoir ce qu'il faut exactement attribuer à l'annaliste dans le
texte qui nous est offert. Une première citation de Cassius Hemina nous
est fournie par le scholiaste de Vérone, en commentaire au passage de
l'Enéide où Virgile évoque le départ d'Enée et des siens après le sac de
Troie : après avoir résumé l'opinion de Varron, selon qui Enée avait
emmené son père et ses dieux Pénates, et celle d'Atticus, pour qui Enée
n'avait emmené qu'Anchise, les Pénates étant venus en Italie depuis
Samothrace, le scholiaste écrit : Additur etiam ab L. Cassio Censorio
miraculo magis Aenean patris (dignitate sanctio)rem inter hostes intac-
tum properauisse concessisque ei nautbus in Italiani nauigasse. Idem his-
toriarum libro I ait, Ilio capto (Aenean cum dis pena)tibus umeris impo-
sitis empisse duosque filios Ascanium et Eurybaten bracchio eius innixos
ante ora hostium praetergressos (dat)as etiam ei naues concessumque ut
quas uellet de nauibus securus ueheret*. Outre le prodige de Timpanite
que semble conférer à Enée sa piété envers sa famille et envers ses
dieux, ce passage affirme fortement l'origine troyenne des Pénates
honorés par la suite en Italie, où le fils d'Anchise et de Vénus les a
apportés. Il faut souligner que Cassius Hemina ne parle pas ici
explicitement des origines troyennes de Rome, mais qu'il se contente de

4 Ad Aen. II, 717 : «L. Cassius Censorius ajoute aussi qu'Enée, rendu plus sacré par
la dignité que lui conférait son père, s'était élancé indemne par un véritable prodige au
milieu des ennemis, et qu'on lui avait permis de se rendre en bateau jusqu'en Italie. Dans
le premier livre de ses Histoires le même auteur raconte qu'après la prise de Troie, Enée
s'est enfui avec ses dieux Pénates sur ses épaules, et est passé sous les yeux des ennemis
en tenant dans ses bras ses deux fils, Ascagne et Eurybate ; qu'on lui donna des navires, et
lui permit de prendre et d'emporter en toute sécurité ceux qu'il voudrait».
126 LES PÉNATES PUBLICS

désigner d'un nom spécifiquement latin, les Pénates, les dieux


transférés par Enée (Aenean cum dis penatibus umeris impositis). Cependant,
l'annaliste semble s'être intéressé non à la seule origine des Pénates,
mais aussi à leur histoire et à leur identité, comme en témoigne ce
passage de Servius-Daniel : alii autem, ut Cassius Hemina, dicunt deos
Penates ex Sam.oth.raca appellatos θεούς μεγάλους, θεούς δυνατούς, θεούς
χρηστούς5. Cette citation forme un complément à celle que nous
connaissons par le scholiaste de Vérone. D'une part, elle confirme
l'indication que nous avait donnée cette dernière : Cassius Hemina appelle
«Pénates» les dieux de Troie. D'autre part, notre passage fait plus
particulièrement référence, dans l'histoire de ces dieux, à l'épisode samo-
thracien, dont nous verrons que les différentes traditions donnent des
interprétations fort divergentes. Servius-Daniel oppose du reste ici {alii
autem) Cassius Hemina et d'autres tenants, non nommés, de la même
tradition, à d'autres interprétations de l'identité des Pénates qui ont été
précédemment citées. D'après Servius-Daniel, Cassius Hemina semble
considérer qu'il existait des dieux appelés Pénates antérieurement à un
séjour qu'auraient fait ces derniers dans l'île de Samothrace, séjour qui
leur aurait valu d'autres dénominations, s'ajoutant, comme des
synonymes grecs, à celle, originelle, de «Pénates». C'est donc affirmer - et sur
ce point, comme nous le verrons, Cassius Hemina se sépare d'une autre
tradition suivie par Atticus et Varron6 - que, si l'on respecte l'ordre
chronologique, les Pénates sont venus de Troie à Samothrace, puis de
Samothrace en Italie, version à laquelle on aboutit en mettant en
relation les citations du scholiaste de Vérone et de l'interpolateur de Ser-
vius; les Pénates, selon Cassius Hemina, auraient donc séjourné à
Samothrace, apportés là de Troie par Enée, qui les aurait ensuite
introduits en Italie. Un texte de Macrobe, citant lui aussi l'annaliste, en
semble une confirmation : Cassius uero Hemina dicit Samothracas deos eos-
demque Romanorum pénates proprie dici1. Sans doute ici peut-on
avoir des doutes sur la fidélité de la citation, car ce que l'on appelle les

5 Ad Aen. I, 378 : «mais d'autres, comme Cassius Hemina, disent que les dieux
Pénates tiennent de Samothrace leur appellation de «grands dieux», «dieux puissants», «dieux
bienfaisants ».
6 Cf. infra, p. 131.
7 Sat. Ill, 4, 9.
LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES 127

«dieux de Samothrace», ou «Grands Dieux», ce sont les Cabires,


confondus avec les Dioscures8.
L'assimilation des Pénates avec les «dieux de Samothrace», se
trouvait-elle véritablement chez l'annaliste, comme n'a pas l'air de le mettre
en doute G. Wissowa9? Ne faut-il pas plutôt, sans suspecter la bonne
foi de Macrobe, y voir le reflet, chez ce dernier, d'une partie de la
tradition, notamment d'une tradition dont témoignent des monnaies de 103
av. J.-C, et qui apparaît peut-être aussi chez Atticus10, assimilant
Pénates et Dioscures, assimilation dont nous pensons qu'elle n'a été que très
limitée, et due en partie à une commune dénomination de «Grands
Dieux»?
Il nous apparaît au contraire que le texte de Cassius Hemina, tel
que nous le restitue Servius-Daniel, ne va pas si loin, mais qu'on y
retrouve tous les éléments qui permettront la confusion Dioscures-
Pénates. C'est d'abord le séjour d'Enée et des Pénates à Samothrace,
qui n'implique pas une origine samothracienne de ces dieux. Selon G.
Wissowa, la source de cet épisode des errances d'Enée - l'étape à
Samothrace - est probablement à chercher chez les écrivains grecs du
Ve siècle11, parmi lesquels il faut peut-être placer un certain Critolaos,
que Festus cite comme autorité pour cette étape dans les voyages
d'Enée : de Samothrace, Enée et Saon auraient apporté en Italie
l'institution des Saliens, et Enée est d'autre part présenté comme celui qui a
porté les Pénates jusqu'à Lavinium12, sans qu'il soit toutefois précisé si
le culte de ces derniers était d'origine troyenne ou samothracienne. La
même escale d'Enée à Samothrace est attestée à deux reprises par Ser-
vius13. Ensuite a dû aider à la confusion Dioscures-Pénates l'appella-

8 Sur les Cabires, voir Kern, in R.E., X, 2, s.u. Kabeiros und Kabeiroi, col. 1401-
1450; F. Chapouthier, Les Dioscures au service d'une déesse, Paris, 1935, p. 153-184;
B. Hemberg, Die Kabiren, Uppsala, 1950, passim.
9 Op. cit. p. 105.
10 Cf. infra, p. 131.
11 Ibid. et η. 9; G. Wissova s'appuie sur l'ouvrage de Wörner {Die Sage von den
Wanderungen des Aeneas bei Dionysos von Halicarnassos und Virgilius, Leipzig, 1882, p. 8)
selon qui la légende du débarquement d'Enée à Samothrace était bien connue en Grèce
dès la fin du Ve siècle.
12 439 L. : At Critolaus Saonem ex Samothrace, cum Aenea deos Penates qui Lauinium
transtulerit, saliare genus saltandi instituisse.
13 Ad Aen. VII, 207 : cum. . . Aeneas Italiani peteret, profectus ad Thraciam est et
Samothracas deos sustulit et pertulit secum ; Vili, 679 : magnos deos, quos Aeneas de Samo-
thracia sustulit.
128 LES PÉNATES PUBLICS

tion de θεοί μεγάλοι, dont Cassius Hemina nous dit qu'elle est l'une des
dénominations que les Pénates ont tirées de leur séjour à Samothrace,
dénomination qui, nous le verrons, a été l'une des raisons de leur
assimilation aux Grands Dieux. Pourtant, si l'on examine de plus près le
texte de Cassius Hemina, tel qu'il est rapporté de façon presque
analogue par le scholiaste de Vérone et par Macrobe, peut-être à travers un
intermédiaire commun, on s'aperçoit que cette désignation n'est qu'un
des trois termes grecs désignant les Pénates à Samothrace. L'existence
de ces trois désignations manifeste, en fait, l'impossibilité de rendre en
grec la notion, spécifiquement latine croyons-nous, de Pénates, pour
laquelle il n'y a pas d'équivalent dans le panthéon grec14. Si, dans
l'esprit de Cassius Hemina, les Pénates avaient été l'exact équivalent des
Grands Dieux - Cabires - Dioscures -, pourquoi n'aurait-il pas
seulement fait état d'une désignation comme θεοί μεγάλοι, au lieu que la
triple dénomination qu'il cite (et qui n'est pas habituelle, dans ses deux
derniers termes, pour les Cabires-Dioscures), apparaît comme une
manière de cerner par différentes approches une notion intraduisible? En
revanche, nous n'avons conservé aucune citation de Cassius Hemina
concernant le transfert des Pénates de Samothrace à Rome, et le récit
qu'il faisait du débarquement d'Enée au Latium, connu par Solin15, ne
mentionne que le culte de Venus Frutis et le Palladium.
S'il y a tout lieu de penser que les traditions rapportées par Cassius
Hemina sur les Pénates ont de lointaines sources grecques, il n'est pas
indifférent de constater que notre annaliste a probablement vécu en un
temps où Rome a connu une forte hellénisation, en particulier autour
des Scipions16; G. Wissowa17 suggère même que Cassius Hemina a pu
connaître ces traditions, non pas directement, mais par l'intermédiaire
d'un grec de l'entourage du jeune Scipion.

δ' έξερμηνεύοντες
14 C'est ainsi aussi
εις την
que
'Ελλάδα
Denys γλώσσαν
d'Halicarnasse
τούνομα,
écrit,
οί μέν
à propos
Πατρώους
de cesάποφαίνουσι,
mêmes dieuxοί: δε
oi
Γενεθλίους, είσί δ' οι Κτησίους, άλλοι δε' Μύχιους, οί δ' Έρκείους (Ι, 67, 3) : « ceux qui
rendent ce nom en langue grecque traduisent par soit « dieux de la famille », « dieux de la
race», «dieux de la propriété», «dieux de l'intérieur de la maison», «dieux de l'enceinte
de la maison ».
15 II, 14.
16 Voir P. Grimai, Le siècle des Scipions, 2e éd., Paris, 1975, p. 27-37.
17 Op. cit., p. 105.
les traditions antiques sur les pénates 129

Varron 18

Après Cassius Hemina, dont l'œuvre ne nous est parvenue que sous
forme de très brefs fragments, c'est Varron qui, dans ce que nous
connaissons de la littérature latine, a mené la plus large réflexion sur
les Pénates, mais l'ouvrage dans lequel il en parlait, les Antiquités
Humaines, ne nous est connu que par les citations d'auteurs
postérieurs19, notamment les commentateurs de l'Enéide.
On trouve chez Varron, attesté par plusieurs citations, l'épisode du
départ d'Enée après la chute de Troie. Chez Servius-Daniel : Varrò
rerum humanarum ait permissum a Graecis Aeneae, ut euaderet et quod
carum putaret auferret; illum patrem liberasse, cum Uli quibus similis
optio esset data aurum et argentum abstulissent. Sed Aeneae propter
admirationem iterum a Graecis concessum ut quod uellet auferret; illum
ut simile quod laudatum fuerat faceret, deos pénates abstulisse. Tune ei a
Graecis concessum ut et quos uellet secum et sua omnia liberaret20. Cette
évocation reprend les thèmes déjà présents chez Cassius Hemina :
désintéressement d'Enée et piété envers son père et envers ses dieux
Pénates, tellement extraordinaires qu'ils lui assurent l'admiration de
ses plus furieux ennemis, et qu'ils sont récompensés; désignation
comme «Pénates» des dieux emportés de Troie; fuite d'Enée, de ses
compagnons, et de ses dieux, loin de Troie. Le scholiaste de Vérone cite
probablement le même passage de Varron, peut être connu de lui, comme
de l'interpolateur de Servius, par une source commune, Cornelius La-
beo, antiquaire du IIIe siècle, qui semble avoir été l'auteur d'une
compilation sur les doctrines théologiques, le De dis animalibus, où il parlait

18 Cicéron ne nous a pas laissé de théorie sur la nature des Pénates publics, mais il a
le premier essayé de donner une explication étymologique du mot : nec longe absunt ab
hac ui (= Vesta) di Penates, siue a penu dueto nomine (est enim omne quo uescuntur
homines penus) siue ab eo quod penitus insident; ex quo etiam penetrates a poetis uocantur
{De Nat. Deor. II, 68). Voir supra p. 13.
19 Cf. l'étude très complète de A. J. Kleywegt, Varrò über die Penaten und die Grossen
Götter, in Medelelingen der Koninklijke Nederlandse Akademie, Amsterdam, 1972.
20 Ad Aen. II, 636 : «Varron, dans les Antiquités Humaines, dit qu'il fut accordé par
les Grecs à Enée de s'en aller et d'emporter ce qu'il avait de cher; il emmena son père
alors que les autres, à qui la même permission avait été donnée, avaient emporté de l'or
et de l'argent. L'admiration qu'en éprouvèrent les Grecs leur fit accorder une seconde
fois à Enée la permission d'emporter ce qu'il voulait; celui-ci, pour accomplir une action
semblable à celle qu'on avait admirée, emporta ses dieux pénates. Alors les Grecs lui
accordèrent d'emmener avec lui ceux qu'il voudrait, et tous ses biens».
1 30 LES PÉNATES PUBLICS

des Pénates21. En effet, le scholiaste écrit : Varrò secundo Historiarum


refert Aenean capta Troia arcem cum plurimis occupasse magnaque hos-
tium gratia obtinuisse abeundi potestatem. Itaque concessum ei quod uel-
let auferre cumque circa aurum opesque ceteri morarentur, Aenean pa-
trem suum collo tuli se mirantibusque Achiuis hanc pietatem redeundi
Ilium copiam datant ac Deos Penates ligneis sigillis uel lapideis, terrenis
quoque, Aenean umeris extulisse, quant rem Graecos stupentes omnia sua
auferendi potestatem dedisse eaque ratione saepius redeuntem omnia a
Troia abstulisse et in nauibus posuisse22. On voit combien ce passage est
proche du précédent, dont il diffère, pourtant, sur un point très
important pour nous, par les détails qu'il donne sur la représentation des
Pénates, exprimée dans le groupe à l'ablatif (construction d'ailleurs très
rude, que nous interprétons comme un ablatif de moyen dépendant
directement du substantif deos Penates) ligneis sigillis uel lapideis,
terrenis quoque. Le diminutif sigillis s'explique peut-être par le fait que ces
effigies doivent être portatives, puisqu'Enée ne saurait s'encombrer
d'immenses statues; mais surtout, ce témoignage est en contradiction
avec celui de Timée, selon qui les Pénates «troyens» honorés à Lavi-
nium semblent être des objets non anthropomorphiques.
Sur l'origine des Pénates, nous connaissons également la doctrine
de Varron par deux passages de l'interpolateur de Servius : Varrò deos
Penates quaedam sigilla lignea uel marmorea ab Aenea in Italiani dicit
aduecta. Idem Varrò Kos deos Dardanum ex Samothraca in Phrygiam, de
Phrygia Aeneam in Italiani memorai portauisse23. Notons d'abord que
les indications données ici par Servius-Daniel sur la représentation
figurée des Pénates recoupent, à quelques détails près (marmorea au

21 Cf. Servius, Ad Aen. III, 168.


22 Ad Aen. II, 717 : «Dans le second livre de ses Histoires, Varron dit qu'après la prise
de Troie, Enée occupa la citadelle avec beaucoup de ses compagnons, et obtint, par une
grande faveur des ennemis, la permission de s'en aller. Aussi lui fut-il accordé
d'emporter ce qu'il voulait et, tandis que tous les autres s'affairaient autour de l'or et des
richesses, Enée prit son père sur son dos et, en raison de l'admiration que ce geste de piété
suscita chez les Achéens, on lui donna la permission de retourner à Troie, et il sortit sur
ses épaules les dieux Pénates, représentés sous forme de statuettes de bois, de pierre, et
aussi de terre; ce geste étonna les Grecs, qui lui accordèrent le droit d'emporter tous ses
biens, grâce à quoi, en y retournant plusieurs fois, il emporta tous ses biens de Troie et
les déposa dans ses navires».
23 Ad Aen. I, 378 : «Varron dit que les Pénates, petites statues de bois ou de marbre,
furent apportés en Italie par Enée. Le même auteur raconte que Dardanus apporte ces
dieux de Samothrace en Phrygie, et Enée de Phrygie en Italie. »
LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES 131

lieu de lapideis, et terrenis manque), celles du scholiaste de Vérone, ce


qui implique une source commune, qui peut être le texte même de Var-
ron, ou l'ouvrage de Cornelius Labeo. Sur l'origine des Pénates, on voit
que la doctrine de Varron s'oppose absolument à celle de Cassius
Hemina. Pour Varron, il existe bien un épisode samothracien dans
l'histoire de nos dieux, mais il se situe non entre Troie et l'Italie, mais
avant le séjour des Pénates à Troie; Dardanus et Enée jouent dans
l'histoire des dieux des rôles symétriques, ordonnés de part et d'autre de
l'épisode troyen. Dans un autre passage, Servius cite Varron à peu près
dans les mêmes termes, à propos de la représentation des Pénates
emportés par Enée d'une part, de l'histoire des dieux d'autre part24;
enfin, ce dernier point est confirmé par un passage de Macrobe qui
prête à Varron une doctrine identique : Varrò humanarum secundo Dar-
danum refert deos Penates ex Samothrace in Phrygiam, et Aeneam ex
Phrygia in Italiani detulisse25. La ressemblance de ce texte avec celui de
l'interpolateur de Servius fait là aussi suggérer par G. Wissowa26 une
source commune, Cornelius Labeo. Soulignons encore que, si cette
doctrine de Varron sur la place de Samothrace dans l'histoire des Pénates
s'oppose à celle de Cassius Hemina, elle s'oppose aussi à celle d'Atticus
que nous connaissons par le scholiaste de Vérone, qui, à la suite du
passage précédemment cité27 où il résume l'opinion de Varron selon
laquelle Enée avait emporté de Troie son père et ses Pénates ajoute :
Atticus de pâtre consentit, de Dis Penatibus negai, sed ex Samothracia in
Italiani deuectos, à la suite de quoi il mentionne la doctrine de Cassius
Hemina sur la question. Telle qu'elle nous est transmise ici, la position
d'Atticus n'est pas très claire. On peut l'interpréter de deux façons, qui,
l'une et l'autre, amènent à effacer l'étape troyenne : soit Enée n'aurait
quitté Troie qu'avec son père, aurait fait étape à Samothrace, où il
aurait trouvé les dieux qu'il aurait introduits en Italie, probablement
sous le nom de Pénates, d'après le texte du scholiaste; soit les dieux ont
été apportés de Samothrace en Italie par un autre qu'Enée, dont le
nom ne nous est pas donné. Cette dernière interprétation, pourtant,
paraît peu probable, puisqu'à l'époque où a vécu Atticus, la légende du

24 Ad Aen. III, 148 : Varrò sane rerum humanarum secundo ait Aeneam deos pénates
in Italiani reduxisse, quaedam lignea uel lapidea sigilla. . . Sane hos deos Dardanum ex
Samothracia in Phrygiam, Aeneam uero in Italiani transtulisse idem Varrò testatur.
25 Sat. Ill, 4, 7.
26 hoc. cit.
27 Ad Aen. II, 717.
1 32 LES PÉNATES PUBLICS

transfert des Pénates par Enée jusqu'en Italie était bien établie. Il
semble donc plutôt que la doctrine d'Atticus s'oppose à la fois à celle de
Cassius Hemina et à celle de Varron en ce que, si elle donne, comme
Varron, une origine samothracienne aux Pénates, elle leur ôte tout
caractère troyen autre que celui d'avoir été transférés en Italie par le
troyen Enée.
L'opinion de Varron sur les origines samothraciennes des Pénates
va amener, plus naturellement encore que chez Cassius Hemina, une
confusion entre les Pénates et les Grands Dieux de Samothrace, ce
qu'exprime sans ambiguïté un commentaire de Servius : Varrò quidem
unum esse dicit pénates et magnos deos; nam in basì scribebatur MA-
GNIS DIS28. Le socle en question (in basi) est très vraisemblablement29
celui des statues des dieux dans leur temple de la Vèlia, à Rome. Daniel
poursuit, en mentionnant un complément à cette doctine qu'il attribue
aussi à Varron, et à d'autres qu'il ne nomme pas : Varrò et alii complu-
res Magnos Deos adfirmant simulacra duo uirilia, Castoris et Pollucis, in
Samothracia ante portant sita, quibus naufragio liberati uota solue-
bant30. On aboutit donc ici à une double identification, attribuée par
les commentateurs de Virgile à Varron : d'une part, les Pénates sont
identiques aux Grands Dieux, d'autres part les Grands Dieux honorés à
Samothrace sont Castor et Pollux, présentés comme des dieux
bienfaisants, en particulier pour les marins. Evidemment, cette doctrine, pour
différente qu'elle soit de celle de Cassius Hemina, la rappelle sur
certains points : les Pénates et les dieux de Samothrace ont en commun la
dénomination de «Grands Dieux»; d'autre part, si Cassius Hemina,
d'après les fragments de son œuvre que nous connaissons, n'assimilait
pas les Pénates aux Dioscures, il proposait comme l'une des
appellations grecques des Pénates le terme de θεοί χρηστοί «dieux
bienfaisants», ce qui n'est pas sans rappeler le rôle de Castor et Pollux à
Samothrace comme protecteurs des naufragés.
Or, comme l'a bien montré C. Peyre31, l'établissement de la
doctrine varronienne sur l'identité des Grands Dieux de Samothrace fait diffi-

28 Ad Aen. III, 12.


29 Cf. C. Peyre, Castor et Pollux et les Pénates pendant la période républicaine, MEFR,
74, 1962, p. 452.
30 Ibid. : « Varron et beaucoup d'autres affirment que les Grands Dieux sont deux
statues de jeunes gens, celles de Castor et Pollux, placées devant la porte de Samothrace,
auxquelles les rescapés des naufrages offraient des vœux. »
31 Op. cit., p. 453-454.
LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES 133

culte, puisqu'aux opinions attribuées à l'érudit par Servius et Daniel, on


peut opposer un passage du De Lingua Latina où Varron donne des
Grands Dieux une définition très différente de celle que lui prêtent les
deux commentateurs: Terra enim et Caelum, ut (Sa)mothracum initia
docent, sunt Dei Magni, et hi quos dixi multis nominibus, non quas
(S)amo(th)racia ante portas statuii duas uirilis species aeneas Dei
Magni, neque ut uolgus putat, hi Samothraces dii, qui Castor et Pollux, sed
hi mas et femina et hi quos Augurum libri scriptos habent sic «diui
potes», pro ilio quod Samothraces θεοί δυνατοί32. Nous reprendrons ici
brièvement la pertinente analyse que C. Peyre a faite de ce texte.
Varron distingue deux conceptions des Grands Dieux : l'une est savante,
appuyée de l'autorité des mystères de Samothrace et des Livres des
Augures, et définit les Grands Dieux comme de sexe différent, et
confondus avec la Terre et le Ciel; il existe d'autre part une tradition
populaire, qui voit dans les Grands Dieux les Dioscures - deux jeunes
gens donc -, et identifie peut-être ces derniers (mais ici l'interprétation
du texte de Varron est délicate), avec les deux statues d'hommes en
bronze qui se trouvent aux portes de Samothrace. Si les Grands Dieux
sont de sexe opposé, ils ne peuvent pas être identifiés aux Dioscures, ni,
comme le souligne C. Peyre, et bien que Varron ne le dise pas
expressément, aux Pénates, pour la même raison. Varron se contredisait-il, du
De Lingua Latina aux Antiquités Humaines? Servius et Daniel ont-ils été
égarés par la complexité du problème? Comme le note C. Peyre «nous
croirons d'abord à ce qu'il (= Varron) dit lui-même», et donc, en
définitive, nous pouvons penser que Varron n'assimilait pas les Grands Dieux
aux Dioscures, ni aux Pénates. Un autre détail du passage du De Lingua
Latina pourrait faire préférer cette interprétation de la pensée de
Varron. Les Grands Dieux, déclare-t-il, sont appelés θεοί δυνατοί à
Samothrace, diui potes en latin. Or, dans les dénominations grecques des
Pénates attribuées à Cassius Hemina par le scholiaste de Vérone ne

32 De L. L. V, 58 : «Or le Ciel et la Terre, comme l'enseignent les mystères de


Samothrace, sont les Grands Dieux; je viens de les mentionner sous de nombreuses
appellations; mais ils ne s'identifient pas pour autant avec les Grands Dieux dont Samothrace a
placé les deux effigies masculines en bronze devant ses portes. Ils ne sauraient en effet se
confondre, malgré l'opinion populaire, avec les dieux de Samothrace en question, qui,
eux, s'identifient avec Castor et Pollux; or ceux dont je parle sont deux divinités, homme
et femme, ce sont celles que les Livres des Augures ont enregistrées sous la dénomination
diui qui potes pour rendre l'expression de Samothrace θεοί δυνατοί (= les Dieux
Puissants)» (Trad. J. Collart, Paris, 1954).
134 LES PÉNATES PUBLICS

figure pas cette dernière, ce qui fait penser qu'elle ne s'appliquait


effectivement pas aux Pénates, distincts, donc, des Grands Dieux de
Samothrace, mais probablement, comme le note Varron, partiellement
confondus avec eux, au moins dans la tradition populaire; la commune
dénomination de «Grands Dieux» - puisque, selon lui, cette appellation
figurait sur l'inscription de la statue des Pénates - a dû jouer pour
beaucoup dans cette assimilation. Par ailleurs, ainsi que nous l'avons
noté plus haut, Macrobe prête au contraire à Cassius Hemina l'idée
selon laquelle les Pénates étaient désignés, entre autres, comme θεοί
δυνατοί, ce qui ajoute encore à la confusion de notre dossier. Aussi
l'expression virgilienne Penatibus et Magnis Dis33 nous semble-t-elle,
comme du reste l'ensemble des conceptions du poète concernant les
origines troyennes de Rome, fortement influencée par la doctrine de
Varron, et nous aurons à nous demander si elle désigne deux personnalités
divines différentes, ou une seule, exprimée par un hendiadyn34.
Concernant la définition varronienne des Pénates, Macrobe
rappelle que, dans le livre II des Antiquités Humaines, Varron disait que les
Pénates avaient été apportés par Dardanus de Samothrace à Troie, par
Enée de Troie en Italie : qui sint autem di Penates in libro quidem
memorato Varrò non exprimit35. L'ouvrage en question ne parlait donc
sans doute que de l'histoire des Pénates, sans se soucier de définir
l'essence de ces dieux. En revanche, nous connaissons par une citation
d'Arnobe une définition varronienne des Pénates, probablement
parvenue à l'écrivain chrétien par l'intermédiaire du même érudit du IIIe
siècle, Cornelius Labeo36 : Varrò qui sunt introrsus atque in imis penetrali-
bus caeli deos esse censet, quos loquimur nec eorum numerum nec
nomina stiri. Hos Consentes et Complices Etrusci aiunt et nominant, quod
una oriantur et occidant una, sex mares et totidem feminas, nominibus
ignotis et miserationis parcissimae ; sed eos summi louis consiliarios ac
participes existimari37. La première partie de cette définition semble

33 En. III, 12; VIII, 679.


34 Pour un commentaire de cette expression, cf. R. B. Lloyd, Penatibus et Magnis Dis;
C. Peyre, loc. cit. ; R. Schilling, Penatibus et Magnis Dis, Miscellanea di Studi Classici in
onore di Eugenio Manni, Rome, 1980, t. VI, p. 1963-1978; voir infra, p. 433 sq.
35 Sat. Ill, 4, 7.
36 Cf. G. Kettner, Cornelius Labeo : ein Betrag zur Quellen Kritik des Arnobius, Berlin,
1877, p. 11 ; G. Wissowa, R.E., IV, s.u. Cornelius, n° 168, col. 1351-52.
37 III, 40 : « Varron pense que les dieux dont nous parlons sont ceux du dedans,
résident au plus profond du ciel, et qu'on ignore leur nombre et leur nom. Les Etrusques les
LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES 135

dictée par des préoccupations étymologiques, encore que cela ne soit


pas explicitement dit; mais introrsus est sans doute amené par un
rapprochement avec penus et penitus, tandis que la mise en relation de
pénates avec penetralia est plus claire; ce texte rappelle évidemment
celui du De Natura Deorum (II, 68). En revanche, l'image in imis pene-
tralibus caeli introduit l'aspect théologique de cette définition, puisqu'il
s'agit cette fois, non plus du penetrale de la maison, comme chez Cicé-
ron, mais de celui du ciel. L'ignorance où est Varron, selon Arnobe, du
nom et du nombre des Pénates, s'explique par l'indétermination qui
caractérise ces divinités, toujours présentées en groupe; ce mystère
trouvera d'ailleurs son correspondant, nous allons le voir, dans le
secret entourant les noms des Grands Dieux apportés à Samothrace par
Dardanus, secret à propos duquel Denys d'Halicarnasse se réfère à
plusieurs sources grecques. Cette indétermination, affirmée par Varron,
correspond au fait que les Pénates ne connaissent aucune
individualisation, ce qui exclut et de les nommer autrement que par leur nom
générique, et de les compter. Faut-il attribuer à Varron la suite de la phrase,
c'est-à-dire le résumé de la doctrine étrusque sur les Pénates, bien que
l'on trouve les indicatifs aiunt et nominant? C'est probable, et nous
verrons que, sur ce point, la doctrine de Nigidius Figulus est très proche
de celle de Varron. Il n'est pas de notre propos d'étudier ici
l'équivalence établie entre Pénates et Dei Consentes et Complices, traduction de
mots étrusques qui nous demeurent inconnus38. Cette traduction est
mentionnée pour la première fois chez Varron, et le terme de Consentes
posé comme l'équivalent des Pénates fait problème pour nous : en effet,
ces dieux avaient un temple et un portique - ce dernier a subsisté
jusqu'à nos jours - au pied du Capitole depuis la fin de la République,
avec douze statues de bronze doré; or, la tradition littéraire mentionne
déjà l'existence de deux temples où seraient conservés les Pénates : le
temple qui leur appartenait en propre sur la Vèlia {Aedes deum Pena-
tium) et Y Aedes Vestae du Forum. Dans ce que nous saisissons ici de la
doctrine étrusque à travers Varron et Arnobe, ces dieux formaient,

disent et les appellent Consentes et Complices, parce qu'ils apparaissent et disparaissent


ensemble; ils sont six hommes et autant de femmes, leur nom est inconnu et ils sont très
peu accessibles à la pitié ; mais on considère qu'ils sont les conseillers et les confidents de
Jupiter suprême».
38 L'étude la plus récente et la plus détaillée du problème se trouve chez J. Heurgon
(Varron, Economie rurale I, C.U.F., Paris, 1978, commentaire p. 93-95 n. 8 et 9); voir infra
p. 233.
136 LES PÉNATES PUBLICS

comme les Pénates romains, un groupe sans individualité distinguée


par un nom particulier, mais ils étaient tout de même individualisés
par leur nombre, douze, également réparti entre les deux sexes; ces
derniers détails contredisent deux autres données, déjà mentionnées,
des traditions antiques sur les Pénates : d'une part, ou bien on ne
précise pas leur nombre, ou, lorsqu'il est précisé, ils sont deux, comme
c'était le cas notamment pour leurs statues du temple de la Vèlia;
d'autre part, les Pénates sont présentés comme des divinités de sexe
masculin, ainsi qu'en témoigne notamment leur image sur les monnaies39. Ce
que nous voyons donc se superposer dans la doctrine varronienne sur
les Pénates, c'est d'abord une conception «historique» de ces dieux, liés
à Dardanus et à Enée, leur assignant une origine samothracienne et
troyenne; ensuite, une conception plus théologique, les définissant
comme des «dieux des profondeurs du ciel», ou les assimilant à des
divinités étrusques. Il est évident que les deux coïncident assez mal, et
qu'au total, la doctrine de Varron paraît assez difficile à définir très
précisément et de façon cohérente, en l'état où nous est parvenue
l'œuvre. Au demeurant, la théorie étrusque des Pénates adoptée par Varron
semble une raison supplémentaire d'exclure une assimilation complète
chez l'érudit entre Pénates et Grands Dieux de Samothrace, qu'il
définit, dans un passage connu par Augustin40, comme Jupiter, Junon, et
Minerve41.

Denys d'Halicarnasse

Nous avons déjà cité le passage dans lequel Denys d'Halicarnasse


rend compte des diverses traductions grecques du terme latin Penates42
donc aucune n'est semblable à celles que proposent Cassius Hemina et
Varron; comme le souligne Denys lui-même, elles correspondent aux
diverses attributions de nos dieux. Nous avons vu aussi que c'est par lui
que nous connaissons la description faite par Timée des Pénates de
Lavinium, mais il ne reprend pas cette dernière à son compte,
soulignant l'impiété qu'il y a à s'enquérir de choses qui doivent rester secrè-

39 Voir infra p. 432-3


40 De du. Dei VII, 28.
41 Contra : G. Wissowa, Die Ueberlieferung. . ., p. 117.
42 I, 67, 3.
LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES 137

tes, comme les Pénates - ίερά du temple de Lavinium. En revanche, il


nous a donné l'unique description que nous connaissions du temple de
ces dieux à Rome sur la Vèlia, ainsi que la description des statues
cultuelles : νεώς έν 'Ρώμη δείκνυται της αγοράς ού πρόσω κατά την επί
Καρίνας φέρουσαν έπίτομον όδον υπεροχή σκοτεινός ιδρυμένος ού
μέγας · λέγεται δε κατά την έπιχώριον γλώτταν Ούελία το χωρίον, εν δε
τούτω κείνται των τρωικών θεών εικόνες, ας άπατιν όραν θέμις,
επιγραφή ν εχουσαι δηλουσαν τους Πενάτας · είσί δε νεανίαι δύο καθήμενοι
δόρατα διειληφότες, της παλαιάς έργα τέχνης43. Beaucoup des
indications fournies ici recoupent ce que nous savons déjà par Varron; elles
ont fait penser à G. Wissowa44 que ce dernier était la source essentielle
de Denys, qui, au demeurant, a personnellement visité le temple de la
Vèlia. Tout d'abord, comme chez Varron, est affirmée l'origine troyen-
ne des Pénates honorés à Rome, mais cela semble, dans le texte de
Denys, peu compatible avec l'affirmation trouvée chez Timée, selon
laquelle les Pénates de Lavinium sont eux aussi troyens; la précision
της παλαιάς έργα τέχνης souligne d'ailleurs le caractère «archaïque»
(troyen?) des statues. Denys, comme Varron, évoque l'inscription qui
figurait sur le socle de la statue, mais il est probable qu'aucun de nos
deux auteurs ne la cite totalement, puisque Varron affirme qu'elle
portait Magnis Dis, tandis que le texte de Denys suggère qu'y était présent
le mot Penates : ce flottement même reflète sans doute la confusion,
déjà relevée, entre Pénates et Grands Dieux de Samothrace, par
l'intermédiaire d'une commune dénomination; on trouve aussi la trace, chez
Denys, d'une confusion entre Pénates et Dioscures, puisque la
description qu'il fait des statues des dieux, armés de lances, suggère un type
iconographique proche de celui des Dioscures.
Dans la suite de son récit, Denys nous fournit d'autres indications
sur les origines, plus lointaines, des «Pénates», pour lesquelles il
s'inspire de deux poètes, Satyros, inconnu par ailleurs, et Arctinos, poète
cyclique situé au VIIIe siècle environ, ainsi que de «nombreux autres
auteurs» (άλλοι συχνοί), et un certain Callistratos, dont l'identité et la

43 I, 68, 1-2 : «A Rome, on montre un temple non loin du Forum en bordure du


raccourci qui mène aux Carinae ; il est rendu obscur par la hauteur de ce qui l'entoure (ou :
par sa hauteur) et n'est pas grand; l'endroit est appelé Vèlia dans la langue locale. Dans
ce temple se trouvent des images des dieux de Troie qu'il est permis à tous de voir,
portant une inscription qui les désigne comme les Pénates : ce sont deux jeunes gens assis
tenant des lances, ouvrages d'une facture ancienne».
44 Ibid.
138 LES PÉNATES PUBLICS

date sont inconnues45. Nous résumons ici les données essentielles de ce


texte46. Chrysè apporte en dot, lors de son mariage avec Dardanus, des
objets offerts par Athéna, les «Palladia» et les symboles sacrés des
Grands Dieux (τα ίερα των μεγάλων θεών), aux mystères desquels elle
avait été initiée. Les Arcadiens fuirent ensuite le Péloponnèse pour
s'installer à Samothrace, où Dardanus construisit un temple à ces
dieux, qui restèrent sans nom, ce dernier étant un secret réservé à
quelques initiés; il organisa pour eux le culte à mystères célébré
«aujourd'hui encore», dit Denys, dans l'île. Lorsqu'il quitta Samothrace
pour l'Asie Mineure, il laissa dans l'île les cérémonies sacrées et les
rites des dieux (τα μεν ίερα των θεών και τάς τελετάς) et emporta avec
lui leurs images et les «Palladia» (τα δε Παλλάδια και τας τών θεών
εικόνας). Il apprit alors par un oracle que les dons d'Athéna rendraient
invisible la cité qui les détiendrait. Il les installa donc dans celle qu'il
fonda et qui tira son nom du sien propre, Dardania; lorsque, plus tard,
ses descendants fondèrent Troie, ils y transportèrent les objets sacrés
qu'ils déposèrent dans un temple construit pour eux sur la citadelle.
Lors de la chute de Troie, Enée prit les statues des Grands Dieux (τά τε
ιερά τών μεγάλων θεών) et un des Palladia, et les emporta en Italie.
Ainsi, conclut Denys, les objets sacrés apportés par Enée en Italie, sont les
images des Grands Dieux, particulièrement honorés par les Samothra-
ciens.
A la lecture de ce texte, où Denys résume les doctrines des
différents historiens ou prêtres grecs qui ont écrit sur le sujet, on est frappé
d'abord par un fait : Denys nous présente cette histoire comme celle
des Pénates; or, les dieux sont constamment nommés «Grands Dieux»
et non «Pénates», puisque ces textes sont dûs à des auteurs antérieurs à
l'époque romaine, pour qui les Pénates n'ont pas d'existence. D'autre
part, nous sommes ici en présence de conceptions très proches de
celles de Varron, plus détaillées toutefois, ce qui s'explique aisément par
le fait que nous ne connaissons le texte de Varron qu'à travers des
résumés. Pour Denys, comme pour Varron, l'épisode samothracien se
place, dans l'histoire des Pénates, avant le séjour de ces dieux à Troie;
comme chez Varron encore, c'est Dardanus qui porte les dieux de
Samothrace en Asie Mineure, et Enée de Troie en Italie. Denys nous

45 Cf. E. Cary, The Roman Antiquities of Dionystus of Halicarnassus (texte et


traduction), Londres, 1968, p. 224 n. 1 ; voir infra p. 490 sq.
46 I, 68, 2-4 ; 69; cf. R. Schilling, op. cit., p. 1968.
LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES 139

donne des indications plus précises que celles des commentateurs de


Virgile à propos de l'origine et de l'histoire des Grands Dieux : cadeaux
d'une déesse, ils ont été donnés à Chrysè eh Grèce; après le séjour à
Samothrace, ils ont été conservés successivement dans deux villes de
Troade, Dardania, fondée par Dardanus, puis Troie, fondée par ses
héritiers. Comme Varron enfin, Denys identifie les dieux apportés par
Enée en Italie comme les Grands Dieux, qu'il confond donc en partie,
semble-t-il, avec les Pénates. Il y a sur ce point, chez lui aussi, un
certain flottement, car on assiste à une sorte de dédoublement des Grands
Dieux, opéré par Dardanus à Samothrace lors de son départ pour l'Asie
Mineure : il laisse sur place les ιερά et les τελετάς, tandis qu'il emporte
leurs images (τας εικόνας) en Italie. Il semble que Denys ait voulu
rendre compte par là de la confusion existant entre Pénates et Grands
Dieux de Samothrace, et de leur partielle identification. Ce
dédoublement entre d'une part cérémonies sacrées et mystères, d'autre part
images cultuelles, assez surprenant, doit permettre à notre historien
d'expliquer la parenté que l'on reconnaît entre Grands Dieux de
Samothrace et Pénates troyens à Rome, tout en continuant à affirmer qu'il
existe deux cultes distincts. Dans le livre II des Antiquités Romaines,
Denys, à propos des sacra conservés dans le temple de Vesta sur le
Forum, se fait l'écho de deux traditions les concernant, dont l'une
affirme qu'ils sont έκ των έν Σαμοθράκη . . . ίερών μοϊραν, une partie des
objets sacrés de Samothrace que Dardanus emporta de Samothrace en
Troade et Enée de Troie en Italie47, conception qui, compte tenu du
fait que ce temple était supposé contenir les Pénates du peuple
romain48, cadre assez bien avec celle que nous venons d'étudier : une
partie (μοϊραν) des ίερών de Samothrace a été emportée d'abord par
Dardanus en Troade, puis par Enée au Latium, où ils sont conservés,
tandis que l'autre, restée dans l'île, continue à y être l'objet d'un culte à
mystères. Soulignons, pour finir, que Denys ne met pas en doute
l'identification des Pénates publics de Rome comme les Grands Dieux,
statues d'origine divine, mais aussi samothracienne et troyenne, car,
résumant les thèses des différents auteurs grecs à propos des μεγάλοι θεοί,
il les rapporte expressément aux Pénates romains, ceux de la Vèlia
dans le premier passage étudié, du temple de Vesta dans le second.
Enfin, Denys affirme que les noms (c'est-à-dire en fait l'identité) des

47 II, 66, 5; cf. infra p. 491-2.


48 Cf. Tacite, Ann. XV, 41.
140 LES PÉNATES PUBLICS

dieux installés par Dardanus à Samothrace restèrent cachés, ce qui


s'explique sans doute, dans la tradition grecque dont il s'inspire, par le
fait qu'il s'agit d'un culte à mystères réservé aux initiés, mais qui
correspond aussi à la difficulté de définir les Pénates autrement que par
ce nom collectif, ne distinguant aucune individualité.

NlGIDIUS FlGULUS

Nous ne connaissons que par des fragments de citations l'œuvre de


Nigidius Figulus, l'un des principaux représentants du pythagorisme à
Rome, qui, comme Varron, fut l'un des grands érudits de son temps49.
Sa doctrine sur les Pénates nous est connue par Macrobe : Nigidius
enim de dis libro nono decimo requirit num di Penates sint Troianorum
Apollo et Neptunus, qui muros eis fecisse, et num eos in Italiani Aeneas
aduexerit; Cornelius quoque Labeo de dis Penatibus eadem existimat50.
L'opinion citée par Macrobe est confirmée par une affirmation
analogue d'Arnobe : Nigidius Penates deos Neptunum Apollinemque prodidit,
qui quondam mûris immortalibus Ilium. . . cinxerunt51. Nous voyons
donc ici affirmée, comme chez les auteurs précédents, l'origine troyen-
ne des Pénates, par l'intermédiaire d'Enée. Non seulement l'épisode
samothracien de leur histoire n'est pas mentionné, mais les Pénates en
question semblent être spécifiquement honorés sous ce nom à Troie, et
attachés à cette ville, dans la mesure où ils sont présentés comme les
constructeurs de ses murailles; d'autre part, ces divinités, au nombre
de deux, et masculines (ce qui est conforme à une partie au moins de la
tradition sur les Pénates), sont identifiées comme Neptune et Apollon.
C'est là un témoignage tout à fait original, et il convient d'essayer de
comprendre le choix de ces deux dieux. Selon une tradition attestée par

49 Cf. J. Carcopino, La Basilique pythagoricienne de la Porte Majeure, 2e éd., Paris,


1944, p. 196-200.
50 Sat. Ill, 4, 6 : « Nigidius en effet, au livre XIX de son ouvrage sur les dieux,
demande si les dieux Pénates ne sont pas l'Apollon et le Neptune des Troyens, par qui
furent bâties, dit-on, les murailles de cette ville, et s'ils n'ont pas été amenés en Italie par
Enée. Cornelius Labéo exprime la même hypothèse sur les dieux Pénates» (Trad. H. Bor-
necque, Paris, 1937); cf. R. Schilling, op. cit., p. 1975.
51 III, 40 : « Nigidius raconte que les Pénates sont Neptune et Apollon, qui
entourèrent Troie de murailles immortelles». Cf. aussi Servius-Daniel, Ad Aen. I, 378 : nam alii ut
Nigidius et Labeo, deos Penates Aeneae Neptunum et Apollinem tradunt.
LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES 141

Lycophron52, ce sont Apollon et Neptune qui construisirent les


remparts de Troie, avec des pierres qui sont donc d'origine divine, et qui
furent par la suite, après la chute de la ville, emportées par Diomède :
ce dernier les utilisa pour la fondation d'une nouvelle cité53. Les
indications données là par Lycophron ont peut-être comme source, ainsi
qu'en beaucoup d'autres endroits, Timée54; il faudrait donc supposer
que c'est à l'historien sicilien que s'est référé Nigidius Figulus, au
moins pour cette tradition relative à la construction des murailles
troyennes. L'origine de la tradition d'une assimilation des Pénates avec
Neptune et Apollon ne nous est pas connue, Nigidius Figulus en
constituant la première attestation. Macrobe mentionne seulement qu'elle
figure aussi chez Cornelius Labeo et ajoute : hanc opinionem sequitur
Maro55, faisant allusion au passage de l'Enéide où, tandis que les
Troyens sont parvenus en Crète où les a conduits une mauvaise
interprétation d'un oracle de Délos, Anchise fait un sacrifice de
remerciement aux dieux, pour lequel Apollon et Neptune sont cités les
premiers :
Sic fatus meritos ans mactauit honores
taurum Neptuno, taurum tibi, pulcher Apollo50.

Le commentaire que donne Servius de ces vers leur confère


pourtant une signifigation très différente : Taurum Neptuno propter futuram
nauigationem. Taurum tibi, pulcher Apollo propter oraculum datum.
Sane hoc loco Vergilius secutus ueterum opinionem Neptunum tantum et
Apollinem nominauit; dicuntur enim hi dii pénates fuisse, quos secum
aduexit Aeneas, quamuis diuersis locts alias opiniones aliorum secutus
poeta de dis penatibus diuersa dixerit57. L'explication de Servius, on le

52 Alex. 617 sq.


53 Cf. Bethe, R.E., V, I, s.u. Diomedes, col. 824 sq.; pour le développement de la
légende des aventures de Diomède après la Guerre de Troie, voir J. Bérard, La
colonisation grecque de l'Italie méridionale et de la Sicile dans l'Antiquité, Paris, 1957, p. 304-383.
54 Cf. A. Momigliano, loc. cit.
55 Sat. Ill, 4, 6.
56 III, 118-119: «Ayant ainsi parlé, il immola sur les autels les offrandes que l'on
doit aux dieux, un taureau à Neptune, un taureau à toi, bel Apollon» (Trad. J. Perret,
C.U.F., Paris, 1977).
57 Ad Aen. III, 119: «Un taureau à Neptune: à cause des navigations futures. Un
taureau à toi, bel Apollon, en remerciement de l'oracle. A coup sûr, Virgile, ayant suivi ici
l'opinion des. Anciens, a seulement nommé Neptune et Apollon car ils étaient, dit-on, les
142 LES PÉNATES PUBLICS

voit, diffère sensiblement de la doctrine de Nigidius Figulus, telle que


nous la livrent Macrobe et Arnobe. Le choix de Neptune et d'Apollon
comme deux des divinités dédicataires du sacrifice d'Anchise est
justifié par certaines fonctions de ces dieux - dieux de la mer et de la
navigation pour l'un, dieu oraculaire pour l'autre -, non par le fait qu'ils
ont construit les murs de Troie. Ils sont cependant qualifiés de
«Pénates», ceux-mêmes qui ont été transférés en Italie par Enée. La phrase
sane. . . nominami est d'une interprétation plus délicate : les ueteres,
dont Virgile refléterait la doctrine, ne sont pas nommés, et ne sont
définis que par une probable antériorité à Virgile lui-même. Il faut sans
doute rapprocher ce texte d'un autre passage de l'interpolateur de Ser-
vius, à propos des Pénates : quos tarnen Penates alii Apollinem et Neptu-
num uolunt5S; mais les savants désignés par alii ne sont pas davantage
nommés; peut-être faut-il comprendre que Daniel songe alors à
Nigidius Figulus? D'autre part, l'emploi de l'adverbe tantum fait ici
problème par rapport à la conception des Pénates prêtée à Nigidius Figulus,
car il implique qu'il existe d'autres dieux considérés comme les Pénates
troyens, que Virgile n'a pas nommés, et dont l'identité nous demeure
inconnue. La remarque finale de Daniel, à propos d'une certaine
incohérence dans les conceptions virgiliennes des Pénates, due au fait que
le poète suit différentes autorités dont les conceptions sur ce point
divergent, nous intéresse précisément dans la mesure où elle témoigne
de la diversité, voire de la confusion, des doctrines sur les Pénates à la
fin du Ier siècle av. J.-C.
Là ne se limite pas ce qu'Arnobe nous apprend de la conception
des Pénates que se faisait Nigidius Figulus; il ajoute: idem rursus in
libro sexto exprimit et decimo disciplinas Etruscas sequens genera esse
Penatium quattuor et esse louis ex his alios, alios Neptuni, Inferorum ter-
tios, mortalium hominum quartos, inexplicabile quid dicens59. Nous
nous trouvons ici en présence d'une définition «étrusque» des Pénates
bien différente de celle que le même Arnobe attribue à Varron. Les
deux doctrines, toutefois, ont ceci de commun qu'elles semblent inspi-

dieux Pénates, qu'Enée apporta avec lui, bien qu'en d'autres passages, le poète ait eu des
positions différentes, ayant suivi les diverses opinions de divers auteurs».
s« Ad Aen. II, 325.
59 III, 40 : « Le même auteur déclare dans le livre XVI, en suivant les « disciplines
étrusques», qu'il y a quatre sortes de Pénates, dont les uns sont ceux de Jupiter, les autres
ceux de Neptune, les troisièmes ceux des enfers, les quatrièmes ceux des hommes
mortels, disant là quelque chose d'inexplicable».
LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES 143

rées par une conception cosmogonique de la divinité, et par la division


de l'univers en un certain nombre de régions : elles étaient sans doute
au nombre de douze dans la conception varronienne, mais Varron ne
précisait pas quelles étaient les attributions de chacune des divinités.
Chez Nigidius Figulus, qui paraît avoir joué un rôle déterminant dans
la transmission de la disciplina Etrusca à Rome60, les quatre catégories
de Pénates semblent s'expliquer de la façon suivante : les trois
premières correspondent aux trois domaines de l'univers61, le Ciel {louis), la
mer (Neptuni), la Terre {Inferorum), auxquels vient curieusement
s'ajouter celle des hommes; division étrange, notamment en sa
quatrième partie, ce que souligne probablement la remarque finale d'Arnobe :
inexplicabile quid dicens; en effet, la catégorie des «hommes mortels»
s'intègre particulièrement mal dans une division du Ciel ou de
l'univers. Une seule de ces catégories rappelle ce que Varron, cité par Arno-
be, disait des «Pénates étrusques», celle des Penates louis, puisque,
selon Varron, les Etrusques considéraient les Pénates comme consilia-
rios ac participes louis62.
Cette doctrine des «Pénates étrusques» attribuée à Nigidius est très
difficile à situer par rapport aux autres définitions des mêmes dieux
connues par Varron, ou encore par un certain Caesius, cité par Arnobe,
et par ailleurs totalement inconnu63 : Caesius et ipse eas (= disciplinas
Etruscas) sequens Fortunam arbitratur et Cererem, Geniumque Iouialem
ac Paient, sed non Ulam feminam, quant uulgaritas accipit, sed masculini
nescio quern generis ministrum louis ac uilicum64. Cette définition, on
le voit, ne recoupe celles de Varron et de Nigidius que sur un point, la
présence de Jupiter, ou du moins de son Genius, parmi les Pénates; par

60 Cf. G. Dumézil, La religion des Etrusques, appendice à La religion romaine


archaïque, 2e éd., Paris, 1974, p. 622.
61 Cf. G. Wissowa, ibid., p. 124; R. H. Klausen, Aeneas und die Penaten, Hambourg-
Gotha, 1839-40, p. 659. A. Grenier, Les religions étrusque et romaine, Paris, 1948, p. 54.
62 Pourtant, A. Pfiffig (Religio Etrusca, Graz, 1973, p. 31) se demande s'il faut
comprendre que Jupiter fait partie des Pénates ou non; selon lui, la question reste douteuse.
63 W. Kroll (R.E., suppl. VI, col. 19, s.u. Caesius), se fondant sur cette citation
d'Arnobe, suppose qu'il était contemporain de Nigidius et de Varron.
64 III, 40 : « Caesius, suivant lui aussi la discipline étrusque, pense que les Pénates
sont Fortuna, Cérès, le Genius de Jupiter, et Paies, ce dernier étant non pas la divinité
féminine connue du vulgaire, mais je ne sais quel serviteur et intendant de Jupiter, de
sexe masculin » ; sur Paies comme divinité masculine, voir G. Dumézil, La religion romaine
archaïque, p. 385-86; J. Heurgon, Au dossier des deux Paies. Varron, R. R., II, 1, 9, Lato-
mus, 10, 1951, p. 277-278.
144 LES PÉNATES PUBLICS

ailleurs, de même que celle de Nigidius établissait quatre catégories de


Pénates, elle pose l'existence de quatre divinités appelées Pénates.
Pourtant, une indication de l'interpolateur de Servius vient ajouter à cette
question une confusion supplémentaire : Tusci Penates Cererem et Pa-
lem et Fortunam dicunt65; cette triade n'a plus aucun point commun
avec les définitions des Pénates étrusques proposées par Varron et
Nigidius Figulus, mais elle coïncide partiellement avec la définition
proposée par Caesius, et surtout le choix des divinités ici nommées doit
peut-être se comprendre par la relation qu'elles entretiennent avec la
récolte, le blé, et la prospérité agricole et alimentaire en liaison avec le
penus, auquel les Pénates sont étymologiquement rattachés. Ces
différentes traditions sur les «Pénates étrusques», pour contradictoires
qu'elles nous paraissent parfois, attestent en tout cas la continuité et la
vitalité de la réflexion théologique étrusque. Que des écrivains latins
comme Caesius, Nigidius Figulus, ou Varron, et plus tard, Macrobe ou
Martianus Capella aient cherché à rapprocher les Pénates romains de
divinités étrusques montre de quel prestige a joui, pendant des siècles,
la spéculation théologique des Etrusques. La diversité des tentatives
pour définir les «Pénates étrusques» nous semble pouvoir s'expliquer
par l'impossibilité de faire correspondre la notion, spécifiquement
latine, de Pénates, à des divinités du panthéon étrusque.
Curieusement, les deux définitions des Pénates attribuées à
Nigidius, celle qui les identifie à Neptune et Apollon, et celle des «Pénates
étrusques» n'ont guère de point commun que le nom de Neptune66;
mais, comme nous l'avons vu, le dieu semble considéré sous des aspects
différents dans l'un et l'autre cas. L'interpolateur de Servius, après
nous avoir fait connaître la définition des Pénates comme Neptune et
Apollon données par Nigidius et Labeo67, revient sur ce point à propos
d'un autre passage; il propose une définition des Pénates, qu'il ne
rapporte expressément à aucun auteur, et qui voit en eux les dieux
apportés de Samothrace, en Troade, par Dardanus, de Troie en Italie par

65 II, 325; l'identification de Cérès comme «penate étrusque» a été étudiée par H. Le
Bonniec, Le culte de Cérès des origines à la fin de la République, Paris, 1958, p. 26-27; celle
de Fortuna par J. Champeaux, Fortuna. Recherches sur le culte de la Fortune à Rome et
dans le monde romain (Coll. de l'École Française de Rome, 64), Rome, 1982, p. 229-231;
voir aussi M. Pallottino, Etruscologia, 7e éd., Milan, 1984, p. 330-331.
66 Cf. R. Bloch Quelques remarques sur Poséidon, Neptune et Nethuns, CRAI, 1981,
p. 341 sq.
67 Ad Aen. I, 378.
LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES 145

Enée; les prêtres chargés de la garde des sacra penatium auraient été
nommés Sai à Samothrace, Salii à Rome68. Daniel ajoute : quos tarnen
Penates alii Apollinem et Neptunum uolunt, alii, hastatos et in regia posi-
tos tradunt. Le mot tarnen indique que cette nouvelle définition
s'oppose à la précédente, et il est fort probable que les alii sont Nigidius et
Cornelius Labeo, dont nous savons par ailleurs que la doctrine sur les
Pénates était connue de Daniel. Ce dernier veut-il nous donner à
entendre par là qu'il oppose deux doctrines, celle qui assimile les Pénates
aux dieux de Samothrace d'une part, celle qui les définit comme
Neptune et Apollon, et dont Nigidius aurait été l'un des tenants, d'autre part?
Ce point est d'autant moins net que la dernière phrase de notre passage
oppose aux deux premières une troisième définition des Pénates,
toujours sans référence d'auteur : ce sont des dieux armés de lances dont
les statues se trouvent dans la Regia. Nous pensons que l'interpolateur
de Servius désigne ainsi les statues des Pénates du temple de la Vèlia :
ils étaient, en effet, selon la description de Denys d'Halicarnasse,
représentés comme deux jeunes gens armés de lances, et la proximité de
cette colline et des bâtiments de la Regia69 explique sans doute la
confusion faite par Daniel. Or ces dieux, qu'une inscription gravée sur le
socle de leur statue désignait, selon Varron et Denys, comme les
«Grands Dieux», ont souvent été confondus avec les Dioscures, eux-
mêmes identifiés aux Cabires de Samothrace. Est-ce cette distinction
que Daniel veut établir ici? Nous pensons plutôt qu'il se contente d'énu-
mérer des définitions opposées des Pénates, qui sont, d'après ce
passage, au moins au nombre de quatre, puisqu'immédiatement après il
mentionne la conception «étrusque», étudiée plus haut, de la triade
Cérès, Paies et Fortuna.
Il nous semble donc difficile d'assurer que ce passage contient une
quelconque allusion à l'opinion que Nigidius Figulus pouvait se faire
des Grands Dieux et de leurs relations avec les Pénates. S. Weinstock70
a fait remarquer que G. Wissowa avait peut-être abusivement attribué à
Nigidius un passage de Servius, à propos de la définition des Grands
Dieux71 : Varron, dit-il, pense que les Pénates sont la même chose que

68 Ad Aen. II, 325 : namque Samothraces horum Penatium antistites Saos uocabant,
qui postea a Romanis Salii appellati sunt : hi enim sacra penatium curabant.
69 F. Coarelli, Roma, (Guide archologiche Laterza), Rome, 1980, p. 77 sq.
70 R.E., XIX, I, s.u. Penates, col. 453.
71 III, 12.
1 46 LES PÉNATES PUBLICS

les Grands Dieux, puisqu'il est écrit MAGNIS DIS sur la base de leur
statue : pourtant, ajoute-t-il, ce titre peut être simplement honorifique
{potest tarnen hoc pro honore dici) et il oppose à celle qu'il attribue à
Varron une autre définition des Grands Dieux : nam dii magni sunt Iup-
piter, Minerva, Mercurius qui Romae colebantur, pénates uero apud Lau-
rolauinium72. G. Wissowa73 suggère une attribution de cette définition
des Grands Dieux à Nigidius, ce qui permettrait de voir chez le
pythagoricien une doctrine nettement opposée à celle de Varron : les Grands
Dieux seraient deux dieux de la Triade Capitoline, ou les trois, selon
Daniel, à laquelle s'ajoute Mercure, alors que les Pénates seraient
Neptune et Apollon. Toutefois, ici, non plus que chez Daniel, il n'existe
d'indice sûr qui permette d'attribuer cette conception à Nigidius. Il n'est
pas davantage possible de savoir si l'on doit attribuer la dernière
remarque citée (les Grands Dieux sont honorés à Rome, alors que les
Pénates le sont à Lavinium) à la même autorité, ou tout simplement à
Servius lui-même. Quoi qu'il en soit, on a le sentiment qu'on" a atteint
ici un degré de confusion tel entre toutes ces définitions des Pénates,
que le besoin d'une explication rationnelle et cohérente aboutit à des
affirmations que dément l'architecture religieuse, puisque le temple de
la Vèlia est désigné dans les texte comme Aedes deum Penatium, ce qui
prouve l'existence d'un culte des Pénates à Rome, quelles que soient les
origines et l'histoire des dieux qui en étaient l'objet.

Indications éparses et anonymes

Nous savons, par une brève indication de Macrobe, que l'érudit


Hygin avait consacré un ouvrage aux Pénates : Addidit Hyginus in libro
quem de Dis Penatibus scripsit uocari eos θεούς πατρώους74. C'est
malheureusement là la seule indication que nous possédions sur cet
ouvrage, qui confirme ce que dit par ailleurs Denys d'Halicarnasse sur les
équivalents grecs de Penates. Virgile, ajoute Macrobe, s'est inspiré de

72 Daniel a ajouté Iuno entre Iuppiter et Minerva; nous y revenons ci-dessous,


p. 147 sq.
73 Op. cit., p. 122. Voir P. Boyancé, Sur la théologie de Varron, REA, 57, 1955, p. 57-
84.
74 Sat. Ill, 4, 13 : «On trouve aussi, dans le livre d'Hygin sur Les dieux Pénates, qu'ils
sont appelés θεοί πατρφοι ('dieux paternels' ou 'dieux de la patrie')» (Trad. H. Bornec-
que). Voir R. Schilling, op. cit. p. 1976.
LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES 147

cette remarque d'Hygin lorsqu'il emploie les expressions di patrii ou


patrii Penates. Les commentateurs tardifs nous ont laissé un certain
nombre de définitions des Pénates dont ils ne mentionnent pas les
tenants; nous avons déjà eu l'occasion d'en voir quelques-unes,
lorsqu'elles pouvaient être mises en relation avec des conceptions
clairement attribuées à tel ou tel auteur.
Macrobe cite une tradition concernant les Pénates, sans en
nommer les auteurs : après avoir rappelé, comme nous l'avons vu plus haut,
que Varron, dans le livre II des Antiquités Romaines, racontait l'histoire
des Pénates sans définir la nature de ces dieux, il déclare : sed qui dili-
gentius eruunt ueritatem Penates esse dixerunt per quos penitus spira-
mus, per quos habemus corpus, per quos rationem animi possidemus;
esse autem medium aethera Iouem, Iunonem uero imum aera cum terra,
et Mineruam summum aetheris cacumen; et argumento utuntur quod
Tarquinius, Demarati Corinthii filius, Samothracicis religionibus mystice
imbutus, uno tempio ac sub eodem tecto numina memorata coniunxit75.
Cette définition, anonyme, se compose de deux parties : la première
définit les Pénates comme les dieux qui animent la vie physique (per
quos spiramus, per quos habemus corpus), et la vie de l'intelligence (per
quos rationem animi possidemus). Cette tentative pour faire des Pénates
le centre et le moteur de ce qui anime la vie est assez étrange et
s'explique peut-être par le rapport étymologique établi ici entre Penates et
penitus spiramus, encore que l'emploi de cet adverbe semble un peu
artificiel et paraisse plutôt destiné à donner une cohérence à ce qui, en
fait, n'en a pas, entre la désignation comme Penates de ces dieux et leur
fonction. La seconde partie de la définition nous montre les Pénates,
principes vitaux, comme assimilés à l'éther, en tant qu'il comporte trois
couches, éther qui est donc présenté comme le siège de la vie
corporel e et spirituelle, ou plutôt des souffles qui l'animent76. Il n'est donc

75 Sat. Ill, 4, 7 : «Mais ceux qui mettent plus de soin à découvrir la vérité ont dit que
les Pénates sont les dieux par lesquels nous respirons, par lesquels nous avons un corps,
par lesquels nous possédons la raison. Ils ajoutent que Jupiter est l'éther moyen, Junon la
couche inférieure de l'air et de la terre, Minerve la partie la plus élevée de l'éther. Ils en
donnent comme preuve que Tarquin, fils de Démarate de Corinthe, initié aux mystères de
Samothrace, réunit ces trois divinités dans un même temple et sous le même toit» (Trad.
H. Bornecque).
76 L'ensemble de cette conception paraît inspirée du stoïcisme (cf. A. Rivaud,
Histoire de la philosophie I : Des origines à la scholastique, 2è éd., remise à jour par G. Varet,
Paris, 1960, p. 381-400), et plus précisément de Chrysippe (Cf. E. Bréhier, Chrysippe et
148 LES PÉNATES PUBLICS

plus question ici des trois éléments qui définissaient les Pénates dans la
théorie attribuée à Nigidius Figulus, selon laquelle trois catégories
d'entre eux relevaient du ciel (Jupiter), de l'eau (Neptune), de la terre (les
enfers). Ici, seul l'air est en cause, avec tout de même une allusion à la
terre pour la partie la plus basse (imum aera cum terra). D'autre part,
ce triple principe constituant les Pénates est assimilé à Jupiter, Junon,
Minerve, c'est-à-dire à la Triade Capitoline. L'attribution à chacune des
divinités qui la composent de telle couche de l'éther peut surprendre;
en particulier la place médiane de Jupiter, alors qu'on l'attendrait
plutôt dans les sommets, doit sans doute se comprendre par référence à la
représentation figurée de la Triade Capitoline, avec Jupiter au centre,
entouré de Junon et de Minerve. L'allusion faite au temple, dans la
suite du texte, suggère du reste cette explication. Enfin, l'origine de cette
triade constituant les Pénates n'a plus aucun rapport avec la légende
des origines troyennes de Rome, puisque son introduction est rapportée
à Tarquin l'Ancien, légendairement originaire de Corinthe, mais qui
avait passé une partie de sa vie à Tarquinia, d'où il tire son nom. C'est
donc affirmer l'origine étrusque des Pénates, ainsi que de la Triade
Capitoline, car il n'est pas douteux que l'indication finale de notre
citation {uno tempio ac sub eodem tecto numina memorata coniunxit) est
une allusion au temple à trois cellae du Capitole77. Nous voyons une
fois encore ici la force de l'influence qu'a eue la réflexion théologique
étrusque sur les spéculations des écrivains romains; malheureusement,
les indications très vagues de Macrobe nous laissent ignorer les noms
des tenants de cette conception, et donc sa date. Il nous faut aussi noter
la curieuse mention de la connaissance qu'aurait eue Tarquin des
mystères de Samothrace {Samothracis religionibus mystice imbutus); quel
rapport cette indication a-t-elle avec le culte des Pénates? Faut-il en

l'ancien stoïcisme, 2è éd., Paris, 1951, p. 117-127). Il est clair, toutefois, - et la désignation
par le terme latin Penates de la divinité le montre -, qu'il s'agit d'une adaptation romaine
de la doctrine, probablement tardive, à en juger par la relative impropriété de cette
définition, bien éloignée de celle, généralement et couramment admise, de «dieux du
foyer ».
77 Les historiens romains, Tite-Live notamment (I, 55) attribuent à Tarquin le
Superbe la construction du triple temple du Capitole, exécutée par des artisans étrusques (I,
56). Sur le caractère «étrusque» de la Triade Capitoline, cf. R. Bloch, Tite-Live, II, C.U.F.,
Paris, 1967, Appendice I : Le départ des Etrusques, p. 107; G. Dumézil, Mythe et Epopée III,
Paris, 1973, p. 204-206; id., La religion romaine archaïque, p. 317; id., Anchise foudroyé?
dans L'Oubli de l'Homme et l'Honneur des dieux, Paris, 1985, p. 160-161.
LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES 149

déduire qu'il existe, dans l'esprit des tenants de cette tradition, une
confusion entre Pénates et Grands Dieux de Samothrace? Il est
impossible de le dire78, non plus que de dater cette conception de nos dieux.
Macrobe la fait figurer dans un chapitre du livre III des Saturnales où
il se propose de montrer que Virgile emploie toujours le mot «Pénates»
en conformité parfaite avec la tradition concernant ces dieux. Il a, dans
les lignes précédentes, montré que Virgile suivait la tradition connue
par Varron à propos de l'histoire des Pénates, et, après notre passage,
il mentionne la conception des Pénates qu'avait Cassius Hemina et, là
encore, souligne la précision avec laquelle Virgile en a tenu compte.
Entre les deux est exposée cette tradition concernant la nature des
Pénates, point sur lequel, note Macrobe, Varron ne s'est pas expliqué
en même temps que sur leur histoire. D'autre part, bien que Virgile ne
reprenne pas exactement cette théorie, Macrobe s'efforce de montrer
que les dénominations que le poète applique à Junon sont à la fois
inspirées de la doctrine de Cassius Hemina sur les Pénates et de leur
identification avec Jupiter, Junon et Minerve. Cela implique donc que cette
dernière doctrine est au moins contemporaine de Virgile, peut-être
antérieure à lui.
La comparaison avec un passage de Daniel montre que les deux
auteurs ont dû s'inspirer d'une source commune, qui pourrait bien
être, comme le suggère G. Wissowa, Cornelius Labeo : nonnulli tarnen
Penates esse dixerunt, per quos penitus spiramus et corpus habemus, et
animi rationem possidemus; eos autem esse Iouem aetherem medium,
Iunonem imum aera cum terra, summum aetheris cacumen Mineruam :
quos Tarquinius, Demarati Corinthii filius, Samothraciis religionibus
mystice imbutus uno tempio et sub eodem tecto coniunxit. His addidit et
Mercurium sermonum deum79. La doctrine est, on le voit, semblable à
celle que l'on trouvait dans Macrobe, également anonyme, tout en étant
attribuée à plusieurs auteurs (nonnulli), et exprimée dans des termes à
très peu près identiques; un seul point, important, montre une
divergence entre deux témoignages : l'indication selon laquelle Tarquin
aurait ajouté à la triade de Pénates citée par Macrobe Mercure «dieu des
conversations», ce qui ramène à une conception quadripartite des Pé-

78 Selon Augustin (De Ciu. Dei VII, 28), Varron identifiait les mystérieux Grands
Dieux de Samothrace comme Jupiter, Junon, et Minerve, ce qui représenterait une
nouvelle incohérence par rapport à l'ensemble de sa doctrine.
79 Ad Aen. II, 296.
1 50 LES PÉNATES PUBLICS

nates. Au demeurant, cette tradition, qui ajouterait Mercure à la Triade


Capitoline, peut être rapprochée de la tradition, rapportée par Ser-
vius80, selon laquelle les Pénates seraient Jupiter, Minerve, Mercure, et,
d'après Daniel, Junon, tradition que G. Wissowa propose d'attribuer à
Nigidius Figulus. Cependant, le même savant81 a très probablement
raison d'y voir une addition personnelle du scholiaste, qui fait ici une
tentative pour rendre cohérentes toutes ces traditions. G. Wissowa a pu
montrer très ingénieusement qu'il ne s'agit pas d'une fantaisie : Daniel
tente de concilier la tradition, connue de nous par Macrobe, selon
laquelle les Pénates étaient en fait les dieux de la Triade Capitoline, et
la tradition rapportée par Servius, selon laquelle les Grands Dieux
étaient Jupiter, Minerve et Mercure82, série où Daniel, nous l'avons dit,
a ajouté le nom de Junon entre Jupiter et Minerve. Cela implique
naturellement une identification des Pénates et des Grands Dieux dans
l'esprit du scholiaste, ce qui éclaire peut-être, ici comme dans le texte de
Macrobe précédemment étudié, l'indication selon laquelle Tarquin
avait été initié aux mystères de Samothrace.
Enfin, il existe une autre tradition concernant l'identité des Pénates
connue par des textes convergents de Macrobe et de l'interpolateur de
Servius, remontant sans doute, en raison, là aussi, de la quasi-identité
des termes, à une source commune : c'est la tradition selon laquelle
Vesta fait partie des Pénates, ou leur est étroitement associée. Macrobe
écrit : eodem nomine appellatili (= Virgile) et Vestam, quam de numero
Penatium aut certe comitem eorum esse manifestum est, adeo ut et
consules et praetores seu dictatores, cum adeunt magistratum, Lauinii
rem diuinam faciant Penatibus pariter et Vestae83. L'interpolateur de

80 Cf. ci-dessus, p. 145-6.


81 Op. cit., p. 123.
82 Ad Aen. III, 12. F. Altheim {Griechische Götter in alten Rom, Gieszen, 1930, p. 77-
79) retient cette mention de Mercure comme l'attestation d'une réalité historique, ce que
B. Combet-Farnoux {Mercure romain. Le culte public de Mercure et de la fonction
mercantile à Rome de la république archaïque à l'époque augustéenne, B.E.F.A.R, vol. 238, Rome,
1980, p. 210-11) récuse absolument : la mention de Mercure «a été déduite de la présence,
à côté des Cabires de Samothrace, d'un dieu serviteur, Καδμΐλος ou Κάσμιλος, assimilé à
Hermès, mais elle ne reflète absolument pas la participation de Mercure au culte capito-
lin. Dans le jeu de l'interprétation allégorique, cette adjonction a été rendue possible par
l'incertitude sur le nombre et les noms des divinités associées dans les groupements des
Magni Dei ».
83 III, 4, 11 : «II applique aussi la même épithète à Vesta, laquelle fait évidemment
partie des Pénates, ou à coup sûr leur est associée; cela est si vrai que les consuls, les
LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES 151

Servius nous livre une tradition très semblable : his ergo quaeritur,
utrum Vesta edam de numero penatium sit, ac comes eorum accipiatur,
quod cum consules et praetores siue dictator abeunt magistratu, Lauini
sacra penatibus simul ac Vestae faciunt84. La parenté, voire l'identité,
entre Vesta et les Pénates trouve son expression, selon cette tradition,
dans le sacrifice accompli en l'honneur de l'ensemble de ces divinités à
Lavinium par les magistrats romains. Nos deux auteurs en voient aussi
une preuve dans la dénomination de potens que Virgile applique à
Vesta85, dénomination qui, selon certaines traditions, était donnée aux
Pénates86. Même si nous admettons, comme le fait G. Wissowa, que la
source commune de ces deux textes est l'érudit du IIIe siècle Cornelius
Labeo, cette tradition d'une parenté entre Vesta et les Pénates date au
moins du Ier siècle avant J.-C, puisque nous l'avons déjà trouvée,
totalement inexpliquée d'ailleurs, chez Cicéron : Nec longe absunt ab hac ui
(= Vesta) di Penates*1.

Martianus Capella

L'érudit africain de Ve siècle après J.-C. Martianus Capella nous a


laissé, dans un ouvrage intitulé De nuptiis Philologiae et Mercurii un
exposé présentant une tentative de systématisation des divinités
étrusques, l'une des trois que nous possédions, note G. Dumézil88, avec la
théorie des foudres connue par Sénèque et Pline, et le foie de Plaisance.
Martianus Capella commence par donner une classification des dieux,
dont seule la première catégorie nous intéresse ici : Ac mox louis scriba
praecipitur pro suo ordine ac ratis modis caelicolas aduocare praecipue-
que senatores deorum, qui Penates ferebantur Tonantis ipsius, quorum-
que nomina quoniam publican secretum cadeste non pertulit, ex eo,

préteurs ou les dictateurs, lorsqu'ils entrent en charge, vont à Lavinium faire un sacrifice
aux Pénates en même temps qu'à Vesta» (Trad. H. Bornecque, op. cit.). Cf. infra p. 355-
61.
84 Ad Aen. II, 296.
85 En. II, 296 : Vestamque potentem.
86 Varron, cité par Probus, ad Verg. Bue. VI, 31; cf. R. Schilling, op. cit., p. 1974.
87 De Nat. Deor. II, 68.
88 La religion des Etrusques, p. 670.
1 52 LES PÉNATES PUBLICS

quod omnia pariter repromittunt, nomen eis consenîione perfecit89.


Dans la classification des dieux étrusques proposée par Martianus Ca-
pella, les Pénates occupent hiérarchiquement la première place (praeci-
pue), ce qui semble confirmé par le fait qu'ils constituent une sorte de
sénat (senatores deorum). Les autres informations apportées ici
rappellent celles qu'Arnobe affirme avoir tirées de Varron, en particulier la
notion de Penates Consentes et Complices, exprimée ici par le substantif
consentione, et l'idée qu'ils sont spécialement attachés à la personne de
Jupiter. A ce propos, on peut du reste se demander si le mot Consentes
exprime le fait qu'ils agissent toujours en accord entre eux, ou en
accord avec Jupiter, question à laquelle on peut répondre en référence
avec le rôle que jouent ces mêmes dieux dans la théorie des foudres,
empruntée par Sénèque et Pline à une même source, Caecina; nous
citerons ici ce qu'en dit J. Heurgon90: «Sénèque, d'après Caecina (Q.N.
2, 41), Arnobe (3, 40) et Martianus Capella (1, 41) font mention des duo-
decim dei, dii Consentes et Complices, summi louis consiliarii, au Sénat
desquels Jupiter fait appel lorsqu'il lance sa seconde manubia, c'est-à-
dire les foudres intermédiaires entre les moins graves, dont il dispose
de lui-même, et les plus dévastatrices, qu'il ne lance qu'après avoir pris
l'avis des dei superiores et inuoluti». La théorie des foudres donne donc
à entendre que Consentes doit se comprendre comme «en accord avec
Jupiter». Cela s'explique d'autant mieux d'ailleurs que Martianus
Capella joint aux Pénates, senatores deorum, Vulcain, qualifié de Iouialis,
dont les relations avec la foudre sont évidentes. Mais d'autre part, cette
théorie présente une difficulté par rapport à celle que nous avons citée
plus haut, selon laquelle les Pénates étaient les premiers dieux dans
l'ordre hiérarchique, puisque ce rang appartient, chez lui, aux dei
superiores et inuoluti. Enfin, et c'est là un point commun avec ce que dit
Varron, non point des Di Consentes étrusques, mais, nous l'avons vu,
des Pénates romains91, ils sont toujours désignés collectivement, et,
pourrait-on dire, fonctionnellement, mais leur nom individuel reste

89 Op. cit., I, 41 : «Et bientôt le secrétaire de Jupiter reçoit l'ordre de réunir les
habitants du ciel en fonction de leur rang et d'un protocole réglé, et en premier lieu les
sénateurs des dieux, qui étaient considérés comme les Pénates du Dieu Tonnant en personne,
et à qui, du fait que le secret céleste ne permet pas de publier leur nom, il donne un nom
venu du fait qu'ils agissent en accord, car ils promettent les choses tous en même
temps. »
90 Varron, Economie rurale I, C.U.F., Paris, 1978, commentaire, p. 94.
91 Ap. Arnobe III, 40.
LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES 153

caché. Dans la suite du texte92, Martianus Capella indique que le ciel


est divisé en seize régions, dont les dei Consentes Penates occupent la
première, division dont certains érudits se sont efforcés d'étudier la
correspondance avec celle du foie de Plaisance; nous n'insisterons pas
sur ce problème, qui dépasse le cadre de la présente étude93. J. Heur-
gon souligne très justement que ces termes, et les explications qu'en
donnent les savants latins, ne peuvent être que des approximations de
termes étrusques inconnus. «Les dei consentes d'Arnobe et de
Martianus Capella ne sont que la projection, dans la théorie étrusque, de ce
qu'ils comprenaient et assimilaient à la leur»94.
On voit donc que les spéculations des érudits anciens sur les
Pénates offrent, à mesure que l'on avance dans le temps, une complexité,
pour ne pas dire une confusion, de plus en plus grande. L'histoire de
nos dieux, dont nous trouvons les premiers éléments chez Cassius
Hemina, s'organise progressivement autour de la légende des origines
troyennes de Rome; leur identité, en revanche, paraît avoir fait
difficulté depuis Varron. On a le sentiment que, leur essence échappant aux
savants anciens, ces derniers cherchent à les définir soit d'après les
épisodes de leur histoire (confusion avec les Grands Dieux de Samothrace,
identification avec Neptune et Apollon constructeurs des murailles de
Troie), soit en les insérant dans des systèmes théologiques
(identification à la Triade Capitoline, théorie des Pénates étrusques). Dans la
confusion et les contradictions des théories antiques au sujet des
Pénates, la critique moderne a eu beaucoup de peine à mettre de l'ordre.

92 i, 45.
93 Voir résumé des doctrines, et discussion in G. Dumézil, La religion des Etrusques,
p. 670-76; A. Pfiffig, op. cit., p. 121-127.
94 Loc. cit. ; G. Dury-Moyaers, Enée et Lavinium. A propos des découvertes
archéologiques récentes, Coll. Latomus, vol. 174, Bruxelles, 1981, p. 194.
PREMIÈRE SECTION

LAVINIUM
INTRODUCTION

Oppidum quod primum conditum in Latto stirpis Romanae, Lavi-


niufn : nam ibi dii Penates nostri. Cette phrase de Varron1 servira de
point de départ à notre enquête sur les Pénates publics et justifiera
l'ordre de notre exposé. Elle affirme en effet l'antériorité de Lavinium par
rapport à Rome et d'ailleurs à tout établissement romain dans le
Latium, supposant ainsi que les Pénates honorés à Lavinium, non
seulement par les habitants de la ville, mais par les Romains eux-mêmes,
sont bien ceux de Rome. Lavinium comme cité-mère de Rome,
métropole religieuse, où les Romains vénèrent, dans le berceau, le foyer de
leur race, les dieux qui symbolisent la patrie, telle est la définition
donnée par Varron d'une cité qui, de son temps, n'était plus qu'une
modeste bourgade des environs de Rome, sans rôle politique2.
L'importance considérable que revêt néanmoins Lavinium aux
yeux des Romains est attestée pour nous par deux séries de
témoignages. D'une part, à l'époque classique, la légende des origines troyennes
connaît un développement littéraire qui met Lavinium au premier plan
comme lieu du débarquement d'Enée et comme premier établissement
en Italie du héros troyen dont les descendants, plus ou moins lointains
selon les versions de la légende, fonderont Rome. C'est à l'emplacement
de la future Lavinium qu'Enée installera enfin les Pénates arrachés à la
destruction de Troie et emportés par Anchise dans les navigations des
survivants troyens. D'autre part, deux faits au moins dans les
institutions romaines témoignent de l'attachement de Rome à Lavinium : ce
sont le sacrifice annuel des magistrats romains dans cette ville lors de

1 De L.L., V, 144.
2 La décadence de Lavinium, sensible dès le IIe siècle av. J.-C. dans les sanctuaires
et dans l'architecture civile, semble avoir été un mouvement irréversible, dont on peut
suggérer des explications variées : C. F. Giuliani, dans Enea nel Lazio. Archeologia e mito,
Catalogue de l'Exposition, Rome, 1981, p. 166.
158 LES PÉNATES PUBLICS

leur entrée en charge et le renouvellement annuel du traité d'alliance


entre Rome et Lavinium.
Pour mener à bien cette étude, nous disposons d'une abondante
documentation littéraire : les poètes et les historiens, grecs et latins, ont
souvent raconté ou évoqué la fuite d'Enée et son arrivée en Italie. Par
ailleurs, nous avons un certain nombre de témoignages
iconographiques représentant la fuite d'Enée, sur la Tabula Iliaca du Musée du
Capitole notamment, ou son établissement au Latium, comme sur un
bas relief de l'Ara Pacis. Mais jusqu'à ces dernières années, il existait
une évidente disproportion entre la richesse de la documentation
littéraire et iconographique (cette dernière n'avait pas été trouvée sur
l'emplacement supposé de Lavinium), et la rareté des témoignages
archéologiques du site ancien de la ville, l'actuel village de Pratica di Mare. Or
depuis les années 1960, grâce aux résultats des fouilles menées à
Pratica di Mare par Ferdinando Castagnoli et Paolo Sommella3, nous
disposons de témoignages archéologiques abondants, qui n'ont du reste
pas encore livré tous leurs secrets : ce sont notamment, pour ce qui
touche directement à notre sujet, la tombe archaïque d'époque orientali-
sante désignée comme l'«Hérôon d'Enée», et les treize autels qui se
trouvent non loin d'elle, dont la destination et la signification ne sont
pas parfaitement expliquées à ce jour; le nombre élevé de ces autels,
l'abondance du matériel votif trouvé dans leurs alentours semblent
bien attester la présence d'un culte fédéral important; enfin, on a
trouvé au pied de l'un des treize autels une lamelle de bronze portant une
dédicace à Castor et Pollux, divinités souvent assimilées aux Pénates.
Aussi Lavinium nous apparaît-elle aujourd'hui comme «une petite
et véritable Delphes du Latium antique», selon l'expression de Jacques
Heurgon4; les découvertes archéologiques confirment les dires des
Anciens sur l'importance de Lavinium, mais aussi sur l'ancienneté de
cette cité : l'«Hérôon d'Enée» présente deux phases de construction : la

3 Les résultats des fouilles ont été publiés dans deux ouvrages majeurs : F.
Castagnoli, Lavinium I : Topografia generale, fonti e storia delle ricerche, Rome, 1972; F.
Castagnoli, L. Cozza, M. Fenelli, M. Guaitoli, A. La Regina, M. Mazzolani, E. Paribeni, F. Picar-
reta, P. Sommella, M. Torelli, Lavinium II : Le Tredici Are, Rome, 1975. Les éléments
nouveaux fournis par le site de Pratica di Mare ont naturellement donné lieu à de
nombreuses publications que nous signalerons le moment venu.
4 La Magna Grecia e i santuari del Lazio, in La Magna Grecia e Roma nell'età arcaica,
Atti dell'ottavo convegno di studi sulla Magna Grecia, (Tarente, octobre 1968), Naples,
1969, p. 11.
LAVINIUM 1 59

construction la plus récente, qui date du IVe siècle, a été refaite sur un
édifice du VIIe siècle dont il reste encore des traces; les treize autels ont
été édifiés du VIe au IVe siècle; la dédicace à Castor et Pollux date du
VIe siècle.
Mais les fouilles récentes de Lavinium, ainsi que celles qui ont été
menées parallèlement dans d'autres cités du Latium, et à Rome même,
nous conduisent aussi à envisager sous un jour nouveau le problème de
l'influence grecque dans le Latium. En effet, la présence de la légende
d'Enée à une époque ancienne à Lavinium, l'architecture des treize
autels, fortement influencée, nous le verrons, par les modèles grecs, et
l'attestation d'un culte à Castor et Pollux, héros venus de Grèce,
montrent des liens très forts entre la Grèce, ou la Grande-Grèce, et le
Latium, dès les VII et VIe siècles. Or, on considérait jusqu'à présent que
l'influence de la Grèce sur le Latium s'était exercée essentiellement par
l'intermédiaire des Etrusques5. Les découvertes archéologiques
récentes, à Lavinium notamment, tendent à prouver plutôt que les Latins ont
reçu directement les importations grecques, ou du moins avec la
Grande-Grèce pour médiateur, diminuant par là même le rôle que l'on
attribuait auparavant à l'Etrurie dans l'élaboration de la civilisation
latine6. C'est donc en tenant compte de ces données nouvelles qu'il nous
faudra éclairer l'apparent paradoxe par lequel Enée, héros troyen issu
des poèmes et légendes grecs apportés au Latium, y aurait établi les
Pénates, dieux spécifiquement latins et sans équivalent dans la religion
grecque.

5 Voir par exemple J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion


romaine, p. 120-127.
6 Cette opinion devra être nuancée, car il existe des témoignages attestant la
présence de la légende d'Enée en Etrurie dès le Ve siècle, notamment une amphore de Vulci,
datée de cette époque (voir ci-dessous, p. 201-2).
CHAPITRE I

ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA

Dans le récit que fait Virgile de l'arrivée d'Enée en Italie, nous


voyons le héros troyen débarquer sur un rivage proche de
l'emplacement de la future Lavinium, et installer là les dieux Pénates arrachés
aux ruines de Troie :
«Salue fatis mihi debita tellus
uosque», ait, «o fidi Troiae saluete pénates :
hic domus, haec patria est»1.

Cette installation vérifie d'ailleurs pleinement les prédictions faites


à deux reprises à Enée, par les Pénates eux-mêmes2 et par Anchise3,
et ce sont ces divinités venues de Troie que les Romains honorent à
Lavinium, mère de Rome et centre religieux du Latium.
Cette version de la légende d'Enée au Latium, largement
popularisée par l'œuvre de Virgile, a connu un développement littéraire qui a
orienté les études faites sur Lavinium : la venue au Latium d'Enée,
porteur des Pénates troyens, a en effet été associée à l'ensemble du
problème des origines troyennes de Rome. Or, il nous semble, comme il a déjà
été noté par G. Moyaers4, après F. Castagnoli5, qu'il est possible de
dissocier de cette question d'ensemble celle du transfert des Pénates
par Enée, que nous proposons d'étudier à présent. Les découvertes
archéologiques récentes ont en effet montré qu'il existe une légende
spécifiquement lavinate d'Enée, même si elle a par la suite été reprise

1 En. VII, 120-122: «Salut, terre que me devaient les destins et vous aussi, dit-il,
salut, fidèles Pénates de Troie : ici est ma maison, ici ma patrie» (Trad. J. Perret, C.U.F.,
Paris, 1978).
2 En. III, 163 sq.
3 En. VII, 122-127.
4 Enée et Lavinium, RBPh, 55, 1977, p. 21 sq.
5 Lavinium I, Rome, 1972, p. 96.
1 62 LES PÉNATES PUBLICS

et utilisée dans une optique romaine6. Les fouilles menées à Pratica di


Mare nous révèlent une occupation très ancienne du site, à peu près
contemporaine de la date assignée par la légende et l'histoire à l'arrivée
d'Enée7. Nous essaierons de montrer ici l'évolution de la tradition
relative au transfert des sacra, depuis les plus anciens témoignages
jusqu'à l'époque d'Auguste.

I - Les sources littéraires

Du transport des Pénates par Enée, nous avons de nombreuses


attestations littéraires et iconographiques. Examinons d'abord les
témoignages littéraires8.

1) Enée dans la littérature grecque antérieure au IIIe siècle avant J.-C.

Dans l'Iliade9, un glorieux avenir est promis à Enée, puisque lui-


même et ses descendants régneront sur les Troyens, mais il n'est
question ni de l'Italie, ni des ίερά qu'Enée emportera de Troie. Dans la
Théogonie d'Hésiode10, le nom d'Enée et une allusion, géographique-
ment très imprécise d'ailleurs, au Latium, se trouvent rapprochés, mais
pas véritablement mis en relation. Il s'agit d'une interpolation que l'on
date, à la suite de Wilamowitz, du VIe siècle11 et où il n'est fait aucune
allusion à un quelconque transfert des ίερά par Enée. De même, dans
l'Hymne homérique à Aphrodite, que J. Humbert12 date d'entre 630 et
610, Enée doit régner sur Troie13, ce qui doit être mis en rapport avec

6 Cf. F. Castagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, Stud Rom, 30, 1982, p. 15.
7 Cf. G. Dury-Moyaers, Enée et Lavinium, A propos des découvertes archéologiques
récentes, Coll. Latornus, vol. 174, Bruxelles 1981, p. 99-127.
8 G. Dury-Moyaers {op. cit., p. 33-94) a donné une revue très complète des textes
littéraires concernant Enée, jusqu'à Virgile; pour notre part, nous avons plus
particulièrement étudié les textes ayant trait au transfert des sacra.
9 XX, 307-308: «C'est le puissant Enée qui désormais régnera sur les Troyens -
Enée, et avec lui, tous les fils de son fils qui naîtront dans l'avenir» (trad. P. Mazon,
C.U. F., Paris, 1938). Cf. N. Horsfall, Some problems in the Aeneas legend, CQ, 29, 1979,
p. 372-390.
10 1008-1016.
11 Cf. G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 38-45.
12 Hymnes, C.U.F., Paris, 1936, p. 144-146 et 146 n. 1.
13 196-197.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 163

le fait que les rois de Troade prétendaient descendre d'Enée14. Il n'est


pas question, avant le VIe siècle, du voyage d'Enée en Occident. C'est
peut-être dans Yllioupersis de Stésichore, au VIe siècle, que nous
trouvons pour la première fois le thème légendaire du voyage d'Enée vers
l'Occident, et celui du transport des ίερά. C'est la première fois aussi
que ces deux thèmes sont associés15. Cette œuvre ne nous est pas
connue directement, mais seulement par l'illustration qu'en aurait faite
Théodoros, sculpteur que l'on s'accorde généralement à dater de
l'époque augustéenne, sur la Tabula Iliaca conservée au Musée du
Capitole16, mais la fidélité de l'image à son modèle littéraire a été très
vivement contestée; nous laisserons pour l'instant de côté tous les
problèmes posés par l'étude iconographique de la Tabula elle-même, que nous
étudierons avec l'ensemble des représentations figurées du transfert
des sacra, nous limitant ici à la question suivante : dans quelle mesure
ce relief, sur lequel on peut lire l'inscription 'Ιλίου Πέρσις κατά Στη-
σίχορον nous donne-t-il un reflet fidèle du poème de Stésichore, dont il
est pour nous le seul écho? Stésichore, connu par ailleurs par des
citations et des fragments, a vécu au VIe siècle, semble-t-il, à Himère17. La
Tabula Iliaca du Musée du Capitole, dont la partie gauche manque,
présente, en son état actuel, l'illustration de plusieurs poèmes épiques :
l'Iliade, la Petite Iliade, YEthiopide, et Yllioupersis de Stésichore, qui
occupe la place d'honneur, le panneau central18. Ce panneau est divisé
en plusieurs zones de haut en bas, qui offrent, dans ce même sens, une
sorte de déroulement chronologique : en haut, figurent, à l'intérieur de
l'enceinte des murs de Troie, différentes scènes du pillage de la ville;
juste en-dessous de la muraille, où s'ouvre la Porte Scée, on peut voir,
situés symétriquement, le tombeau d'Hector à gauche, celui d'Achille à
droite; et enfin, sous les tombeaux, le rivage, avec les vaisseaux des
Grecs rangés en une ligne courbe d'un côté, l'embarquement d'Enée et
des siens de l'autre; des inscriptions permettent d'identifier un certain
nombre de scènes et de personnages.

14 G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 46.


15 Cf. N. Horfall, Some problems . . ., p. 375-76.
16 A. Sadurska, les Tables Iliaques, Varsovie, 1964, p. 24-37; N. Horsfall, ibid.; F.
Castagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, p. 8.
17 Cf. Maas, in R.E. Ill, A 2, s.u. Stesichoros ; G. Vallet, Rhegion et Zancle, Paris, 1978,
p. 257-259.
18 Cf. Ο. Jahn, Griechische Bildchroniken, Bonn, 1873, t. 1.
164 LES PÉNATES PUBLICS

La mise à sac de Troie occupe une place de choix sur la Tabula, et


le personnage d'Enée est lui-même au centre de cette Ilioupersis : il est
le seul à être représenté trois fois19. On le voit une première fois à
l'intérieur de la muraille de Troie, sur la gauche de la Porte Scée. Deux
personnages se font face, et ont chacun un genou fléchi; ils se
penchent l'un vers l'autre, les bras tendus vers l'avant soutenant un objet
assez volumineux, de forme oblongue; la scène est malaisée à
interpréter, car seul le personnage d'Enée, à gauche, est désigné par
l'inscription Αΐ,νήας; ni l'autre personnage, ni l'objet qu'il tient avec l'aide
d'Enée ne sont nommés. L'objet en question est fort probablement une
ciste contenant les ιερά qui sont confiés à Enée avant sa fuite; selon A.
Sadurska20, l'autre personnage serait Anchise remettant les Pénates à
son fils; pour J. Heurgon21, au contraire, il s'agirait d'un prêtre qui
confierait les ιερά à Enée. On peut rapprocher cette image du passage
de l'Enéide22 où Panthus, prêtre d'Apollon, portant dans ses bras les
sacra uictosque deos de Troie, se joint à Enée qui va tenter une dernière
résistance dans la citadelle. Cette interprétation du personnage comme
un prêtre nous paraît plus satisfaisante, le prêtre incarnant en quelque
sorte les dieux qui investissent Enée de sa mission religieuse,
symbolisée par la ciste sacrée; d'autre part, on ne voit pas pourquoi Anchise
remettrait la ciste à Enée à ce moment, alors que c'est lui-même qui la
tient dans les autres scènes où apparaissent le père et le fils.
Enée figure une seconde fois sur la Tabula, dans la Porte Scée.
Cette scène est placée, sur le relief, un peu en-dessous de la précédente, et,
comme nous l'avons indiqué, elle se situe ultérieurement dans le
déroulement de la chute de Troie. Elle représente en effet Enée quittant
l'enceinte de la ville par sa porte monumentale; il est conduit par
Hermès23, qui se tient sur sa gauche, porte sur ses épaules Anchise serrant

19 J. Heurgon, La Magna Grecia e i santuari del Lazio, Atti dell'ottavo convegno di


studi sulla Magna Grecia (Tarente, octobre 1968), Naples, 1969, p. 24.
20 Op. cit., p. 29.
21 Op. cit., p. 24.
22 En. II, 318-21; c'est d'ailleurs l'interprétation de N. Horsfall (Stesichorus at Bovil-
lae?,JHS, 90, 1979, p. 39).
23 Selon Naevius, cité par Servius-Daniel (Ad Aen. I, 170 = Barchiesi, fr. 11), Hermès-
Mercure aurait construit le bateau sur lequel s'enfuit Enée (cf. G. Dury-Moyaers, op. cit.,
p. 49 n. 94) = nouam . . . rem Naevius bello punico dicit, unam nauem habuisse Aeneam,
quant Mercurius fecerit. L'interpolateur présente donc ce détail comme une innovation de
Naevius.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 165

contre lui un récipient, et conduit Ascagne de sa main droite; tous ces


personnages sont nommés par des inscriptions. Derrière, au fond de la
porte, se tient un personnage féminin généralement identifié comme
Creuse, l'épouse troyenne d'Enée qui ne pourra s'enfuir avec lui. Enfin,
Enée apparaît une troisième fois, plus bas sur le relief, plus tard dans
le temps: c'est la scène de l'embarquement sur le rivage; quatre
personnages franchissent une passerelle qui va les conduire de la terre
ferme sur un vaisseau à la voile ferlée où sont installés des rameurs;
Anchise marche en tête, portant une ciste (τα ίερά, dit l'inscription),
soutenu par Enée qui vient immédiatement derrière lui et tient par la
main Ascagne; derrière eux s'avance Misène. Les différents
personnages et les ίερά sont nommés, et la scène dans son ensemble est désignée
par l'inscription suivante : Αίνήας σύν τοϊς ιδίοις άπαι[ρ]ών είς την Έσ-
περίαν.
La fidélité de la Tabula Iliaca au poème de Stésichore a été
fortement mise en doute par J. Perret, qui écrit : «l'hypothèse d'un emprunt
aux traditions contemporaines par le sculpteur de la Table Iliaque nous
paraît infiniment plus vraisemblable»24. L'argumentation de J. Perret
repose essentiellement sur l'interprétation la plus courante des mots είς
την Έσπεριαν d'une part, sur celle du personnage de Misène d'autre
part, tendant à accréditer la thèse selon laquelle Stésichore faisait venir
Enée en Italie centrale ou en Campanie. En effet, un certain nombre de
savants, dont E. Pais25, reconnaissent dans le personnage de Misène,
qui figure au côté d'Enée dans la scène de l'embarquement, celui qui
donna son nom au promontoire de Campanie; l'objet à pointe
supérieure triangulaire qu'il porte appuyé sur l'épaule gauche serait une
trompette; la présentation de Misène comme trompette d'Enée, que l'on
trouve chez Virgile, serait donc déjà présente chez Stésichore. J. Perret
s'est efforcé de montrer l'impossibilité de cette thèse avec des
arguments que nous résumons ici26. Tout d'abord, l'usage de la trompette
de guerre n'existant pas chez Homère, ni, selon les Anciens, au temps
de la Guerre de Troie, Stésichore aurait commis là un gros
anachronisme. D'autre part, chez Timée et Polybe, Misène n'est pas le trompette,
mais un simple compagnon d'Enée que rien ne différencie des autres,
et, selon J. Perret, il faut sans doute dater de César sa transformation

24 Les origines de la légende troyenne de Rome, Paris, 1942, p. 309.


25 Storia critica di Roma, I, Rome, 1913, p. 235.
26 Op. cit., p. 111-112.
166 LES PÉNATES PUBLICS

en trompette, transformation à laquelle se conformera Virgile. Enfin,


J. Perret réfute l'hypothèse selon laquelle le sculpteur du relief aurait
emprunté le personnage de Misène à l'Enéide parce que Stésichore,
dans son poème, faisait venir Enée en Campanie27. Si les Grecs de
l'Italie méridionale ont eu, à coup sûr, des relations avec la Campanie au
VIe siècle, ces échanges, estime-t-il, ne sont pas suffisamment
importants pour expliquer l'implantation du personnage d'Enée en
Campanie; de plus, la légende troyenne, entre le VIe et le IIe siècle, n'a connu
aucune illustration en Campanie, ce qui rend peu plausible qu'elle ait
été présente chez Stésichore; enfin, dans la spéculation erudite
romaine, qui, à partir du IIe siècle avant J.-C, recherche dans la littérature
antérieure des traces de la légende des origines troyennes de Rome, nul
n'a jamais mentionné Ylîioupersis de Stésichore.
A l'exact opposé de J. Perret, A. Sadurska, au terme d'une étude
détaillée du relief et des interprétations qui en ont été données, conclut
que ce dernier peut bien être «la source . . . d'une reconstitution du
poème de Stésichore»28. En particulier elle remarque29 que Misène ne
porte pas sur le relief la trompette que lui attribue Virgile, mais une
rame, que le poète mettait aux mains de Palinure. Aussi J. Heurgon30,
reprenant l'argumentation d'A. Sadurska, affirme-t-il que «Stésichore
avait conçu son Ilioupersis comme une petite Enéide, dans laquelle les
ιερά étaient transportés vers une nouvelle Troie, qui n'était
naturellement pas encore Rome, mais qui devait être en Campanie».
Récemment, la fidélité de la Tabula Iliaca au poème de Stésichore
a été violemment contestée par N. Horsfall31. Ses arguments essentiels
sont les suivants. Le panneau de gauche du relief, sur lequel on voit un
personnage (sans doute, nous l'avons dit, un prêtre) remettre à Enée un
récipient cylindrique, semble une exacte illustration d'un passage de
Virgile32. En bas à droite du relief, le mot Εσπερία que contient
l'inscription est suspect : il ne peut, selon N. Horsfall, s'être trouvé chez

27 Op. cit., p. 306-309.


28 Op. cit., p. 34.
29 Op. cit., 29 et 33.
30 Op. cit., p. 26.
31 Stesichorus at Bovillae? passim; F. Castagnoli {La leggenda di Enea nel Lazio,
p. 7-8) reprend à son compte cette position.
32 En. II, 318-21.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 1 67

Stésichore33, car il apparaît pour la première fois à l'époque


hellénistique34; d'autre part, Misène n'a été présenté comme un compagnon
d'Enée et un joueur de trompette que chez les antiquaires romains;
enfin, la scène centrale, qui montre le départ d'Enée portant Anchise
sur son épaule gauche, lequel serre contre lui une ciste contenant les
sacra n'est pas d'inspiration grecque : d'une part, la position d'Enée et
d'Anchise est différente de ce que l'on en voit dans l'iconographie
grecque du thème35, d'autre part, ce thème du transfert des sacra apparaît
pour la première fois avec certitude, selon N. Horsfall, chez Hellanicos
cité par Denys d'Halicarnasse36, tandis que la combinaison de ce thème
avec celui de la venue d'Enée en Italie ne se trouve sûrement attestée
qu'à partir de Varron; enfin, l'importance donnée au personnage
d'Enée, dont J. Heurgon37 pense que la destinée est l'un des thèmes
principaux du relief, est spécifiquement romaine, et s'explique
aisément par le rôle assigné, dans la légende des origines troyennes de
Rome, au héros et à ses descendants, à des fins de propagande
politique soutenant les prétentions de la Gens Iulia. N. Horsfall conclut que
le relief semble être une illustration, bien plutôt que du poème de
Stésichore, de l'Enéide.
Nous voudrions ici présenter quelques objections à la thèse de
N. Horsfall. G. Dury-Moyaers38, au terme d'une étude très précise de
l'emploi du mot 'Εσπερία et de ceux de la même famille, conclut : «II
serait fort étonnant que le terme n'ait pas existé avant l'époque
hellénistique (Apollonius) alors que, selon Denys, «Hespéria» est le plus
ancien nom par lequel les Grecs ont désigné l'Italie39. La présence de

33 Pour S. Mazzarino, au contraire, (// pensiero storico I, Bari, 1958, p. 587 η. 1), il
n'est pas douteux que ce mot, qui désignait «l'Occident», n'ait figuré dans le poème de
Stésichore.
34 G. K. Galinsky (Aeneas, Sicily and Rome, Princeton, 1969, p. 106 sq.) avait déjà
souligné ce fait.
35 Voir infra p. 196 sq.
36 I, 47, 6 et 48, 1.
37 Op. cit., p. 24.
38 Op. cit., p. 52. Au contraire, une position prudente est adoptée sur ce point par H.
Boas (Aeneas arrival in Latium, Amsterdam, 1938, p. 14). Enfin, selon G. Vallet (op. cit.,
p. 272 n. 5), « le nom d'Hespérie . . . désignait au temps de Stésichore la partie de l'Italie
qui s'étendait au-delà du monde habité par les Grecs».
39 T. J. Cornell (Aeneas'arrival in Italy, Liverpool Classical Monthly, 2, 1977, p. 77)
admet aussi que la tradition de la venue d'Enée en Occident puisse remonter à
Stésichore.
168 LES PÉNATES PUBLICS

Misène aux côtés d'Enée ne nous paraît guère une preuve convaincante
non plus : d'une part, il existait une tradition associant les aventures
d'Enée et d'Ulysse en Italie, notamment chez Hellanicos, où ils sont les
fondateurs de Rome, ce qui expliquerait la présence de Misène ici;
d'autre part, comme le note J. Heurgon40, pourquoi le sculpteur aurait-
il emprunté à Virgile ce personnage tout à fait secondaire, s'il ne s'était
pas trouvé chez Stésichore? Enfin, il nous semble un peu arbitraire de
dire que le thème du transfert des sacra ne pouvait se trouver chez
Stésichore, alors que la première mention en est faite par Hellanicos cité
par Denys d'Halicarnasse. Il n'y a pas plus de raison qu'il se soit trouvé
chez Hellanicos que chez Stésichore, et, de surcroît, si l'on met en
doute la fidélité de Théodoros à l'œuvre de Stésichore, en alléguant des
raisons de propagande politique, la même démarche peut aussi
s'appliquer au résumé que nous donne Denys des Troika d'Hellanicos41. En
réalité, il ne nous paraît pas impossible que ces deux thèmes aient été
présents dans l'Ilioupersis de Stésichore. Il existe au VIe siècle de forts
courants d'échanges entre l'Italie méridionale et la Campanie toute
proche42. Or, certaines villes de Grande-Grèce ou de Sicile sont des
fondations chalcidiennes43, et notamment Zancle, qui elle-même fonda
Himère44, patrie probable de Stésichore. La légende d'Enée était
connue dès cette date en Chalcidique, ainsi que l'atteste une monnaie
représentant la fuite d'Enée avec son père et son fils, frappée à Aineia,
cité supposée fondée par Enée, et qui porte son nom45. La légende
d'Enée a dû venir de Chalcidique dans les colonies d'Italie méridionale
et de Sicile, et d'autre part Γ« Occident» mentionné dans le titre donné
à la scène de l'embarquement d'Enée sur le relief peut fort bien
désigner la Campanie étrusquisée du VIe siècle, puissante voisine de la
Grande-Grèce que Stésichore ne pouvait sans doute ignorer. De sur-

40 Op. cit., p. 26.


41 Bien que N. Horsfall (Some problems . . ., p. 377) affirme que Denys cite
probablement le texte d'Hellanicos lorsqu'il parle de τα εθη των θεών qu'emporte Enée, l'examen
attentif du texte de Denys montre qu'il attribue cette version des aventures d'Enée -
escale à Pallènè notamment - à Hellanicos entre autres, mais, hormis ce point essentiel,
absent du récit d'autres voyages d'Enée faits par d'autres historiens, il n'est pas certain
que tous les détails donnés par Denys soient empruntés à Hellanicos.
42 Cf. J. Heurgon, op. cit., p. 17 sq.
43 J. Bérard La colonisation grecque de l'Italie méridionale de la Sicile dans
l'Antiquité, Paris, 1957, p. 68-108.
44 Op. cit., p. 240 sq.
45 Voir ci-dessous, p. 197.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 169

croît, comme le note J. Heurgon46, le promontoire de Misène devait


être fort bien connu des marins de Chalcidique, dont les récits ont pu
être portés à la connaissance de Stésichore. Evidemment, il ne s'agit
que d'une hypothèse, comme le rappelle G. Vallet : «II est possible que
la venue d'Enée en Occident soit le fait tardif du scupteur . . ., mais il
est possible aussi qu'il y ait là une donnée remontant à Stésichore»47.
Nous avons vu d'ailleurs que dans le passage interpolé de la Théogonie,
daté du VIe siècle, il est question, tout de suite après la mention de la
généalogie d'Enée, de la domination des enfants d'Ulysse et de Circé
sur «le pays des illustres Tyrrhéniens». Quant au thème du transfert
des sacra, il peut aussi s'être trouvé dans le poème de Stésichore, dans
la mesure où il est l'expression de l'un des caractères du personnage
d'Enée présent déjà chez Homère, sa piété envers les dieux48.
Toutefois, si l'on accepte de voir dans le relief une illustration fidèle de
l'Ilioupersis de Stésichore, il faut admettre que le poète d'Himère a
innové dans la combinaison de ces deux thèmes. S. Mazzarino, insistant
sur le côté novateur de l'œuvre de Stésichore49, considère qu'il peut
s'agir là d'une innovation du poète; elle irait à l'encontre de la tradition
issue d'Homère, que l'on trouve notamment chez Sophocle, selon
laquelle Enée serait le fondateur d'une nouvelle Troie en Asie Mineure, et
serait au contraire une version «occidentale» des aventures d'Enée,
mieux adaptée au public italiote et siciliote de Stésichore, qui voyait en
lui une sorte d'« Homère lyrique»50. Enfin, comme l'a fort justement
souligné G. K. Galinsky51, il serait assez surprenant que le sculpteur,
s'il a trahi l'œuvre de Stésichore, se soit expressément réclamé d'elle,
alors qu'elle était bien connue des contemporains.
Au demeurant, on peut fort bien admettre que tous les détails du
relief ne viennent pas de Stésichore. Il se peut, notamment, que
l'insistance mise sur le thème des sacra s'explique par le souci de propagande
dynastique de la Gens Iulia. Peut-être en effet la scène au cours de
laquelle un prêtre remet la ciste sacrée à Enée a-t-elle été inspirée à

46 Op. cit., p. 24.


47 Op. cit., p. 272.
48 //. XX, 298-99 : (Enée) « qui offre toujours d'agréables présents aux dieux maîtres
du ciel» (trad. P. Mazon, C.U.F., Paris, 1957). N. Horsfall {Some problems. . ., p. 372) lui
reconnaît ce caractère chez Homère.
49 Op. cit., p. 587 n. 190.
50 Op. cit., p. 206.
51 Op. cit., p. 107-108.
170 LES PÉNATES PUBLICS

l'artiste par l'Enéide. Quant au type iconographique selon lequel est


représenté Enée portant Anchise, A. Sadurska le date précisément du
dernier quart du Ier siècle av. J.-C.52. Toutefois, il est remarquable que,
plus qu'au personnage d'Enée troyen, ces trois figurations du héros
fassent allusion à son destin futur. La seconde et la troisième scènes (la
Porte Scée, le rivage) représentent les différentes étapes de son départ.
En liaison avec ce thème du départ d'Enée, les trois scènes où le héros
apparaît suggèrent sa mission religieuse et historique. On trouve bien
ici les thèmes essentiels de la légende d'Enée : la piété filiale envers
Anchise; la mission, dont il est investi, de fonder une race nouvelle,
symbolisée par Ascagne; le transport des ίερά qui assureront la
continuité religieuse entre Troie et la ville qu'Enée va fonder en Occident.
C'est bien finalement ce transfert des ίερά, comme le souligne J. Heur-
gon53, qui apparaît comme constamment lié au personnage d'Enée sur
la Tabula Iliaca, et donc probablement aussi dans le poème de Stésicho-
re qu'elle illustre. Le relief témoigne sans doute de l'intention d'établir
l'ascendance troyenne de la Gens Iulia, et a dû être exécuté à l'époque
d'Auguste, à un moment où la légende des origines troyennes prenait
toute son importance54. Sans doute ne peut-on tout à fait écarter, de la
part du sculpteur, des intentions de propagande dynastique, mais elles
ne témoignent pas contre la thèse de la fidélité du relief à l'œuvre
littéraire. Plutôt que de soutenir que, pour glorifier la Gens Julia, cet artiste
a trahi le poème de Stésichore, il nous paraît plus vraisemblable de
penser qu'il a choisi d'illustrer ce texte précisément parce qu'il servait
son propos.
Aux siècles suivants, des auteurs grecs parlent de la venue d'Enée
en Italie; Denys d'Halicarnasse a rassemblé leurs témoignages dans ses
Antiquités Romaines55, à propos de l'identité du fondateur de Rome,
dans une série qui semble chronologique. Parmi eux, les témoignages
les plus anciens sont ceux de Damastes de Sigée et d'Hellanicos dans
l'Histoire des Prêtresses d'Argos56; ces deux historiographes du Ve siècle,

52 Op. cit., p. 33 : A. Sadurska compare cette image à la description donnée par


Ovide (Fastes V, 563-64) du groupe de marbre qui ornait le Forum d'Auguste; voir infra
p. 206.
53 Op. cit., p. 25.
54 Cf. A. Sadurska, op. cit., p. 35.
55 I, 72.
56 Cf. G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 53 sq. ; pour les relations entre Damastes et
Hellanicos, cf. S. Mazzarino, op. cit., p. 203-7.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 171

les premiers dans la littérature, ont parlé de l'arrivée d'Enée au Latium


en termes sans équivoque. En effet, à propos d'Hellanicos et d'autres
auteurs, Denys affirme : Αίνείαν φησίν . . . είς Ίταλίαν έλθόντα. C'est la
première mention de l'Italie comme terme du voyage d'Enée, et Denys
ajoute que, selon ces auteurs, Enée est le fondateur de Rome, ce qui
situe plus précisément son débarquement dans le Latium. Le texte de
Damastes n'est pas cité; Denys écrit simplement: ομολογεί δ' αύτω
(= Hellanicos). Nous n'insisterons pas davantage ici sur ces
témoignages, car il n'y est pas expressément question des ίερά apportés par Enée
de Troie au Latium57.

2) Le IIIe siècle

Ensuite, ce n'est qu'au IIIe siècle, avec Timée, que nous trouvons à
nouveau dans la littérature grecque une illustration de la légende
italienne d'Enée. Des différentes explications qui peuvent être avancées
pour cette éclipse de deux siècles, nous ne mentionnerons que celle-
ci58 : aux Ve et IVe siècles, les contacts entre les Grecs et l'Italie
s'affaiblissent, mais sont rétablis au IIIe siècle du fait des conquêtes romaines.
Avec Timée59, nous avons pour la première fois un témoignage direct
sur le développement de la légende d'Enée en Italie, puisqu'il a eu
l'occasion de mener sur place une enquête auprès des indigènes : πυθέσθαι
δε αυτός ταΰτα έπί των έπιχωρίων. D'autre part, Timée est le premier
auteur, à notre connaissance, à rapporter expressément à Lavinium les
origines de la légende italienne d'Enée. Ce que l'on peut savoir du
personnage de Timée60 permet de mieux juger la portée de son
témoignage. Ce Sicilien, qui vécut la plus grande partie de sa vie en exil à
Athènes, qu'il admirait, écrivit à deux reprises sur Rome : une fois dans son

57 Pour le transfert des sacra chez Hellanicos d'après Denys, voir infra p. 490-3. Sans
évoquer le transfert des ιερά, Xénophon fait mention de la piété d'Enée envers son père,
qui lui valut la considération des Grecs : Αινείας δε σώσας, και αυτός τον πατέρα, δόξαν
ευσέβειας έξηνέγκατο ώστε και οί πολέμιοι μόνφ έκείνω ών έκράτησαν (Cyn. Ι, 15):
«Enée, pour avoir sauvé lui aussi son père, acquit un renom de piété, si bien qu'il fut le
seul des vaincus dans Troie à qui les ennemis permirent de n'être pas dépouillé de ses
armes» (trad. E. Delebecque, C.U.F., Paris, 1970).
58 Cf. G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 64-65.
59 Cité par Denys d'Halicarnasse, I, 67, 4.
60 Cf. A. Momigliano, Atene nel IH secolo a.C. e la scoperta di Roma nelle storie di
Timaeo di Tauromenio, RSI, 71, 1959, p. 529-556 = Terzo Contributo alla storia degli studi
classici e del mondo antico, Rome, 1966, I, p. 23-53.
172 LES PÉNATES PUBLICS

histoire de la Sicile, l'autre dans une histoire de la guerre contre


Pyrrhus; on ne peut savoir à laquelle de ces deux œuvres appartenaient les
fragments concernant Lavinium, qui ne nous sont connus que par le
témoignage de Denys. Ce n'est sans doute pas un hasard si Timée est
particulièrement bien informé sur cette cité, qui avait depuis plusieurs
siècles des contacts avec la Grèce et la Grande-Grèce, ainsi qu'en
témoignent les fouilles de Pratica61.
Timée a donc interrogé les habitants de Lavinium sur la nature des
dieux honorés dans leur cité sous le nom de «Pénates», et il en donne la
définition suivante : κηρύκεια σιδηρά και χαλκά και κέραμον Τρωικον
είναι τα έν τοΐς άδύτοις τοις έν Λαουϊνίω κείμενα ιερά62. Ni Enée, ni le
transport des Pénates par ce dernier ne sont mentionnés ici, mais on ne
saurait en conclure que Timée ignorait la légende de la venue d'Enée
en Italie. Ce fragment ne prend sa pleine valeur que replacé dans le
contexte où il est cité par Denys : ce dernier vient de parler des dieux
apportés par Enée de Troie à Lavinium (των θεών, ους Αινείας εκ της
Τρωάδος ήνέγκατο και καθίδρυσεν έν Λαουϊνίω)63, rappelle les
différentes appellations qui leur sont données en grec tandis que les Romains
les appellent «Pénates», et, enfin, mentionne la définition qu'en a
donnée l'historien grec Timée. Il est donc vraisemblable que, dans un tel
contexte, Denys ne cite que la partie la plus originale du témoignage de
Timée : l'enquête sur place et la description de ίερά mal connus et
mystérieux; les autres épisodes de la légende (arrivée d'Enée à Lavinium et
installation en cet endroit des dieux apportés de Troie) nous semblent
implicitement contenus dans la qualification de Τρωικόν, donnée à la
poterie, mais qui s'applique sans doute à l'ensemble des ιερά
mentionnés par Timée.
Au IIIe siècle, un autre écrivain grec, le poète Lycophron a évoqué
dans {'Alexandra l'arrivée d'Enée en Italie et le transfert des ίερά,
prophétisés par Cassandre. Le problème des rapports entre Timée et
Lycophron a été l'objet de longues controverses, en raison des incertitudes

61 Cf. E. Paribeni, Ceramica di importazione, in Lavinium II, Rome, 1975, p. 361-374;


la dédicace aux Dioscures trouvée près d'un des treize autels prouve également ces
contacts; cf. F. Castagnoli, Iscrizioni, in Lavinium II, p. 441-43.
62 In Denys d'Halicarnasse, I, 67, 4: «Les objets sacrés enfermés dans la partie
secrète du temple de Lavinium sont des caducées de fer et de bronze et de la poterie
troyenne ».
63 I. 67, 1 «Les dieux qu'Enée apporta de Troade et installa à Lavinium».
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 173

qui pèsent sur l'identité du poète et la datation de l'œuvre64. On


s'accorde à reconnaître que la plus grande partie de Y Alexandra est
inspirée par Timée, mais les vers 1226-1280, où Cassandre évoque le destin
d'Enée et la future naissance de Rome, ont pu faire douter que
Lycophron ait vécu au IIIe siècle, ou être considérés comme une
interpolation65. J. Perret66 estime impossible que le passage en question soit
inspiré par Timée (opinion fondée sur l'analyse des différences entre nos
deux auteurs sur des points très précis) et soutient que Lycophron s'est
appuyé sur le récit de Fabius Pictor, ce qui impose de dater le poète du
IIe siècle. Au contraire, J. Heurgon67 a pu montrer que, malgré le
caractère énigmatique de ces vers, lorsque Cassandre évoque, outre
l'avenir d'Enée, celui de Rome et de ses futures conquêtes, elle définit
les limites d'un état romain qui correspond très exactement à ce
qu'était ce dernier vers 274, date présumée de Y Alexandra. Il reste
difficile de déterminer la part de l'influence de Timée sur Lycophron, dont
T. J. Cornell68 estime qu'on ne peut rien dire, tandis que F. Castagnoli
la juge probable69. A. Momigliano70, qui considère les vers concernant
Enée et Rome comme authentiques et date l'ensemble du poème
d'avant 264, tout en reconnaissant les liens étroits existant entre Timée
et Lycophron, estime «impossible de dire dans quelle mesure précise
Timée et Lycophron se sont réciproquement influencés dans leur
jugement sur Rome».
Selon Lycophron, Enée débarque en Italie, où il va construire une
ville et y installer les images de ses dieux71 : «Au pays des Aborigènes,

64 Cf. J. Geffcken, Timaios' Geographie des Westens, 1892, p. 1 sq. Berlin.


65 Cf. J. Heurgon, Recherches sur l'histoire, la religion et la civilisation de Capone
préromaine, 2è éd., Paris, 1970, p. 279 n. 5 et 6 pour la discussion sur l'authenticité du
passage; cf. aussi G.Kinkel, Lycophronis Alexandra, Leipzig, 1880; C. von Holzinger, Lyko-
phron's Alexandra, Leipzig, 1893; G. W. Mooney, The Alexandra of Lycophron, Londres,
1921 ; A. W. Mair, Lycophron, Londres, 1969 (Loeb Classical Librairy).
66 Les origines de la légende troyenne de Rome, p. 346-366.
67 Op. cit., p. 279-283.
68 Aeneas and the Twins : The Development of the Roman Foundation Legend, PCPhS,
201, 1975, p. 22.
69 Enea nel Lazio. Archeologia e mito, Catalogue Exposition, Rome, 1981, p. 158.
70 Op. cit., p. 551-554.
τ' φκισμένην
71 V. 1253-1265
/ πύργους
: κτίσει δε χώραν έν τοϊς τόποις Βορειγόνων / υπέρ Λατίνους Δαυνίους
τριάκοντ'
έξαριθμήσας γονάς / συος κελαινής, ην άπ'Ίδαίων λόφων
/ και Δαρδανείων έκ τόπων ναυσθλώσεται, / ίσηρίθμων θρέπτειραν έν τόκοις κάρπων / ής
καί πόλει δείκηλον ανθήσει μια / χαλκφ τυπώσας και τέκνων γλαγοτρόφων / δεΐμας δέ
174 LES PÉNATES PUBLICS

sur les Latins et les Dauniens, il fondera une cité avec trente tours, en
nombre égal aux petits de la truie noire qu'il transporta sur son navire
depuis les hauteurs de l'Ida et le pays de Dardanus, et qui mit au
monde en une fois ce nombre de petits; dans une seule cité il placera son
image et celle des porcelets nourris de lait, façonnée en bronze; il
construira un sanctuaire à Myndia Pallènis et y installera les images des
dieux de sa patrie, que, négligeant femme, enfants, et tout le riche
ensemble de ses biens, il vénérera en même temps que son vieux père».
Le terme Βορειγόνοι72 désigne, selon T. Zielinsky73, «les peuples du
nord», qui sont, d'après ce texte74, les Latins et les Dauniens; J. Heur-
gon reconnaît dans ces derniers, à la lumière d'un texte de Denys d'Ha-
licarnasse, les Campaniens de l'est, et il note que l'ensemble de
l'expression désigne «par une anticipation hardie, un empire qui rassemblait
les Latins et les Campaniens». Quant à la «cité aux trente tours», dont
le nom n'est pas précisé, elle a donné lieu à diverses identifications;
J. Perret a proposé d'y reconnaître Albe et ses trente colonies75, mais
déjà R. H. Klausen76 avait suggéré qu'il s'agissait de Lavinium, ce que
confirment d'une part l'indication sur la présence d'une statue de
bronze de la truie miraculeuse, dont Varron77 nous dit qu'elle existait
encore de son temps sur le Forum de la cité78, d'autre part l'allusion, assez

δηκον Μυνδία Παλληνίδι / πατρώ' άγάλματ' έγκατοικιεϊ θεών, / α δη, παρώσας και δάμαρτα
καί τέκνα / και κτήσιν άλλην όμπίαν κειμηλίων / σύν τω γεραιω πατρί πρεσβειώσεται.
72 Cf. J. Heurgon, op. cit., p. 281; J. Perret, op. cit., p. 361-365.
73 Xenien der 40 sten. Versammlung deutscher Philologen, Munich, 1891, p. 41.
74 Pour lequel diverses corrections ont été proposées : cf. J. Heurgon, op. cit., p. 281
n. 5; G. D'Anna (Lycophron, Alex. 1254, in Studi in onore di A. Ardizzone, Rome, 1978,
p. 281-290) propose de lire «au-delà du Lacinio et des Dauniens», c'est-à-dire au nord de
la Calabre et des Pouilles (cité par F. Castagnoli, op. cit., p. 161 n. 8).
75 Op. cit., p. 350-351.
76 Aeneas und die Penaten, Hambourg-Gotha, 1839-40, p. 675 sq.; C. von Holzinger
{op. cit., p. 341) retient lui aussi cette identification; de même, G. W. Mooney, op. cit.,
p. 135.
77 Res Rusticae II. 4, 18.
78 Pour le commentaire sur la couleur de la truie aux trente porcelets, cf. C. von
Holzinger, loc. cit. ; A. W. Mair, op. cit., p. 424-425. D'autre part, A. Alföldi (Early Rome,
p. 272) souligne que la légende d'une truie miraculeuse est attestée dès le IIIe siècle à
Tuder, en Ombrie, sur une monnaie (A. Sambon, Les monnaies antiques de l'Italie, Paris,
1903, n° 156) où est représentée une truie avec trois porcelets; A. Alföldi rapproche cette
image des monnaies de Vespasien montrant la même scène, et estime que les trois petits
en représentent symboliquement trente; la truie mettant bas un grand nombre de porce-
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 175

obscure, aux trente tours, dont C. von Holzinger79 pense qu'elle


symbolise les trente cités de la Ligue latine à la tête de laquelle se trouva sans
doute à un moment Lavinium. Fait capital, c'est la première mention
dans la littérature d'un lien entre Enée et Lavinium, mais,
contrairement à ce que suggère G. K. Galinsky80, il nous paraît très probable
que ce lien existait déjà chez Timée : nous avons dit que la qualification
de Τρωικόν donnée par ce dernier à la poterie conservée dans d'adyton
du temple de Lavinium nous semblait suggérer implicitement une
relation entre Enée et la cité.
Le texte de Lycophron contient deux autres innovations, dont il est
difficile de préciser dans quelle mesure elles remontent à Timée, et,
peut-être, à travers lui, à une tradition locale lavinate, à côté d'éléments
déjà connus de la littérature antérieure : la piété d'Enée envers son père
et envers ses dieux, qu'il fait passer avant toute autre considération
familiale ou matérielle. La première de ces innovations est la
désignation comme πατρώ'άγάλματα θεών de ce qui, jusqu'au IIIe siècle, ne
nous est connu que par le terme vague de ίερά. Ces «images des dieux
de la patrie» que Lycophron met aux mains d'Enée lui ont-elles été
suggérées par Timée? Nous nous bornerons ici81 à constater l'apparente
divergence entre les indications données par les deux écrivains,
l'historien voyant dans les Pénates de Lavinium «des caducées de fer et de
bronze et de la poterie troyenne», tandis que l'expression αγάλματα
θεών, employée par le poète, suggère beaucoup plus vraisemblablement
des représentations anthropomorphiques. Avec Lycophron, c'est la
première fois que l'histoire des ίερά troyens est évoquée à peu près telle
que nous la trouverons chez Virgile : Enée installe au Latium, dans une
ville fondée par lui, les images des dieux de sa patrie. La seconde
innovation est le lien établi chez Lycophron entre les «images des dieux de
la patrie» d'Enée et Athéna à Lavinium, puisque c'est dans le
sanctuaire de la déesse qu'Enée installe ses dieux; ce témoignage est essentiel,
car il est non seulement la première, mais l'unique attestation littéraire

lets semble donc un thème légendaire d'Italie centrale, prodige qui est gage de prospérité
pour la cité dans laquelle il s'accomplit.
79 Loc. cit.
80 Op. cit., p. 141 : «II ne peut en aucune façon être montré que Lycophron a ici
utilisé comme source Timée».
81 Cette question sera reprise ci-dessous, p. 264 sq.
1 76 LES PÉNATES PUBLICS

d'un culte d'Athéna à Lavinium82. Or, il semble bien que les


découvertes de 1977 à Pratica di Mare apportent une confirmation, sinon d'un
lien entre les Pénates et Athéna, du moins de l'existence d'un important
sanctuaire de la déesse à Lavinium83, ce qui constitue peut-être une
preuve de la présence de traditions locales lavinates dans le poème de
Lycophron, et, par là-même, de sa dépendance par rapport à Timée,
dont nous savons par Denys qu'il s'était rendu à Lavinium. Avec Timée
et Lycophron, nous avons un aspect tout à fait nouveau d'Enée dans la
littérature grecque : aux données grecques de la légende s'ajoutent des
éléments latins, lavinates, réfléchis par les deux écrivains grecs.
Au IIIe siècle, la légende du transport des ίερά par Enée de Troie
au Latium apparaît dans la littérature latine naissante. Elle était sans
doute évoquée par Naevius au Livre I du Bellum Punicum, avec
d'autres éléments de la légende d'Enée. Il nous en est parvenu un fragment,
qui contient la première mention du mot Penates dans la littérature
latine :
Postquam auem aspexit in tempio Anchisa
sacra in mensa Penatium ordine ponuntur8*.

Bien que nous ne possédions pas le contexte de ces vers, on admet


généralement85 que la scène se situe au Latium. Sans doute Enée n'est-
il pas directement mentionné ici, mais nous trouvons dans ce passage
d'autres éléments caractéristiques du thème de la fuite du Troyen : la
présence d'Anchise (que toutes les versions de la légende ne font pas
arriver jusqu'au Latium), et la mention des Pénates, auxquels il
sacrifie; selon l'interprétation de M. Barchiesi, Anchise est présenté ici
comme un paterfamilias romain, offrant un sacrifice aux Pénates sur la
table même où étaient disposées les prémices du repas et où l'on dres-

82 C'est ce qui l'a rendu suspect à J. Perret (op. cit., p. 353) qui refuse, de ce fait,
l'identification de Lavinium comme «la cité aux trente tours».
83 Cf. F. Castagnoli, // culto di Minerva a Lavinio, Accademia Nazionale dei Lincei,
Quaderno 246; Enea nel Lazio, p. 187 sq. ; C. Bearzot Atena Itonia Tritonia e Iliaca, in
Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l'Oriente, Milan, 1982, p. 57-60; M. Torelli,
Lavinio e Roma. Riti iniziatici e matrimonio tra archeologia e storia, Rome, 1984, p. 19 sq.;
F. Castagnoli, Ancora sul culto di Minerva a Lavinio, BCACR, 90, 1, 1985, p. 7-12. '
84 Fr. 3 Barchiesi.
85 Pour le commentaire de ce passage, cf. M. Barchiesi, Nevio epico, Padoue, 1962,
p. 368 sq.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 1 77

sait de petites statuettes des dieux. Toutefois, nous l'avons vu86, on


peut comprendre aussi que mensa désigne la table des dieux, une sorte
d'autel domestique, interprétation, qui nous semble préférable, de
mensa associé au nom d'un dieu87. Mais surtout, comme chez Lycophron,
on a chez Naevius une allusion aux représentations des πατρώοι θεοί
venus de Troie. Il est remarquable que, dès les premiers témoignages
de la littérature latine, nous voyions désigner par le mot Penates les
sacra troyens88. Naevius fait jouer à Anchise un rôle que Virgile
attribuera à Enée lui-même, mais les caractères généraux de la scène sont
toujours les mêmes, à travers des variantes qu'il est impossible
d'attribuer à des sources précises. En effet, parallèlement à la mise en forme
littéraire, en grec ou en latin, que nous connaissons par les œuvres ou
fragments d'œuvres qui nous sont parvenus, il faut sans doute
supposer une vie de cette légende dans la tradition locale du Latium, parlée
ou peut-être écrite, avec les enjolivements éventuels que cela suppose.
L'absence de tout document nous empêche évidement de suivre la
genèse de cette formation.

3) La tradition annalistique

Chez Fabius Pictor, la légende de la venue d'Enée au Latium est


élaborée avec des préoccupations de concordance chronologique entre
la venue d'Enée et la fondation de Rome89, mais nous ne possédons
aucun fragment de l'annaliste se rapportant au transport des sacra. Il
en va de même pour ce que nous connaissons de l'œuvre d'Ennius : au
début des Annales, il est fait allusion à la légende de la venue d'Enée en
Italie, dans une contrée appelée par Ennius tantôt Hesperia90, tantôt
Saturnia terra91; mais, du moins en l'état où nous est parvenue l'œuvre,
il n'est rien dit des sacra apportés par Enée.
Au IIe siècle, l'historien Cassius Hemina a raconté l'histoire de
Rome depuis Enée, et évoqué la fuite d'Enée et son arrivée en Italie :
Additur etiam ab L. Cassio Censorio miraculo magis Aenean patris (di-

86 Cf. ci-dessus, p. 85-86.


87 Cf. En. II, 764 : mensae deorum.
88 Pourtant, la construction du génitif Penatium fait difficulté : cf. supra p. 85-86.
89 Cf. G. Manganaro, Una biblioteca storica nel ginnasio a Tauromenio nel IIe siècle
a.C, in A. Alföldi, Romische Frühgeschichte, Heidelberg, 1976, p. 83-96.
90 Macrobe, Sat. VI, 1, 11.
91 Varron, De L.L. V, 42.
178 LES PÉNATES PUBLICS

gnitate sanctio)rem inter hostes intactum properauisse concessique ei


nauibus in Italiani nauigasse. Idem historiarum libro I ait, Ilio capto
(Aenean cum dis penatibus) umeris impositis empisse duosque filios
Ascanium et Eurybaten bracchio eius innixos ante ora hostium praeiter-
gressos)92. Nous avons ici, comme chez Ennius, la mention de l'Italie
comme terme du voyage d'Enée; le Latium n'est pas cité,
contrairement au fragment du texte des Annales que nous venons de voir, où,
selon le commentaire qu'en fait Varron, Saturnia terra désigne le
Latium. Cassius Hemina, d'après le scholiaste de Vérone ne parle que
d'Italia93. En revanche, nous avons pour la première fois, avec ce texte,
une assez longue évocation du transport des sacra. La scène de la fuite
d'Enée évoquée par Cassius Hemina s'apparente à d'autres illustrations
du thème déjà étudiées : Enée s'enfuit de Troie en bateau en emmenant
avec lui ses dieux et sa famille; l'ensemble du tableau se présente bien
comme le «groupe pyramidal» dont parle J. Heurgon94 à propos des
reliefs de la Tabula Iliaca, mais il est traité ici avec quelques variantes
par rapport à la version de Stésichore, telle que nous la présente la
Table du Capitole. Sur cette dernière en effet, le départ d'Enée à
proprement parler est représenté deux fois, dans la Porte Scée et sur le
rivage au moment de son embarquement. Enée porte sur ses épaules
son père Anchise, qui serre contre lui une ciste contenant, d'après les
inscriptions commentant ces reliefs, les ιερά. Ici, il n'est pas question
d'Anchise, dont le nom n'est pas mentionné. Ce sont les dieux Pénates
eux-mêmes qu'Enée porte sur ses épaules (umeris impositis) : ils
prennent la place qu'occupe Anchise dans d'autres versions, formant donc
le sommet de la pyramide. D'autre part, la base de la pyramide est, elle
aussi, un peu différente de ce qu'elle est généralement dans les
évocations littéraires et iconographiques de la scène. En effet, Enée, au lieu
de tenir par la main l'unique fils de son mariage troyen, Ascagne, porte
ou tient appuyés à son bras (bracchio eius nixos) deux fils troyens,
Ascagne et Eurybates. Enfin, si ce texte est une citation exacte de
Cassius Hemina, nous voyons chez l'annaliste, comme chez Naevius, les
sacra de Troie désignés par l'expression di Penates. Cela témoignerait
donc, aux IIIe et IIe siècles, d'une élaboration romaine de la légende des

92 In Schol. Verg, Ad Aen. II, 717 = fr. 5 Peter; voir supta p. 125-8.
93 On désignait par ce nom le sud de la péninsule, plus précisément le Bruttium, nom
antique de la Calabre : cf. G. Vallet, Rhégion et Zancle, p. 103.
94 La Magna Grecia e i santuari del Lazio, p. 24.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 179

origines troyennes : la désignation, spécifiquement latine, de Penates est


en effet appliquée ici à des divinités supposées venir d'Asie Mineure,
dans une légende apportée en Italie par les Grecs.

4) L'épanouissement de la légende

Au Ier siècle avant J.-C, la légende se développe et est de plus en


plus élaborée. Bien que les aventures d'Enée aient figuré dans ses
Histoires qui ne nous sont pas parvenues, nous connaissons la version
qu'en donne Varron par un commentaire du scholiaste de Vérone :
Varrò secundo Historiarum refert, Aenean capta Troia arcem cum pluri-
mis occupasse magnaque hostium (gratia obtinuisse a)beundi potesta-
tem. Itaque concessum ei quod uellet auferre; cumque circa aur(um)
opesque alias ceteri morarentur, Aenean patrem suum collo (tulisse mise-
rantibus)que Achiuis hanc pietatem redeundi Ilium copiam datam, ac
deos pénates ligneis sigillis uel lapideis terrenis quoque Aenean (umeris
extulisse). Quam rem Graecos stupentes omnia sua auferendi potestatem
dedisse eaque ratione saepius redeuntem omnia e Troia abstulisse et in
nauibus posuisse95. Ce texte, qui semble plutôt un résumé de celui de
Varron qu'une citation exacte, présente pour la première fois des
épisodes de la fuite d'Enée qui figureront dans les récits ultérieurs. Ici, le
personnage d'Enée prend une nouvelle dimension : il n'est plus
seulement le guerrier et le futur fondateur de cité, il est déjà le pius Aeneas
que l'on trouvera chez Virgile. Du guerrier courageux que la légende
avait jusque-là présenté, Varron a cependant conservé un trait : il essaie
de résister le plus longtemps possible aux Grecs en occupant avec des
compagnons d'armes la citadelle de Troie (Aenean . . . arcem cum pluri-
mis occupasse). Mais c'est surtout par sa piété qu'il va se distinguer des
autres Troyens, et attirer sur lui, à deux reprises, l'admiration et la
clémence de ses ennemis. Sa piété en effet se manifeste sous un double

95 Ad Aen. II, 717 : «Dans le second livre de ses Histoires, Varron raconte qu'après la
prise de Troie, Enée occupa la citadelle avec un grand nombre de ses concitoyens, et
obtint, par une grande faveur de l'ennemi, la permission de se sauver. Aussi lui accorda-
t-on le droit d'emporter ce qu'il voulait; alors que tous les autres s'attardaient à choisir
de l'or et autres richesses, Enée chargea son père sur ses épaules; et lorsque les Achéens,
émus de cette piété, l'autorisèrent à revenir à Troie, Enée emporta sur ses épaules les
dieux Pénates figurés par des statuettes de bois, de pierre, et de terre cuite. Les Grecs,
stupéfaits d'admiration, l'autorisèrent à emporter tous ses biens, et Enée, refaisant
plusieurs fois le trajet, enleva de Troie tous ses biens et les déposa dans ses navires ».
1 80 LES PÉNATES PUBLICS

aspect : piété filiale d'abord (Aenean patrem suum collo tulisse), qui va
valoir à Enée une seconde autorisation de retourner à Troie96, et lui
donner l'occasion de montrer cette fois sa piété envers les dieux (ac
deos Penates umeris extulisse). Certains éléments de ce récit rappellent
celui de Cassius Hemina : les sacra de Troie sont désignés comme des
Penates, et les termes mêmes par lesquels est évoqué Enée portant sur
ses épaules ses dieux Pénates rappellent aussi le texte de Cassius
Hemina {Aenean cum dis Penatibus umeris impositis); mais nous ne
retrouvons pas ici le «groupe pyramidal»; les différents éléments de la
pyramide sont dissociés, chacun d'entre eux figurant dans l'un des voyages
d'Enée des ruines de Troie au rivage : Anchise d'abord, les Pénates,
puis omnia sua, parmi lesquels il faut sans doute comprendre Ascagne.
Cette dissociation suscite une émotion devant le personnage d'Enée,
différente de celle que donnait la vision saisissante du raccourci formé
par le «groupe pyramidal»; elle permet de montrer que c'est
précisément par sa pietas, dans ses exercices successifs, qu'Enée a pu
emporter de Troie en ruines tout ce qui lui tenait à cœur. Mais, si la mise en
scène de l'exercice de cette pietas semble due à Varron, l'existence de
cette dernière comme caractéristique du personnage d'Enée remonte
peut-être à Stésichore, cependant que le thème du désintéressement
d'Enée, prêt à renoncer à ses richesses, se trouvait déjà exprimé chez
Lycophron97. Enfin, si la destination du voyage d'Enée n'est pas
mentionnée dans ce texte, elle est néanmoins formulée très clairement
ailleurs chez Varron : Oppidum quod primum conditum in Latto stirpis
Romanae, Lauinium : nam ibi dii Penates nostri. Hoc a Latini filia, quae
coniuncta Aeneae, Lauinia, appellatum98 : Lavinium est le premier
établissement troyen en Italie, le siège des Pénates apportés par Enée.
La même scène est évoquée, de facon beaucoup moins frappante,
chez Denys d'Halicarnasse, dont les Antiquités Romaines sont très
largement inspirées de Varron". L'épisode de la résistance d'Enée et de
ses compagnons dans la citadelle de Troie est longuement développé,
alors que le départ d'Enée proprement dit tient en quelques lignes :

96 Le thème de la piété filiale d'Enée et de l'admiration qu'elle suscita chez les


ennemis, était déjà présent chez Xénophon (Cyn. I, 15) : Voir supra p. 169; 171 n. 57.
97 Alex., 1263-65.
98 De L.L. V, 144.
99 Cf. Paul M. Martin, La propagande augustéenne dans les Antiquités Romaines de
Denys d'Halicarnasse, REL, 48, 1971, p. 162-175; E. Gabba, La «Storia di Roma arcaica» di
Dionigi d'Halicarnasso, A.N.R.W., II, 30, 3, Berlin-New- York, 1983, p. 799-816.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 181

άπήει . . . αγόμενος επί ταΐς κρατίσταις συνωρίσι τόν τε πατέρα και θεούς
τους πατρφους γυναικά τε και τέκνα και των άλλων ει τι πλείστου άξιον
ήν σώμα ή χρήμα100. On trouve ici les mêmes éléments que dans les
documents précédents : le départ d'Enée avec son père, ses παθρωοι
θεοί, et son fils. Mais il s'agit d'une simple enumeration, qui ne se
soucie pas de composition dramatique, ni ne cherche à susciter l'émotion;
elle comporte quelques détails que l'on ne trouve pas ailleurs :
existence de plusieurs enfants d'Enée à Troie, présence de sa femme Creuse;
en revanche, le terme du voyage d'Enée est très clairement indiqué
dans un passage voisin101; Enée et ses compagnons arrivent en Italie
près de l'embouchure du Tibre : les Aborigines, habitants du lieu,
donnent aux Troyens fugitifs des terres sur lesquelles Enée fonde la ville
de Lavinium, épisode sans doute directement inspiré du texte de Var-
ron cité plus haut.
Tite-Live, s'il mentionne au début de son ouvrage la légende de
l'établissement d'Enée en Italie102, ne donne aucun détail sur les
conditions dans lesquelles le héros troyen a fui sa patrie. Ni Anchise, ni les
Pénates ne sont cités, et Ascagne est le fils, non du mariage troyen
d'Enée avec Creuse, mais de l'union d'Enée et de Lavinia en Italie.
C'est évidemment chez Virgile que l'épisode du transfert des sacra
de Troie en Italie par Enée reçoit la mise en œuvre la plus riche. Cela
s'explique par le rôle que jouent les sacra pour assurer la continuité
entre Troie, l'établissement fondé par les Troyens au Latium, et la
future Rome; leur présence en Italie fonde et justifie les prétentions des
Romains à être les héritiers des Troyens et celles de la Gens Iulia et
d'Auguste à détenir le pouvoir suprême; elle donne à l'histoire d'Enée
et de ses descendants une dimension religieuse et spirituelle.
Il y a quelques années, G. Dumézil avait montré de facon très
convaincante103 comment, au livre II de l'Enéide, se dévoile la mission
d'Enée, qui va opérer chez le héros une transformation complète. Dans

100 I, 46, 4 : « il partit . . . emportant avec lui, dans ses meilleurs attelages, son père,
son épouse, et ses enfants, et tout ce qui, être vivant ou bien, était le plus précieux».
101 I, 45, 1 : εις Λαύρεντον, αίγιαλον Λβοφιγίνων επί τω Τυρρηνικοί πελάγει κείμενον
(«vers Laurentum, rivage des Aborigines sur la mer Tyrrhénienne»).
102 I, 1, 1 sq.
103 Mythe et Epopée I, 2e éd., Paris, 1974: Enée et la première fonction, p. 384-393;
Genèse de la mission d'Enée au deuxième chant de l'Enéide, p. 393-403.
1 82 LES PÉNATES PUBLICS

un ouvrage plus récent104, il écrit : «le sujet du second chant n'est pas le
malheur de Troie en tant que tel, mais la mutation qu'il produit dans
l'âme d'Enée et qui fait d'un guerrier vaincu, désespéré, sans patrie, le
sauveur des Pénates et le dépositaire presque sacerdotal d'un grand
avenir». Le thème du transfert des sacra se développe du livre II, où
Enée évoque chez Didon la dernière nuit de Troie et son départ loin de
sa patrie, au livre VIII, où le Tibre lui apparaît en songe pour lui
révéler qu'il a atteint le terme de son voyage fixé par les destins, la terre où
il devra établir les Pénates de Troie, et fonder une cité d'où ses
descendants partiront pour en fonder une autre, promise à l'empire du
monde105.
C'est au moment même où se prépare la ruine de Troie que sa
mission est pour la première fois révélée à Enée. Les Troyens, trompés par
les paroles de Sinon, ont fait pénétrer le cheval des Grecs dans leur
ville, dont tous les habitants dorment paisiblement. Hector apparaît
alors en songe à Enée, lui annonce la ruine prochaine de Troie, lui
conseille de fuir et ajoute :

Sacra suosque ubi commendai Troia penatisi


hos cape fatorum comités, his moenia quaere
magna, pererrato statues quae denique ponto 106.

Enée, qui jusqu'alors était seulement l'un des guerriers troyens, se


voit ainsi annoncer une double mission, religieuse et politique : d'une
part, on lui confie les sacra et les Pénates de Troie qui le suivront au
cours de ses tribulations et seront pour lui comme des compagnons
{fatorum comités), d'autre part, il devra, au terme de ses épreuves, fonder
au-delà des mers {pererrato ponto) une cité puissante {moenia magna)
susceptible d'offrir aux Pénates et aux sacra un abri sûr107. L'expression

104 Mariages indo-européens. Quinze Questions Romaines, Paris, 1979 : Le coup de


lance de Laocoon, p. 179-188.
105 Cf. H. Boas, Aeneas' arrival in Latium, p. 56 sq.
106 Π, 293-295 : « Troie te confie ses choses saintes et ses Pénates, prends-les comme
compagnons de tes destins, pour eux cherche une ville qu'au terme, après de longues
erreurs sur toutes les mers, tu instaureras, grande» (Trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1977).
107 R. G. Austin (Aeneidos, Liber Secundus, éd. comm., Oxford, 1964, p. 135) estime
que commendai, dont il rapproche l'emploi de celui qui en est fait par Properce (IV, 11,
73 sq.) « suggère la remise solennelle d'une charge, comme celle d'enfants par un père ou
une mère mourant».
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 183

sacra suosque Penates nous semble d'ailleurs présenter une difficulté


d'interprétation : on peut en effet comprendre, comme le fait J. Perret,
qu'il s'agit de deux réalités distinctes, des «objets de culte», et les
Pénates108; mais on remarquera aussi que le terme latin sacra est la
traduction de ιερά, ces ίερά que Stésichore mettait dans les mains d'Anchise
lorsque les survivants de Troie s'embarquaient pour l'«Hespérie»; on
peut se demander alors si sacra et Penates désignent deux sortes de
réalités cultuelles, et si l'on ne peut l'interpréter comme un hendiadyn 109.
G. Dumézil souligne que «de ces trois éléments (= de la mission d'Enée)
- la fondation, les dieux, Yimperium - tantôt l'un, tantôt l'autre, tantôt
deux, tantôt les trois sont mis en valeur, mais ils sont inséparables et
ceux qui ne sont pas exprimés sont toujours sous-entendus»110. Il nous
semble toutefois que Virgile établit, dans ce passage, une hiérarchie
entre les deux éléments présents (les dieux, la fondation) : la
prééminence appartient ici à l'élément religieux, puisque la future cité
qu'élèvera Enée n'a de signification que par rapport aux sacra, aux Pénates
qu'elle aura à abriter : si ce n'est pas là son unique fonction, c'est du
moins ce qui justifie sa fondation.
La transformation d'Enée ne se fait pas sans heurts, sans retours
passagers au personnage du guerrier qu'il a été jusque-là. Lorsqu'il
s'éveille et voit Troie en flammes - les maisons des Troyens s'écroulent
de toute part autour de lui -, il décide de reprendre les armes, de lutter
contre les Grecs, même si cette entreprise est sans espoir111. Enée va
donc s'engager avec ses compagnons dans une tentative de résistance
en s'enfermant dans la citadelle, épisode qui rappelle évidemment le
récit de Varron et de Denys d'Halicarnasse. La mission que lui a
confiée Hector semblerait oubliée dans les fureurs de la guerre, si Pan-
thus, arcis Phoebique sacerdos112, ne se réfugiait auprès d'Enée en lui
apportant les sacra :

108 Cf. aussi II, 320; XII, 490.


"*> Cf. infra p. 338.
110 Mythe et Epopée I, p. 384.
111 II, 314 : «Je me souviens qu'il est beau de mourir dans les armes» (trad. J. Perret,
op. cit.). Selon R. G. Austin (op. cit., p. 142-143), le caractère guerrier d'Enée, trait
essentiel du personnage, s'exprime notamment dans l'anaphore in armis . . . in armis (v. 314 et
317).
112 II, 319.
184 LES PÉNATES PUBLICS

sacra manu uictosque deos paruomque nepotem


ipse trahit113.

Dans cette résistance désespérée d'Enée guerrier (ses dieux sont


déjà uicti), le personnage de Panthus, peut-être déjà présent dans
Vllioupersis de Stésichore, si l'on en croit l'illustration qu'en donne la
Table Iliaque du Capitole, apportant ici les sacra, est un rappel de la
mission du héros. Quant aux uictos deos, il nous semble que, dans la
vision de Virgile, ils ne peuvent être que les Pénates114, l'ensemble de
l'expression sacra uictosque deos posant le même problème
d'interprétation que nous avons signalé plus haut, à savoir le sens du rapport
établi entre sacra et deos115. Au contraire de Varron et de Denys d'Hali-
carnasse, pour qui Enée, renonçant au bout d'un moment à défendre
Yarx, se rendait directement sur le rivage avec son père, ses sacra et ses
biens, Virgile a pris soin de ménager une progression qui rend
psychologiquement vraisemblable la transformation d'Enée de guerrier
furieux en chef spirituel. Chez Varron et Denys, c'est en raison seulement
de sa défaite et de sa reddition forcée qu'Enée, s'inclinant devant les
faits, accepte son exil, occasion pour lui de manifester sa pieias. Chez
Virgile, ce sont des chocs affectifs qui modifient la sensibilité du héros
et le mettent à même d'accepter et d'accomplir sa mission. En effet,
après l'échec de sa résistance dans la citadelle, il court vers le palais de
Priam et assiste au meurtre du roi par Pyrrhus. L'émotion provoquée
par ce spectacle produit en lui un brutal abattement où tombent sa
colère et sa fureur de combattant116. L'espèce de vide qui se fait alors
en lui prépare sa mutation. L'image de Priam, vieillard assassiné, fait
surgir l'image d'Anchise à qui semblable sort pourrait bien échoir, et,
par une sorte d'effusion sentimentale, celle de tous les siens. Certes, ce
n'est pas exactement sa mission religieuse qui vient alors à l'esprit

113 II, 320-321 : «avec dans ses bras les objets saints, nos dieux vaincus, un enfant,
son petit-fils, qu'il traîne lui-même.» (op. cit.).
114 Cf. VIII, 11 : uictosque Penatis.
115 Servius (Ad Aen. II, 320) note que le sens du mot sacra, désignant, selon lui, les
objets saints de Troie, s'éclaire par le rapprochement avec les paroles d'Hector (II, 293).
R. G. Austin (op. cit., p. 144), s'appuyant sur un passage d'Augustin (De Ciu. Dei, I, 3),
affirme qu'il s'agit ici des Pénates de Troie, et rapproche, à juste titre croyons-nous, le
texte de Virgile d'une des scènes représentées sur la Tabula Iliaca du Musée du Capitole;
cf. infra p. 207.
116 II, 559-560 : «Alors pour la première fois une horreur atroce m'envahit; je
demeurai sans mouvement» (op. cit.).
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 185

d'Enee, mais l'une des formes de sa pietas, son attention aux siens, se
manifeste ici. Cet élargissement du champ d'exercice de la pietas
d'Enée prend une ampleur particulière chez Virgile, à qui ce thème a
pu être inspiré par Cassius Hemina et Varron; rappelons que Lyco-
phron faisait à Enée un mérite de préférer ses dieux et son père à sa
femme et à ses enfants. La violence et la colère du héros vont
s'exprimer une dernière fois, lorsqu'il aperçoit Hélène117. Un désir de
vengeance et de meurtre s'empare de lui, et il aurait tué Hélène si Vénus ne lui
avait alors montré l'inutilité, l'absurdité de ce geste, impuissant à
sauver Troie de la ruine ou à réparer ce désastre.
Dès lors tous les éléments sont en place pour qu'Enée accepte et
accomplisse sa mission. Il gagne la maison d'Anchise, ducente deo118, ce
qui lui permet d'éviter les traits des Grecs et souligne le caractère sacré
qui sera désormais le sien. Il a un dernier sursaut de colère guerrière,
qui est désarmé par Creuse, et, surtout, par le prodige qui s'accomplit
sur la personne d'Ascagne : l'aigrette de feu qui apparaît au-dessus de
sa tête le désigne comme l'élu des dieux, le porteur des espoirs de Troie
en ruines119. Ce prodige signifie que la race troyenne, en la personne
d'Ascagne, est promise à d'autres destinées, et que les dieux n'ont pas
abandonné Enée et sa famille. C'est bien ainsi d'ailleurs qu'il est
interprété par Anchise, chez qui il suscite une soumission à la volonté
divine, dont il voit désormais qu'elle les protège, lui et les siens, comme
héritiers de Troie 12°. Enée va, lui aussi, comprendre que le prodige
porte le même message que le songe dans lequel Hector lui était apparu;
alors va se former le « groupe pyramidal » :
Ergo age, care pater, ceruici importere nostrae; . . .
mihi paruos lulus
sit cornes, et longe seruet uestigia coniunx . . .
Tu, genitor, cape sacra manu patriosque penatis;
me bello e tanto digressum et caede recenti

117 Π, 567-587. Notons que l'authenticité du passage concernant Hélène, que Servius
ne commente pas, a été vivement contestée. Voir un résumé de la discussion chez R. G.
Austin (op. cit., p. 217-218, avec bibliographie p. 219).
118 II, 632.
119 Cf. H. Boas, op. cit., p. 165 sq. Selon Virgile, Lavinia (En. VII, 71 sq.) et Octave
(En. VIII, 680 sq.) firent l'objet du même prodige. Mais la même tradition existait à
propos du roi Servius Tullius : voir J. Champeaux, Fortuna. Le culte de la Fortune à Rome et
dans le monde romain, Coll. de l'École Française de Rome, 64, Rome, 1982, p. 295-296.
120 II, 703.
186 LES PÉNATES PUBLICS

attrectare nefas, donec me flumine uiuo


abluero121.

La scène ressemble beaucoup à celle qui est sculptée sur la Tabula


Iliaca du Musée du Capitole : dans la Porte Scée, Anchise, tenant les
sacra dans ses bras, est porté sur les épaules d'Enée, qui tient Ascagne
près de lui; Creuse suit de loin. Les deux derniers vers contiennent un
autre élément, propre à Virgile : «Comme pour marquer la rupture avec
le personnage qu'il a d'abord été cette nuit-là, Enée se reconnaît souillé»,
écrit G. Dumézil122. Anchise, qui, lui, est pur, porte les sacra, et réunit
alors en sa personne les deux aspects de la pietas d'Enée : piété filiale -
Enée l'emmène avec lui et le soutient - piété envers les dieux - c'est lui
qui porte leurs images, qu'Enée ne touchera qu'après s'être purifié.
Le «groupe pyramidal» des fugitifs est donc constitué, avec, longe,
Creuse, qui disparaît. Enée part à sa recherche, confiant à ses
compagnons :
Ascanium Anchisenque patrem Teucrosque penatis 123.

La tentative pour retrouver Creuse est le dernier obstacle au départ


d'Enée. On songe évidemment à la scène que le sculpteur de la Tabula
Iliaca a située dans la Porte Scée : tandis qu'Enée, conduit par Hermès,
quitte la ville avec Anchise et Ascagne, une femme, identifiée comme
Creuse, reste en arrière, dans une attitude douloureuse. Mais chez
Virgile, par un retournement saisissant, c'est Creuse elle-même, apparue
en songe à Enée, qui va pousser Enée à la fuite; car non seulement elle
le dissuade de continuer à la chercher, mais elle lui indique, ce que nul
n'avait fait jusque-là, la destination de son voyage124. La contrée
réservée par les dieux à Enée est désignée, du même terme que chez Stési-
chore - d'après la Tabula Iliaca du moins -, par le mot à'Hesperia,
notion géographique assez vague, un peu précisée par la mention du
Tibre; mais le Latium n'est pas nommé. Pourquoi Virgile met-il dans la

121 II, 707-720 : « Allons, père chéri, place-toi sur notre cou . . . que le petit Iule
m'accompagne, et qu'un peu plus loin mon épouse suive bien notre marche . . . Toi, père,
prends dans tes mains les objets sacrés, les Pénates de nos ancêtres ; moi qui sors à peine
d'une guerre si rude et de ses carnages, je ne peux les toucher avant de m'être purifié
dans une eau vive» {op. cit.).
122 Mythe et Epopée I, p. 401.
123 II, 747.
124 II, 781 : et terram Hesperiam uenies.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 187

bouche de Creuse cette révélation? Au premier abord, il peut sembler


paradoxal que Creuse se retire, volontairement, de l'avenir d'Enée;
mais le personnage est transfiguré : Creuse, dépouillée de la jalousie
d'une épouse mortelle, se fait l'interprète de la volonté divine auprès
d'Enée; ses paroles vont délivrer Enée des scrupules qui pouvaient
l'arrêter dans l'accomplissement de sa mission. Aussi le livre II se termine-
t-il sur l'évocation d'Enée rejoignant ses compagnons et, sublato
genitore125, s'avancant sur une route inconnue, et le livre III s'ouvre-t-il par la
reprise du même tableau, sur la mer cette fois :
Feror exsul in altum
cum sociis natoque penatibus et magnis dis 126.

Cependant, le transfert des sacra connaît chez Virgile plusieurs


étapes. Par suite d'une erreur d'interprétation de l'oracle de Délos, Enée
s'installe avec ses compagnons en Crète, mais une série de fléaux
s'abattent sur eux, les plongeant dans le doute et l'angoisse, quand, une
nuit, les Pénates de Troie apparaissent à Enée, et lui révèlent son
erreur : sa destination est la contrée autrefois appelée Hespérie,
aujourd'hui Italie127. Cette révélation est une reprise et une confirmation
de celle que Virgile avait confiée à Creuse au livre précédent. Le terme
Hesperia est répété, avec quelques précisions sur l'histoire de cette terre
et de son nom «moderne», Italia. Mais, surtout, Virgile donne ici aux
Pénates une dimension supplémentaire : de divinités passivement
transportées par Enée, ils prennent un rôle actif, deviennent des
protagonistes de l'épopée, et guident le héros jusqu'au terme de ses errances.
Dans les livres II et III, Virgile évoque donc le départ d'Enée et
mentionne la destination de son voyage, le terme de son exil. Les livres

125 II, 804.


126 III, 11-12 : «Exilé, je mets le cap sur le grand large avec mes compagnons, mon
fils, les Pénates et les Grands Dieux» (op. cit.); sur l'expression Penatibus et Magnis Dis,
cf. R. B. Lloyd, Penatibus et Magnis Dis, AJPh, 77, 1956, p. 38-46; R. Schilling, Penatibus et
Magnis Dis, Mise. E. Manni VI, Rome, 1980, p. 1963-1978.
127 III, 163-6 : «II est un lieu - les Grecs le nomment Hespérie - terre antique,
puissante par ses armes et par la fécondité de sa glèbe; les Oenotres l'ont habité. On dit que
par la suite, cette nation a pris le nom d'un de ses chefs et porte maintenant le nom
d'Italie » (op. cit.) ; voir R. D. Williams, Aeneidos, Liber Tertius (éd. commentée), Oxford,
1962, p. 91 : le nom d'Oenotrie, que Servius explique comme venant du nom du vin en
grec, et Varron comme un dérivé du nom du roi Oenotrus, désigna d'abord le Bruttium
et la Lucanie, mais fut peu à peu employé par les poètes pour désigner toute l'Italie, dont
le nom viendrait de celui du roi Italus.
188 LES PÉNATES PUBLICS

VII et VIII, complétant la version virgilienne du transfert des sacra,


racontent l'installation d'Enée et de ses dieux au Latium. Le groupe
formé par le héros et sa famille s'est disloqué à la mort d'Anchise, à la
fin du livre III. En revanche, au cours de ce même livre, il a été plus ou
moins clairement révélé à Enée qu'un prodige l'avertirait qu'il a bien
atteint la terre promise par les destins et annoncée déjà par des songes
et des oracles. Les Pénates, on l'a vu, le poussent à gagner l'Italie, et les
Troyens, qui naviguent vers le nord, sont pris par une tempête. Ils sont
alors en butte aux persécutions des Furies, lorsqu'une d'elles, Céléno,
rappelle à Enée le brillant avenir qui lui est promis et lui apprend
qu'un prodige marquera son arrivée : Enée et ses compagnons
mangeront leurs tables128. Cette prophétie reste fort mystérieuse pour Enée et
ses compagnons, puisque la Furie n'explique pas comment se produira
cette manducation des tables, ni sa signification129; comme souvent
chez Virgile, les révélations se font en plusieurs temps, l'avenir se
révèle progressivement. En continuant sa navigation, Enée parvient à Bu-
throte, en Epire, où le troyen Hélénus a fondé un royaume130; Hélénus
va révéler à Enée131 que des signes lui indiqueront qu'il a
définitivement terminé ses voyages : c'est d'abord l'enfantement par une truie
blanche de trente porcelets132, ensuite la nécessité pour Enée et ses
compagnons de mordre dans leurs tables. Alors seulement :
fata uiam inuenient aderitque uocatus Apollo113.

128 III, 255-257 : absumere mensas; voir supra p. 86.


129 Le prodige de la manducation des tables se trouvait déjà chez Lycophron (Alex.,
1250-1252), et est mentionné par Denys d'Halicarnasse (I, 55, 3), qui signale les deux
interprétations que l'on donne de ces « tables » : il s'agirait, soit de persil que les Troyens
auraient déposé sur le sol en guise de table, soit (et c'est à cette tradition que se rattache
Virgile), de gâteaux qui leur auraient évité de salir leur nourriture; ils auraient ensuite
mangé ces «tables» improvisées; cf. R. D. Williams, op. cit., p. 107-108.
130 Ces migrations «troyennes» sur les côtes de la mer Ionienne ont été étudiées par
J. Gagé, Base de migration « dardanienne » et escales «troyennes» dans la Mer Ionienne,
REL, 55, 1977, p. 84-112 : les étapes d'Enée sur la côte d'Epire feraient partie d'une
tradition relativement récente, relancée, au temps de Virgile, par la victoire d'Octave à
Actium. La mention d'Apollon, relevée plus bas, va dans le même sens.
131 III, 388 sq.
132 Le «miracle de la truie» est mentionné par Lycophron (Alex., 1255-60), Fabius Pic-
tor (apud Diodore, VII, 3), et Denys d'Halicarnasse (I, 56, 5); sur l'illustration
iconographique du thème, voir F. Castagnoli, Lavinium I, Rome, 1972, p. 77, fig. 78; p. 78, fig. 80
et 81 ; p. 79, fig. 82, p. 94-100.
133 III, 395 : « Les destins trouveront leur voie, Apollon invoqué t'assistera » (op. cit.).
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 189

La mention d'Apollon est intéressante, car la présence de ce dieu -


protecteur personnel d'Auguste, ce qui contribue à donner sa
signification politique au transport des sacra, - va en quelque sorte encadrer
l'aventure des Pénates134. On se rappelle que. c'est Panthus, prêtre
d'Apollon, qui les a sauvés de Troie en flammes et les a emportés dans
la citadelle où Enée a tenté une résistance aux Grecs; c'est Apollon
encore qui assistera Enée lors de l'accomplissement du prodige de la
manducation des tables, événement qui marquera le début d'une ère
nouvelle pour les Troyens.
Aussi, lorsqu'Enée et les siens, parvenus sur les bords du Tibre135,
se reposent sous un arbre et mangent des mets placés sur des galettes
de blé136, la remarque d'Ascagne, etiam mensas consumimus, fait-elle
comprendre à Enée que ses destins sont enfin accomplis, et ce dernier,
bouleversé par la présence divine que révèle le prodige, invoque
solennellement les Pénates, numine pressus :
Salue fatis rnihi debita tellus
uosque, ait, ο fidi Troiae saluete Penates :
hic domus, haec patria est 137.

Reconnaissant en face de son fils et de ses compagnons qu'il peut


enfin fonder une cité et y établir ses dieux138, il associe dans son
invocation aux Pénates et à la terre italienne le souvenir de son père Anchise,
dont le soutien moral, de son vivant et également après sa mort, l'a aidé
à surmonter ses épreuves139. Ainsi se trouve reconstitué, du moins par
la parole, le groupe qui a fui Troie, Enée, Anchise et Ascagne, groupe

134 Apollon tient une place essentielle dans le livre III (cf. R. D. Williams, op. cit.,
p. 19-20), et c'est lui encore dont l'oracle accueille Enée sur la côte italienne, au livre VI;
il est par ailleurs {En. VIII, 720) le protecteur d'Auguste : J. Gagé, Apollon romain. Essai
sur le culte d'Apollon et le développement du «ritus Graecus» à Rome des origines à
Auguste, Paris, 1955, p. 479-522; P. Boyancé, Apollon solaire, in Mélanges J. Carcopino, Paris,
1966, p. 149-170; J. Perret, Enéide, l. V-VIII,- C.U.F., Paris, 1978, Notes Complémentaires,
p. 165-166.
135 J. Carcopino, Virgile et les origines d'Ostie, 2è éd., Paris, 1968, p. 433 sq.
136 VII, 106.
137 VII, 120-122 : «Salut, terre que me devaient les destins, et vous aussi, dit-il, salut
fidèles Pénates de Troie, ici est ma maison, ici ma patrie» (op. cit.).
138 H. Boas, op. cit., p. 4-26.
139 Sur la présence d'Anchise, voir C. J. Fordyce, Aeneidos Libri VII-VIH, Oxford,
1977, p. 85 (éd. commentée).
190 LES PÉNATES PUBLICS

qui comme Apollon, mais cette fois au niveau humain, se trouve au


point de départ et au point d'arrivée du transfert des sacra.
Enfin, une fois acquise pour Enée la certitude d'être parvenu au
terme de ses errances, il va lui falloir trouver une terre que personne
ne lui dispute pour installer ses compagnons et ses dieux. L'installation
des sacra troyens en Italie est évoquée dans la suite du livre VII,
lorsque le troyen Ilionée se rend en ambassade auprès de Latinus pour lui
demander une terre et lui offrir ses présents :
Dis sedem exiguam patriis litusque rogamus
innocuom 14°.

Ilionée présente sa réquête d'une manière qui souligne à la fois la


modestie des prétentions des exilés (sedem exiguam, litus innocuom) et
le sentiment de piété qui inspire ces prétentions {dis patriis) : il n'est pas
question de disputer à Latinus la souveraineté sur le Latium. Les sacra
sont désignés ici comme di patrii, ce qui marque, davantage peut-être
que ne l'aurait fait le mot Penates, le caractère d'exilés et l'humilité des
Troyens, mais rappelle aussi l'expression que Lycophron mettait dans
la bouche de Cassandre : πατρω' αγάλματα θεών141.
L'installation en Italie des dieux de Troie, ainsi qu'une alliance
entre les fugitifs et les Latins, sont remis en question par la colère de
Junon; c'est pourquoi au livre VIII reparaissent les trois thèmes du
débarquement d'Enée, de la prophétie lui annonçant la fin de ses
voyages, et de l'accomplissement d'un prodige marquant la réalisation de
cette prophétie.
Le débarquement d'Enée est évoqué au début du livre VIII sous
forme de récit, lors de l'ambassade de Vénulus envoyé par Latinus
auprès de Diomède pour chercher du secours contre les Troyens :
aduectum Aenean classi uictosque Penatis
inferre et fatis regem se dicere posci 142.

Ces paroles sont destinées à susciter l'inquiétude chez Diomède en

140 vil, 229-230 : « Nous demandons pour les dieux de notre patrie une modeste
demeure, un rivage paisible» (op. cit.).
141 Alex., 1261.
142 VIII, 11-12 : «qu'Enée arrivé avec une flotte y installe avec lui ses Pénates vaincus,
prétend que ses destins l'appellent à y être roi» (op. cit.).
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 191

même temps que Vénulus souligne l'impudence des prétentions du chef


troyen par le contraste entre uictos, Penates et regem.
Parallèlement à cette présentation polémique du débarquement et
des projets troyens par le camp latin, le second prodige annoncé par
Hélénus comme devant marquer l'arrivée des fugitifs dans la terre
promise est rappelé, puis accompli. Enée connaît, une nuit, un moment de
doute sur sa mission143. Alors, pour le réconforter et lui rappeler que
les dieux ne l'ont pas abandonné, approuvent ses actions et même la
guerre qu'il est obligé de mener, le dieu du Tibre lui apparaît en
songe144. Il lui confirme d'abord qu'il ne doit pas douter d'avoir atteint le
terme de ses voyages :
Ο sate gente deum, Troianam ex hostibus urbem
qui reuehis nobis aeternaque Pergama seruas
Exspectate solo Laurenti aruisque Latinis
Hic Ubi certa domus, certi (ne absiste) pénates 145.

Les termes de ce dernier vers sont très proches des mots que
Virgile fait prononcer à Enée lorsqu'il invoque les Pénates après la mandu-
cation des tables146. Cette reprise est destinée à tirer Enée de son
trouble, de ses hésitations, et l'effet en est renforcé par la répétition des
mots certa, certi, certi pénates contrastant évidemment avec uictos deos
et uictos pénates employés précédemment147. Un dieu local accueille
donc Enée et l'investit religieusement d'une souveraineté qui ne lui est
pas encore reconnue sur le plan politique et humain. Il lui apprend
aussi que s'est réalisé le prodige de la truie aux trente porcelets
annoncé par Hélénus au livre III. C'est alors seulement qu'Enée en apprend

143 vin, 29.


144 Cf. J. Carcopino, op. cit., p. 525 sq.
145 VIII, 36-39 : « Ο rejeton de la race des dieux, toi qui nous ramènes la ville de Troie
sauvée de ses ennemis et nous conserves l'éternelle Pergame, toi qu'attendaient le pays
laurente et les campagnes latines, ici est ta demeure certaine et - ne va pas nous
manquer - tes pénates certains » (op. cit.).
146 VII, 120-122.
147 C. J. Fordyce (op. cit. p. 207) remarque que la suite des paroles d'Enée (VIII, 43-
46) reprend la prophétie déjà faite en III, 390-393 (prodige de la truie aux trente
porcelets) à peu près exactement dans les mêmes termes, ce qui est très rare, à cette échelle,
dans l'Enéide, mais s'explique, pense-t-il, par l'un des caractères de la composition de
Virgile, consistant, pour le poète, à reproduire un groupe de vers qu'il a en tête; mais
nous croyons qu'il faut chercher aussi dans ces effets une signification psychologique et
affective.
192 LES PÉNATES PUBLICS

la signification de la bouche du dieu : alors que la manducation des


tables se réfère à l'existence présente d'Enée, la truie aux trente
porcelets préfigure les destinées de ses descendants148 : dans trente ans, Asca-
gne fondera la ville d'Albe, dont le nom, Alba, est annoncé par la
couleur blanche de la truie. Virgile combine ici deux données légendaires :
comme Caton et Varron, il attribue à Enée la fondation de Lavinium,
mais, comme Fabius Pictor149, il interprète le nombre de porcelets
comme un symbole du nombre d'années qui doit s'écouler avant la
fondation d'Albe150.
Enfin, Enée, après avoir pieusement rendu grâce au dieu, se dirige
vers l'endroit indiqué par lui et constate en effet la réalisation du
prodige, mirabile monstrum151. Il va alors procéder au sacrifice de
l'animal152, geste par lequel il reconnaît l'accomplissement des destins et en
même temps affirme sa souveraineté sur un pays qui n'est pas encore
le sien, mais lui a été seulement promis : «II est sans doute important»,
écrit J. Perret153, «qu'Enée sacrifie un animal domestique, propriété du
roi Latinus. Ce qui nous est ici conté doit prendre place parmi ces
légendes où un héros s'approprie des droit sur un pays en célébrant un
sacrifice, en immolant un animal prodigieux qui normalement devait
consacrer, confirmer, l'autorité du souverain présentement en place».
Le sacrifice est adressé à Maxuma Iuno, fait surprenant à première
vue, mais qui peut s'expliquer par le désir d'Enée de n'établir
religieusement sa souveraineté sur le Latium qu'en se conciliant la déesse qui
lui a jusque-là été la plus hostile, comme si une sorte de consensus divin
était indispensable à l'accomplissement des destins154. Du reste, un
signe est probablement donné du fait que Junon accepte tacitement ce
sacrifice et renonce à poursuivre Enée de sa haine : les flots agités du

148 VIII, 31-48.


149 Apud Diodore, VII, 3.
150 Cf. J. Perret, Les origines..., p. 325; C. J. Fordyce, op. cit., p. 208-209; K. W.
Grandsen, Aeneid VIII, Cambridge, 1976 (éd. comm.), p. 45.
"» VIII, 81-83.
152 VIII, 84-85.
153 Enéide, l. V-VIII, Notes Complémentaires, p. 206.
154 Sur la signification de cette Maxima Iuno - épithète très rare que Virgile
n'emploie que deux fois dans l'Enéide -, cf. R. Rebuffat, Les Phéniciens à Rome, MEFR, 78,
1966, p. 20 sq. : à la suite de J. Carcopino (op. cit., p. 526 sq.), R. Rebuffat reconnaît dans
cette dernière une divinité carthaginoise; sa colère contre Enée serait l'un des effets des
malédictions de Didon; cf. aussi J. Carcopino, op. cit., p. 607.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 193

Tibre s'apaisent et laissent désormais aux navires d'Enée un passage


facile :
Thybris ea fluuium, quant longa est, nocte tumentem
leniti et tacita refluens ita substitit unda,
mitis ut in morem stagni placidaeque paludis
sterneret aequor aquis, remo ut luctamen abesset155.

Enée accomplit son sacrifice sacra ferens, nous dit Virgile156. Cette
expression, souvent négligée par les commentateurs, ou même les
traducteurs, présente quelques difficultés d'interprétation. Il nous semble
qu'elle peut être comprise de deux façons, en liaison avec le sens que
l'on donne à sacra et suos Penates151; tout d'abord, puisqu'il s'agit de
l'accomplissement d'un sacrifice, on pourrait penser que Virgile se
réfère aux réalités religieuses de son temps, et que sacra désigne les
objets cultuels nécessaires au sacrifice. Mais une autre interprétation
nous semble beaucoup plus satisfaisante, surtout si l'on accepte de voir
dans sacra et Penates une seule entité. Ce sont, en effet, les sacra et les
Pénates qu'Hector confie à la garde d'Enée lorsqu'il lui apparaît en
songe158, eux que Panthus emporte dans la citadelle quand Enée tente
de résister aux Grecs159, eux encore dont Enée, souillé, charge Anchise
lorsqu'il se décide à quitter Troie160. Le mot sacra pouvant désigner des
satuettes cultuelles, on peut penser que la présence des Pénates au
sacrifice de la truie miraculeuse est fortement suggérée ici. Certes, le
sens de ferens n'est pas très clair : «apportant les images de ses dieux»,
pour que les dieux de Troie assistent au sacrifice qui consacre l'arrivée
d'Enée sur la terre que lui ont destinée les destins nous paraît le sens le
plus probable. Sans doute peut-on objecter que la truie est immolée à
Junon, non aux Pénates, mais il paraît assez naturel que, comme le font
les Pénates du culte privé, les dieux de Troie assistent à tous les
événements de la vie domestique, surtout lorsqu'ils ont l'importance de

155 VIII 86-89 : « Tout au long de cette longue nuit, le Tibre a calmé ses flots
tumultueux ; rappelant son cours, il s'est arrêté ; l'onde se tait ; comme en un lac paisible ou sur
des eaux dormantes, il étend sur le fleuve sa surface unie les rames n'ont plus à lutter»
(op. cit.).
156 VIII, 85.
157 II, 293.
158 II, 293.
159 II, 320.
160 II, 717.
194 LES PÉNATES PUBLICS

celui-ci : ils ont été les comités d'Enée pendant son voyage et assistent
au sacrifice destiné à célébrer la fin de leurs errances communes et à
désarmer la dernière hostilité à l'installation d'Enée au Latium, celle de
Junon161. On sait du reste que la victime est immolée en plein air, sur
un autel, hors de la présence de la statue du dieu destinataire du
sacrifice, située, elle, à l'intérieur du temple. Le texte de Virgile distingue les
sacra apportés par Enée - de petits objets -, de l'ara consacrée à Junon
sur lequel il immole la truie.
Les deux prodiges qui marquent l'arrivée d'Enée au Latium ne
sont pas une création de Virgile parmi les péripéties du transfert des
sacra. Ils sont l'un et l'autre mentionnés par Lycophron162 et par Denys
d'Halicarnasse163 : chez ce dernier la manducation des tables est
annoncée par une divinité mal déterminée, une nymphe, ou la Sibylle, où par
l'oracle de Dodone, avec la même signification que chez Virgile; Yomen
de la truie miraculeuse est mentionné aussi, avec quelques variantes de
détail, et il présage aussi la souveraineté de la race d'Enée sur le
Latium164.
Après le second prodige, Enée n'a plus de doute sur sa mission, et
le sacrifice de la truie marque une sorte de prise de possession
religieuse de la terre latine, accomplissement des fata devant lequel Junon elle-
même va s'incliner. Dans l'Enéide, l'histoire du transfert des sacra va
de pair avec la transformation du personnage d'Enée : l'un et l'autre se
font par étapes, et ne suivent pas une progression continue : les
différentes escales des sacra en témoignent; et jusqu'aux derniers vers du
poème, Enée a recours aux armes, mais ce n'est plus alors que
contraint, pour accomplir les fata. Sa transformation, son dévouement
absolu à sa mission religieuse, se manifestent d'ailleurs par le fait que
c'est cette mission même qui le définit et délimite son apport dans le
pacte final qui l'associe à Latinus pour la souveraineté sur le Latium :
nec mihi regna peto : paribus se îegibus ambae
inuictae gentes aeterna in foedera mutant.
Sacra deosque dabo; socer arma Latinus habeto165.

161 Sur le sacrifice du porc aux Pénates, voir supra p. 90; de la truie, infra p. 213 sq.
162 Alex., 1250-52; 1255-60.
163 I, 55-56.
164 Voir C. J. Fordyce, op. cit., p. 208-210.
165 XII, 190-192 : «... et je ne demande pas la royauté pour moi : que sous des lois
égales les deux nations invaincues s'unissent dans une alliance éternelle. Leurs rites,
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 195

Ainsi, dans son association avec Latinus, Enée se contentera


d'apporter l'élément religieux (sacra deosqué), en abandonnant au vieux roi
le pouvoir politique et militaire. La traduction que J. Perret propose
pour ce passage, de même que l'explication qu'il en donne166, souligne
qu'«Enée organisera la vie religieuse de la communauté»; sacra est
compris ici comme «éléments de l'organisation rituelle»; mais qui sont
les deos? Il semble que dans cette scène s'accomplisse la mission
personnelle d'Enée, que les fata ont désigné pour assurer la survie
religieuse de Troie par le transfert des dieux de cette cité. Peut-on alors
imaginer que ces deos soient autres que les Pénates? Cette première
remarque en appelle une autre : on se souvient que, au moment où Hector
apparaît en songe à Enée pendant la dernière nuit de Troie, il lui
déclare que la cité lui confie sacra suosque penatis 167. Bien que J. Perret
traduise dans le premier cas sacra par «choses saintes», et dans le second
par «rites», ne peut-on aussi suggérer que la ressemblance des deux
expressions indique qu'elles désignent les mêmes réalités : il s'agirait
alors pour Enée d'installer, dans la cité qui marquera le terme de ses
errances, l'héritage religieux de Troie. De même que, nous l'avons
remarqué, le «groupe pyramidal» d'Enée, Anchise portant les sacra, et
Ascagne, encadrait le voyage d'Enée sur le rivage de Troie comme à
l'embouchure du Tibre, les sacra Penatesque de Troie se trouveraient
mentionnés aux deux termes de la mission d'Enée : lors de la chute de
la cité de Priam, qui semble lui parler par la bouche d'Hector, et au
moment où il prononce le serment qui marque sa prise de possession
religieuse de la terre latine. Cela dit, si l'on accepte cette interprétation,
reste posé le problème, déjà évoqué plus haut, de la relation entre sacra
et pénates, ou, ici, deos.
Avec Virgile, la légende du transfert des sacra de Troie atteint un
degré d'élaboration qui ne sera pas dépassé, et s'explique en partie par
le souci de propagande dynastique, mais aussi par un projet plus vaste :
donner un sens à l'histoire de Rome en insérant les événements du
présent dans la trame d'une légende où se mêlent les traditions locales,

leurs dieux, je les leur donnerai moi-même ; que mon beau-père Latinus possède le
pouvoir militaire» (trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1980).
166 Op. cit., Notes Complémentaires, p. 246; cf. aussi id., Le serment d'Enée et les
événements politiques de janvier 27, in Mélanges Durry, REL, 47 bis, 1969, p. 277-295.
167 II, 293. Le rapprochement de ces deux passages a été fait par J. Conington, The
Works of Virgil, vol. 3, Aen. VI-XII (éd. comm., revue par H. Nettleship), Hildesheim,
1963, p. 422-423.
196 LES PÉNATES PUBLICS

l'influence des récits venus d'Italie du sud et de Grèce, et le souvenir


littéraire des poèmes homériques.

II - La tradition iconographique

La légende de la fuite d'Enée et du transfert des sacra est attestée,


parallèlement à son illustration littéraire, par de nombreux
témoignages iconographiques168.

1) Le VIe siècle

Le thème de la fuite d'Enée apparaît au VIe siècle sur les vases atti-
ques à figures noires et, au début du Ve siècle, sur les vases attiques à
figures rouges169. K. Schauenburg 17° en a relevé 52 exemples sur les
premiers, 5 sur les seconds. Ces figurations correspondent toutes à peu
près au même type iconographique : le groupe central est formé par
Enée portant Anchise sur ses épaules; il n'y a qu'une exception : sur un
lécythe à figures rouges trouvé à Gela171, Enée conduit son père par la
main; le vieillard marche derrière lui. L'aspect guerrier des deux
personnages est souligné : Enée porte toujours un casque, très souvent une
cuirasse et une lance, Anchise tient lui aussi parfois une lance. Ce
groupe n'est jamais isolé, mais les personnages qui l'entourent varient : ce
sont soit des guerriers, soit une femme (sans doute Creuse), ou
plusieurs femmes. Sur les 57 vases de notre corpus, Ascagne n'apparaît
que 1 1 fois, et sur 4 vases figurent autour d'Enée et d'Anchise plusieurs
enfants, ce qui est une attestation de la légende suivant laquelle Enée
aurait eu plusieurs enfants de son mariage troyen 172. Sur aucune de ces
peintures ne figure aux mains d'Anchise ou d'Enée la ciste ou le
récipient contenant les sacra. Tous ces vases sont datés du dernier quart du

168 Cf. W. Fuchs, Die Bildgeschichte der Flucht des Aeneas, A.N.R.W., I, 4, Berlin-New-
York, 1973, p. 615-632.
169 Cf. J. D. Beazley, Attic Black-Figure Vase Painters, Oxford, 1956; Attic Red-Figure
Vase Painters, 2e ed., Oxford, 1963.
170 Aeneas und Rom, Gymnasium, 67, 1960, p. 176-191.
171 J. D. Beazley, Attic Red-Figure Vase Painters, 956.
172 Cf. Cassius Hemina, in Servius, Ad Aen., II, 717 (= fr. 5 Peter); cf. supra
p. 125 sq.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 197

VI e siècle et des premières décennies du Ve siècle173. D'autre part, fait


remarquable et déjà souligné par F. Borner174, ceux de ces vases dont
l'origine est connue ont été trouvés en Italie : 17 en Etrurie, 4 en Italie
du sud, 5 en Sicile. Il semble donc que ce thème, traité par les peintres
athéniens, ait correspondu à une certaine demande des commerçants
en relation avec l'Italie, à une sorte de mode, étant donné la relative
brièveté du temps pendant lequel le thème est traité sur les vases
grecs.
Deux autres images archaïques de la fuite d'Enée nous sont
connues. L'une, grecque, est un tétradrachme d'Aineia, en Chalcidique,
dont un exemplaire, en assez mauvais état, se trouve à Berlin175, l'autre
à New- York176. W. Fuchs le date du dernier quart du VIe siècle177. La
scène présente deux groupes de personnages symétriques : deux
personnages se font face, à gauche Enée, portant son père sur ses épaules,
et une figure féminine à droite, tenant un enfant dans ses bras, groupe
dans lequel on reconnaît généralement Creuse et Ascagne178; la grande
originalité de cette représentation par rapport au type iconographique
des vases grecs consiste, d'une part, dans la présence de ces deux
groupes, d'autre part dans le fait qu'Enée ne porte pas Anchise sur son dos,
mais l'a juché sur ses épaules179. On ne voit pas de récipient contenant
les sacra dans les mains d'Anchise. R. Texier pense que la présence de
la ciste mystique serait tout à fait explicable sur le monnayage d'une
cité qui se présentait comme une fondation d'Enée, et, malgré la fente
qui mutile l'exemplaire de Berlin sur lequel il a travaillé, croit pouvoir
distinguer aux mains d'Anchise «l'indiscutable reste du bord du
coffret»180, ce qui constituerait une exception dans l'iconographie du VIe
siècle. A. Alföldi, à l'examen de l'exemplaire de New- York, mieux
conservé, affirme qu'Anchise ne tient pas de ciste181.

173 K. Schauenburg, op. cit., p. 183; W. Fuchs, op. cit., p. 616-17.


174 Rom und Troia, Baden-Baden, 1951, p. 50 sq. (cependant F. Borner n'a travaillé
que sur un corpus de 11 vases); cf. aussi K. Schauenburg, op. cit., p. 184.
175 E. Babelon, Traité des monnaies grecques et romaines, II, 1, Paris, 1907, n° 1556.
176 A. Alföldi, Die Trojanischen Urahnen der Römer, Bale, 1957, pi. XIII, 2.
177 Op. cit., p. 617 et n. 12.
178 r Texier, A propos de deux représentations archaïques de la fuite d'Enée, RA série
VI, 14, 1939 p. 12-21 ; G. K. Galinsky, op. cit. p. 111-112.
179 Pour l'étude du type iconographique sur les vases grecs, cf. W. Fuchs, ibid.
180 Op. cit., p. 18.
181 Op. cit., p. 16.
198 LES PÉNATES PUBLICS

La seconde image est connue sous le nom de «scarabée étrusque»


de la Collection de Luynes, à la Bibliothèque Nationale182. Il s'agit d'une
intaille ovale en cornaline, de 2 cm de hauteur, 1 cm de largeur. Le
dessin, creusé dans la pierre, est très net : Enée porte un casque, et
tient d'une main un bouclier et de l'autre une lance; il a un genou en
terre, ce qui est une originalité dans notre iconographie; le graveur a
sans doute voulu représenter le moment où Enée, en se baissant,
permet à son vieux père de monter sur ses épaules, car Anchise a un pied
posé sur la jambe pliée d'Enée. Anchise tient d'une main une ciste
ronde assez plate, avec un bourrelet en haut et en bas; son geste est
singulier : il a l'air de présenter cette ciste, alors que dans les représentations
ultérieures, sur la Tabula Iliaca, par exemple, il la serre contre lui. La
datation de la pierre n'est pas établie avec certitude : A. Alföldi183 la fait
remonter à la fin du VIe siècle, ainsi que G. K. Galinsky184, alors que M.
Pallottino185, se fondant sur le schéma de la composition et les
particularités anatomiques, y voit une expression de l'art tardo-archaïque des
premières décennies du Ve siècle. Cette intaille est en tout cas
l'attestation iconographique la plus ancienne que nous possédions du transfert
des sacra, puisque ces derniers ne figurent ni sur les vases grecs des VIe
et Ve siècles, ni sur la monnaie d'Aineia. Du reste, ce thème semble
exister dans la littérature dès le VIe siècle, chez Stésichore, si l'on en croit
l'illustration donnée de Y Ilioupersis par la Tabula Iliaca : aussi bien
dans la scène située à la Porte Scée que lors de l'embarquement des
rescapés, Anchise, porté sur les épaules d'Enée, serre à deux bras
contre lui la ciste contenant les ιερά, qu'une inscription désigne
d'ailleurs dans la scène de l'embarquement. Cette remarque ne peut
cependant être faite qu'avec prudence, dans la mesure où nous ignorons si le
relief est fidèle dans tous ses détails au poème de Stésichore. Notons
enfin, sur cette intaille, l'absence d'Ascagne. Reste une difficulté non
négligeable : l'origine de ce bijou est inconnue. Les trois auteurs
précédemment cités s'accordent à l'identifier comme étrusque186. La
présence des sacra aux mains d'Anchise, alors qu'ils sont toujours absents

182 Cf. P. Zazoff, Etruskische Scarabäen, Mayence, 1968, p. 41 sq.


183 Op. cit., p. 16 et Early Rome, p. 226.
184 Op. cit., p. 60.
185 Compte rendu de Die Trojanischen Urahnen der Römer, SE, 26, 1958, p. 336-339.
W. Fuchs (op. cit., p. 617) estime qu'elle est postérieure au tétradrachme d'Aineia, ce qui
donne la même datation que celle de M. Pallottino.
186 Cf. aussi G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 168.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 199

dans les attestations grecques du thème, semble d'ailleurs venir à


l'appui de l'hypothèse d'une origine non grecque de cette intaille187.

2) Les Ve-IHe siècles

Les peintres grecs se sont intéressés à la fuite d'Enée à la fin du


VIe siècle, et plus faiblement, au début du Ve siècle, ainsi que le prouve
la fréquence du thème dans le corpus de K. Schauenburg : 52 exemples
dans les vases à figures noires, 5 dans les vases à figures rouges.
Pourtant, le thème n'est pas limité à la peinture des vases, ni uniquement
destiné à l'exportation vers la Sicile et l'Italie; Vllioupersis est
représentée sur les métopes du côté nord du Parthenon, dont deux épisodes
seulement peuvent être identifiés de façon sûre : les retrouvailles de
Ménélas et d'Hélène, et la fuite d'Enée et d'Anchise, qui ne porte pas de
sacra sur cette représentation188. Dans les siècles suivants, les artistes
grecs cessent de s'intéresser à ce thème.
En revanche, il est illustré au Ve siècle en Italie, notamment en
Etrurie. A Véies, on a trouvé quatre exemplaires d'un groupe de terre
cuite représentant Enée et Anchise189, sans doute faits à partir d'un
même moule : la statuette a une vingtaine de centimètres de hauteur et
représente Enée, debout, portant un casque190; Anchise est sur ses

187 P. Zazoff (ibid.) voit dans l'objet tenu par Anchise non une ciste contenant les
sacra, mais un simple coffret où sont conservés des objets précieux. Cette interprétation,
qui ne nous convainc guère, est reprise par F. Castagnoli (La leggenda di Enea nel Lazio,
p. 4) ; pour F. Zevi (Note sulla leggenda di Enea in Italia, in Gli Etruschi a Roma, Incontro
di studio in onore di M. Pallottino, Rome, 1981, p. 153), la présence des sacra est
caractéristique de l'iconographie italique de la fuite d'Enée, par opposition à ses représentations
grecques.
188 C. Praschniker, Parthenon Studien, Augsburg-Vienne, 1928, p. 107 sq.; G. Κ. Ga-
linsky, op. cit., p. 56; W. Fuchs, op. cit., p. 620.
189 G. Q. Gigliogli, Observazioni e monumenti relativi alla legenda delle origini di
Roma, BMIR, 12, 1941, p. 8-15; Ch. Picard, Un groupe archaïque étrusque: Enée portant
Anchise, RA, 21, 1944, p. 154-156; G. Bendinelli, Gruppo fittile di Enea ed Anchise
proveniente da Veio, RFIC, 26, 1948, p. 88-97; A. Alföldi, Die Trojanischen Urahnen . . ., p. 16-17;
F. Bömer, Rom und Troia, p. 14 sq.; P. J. Riis, Art in Etruria and Latium during the First
Half of the Fifth Century B.C., Entretiens sur l'Antiquité Classique, XIII, Les origines de la
République romaine, Vandoeuvres-Genève, 1967, p. 83; G. K. Galinsky, op. cit., p. 133-134;
M. Pallottino, loc. cit.; J. Perret, Rome et les Troyens, REL, 49, 1971, p. 41-43; M. Torelli,
C.R. de l'ouvrage de L. Vagnetti, // deposito votivo di Campetti a Veio, DArch, 7, 1973,
p. 396-404; G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 169-171.
190 II est impossible de dire si Enée est nu ou vêtu.
200 LES PÉNATES PUBLICS

épaules et serre ses deux bras autour du cou de son fils; pas de trace,
donc, des sacra dans ces célèbres statues, et Ascagne n'apparaît pas. La
datation de ces œuvres est très discutée; G. Bendinelli191 propose
l'explication suivante : autour de 470-460 a dû être érigé, près d'un des
sanctuaires de Véies, un groupe de bronze, grec, représentant Enée et
Anchise; sur ce modèle, on a fabriqué, à partir de moules, des ex-voto
de terre cuite dont nos quatre statues sont un exemple, que G.
Bendinelli date de la lère moitié du Ve siècle. A. Alföldi a d'abord accepté la
datation de H. Fuhrmann192, à savoir cette même moitié du siècle, puis,
plus prudemment, a renoncé à les situer précisément à l'intérieur du Ve
siècle193; ses critères ne sont d'ailleurs pas stylistiques : il pense que ces
statuettes ont été faites en un temps où Enée a pu être considéré
comme un fondateur, c'est-à-dire entre 500 et 400. Au contraire, J. Perret194,
s'appuyant sur une analyse proposée par M. Torelli195, suggère
d'abaisser cette date de presque un siècle : du point de vue stylistique d'abord,
il souligne la gaucherie de ces statues «comme ensommeillées»,
contrastant avec «l'art nerveux et expressif» des vases et des acrotères
du Ve siècle; du point de vue archéologique, il s'appuie sur un
document fourni par l'un des inventeurs, qui estime impossible de dater les
statuettes du Ve ni même du IVe siècle, mais propose le IIIe siècle.
Revenant sur ce problème, P. J. Riis196, par comparaison avec d'autres
œuvres étrusques et latines, situe très précisément ces statues dans le
second quart du Ve siècle. Cette datation haute nous paraît préférable.
La datation basse197, en effet, implique que ces statues ont été faites
sous l'influence de Rome. Or, le type de l'Enée romain, nous le verrons,
est différent : l'image de la fuite comporte généralement celle des sacra
et d'Ascagne, dont la présence avait une telle importance pour les
Romains; ces deux éléments, en revanche, n'intéressaient pas les Grecs,

191 Op. cit., p. 96.


192 Op. cit., p. 17; H. Fuhrmann, in AA, 1941, p. 423.
193 Early Rome, p. 287.
194 Ibid.
195 Ibid. ; M. Torelli date ces statues des années 350-250, c'est-à-dire après la chute de
la ville devant les Romains (396).
196 Ibid. Ν. Horsfall (Stesichorus at Bovillae?, p. 40) date cette intaille de 490
environ.
197 F. Castagnoli {La leggenda di Enea nel Lazio, p. 5) date ces statues plutôt des IVe-
IIIe siècles.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 201

comme l'a souligné W. Fuchs198; or ils sont l'un et l'autre absents de


nos terres cuites, et c'est pourquoi, sans doute, G. Bendinelli suggérait
un modèle grec à ces reproductions. Toutefois, W. Fuchs nous semble
avoir souligné à fort juste titre199 que, par rapport aux vases attiques,
où le groupe d'Enée et Anchise est toujours montré de profil, nous
avons ici une représentation frontale, qui rappelle davantage celle des
monnaies d'Aineia.
A. Alföldi200, à la suite de H. Fuhrmann201, a reconnu, dans une
statue mutilée de femme courotrophe trouvée à Véies, Creuse portant
Ascagne, et a même supposé, en s'appuyant sur l'analogie ainsi établie
avec le tétradrachme d'Aineia, qu'il existait un groupe symétrique
d'Enée et d'Anchise. Cette identification de Creuse et Ascagne est
présentée avec beaucoup plus de réserve et de prudence par M. Pallotti-
no202, qui ne voit là qu'une hypothèse, mais date en revanche, avec
précision, cette statue du passage du style archaïque au style classique,
c'est-à-dire du milieu du Ve siècle.
Le thème de la fuite d'Enée est traité sur une amphore étrusque à
figures rouges trouvée à Vulci, aujourd'hui conservée à Munich, et
datée de la première moitié du Ve siècle203. La raideur du dessin, sa
relative maladresse, si on le compare aux figures de la céramique atti-
que, attestent une origine locale, un art encore en train de
s'ébaucher204. L'ensemble de la scène pourtant, manifeste un souci certain de
composition; sur la gauche, Enée, de profil, légèrement penché en
avant, tient une lance dans chaque main et porte son père sur ses
épaules. Anchise, très droit, se tient des deux mains aux épaules de son fils.
Sur la droite, Creuse tourne la tête en arrière vers Enée et Anchise, et
tient sur sa tête avec sa main gauche un vase de terre cuite, un dolio-
lum long et très étroit. Elle tient de sa main droite la main gauche d'As-
cagne, qui regarde lui aussi vers son père et a son autre main posée sur

198 Op. cit., 624.


199 Op. cit., p. 618.
200 Die Trojanischen Urahnen ..., p. 17-18.
201 Ibid.
202 Ibid.; id., Il grande acroterio femminile di Veto, ArchClass, 2, 1950, p. 122-179.
203 Cf. A. Alföldi, Die Trojanischen Urahnen . . ., p. 16 sq. ; datation acceptée par M.
Pallottino (ibid.) et par P. J. Riis (op. cit., p. 72), qui estime impossible de la dater d'avant
470.
204 Pour une analyse stylistique détaillée (influences grecques et caractères d'un art
local), cf. P. J. Riis, op. cit., p. 70-72.
202 LES PÉNATES PUBLICS

les jambes d'Anchise. L'enfant, mis au centre de la composition, forme


ainsi une sorte de trait d'union entre les personnages placés
symétriquement par rapport à lui. Ce qui nous intéresse surtout ici, c'est le
doliolum supposé contenir les sacra de Troie, et qui se trouve, non aux
mains d'Anchise, mais dans celles de Creuse : elle tient le vase sur sa
tête comme si elle voulait ainsi le mettre au-dessus d'un danger
possible, l'empêcher d'être brisé. A. Alföldi205 a très justement rapproché
cette représentation de deux autres données; d'une part, Timée, d'après
Denys d'Halicarnasse206, aurait vu dans le temple de Lavinium un κέρα-
μον Τρωικόν, qui pourrait donc être le vase que Creuse porte et qui
contient les ιερά de Troie. On objectera que les objets cultuels étaient
généralement transportés dans des cistes de formes variées, non dans
des vases, mais la ciste qui figure sur le scarabée étrusque peut
témoigner seulement du fait que le graveur, ignorant des réalités du culte
lavinate, a représenté le type de récipient qui, habituellement, contient
les objets sacrés207. Quoi qu'il en soit, la concordance entre le
témoignage de Timée, qui est allé à Lavinium et a recueilli des renseignements
des habitants eux-mêmes, et cette représentation, antérieure de deux
siècles au voyage de Timée dans le Latium, et qui ne peut donc être une
illustration de son récit, est frappante. D'autre part, on peut faire un
rapprochement entre ce doliolum et les vases {doliola) peut-être
conservés dans le sanctuaire de Vesta à Rome, supposés contenir certains des
objets sacrés garants de la prospérité romaine, les pignora imperii20*; ce
rapprochement accrédite évidemment la thèse suivant laquelle ce sont
les sacra de Troie que transporte Creuse sur l'amphore de Vulci.
Au IVe siècle, dans la céramique italiote, le cycle des légendes de
Vllioupersis est assez fréquemment représenté209; mais l'épisode de la
fuite d'Enée ne figure que sur un vase, et encore son identification est-
elle douteuse. Il s'agit d'un cratère à volutes trouvé en Apulie : la scène,
dont le thème central est la supplication de Cassandre, présente huit

205 Early Rome, p. 284-286.


206 Cf. supra p. 124-5; infra p. 264 sq.
207 Cependant, N. Horsfall (The iconography of Aeneas'flight : a practical detail, AK, 2,
1979 (2) p. 104-105) refuse absolument l'identification de l'objet que Creuse porte sur la
tête avec un dolium contenant les Pénates, et suggère plutôt d'y voir un bagage, dont on
peut même voir les courroies. F. Castagnoli, (op. cit., p. 5) souscrit à cette interprétation.
208 Cf. supra p. 22 ; infra p. 454 sq.
209 Cf. J. M. Moret, Vllioupersis dans la céramique italiote, Les mythes et leur
expression figurée au IVe siècle, Genève, 1975, passim.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 203

personnages, répartis sur deux étages. A droite, on voit un vieillard


tenant par la main un enfant; l'identification avec Ascagne et Anchise
est possible, mais il n'existe, nous l'avons vu, qu'un seul exemple, sur
un vase du VIe siècle, où Enée, au lieu de porter Anchise sur les
épaules, le guide par la main; comme le fait remarquer J. M. Moret210, il
s'agit soit d'Ascagne et d'Anchise, soit d'un groupe anonyme. Le même
auteur propose d'identifier comme Enée le jeune guerrier qui porte un
bouclier et se tient aux pieds de Cassandre; on serait alors en présence
d'un schéma iconographique tout à fait original, dont c'est le seul
exemple connu : jamais en effet Enée et Anchise ne sont séparés dans
les représentations figurées; d'autre part, s'il semble bien que le
vieillard et l'enfant soient en train de fuir, ce qui n'est pas le cas du
personnage identifié comme Enée: il ne s'agirait donc pas de «la fuite
d'Enée»; enfin, Anchise ne porte pas les sacra.
La céramique italiote du IVe siècle, on le voit, ne s'est à peu près
pas intéressée à la fuite d'Enée, même quand elle traitait de Ylliouper-
sis : les épisodes du cycle légendaire troyen que les peintres choisissent
d'illustrer correspondent sans doute à d'autres besoins, à d'autres
intérêts.
Au IIIe siècle, où pourtant se développe dans la littérature grecque
et latine la légende du héros troyen, il n'y a qu'une attestation
iconographique du thème d'Enée portant Anchise; elle n'est pas romaine,
mais sicilienne: c'est une monnaie émise à Ségeste en 241 avant J.-C.
environ211, et elle daterait donc du moment où la Sicile devient province
romaine, ce qui expliquerait la présence d'un thème ayant trait aux
origines de Rome, origines troyennes qui seraient aussi celles de
Ségeste212; elle représente Enée portant Anchise sur ses épaules; Enée, qui
tient dans sa main droite une sorte de bâton, ou de lance, est montré de
face, tandis qu' Anchise est vu sous son profil droit; on a donc ici un
compromis entre le type grec et le type étrusque du traitement du
thème. Toutefois, cette datation a été contestée par W. Fuchs213, qui situe
le monnayage de Ségeste beaucoup plus tardivement, au milieu du Ier

210 Op. cit., p. 54 sq.


211 Cette datation, proposée par B. V. Head (Historia numorum, 2e éd., Londres, 1912,
p. 167) est acceptée par A. Alföldi (Die Trojanischen Urahnen . . ., p. 29) et G. K. Galinsky
(op. cit. p. 173); cf. aussi K. Schauenburg, op. cit., p. 184.
212 Sur la signification politique de ce monnayage, cf. J. Perret, Les origines . . .,
p. 502 ; F. Borner Rom und Trota, p. 45 ; A. Alföldi, ibid. ; G. K. Galinsky, ibid.
213 Op. cit., p. 625-626.
204 LES PÉNATES PUBLICS

siècle avant J.-C, et y voit une dérivation du type du monnayage de


César214.

3) Le Ier siècle avant J.-C.

Au siècle suivant, il n'y a pas d'illustration de la fuite d'Enée, et il faut


attendre l'époque de César pour que le thème reparaisse, à des fins de
propagande gentilice et politique évidentes. C'est le moment d'ailleurs
où, dans le domaine littéraire la légende des origines troyennes de
Rome reçoit de Varron une formulation qui ne changera à peu près
plus215. La première représentation proprement romaine de la fuite
d'Enée est une monnaie de César, datée de 48 avant J.-C.216: elle n'a
d'ailleurs pas été frappée à Rome, mais en Gaule : au droit, on voit la
tête d'une divinité souriante, sans doute Vénus, ancêtre de la Gens
Iulia; sur le revers, est représenté le groupe d'Enée et d'Anchise,
symbole, note W. Fuchs217, de la pietas Romana et de la pietas Caesaris;
Enée, nu, porte sur son épaule gauche Anchise dont les mains sont
croisées sur la poitrine et qui semble218 tenir un vase, ou une ciste. Si le
modèle iconographique d'Enée nu est sans doute emprunté à la Grèce,
cette monnaie présente toutefois une singularité dans la représentation
du héros219: dans sa main droite tendue, comme s'il voulait attirer
l'attention sur elle, Enée tient une petite statuette représentant une déesse
armée et casquée : c'est le Palladium de Troie que, dans certaines
versions de la légende220, le héros avait sauvé en même temps que son père
et ses sacra. Cette représentation frontale - seul le Palladium est vu
sous son profil gauche - ne serait pas concevable, souligne W. Fuchs,
sans l'influence des artistes étrusques, qui ont donné de cette scène des

214 Selon une tradition attestée pour la première fois chez Thucydide (VI, 2, 1-5),
Ségeste serait une fondation d'un groupe de Troyens qui avaient fui après la destruction
de la cité; cf. M. I. Finley, La Sicile antique, Londres, 1968, trad, franc. J. Carlier, Paris,
1986, p. 25-26.
215 Cf. ci-dessus, p. 129-136.
216 E. Sydenham, The Coinage of the Roman Republic, Londres, 1952, p. 168, n° 1013
(pi. 27).
217 Op. cit. p. 624.
218 L'interprétation est très délicate. Cf. W. Fuchs, op. cit., p. 625.
219 G. K. Galinsky, op. cit., p. 51; et p. 3-61 pour l'étude de la figure du pius Aeneas;
cf. aussi J.-P. Brisson, Le «pieux Enée», Latomus, 31, 1972, p. 379-412.
220 Notamment chez Denys d'Halicarnasse, I, 69, 2, cf. infra p. 460-7.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 205

illustrations comportant ce type de représentation, dans les terres


cuites de Véies par exemple. Il est remarquable toutefois qu'Ascagne soit
absent de cette représentation, étant donné son rôle dans la légende des
origines troyennes; sans doute W. Fuchs221 a-t-il raison de considérer
que le sauvetage par Enée du Palladium, d'Anchise et des Pénates - à
supposer qu'ils figurent bien sur cette image - suffisait à suggérer la
fondation de Rome comme nouvelle Troie.
Aussi ne s'étonnera-t-on pas de trouver le thème d'Enée portant
Anchise sur l'une des premières monnaies frappées par Octave, en 42
ou 41, puis à nouveau en 38 avant J.-C.222 : au droit, on voit la tête
d'Octave, au revers Enée et Anchise; on a souligné223 que le modèle
iconographique du groupe était non pas le denier de César, mais un
monnayage émis un peu après 100 avant J.-C. par la Gens Herennia, et
représentant les deux frères de Catane, Anapias et Amphinomos,
sauvant leur père d'une éruption de l'Etna en le portant sur leurs
épaules224; au droit de ces monnaies, il y a une tête de femme avec la
légende Pietas. Cette dernière explique le choix d'un tel modèle
iconographique pour représenter Enée, mais il faut conclure aussi, comme le fait
W. Fuchs, devant cette rupture entre le monnayage de César et celui
d'Octave, d'une part que les monnaies de César n'ont pas été frappées,
ni connues, à Rome, d'autre part qu'il y a peut-être, dans les années
42-38 avant J.-C, une raison politique qui fait répugner à se rattacher
aux modèles plastiques étrusco-romains du groupe d'Enée et d'Anchise.
Sur ces monnaies d'Octave, on ne voit pas de sacra aux mains
d'Anchise.
Il semble que ce flottement entre différents types iconographiques
cesse au moment où Auguste va faire ériger sur le Forum qui porte son
nom un groupe statuaire représentant Enée, Anchise et Ascagne,
groupe aujourd'hui perdu, mais dont de nombreuses copies, répandues à
travers l'Empire, permettent de se représenter l'original. La datation
du groupe du Forum d'Auguste a été fixée par W. Fuchs entre 27 et 22
avant J.-C.225, bien que l'inauguration du Forum, dont les travaux ont

221 Op. cit., p. 625.


222 E. Sydenham, op. cit., p. 182 n° 1104.
223 G. K. Galinsky, op. cit., p. 55-56; W. Fuchs, op. cit., p. 626.
224 En fait, un seul des deux frères est représenté; cf. G. K. Galinsky, op. cit., p. 55
n. 105.
225 Op. cit., p. 628-629.
206 LES PÉNATES PUBLICS

commencé dès 42, n'ait eu lieu qu'en 2 avant J.-C.226. Il se fonde d'abord
sur le fait qu'à partir de 28, Auguste effectua plusieurs voyages à Troie,
voyages dont l'influence se fait sentir, par exemple, dans la forme de
son mausolée. D'autre part, W. Fuchs met ce groupe statuaire en
relation avec un passage de Virgile, au livre II de l'Enéide, où Enée, lors de
son départ, évoque le tableau qu'il formera avec les siens227 : son père
sera sur ses épaules, et Iule les accompagnera; et il précise228 qu'Anchi-
se portera sacra patriosque penatis, que l'enfant le tiendra par la main
droite, et que lui-même aura les épaules couvertes d'une peau de lion.
Cette évocation semble à W. Fuchs une description tout à fait fidèle du
groupe du Forum d'Auguste; or, note-t-il, c'est entre 29 et 23 que
Virgile a lu à Auguste des livres séparés de l'Enéide, et notamment le livre
II. Nous savons du reste que cette période semble correspondre à une
phase architecturale particulièrement active sur le Forum d'Auguste229.
Enfin, on a retrouvé un fragment de sculpture ayant sans doute
appartenu à ce groupe, que l'on peut dater des mêmes années230. Un autre
témoignage littéraire, celui d'Ovide, est sans doute une allusion à ce
même groupe statuaire :
Hinc uidet Aenean oneratum pondère caro
et tot Iuleae nobilitatis auos;
hinc uidet Iliaden umeris ducis arma ferentem231.

L'évocation plastique du groupe d'Enée et d'Anchise est beaucoup


moins suggestive que chez Virgile, mais il est clair qu'Ovide songe ici
aux deux statues qui avaient la place d'honneur dans les deux niches
centrales ménagées dans les absides qui fermaient le Forum : au nord,
Enée et Anchise, au sud, Romulus, choix dont l'intention politique et
idéologique est claire. V. Spinazzola232 a souligné que les deux fresques

226 P. Zanker, Forum Augustum, Tübingen, 1968, p. 5 sq.; F. Coarelli, Roma (Guide
Archeologiche Laterza), Rome, 1980, p. 104 sq.
227 En. II, 707-711.
228 En. II, 717-724.
229 Op. cit., p. 628 n. 64.
230 Op. cit., et P. Zanker, op. cit., pi. 35.
231 Fastes V, 563-65 : «Ici, il voit Enée chargé de son cher fardeau et maint ancêtre de
la lignée des Jules; là il voit le fils d'Ilia portant sur ses épaules les armes d'un chef
vaincu» (trad. H. Le Bonniec, Bologne, 1970).
232 Pompei alla luce dei scavi nuovi di Via dell'Abbondanza, Rome, 1953, I, p. 150 sq.
(fig. 183 et 184).
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 207

retrouvées à Pompéi sur la façade des Fullonica de Fabius Ululutremu-


lus, représentant à droite Enee, Anchise et Ascagne, à gauche, Romulus
avec le trophée d'Acron, sont probablement un souvenir du Forum
d'Auguste; ces fresques sont d'ailleurs datées d'entre 20 avant J.-C. - 25
après J.-C. De même, V. Spinazzola rapproche de ces peintures les
groupes de terre cuite, d'inspiration populaire233, reproduisant le
groupe statuaire d'Enée, Anchise et Ascagne, aujourd'hui disparu, qui se
trouvait dans l'Edifice d'Eumachia. A quelques variantes près, le type
iconographique est désormais fixé : Enée, marchant vers la droite ou
vers la gauche, et le regard dirigé vers l'un ou l'autre côté, porte son
père sur son épaule gauche, et tient Ascagne de sa main droite; Anchise
serre contre lui la ciste sacrée. Ce dernier détail, le fait qu'Enée soit
vêtu et porte généralement la barbe, et la présence d'Ascagne, sont une
nouveauté par rapport au monnayage de César, sur lequel néanmoins
Enée tenait son père sur son épaule gauche, et non sur son dos, comme
sur les vases grecs. Il paraît certain que ce modèle s'est fixé aux
environs des années 20 avant J.-C, où il apparaît systématiquement, en
même temps que dans la littérature s'organise définitivement la
légende des origines troyennes de la Gens Iulia, qui fonde ses prétentions
politiques234.
V. Spinazzola n'a pas manqué de rapprocher de ce modèle l'une
des représentations de la Tabula Iliaca, où les fugitifs se trouvent dans
la Porte Scée235 : à l'exception du bonnet phrygien dont sont coiffés
Enée, Anchise et Ascagne, et qui ne figure pas ailleurs sur la tête des
trois personnages à la fois, on trouve les mêmes caractéristiques : Enée,
vêtu, et présenté en marche, tient sur son épaule gauche Anchise
serrant une ciste, et donne la main droite à Ascagne. Aussi A. Sadurska236
date-t-elle le relief du dernier quart du Ier siècle avant J.-C, en se
fondant sur la ressemblance avec les peintures et statues de Pompéi d'une
part, la mention de la statue du Forum d'Auguste chez Ovide d'autre

233 Ibid., fig. 187; G. Κ. Galinsky, op. cit., p. 8 et fig. 6.


234 Le modèle a été également utilisé pour des caricatures (cf. V. Spinazzola, op. cit.,
p. 153; W. Fuchs, op. cit., p. 630), retrouvées dans certaines peintures de Pompéi, ce qui
atteste sa popularité. Du reste, une intention malicieuse s'exprime dans un graffito des
Fullonica de Fabius Ululutremulus, qui parodie le premier vers de l'Enéide (Fullones ulu-
lamque cano non arma uirumque), alors même que des fresques représentant Enée et
Romulus décoraient la façade de l'édifice.
235 Op. cit., p. 153.
236 Op. cit., p. 35 ; cette datation est reprise par W. Fuchs, op. cit., p. 630.
208 LES PÉNATES PUBLICS

part, et enfin la naissance d'une propagande dynastique dans cette


période; elle estime, en revanche, que l'œuvre est antérieure à l'Enéide.
De fait, si même on estime que le relief est fidèle à l'œuvre de Stésicho-
re, on peut admettre que le type iconographique du «groupe
pyramidal» ne se trouvait pas chez le poète, ni même peut-être dans les
modèles iconographiques qui l'ont précédé. V. Spinazzola237 assure que le
relief, sur lequel apparaissent quelques traces de peinture, est en partie
dérivé d'un original pictural, et il le rapproche des fresques iliaques de
la Casa Omerica238 inspirées par l'Iliade, l'Aithiopis d'Arctinos, et
quelques épisodes de Y Ilioupersis de Stésichore et de la Petite Iliade. Or, la
dernière image de la fresque (elle en comportait 50), peinte à la sortie
de la maison, montre Enée, portant Anchise sur son dos, guidé par
Mercure. Le tableau est malheureusement très altéré, et bien des
détails nous échappent. Il est très difficile de dire, par exemple, si Asca-
gne figurait aux côtés de son père. Une ressemblance avec la Table
Iliaque pourrait faire penser que les deux images ont été inspirées par
l'Ilioupersis de Stésichore : sur la fresque, comme sur le relief, Enée est
guidé par Hermès-Mercure, dont la présence n'est attestée nulle part
ailleurs239. Mais le type du groupe Enée-Anchise est fort différent : dans
la fresque, suivant la tradition que nous avions rencontrée dans la
céramique grecque, Anchise est sur le dos d'Enée, non sur ses épaules, et le
groupe est figuré de profil; au contraire, sur le relief, nous avons une
représentation frontale, avec Anchise sur l'épaule gauche d'Enée. Si
donc des modèles grecs, de céramique ou de peinture murale - on
songe en particulier à la Leschè des Cnidiens à Delphes, où Polygnote avait
peint des scènes de la ruine de Troie - ont pu inspirer la fresque de
Pompéi, leur influence est beaucoup moins visible dans la Tabula
Iliaca. On date les peintures de la Casa Omerica d'environ 30 avant J.-C, ce
qui les situe seulement quelques années avant la date d'exécution
probable de la Tabula. On peut donc sans doute moins parler d'une
évolution d'un même modèle que de l'expression de deux modèles différents.
Les fresques de la Casa Omerica, dont V. Spinazzola240 fait très
justement remarquer que leur disposition le long d'un portique semi-souter-

237 Op. cit., p. 577.


238 Op. cit., p. 577-593; K. Schef old, Die Wänder Pompejis, Berlin, 1957, p. 17-18; E.
La Rocca-M. et A. de Vos, Guida archeologica di Pompei, Milan, 1976, p. 201-202.
239 Rappelons toutefois que selon Naevius (apud Servius-Daniel, Ad Aen. I, 170),
Mercure avait construit le bateau sur lequel s'enfuit Enée.
240 Op. cit., p. 577.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 209

rain évoque fortement les portiques de la Leschè de Delphes, sont plus


influencées que le relief par des modèles grecs; la Tabula, elle, du
moins sur ce point précis, exprime davantage la mode iconographique
et idéologique de son temps241.
D'innombrables répliques de ce modèle ont été exécutées pendant
tout l'Empire, sur des objets de toute sorte, monnaies, pierres gravées,
lampes, bas-reliefs, peintures murales242; il ne connaît dès lors à peu
près aucune variation (si ce n'est qu'Anchise ne porte pas les sacra sur
toutes les représentations; sur les petits objets, monnaies ou lampes, il
ne les porte à peu près jamais243), et on le retrouve jusque chez Raphaël
et le Bernin.
Si le thème de la fuite d'Enée et du transfert des sacra est
largement attesté dans l'iconographie, celui de l'arrivée du héros troyen au
Latium est illustré pour la première fois à l'époque d'Auguste, sur le
bas-relief de droite de la façade de l'Ara Pacis Augustae à Rome. Le
monument, dont la construction fut votée en 13 avant J.-C, fut dédié en
janvier 9 avant J.-C.244. Ce relief, assez mutilé, est généralement
interprété comme le sacrifice d'Enée aux Pénates de Lavinium245. Sur la
partie gauche, on voit deux camilli : l'un amène un porc, l'autre
présente des offrandes et tient de l'autre main un vase destiné aux libations;
au-dessus de leur tête, il y a un petit temple sur le devant duquel deux
personnages sont assis. Au centre droit, un homme occupe toute la
hauteur du relief : c'est Enée, barbu, se tenant dans une attitude majestueu-

241 En revanche, la scène de l'embarquement, en bas et à droite du relief, fait plutôt


songer à celle que présente le lécythe de Gela : voir supra p. 196.
242 Pour une bibliographie très détaillée, cf. K. Schauenburg, op. cit., p. 184-185. Le
départ d'Enée est l'un des reliefs qui figurent sur l'autel de la Gens Augusta à Carthage
(cf. L. Poinssot L'autel de la Gens Augusta à Carthage, Paris-Tunis, 1929, p. 20-27), daté
d'un peu avant 14 ap. J.-C; la scène présente le type iconographique traditionnel
romain : Enée porte son père sur son épaule gauche et tient son fils de sa main droite.
Anchise serre contre sa poitrine une corbeille en osier.
243 Cf. K. Schauenburg, op. cit., p. 190.
244 Res Gestae, II, 37 sq. ; F. Coarelli, Roma, p. 304.
245 Cf. G. Moretti, Ara Pacis Augustae, 2 vol., Rome 1948, 2, p. 215; S. Weinstock, Two
archaic inscriptions from Latium, 1RS, 50, 1960, p. 112-114; id., Pax and the Ara Pacis,
ibid., p. 44-58; F. Coarelli, Roma, p. 304-306. Cependant, d'autres auteurs parlent de
façon plus vague de « sacrifice d'Enée » (C. Peyre, Castor et Pollux et les Pénates pendant la
période républicaine, MEFR, 77, 1962, p. 456; E. Simon, Ara Pacis Augustae, Tübingen,
1967, p. 23-24; R. Schilling, Penatibus et Magnis Dis, Misceli. E. Manni, Rome, 1979, p.
1972; C. Pietrangeli-R. Bianchi Bandinelli, Ara Pacis Augustae, in Enciclopedia dell'Arte
Antica, I, Rome, 1957, p. 523-528.
210 LES PÉNATES PUBLICS

se, et vêtu d'un manteau sacerdotal dont un pli lui couvre la tête;
l'expression du visage est grave; derrière lui se tient un personnage très
mutilé : il n'en reste que le bras droit qui tient un bâton à nœuds, et un
morceau de l'épaule droite et du corps qui permet de voir qu'il porte
un manteau militaire; la tête a été rapportée sur le corps par G.
Moretti246.
Si l'identification du personnage central comme Enée ne soulève
guère de difficulté, il n'en va pas de même pour la figure de droite.
G. Moretti247 propose de voir en elle un compagnon d'Enée, le fidus
Achates, débarqué avec le héros troyen en Italie; il ne peut, selon lui,
s'agir d'Ascagne, que toute la tradition littéraire et iconographique
présente comme un enfant. Mais précisément, l'absence d'Ascagne, ou
Iule, dont la Gens Iulia tire son nom, sur ce relief destiné à célébrer la
dynastie naissante, surprend un peu. Aussi G. Moretti a-t-il supposé,
constatant que la partie du relief située au bas et à droite, contre le
pilastre, était vide, - compte tenu de ce que l'on peut reconstituer du
volume de la silhouette de droite -, qu'Achate tenait par la main Asca-
gne, ou que ce dernier se tenait à côté de lui, dans le coin droit en bas
du relief248. A l'appui de cette hypothèse, on peut faire valoir que
l'ensemble de la scène offrirait alors une composition triangulaire, dont la
tête d'Enée, personnage essentiel, formerait le sommet; de chaque côté
de lui s'ordonneraient symétriquement deux figures, de hauteur
décroissante en allant du sommet à la base du triangle : les deux camilli à
gauche, Achate et Ascagne à droite. Au contraire, S. Weinstock249 fait
remarquer que le personnage d'Achate est une invention de Virgile, et
qu'il est plus vraisemblable de penser qu'il s'agit d'Ascagne : car ce
dernier, qui était un enfant au moment du sac de Troie, peut fort bien être
un jeune adulte lors de l'arrivée des Troyens en Italie; il serait, d'autre
part, surprenant qu'Ascagne ne fût pas présent lors de cette célébration
solennelle. Cette interprétation soulève une difficulté, relevée du reste
par S. Weinstock lui-même : c'est que, s'il s'agit bien d'Ascagne, sa
représentation en adulte serait le seul exemple dans l'iconographie de
ce sacrifice, qui figure sur des médailles d'Antonin le Pieux250. Etant

246 Op. cit., p. 153.


247 Op. cit., p. 216.
248 Op. cit., p. 153.
249 Pax and the Ara Pacis, p. 57.
250 Cf. F. Castagnoli, Lavinium I, fig. 81 et 88; infra p. 227-8.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 211

donné l'état de mutilation de toute la partie droite du relief, il est


difficile de se prononcer. Au demeurant, ces deux interprétations ne
prennent pas en considération un élément de la sculpture qui, lui, est
parfaitement conservé : c'est le bâton que le personnage adulte tient à la
main. Si l'on rapproche cette représentation de celle de la Tabula Iliaca
qui en est à peu près contemporaine, une autre hypothèse paraît
possible : dans la scène de la Porte Scée, Enée est guidé par Hermès, comme
l'indique une inscription gravée aux pieds du dieu; or, si sur la Tabula
Iliaca Hermès ne tient pas à la main une baguette de héraut, cet insigne
lui est très fréquemment attribué; peut-être alors pouvons-nous
identifier comme Hermès, qui, selon certaines traditions, guida Enée hors
des murs de Troie, le personnage tenant un bâton qui figure à côté
d'Enée sur le relief251. Il faudrait en ce cas supposer, comme l'a fait
G. Moretti, qu'Ascagne était représenté à ses côtés, car il paraît
impossible que l'ancêtre et l'éponyme de la Gens Iulia ne figurât pas à la prise
de possession religieuse de la terre latine par Enée.
L'animal amené par l'un des camilli est un porc, ou une truie, et, là
encore, on en a proposé différentes interprétations : G. Moretti252 et
F. Coarelli253 pensent qu'il s'agit de la truie aux trente porcelets, ce qui
serait conforme au récit que fait Denys d'Halicarnasse254 de l'arrivée
d'Enée au Latium et du sacrifice de l'animal miraculeux, ainsi qu'à la
tradition rapportée par Virgile255; au contraire, S. Weinstock y voit
seulement un porc qui serait sacrifié aux Pénates256. L'une et l'autre
interprétations soulèvent des difficultés. S'il s'agit de la truie aux trente
porcelets, animal prodigieux dont l'apparition aurait été prophétisée à
Enée pour marquer son arrivée dans la terre promise, il est singulier
qu'ici l'animal soit représenté seul, sans au moins quelques-uns de ses
petits, figurés pour évoquer l'ensemble : trois pour trente, par exemple,
ou bien sept ou huit, comme sur des médailles d'Hadrien ou d'Anto-

251 Le personnage d'Hermès-Mercure est présent aussi aux côtés d'Enée et d'Anchise
sur la fresque de la Casa Omerica, datée de 30 avant J.-C. environ. Il y aurait donc
concomitance dans l'apparition du personnage auprès des Enéades dans les représentations
figurées; dans les témoignages littéraires, seul Naevius le mentionne.
252 Op. cit., p. 215.
253 Op. cit., p. 305.
254 I, 56.
255 En. VIII, 81-85.
256 Pax and the Ara Pacis, p. 57.
212 LES PÉNATES PUBLICS

nin le Pieux257. C'est, à notre connaissance, le seul exemple de ce mode


de représentation de la truie aux trente porcelets; on ne peut arguer ici
de la mutilation de l'animal sur le relief : seul l'arrière-train est
endommagé et les quatre pattes, elles, sont bien visibles; or les porcelets sont
toujours représentés tétant entre les pattes de leur mère. Nous savons
d'autre part que, dans le culte privé, s'il était courant d'offrir aux
Pénates une portion du repas, il arrivait aussi que l'on sacrifiât un animal
de petite taille aux dieux domestiques, et notamment un porc. Par
ailleurs, nous ignorons la nature du sacrifice que faisaient aux Pénates les
magistrats romains lors de leur entrée en charge258. Dire que le
sacrifice est offert, non aux Pénates, mais à Junon259 ne supprime pas la
difficulté, car on sacrifiait à cette déesse une génisse ou une chèvre, pas un
porc. Nous reviendrons sur ce problème lorsque nous essaierons
d'interpréter l'ensemble de la scène260.
Reste à examiner le point le plus important pour la présente étude.
Le temple représenté en haut du relief à gauche est-il le temple des
Pénates à Lavinium, le sanctuaire où Enée aurait déposé les sacra
apportés de Troie? Et d'autre part, l'animal qui va être sacrifié leur
est-il destiné?
L'identification des deux personnages assis sur le devant du temple
a donné matière à des controverses. Ils présentent des caractéristiques
si spécifiquement romaines qu'E. Petersen261 a cru pouvoir les désigner
comme le sénat et le peuple de Rome. On admet très généralement
aujourd'hui, à la suite de G. Moretti262, qu'il s'agit des Pénates. Le
temple est situé sur une hauteur, colline ou rocher, et domine la scène. S'il
s'agit véritablement d'un temple, il n'est pas représenté à la même

257 J. M. C. Toynbee, Roman Medaillons, New- York, 1944, pi. 25; Cf. F. Castagnoli,
Lavinium. I, fig. 80, 81, 82; Α. Alföldi {Early Rome, p. 272) montre que le nombre réduit
des porcelets figurés ne doit pas empêcher de reconnaître dans l'animal la truie aux
trente porcelets.
258 Macrobe, III, 4, 11; Servius, Ad Aen., III, 12; cf. infra p. 355-61.
259 Comme le fait J. Carcopino, Virgile et les origines d'Ostie p. 607; selon R. Turcan
{Enee, Lavinium et les treize autels, RHR, 200, 1983, p. 51), «la truie n'est pas une victime
appropriée aux Pénates»; contra, voir A. De Marchi, // culto privato di Roma antica,
Milan, 1896, p. 138.
260 Cf. infra p. 424-5.
261 Ara Pads Augustae, Vienne, 1902.
262 Op. cit., p. 215. Sur les représentations des dieux dans les scènes de sacrifice, voir
E. Will, Le relief cultuel gréco-romain. Contribution à l'histoire de l'art de l'Empire romain,
Paris, 1955, p. 241.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 213

échelle que les personnages et l'animal qui composent cette scène : il


est beaucoup plus petit, et il est difficile de penser que cette petite taille
s'explique par une tentative du sculpteur pour représenter la
perspective du temple dans le lointain : le seul relief de l'Ara Pacis qui soit
parfaitement conservé, représentant une femme - Tellus, Vénus, ou l'Italie
- allaitant les enfants, témoigne chez l'artiste d'une telle maîtrise
technique qu'on ne peut croire que l'auteur de notre relief, même s'il s'agit
d'un artiste différent, ait eu cette gaucherie. Au reste, aucun autre
élément du relief, qui est d'un style assez austère, mais dont le modelé est
délicat et les proportions des différentes figures parfaitement
respectées, ne révèle une maladresse technique. De plus, des éléments
architecturaux263 empêchent d'identifier cet édifice comme un temple : il n'a
pas le soubassement habituel ni les marches qui conduisent au seuil,
non plus que de portique ni de colonnade; seuls deux pilastres
encadrent les deux silhouettes assises sur le devant du temple; d'autre part,
les images des dieux ne sont jamais placées sur le devant du temple,
mais dans une cella située au contraire tout au fond de celui-ci264;
enfin, ce serait la seule représentation semblable du temple des Pénates
à Lavinium. Les médailles d'Hadrien et d'Antonin le Pieux citées plus
haut nous montrent Enée devant un temple rond, dont il n'est pas
certain d'ailleurs qu'il soit celui des Pénates; mais, quelle que soit
l'identification qu'on fait de ce sanctuaire, la singularité de l'édifice figuré sur
le relief demeure. En revanche, cette petite construction peut
parfaitement être identifiée comme un sacellum, ou un lararium, semblables à
ceux où, dans le culte privé265, on conservait les images des dieux
domestiques, Lares et Pénates. Ces petites chapelles étaient même
parfois portatives. Il s'agirait donc ici d'un détail emprunté à la vie
religieuse privée de l'époque où vivait le sculpteur, et appartenant au culte
domestique. De même, la guirlande de lauriers qui entoure les
statuettes rappelle celles dont on décore les images des dieux domestiques
dans les circonstances de fêtes familiales. Enfin, on peut rapprocher
cette figuration du petit sanctuaire du culte domestique d'une
expression employée par Virgile lorsqu'Enée sacrifie la truie miraculeuse :

263 Cf. P. Gros, Aurea Templa. Recherches sur l'architecture religieuse de Rome à
l'époque d'Auguste, Rome, 1976, p. 101 sq.
264 G. Wissowa, Religion und Kultus der Romer, 2e éd., Munich, 1912, p. 56; P. Gros,
op. cit., p. 155 sq.
265 Cf. supra p. 71 sq.; Hug, R.E. XII, s.u. lararium, col. 794-95.
214 LES PÉNATES PUBLICS

sacra ferens266. Il serait forcé de dire que le sculpteur a eu pour projet


d'illustrer le texte de Virgile, mais il est possible qu'il y ait là une
réminiscence de l'Enéide : le sculpteur aurait alors interprété le terme de
sacra comme les images des dieux qui, dans la maison ou même en
voyage, assistent aux événements de la vie familiale et à qui on fait des
sacrifices. Ici, les sacra troyens sont représentés comme l'étaient les
Pénates dans les chapelles de culte domestique, sous forme de
statuettes anthropomorphiques. Un autre argument en faveur de cette
identification nous paraît résider dans la différence de construction entre ce
petit édifice et l'autel que l'on devine au milieu du relief, vers lequel un
des camilli conduit l'animal. Tandis que ce dernier est en pierres sèches
assez grossièrement entassées, ce qui trahit une construction hâtive,
provisoire, faite par Enée au moment d'accomplir son sacrifice,
l'appareillage de pierres que l'on voit sur le côté gauche du petit temple est
particulièrement net et soigné : on peut donc penser qu'il s'agit là d'un
laraire portatif apporté par Enée, non d'un sanctuaire qu'il aurait
construit sommairement pour les Pénates troyens dès son arrivée au La-
tium.
Les parentés entre l'Enéide et le relief restent, malgré tout,
limitées. Aucun élément de la scène figurée ne permet de dire que le
sacrifice accompli par Enée s'adresse non aux Pénates, mais, comme chez
Virgile, à Junon. Il est probable au contraire que le sculpteur a suivi la
tradition rapportée par Denys d'Halicarnasse, et dont s'est écarté
Virgile; mais il l'a traitée d'une manière composite. Il ne nous paraît pas
douteux qu'il faille situer la scène à Lavinium : la présence de feuilles
de chêne, que l'on aperçoit en haut du relief entre le sacellum des
Pénates et la tête d'Enée, si elle s'explique peut-être par le goût des Romains
pour des éléments de paysage encadrant des monuments267, peut aussi
être un souvenir de la tradition littéraire selon laquelle Enée découvre
la truie miraculeuse dans une forêt268, et une allusion à un aspect bien
connu du paysage lavinate269. En revanche, l'attitude des dieux rappelle
leurs statues dans l'Aedes deum Penatium de la Vèlia, à Rome, décrites
par Denys d'Halicarnasse270: deux jeunes gens assis.

266 VIII, 85; cf supra p. 193-4.


267 P. Grimai, Les jardins romains à la fin de la République et aux deux premiers
siècles de l'Empire, Paris, 1943, p. 73.
268 Virgile, En. VIII, 82 : per siluam.
269 Caton, Fr. 55 Peter (apud Servius-Daniel, Ad Aen. X, 541), boues . . . profugisse in
siluam.
270 I, 68, 2; cf. infra p. 419 sq.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 215

II ne faut donc pas voir dans ce relief une représentation qui se


voudrait réaliste du sacrifice d'Enée à son arrivée dans le Latium. Il
présente au contraire une fusion d'éléments très divers; des éléments
grecs viennent du cycle des légendes de Y Ilioupersis : le personnage
d'Enée, son voyage qui se termine par l'arrivée en Hespérie; d'autres
détails sont empruntés aux légendes locales, romaines et lavinates : le
prodige de la truie aux trente porcelets, le transfert des sacra troyens
considérés comme les Pénates de Lavinium; enfin, certains éléments
traduisent des réalités religieuses romaines contemporaines de
l'exécution de l'œuvre : le costume sacerdotal d'Enée, la présence des deux
camilli, leurs costumes, leurs couronnes de feuilles, le plat contenant
les offrandes, le vase destiné aux libations que l'un d'eux tient à la
main, le sacellum où se tiennent les statuettes des Pénates, et aussi le
porc, victime parfois sacrifiée à Cérès ou à Tellus271 et présente
également dans les suouetaurilia212 ; mais cette figuration de l'animal peut
être interprétée comme une synthèse entre un élément réaliste et un
épisode légendaire, celui de la truie miraculeuse. C'est ce que suggère
S. Weinstock273, en affirmant qu'il ne s'agit pas de la truie miraculeuse,
ni même du sacrifice initial d'Enée à son arrivée au Latium, mais d'un
sacrifice fait aux Pénates en souvenir de ce sacrifice initial, alors
qu'Enée est déjà roi de Lavinium : le sacrifice annuel des magistrats
romains à Lavinium en serait un renouvellement274.
Le relief n'est pas une illustration du texte de Virgile, mais il a pu
être inspiré par lui dans certains détails, et il exprime sans doute le
même courant de pensée politico-religieux qui formule la légende
troyenne des origines de Rome à l'époque d'Auguste. Cette hypothèse
est du reste confirmée par l'interprétation que l'on peut donner des
quatre reliefs qui décorent les parois extérieures : sur le devant, le
sacrifice d'Enée à droite, à gauche un relief en très mauvais état
représentant sans doute le berger Faustulus recueillant Romulus et Rémus,
ou Mars devant la grotte du Lupercal où la louve venait nourrir les
jumeaux; sur le derrière de l'autel, la scène symétrique du sacrifice

271 Cf. H. Le Bonniec, Le culte de Cérès à Rome des origines à la fin de la République,
Paris, 1958, p. 82 : le sacrifice d'une truie «convient particulièrement à Cérès et à Tellus,
mais elle est sacrifiée à bon nombre de divinités, si bien que l'on n'ose rien affirmer».
272 E. Benveniste, Symbolisme social dans les cultes gréco-italiques, RHR, 86, 1945,
p. 12 sq.; G. Dumézil, Tarpéia, Paris, 1947, p. 142 sq.
273 Op. cit., p. 57.
274 Cf. infra, p. 355 sq.
216 LES PÉNATES PUBLICS

d'Enée représente une femme nourrissant deux enfants; quelle que soit
l'identité de cette dernière275, le relief célèbre la prospérité romaine; la
quatrième scène est à peu près complètement effacée276. L'ensemble
illustre donc à la fois la paix et l'abondance romaines, et les deux
reliefs de la façade représentent les deux fondateurs de la race
romaine : Enée, l'ancêtre troyen, et son descendant, Romulus, fondateur de
Rome. L'association des deux personnages en des scènes symétriques
rappelle évidemment les peintures des Fullonica de Pompéi et les
groupes statuaires des niches centrales du Forum d'Auguste.
Les reliefs de Y Ara Pacis célèbrent la paix enfin établie par
Auguste. Ni Romulus, ni Enée ne sont représentés comme les guerriers qu'ils
sont dans certains épisodes de leur légende. Fait très rare dans
l'iconographie du personnage, Enée ne porte pas un casque, mais le vêtement
sacerdotal : il est bien le pius Aeneas chanté par Virgile277; mais il y a
plus : l'expression de son visage, le traitement de sa barbe et de sa
chevelure rappellent, comme le fait remarquer G. Moretti278, le type
iconographique de Jupiter; Enée serait donc définitivement passé ici, pour
reprendre la terminologie de G. Dumézil, de la fonction guerrière à
celle de la souveraineté, et même, il serait presque identifié au dieu de
cette fonction, Jupiter.
On voit comment la légende de la venue d'Enée au Latium et du
transfert des sacra s'est peu à peu élaborée et transformée dans la
littérature et l'iconographie entre le VIe et le Ier siècle avant J.-C. Le destin
du héros troyen se précise peu à peu. Dans la plus ancienne attestation
littéraire du personnage d'Enée, l'Iliade, un avenir brillant est promis
au héros, sans que le poète dise où se réalisera cet avenir. Au VIe siècle,
avec Stésichore - si on accepte de considérer que la Tabula Iliaca
illustre bien son poème -, la terre promise à Enée est l'Hespérie, et au Ve
siècle, Hellanicos et Damastes parlent, selon Denys d'Halicarnasse, de
l'Italie. Aux IIIe et IIe siècles, ni les auteurs grecs ni les auteurs latins
n'ajouteront de précision supplémentaire et ce n'est qu'avec Varron,
puis Virgile, que la légende du débarquement d'Enée au Latium, et
plus précisément à l'emplacement de la future Lavinium, s'établit
définitivement.

275 G. K. Galinsky, op. cit., p. 191 sq.


276 Cf. C. Pietrangeli-R. Bianchi Bandinella op. cit., p. 525 et 527.
277 G. K. Galinsky, op. cit., p. 35-36; J.-P. Brisson, Le «pieux Enée», p. 379 sq.
278 Op. cit., p. 216.
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA 217

Le personnage d'Ascagne accompagnant son père n'est pas


toujours présent dans la tradition littéraire et iconographique,
contrairement à celui d'Anchise; son rôle se transforme. Sur les vases attiques
du VIe et du Ve siècles, il ne figure pas très souvent, ou est accompagné
d'autres enfants; de même Hellanicos le cite parmi d'autres fils du
mariage troyen d'Enée. Il n'est toujours présent dans le groupe des
fugitifs qu'à partir du moment où les écrivains latins au IIIe siècle
reprennent à leur compte la légende d'Enée; encore Cassius Hemina,
au IIe siècle, cite-t-il deux fils d'Enée fuyant avec lui; l'amphore de Vul-
ci est le seul témoignage archaïque d'origine italique où Ascagne joue
un rôle important, et nous avons souligné plus haut que ce type
iconographique est unique. En revanche, à partir du Ier siècle, Ascagne est
mis en valeur pour les raisons politiques et dynastiques déjà relevées.
Parallèlement à l'évolution du rôle d'Ascagne, le personnage d'Enée se
transforme, de guerrier troyen des poèmes homériques en pius Aeneas,
manifestant sa piété envers ses dieux, ses sacra, et aussi envers son
père, qui est, dit Ovide, altera sacra279, cette transformation du
personnage s'opérant chez Virgile par une intériorisation de sa mission.
Le transfert des sacra n'intéresse ni la littérature ni l'iconographie
grecques, à l'exception notable du poème de Stésichore, si la Tabula
Iliaca l'illustre fidèlement; l'origine du «scarabée étrusque» est
inconnue. L'amphore de Vulci, même si l'interprétation du doliolum n'est
pas certaine, serait donc la première attestation de la légende en Italie,
au Ve siècle. Timée et Lycophron témoignent de sa vitalité au IIIe siècle.
Etant donné que les œuvres de Naevius, de Fabius Pictor et d'Ennius ne
nous sont connues que par de très courts fragments, il est impossible
de tirer aucune conclusion du fait que la légende n'est pas mentionnée
dans ce que nous en connaissons. En revanche, à partir du IIe siècle,
avec Cassius Hemina, elle est constamment liée au thème de la fuite
d'Enée, et le poème de Virgile s'ordonne autour d'elle.
Nous montrerons plus loin que l'histoire du transfert des sacra n'a
pas un caractère purement littéraire, mais qu'en elle se mêlent des
apports locaux et des légendes venues de Grèce. Il restera à voir par
quel chemin ces légendes sont arrivées au Latium pour se greffer sur
les traditions latines.

279 Fastes 1, 527-528.


CHAPITRE II

LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM

Dans la légende troyenne, à l'épisode du transfert des sacra par


Enée de Troie en Italie succède la prise de possession par les Troyens
de la terre latine, et, après des luttes avec les peuples autochtones, la
fondation par Enée d'une cité nouvelle, Lavinium, et l'installation dans
cette dernière des dieux de Troie, et notamment des Pénates. C'est ce à
quoi fait allusion Varron dans un texte déjà cité : oppidum quod pri-
mum conditum in Latio stirpis Romanae, Lauinium : nam ibi dii Penates
nostri1. Il y a donc identification des dieux apportés par Enée et des
Pénates des Romains. Le sacrifice des magistrats romains à Lavinium,
attesté par Servius-Daniel et Macrobe, témoigne lui aussi de l'existence
de ce culte, et est l'expression du même sentiment2. Servius-Daniel
écrit : cum consules et praetores siue dictator abeunt magistratu, Lauini
sacra Penatibus simul et Vestae faciunt3; le témoignage de Macrobe est
formulé presque dans les mêmes termes : ut et consules et praetores seu
dictatores, cum adeunt magistratum, Lauini rem divinam faciant
Penatibus pariter et Vestae4. Les deux auteurs attestent que les hauts
magistrats romains allaient à Lavinium accomplir un sacrifice (sacra, rem
diuinam) à Vesta et aux Pénates, cependant que Varron affirme que les
Pénates romains se trouvaient à Lavinium. Nous sommes donc fondés à
penser que ces dieux avaient à Lavinium un sanctuaire, qu'ils
partageaient peut-être avec la déesse du foyer. L'existence de ce dernier est
attestée dans la tradition littéraire et iconographique, mais
l'interprétation de ces données, parfois divergentes, est assez délicate. On peut

1 De L.L. V, 144.
2 Pour une étude détaillée de la signification de ce sacrifice cf. ci-dessous, p. 355-61.
3 Ad Aen. II, 296.
4 III, 4, 11. Sur les deux leçons adeunt et abeunt, voir ci-dessous, p. 355-7.
220 LES PÉNATES PUBLICS

donc espérer pouvoir les éclairer par les découvertes archéologiques


récentes de Pratica di Mare, notamment le sanctuaire des Treize autels
et le sanctuaire extra-urbain situé à l'est des murailles de la cité.

I - Les donnés littéraires et iconographiques

1) La tradition littéraire

Outre les très minces indications de Varron, Servius-Daniel, et Ma-


crobe que nous venons de rappeler, l'existence d'un temple des Pénates,
ou d'un temple renfermant les images des Pénates, est attestée dans
trois textes.
Le premier est un témoignage de Timée cité par Denys d'Halicar-
nasse : κηρύκεια σιδηρά και χαλκά και κέραμον Τρωικον είναι τα εν τοις
άδύτοις τοις έν Λαουϊνίω κείμενα ίερά5. Bien qu'aucune précision ne
soit donnée sur la divinité dédicataire de Y adyton en question, on est en
droit de penser, puisque Denys se propose de définir les Pénates de
Lavinium, et en l'absence d'indication contraire, qu'il s'agit d'un
sanctuaire qui leur est propre. Ce témoignage, au demeurant, nous aide peu
pour l'identification du temple : il ne contient aucune précision
topographique.
Le second texte est un passage de X Alexandra de Lycophron :

πατρω'
δείμας δε
αγάλματ'
σηκον Μυνδία
έγκατοικιεΐ
Παλληνίδι
θεών6.

Selon la prophétie de Cassandre, Enee fondera Lavinium et y


établira le culte d'Athéna, désignée ici par deux épithètes dont J. Perret
note à juste titre qu'elles font allusion au voyage d'Enée, le pays des
Myndiens désignant l'Asie, son point de départ, et Pallènè l'une de ses
étapes7; dans sa prophétie, Cassandre n'attribue à Enée aucune autre
fondation de culte; le choix d'Athéna s'explique assez bien, comme l'a

5 I, 67, 4 : « Les objets sacrés contenus dans la partie secrète du sanctuaire de


Lavinium sont des caducées de fer et de bronze et de la poterie troyenne».
6 1261-62: «Ayant construit un temple à Myndia Pallènis, il (Enée) y installera les
images des dieux de sa partrie»; cf. supra p. 172-6.
7 Les origines de la légende troyenne de Rome, Paris, 1942, p. 353; cf. Denys d'H., I,
49.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 221

souligné Holzinger8, par le fait qu'elle est par excellence une déesse
poliade, à Troie en particulier, et que l'établissement de son culte par
Enée dans la cité qu'il fonde en Italie est hautement symbolique du fait
que cette dernière est une nouvelle Troie. Le terme σηκός désigne
«l'enceinte sacrée» plutôt que le temple lui-même9: c'est peut-être une
allusion aux cultes archaïques en plein air, ou au caractère hâtif,
provisoire, de ce premier établissement donné par le Troyen à Athéna; mais
sans doute ne faut-il pas chercher à attribuer un sens trop rigoureux
aux termes d'un texte volontairement énigmatique. A s'en tenir à cette
prophétie en tout cas, les πατρφοι θεοί d'Enée, en qui, croyons-nous, il
faut reconnaître les Pénates, n'ont pas à Lavinium de sanctuaire qui
leur soit propre : leurs images (αγάλματα) sont déposées dans celui
d'Athéna.
Quel crédit peut-on accorder à ce témoignage? Les obscurités et les
fantaisies qu'il contient ne doivent pas jeter sur lui un discrédit total.
Le culte d'Athéna, considérée comme une déesse troyenne, a été étudié
par G. Pugliese Carratelli 10, qui s'appuie sur un texte de Strabon; ce
dernier mentionne les cités d'Italie du sud qui passaient pour des
établissements troyens et où étaient vénérées des statues d'Athéna Ilias
que l'on considérait comme «troyennes»11. Strabon évoque, non sans
ironie, la multiplicité de ces «Athénas troyennes», dont l'une se trouve
à Lavinium : και έν 'Ρώμη και έν Λαουϊνίω και έν Λουχερία και έν Σειρί-
τιδι Ίλιας 'Αθηνά καλείται, ώς εκείθεν κομισθεΐσα 12. Le fait qu'Enée
installe ses dieux ancestraux dans le temple d'Athéna est-il l'expression
d'un lien cultuel? C'est peu vraisemblable, car il n'existe aucune
attestation d'un tel lien, si ce n'est, par l'intermédiaire, précisément, du per-

8 Lykophrons Alexandra, Leipzig, 1893, ad loc.


9 P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, IV, 1, Paris, 1968,
s.u. σηκός.
10 Lazio, Roma e Magna Grecia prima del secolo quarto a.C, PP, 23, 1968, p. 324. Voir
aussi C. Bearzot, Atena Itonia Tritonia e Iliaca, in Politica e religione nel primo scontro tra
Roma e l'Oriente, Milan, 1982, p. 57-60; M. Sordi, Lavinio, Roma e il Palladio, ibid., p. 65-
78 ; C. Cogrossi, Atena Iliaca e il culto degli eroi, ibid., p. 79-98 ; M. Torelli, Lavinio e Roma.
Riti iniziatici e matrimonio tra archeologia e storia, Rome, 1984, p. 19-74.
11 VI, 1, 14: Siris et Héraclée notamment; Strabon ironise sur le prodige raconté à
propos de la statue d'Athéna dans cette cité : elle aurait fermé les yeux, devant un
sacrilège, comme à Troie lors du viol de Cassandre; cf. M. Torelli, op. cit., p. 21-22.
12 Ibid. : «Car à Rome, comme à Lavinium, comme à Lucéria et comme, finalement,
en Siritide, Athéna est appelée «Athéna Troyenne» parce qu'on la croit apportée de
Troie» (trad. F. Lasserre, C.U.F., Paris, 1967).
222 LES PÉNATES PUBLICS

sonnage d'Enée, dans la tradition selon laquelle Enée aurait emporté de


Troie, parmi les sacra, le Palladium, supposé conservé à Rome dans le
sanctuaire de Vesta13. Mais il ne s'agit pas, selon nous, d'un lieu cultuel
à proprement parler; en réalité, Enée emporte de Troie ce que la cité a,
religieusement, de plus précieux : nous avons vu que certaines images
montrent aux mains d'Anchise une ciste, censée contenir des sacra dont
la définition reste très vague; d'autres montrent le Palladium dans les
bras d'Enée14. Aussi nous semble-t-il que la contradiction entre le texte
de Lycophron et les indications que l'on peut tirer du témoignage de
Timée rapporté par Denys d'Halicarnasse n'est pas aussi insurmontable
qu'il y paraît à première vue. On peut supposer, en effet, que la
prophétie de Cassandre évoque un état provisoire de l'installation des
dieux troyens par Enée dans la cité qu'il vient de fonder : son premier
soin est pour la déesse poliade, dans le sanctuaire de laquelle il établit,
provisoirement, ses πατρφοι θεοί, ce qui n'exclut pas - et l'on retrouve
alors le témoignage de Timée - qu'ultérieurement, ces derniers aient
été installés dans un temple qui leur fût spécifiquement dédié.
C'est, une fois encore, chez Denys d'Halicarnasse que nous
trouvons les renseignements les plus substantiels sur l'installation des
Pénates à Lavinium par Enée. Le Troyen, qui a reconnu l'accomplissement
des prodiges dont les dieux lui avaient annoncé qu'ils marqueraient son
arrivée dans la terre qui lui était destinée (la manducation des tables et
la truie aux trente porcelets) va sacrifier l'animal miraculeux : Αινείας
δε της μέν ύος τον τόκον άμα τη γειναμένη τοις πατρφοις άγίζει θεοΐς έν
τω χωρίω τφδ', ού νυν έστιν ή καλιάς, και αυτήν οί Λαουϊνιάται τοις
άλλοις άβατον φυλάττοντες ίεράν νομίζουσι ■ τοις δέ Τρωσί μεταστρα-
το-πεδευσαι κελεύσας έπί τον λόφον ιδρύεται τα εδη των θεών έν τω
κρατίστω και αύτίκα περί την κατασκευήν του πολίσματος άπαση
προθυμία ώρμητο15. Ce texte atteste tout d'abord l'existence d'une καλιάς,
chapelle commemorative du sacrifice de la truie par Enée; cette cha-

13 Cf. infra p. 460-7.


14 Par exemple, sur une lampe conservée au Musée Kestner à Hanovre : voir K.
Schauenburg, Aeneas und Rom, Gymnasium, 67, 1960, p. 184 et t. XVIII, 2; F. Castagnoli,
Lavinium I, Rome, 1972, p. 79 fig. 83 et p. 114.
15 I, 57, 1 : «Enée sacrifia la truie et ses petits aux θεοί πατρώοι à l'endroit où s'élève
aujourd'hui la chapelle que les Lavinates considèrent comme sacrée et interdisent à tous
les autres. Ayant donné l'ordre aux Troyens de déplacer leur camp sur la hauteur, il
installa les images des dieux au meilleur emplacement, et aussitôt s'adonna de tout son
cœur au travail de construction de la cité».
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 223

pelle aurait encore existé du temps de Denys, ainsi qu'en témoigne


l'emploi du présent έστιν, et seuls les Lavinates y auraient accès, ce qui
corrobore peut-être l'indication de Timée selon laquelle le temple de
Lavinium comportait un adyton. Le terme de καλιάς16 signifie, au sens
premier, «hutte de branchages», «cabane», puis «petite chapelle», et
semble désigner un édifice assez modeste17. D'autre part, Denys parle
d'un établissement par Enée des πατρφοι θεοί «sur la hauteur»: ce
temple est-il la καλιάς, ou cette dernière n'est-elle qu'une chapelle
commemorative, non le siège du culte? Le texte de Denys, à lui seul, n'offre
pas de réponse à cette question, que les attestations iconographiques du
temple permettent peut-être d'éclairer un peu. En revanche, il peut
constituer un argument en faveur de la suggestion de F. Castagnoli18,
selon qui le temple des Pénates à Lavinium (où Vesta devait être
honorée aussi puisqu'ils recevaient un sacrifice commun de la part des
magistrats de Rome) ressemblait peut-être à celui de Vesta sur le
Forum19; nous savons en effet que, dans son état le plus ancien, le
sanctuaire du Forum avait un toit de branchages20, ce que semble
aussi suggérer le terme de καλίας. Enfin, ce texte donne à penser que le
sanctuaire dans lequel Enée établit ses πατρφοι θεοί est à l'intérieur de
la cité : un peu auparavant, en effet, Denys indique qu'Enée et ses
compagnons, ayant débarqué au Latium, construisent une cité μικρόν άπο-
σχόντες άπο θαλάττης επί λόφω τινί21; on peut supposer qu'il s'agit de
la même hauteur que celle où il établit ses dieux, car Denys indique
clairement qu'Enée commence la construction de la ville aussitôt
(αύτίκα) après avoir installé ses dieux «sur le meilleur emplacement»;
la priorité donnée aux dieux, comme ce choix topographique, semblent
l'une des illustrations de la piété d'Enée22. Il nous paraît donc, d'après

16 P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, II, Paris, 1970, s.u.


καλιάς
17 F. Castagnoli, in Enea nel Lazio. Archeologia e mito, Catalogue de l'Exposition,
Rome, 1981, p. 157-158.
18 Lavinium I, p. 115; A. Alföldi, Early Rome and the Latins, University of Michigan
Press, Ann Arbor, 1964, p. 274.
19 Nous savons par Tacite (Ann. XV, 41) que ce temple passait pour contenir les
Penates populi Romani.
20 Ovide, Fastes IV, 261-62.
21 I, 45, 1 : «sur une hauteur non loin de la mer».
22 Rappelons par exemple que Lycophron (Alex., 1263 sq.) indique qu'Enée a préféré
ses dieux à l'ensemble de ses biens, et que, selon Varron, c'est l'exercice de cette piété qui
lui valut l'estime des Grecs (Servius, Ad Aen. II, 717; cf. supra p. 175; 179 sq.
224 LES PÉNATES PUBLICS

le témoignage de Denys, seul document littéraire que nous possédions à


ce sujet, que le temple des Pénates, situé «dans le meilleur endroit»
d'une ville construite sur une hauteur, ne pouvait se trouver qu'à
l'intérieur des murs de la cité.

2) Les documents iconographiques

Nous avons précédemment étudié23 le relief de l'Ara Pacis


représentant le sacrifice d'Enée. Nous avons alors indiqué les raisons qui
nous donnaient lieu de croire, à la suite de G. Moretti24, que la scène se
situait à Lavinium, comme le montrent le caractère hâtif de la
construction de l'autel sur lequel Enée va sacrifier l'animal, et certains
détails qui semblent, même si on peut les interpréter comme des
éléments conventionnels de la représentation des paysages, évoquer
précisément des aspects de la région de Lavinium, par exemple le chêne
couvert de feuillles qui apparaît en haut au centre de la scène,
malheureusement très endommagé par la cassure principale du relief :
différents témoignages attestent que les environs de Lavinium étaient
boisés, et que la forêt était toute proche de la ville25. Au demeurant, nous
avons insisté sur l'absence de caractère réaliste de l'ensemble de la
scène, et, notamment, sur les difficultés qu'offre l'identification du petit
édifice qui figure en haut à gauche du relief. Celle des deux
personnages assis sur le devant comme les Pénates nous paraît certaine, mais, si
l'édifice leur est bien dédié, duquel de leurs temples s'agit-il? La
question a été longuement débattue. Pour R. Schilling26, l'édifice et les
images des dieux sont en tous points conformes à la description que fait
Denys d'Halicarnasse du temple de la Vèlia à Rome27, et il n'est pas
douteux qu'il faille voir sur le relief une représentation du temple de
Rome (restauré par les soins d'Auguste, comme nous l'apprennent les

23 Cf. supra p. 209-216.


24 Ara Pacis Augustae, Rome, 1948, p. 215.
25 Caton, cité par Servius-Daniel (Ad Aen. X, 541 = Fr. 55 Peter), raconte que des
boeufs qui devaient être sacrifiés s'enfuirent dans la forêt ; une anecdote analogue, à
propos de poulets sacrés, se trouve chez Valére Maxime (I, 6, 7) et Obsequens (24).
26 Penatibus et Magnis Dis, Mise. E. Manni VI, Rome, 1980, p. 1972; R. Schilling
considère cette identification comme incontestable, et s'appuie sur les affirmations d'E.
Petersen (Ara Pacis Augustae, Vienne, 1902, p. 57); cf. aussi F. Castagnoli, Lavinium I,
p. 115.
27 I, 68, 1-2.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 225

Res Gestae28), que le sculpteur aurait ainsi voulu mettre à l'honneur.


Cette identification nous paraît cependant sujette à caution29, mais il
est possible, en revanche, que certains éléments de la représentation de
cet édifice soient réalistes, et, en particulier, le fait qu'il est situé sur
une sorte d'escarpement rocheux; cette particularité rappelle un détail
du texte de Denys que nous commentions plus haut, indiquant qu'Enée
installa ses παθρφοι θεοί sur une hauteur. Nous aurions ainsi, dans le
relief de YAra Pacis, une indication, sinon sur l'architecture du temple,
du moins sur sa situation géographique.
Sur une monnaie d'Antonin, on peut voir une scène représentant
elle aussi le sacrifice d'Enée30. Elle date des années 145-146 et
appartient à une série de monnayages commémorant le 900e anniversaire de
la fondation de Rome31, dans lesquels Antonin est présenté comme un
nouvel Enée, ce qui explique le choix du thème. Le type
iconographique semble très directement inspiré de celui de Y Ara Pacis32. La
composition d'ensemble est, comme sur le relief, pyramidale, avec la figure
d'Enée dominant la scène; sur la droite se tient un enfant, Ascagne; à
gauche, on voit deux camilli, dont l'un approche une truie d'un autel
qui se trouve entre les deux groupes de personnages; l'attitude des
deux serviteurs est absolument identique à ce qu'elle était sur le relief
de Y Ara Pacis : l'un, debout, tient dans sa main gauche une coupe
remplie d'offrandes, l'autre se baisse pour guider l'animal vers l'autel. En
revanche, le temple, qui est présenté, comme sur YAra Pacis, en haut à
gauche, à la hauteur de la tête d'Enée, à l'arrière-plan, a une forme
bien différente du sacellum figurant sur le relief : c'est un édifice
tétrastyle surmonté, semble-t-il, d'un fronton ou d'un toit pointu (cette
partie de la monnaie est assez altérée); la comparaison avec d'autres
monnaies fait préférer la seconde interprétation : le monument de
Lavinium était rond, et fort semblable au sanctuaire de Vesta sur le

28 IV, 7 : Aedem deum Penatium in Velia . . . feci.


29 Nous avons déjà dit, en effet, que la scène nous paraissait se passer à Lavinium,
d'une part; d'autre part, le petit édifice ne présente pas les caractéristiques
architecturales d'un temple ; voir supra p. 209 sq.
30 F. Gnecchi, / medaglioni romani, Milan, 1912, II, p. 37 n. 84 (pi. 66, 6); F.
Castagnoli, Lavinium /, p. 81, fig. 88.
31 Ph. V. Hill, The Undated Coins of Rome A.D. 98-148, Londres 1970, p. 91 ; F.
Castagnoli, op. cit., p. 113, et n. 11.
32 J. Toynbee, Roman médaillons, New- York, 1944, p. 218 sq; F. Castagnoli, op. cit.,
p. 115 n. 5.
226 LES PÉNATES PUBLICS

Forum. L'ensemble de la scène fait penser que le édifice est présenté


comme le temple des Pénates. Les discordances existant entre ces
figurations nous prouvent leur absence de caractère réaliste et leur peu de
valeur documentaire. Du reste, F. Castagnoli33 souligne le caractère
«purement symbolique et conventionnel» de la scène représentée sur la
monnaie d'Antonin, un peu différente pourtant de celle qui figure sur
les monnaies que nous allons étudier à présent.
L'une, datant également de l'époque d'Antonin, et exprimant la
même intention de célébration dynastique dans son utilisation de la
légende d'Enée, présente, sur son revers, le débarquement du héros
troyen34. Il figure au centre de la scène, en train de descendre une
passerelle, accompagné d'Ascagne, qu'il tient par la main; sur la droite, on
aperçoit la proue recourbée d'un navire, dont Enée et son fils viennent
de descendre, mais où se trouvent encore leurs compagnons; sur la
gauche, au pied de la passerelle, est accroupie la truie miraculeuse35
vers laquelle Enée tend la main droite; derrière elle, on aperçoit un
arbre et, selon F. Castagnoli36, «un élément rocheux, une porte de Lavi-
nium, et une grotte»; au-dessus, on aperçoit différents édifices
difficilement identifiables, mais dans l'un d'eux, le plus important, il nous
semble qu'on peut reconnaître un édifice rond, surmonté d'un toit en
coupole; sans doute faut-il y voir le temple des Pénates. Par rapport à la
représentation précédemment étudiée, celle-ci présenté la singularité
de montrer une porte de la ville; le fait de représenter les édifices au-
dessus d'elle, tandis que le débarquement d'Enée se fait en-dessous
d'elle, signifie sans doute que ces constructions sont à l'intérieur de la
cité.
Un relief de la même époque, conservé au British Museum37,
relève du même modèle iconographique38. La partie supérieure manque,
mais ce qui nous a été conservé est assez semblable à la monnaie :

33 Op. cit., p. 115.


34 F. Gnecchi, op. cit., p. 20 n° 99, pi. 54, 9; F. Castagnoli, op. cit., p. 78, fig. 81.
35 A. Alföldi, Early Rome, p. 273. La figuration de la truie sur cette monnaie et celles
que nous étudions plus bas est peut-être inspirée de l'effigie de bronze de la truie aux
trente porcelets dont Varron nous dit (R.R. II, 14, 17) qu'elle figurait à Lavinium in publi-
co; cf. A. Alföldi, loc. cit., n. 6; F. Castagnoli, op. cit., p. 115; supra p. 174.
36 Op. cit., p. 113.
37 British Museum Quaterly II, 1927-28, p. 84-85; F. Castagnoli, op. cit., p. 77 fig. 78.
38 F. Castagnoli (op. cit. p. 114) considère qu'elle est une copie de la monnaie, ou que
les deux figurations appartiennent à un modèle commun.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 227

proue recourbée de navires à droite, Enée tenant Ascagne par la main


au centre, avec le même geste du héros vers la truie accroupie, entre
les pattes de laquelle on distingue cette fois nettement des porcelets;
derrière l'animal, on voit une porte, au-dessus de laquelle s'incline un
arbre; enfin, au-dessus de cette dernière, il y a une colonnade, sur une
sorte d'escarpement. Nous pensons qu'il faut y reconnaître le temple
des Pénates figuré, cette fois, non seulement à l'intérieur de l'enceinte
de la cité, mais sur une hauteur. Ce dernier détail nous apparaît
comme un élément réaliste absent de la représentation précédente, tandis
que sur l'une et l'autre, la figuration d'un arbre est peut-être un autre
trait de réalisme faisant allusion aux forêts qui entouraient Lavinium.
Toutefois, il est impossible de voir, en l'état où nous est parvenu ce
relief, quelle forme l'artiste avait donnée au temple.
Deux monnaies très semblables, datant, l'une du règne
d'Hadrien39, l'autre d'Antonin40 offrent sur leur revers une représentation
de la même scène du débarquement d'Enée, un peu différente des
précédentes. Cette fois, la truie, avec ses porcelets, se trouve au centre de
la monnaie et est très grosse par rapport aux autres éléments du
tableau41; devant elle, on peut voir une porte pratiquée dans une
muraille qui semble entourer l'ensemble de la scène, et dans laquelle
sont construites des tours, dont deux flanquent la représentation de
l'animal42; au second plan se trouve Enée portant Anchise, avec, à
droite une construction assez basse, peut-être un puteal selon F.
Castagnoli43, protégeant un arbre sacré que l'on aperçoit derrière; à gauche
figurent une autre petite construction et un temple rond périptère -
c'est l'édifice le plus important de notre scène -, avec un toit pointu ou
en coupole, dans lequel F. Castagnoli44 propose de reconnaître la
καλίας évoquée par Denys d'Halicarnasse, «c'est-à-dire», ajoute-t-il, «le
temple lavinate de Vesta et des Pénates». Nous trouvons donc dans ces

39 J. Toynbee, op. cit., p. 143, pi. XXV n. 4; F. Castagnoli, op. cit., p. 78 fig. 80; G.
Giorgi, La leggenda delle origini di Roma in un raro medaglione di Adriano, RIL, LVII,
1955, p. 84-87.
40 F. Gnecchi, op. cit., p. 22 η. 115, pi. 55, 8; F. Castagnoli, op. cit., p. 79 fig. 82.
41 A. Alföldi, op. cit., p. 273.
42 On se rappelle que Lycophron (Alex., 1252-1256) faisait allusion aux «trente tours»
de Lavinium, qu'il mettait en rapport avec le nombre de porcelets de la truie
miraculeuse : voir supra p. 173 sq.
43 Op. cit., p. 114.
44 Ibid.
228 LES PÉNATES PUBLICS

monnaies deux des caractères déjà notés dans d'autres représentations


du temple des Pénates à Lavinium : il est à l'intérieur des murs de la
cité, et il est rond, Toutefois, il faut se garder d'assigner à ces
représentations un caractère trop strictement réaliste. Il est clair, par exemple,
qu'elles n'offrent pas de cohérence chronologique, comme en
témoignent la présence d'Anchise parmi les Troyens lors de l'arrivée au
Latium, et le fait que la cité, ses remparts et ses monuments sont déjà
construits quand Enée débarque. Aussi la valeur de témoignage que
l'on peut accorder à la représentation du temple est-elle sujette à
caution.
Enfin, deux lampes datables de la même époque45 offrent une
représentation de l'arrivée d'Enée en Italie qui semble directement
inspirée de la partie supérieure des deux monnaies précédentes46, mais
dont l'originalité par rapport à elles consiste dans la présence d'Asca-
gne et du Palladium dressé sur une base47. Au fond à gauche, derrière
Ascagne, on aperçoit un temple rond périptère, avec un toit pointu, et
un arbre. Les thèmes iconographiques qui constituent ces images sont
donc semblables à ceux que nous avons précédemment étudiés.
Il semble48, malgré des divergences, qu'apparaissent à plusieurs
reprises certaines caractéristiques dans la représentation du
sanctuaire : construction sur une hauteur, à l'intérieur de la cité, en forme de
hutte. Ce sont celles-là qui nous frappent, parce qu'elles correspondent
aux indications fournies par Denys d'Halicarnasse sur la καλίας. Mais
par ailleurs, nous avons souligné le peu de réalisme de ces
représentations; la légende du débarquement d'Enée au Latium est inséparable de
l'affirmation des origines troyennes de Rome, et les empereurs se
présentent soit comme les descendants d'Ascagne, soit comme une
réincarnation d'Enée49. Dans cette mesure précisément s'explique le caractère

45 L'une est conservée au Musée Kestner de Hanovre (inv. 1170) (cf. F. Castagnoli,
op. cit., p. 79 fig. 83), l'autre au Musée d'Aquileia (ibid., p. 79 fig. 84).
46 Cf. F. Castagnoli, op. cit., p. 114.
47 Sur la lampe du Musée de Hanovre, une inscription sur la base du Palladium
désigne Enée, Anchise et Ascagne.
48 Cf. F. Castagnoli, op. cit., p. 115.
49 Auguste se présentait comme un nouveau Romulus (G. Radke, Quirinus. Eine
Kritische Überprüfung der Überlieferung und ein Versuch, A.N. R.W. , II, 17, 1, Berlin-New-
York, 1981, p. 294-95), Hadrien comme un nouvel Auguste (J. Beaujeu, La religion
romaine à l'apogée de l'Empire : I La politique religieuse des Antonins, Paris, 1955, p. 126-127 et
152 n. 2), et Antonin revivifia la légende des origines troyennes {ibid. p. 291-293); voir
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 229

non réaliste de ces images, qui synthétisent les différentes étapes


chronologiques et géographiques des aventures d'Enée; aussi est-il possible
de penser que le temple rond est celui de Vesta sur le Forum, cette
représentation étant alors destinée à rappeler que Rome est la fille de
Lavinium.
En définitive, on voit combien l'interprétation des données
littéraires et iconographiques de la tradition concernant le sanctuaire des
Pénates est délicate. Aussi nous faut-il nous tourner vers l'archéologie
et les récentes découvertes faites sur le site de l'antique Lavinium pour
essayer d'y trouver des éléments susceptibles de nous éclairer.

II - Les témoignages archéologiques

Les fouilles menées à Pratica di Mare depuis une vingtaine


d'années par l'Istituto di Topografia antica dell'Università di Roma ont mis
au jour des restes très importants de l'antique Lavinium50, parmi
lesquels un ensemble architectural, à destination cultuelle, à l'extérieur du
périmètre de la cité antique, au sud-ouest de Pratica, entre le village et
la mer, et, en 1977, sur une colline située à l'est des murailles antiques,
un dépôt votif et les restes de différents édifices actuellement en cours
d'exploration51, dont au moins un sanctuaire.

1) Le sanctuaire des Treize autels

A) Présentation des découvertes

Dès 1900, Lanciani et Ashby avaient supposé l'existence d'un


sanctuaire près de la petite église de la Madonnella, entre Pratica di Mare et
la côte, et G. Β Trovalusci52 avait pensé que là se trouvait peut-être le

aussi S. Lewuillon, La piété d'Enée et Coton le censeur. Un problème d'idéologie et de


propagande impériales, Latomus, 38, 1979, p. 125-146.
50 Pour un exposé de l'ensemble de ces découvertes, cf. Lazio arcaico e mondo greco,
PP, 32, 1977, IV : Ficana e Lavinium, p. 340-372.
51 P. Sommella, Le dépôt de statues votives découvert à Pratica di Mare, Archeologia,
n° 1 16, mars 1978, p. 20-21 ; Enea del Lazio, p. 187-271.
52 Lavinium - Pratica di Mare, Marino 1928, p. 43.
230 LES PÉNATES PUBLICS

sanctuaire des Pénates. Les découvertes faites entre 1957 et 196853


comportent, entre autres, un alignement de treize autels, les restes d'un
sanctuaire, et un édifice attenant, probablement utilitaire54.
Les treize autels55 constituent un ensemble monumental d'une
importance dont il n'y a pas d'autre exemple en Italie centrale, mais
qu'on rencontre à Agrigente et à Paestum56; ils sont situés sur une
ligne nord-sud qui forme une très légère courbe, et regardent vers l'est,
conformément à la règle rapportée par Vitruve : arae spectant ad
orientent'5'1. La série des autels a 50 mètres de long et une largeur qui varie
entre 2, 5 et 3,5 mètres. Ils sont posés par groupes de 3 ou 4 sur des
plates-formes, sauf le VIII, posé à même le sol58, construits en tuf ou
en cappellaccio, et la structure générale, à peu près identique chez
tous, présente la forme d'un | |, le sacrifiant opérant dans l'espace
plus ou moins profond laissé entre les deux antes latérales. Les autels,
d'autre part, présentent des modénatures très caractéristiques59. Si le
plan général est d'inspiration grecque, le profil semble une innovation
de l'Italie, avec ses lignes courbes, qui s'inspirent néanmoins de l'échi-
ne du chapiteau dorique ou de la corniche à bec de chouette60; à Lavi-
nium, on trouve dans certains autels le bec de chouette entre la
corniche de couronnement et la corniche de base; parfois, les deux
corniches sont simplement juxtaposées. Ce modèle a des correspondants en
Etrurie, à Rome et dans le Latium61, dans des autels, mais aussi dans
des podiums de temples, des bases, des cippes. Ainsi, le podium du

53 Pour une chronologie détaillée des découvertes, voir F. Castagnoli. . ., Lavinium


II : Le Tredici Are, Rome, 1975, p. XL
54 C. F. Giuliani - P. Sommella, Lavinium : Compendio dei documenti archeologici,
PP, 32, 1977, p. 356-372; J. Poucet, Le Latium protohistorique et archaïque à la lumière des
découvertes archéologiques récentes I, AC, 47, 1978, p. 592-596; G. Dury-Moyaers, Enée et
Lavinium, Coll. Latomus, vol. 174, Bruxelles, 1981, p. 129-143; Enea nel Lazio, p. 169-
185.
55 Lavinium II, passim.
56 Cf. F. Castagnoli, Sulla tipologia degli altari di Lavinio, BCAR, 67, 1959-60, p. 155.
57 IV, 9, 1.
58 Cf. les très nombreux plans, dessins, photos contenus dans Lavinium IL
59 L. Cozza, Le tredici are : Struttura e architettura, in Lavinium II, p. 89-174, et p. 94
fig. 93.
60 F. Castagnoli, Roma arcaica e i recenti scavi di Lavinium, PP, 32, 1977, p. 348; id.,
Lavinium II : Introduzione p. 5.
61 F. Castagnoli, Sulla tipologia. . ., p. 153 sq.; id., Roma arcaica e i recenti scavi di
Lavinium, p. 347-48; L. Shoe, Etruscan and Republican Roman Mouldings, Memoirs of the
American Academy in Rome, XXVIII, 1965, p. 97.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 231

second temple de Sant'Omobono, daté du milieu du VIe siècle, offre de


grandes analogies avec l'autel XIII de Lavinium62; deux autels trouvés
dans cette même aire sacrée présentent également cette structure63,
ainsi que l'autel archaïque du Comitium, longtemps identifié comme la
«tombe de Romulus»64. On en trouve également des exemples en Etru-
rie, notamment à Orvieto et à Fiesole; mais, tandis que L. Shoe65
estime que le modèle grec a été diffusé dans le Latium par l'intermédiaire
de l'Etrurie, F. Castagnoli66 propose au contraire de considérer, étant
donné l'ancienneté des premiers autels de Lavinium et leur évidente
inspiration grecque, que le type a été créé, sur le modèle grec, à
Lavinium et à Rome, puis diffusé dans la haute vallée du Tibre, et de là,
peut-être, vers le nord, c'est-à-dire vers TEtrurie, jusqu'à Marzabotto.
Le modèle se trouve reproduit dans de très nombreux
autels-miniatures, en Etrurie et dans le Latium67.
La construction de ces autels est datée du VIe au IVe siècles avant
J.-C; certains parmi les plus récents ont été reconstruits sur
l'emplacement d'un autel ancien. Ils ont d'abord été construits isolément,
séparés les uns des autres : le XIII est le plus ancien, mais on date
également du VIe siècle le IX et le VIII primitifs. Au milieu du Ve siècle s'y
ajoutent cinq autres autels, dont quatre (I, II, III, IV) présentent des
soubassements contigus, mais pas une plate-forme unique, ce qui, selon
P. Sommella et C. F. Giuliani68, indique peut-être qu'il ne s'agit pas
d'une architecture d'ensemble, mais de constructions faites à des
moments divers. Au cours du IVe siècle sont construits les autels VI et VII
qui font apparaître une volonté architecturale nouvelle : prenant place
entre le VIII et le V déjà construits, ils expriment sans doute chez les
architectes le désir de composer et de parfaire un alignement; cette
conception d'un ensemble architectural s'exprime aussi dans le fait que
ces deux autels sont construits, pour la première fois dans notre site,
sur un soubassement commun, qui, de plus, englobe le V et vient tou-

62 A. Sommella Mura, La decorazione del tempio arcaico, PP, 32, 1977, p. 65.
63 F. Castagnoli, Sulla tipologia. . . p. 150.
64 F. Coarelli, Roma (Guide archeologiche Laterza), Rome, 1980, p. 50-52; L. Shoe,
op. cit., p. 104; F. Castagnoli, Sulla tipologia. . ., p. 151.
65 Op. cit., p. 94-97.
66 Op. cit., p. 349.
67 L. Cozza, op. cit., p. 93.
68 Lavinium : Compendio dei documenti archeologici, p. 357-59.
232 LES PÉNATES PUBLICS

cher le soubassement du IV69. Enfin, à la fin du IVe siècle, selon la


même volonté et le même principe architecturaux que précédemment,
quatre autels sont construits sur une seule plate-forme, entre le VIII,
dont elle touche le soubassement, et le XIII : trois autels nouveaux y
apparaissent, les X, XI et XII, ainsi que le IX reconstruit. Il est possible
aussi qu'au moment de la construction de cette plate-forme, l'autel XIII
ait cessé d'être utilisé, car sa partie basse semble avoir été enterrée par
le matériau de cette construction, ne laissant à découvert que la surface
supérieure de l'autel70. Entre la fin du IVe et le IIe siècles, certains
autels, parmi les plus anciens, ont été reconstruits : le VIII qui datait du
VIe siècle, les I et II du Ve siècle. Mais ce qui nous importe ici, c'est que
la série des treize autels, avec la volonté architecturale, religieuse et
peut-être politique qu'exprime un tel ensemble, exceptionnel, répétons-
le, en Italie centrale, reçoive son achèvement dans le courant du IVe
siècle. Ainsi que l'indique très clairement F. Castagnoli71, l'ensemble
des treize autels et du sanctuaire attenant pose un double problème :
s'il est permis de penser qu'il s'agit d'un sanctuaire fédéral, la
signification du nombre des autels, et l'identification de la divinité à laquelle
était destinée le sanctuaire, soulèvent des difficultés qui ne sauraient
être facilement résolues.

B) Tentatives d'interprétation du nombre des autels

Le premier problème posé par l'ensemble des treize autels est celui
de sa destination : ces autels sont-ils consacrés à autant de divinités
auxquelles on pouvait faire un sacrifice simultanément, ou au contraire
sont-ils dédiés à une même divinité par différentes cités, voire une
confédération de cités? En d'autres termes, il faut se demander si le
nombre de ces autels a une signification strictement religieuse, ou une
signification politique.
Le nombre des autels offre déjà une difficulté. Nous avons vu que
les fouilles en avaient mis au jour treize; le XIII est le plus ancien, et
situé à un niveau nettement inférieur à celui de l'autel voisin, le XII;
celui-ci appartient au dernier groupe d'autels construit pour compléter

69 Pour un schéma très clair de ces différents stades de construction de la série des
treize autels, cf. C. F. Giuliani - P. Sommella, op. cit., p. 358 fig. 2.
70 Cf. P. Sommella, in Lavinium II : Lo scavo stratigrafico delle platee, p. 82.
71 Lavinium II : Introduzione, p. 5.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 233

l'alignement, à la fin du IVe siècle. En effet, les débris de matériau de


construction de la plate-forme de soubassement des autels XII à IX ont
en partie recouvert l'autel XIII, ce qui a fait penser que ce dernier avait
probablement cessé d'être utilisé au moment où les autels XII à IX ont,
eux, commencé à l'être72. On aurait alors un ensemble qui, dans son
état définitif et complet de fonctionnement, comportait douze
autels73.
Evidemment, ce chiffre a donné matière à une interprétation
religieuse de l'ensemble des autels, car il a des correspondants dans des
religions qui ont influencé celle de Rome. En raison de la domination
politique que l'Etrurie a exercée dans les débuts de l'histoire de Rome
et du Latium74, elle a marqué aussi certains aspects de la religion. Or,
il existe dans la religion étrusque, aux dires des érudits romains, un
groupe de divinités appelées di Consentes Pénates, comme l'atteste Ma-
tianus Capella75, qui ne précise pas le nombre de ces dieux, mais les
cite dans une classification générale des divinités étrusques76. Cette
même dénomination est attestée par Arnobe : il passe en revue les
différentes définitions qu'ont données des Pénates les savants romains, Nigi-
dius, Caesius, Varron, puis il expose la conception étrusque des Pénates
donnée par Varron : hos Consentes et Complices Etrusci aiunt et nomi-
nant, quod una oriantur et occidant una, sex mares et totidem feminas,
nominibus ignotis et miser ationis parcissimae77 . Consentes, attesté chez
Martianus Capella, est ici redoublé par Complices, et expliqué par una :
ces termes soulignent que les dieux en question apparaissent et
disparaissent simultanément; mais ce qui nous importe, c'est l'indication de
leur nombre donné par Arnobe : six dieux et six déesses, douze divinités
en tout.
Il est assez tentant d'interpéter à la lumière de ces textes
l'ensemble cultuel découvert à Pratica : le sanctuaire est celui des Pénates aux-

72 P. Sommella (JLavinium II : Lo scavo stratigrafico, p. 82) est très prudent sur ce


point, de même que F. Castagnoli {ibid. : Introduzione, p. 5).
73 Cependant, le chiffre treize peut avoir lui aussi une signification mystique : cf. O.
Weinreich, Triskaidekadische Studien zur Geschichte der Zahlen, Gieszen, 1916.
74 Cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 176 sq.; J. Heurgon, Rome et la Méditerranée
occidentale, 2e éd., Paris, 1980, p. 236-260.
75 I, 45.
76 Pour le commentaire de cette classification, cf. G. Dumézil, La religion romaine
archaïque, appendice : La religion des Etrusques, 2e éd., Paris, 1974, p. 670-76.
77 Adu. Nat. Ill, 40; voir supra p. 151-3.
234 LES PÉNATES PUBLICS

quels les magistrats romains venaient sacrifier une fois par an, et on
accomplissait le sacrifice sur les douze autels, dont le nombre
correspond à celui des dieux; ce nombre serait une marque de l'influence de
la religion étrusque dans le Latium, à la suite probablement d'une
occupation, ou d'une domination politique. Cette hypothèse est
mentionnée par F. Castagnoli78 avec des réserves, mais plus nettement
soutenue par M. Torelli79. A l'appui de cette hypothèse, au premier abord
séduisante, on peut avancer plusieurs arguments. D'autres cultes de
Lavinium portent peut-être la marque d'une influence étrusque, avec
notamment, la présence de l'épiclèse Frutis donnée à Vénus dans cette
cité, interprétée comme la traduction étrusque de ΓΑφροδίτη
grecque80, et le nom de la déesse Juturne81. De plus, nous connaissons par
l'interpolateur de Servius une autre définition des Pénates étrusques :
Tusci Penates Cererem et Palem et Fortunam dicunt*2, liste à laquelle
Caesius, cité par Arnobe dans le texte mentionné plus haut, ajoutait
Genius Iouialis. Or, le culte de Cérès à Lavinium est attesté par le texte
d'une lex sacra gravée sur une lamelle de bronze découverte près d'un
des autels83 et on a trouvé une inscription dédiée à Fortuna sur un
socle de pierre84. Enfin, cette interprétation paraît permettre
d'expliquer de façon cohérente l'ensemble cultuel du temple et des autels.
Cependant, ces arguments en faveur de l'hypothèse d'un sanctuaire
et de douze autels influencés par la religion étrusque nous semblent
assez mal résister à un examen plus approfondi. Sans doute ne faut-il

78 Lavinium I, p. 108.
79 Un templum augurale d'età repubblicana a Bantia, Rend. Line. Série VIII, vol. XXI,
fase. 7-12, 1966, p. 313; id., compte rendu de l'ouvrage de L. Vagnetti, // deposito votivo
di Campetti a Veto, in DArch, VII, 1973, p. 400.
80 R. Schilling, La religion romaine de Vénus, 2e éd., Paris, 1982, p. 75-83; cf.
ci-dessous, p. 315-6.
81 Cf. K. Latte, Römische Religiongeschichte, Munich, 1960, p. 77.
82 Ad Aen. II, 325; voir supra p. 143-4.
83 R. Bloch, Une lex sacra de Lavinium et les origines de la Triade agraire de l'Aventin,
CRAI, 1954, p. 203-212; F. Castagnoli, Lavinium II : Iscrizioni, p. 443-44; Enea del Lazio,
p. 179-180; M. Guarducci, Legge sacra da un antico santuario di Lavinio, ArchClass, 3,
1951, p. 99-103; id., Ancora sulla legge sacra di Lavinio, ArchClass, 11, 1959, p. 204-211 ; id.,
Nuove osservazioni sulla lamina bronzea di Cerere a Lavinio, Mélanges J. Heurgon, Rome,
1976, p. 411-425; H. Le Bonniec, Le eulte de Cérès à Rome, Paris, 1958, appendice, p. 463-
66 : La lex sacra de Lavinium; id., Au dossier de la lex sacra trouvée à Lavinium, Mélanges
J. Heurgon p. 508-517; S. Weinstock, A lex sacra from Lavinium, 1RS, 42, 1952, p. 34-36.
84 F. Castagnoli, Lavinium I, p. 75; 112.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 235

pas majorer la part de l'influence étrusque dans les cultes lavinates.


Les noms de Frutis et de Iuturna n'ont pas une origine étrusque
indiscutablement prouvée85. Quant aux définitions des «Pénates» étrusques,
elles doivent être examinées avec la plus grande prudence. Il n'est pas
certain que ces Pénates étrusques, «conception obscure» note G.
Dumézil86, ne soient pas une invention des érudits romains, qui auraient
plaqué cette notion latine sur ce qu'ils savaient de la religion étrusque. Le
mot même de Penates n'est d'ailleurs pas étrusque, et n'a pas
d'équivalent certain dans les dieux étrusques que nous connaissons. M. Pallotti-
no, dans le commentaire d'une inscription étrusque sur une lame de
bronze trouvée à Tarquinia, propose, à la suite de C. Thulin87,
d'interpréter le mot θυφλθας comme un équivalent de Consentes ou de
Complices88. Se fondant sur cette explication, M. Torelli croit pouvoir
affirmer l'existence d'un équivalent étrusque des Pénates, par
l'intermédiaire de Martianus Capella (di Consentes Penates). Mais l'étymologie du
mot Consentes est discutée; J. Heurgon89 propose d'y voir une
formation analogique de praesens à partir d'un verbe *consum «exprimant le
fait que ces dieux constituaient un groupe unifié» et explique comme
une interprétation populaire le fait qu'il ait été rapproché de consi-
Hum90; c'est à cette dernière aussi qu'il faut, selon nous, rattacher le
redoublement de Consentes par Complices chez Varron. «Mais il faut
prendre garde», ajoute J. Heurgon, «que ces noms de Consentes et de
Complices, qui remontent à Varron et à Nigidius Figulus, sont des
traductions plus ou moins approchées en latin de termes étrusques
inconnus, traductions proposées par ces érudits qui croyaient ressaisir dans
la disciplina Etrusca un système théologique analogue, par certains de
ses aspects, à la religion romaine». Du reste, bien que les érudits
romains les présentent comme étrusques, une origine grecque de ces
dieux, peut-être avec l'Etrurie pour intermédiaire, n'est pas à exclure,
comme en témoigne leur nombre de douze, qui rappelle, ainsi que le
souligne fort justement J. Heurgon, les δώδεκα θεοί grecs. Par ce qu'on

85 L'étymologie de Frutis est très discutée: cf. infra p. 315-6; pour Iuturna, cf. A.
Alföldi, Early Rome, p. 270 sq.
86 Op. cit., p. 633.
87 Die Götter des Martianus Capella und der Bronzeleber von Piacenza, Gieszen, 1906,
p. 33-42; id., Die Etruskische Disciplin, Göteborg, 1906, I, p. 27 sq.
88 Rivista di Epigrafia Etrusca, SE, 22, 1948-49, p. 254.
89 Varron, Economie rurale, I, C.U.F., Paris, 1978, Commentaire p. 93-94, n. 8.
90 Notamment Augustin, De Ciu. Dei, IV, 23.
236 LES PÉNATES PUBLICS

entrevoit de la nature de ces di Consentes à travers ce que nous en dit


Varron, on saisit quelques-uns des traits qui ont pu les faire identifier
aux Pénates. C'est, d'une part, le fait qu'ils ne possèdent pas de nom
individuel distinct (nominibus ignotis), d'autre part, le fait, lié au
premier, qu'ils apparaissent, disparaissent et agissent toujours ensemble
{una), trait qu'exprime au reste l'étymologie la plus probable de leur
nom. Cela dit, il est impossible d'assigner une datation à l'assimilation
des Di Consentes et des Pénates, dont Varron, cité par Arnobe, constitue
la première attestation connue, non plus que de mesurer la portée de
cette dernière dans la mentalité religieuse romaine : s'agit-il d'une
croyance répandue, populaire, ou d'une spéculation isolée d'érudit?
Aucune réponse n'est possible. Le culte des Di Consentes est bien attesté
à Rome : Varron91 mentionne la présence de leurs statues dorées sur le
Forum, probablement sous un portique que l'on peut voir aujourd'hui
encore au pied du Capitole92. Leur culte fut introduit en 217 avant J.-C.
par un lectisterne, après consultation des Livres Sybillins93, ce qui
atteste leur origine étrangère. Le choix de l'emplacement où on leur
consacra X aedes dont il ne reste que le portique mérite quelques
éclaircissements : elle est située sur le Forum, ce qui permet peut-être
d'établir une analogie avec l'introduction du culte des Castores dont le
temple fut édifié lui aussi en plein Forum, tout près de Y Aedes Vestae, cœur
religieux de la cité. On explique le choix de cet emplacement par le fait
que les Dioscures, déjà connus à cette époque à Lavinium, étaient
désormais considérés comme des dieux latins94, et non pas étrangers.
Peut-on penser que les di Consentes, comme les Dioscures, ont fait une
étape à Lavinium avant d'arriver à Rome? En théorie, le fait pourrait
fort bien s'expliquer par les influences grecques et étrusques mêlées
qui s'exercent dans la cité des Laurentes. Malheusement, aucun
témoignage littéraire ni archéologique n'atteste dans cette ville l'existence de
leur culte. Il faudrait alors supposer qu'ils étaient assimilés aux Pénates
à une date antérieure à 217, comme le fait M. Torelli, qui propose
même une date antérieure au IVe siècle95 : en ce cas, ils n'auraient été
mentionnés à Lavinium que sous leur nom latin de Penates, et c'est

91 R.R. i, 1, 4.
92 F. Coarelli, Guida archeologica di Roma, Milan, 1974, p. 50-51 ; 74.
93 Liv., XXII, 9, 10.
94 Gette question a fait l'objet de nombreux travaux, très bien analysés par F.
Castagnoli, Lavinium I, p. 107 (η. 10 à 14 en particulier).
95 Op. cit., p. 312.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 237

l'érudition romaine qui aurait fait, au Ier siècle, la lumière sur leurs
origines étrusques. Il ne peut s'agir ici que d'hypothèses, que nous ne
pouvons, étant donné la complexité de la question, laisser de côté, mais qui
ne permettent pas d'affirmer pour les Pénates de Lavinium une origine
étrusque incontestable.
Néanmoins, il est surprenant, si les douze autels ont été dédiés à
douze Pénates inspirés par le modèle étrusque, qu'ils n'aient pas été
construits ensemble, et surtout que l'achèvement définitif de
l'ensemble, constituant une série complète à peu près sans intervalle entre les
plates-formes des autels, se situe au IVe siècle, en un temps où la
domination étrusque sur Rome et le Latium ne se fait plus sentir depuis
longtemps96. Aussi l'hypothèse selon laquelle les douze autels de
Lavinium seraient consacrés aux Pénates, douze divinités héritées de la
religion étrusque ou influencées par elle, nous paraît-elle séduisante, parce
qu'elle permet de résoudre avec élégance les deux problèmes essentiels
posées par l'ensemble cultuel (signification du nombre des autels,
destination de ces autels et du sanctuaire attenant), mais fragile.
Le chiffre douze peut aussi s'expliquer par une influence de la
religion grecque, dont l'apport dans la religion romaine à l'époque
classique est depuis longtemps admis97; en ce qui concerne l'époque
archaïque, on accorde aujourd'hui une part de plus en plus importante à
l'apport grec, parfois par l'intermédiaire de la Grande-Grèce, dans
l'élaboration de la civilisation du Latium entre le VIe et le IVe siècles. Nous en
avons vu des exemples en étudiant la diffusion de la légende d'Enée de
Grèce en Italie. Les douze autels et le sanctuaire seraient alors dédiés
aux douze grands dieux hérités du dodékathéon grec98. G. Pugliese
Carratelli" a défendu cette thèse, en montrant que la Grande-Grèce a
souvent servi d'étape intermédiaire entre la Grèce et le Latium,
notamment dans le domaine religieux. Il cite l'exemple de cultes grecs
adoptés par Rome : celui d'Hercule, de Diane sur l'Aventin, de la triade de
Demeter, Dionysos, et Korè. A Lavinium même, il relève des cas
analogues d'adoption de dieux grecs : culte de Cérès attesté par la lex sacra,
dont les prescriptions rituelles lui semblent de caractère grec, et celui

96 Cf. A. Alföldi, op. cit., p. 336 sq.


97 J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, Paris, 1957,
p. 120-127.
98 Cf. F. Castagnoli, Lavinium I, p. 103.
99 Lazio, Roma et Magna Grecia prima del secolo quarto A.C., PP, 23, 1968, p. 321-347
(notamment, p. 340-341).
238 LES PÉNATES PUBLICS

des Dioscures, à qui est dédiée l'inscription gravée sur la lamelle de


bronze trouvé en 1959 près des autels100. G. Pugliese Carratelli voit dans
le sanctuaire et les autels «une sorte de θεών αγορά, une aire de cultes
grecs implantée dans le grand sanctuaire latin», qui aurait commencé à
s'établir à Lavinium à la fin du VIe siècle; le dodékathéon de Lavinium
ne serait pas une simple transposition du dodékathéon grec, mais
aurait été composé de façon spécifiquement italienne, et originale; G.
Pugliese Carratelli estime en effet qu'une seule cité n'aurait pas édifié
un sanctuaire de cette importance, ni importé un tel nombre de dieux
grecs : un certain nombre de cités s'y sont trouvées associées, peut-être
sous la direction religieuse ou sur l'inititative des Lavinates, chacune
introduisant une ou plusieurs divinités grecques qu'elle avait adoptées,
pour former ainsi un dodékathéon gréco-latin. On y trouverait
représentées des divinités d'origine grecque honorées dans certaines cités de
Grande-Grèce, qui avaient eu intérêt à développer des contacts
commerciaux et politiques avec le Latium, peut-être pour arrêter
l'expansion étrusque. Le culte des Dioscures, attesté à Lavinium par la
dédicace citée plus haut, et dont G. Pugliese Carratelli pense qu'il est venu de
Grèce par l'intermédiaire de Tarente, en est un exemple. Nous aurions
donc dans cette aire sacrée, non une illustration de l'influence étrusque
à Rome, mais peut-être au contraire un témoignage des efforts de
l'Italie du sud et du Latium pour briser la puissance étrusque101.
Il paraît difficile d'admettre que le sanctuaire et les autels de
Lavinium soient dédiés aux Douze Dieux hérités de la Grèce. Certes, il existe
en Grèce même des listes divergentes de ces derniers102, mais si l'on
s'en tient à des divinités qui figurent sur toutes, on constate que leur
culte n'est pas toujours attesté à Lavinium : on n'y trouve que les cultes
de Zeus-Jupiter, Héra-Junon, Aphrodite- Vénus, Déméter-Cérès, Diony-

100 F. Castagnoli, Lavinium II : Iscrizoni, p. 441-443 (avec une bibliographie); id., Enea
nel Lazio, p. 179-1800; ce problème sera étudié dans le chapitre suivant, p. 285-92.
101 De même, on a voulu voir dans la présence d'Enée à Lavinium tantôt une marque
de l'influence étrusque, tantôt au contraire on l'a considérée comme l'expression d'une
propagande anti-étrusque (cf. G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 165-179); G. Dumézil {Anchise
foudroyé? dans L'oubli de l'homme et l'honneur des dieux, Paris, 1985, p. 160-161)
suppose que la légende d'Enée, implantée en Italie centrale avant la domination étrusque sur
Rome, aurait pu focaliser, par la suite, la propagande anti-étrusque, et aurait «nourri la
résistance des Latins à l'hégémonie des Tarquins installés sur les sept collines».
102 Cf. L. Séchan et P. Leveque, Les Grandes Divinités de la Grèce, Paris, 1966, p. 26.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 239

sos-Liber103. Encore ne sont-ils pas localisés dans le sanctuaire ni près


des autels, sauf celui de Cérès. On peut, bien sûr, évoquer les lacunes
de notre documentation littéraire, archéologique, ou épigraphique.
Mais il y a un autre point embarrassant : la découverte de la dédicace
aux Dioscures, Castorei Podlouqueique qurois, près de l'un des autels,
oblige à admettre que les Dioscures étaient vénérés dans le sanctuaire,
peut-être du reste en même temps que d'autres divinités. Or Castor et
Pollux ne figurent dans aucune des listes des Douze Dieux grecs que
nous connaissons. Certes, l'hypothèse, formulée par G. Pugliese Carra-
telli, de la constitution d'un dodékathéon original est très ingénieuse,
puisqu'elle permet de rendre compte de la présence de cultes qui ne
figurent pas dans le dodékathéon grec canonique; de surcroît,
l'influence grecque sur la religion lavinate au moment où s'achève la
rangée des autels, dans le courant du IVe siècle, trouve un parallèle dans
les faits romains : si l'on en croit Tite-Live 104, c'est en 399 qu'eut lieu à
Rome le premier lectisterne, après consultation des Livres Sibyllins,
pour faire cesser les épidémies qui ravageaient alors la ville. Mais il
nous paraît peut-être un peu difficile d'affirmer que les dix divinités
inconnues - outre Cérès et les Dioscures identifiés par les inscriptions
dédicatoires - à qui étaient consacrés les autels, étaient toutes
grecques, même si l'on est convaincu par la démonstration que fait G.
Pugliese Carratelli de l'influence de la Grèce sur le Latium, dans le
domaine religieux notamment.
Plus généralement, le chiffre douze a une signification mystique
particulière dans beaucoup de religions, en liaison avec le calendrier ou
l'astronomie. La religion romaine en présente des exemples; c'était le
nombre des autels consacrés à Janus, d'après certains érudits105; Lydus,
citant Fonteius, parle d'un δωδεκάβωμον 106 consacré à ce dieu : le
nombre de ces autels est sans doute à mettre en relation avec les douze

103 F. Castagnoli, Lavinium I, p. 71-74; 111-112.


104 V, 13, 6: Lectisternio tune primum in urbe Romana facto. Ce lectisterne, selon
l'historien, fut suivi de plusieurs autres au cours du IVe siècle (en 364 : VII, 2, 2 ; 349 :
VII, 27, 1 ; 326 : Vili, 25, 1). La consultation des Livres Sibyllins atteste, comme la
pratique du lectisterne, une influence grecque : cf. G. Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, 2e éd., Munich 1912, p. 536 sq. ;JC. Latte, Römische Religionsgeschichte, Munich,
1960 p. 160 sq.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2è éd. Paris, 1974, p. 558-62;
voir aussi R. M. Ogilvie, A Commentary "on Livy, Books 1-5, Oxford, 1965, p. 655-58.
105 Cf. F. Castagnoli, op. cit., p. 103.
106 De Mensibus IV, 2; cf. aussi Macrobe, I, 9, 16.
240 LES PÉNATES PUBLICS

Saliens, prêtres du dieu, et, aussi, avec le nombre des mois de l'année,
ou les signes du Zodiaque. A Rome, les Frères Arvales sont également
douze. Il est probable, en outre, qu'à ce chiffre s'attache une notion de
tout achevé, et par là, de perfection, comme en témoigne le passage de
Virgile très judicieusement cité par F. Castagnoli à ce propos107; il s'agit
de l'arrivée de Latinus en face des armées latine et troyenne :
Latinus. . .
cui tempora circum
aurati bis sex radii fulgentia cingunt,
Solis aui specimen . . . 108

Latinus et Enée se présentent devant leurs deux armées pour


conclure solennellement un pacte d'alliance définitif, et Virgile cherche
à exprimer la solennité et la majesté de la personne même du roi :
aurati radii rappelle l'éclat du soleil, tandis que bis sex évoque sans doute la
forme ronde de l'astre, à laquelle est liée la notion de perfection.
On a voulu voir dans le nombre des autels une signification
politique, et il semble en effet que le chiffre douze en ait eu une très tôt en
Grèce, peut-être en liaison avec le culte des Douze Dieux : c'est ainsi
qu'on a pu expliquer par la constitution de la dodécapole ionienne au
VIIe siècle l'élaboration du dodékathéon 109. Il y aurait donc là une
volonté politique de renforcer une confédération de cités par un culte
où les dieux sont en nombre égal à celui des cités. Il revient à J. Heur-
gon110 d'avoir rapproché la ligue des douze cités étrusques de la
dodécapole ionienne, dont F. Altheim111, contrairement à O. Weinreich,
pense qu'elle trouvait son expression religieuse autour du culte d'une seule
divinité, celui d'Artémis à Ephèse.
Les témoignages antiques attestent en effet l'existence d'une ligue
de douze cités ou peuples étrusques, dont la liste est d'ailleurs
variable112. Strabon113 attribue à l'ancêtre mythique des Etrusques, Tyrrhé-

107 Lavinium I, p. 103, n. 5.


108 En XII, 161-163 : «Latinus. . . douze rayons d'or enserrent ses temps qui
resplendissent, emblème du Soleil son aïeul» (trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1980).
109 Cf. O. Weinreich, s.u. Zwölfgötter, in Roschers Lexicon VI, col. 765 sq.
110 Recherches sur l'histoire, la religion et la civilisation de Capoue préromaine, 2e éd.,
Paris, 1970, p. 77.
111 Der Ursprung der Etrusker, Baden-Baden, 1950, p. 63-64.
112 Cf. J. Heurgon, L'Etat étrusque, Historia, 6, 1957, p. 63-97.
113 V, 2, 2.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 241

nos, qui avait été obligé d'émigrer en Italie, la fondation dans ce pays
de douze cités à la tête desquelles se trouvait un chef unique, éponyme
de Tarquinia; cette cité se trouvait donc très probablement à la tête de
la ligue : δώδεκα πόλεις εκτισεν (= Tyrrhénos), οικιστή ν έπιστήσας
Τάρκωνα, αρ' ού Ταρκυνία ή πόλις. La permanence de cette ligue est
attestée au temps de Tarquin l'Ancien, puisque, selon Denys d'Halicar-
nasse, des ambassadeurs étrusques viennent apporter au roi douze
haches appartenant chacune au chef d'une des cités : και τους δώδεκα
πελέκεις έκόμισαν αύτω λαβόντες έξ έκαστης πόλεως ενα114. Denys
mentionne une nouvelle soumission des douze cités étrusques (αί δώδεκα
πόλεις) à Rome sous le règne de Servius Tullius115.
Cette ligue des douze cités étrusques aurait servi de modèle, selon
F. Altheim116, à la réorganisation de la Ligue latine opérée par Servius
Tullius. La même idée a été reprise par M. Di Vietri117, qui explique la
mainmise de Rome sur la Ligue latine comme une conséquence de la
destruction d'Albe, qui exerçait jusqu'alors l'hégémonie. Selon elle, à
l'occasion de ce changement dans la direction de la Ligue, la nature
même de cette dernière aurait été modifiée : l'association à caractère
strictement religieux des Latins, sous la tutelle d'Albe et autour du
sanctuaire de Jupiter Latiaris sur le Mont Albain, serait devenue une
confédération politique dont Servius Tullius aurait pris le modèle sur
les Etrusques, et qui, à l'imitation de ceux-ci, aurait comporté douze
cités. Ce changement dans la direction et le caractère de la Ligue aurait
été facilité par la destruction d'Albe, et, conséquemment, la disparition
de la tutelle religieuse autour de laquelle s'organisait la confédération.
Pourtant, cette dernière aurait conservé une expression religieuse, avec
l'instauration du culte de Diane sur l'Aventin, que Denys d'Halicarnasse
rapporte en effet aux mêmes circonstances et au même roi118.
Ainsi s'établit une sorte de filiation dans un modèle de ligue à la
fois politique et religieuse119. Le modèle ionien de la dodécapole a
inspiré la constitution de la confédération des douze cités étrusques, qu'a

114 III, 61, 2; voir R. Bloch, Appendice IV : les insignes du pouvoir à Rome, p. 122,
dans Tite-Live, II, C.U.F., Paris, 1967; P.-M. Martin, L'idée de royauté à Rome. De la Rome
royale au consensus républicain, Clermont-Ferrand, 1982, p. 122.
115 IV, 27, 4.
116 Op. cit., p. 69.
117 Una dodecapoli etrusco-romana al tempo di Servio Tullio?, SCO, 2, 1953, p. 79-82.
118 IV, 26, 4.
119 Cf. J. Heurgon, L'Etat étrusque, p. 87.
242 LES PÉNATES PUBLICS

imitée Servius Tullius dans la réorganisation de la Ligue latine. Le


culte d'Artémis-Diane est l'expression religieuse de la confédération
ionienne et de la Ligue latine, tandis que le culte de Voltumna, divinité
assimilée à Artémis-Diane par F. Altheim, est celle des duodecim popult
étrusques120.
La confédération des douze cités latines a-t-elle trouvé une autre
formulation religieuse dans un culte fédéral à Lavinium, plus
précisément dans les «douze autels» et le sanctuaire attenant? Le choix de
Lavinium comme centre du culte fédéral s'expliquerait par le prestige
religieux de cette cité, qui aurait* eu, à une époque ancienne,
l'hégémonie sur la Ligue latine. Reste à éclaircir le problème du nombre et de
l'identité des cités de la Ligue, à propos duquel les traditions antiques
divergent. Une première tradition fixe à trente ces cités, et ce chiffre
est parfois mis en relation par les Anciens avec le prodige de la truie
aux trente porcelets : nous avons vu précédemment que chez Virgile,
comme chez Denys d'Halicarnasse et chez Varron, le nombre des
porcelets représentait le nombre d'années qui sépareraient le
débarquement d'Enée au Latium de la fondation d'Albe121; mais il existe une
autre version de la légende, selon laquelle la truie représenterait
Lavinium, la cité-mère, et les trente porcelets les cités de la confédération
de la Ligue latine placées sous sa direction. De cette version, nous
avons peut-être une attestation littéraire dès le IIIe siècle, dans X
Alexandra de Lycophron122.
En effet, on peut comprendre que les trente tours (πύργους
τριάκοντα) représentent les trente futures cités filles de Lavinium, dont la
fondation est, par un raccourci d'expression, globalement attribuée à
Enée, bien que l'allusion à une ville unique (πόλει μια) semble
contredire cette interprétation. Peut-être doit-on voir dans ces derniers mots

120 Ajoutons que Diane reçoit, outre le culte de l'Aventin, un culte fédéral à Némi,
près d'Aricie (cf. F. H. Pairault, Diana Nemorensis, déesse latine, déesse hellénisée, MEFR,
81, 1969, p. 425-471).
121 C'est cette version que l'on trouve dans l'Origo Gentis Romanae : Ascanius comple-
tis in Lauinio triginta annis recondatus nouae urbis condendae tempus aduenisse ex
numero porculorum, quos pepererat sus alba. . . ciuitatem communit (17, 1).
122 V. 1253-1260: «Au pays des Aborigènes, sur les Latins et les Dauniens, il fondera
une cité avec trente tours, en nombre égal aux petits de la truie noire qu'il transporta sur
son navire depuis les hauteurs de l'Ida et le pays de Dardanus, et qui mit au monde en
une fois ce nombre de petits; dans une seule cité il placera son image et celle des
porcelets nourris de lait, façonnée en bronze»; voir supra p. 173-4; cf. aussi D. Briquel,
L'oiseau ominal, la louve de Mars, la truie féconde, MEFR, 88, 1976, p. 40 sq.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 243

une allusion à Lavinium, seule cité véritablement fondée par Enée,


selon la légende. La statue de bronze (δεικήλου χαλκω τυπώσας) de la
truie et des trente porcelets, qu'Enée est censé avoir érigée à Lavinium,
est peut-être celle que mentionne Varron : il affirme que l'on pouvait
voir de son temps, à Lavinium, les restes de cette statue, et le corps de
la truie, conservé dans la saumure123. A. Alföldi interprète en ce sens le
texte de Lycophron dans lequel il voit «une transposition poétique
volontairement énigmatique» d'un texte de Timée aujourd'hui perdu, et
tient pour certain que l'historien est à l'origine de ce passage124.
A notre connaissance, il n'existe pas d'autre attestation ancienne de
cette interprétation du prodige de la truie aux trente porcelets. En
revanche, Denys d'Halicarnasse mentionne à plusieurs reprises les
trente cités fédérées du Latium125 : à l'époque archaïque, peu de temps
après sa fondation par Ascagne, Albe a eu l'hégémonie sur cette
confédération; Denys mentionne encore les trente cités au début de la
République, mais il n'est plus alors question d'Albe, détruite depuis
longtemps, et remplacée par Rome à la tête du Latium. De même, Pline
l'Ancien126 donne une curieuse liste des peuples latins, dans laquelle il
mentionne par ordre alphabétique les noms de trente populi Albenses
qui accomplissent, avec d'autres peuples du Latium précédemment
cités, le sacrifice sur le Mont Albain et le partage de la viande. Parmi
les populi Albenses sont cités les Latinienses, dont on ne sait qui ils
désignent; les Lavinates, ou Laurentes, ne sont pas nommés. Pline
semble rapporter cette liste à des temps très anciens, probablement
antérieurs à l'époque royale127, puisque, parmi les cités (oppida) qui
participent au sacrifice sur le Mont Albain, il mentionne, non pas Rome, mais
la cité qui occupait auparavant le même emplacement, Saturnia :
Saturnia ubi nunc Roma est. L'identification précise des trente cités paraît à
peu près impossible, car les témoignages anciens sont contradictoires.
Denys cite une liste, par ordre alphabétique aussi, des cités fédérées du

123 R. R. II, 4, 18 : cf. supra p. 174.


124 Early Rome, p. 271 n. 4; pour les liens entre Timée et Lycophron, cf. supra,
p. 172-3.
125 III, 31, 4; VI, 63, 4; VI, 74, 6; VI, 75, 1.
126 N. H., III, 68-70; cf. A. Alföldi, op. cit., p. 13-15; 250.
127 M. Pallottino (Le origini di Roma, ArchClass, 12, 1960, p. 27-29) estime que cette
liste est authentique et constitue un témoignage « probablement antérieur à la destruction
d'Albe, c'est-à-dire environ le milieu du VIIe siècle».
244 LES PÉNATES PUBLICS

Latium dans les débuts de la République romaine128; elles se réunissent


après la prise de Fidenae par les Romains, pour décider d'une attitude
commune à adopter face à Rome. La liste, qui comporte la mention de
Lavinium, ne compte que vingt-neuf noms; peut-être faut-il l'expliquer
par le fait que Rome faisait partie de la confédération comme
trentième cité, mais ici, bien évidemment, n'est pas présente à la réunion129.
D'autre part, cette liste n'est pas sûre : les listes données par les
différents manuscrits divergent pour plusieurs noms, et F. Castagnoli130 fait
justement remarquer qu'y sont cités à la fois les Λαυρεντίνοι et les
Λαουινίοι, ce qui est surprenant et explique sans doute la leçon Λα-
νυουινίοι de certains manuscrits. Enfin, nous connaissons une liste des
cités de la confédération latine donnée par Caton131 qui, semble-t-il, la
situe à une époque à peu près contemporaine de celle de Denys, c'est-
à-dire au tout début du VIe siècle132: elle comporte les noms de huit
peuples seulement.
Nous avons vu qu'une autre tradition, également attestée chez les
historiens anciens, faisait de la Ligue latine une confédération de douze
cités. On a proposé différentes explications à cette double tradition
d'une ligue de trente ou de douze cités. A. Alföldi133 suggère que cette
évolution est due en partie à un phénomène purement latin, la
transformation de tribus en cités-états, tandis que F. Castagnoli134 explique
cette réduction de trente à douze membres dans la ligue par un
processus d'absorption des petites cités par les centres les plus importants. Le
second facteur de cette évolution, selon A. Alföldi, est la domination
étrusque sur le Latium et l'influence de la civilisation étrusque qu'elle a
amenée; il est évident, pour lui, que la confédération étusque des douze
cités a servi de modèle à la réorganisation de la Ligue latine. La
profonde influence de la confédération étrusque se voit, ajoute-t-il, dans
l'adoption par les Latins des insignes du pouvoir étrusque, les faisceaux
portés par les licteurs précédant chacun des chefs des cités; du reste,
cette influence étrusque ne s'est pas exercée, remarque-t-il, sur les seuls
Latins : les Sabins, les Herniques, les Vosques, les Eques semblent

128 V, 61, 3.
129 Cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 53.
130 Lavinium I, p. 102.
131 Fr. 58 Peter = Priscian. IV n. 629 P.
132 Cf. F. Castagnoli, loc. cit.
133 Early Rome, p. 25 sq.
134 Op. cit., p. 102.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 245

s'être eux aussi constitués en confédération, probablement bien avant


le IVe siècle, époque à laquelle Tite-Live135 et Denys d'Halicarnasse136
attestent leur existence. Reste à préciser la chronologie de cette
réduction. Pour K.J. Beloch137, la confédération latine n'a été composée de
douze peuples qu'au milieu du IVe siècle environ. Au contraire, F.
Altheim138, qui, comme nous l'avons vu, fait remonter au modèle
étrusque la fédération des duodecim populi, suit la chronologie indiquée par
Denys d'Halicarnasse : selon lui, donc, la réorganisation de la ligue,
désormais composée de douze peuples, daterait du VIe siècle, du règne
de Servius Tullius. A. Alföldi, à cause de l'influence du modèle étrusque
qu'il lie à la domination étrusque sur le Latium, date cette nouvelle
forme de la ligue de la dynastie des rois étrusques de Rome. A.
Momigliano139 se rallie lui aussi à cette datation. Pour appuyer cette thèse, F.
Castagnoli cite la liste de Caton, qui semble se référer au VIe siècle140;
or, étant donné qu'elle ne mentionne que des villes importantes,
contrairement aux listes des trente peuples données par Denys
d'Halicarnasse et Pline, on peut penser qu'elle est incomplète, mais qu'elle
fournit la liste des duodecim populi. Pour A. Alföldi141, cette liste
donnée par Caton correspond bien à une ligue de douze cités, et il la date
de la dernière décade du VIe siècle, lorsque la Ligue latine se
réorganise - Rome, occupée par les Etrusques, en étant exclue - autour d'Ari-
cie, pour lutter contre Porsenna. Le culte fédéral de Diana Nemorensis,
près d'Aricie, est l'expression religieuse de cette nouvelle forme de la
Ligue, culte dont celui de l'Aventin est une duplication : que les
historiens romains ou grecs aient rapporté l'instauration de ce dernier à une
date antérieure, à savoir le règne de Servius Tullius, correspond, selon
A. Alföldi142, au désir des Romains de reculer le plus possible dans le
temps leurs institutions religieuses. Au contraire, M. Humbert143 rap-

135 IX, 42, 11 ; IV, 25, 7-8 (cf. A. Alföldi, op. cit., p. 28 n. 3 et 4).
136 VIII, 58, 1, cf. A. Alföldi, loc. cit.
137 Römische Geschichte, Berlin, 1926, p. 165.
138 Op. cit., p. 68 sq.
139 Compte rendu de l'ouvrage d'A. Alföldi, Early Rome, in JRS, 57, 1967,
p. 215 = Quarto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Rome, 1969,
p. 496.
140 Lavinium, I, p. 102.
141 Op. cit., p. 47 sq.
142 Op. cit., p. 85 sq.
143 Municipium et ciuitas sine suffragio. L'organisation de la conquête jusqu'à la
Guerre Sociale, Coll. de l'Ecole Française de Rome, 36, Rome, 1978, p. 66 n. 59.
246 LES PÉNATES PUBLICS

porte cette liste aux toutes premières années du Ve siècle, à la coalition


de la plupart des cités latines formée contre Rome à l'instigation des
Tarquins : Rome les affronta et les écrasa au lac Regille; selon lui, il
s'agit d'une liste complète des cités ayant participé à cette coalition.
Nous avons vu que la Ligue latine trouvait son expression
religieuse dans deux cultes fédéraux : celui de Jupiter Latiaris, le plus ancien,
sur les Monts Albains, et, lors de sa réorganisation sur le modèle
étrusque, celui de Diane à Némi et sur l'Aventin. On a essayé de faire un
rapprochement entre ce chiffre de douze cités et le nombre des autels
découverts à Lavinium; F. Castagnoli144 l'a suggéré; A. Momigliano va
plus loin dans l'affirmation de cette thèse : «les douze autels semblent
impliquer une ligue de douze membres (comme la ligue étrusque). . .
Les douze autels de Lavinium datent du IVe siècle, c'est-à-dire de
l'époque à laquelle, selon la tradition, Servius Tullius établit son hégémonie
sur la Ligue latine»145; pour A. Momigliano, le sanctuaire de Lavinium
serait bien un sanctuaire fédéral, devant lequel chaque cité membre de
la Ligue aurait dressé un autel.
A cette thèse, on peut faire l'objection suivante. Si l'on admet que
la Ligue latine a comporté douze cités dès le VIe siècle, on ne peut faire
correspondre ce chiffre, à pareille date, avec le nombre des autels.
Nous avons dit plus haut que, si les premiers autels datent du VIe
siècle, ce n'est qu'au IVe siècle que l'ensemble a été complété et achevé de
façon à constituer l'ensemble que nous voyons aujourd'hui. D'autre
part, quelle que soit la date que l'on assigne à la constitution de la
Ligue latine en douze cités, ou peuples, il est à peu près sûr qu'il y a eu
un phénomène de réduction du nombre de cités, certaines ayant été
détruites, d'autres absorbées par des voisines plus puissantes146. La
construction de l'ensemble des autels, comme le note fort justement P.
Sommella147, aurait alors suivi un processus inverse, puisque leur
nombre aurait augmenté entre le VIe et le IVe siècles. Il nous semble que
cette contradiction reste inexplicable, même si l'on admet que la
fédération des douze cités latines date de Servius Tullius. Enfin, les
différents autels, comme le note également P. Sommella148, s'ils appartien-

144 Lavinium II : Introduzione, p. 5.


145 Ibid.
146 Cf. F. Castagnoli, Lavinium I, p. 102.
147 Das Heroon des Aeneas und die Topographie des antiken Lavinium, Gymnasium 81,
1974, p. 281 n. 27.
148 Ibid.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 247

nent globalement au même type architectural149, présentent néanmoins


des différences qui excluent qu'ils aient été construits tous à la fois.
L'ensemble qu'ont découvert F. Castagnoli et son équipe n'a pas été
concerté dès le début de sa construction; ce n'est que progressivement
que s'est élaborée la rangée continue des autels, parachevée au IVe
siècle. On est donc fort enclin à penser que cette date est à un double titre
significative. Du point de vue politique, les années 340-338 marquent
l'échec de la Ligue latine coalisée contre Rome, et le règlement de 338
réorganise les relations des différentes cités du Latium autour de
Rome150, qui s'assure ainsi sur elles une hégémonie définitive. Du point
de vue religieux, à Lavinium, c'est également à cette date que se situe la
construction, sur la même plate-forme, des autels IX à XII, qui
complètent ainsi l'alignement de constructions datant des VIe et Ve siècles.
Devons-nous alors penser que nous sommes en présence d'un
sanctuaire fédéral où douze autels représentent les douze cités de la
confédération? P. Sommella151 estime que cette solution serait simple, mais
qu'elle ne correspond pas à la réalité chronologique de la construction
des autels mise en parallèle avec l'histoire de la Ligue latine. Le même
savant, étudiant, un peu plus tard152, la stratigraphie de la fouille des
autels, met en doute l'idée, très souvent admise, que l'autel XIII ait
cessé de fonctionner à partir du moment où la plate-forme sur laquelle
ont été édifiés les autels IX à XII a été construite. Certes, l'autel XIII
est le plus ancien, et il est situé plus bas que les autres; mais faut-il en
déduire que les treize autels n'ont jamais fonctionné ensemble? P.
Sommella montre au contraire que beaucoup d'éléments prouvent une
utilisation simultanée des treize autels. Tout d'abord, on a retrouvé, entre
l'autel XIII et la plate-forme des autels IX à XII, un canal de drainage
probablement construit pour éviter que l'autel XIII ne soit enterré par
les matériaux de construction de cette plate-forme importante. Cela
tendrait à prouver la volonté, chez les constructeurs, de permettre
l'utilisation de l'autel XIII au moins pendant la phase de construction de la
plate-forme. D'autre part, s'il est vrai que les débris des matériaux
ayant servi à l'édification de la plate-forme se sont nivelés à une hau-

149 Cf. aussi F. Castagnoli, Sulla tipologia. . . p. 145 sq.; L. Cozza, Le tredici are :
struttura et architectura, in Lavinium II, p. 89 sq.
150 Cf. M. Humbert, op. cit., p. 176-195; cf. infra p. 347 sq.
151 Das Heroon . . .. loc. cit.
152 Lo scavo stratigrafico delle platee, in Lavinium II, p. 81 sq.
248 LES PÉNATES PUBLICS

teur qui a enterré l'échiné de la corniche de base de l'autel, différents


éléments de la stratigraphie153 permettent de penser qu'une partie de la
projection verticale du monument a continué à émerger, et qu'il n'a
jamais été complètement enterré. Restent alors deux problèmes non
résolus : comment a-t-on pu utiliser simultanément treize autels dont
l'un était d'un niveau nettement inférieur à ses voisins? si l'autel XIII a
continué à être utilisé en même temps que les autres, pendant combien
de temps l'a-t-il été?154.
Quoi qu'il en soit, ces indications font s'écrouler toute
interprétation strictement religieuse d'un dodékathéon, puisqu'il semble bien que
les treize autels aient fonctionné, plus ou moins longtemps,
simultanément. La même raison exclut à peu près aussi l'idée d'une
correspondance entre la confédération des duodecim populi et le nombre des
autels. Ce dernier, ainsi que la situation du temple, faisant penser qu'il
s'agit bien d'un sanctuaire fédéral155, on a pu considérer que l'édifice
était dédié à une seule divinité, comme chez les Etrusques, ou à un
groupe de divinités dont l'association a un sens religieux et non pas
politique. L'interprétation de cet ensemble architectural est d'autant
plus difficile qu'il est exceptionnel en Italie. On en trouve des exemples
en Grèce, à Olympie notamment, où sont attestés six autels, et en Sicile,
dans le temple de Demeter et Koré à Agrigente, où il existe un aligne-

153 Pour une étude très détaillée, cf. P. Sommella, Lo scavo stratifrafico delle platee,
p. 83.
154 Dans un article récent (Enée, Lavinium et les treize autels, RHR, 200, 1983, p. 54-
61), R. Turcan propose un schéma explicatif plus souple du nombre des autels et de sa
signification : les bouleversements stratigraphiques qu'a connus le site rendent assez
suspectes les conclusions trop rigides que l'on pourrait tirer des données du terrain; R.
Turcan admet néanmoins que le nombre des autels utilisés simultanément a pu passer de 13
à 12 (ce dernier chiffre au milieu du IVe siècle), ce en quoi il se rallie aux explications
proposées par les archéologues italiens (cf. C. F. Giuliani-P. Sommella, op. cit., p. 359); R.
Turcan pense pouvoir rendre compte de ce changement par les particularités propres du
calendrier lavinate, qui, selon Augustin citant Varron, aurait d'abord comporté treize
mois, mais aurait pu être ramené à douze au milieu du IVe siècle, lors de la dissolution de
la Ligue latine et de l'établissement de l'hégémonie romaine sur le Latium, événements
qui « durent s'accompagner de certaines mesures d'uniformisation et d'alignement sur les
institutions romaines» (op. cit., p. 61); selon R. Turcan, un rituel d'offrandes mensuelles
se pratiquait sur ces autels, dont chacun était réservé à un mois.
155 A. Alföldi (Early Rome, p. 89) remarque que les sanctuaires fédéraux - c'est le cas
de celui de Diane sur l'Aventin - ont pour caractéristique d'être situés à l'extérieur des
murs d'enceinte, ce qui s'explique par les privilèges d'exterritorialité dont il doivent
bénéficier.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 249

ment de trois autels. En Italie même, on trouve des groupes d'autels, à


Ostie, par exemple, près du temple d'Hercule, mais ils ne constituent
pas un alignement comme à Lavinium156. Une inscription osque d'Agno-
ne, datant du IIIe siècle avant J.-C, mentionne l'existence du culte de
quinze divinités qui avaient là des autels, mais rien n'indique que ces
derniers formaient un alignement157. Il faut donc renoncer à essayer
d'expliquer par le nombre des autels le fonctionnement et la
destination du sanctuaire, et les éclairer par d'autres enquêtes.

C) La divinité dedicatane

Sur l'identification de la divinité dédicataire du sanctuaire,


différentes hypothèses ont été émises158. Nous avons déjà parlé de celles qui
en font le temple des douze Consentes Penates étrusques, de douze
divinités grecques, ou encore le sanctuaire fédéral d'une ligue de douze
cités. R. Bloch159, se fondant sur la présence de la dédicace à Cérès et
l'attestation chez Augustin citant Varron160 d'une fête lavinate en
l'honneur de Liber qui durait un mois entier, pense à un temple consacré à
la triade Cérès-Liber-Libera. Mais cette hypothèse, formulée
antérieurement à la découverte des premiers autels, paraît difficilement soutena-
ble depuis que l'ensemble des treize a été mis au jour.
A. Alföldi161 a proposé de voir dans le sanctuaire celui des Pénates
identifiés aux Dioscures, cette hypothèse étant d'ailleurs en partie
fondée sur la découverte de l'inscription Castorei Podlouqueique qurois au
pied d'un des autels162. Selon le même savant, le culte des Pénates dans
le sanctuaire serait intimement lié à celui d 'Aeneas Indiges, et, par
l'intermédiaire du personnage d'Enée, à celui de Vénus. La démonstration

156 F. Castagnoli, Sulla tipologia. . ., p. 155-159.


157 Op. cit., p. 159 n. 47.
158 Elles sont résumées par F. Castagnoli, Lavinium II : Introduzione, p. 5.
159 Une lex sacra de Lavinium et les origines de la Triade agraire de l'Aventin, CRAI,
1954, p. 203-212.
160 De du. Dei VII, 21 ; voir J. Champeaux, fortuna. Le culte de la Fortune à Rome et
dans le monde romain, Coll. de L'Ecole Française de Rome, 64, Rome, 1982, p. 404.
161 Early Rome, p. 256 sq.
162 La même identification des Dioscures et des Pénates à Lavinium a été soutenue
par S. Weinstock {Two archaic inscriptions from Latium, JRS, 50, 1960, p. 112-114) tandis
que la découverte de l'inscription avait inspiré à F. Castagnoli des réflexions beaucoup
plus prudentes (notamment dans Dedica arcaica lavinate a Castore e Polluce, SMSR, 30,
1959, p. 109-117) : cf. infra p. 285-92.
250 LES PÉNATES PUBLICS

d'A. Alföldi s'appuie aussi sur une inscription découverte à Pompéi et


datant de l'époque de Claude163. Il y est question d'un certain Sp. Turra-
nius et de son rôle comme pater patratus, dans le renouvellement du
traité d'alliance entre Rome et Lavinium 164 : sacrorum principiorum
p(opuli) R(omani) Quirit(ium) nominisque Latini, quai apud Laurentis
coluntur. Il s'agit là, dit A. Alföldi, d'un culte fédéral - tous les peuples
se réclamant du nomen Latini*:n y sont associés -, dont on peut fort
bien penser qu'il avait son siège dans le sanctuaire des Treize autels
qui, à en juger par ses dimensions et sa situation extra muros, devait
être un sanctuaire fédéral. Selon A. Alföldi, l'inscription désigne les
sacra principiorum et non les sacra principia165. L'expression signifierait
donc «les cultes en relation avec les origines». A. Alföldi l'éclairé par
un rapprochement avec un texte de Plutarque : Λαουϊνίον . . . οπού και
θεών ίερα 'Ρωμαίοις πατρώων άπέκειτο, και του γένους ήσαν αύτοΐς
άρχαί δια το πρώτην πόλιν έκείνην κτίσαι τον Αίνείαν166. Θεοί πατρφοι
étant l'une des traductions grecques du latin Penates167, et άρχαί ayant
le même sens que principia, il est fort tentant de déduire du
rapprochement de ces deux textes que l'expression sacra principiorum désigne le
culte des Pénates.
Nous voudrions ajouter que la présence, à une centaine de mètres
au sud-est du sanctuaire des Treize autels, d'une tombe à tumulus du
VIIe siècle, ouverte au VIe, et transformée en hérôon au IVe siècle168,
dans laquelle P. Sommella169 reconnaît l'Hérôon d'Enée décrit par De-

163 CIL X, 797; Cf. J. Carcopino, Virgile et les origines d'Ostie, 2e éd., Paris, 1968,
p. 168 sq.
164 Cf. infra, p. 354-5; A. Alföldi Early Rome, p. 264-265 et n. 9.
165 Voir aussi Die Trojanischen Urahnen der Römer, Bale, 1957, p. 46 et n. 124-125; F.
Castagnoli {Lavinium I, p. 104 n. 5) approuve cette interprétation.
166 Cor., 29, 2: «Lavinium, où les Romains gardaient les emblèmes sacrés des dieux
de leurs ancêtres et d'où leur nation tirait son origine, puisque c'était la première ville
fondée par Enée» (trad. R. Flacelière et E. Chambry, C.U.F., Paris, 1964).
167 Denys d'Halicarnasse, I, 67, 3.
168 C. F. Giuliani - P. Sommella, op. cit., p. 366-368.
169 Op. cit., p. 367; id., Heroon di Enea a Lavinium, RPAAA4, 1971-72, p. 47-74; id.,
Das Heroon des Aeneas und die Topographie des antiken Lavinium, Gymnasium, 81, 1974,
p. 273-303; en revanche, J. Poucet (Le Latium protohistorique et archaïque II, AC, 48, 1979,
p. 181-182) est très réticent pour admettre cette identification, et exprime les mêmes
réserves dans Un culte d'Enée dans la région lavinate au quatrième siècle avant J.-C.?,
Hommages à Robert Schilling, Paris, 1983, ρ 187-201; de même G. Dury-Moyaers, op. cit.,
p. 212 n. 163.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 251

nys d'Halicarnasse170, semble un argument supplémentaire en faveur


de l'hypothèse d'A. Alföldi, selon qui il s'agirait du sanctuaire des
Pénates. Il paraît en effet plausible que le culte du héros troyen et celui des
dieux qu'il a apportés de Troie soient, sinon réunis, du moins célébrés
en des lieux très proches171.
Enfin, il est un dernier argument qui pourrait plaider en faveur de
l'identification du sanctuaire des Treize autels comme le temple des
Pénates; c'est une indication de Denys d'Halicarnasse, dans le passage
où l'historien évoque l'assassinat de Titus Tatius à Lavinium172. Le roi
sabin, associé à Romulus, était venu à Lavinium pour célébrer un
sacrifice aux θεοί πατρφοι, sacrifice qui garantissait la prospérité à Rome.
Or, Titus Tatius est assassiné par les parents et amis des ambassadeurs
de Lavinium qui avaient été tués à Rome έπί των βωμών, nous dit
Denys. L'emploi de ce pluriel est assez surprenant173 car, dans la
plupart des cas, on ne trouve qu'un autel devant un temple consacré à une
seule divinité, ou à un groupe de divinités indissociables comme le sont
les Pénates; d'autre part, le mot n'est pas, dans l'usage normal,
employé au pluriel pour désigner un seul autel. Quelle importance faut-il
donner à ce détail? Denys a-t-il voulu faire par ces mots une allusion à
la série des treize autels? L'emploi de ce pluriel n'a-t-il aucune
signification particulière pour la description de l'ensemble des monuments
religieux auxquels il est fait allusion ici? Nous sommes en présence
d'un détail troublant, mais il nous semble impossible de répondre de
façon satisfaisante et décisive aux questions qu'il suggère.
Toutefois, pour séduisante qu'elle puisse paraître au premier
abord, il nous paraît que l'identification du sanctuaire des Treize autels
comme celui des Pénates soulève plusieurs difficultés. Tout d'abord, la
présence d'une dédicace aux Dioscures près d'un des autels ne prouve
pas que l'ensemble du sanctuaire leur était dédié, ni qu'il l'était à eux
seuls, et, d'autre part, l'identification complète de ces dieux avec les

170 I, 64, 5.
171 La proximité des deux édifices fait aussi pencher L. Quilici (Roma primitiva e le
origini delle civiltà laziale, Rome, 1979, p. 135 sq.) pour une identification du sanctuaire
des Treize autels comme celui d'Indiges et des Pénates.
. m II, 52, 3.
173 E. Cary, traducteur de l'édition Loeb (Cambridge, 1968, p. 461), la traduit par un
singulier : « at the altar ».
252 LES PÉNATES PUBLICS

Pénates nous paraît très sujette à caution174. Ensuite, il faudrait alors


admettre qu'il y a eu à Lavinium deux temples consacrés aux Pénates,
la καλίας évoquée par Denys et le sanctuaire des Treize autels, car il est
impossible que le texte de Denys évoque ce sanctuaire175: le terme de
καλίας ne saurait s'appliquer à un monument de cette importance
(rappelons que la rangée des autels s'étend sur une cinquantaine de mètres)
et, loin de se trouver sur une colline, cet ensemble architectural est
construit dans une zone située nettement en contrebas des hauteurs
environnantes, notamment de celle où se trouvait l'antique oppidum,
aujourd'hui le village de Pratica di Mare. Il n'existe aucune attestation
littéraire de l'existence de deux temples, ce qui, au demeurant, ne
constitue par un argument suffisant pour récuser l'hypothèse d'A. Alföldi.
Ce qui nous paraît plus gênant dans cette dernière, c'est qu'elle
implique que le temple des Pénates se trouvait à l'extérieur du mur
d'enceinte de la ville. Une telle localisation paraît contraire à celle que
suggèrent certaines représentations du temple, sur les monnaies
d'Hadrien et d'Antonin notamment. Mais il y a plus grave : elle nous paraît
profondément opposée à la nature même de nos dieux. Il serait
paradoxal que les Pénates, liés, de par leur nom, à la partie la plus intime
de la maison, évoquant l'essence même du foyer ou de la patrie qu'ils
désignent souvent métonymiquement 176 aient pu avoir un sanctuaire
extra-urbain. En second lieu, il ne nous semble pas absolument certain,
malgré la brillante démonstration d'A. Alföldi, que le culte des Pénates
de Lavinium ait été un culte fédéral177. Enfin, le sanctuaire des Treize
autels n'a pas livré de matériel postérieur au IIe siècle avant J.-C. 178, ce
qui donne à penser qu'il dut être abandonné à cette époque; or, le
sacrifice des magistrats romains à Vesta et aux Pénates de Lavinium
est attesté encore au IVe siècle après J.-C.179, et on imagine mal qu'il ait

174 C. Peyre, Castor et Pollux et les Pénates pendant la période républicaine, MEFR, 74,
1962, p. 433-462; cf. infra p. 437-9.
175 A. Alföldi pense, pour sa part, qu'il a existé deux lieux de culte des Pénates à
Lavinium : d'une part, le sanctuaire fédéral des Treize autels {Early Rome, p. 265-267), où les
Pénates étaient identifiés aux Dioscures, réinterprétation modernisée de vieilles divinités
locales, vénérées d'autre part dans une petite chapelle représentée sur le relief de l'Ara
Pads (op. cit., p. 269).
176 Cf. supra, p. 41 sq.
177 Cf. aussi R. Turcan, op. cit., p. 57.
178 F. Castagnoli, Lavinium II : Introduzione, p. 4.
179 Macrobe, III, 4, 11; Servius-Daniel, Ad Aen. III, 12.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 253

pu avoir lieu dans un sanctuaire en ruines. Aussi, au terme de ces


réflexions, nous paraît-il difficile d'admettre que le sanctuaire des
Treize autels ait été celui des Pénates.
R. Turcan a proposé d'identifier le sanctuaire des Treize - ou
douze - autels comme celui de Iuno Kaîendaris180, honorée aux kalendes,
selon Macrobe, par les habitants de Lavinium. Cette identification
repose largement sur l'interprétation donnée par R. Turcan du nombre des
autels181, qui, pense-t-il, étaient utilisés non pas simultanément, mais un
par un, selon le mois. Cette hypothèse se heurte à une première
difficulté, soulignée par l'auteur. Macrobe précise que le sacrifice se fait a
mense Martio ad Decembrem; R. Turcan propose donc, en s'appuyant
sur une étude de M. Renard182, d'interpréter cette donnée comme une
allusion à un état du calendrier lavinate qui aurait comporté dix mois,
et correspondrait, pense-t-il, à une des phases du «schéma évolutif»
proposé par les archéologues italiens, datant de la fin du IVe siècle183.
Outre cet argument, fondé sur la correspondance entre le calendrier et
le nombre des autels, R. Turcan remarque que «cette Junon de la
nouvelle lune avait vocation de patronner la croissance durant toute
l'année»184, caractère qui paraît correspondre à certaines découvertes faites
dans la zone des autels, notamment de petites statuettes de bronze
représentant des kouroi et des korai, datables du VIe siècle av. J.-C, et,
à partir du IVe siècle, des offrandes d'argile représentant des organes
génitaux masculins et féminins : Junon, déesse de la croissance, aurait
protégé les iuuenes de la cité, et peut-être veillé sur leur santé et sur les
divers processus physiologiques relatifs à la croissance.
C'est ce second argument qui nous paraît le plus convaincant, et
R. Turcan souligne à juste titre que ni les Pénates, ni Enée ne
paraissent directement intéressés à la fonction de protection de la
crois ance qui appartenait manifestement à la divinité, ou à l'une des
divinités honorées dans ce sanctuaire. En revanche, la correspondance
établie entre les différentes phases du calendrier lavinate et le nombre
des autels nous paraît beaucoup plus sujette à caution, en raison,
notamment, - R. Turcan le note lui-même -, de la difficulté de dater

180 Op. cit., p. 62.


181 Voir supra, p. 248 n. 154.
182 Iuno COVELLA, Mélanges H. Grégoire, IV (= Ann. Inst. Philol. Orient, et Slave, 12,
1952), p. 408, cité par R. Turcan, op. cit., p. 63, n. 76.
183 C. F. Giuliani-P. Sommella, op. cit., p. 358, fig. 2.
184 Op. cit., p. 64.
254 LES PÉNATES PUBLICS

précisément la mise en fonction de chacun des autels (rappelons


qu'un certain nombre d'entre eux ont été reconstruits plusieurs fois).
Mais l'hypothèse du savant français nous semble appeler une autre
objection: s'il est vrai qu'Ovide et Macrobe185 mentionnent un culte
de Iuno Kalendaris à Lavinium, la documentation littéraire ne fournit
aucune indication relative à la localisation du sanctuaire, et rien,
parmi le matériel découvert dans la zone des autels, ne peut se
rapporter de façon irréfutable à la déesse. Cette identification reste donc
largement hypothétique.
Nous avons dit que l'importance exceptionnelle de la rangée des
autels, ainsi que la situation extra-urbaine du sanctuaire invitaient à y
voir un lieu de culte fédéral. Or, plusieurs témoignages littéraires
attestent l'existence d'un culte de Vénus à Lavinium, Strabon mentionnant
même un culte fédéral de la déesse.
Nous avons deux attestations d'un culte rendu à Vénus dans Yager
Laurens. C'est d'abord un texte de Solin : nee omissum sit, Aenean aesta-
te ab Ilio capto seconda Italicis litoribus adpulsum, ut Hemina tradii,
sociis non amplius sescentis, in agro Laurenti posuisse castra : ubi dum
simulacrum, quod secum ex Sicilia aduexerat, dedicai Veneri mairi quae
Frutis dicitur . . ,186. La tradition rapportée ici par Solin a comme source
l'annaliste Cassius Hemina, qui semble avoir raconté l'histoire d'Enée
depuis sa fuite de Troie187. Il ne s'agit pas d'un santuaire de Vénus,
mais seulement de la dédicace d'une statue de la déesse, ce qui
s'explique par le fait qu'Enée rend cet hommage à sa mère dès le moment de
son débarquement. Par la même raison s'explique que ce n'est pas
Lavinium qui est mentionnée (Enée fondera la ville plus tard), mais
Vager Laurens, terme qui désigne la région environnante, et notamment
la zone côtière, dans laquelle il est probable qu'Enée célèbre ce culte en
l'honneur de sa mère188.
Nous avons ici l'une des deux attestations de l'épiclèse Frutis don-

185 Fastes VI, 59-61; Sat. I, 15, 18.


186 II, 14 : «Et qu'on n'oublie pas qu'Enée, poussé vers les rivages de l'Italie la
seconde année après la chute de Troie, comme le rapporte Hemina, avec pas plus de six cents
compagnons, établit son camp dans Yager Laurens : là, tandis qu'il consacre à sa mère
Vénus appelée Frutis, une statue qu'il avait apportée avec lui de Sicile ... ».
187 Fr. 5 Peter. Voir supra p. 125.
188 pour une définition précise des limites de Vager Laurens, cf. F. Castagnoli,
Lavinium I, p. 87; 90-91.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 255

née à Vénus189: différentes explications ont été proposées pour ce


terme190, dont l'origine est probablement une déformation du grec
'Αφροδίτη. Festus nous apporte un témoignage assez voisin : Nam Italici auc-
tore Aenea uelant capita, quod is, cum rem diuinam faceret in litore Lau-
rentis agri Veneri mairi, ne ab Ulixe cognitus interrumperet sacrificium
caput adoperuit, atque ita conspectum hostis euitauit191; deux détails de
ce texte diffèrent de celui de Solin : Vénus n'est pas désignée de l'épi-
clèse Frutis, et il n'y est pas question d'une statue de la déesse. Enfin,
un texte de la Souda192 mentionne le sacrifice fait par Enée à sa mère
lors de son arrivée en Occident (πλεύσας μεχρί της δύσεως), sans plus
de précision géographique193.
Strabon, en revanche, atteste l'existence d'un sanctuaire de Vénus :
Άνα μέσον δε τούτων των πόλεων εστί το Λαουίνιον, έχον κοινον των
Λατίνων ιερόν Αφροδίτης · επιμελούνται δ' αυτού δια προπόλων Αρδεα-
ται. Είτα Λαύρεντον. Ύπέρκειται δε τούτων ή Αρδέα, κατοικία Ρου-
τούλων άνω έβδομήκοντα σταδίοις από της θαλάττης εστί δε και ταύτης
πλησίον Αφροδίσιον οπού πανηγυρίζουσι Λατίνοι. Σαυνΐται δ' έπόρθησαυ
τους τόπους, και λείπεται μεν ϊχυη πόλεων, ευδοξα δε δια την Αινείου
γέγονεν έπιδημίαν και τας ίεροποιίας (ας) έξ εκείνων των χρόνων παρα-
δεδόσθαι φασί194. Le culte de Vénus attesté ici par Strabon est rapporté

189 L'autre se trouve dans Festus: Frutinal templum Veneris Fruti (80 L); mais cette
définition ne contient aucune indication sur la localisation du sanctuaire en question.
190 R. Schilling {La religion romaine de Vénus, 2e éd. Paris 1982, p, 75 sq.) donne au
mot une origine étrusque; cf. F. Castagnoli, Lavinium I, p. 106-107, pour un résumé des
différentes explications proposées.
191 432 L : «En effet les Italiques se voilent la tête à l'imitation d'Enée car ce dernier,
tandis qu'il faisait sur le rivage de Vager Laurens un sacrifice à sa mère Vénus, se couvrit
la tête afin qu'Ulysse ne le reconnût pas et ne lui fît pas interrompre le sacrifice, et évita
ainsi d'être vu par l'ennemi».
192 S.u. 'Αφροδίτη.
193 M. Torelli (Lavinio e Roma, p. 161) attache cependant une grande importance à
cette indication : il faudrait comprendre qu'Aphrodite έφιππος accompagne son fils
jusqu'à l'endroit où se couche le soleil, donnant ainsi au culte qui sera implanté en ce lieu
une connotation solaire qui l'oppose à la valeur lunaire de celui d'Aphrodite; les deux
divinités seraient associées dans les processus de maturation du vin, ce qui permet à
M. Torelli de donner de l'épiclèse Frutis une explication nouvelle : le mot serait à mettre
en relation avec defrutum («le vin nouveau»), Vénus Frutis étant alors définie comme
«celle qui fait fermenter le moût» (pp. cit., p. 172-173).
194 V, 3, 5 : «Au milieu entre Ostie et Antium se trouve Lavinium, qui possède un
sanctuaire d'Aphrodite commun à tous les peuples latins, mais commis aux soins des
Ardéates, qui le font entretenir par des intendants. Puis vient Laurentum, puis, en arrière
256 LES PÉNATES PUBLICS

expressément à Lavinium même195; il s'agit d'un sanctuaire fédéral196,


ce qui constitue un témoignage unique dans notre documentation. Fait
surprenant, Strabon mentionne la présence d'un second temple fédéral
d'Aphrodite, à Ardée. L'existence de deux sanctuaires fédéraux de la
même déesse, aussi peu éloignés l'un de l'autre, a surpris et a donné
matière à un ample débat197. Comme Solin et Festus, Strabon associe ce
culte de Vénus à la légende de la venue d'Enée, et fait même remonter
l'instauration des cérémonies sacrées (ίεροπούας) qui s'y déroulent au
héros troyen en personne. Enfin, Strabon nous indique qu'à son époque
(aux environs de l'ère chrétienne), ces villes de la côte du Latium sont
en ruines (ϊχνη πόλεων); mais l'emploi du présent dans les verbes
επιμελούνται et πανηγυρίζουσι tend à faire penser que, malgré le déclin
des cités, les lieux du culte restent encore vivants. Deux témoignages un
peu postérieurs, ceux de Pline198 et de Pomponius Mela199 mentionnent,
parmi les villes de la côte du Latium, un Aphrodisium; Pline dit du
reste quondam Aphrodisium, ce qui confirme le témoignage de Strabon,
selon lequel cet édifice était en ruines.
Il nous paraît, suivant une suggestion de F. Castagnoli200 qui
présente cette hypothèse avec prudence, qu'il y a de fortes raisons de
penser que X Aphrodisium fédéral mentionné par Strabon est le sanctuaire

de ces villes, Ardéa, établissement des Rutules à 70 stades de la mer, près du sanctuaire
d'Aphrodite où les Latins tiennent leur panégyrie. Les Samnites ont pillé ces lieux, mais
si l'on n'y voit que les vestiges des villes antiques, ces vestiges, du moins, ont été rendus
illustres par le séjour d'Enée, et par les cérémonies sacrées qu'on prétend remonter
jusqu'à cette époque reculée» (trad. F. Lasserre, C.U.P., Paris, 1967).
195 Nous n'aborderons pas ici le problème de la relation entre Lavinium et Lauren-
tum; nous renvoyons à J. Carcopino Virgile et les origines d'Ostie, p. 327; F. Castagnoli,
Lavinium I, p. 85-90.
196 Pour la question de l'administration de ce sanctuaire, cf. ci-dessous, p. 362 sq.
197 Pour R. Schilling (op. cit., p. 68) il a bien existé deux sanctuaires fédéraux de
Vénus-Aphrodite, l'un à Lavinium, le plus ancien, l'autre à Ardée, sorte de «filiale» du
temple de Lavinium ; au contraire, A. Alf oidi (Early Rome, p. 256 n. 7) et F. Castagnoli {op.
cit., p. 110-111) estiment invraisemblable l'existence de deux sanctuaires fédéraux de
Vénus à si peu de distance l'un de l'autre; bibliographie de la question in Lavinium I,
p. 110 n. 8.
198 III, 5, 56-7.
199 II, 4, 71.
200 Lavinium II : Introduzione, p. 5 ; le savant italien a repris cette même hypothèse
dans une conférence faite à E.P.H.E. le 13 mars 1982: Lavinium: Topographie. Cultes
intra et extra muros.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 257

des Treize autels201. Alors que l'abandon de ce dernier dans le courant


du IIe siècle avant J.-C. rend peu probable, selon nous, son
identification comme le sanctuaire des Pénates, il semble au contraire
correspondre assez bien à ce que note Strabon, mais aussi Pline : aux environs de
l'ère chrétienne, ces monuments ne sont plus que ruines. Au
demeurant, cette hypothèse s'appuie également sur la relation probable entre
le mort vénéré dans l'hérôon et la divinité dédicataire du sanctuaire,
qui expliquerait la proximité des deux édifices. Le rapport de filiation
entre Enée et Vénus permet précisément de donner une signification à
l'ensemble de ces monuments202.

2) Le sanctuaire de l'est

En 1960, F. Castagnoli avait identifié, sur une hauteur située à l'est


de l'enceinte de la ville antique et de l'actuel village203, des éléments
d'un autre sanctuaire; de nombreuses terres cuites architectoniques et
pièces de céramique avaient été mises au jour lors d'un sondage. A
partir de 1977, des fouilles systématiques furent menées, qui ne sont pas
achevées, et dont les résultats n'ont encore été que partiellement
publiés204. On a découvert, notamment, un dépôt de matériel votif qui
avait utilisé une dépression naturelle du terrain205 : les statues qui s'y
trouvaient étaient extrêmement abîmées, brisées en de nombreux
morceaux. L'ensevelissement du tout semble avoir eu lieu en une seule fois,

201 Voir A. Dubourdieu, Le sanctuaire de Vénus à Lavinium, REL, 49, 1982, p. 83-
101.
202 Lavinium I, p. 37 et 111.
203 Cf. G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 153-158. Outre les objets présentés en septembre
1981 -janvier 1982 à Rome à l'exposition Enea nel Lazio (cf. Catalogue, p. 187-271) la
découverte du dépôt votif avait été brièvement commentée dans P. Sommella, Le dépôt de
statues votives découvert à Pratica di Mare, Archeologia, n° 116 mars 1978 p. 20-21 (trad. R.
Chevallier). La statue de Minerve a fait l'objet d'une publication détaillée : F. Castagnoli,
// culto di Minerva a Lavinio, Accademia Nazionale dei Lincei 1979, quaderno 246, p. 3-
14.
204 Enea nel Lazio p. 187-190.
205 R. Turcan (op. cit. p. 66) considère que le texte de Strabon (V, 3, 5) citant l'Aphro-
dision fédéral des Latins comme un sanctuaire encore en service au moment où il écrit
va à l'encontre de l'identification de ce monument avec le sanctuaire des Treize autels,
sûrement tombé en désuétude du temps du géographe, puisque Denys d'Halicarnasse,
son contemporain, ne mentionne pas l'édifice; le texte de Pline, infirmant le témoignage
de Strabon (quondam), évoque, selon R. Turcan, le temple situé entre Ardée et Antium,
non le sanctuaire des treize autels; contra : M. Torelli, op. cit., p. 157-173.
258 LES PÉNATES PUBLICS

à la fin du IIIe siècle, ou peu après, ce qui, de même que la présence de


nombreuses tuiles et terres cuites architectoniques, suggère l'abandon
du sanctuaire ou une restructuration complète. Si c'est la première
hypothèse qui est juste, la coïncidence de cette date avec celle de
l'abandon du sanctuaire des Treize autels, comme le note M. Fenelli206,
serait l'indice d'un profond déclin de Lavinium comme centre religieux
à cette date. La partie la plus importante du dépôt est constituée de
statues votives de terre cuite, souvent d'assez grande taille, qui, à
l'exception des statues de Minerve, sont des représentations de fidèles.
Soixante-dix d'entre elles ont jusqu'à présent été identifiées - mais ce
chiffre n'est pas clos -, datables d'une période comprise entre les
premières années du Ve siècle et le début du IIe siècle avant J.-C. On trouve
parmi elles de nombreuses représentations d'enfants emmaillotés,
quelques têtes isolées et quelques ex-voto anatomiques de membres, ou
d'organes génitaux. On trouve aussi de nombreuses fuseroles, édifices
miniatures, oiseaux, lapins, œufs, toupies, et aussi des antéfixes207.
Enfin, à côté de ces objets de terre cuite, on a mis au jour quelques petits
bronzes, production locale du milieu du VIe siècle avant J.-C, et aussi
de la céramique italo-corinthienne, datée essentiellement des IVe-IIIe
siècles. La présence, parmi les terres cuites, de plusieurs statues de
Minerve, appartenant d'ailleurs à des types iconographiques différents,
et datées d'époques diverses, fait penser que le sanctuaire attenant,
dont on n'a actuellement retrouvé que les terres cuites
architectoniques, lui était dédié. La grande statue de la déesse casquée et armée,
accompagnée d'un Triton, datée du Ve siècle, et, selon F. Castagnoli208,
fabrication locale à partir d'un modèle grec, atteste que Minerve était
honorée à Lavinium comme déesse guerrière, mais les statues
d'enfants, ou de mères tenant leur enfant dans leurs bras, prouvent sans
doute qu'on l'y considérait aussi comme la protectrice des mariages et

206 Enea nel Lazio, p. 187.


207 M. Torelli, après avoir souligné l'étroite relation existant entre Minerve et les
jeunes gens, étudie minutieusement ces statues et objets votifs; il pense pouvoir établir qu'ils
ont rapport à l'initiation qui conduit les garçons à la prise de la toge virile, les jeunes
filles au mariage, initiation à laquelle préside la Minerve lavinate ; il note par exemple la
présence, dans le dépôt votif, de statues de jeunes garçons portant la bulla, et de statues
de jeunes filles dont la coiffure lui semble un traitement spécifique de la chevelure
féminine le jour des noces (Lavinio e Roma, p. 23-71).
208 // culto di Minerva a Lavinio, p. 8-9.
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 259

des naissances209, ce dont témoigne peut-être la présence, très rare,


d'une oie à ses côtés dans l'une de ces statues210. Une autre211, d'une
stature très rigide, mal proportionnée, montre une Minerve casquée,
portant le Gorgoneion sur son thorax, et, par sa présentation
«rigidement frontale»212, elle suggère une représentation du Palladium, ce qui
la mettrait évidemment en relation avec la légende de la venue d'Enée.
A Rome, le Palladium, statue d'Athéna qui aurait été volée par Ulysse et
Diomède à Troie, puis apportée en Italie, passait pour être conservée
parmi les pignora imperii du sanctuaire de Vesta sur le Forum213, où se
trouvaient aussi les Pénates. De plus, l'une des statues d'orantes214 porte
un collier constitué de médaillons qui illustrent peut-être des épisodes
de la Guerre de Troie, ou de la légende d'Enée : sur l'un d'entre eux, il
faut peut-être reconnaître le Palladium entre Ajax et Cassandre215.
Autour de ce culte s'est élaborée une tradition locale dont nous
avons différents témoignages. Elle semble avoir été suffisamment forte
pour survivre à l'ensevelissement de ces statues, notamment de la
grande Minerve au Triton, et à l'abandon du sanctuaire. Il est probable en
effet que cette tradition était connue de Virgile, comme le montre l'épi-
thète de «Tritonide» dont il qualifie fréquemment Athéna comme
déesse poliade de Troie216. La présence de la statue de Minerve au Triton à
Lavinium prouve que ce n'est pas la simple imitation littéraire
d'Homère217 ou d'Hésiode218 qui a inspiré cette épithète à Virgile, mais qu'il a
dû avoir connaissance de la tradition lavinate, aux lieux mêmes où la
légende situait le débarquement d'Enée219. L'existence, à Lavinium,
d'un culte d'Athéna considérée comme d'origine troyenne a été souli-

209 Ces deux aspects de la déesse sont relevés par F. Castagnoli {Enea nel Lazio,
p. 189); M. Torelli, au contraire (Lavinio e Roma, p. 19-31), estime que le caractère
essentiel de la Minerve lavinate est celui de protectrice des initiations juvéniles.
210 Enea nel Lazio, p. 193-194, D 62.
211 Ibid., p. 193-194, D. 63.
212 Ibid., p. 194.
213 Notamment Cicéron, Scaur., 48 : Palladium illud quod quasi pignus nostrae saluas
atque imperi custodiis Vestae continetur; cf. ci-dessous p. 460-7.
214 Enea nel Lazio, p. 239-240, D 224; F. Castagnoli, ibid. p. 10-11.
215 F. Castagnoli, ibid., t. XI, fig. 3.
216 En. II, 171; II, 227; V, 615. Pour les différentes interprétations de cette épithète,
cf. F. Castagnoli, II culto. . ., p. 4-6; id., Enea nel Lazio, p. 191.
217 II, IV, 515; Vili, 39; XXIII, 183; Od., Ili, 78.
218 Théogonie, 893 ; 924.
219 F. Castagnoli, op. cit., p. 4 η. 5.
260 LES PÉNATES PUBLICS

gnée par G. Pugliese Carratelli220, qui s'appuie sur un texte de Strabon,


déjà cité221, mentionnant la présence d'une statue «troyenne» d'Athéna
dans la cité. La découverte de la Minerve guerrière semble corroborer
ce témoignage.
On se rappelle les deux vers de Lycophron mentionnés au début de
ce chapitre, où le poète fait dire à Cassandre qu'Enée installera «les
images des dieux de sa patrie» dans le sanctuaire de Myndia Pallènis,
c'est-à-dire d'Athéna. Les fouilles de 1977 montrent que l'existence de
ce sanctuaire n'est pas pure fantaisie littéraire. Reste à savoir quel
crédit il faut accorder à l'affirmation selon laquelle Enée y déposa ses
Pénates, et dans quelle mesure on peut considérer le sanctuaire de l'est
comme celui des Pénates, ou, du moins, celui où ils étaient honorés. A
suivre à la lettre les indications de Lycophron, il semblerait que l'on
puisse répondre que ce temple est bien le leur. D'autre part, le texte de
Denys222 cité plus haut paraît donner quelque consistance à cette
hypothèse, puisque l'historien assure qu'Enée installa ses Pénates dans un
temple situé sur une hauteur (έπί τον λόφον). La situation du
sanctuaire de l'est correspondrait à cette description. La localisation sur une
hauteur coïnciderait également avec les indications fournies par
certains documents figurés, l'Ara Pacis et le relief du British Museum, en
particulier.
Toutefois, on peut faire à cette hypothèse plusieurs objections.
Tout d'abord, le texte de Lycophron constitue un témoignage
absolument isolé d'un lien cultuel entre Minerve et les Pénates à Lavinium.
Les témoignages de Macrobe et de Servius-Daniel, au contraire,
attestent que, dans la cité laurentine, c'est avec Vesta que les Pénates sont
liés223, puisqu'on leur offre un sacrifice commun, à tel point d'ailleurs
qu'on considère parfois Vesta comme faisant partie des Pénates. Mais
surtout, on peut avancer contre cette hypothèse les mêmes arguments
qui nous ont semblé décisifs pour récuser l'identification du sanctuaire
des Treize autels comme celui des Pénates. D'une part la date probable
d'abandon du sanctuaire (fin du IIIe ou début du IIe siècle avant J.-C.)
est peu compatible avec ce que la tradition littéraire et épigraphique

220 Lazio, Roma e Magna Grecia prima del secolo quarto a.C, PP, 23, 1968 p. 324. Cf.
aussi C. Bearzot, loc. cit. ; M. Sordi, loc. cit. C. Cogrossi, loc. cit.
221 VI, 1, 14.
222 I, 57, 1.
223 Penatibus pariter et Vestae (Macrobe III, 4, 11); Penatibus simul et Vestae (Servius-
Daniel, Ad Aen. Ili, 12).
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM 261

nous apprend par ailleurs du culte des Pénates à Lavinium. D'autre


part, ce sanctuaire, comme celui des Treize autels, est situé hors du
périmètre urbain, et nous avons déjà noté combien ce dernier caractère
nous paraissait contraire à la définition même des Pénates.
Aussi nous semble-t-il que, comme le suggèrent d'ailleurs les
monnaies d'Hadrien et d'Antonin, le temple de ces dieux est à chercher à
l'intérieur de la cité antique224, peut-être, conformément à d'autres
témoignages iconographiques que nous mentionnions plus haut, sur la
hauteur où se situe aujourd'hui le village de Pratica di Mare. On n'y a
jusqu'à présent trouvé que des terres cuites architectoniques,
provenant d'un sanctuaire dont la divinité dédicataire reste inconnue. Mais
c'est sans doute sur cette colline, qui paraît avoir connu une occupation
continue depuis l'Age du Bronze225 jusqu'à nos jours, qu'il faut
chercher le sanctuaire des Pénates. L'emplacement correspondrait, nous
semble-t-il, à la fois aux données littéraires et aux témoignages
iconographiques. Cela dit, le temple des Pénates à Lavinium est encore à
découvrir.

224 C'est l'hypothèse à laquelle est arrivé aujourd'hui F. Castagnoli (Ancora sul culto
di Minerva a Lavinio, BCAR, 90, 1985, p. 8-10), qui note qu'elle est conforme aux données
iconographiques des monnaies d'Antonin et d'Hadrien ; cf. supra p. 227-8.
225 P. Sommella, Lavinium. Rinvenimenti preistorici, Arch Class., 21, 1969, p. 18-33;
M. A. Fugazzola Delpino, L'età del bronzo, in Civiltà del Lazio primitivo, Rome, 1976,
p. 17-19; p. 65-67; G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 99 sq.
CHAPITRE III

IDENTITÉ ET HISTOIRE
DES PÉNATES DE LAVINIUM

Si la tradition littéraire et iconographique et, du moins à l'heure


actuelle, l'archéologie, nous laissent dans une relative ignorance sur le
sanctuaire des Pénates à Lavinium, les données qu'elles fournissent sur
l'histoire de ces dieux sont d'une interprétation particulièrement
délicate. Il y a à cela plusieurs raisons. D'une part, notre documentation est
très lacunaire concernant l'identité même des Pénates, dont aucune
statue n'a été retrouvée à Lavinium. D'autre part, les attestations
littéraires sûres du culte ne remontent pas au-delà du IIIe siècle où, pour la
première fois avec Timée, nous avons le reflet des traditions lavinates
sur les Pénates.
Il nous est apparu au cours d'une précédente enquête1 que les
Pénates étaient, de par leur nom, des divinités spécifiquement latines,
dont il n'est pas impossible de supposer, sans qu'il y ait de certitude sur
ce point2, qu'elles datent des origines de la civilisation latiale; à ce
titre, il n'est pas surprenant de les trouver à Lavinium3. Cependant, en
l'état actuel de notre documentation, il est impossible d'atteindre les
Pénates de Lavinium indépendamment des deux légendes qui se sont
greffées sur les données indigènes de la religion lavinate : ce sont,
d'une part la légende de la venue d'Enée, porteur des Pénates, au

1 Cf. ci-dessus, p. 13-33.


2 II ne s'agit que d'une hypothèse, qui ne nous paraît pas confirmée par la
découverte de petites figurines d'argile dans les urnes des tombes albaines (cf. ci-dessus, p. 27-
8), contrairement à la thèse de F. Borner (Rom und Troia, Baden-Baden, 1951, p. 65 sq.).
3 L'occupation du site est en effet attestée à partir de l'Age du Bronze; la
découverte de tombes à puits du Xe siècle rattache Lavinium à la culture apenninique de l'Italie
centrale; cf. P. G. Gierow, The Iron Age of Latium I (Classification and Analysis), Lund,
1964, p. 439; P. Sommella, Pratica di Mare, dans Civiltà del Lazio primitivo, Catalogue de
l'Exposition de Rome, Rome, 1976, p. 492-93.
264 LES PÉNATES PUBLICS

Latium, de la fondation de la cité par le Troyen, et de l'établissement


de ses dieux dans cette nouvelle Troie; d'autre part, la légende des
origines troyennes de Rome, qui voit en Lavinium la cité-mère de Rome,
et en Enée le lointain ancêtre du héros fondateur Romulus, et explique
que les Romains aient pu considérer les Pénates de Lavinium comme
leurs. Il est donc évident que l'histoire des Pénates de Lavinium, ou
plutôt leur légende, se présente comme la fusion de composantes très
diverses, éléments indigènes, mais aussi influences grecques avec
l'arrivée au Latium du personnage d'Enée, étrusques peut-être puisque nous
avons vu que le Troyen est connu en Etrurie dès les VIe- Ve siècles, peut-
être aussi orientales.

I - L'Identité des Pénates de Lavinium

Nous possédons aujourd'hui deux témoignages concernant


l'identité des Pénates de Lavinium, de nature et de teneur fort différentes.
L'un est littéraire : on peut lire chez Denys d'Halicarnasse4 une
description de ces dieux qu'il affirme avoir empruntée à Timée; l'autre est
épigraphique : c'est la dédicace à Castor et Pollux découverte en 1958
près de l'autel VIIIs.

1) Le témoignage de Timée

Nous connaissons par Denys d'Halicarnasse la description, on une


partie de la description, que fit l'historien Timée des Pénates de
Lavinium. Ce témoignage, dont l'authenticité a parfois été fortement mise
en doute6, est essentiel7, puisqu'il constitue l'unique attestation
littéraire de l'aspect que revêtaient les dieux à Lavinium, et que d'autre
part Timée, à en croire Denys, prétendait tenir ces renseignements des
Lavinates eux-mêmes8 : σχήματος δε καί μορφής αυτών πέρι Τίμαιος

4 ι, 67, 4.
5 Ρ. Sommella, Lo scavo stratigrafico delle platee, in F. Castagnoli. . . Lavinium II : Le
Tredici Are, Rome, 1975, p. 45.
6 J. Perret, Les origines de la légende troyenne de Rome, Paris, 1942, p. 346; 441-
443.
7 Voir J. Gagé, Comment Enée est devenu l'ancêtre des Siluii albains?, MEFR, 88,
1976, p. 8.
8 I, 67, 4 : πυθέσθαι δε αυτός ταΰτα παρά των έπιχωρίων; cf. ci-dessus, p. 124-5.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 265

μεν ό συγγραφεύς ώδε άποφαίνει · κηρύκεια σιδηρά και χαλκά και κέρα-
μον, Τρωικον είναι τα έν τοις άδύτοις τοις εν Λαουϊνίφ κείμενα ίερά9.
Avant d'essayer de voir quel type de relation les objets décrits par
Timée peuvent avoir avec la divinité, il convient de s'interroger sur leur
signification propre et d'abord sur celle de ces «caducées de fer et de
bronze», dont c'est l'unique mention, aussi bien dans le culte privé que
dans le culte public des Pénates. Le κηρύκειον, de par son nom même10
n'est pas défini autrement que par son appartenance au héraut, et cette
désignation comme «bâton de héraut» n'implique pas a priori de
décoration particulière. Pourtant, dans la plupart des représentations
figurées, ce qui distingue le caducée du simple bâton, ce sont les ornements
de son extrémité supérieure, qui se présentent comme des
entrelacements assez compliqués, mais se ramenant à deux types à partir
desquels existent des variations11. On trouve d'une part, à l'extrémité du
bâton, un cercle surmonté d'un autre cercle ouvert, ou, d'un arc de
cercle assez court, d'autre part deux bifurcations entrecroisées enroulées
le long de la partie supérieure du bâton12. On a cherché à ces formes
des explications. L'une d'elles a été suggérée à A. Legrand13 par le fait
que le caducée est le bâton d'Hermès, dieu qui «a d'abord été pâtre»;
or, ajoute-t-il à propos de la forme particulière du caducée, «les pâtres
grecs ont pu trouver naturellement cette forme en contournant des
scions laissés au bout d'une branche». Cette explication, qui nous
semble plausible, ne prend en compte que l'aspect ornemental du caducée.
Aussi A. Legrand en propose-t-il également une autre, qui n'infirme du
reste pas la première. Le caducée présenterait la reproduction de
modèles iconographiques antérieurs, empruntés à l'Orient; pour
l'entrecroisement des rameaux, on peut songer à la figuration de l'arbre sacré

9 I, 67, 4 : « Concernant leur apparence et leur forme (= des Pénates), l'historien


Timée s'exprime en ces termes : les objets sacrés conservés dans la partie secrète du
sanctuaire de Layinium sont des caducées de fer et de bronze, et de la poterie troyenne».
10 P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, II, Paris, 1970, s.u.
κήρυξ ; le latin caduceus est emprunté au dorien καρύκειον (cf. A. Ernout-A. Meillet,
Dictionnaire étymologique de la langue latine, s.u. caduceus).
11 Une iconographie assez riche du caducée se trouve dans l'article d'A. Legrand in
Dictionnaire des Antiquités grecques et Romaines, III, 2, s.u. Mercurius (p. 1802-1823).
12 Cf. C. Scherer, in Roschers Lexicon, s.u. Hermes col. 2365; Samter, in R.E., III, I,
s.u. caduceus, col. 1170-1171.
13 Op. cit., p. 1807.
266 LES PÉNATES PUBLICS

de Phénicie14 que l'on trouve sur un bandeau carthaginois15; le cercle


surmonté d'un croissant est symbole de Baal, ou, plus
vraisemblablement, d'Astarté16. Cette figuration, peut-être assez schématiquement
stylisée, a dû être confondue par les Grecs avec les ornements du bâton
d'Hermès, par ce qu'A. Legrand appelle un «contre-sens mythique»17.
Au contraire, G. Picard18, constatant que, sur les stèles d'Afrique, le
signe de Tanit est souvent accompagné de caducées formés d'un bâton
surmonté d'un disque et d'un croissant19, pense qu'il est abusif d'y voir
un motif d'origine orientale, puisque, dit-il, «il n'existe aucun prototype
en Phénicie»; il estime donc que c'est l'influence inverse qui s'est
exercée, et qu'il s'agit d'une imitation du κηρύκειον grec, avec lequel il
présente une grande parenté, et que cet insigne a été introduit en Afrique
en même temps que le culte d'Hermès. En définitive, le caducée a
perdu toute signification symbolique autre que celle d'être l'attribut
d'Hermès, et il a tiré ses différentes valeurs des fonctions diverses attribuées
au dieu. C'est dans la Théogonie d'Hésiode20 qu'Hermès apparaît pour
la première fois comme le messager des dieux; le bâton qu'il tient dans
la main, qu'Homère qualifiait de ράβδος21, tandis que le même poète
appelle σκήπτρον22 le bâton des hérauts humains, ceux des rois par

14 Sur le caducée dans les monuments phéniciens, cf. V. Bérard, Essai de méthode en
mythologie grecque. De l'origine des cultes arcadiens, Paris, 1894. Sur l'expansion
phénicienne en Occident, G. Garbini, I Fenici in Occidente, SE, 34, 1966; p. 111-117; J. Heurgon,
Rome et la Méditerranée occidentale, 2e éd., Paris, 1980, p. 127-131 ; 145-149.
15 Cf. Gazette archéologique, 1879, p. 133 (cité par A. Legrand, op. cit., p. 1807 n. 13).
Selon A. Legrand (ibid. n. 19), le caducée est aussi un des hiéroglyphes des inscriptions
hittites.
16 A. Legrand, ibid., n. 21.
17 R. Cagnat et V. Chapot (Manuel d'Archéologie romaine I, Paris, 1916, p. 401)
donnent la même explication de cet emprunt : «... l'attribut habituel d'Hermès, le caducée,
emblème oriental que les Grecs avaient adopté à contre-sens ». Le caducée est attesté dans
l'art mycénien, comme on peut le voir sur un anneau d'or trouvé à l'Agora d'Athènes, où
il figure aux mains d'un personnage mal identifié (Ch. Picard, Les Religions
préhelléniques, Paris, 1948, p. 255 n. 2).
18 Les religions de l'Afrique antique, Paris, 1954, p. 77-78.
19 La même remarque a été faite par M. Leglay, Saturne africain, Paris, 1966
(notamment pi. XVII fig. 1, pi. XXI, fig. 2; 3; 5).
20 Théogonie, 938-39.
21 Od. X, 319.
22 Β. Combet-Farnoux (Mercure romain. Le culte public de Mercure et la fonction
mercantile à Rome de la République archaïque à l'époque augustéenne, B.E.F.A.R., vol 238,
Rome, 1980, p. 343) note que κηρύκειον «était une forme adjective, qui dans l'expression
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 267

exemple23, est désormais qualifié de κηρύκειον. Cela dit, le mot


apparaît pour la première fois au Ve siècle chez Hérodote24 et Thucydide25,
non pas à propos d'Hermès, mais à propos de messagers humains, le
bâton d'une forme particulière étant devenu l'emblème des hérauts. La
peinture de vases confirme d'ailleurs qu'à cette époque, Hermès est le
plus souvent figuré avec un caducée à la main26, et il existe un
exemple27 où un mortel, Talthybios, héraut d'Agamemnon dans l'Iliade,
tient un caducée au moment où il emmène Briséis28.
Toutefois, le caducée a pris d'autres significations que celle
d'emblème des messagers, en liaison à la fois avec les diverses fonctions
attribuées à Hermès, et avec le développement du thème
iconographique de l'entrelacement sous la forme de deux serpents affrontés, ou
d'un serpent enroulé autour de la partie supérieure du bâton. V. Bé-
rard29 note que le serpent est l'emblème du dieu-fils chez les
Phéniciens; là encore, le symbole a pu être interprété à contre-sens par les
Grecs, et attribué à Hermès, car la présence du serpent, animal lié aux
Enfers, pouvait s'expliquer par la fonction de psychopompe du dieu30.
De même une erreur d'interprétation du bâton qu'Anubis tient à la
main - en réalité le sceptre d'Osiris, dans lequel les Romains ont cru
reconnaître un caducée - a permis la confusion entre le dieu égyptien
et Hermès à l'époque impériale31. Enfin, Hermès s'étant, chez les
Romains, en partie confondu avec Mercure, le caducée que tient ce

κηρύκειον σκήπτρον définissait la destination et la fonction du bâton servant d'insigne au


κήρυξ».
23 //. VII, 277-78.
24 IX, 10.
25 I, 53.
26 P. Zanker, Wandel der Hermesgestalt in der attischen Vasenmalerei, Bonn, 1965,
passim.
27 Monumenti VI, 19.
28 Le même Talthybios joue le rôle de héraut des Grecs dans le combat entre Hector
et Ajax dans le passage de l'Iliade déjà cité (VII, 277-78).
29 Op. cit., p. 293-94.
30 C'est probablement la signification qu'il faut donner au bâton que tient l'un des
licteurs du cortège funèbre représenté dans la «Tombe du Typhon» à Tarquinia (cf.
M. Torelli, Etruria, (Guide archeologiche Laterza) Rome, 1980, p. 151; id., La peinture
étrusque (coll. Skira), p. 125.
31 Cf. Samter, in R.E., III, 1, s.u. caduceus, ibid.
268 LES PÉNATES PUBLICS

dernier est devenu le symbole de l'ensemble de ses fonctions, y compris


celles qui ont trait au commerce32.
Il ne paraît guère douteux, au demeurant, que la signification
symbolique du caducée ait paru très floue aux yeux des Anciens, comme en
témoignent les diverses tentatives d'interprétation qui en ont été faites.
Selon Polybe33, ce sont des rameaux d'olivier entrelacés qui ornent le
caducée, ce qui symbolise le pacifisme et la neutralité des messagers.
Selon la Souda34, les deux serpents affrontés représentent les deux
armées ennemies, tandis que la partie droite du bâton les sépare
comme les paroles de paix séparent les adversaires. Cette même idée, que la
baguette sépare les serpents, se trouvait déjà chez Servius35, mais
Daniel a commenté ce rôle de la baguette en relation avec celui de
conciliateur joué traditionnellement par Mercure entre deux armées
ennemies36. Il ajoute deux autres explications peu cohérentes : les deux
serpents sont tournés l'un vers l'autre parce que les messagers doivent
se rapprocher les uns des autres, et se parler37, pour que les
belligérants puissent se calmer; mais, note-t-il, deux globes ont été ajoutés à
ces caducées, l'un représentant le Soleil, l'autre la Lune38; on reconnaît
là le souvenir, déformé, de la symbolique orientale de l'une des formes
systématisées du caducée. En réalité, la signification des différents
emblèmes qui forment le caducée n'a pas été comprise par les Grecs, ni
par les Romains, qui l'ont hérité des Grecs, d'où la diversité de ses sens
et des explications auxquelles ils ont donné lieu.
Il nous semble que la signification fondamentale du caducée est à
chercher dans son nom même, et qu'on peut se demander si la forme,
si caractéristique malgré sa variété, que revêt son extrémité supérieure,

32 Cf. Heichelheim, in RE, XV, 1, s.u. Mercurius, col. 975-982. Dans les peintures qui
décorent l'entrée de la maison de Trimalcion {Sat., XXIX), le maître de maison est
représenté, jeune, lors de son arrivée à Rome, un caducée à la main (caduceum tenebat); il
semble que ce soit une allusion à la fortune qu'il va faire dans le commerce, comme en
témoigne aussi, un peu plus loin, l'effigie de Mercure soulevant Trimalcion. Cf. aussi
B. Combet-Farnoux, op. cit., p. 426-431.
33 III, 52.
34 s.u. κηρύκειον.
35 Ad Aen. IV, 242 : uirga serpentes diuidit.
36 Ad Aen. VIII, 138 : caduceum Uli ideo adsignatur, quod fide media hostes in amici-
tiam conducati cf. Β. Combet-Farnoux, op. cit., p. 343-45.
37 hoc. cit. : serpentes ideo, introrsum spectantia capita habent ut significent inter se
legatos colloqui et conuenire debere.
38 Ibid. : quibus caduceis duo mala adduntur, unum Solis, aliud Lunae.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 269

n'est pas, en définitive, plus ornementale que symbolique, comme


tendrait précisément à le prouver cette variété de formes. Au reste, il est,
croyons-nous, très significatif qu'Homère désigne du terme de σκήπ-
τρον le bâton du héraut. D'autre part, dans la peinture des vases, la
baguette que tient le dieu n'a pas toujours d'ornements dans sa partie
supérieure39, et la forme spécifique du caducée n'est sans doute qu'une
différenciation, qui a pris une signification particulière, du bâton, dont
la valeur est loin d'être univoque. Du reste, les commentateurs tardifs
dont nous citions les exégèses à propos de la forme du caducée le
définissent aussi comme un bâton : turn uirgam capit, id est caduceum, écrit
Servius40, et la Souda : κηρύκειον σκήπτρον41.
Dans ces conditions, l'interprétation du texte de Timée cité par
Denys est particulièrement malaisée, d'autant plus d'ailleurs que Timée
tient cette définition des Pénates de la bouche même des habitants de
Lavinium; il a donc traduit en grec un mot latin; mais lequel? Il nous
paraît, en tout cas impossible qu'il ait choisi précisément ce mot de
κηρύκειον si les objets en question ne lui avaient pas été désignés d'un
mot en relation avec la fonction de messager (contrairement à ce que
l'on a parfois avancé42) ou du moins d'un terme désignant, entre
autres, cette fonction. Nous suggérerons avec beaucoup de prudence
deux hypothèses. Le mot latin était peut-être caduceus, auquel cas la
traduction de Timée par κηρύκειον allait de soi, caduceus, selon A. Er-
nout et A. Meillet43, venant du dorien καρύκειον et constituant un «em-

39 Cf. P. Zanker, loc. cit.


40 Ibid.
41 s.u. κηρύκειον b.
42 P. -M. Martin (Antiquités Romaines, I, éd. commentée. Doctorat de 3e cycle, Tours,
1971, p. 349) s'étonne de la présence de ces caducées, «les Pénates n'ayant rien à voir ni
avec Mercure ni avec la fonction héraldique » ; il ajoute : « peut être Timée a-t-il pris pour
des caducées des objets qui leur ressemblaient : nous pensons aux faisceaux, l'antique
symbole de la royauté étrusque conservé à Rome. L'étroitesse des liens qui semblent bien
avoir existé aux origines entre les Vestales et la personne royale va dans le sens de cette
hypothèse». Nous pensons cependant que cette hypothèse n'est pas très solidement
fondée et qu'il est fort improbable, étant donné qu'ils étaient conservés dans Xadyton du
sanctuaire, que Timée ait vu lui-même ces objets, ce sur quoi d'ailleurs le texte de Denys
nous paraît clair (πυθέσθαι δέ αυτός ταύτα παρά των έπιχωρίων) ; enfin, il est contestable,
comme nous le verrons plus bas, que les Pénates n'aient pas de liens avec les hérauts, ni
Mercure.
43 Ibid., p. 147 s.w. caduceus; cf. A. Ernout, Aspects du vocabulaire latin, Paris, 1954,
p. 65-66. La même explication par un intermédiaire étrusque se trouve aussi chez A. Wal-
270 LES PÉNATES PUBLICS

prunt ancien, direct ou indirect», un intermédiaire étrusque expliquant


peut-être la présence du d dans la transcription latine.
Malheureusement, nous n'avons aucune indication sur la date de cet emprunt; le
mot caduceus est attesté pour la première fois dans la littérature latine
au Ier siècle avant J.-C.44 chez Cicéron et Varron45, mais évidemment,
cet argument ex silentio ne peut être décisif.
Il est une seconde hypothèse, qui est de considérer que le κηρύ-
κειον de Timée traduit le latin hasta. Elle peut paraître surprenante, les
sens des deux mots étant apparemment antithétiques, si l'on prend
hasta dans le sens qu'il a le plus fréquemment de «lance»: comment ce
symbole de paix et ce symbole de guerre auraient-ils pu être considérés
comme équivalents? Du reste, leurs spécialisations, contradictoires, se
montrent très nettement dans un passage d'Aulu-Gelle, citant des
«textes anciens»46; lors des luttes entre Rome et Carthage, le général
romain Quintus Fabius remit une lettre aux Carthaginois : ibi scriptum
fuit populum Romanum misisse ad eos hastam et caduceum, signa duo
belli aut pacis, ex quis utrum uellent eligerent47; l'emploi de utrum
montre bien qu'il n'y a pour Aule-Gelle aucune ambivalence dans ces
symboles. Cependant, tandis que A. Ernout et A. Meillet48 donnent comme
premier sens du mot hasta «lance, pique», A. Walde- J. B. Hofmann49
indiquent au contraire «bâton, baguette», sens que feraient préférer
des rapprochements avec l'irlandais, le gotique et le vieux saxon50, où
des mots de la même racine ont ce sens. A. Alföldi, dans un article dont

de-J. B. Hofmann, Lateinisches Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg, 1930-35, s.u.


caduceus, p. 128.
44 En revanche, caduceator, qui suppose l'existence d'un caduceus et a peut-être été
fait sur le modèle orator (A. Walde-J. B. Hofmann, ibid.) est attesté chez Caton (apud Fes-
tus, 41 L. : caduceatores legati pacem petentes Cato {inc. 4) caduceatori, inquit, nemo homo
nocet).'
45 De Or., 1, 202; apud Non., 528.
46 N. AU. X, 27, 1 : in litteris ueteribus.
47 Ibid., 3 : «II y était écrit que le peuple romain leur envoyait une lance et un
caducée, deux signes de guerre ou de paix, pour qu'ils choisissent celui qu'ils voudraient»
(trad. R. Marache, C.U.F., Paris, 1978). Aulu-Gelle ajoute que la même histoire, avec une
légère variante, est racontée aussi par Varron {ibid., 5) : voir R. Marache, op. cit., Notes
complémentaires, p. 228 (p. 189 n. 2).
48 Op. cit., p. 516, s.u. hasta.
49 Op. cit., I, p. 636, s.u. hasta.
50 Cf. A. Ernout-A. Meillet, ibid.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 271

le titre, Hasta-summa imperii*1 est une définition empruntée à Fes-


tus52, a pu montrer qu'avant d'être un instrument guerrier, la hasta
était le symbole du pouvoir suprême, ce que confirment un certain
nombre de témoignages littéraires et iconographiques qu'il apporte à
l'appui de sa démonstration, ainsi qu'une autre définition de Festus :
signum praecipuum est hasta53. Un passage de l'Enéide nous paraît du
reste particulièrement éclairant sur ce point, dans la prophétie de la
Sibylle à Enée :
lue, uides, pura iuuenis qui nititur hasta. . ..
Siluius, Albanum nomen, tua postuma proles,
quem ubi longaeuo serum Lauinia coniunx
educet siluis regem regumque parentem54.

La répétition regem/regum, souligne le caractère de souverains qui


sera conféré aux fils d'Enee, tandis que pura suggère peut-être que ce
bâton ne sera pas un insigne souillé de sang, mais l'emblème d'un
imperium qui s'impose par lui-même, sans avoir recours à la force
guerrière55. A. Alföldi, enfin, rappelle56 que cette fonction de la hasta
comme symbole de X imperium est mentionnée par Justin, à propos des
premiers temps de Rome : per ea tempora adhuc reges hastas pro
diademate habebant57. De cette valeur symbolique, qu'il considère comme
originelle, A. Alföldi fait dériver les autres fonctions de la hasta,
instrument guerrier, bien sûr, mais aussi attribut des magistrats cum imperio,
notamment dans certaines affaires juridiques58; en revanche, il met
tout à fait à part le rôle de la hasta dans les procédures de vente aux

51 AJA, 63, 1959, p. 1-27.


52 55 L.
53 90 L.
54 VI, 760-765 : «Ce jeune homme, tu le vois, qui s'appuie sur une haste pure. . ., Sil-
vius, nom Albain, ton fils dernier-né que Lavinia, ton épouse mettra au monde dans une
forêt pour te succéder en tes vieux jours, roi bien tard et père de rois » (trad. J. Perret,
C.U.F., Paris, 1978) Cf. aussi A. Alföldi, op. cit., p. 3.
55 Ce n'est pas l'interprétation d'A. Alföldi (op. cit., p. 2), qui pencherait plutôt pour
le sens de «en or», soit qu'il s'agisse d'une pureté rituelle, soit de métal pur; cependant
Servius (ad loc.) pense que pura signifie sine ferro, c'est-à-dire «dépourvue de pointe
métallique », et Donat (ad loc.) commente : nuntia scilicet non belli sed pads ; cf. R. G.
Austin, P. Vergili Moronis Aeneidos liber sextus (éd. commentée), Oxford, 1977, p. 235.
56 Ibid.
57 43, 3, 3.
58 Op. cit., p. 8.
272 LES PÉNATES PUBLICS

enchères, où il considère, en se fondant sur un texte d'Aulu-Gelle,


qu'elle est le souvenir d'un instrument guerrier, que l'on fichait dans le
sol pour marquer sa propriété sur un butin (hastam ponere).
L'analyse d'A. Alföldi nous paraît pouvoir être complétée par
l'étude menée par E. Benveniste sur les mots qui désignent les insignes de la
royauté dans les langues indo-européennes59. Rappelant un texte de
Justin, suite de celui qu'avait cité A. Alföldi, et qui vient à l'appui de la
démonstration du savant hongrois (hastas. . . quas Graeci sceptra dicere),
E. Benveniste analyse la signification du σκήπτρον, dont le sens
premier, dit-il, est «un objet sur quoi l'on s'appuie, le bâton», et, en
essayant d'« unifier les différentes fonctions de ce σκήπτρον aux mains
des différents personnages habilités à le détenir», il affirme que «la
fonction primordiale du σκήπτρον . . . paraît être le bâton du messager.
C'est l'attribut d'un itinérant, qui s'avance avec autorité, non pour agir,
mais pour parler». Notons du reste que c'est le sens que donne Homère
au mot lorsqu'il met le σκήπτρον aux mains des hérauts. Et E.
Benveniste conclut : «Du fait qu'il est nécessaire au porteur d'un message, le
σκήπτρον devient comme le symbole de sa fonction et un signe
mystique de légitimation. Dès lors, il qualifie le personnage qui porte la
parole, personnage sacré, dont la mission est de transmettre le message
d'autorité».
Il nous paraît que cette unification des différentes fonctions du
σκήπτρον faite par E. Benveniste autour du sens de «bâton de
messager» peut se réaliser, autour du même sens, pour la hasta latine. Si l'on
admet son sens originel de bâton, l'analogie est possible, et cette
explication permettrait de réduire la dualité des valeurs que voyait A. Alföldi
entre la hasta emblème de Yimperium, et celle des ventes aux enchères.
Un texte de Cicéron, cité au reste par A. Alföldi, nous paraît significatif
à cet égard; Cicéron s'indigne qu'Antoine ait fait vendre les biens du
glorieux Pompée : Hasta posita pro aede louis Statoris, bona subiecta. . .
Cn. Pompei Magni noci acerbissimae. . . praeconis60. Il y a, croyons-
nous, une relation étroite entre cette hasta et le praeco : ce dernier va
porter la parole pour les enchères publiques61, comme il le fait à la

59 Le vocabulaire des institutions indo-européennes, II, Paris, 1969, p. 29-33.


60 Phil. II, 64 : « La pique des enchères fut plantée devant le temple de Jupiter
Stator. . ., et les biens du grand Cn. Pompée ont été livrés aux aigres glapissements d'un
crieur public» (trad. A. Boulanger et P. Wuilleumier, C.U.F., Paris 1972).
61 Dans le De Off. II, 27, on retrouve l'expression hasta posita, sans que soit nommé
le praeco.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 273

guerre, où il est l'équivalent du κήρυξ grec. La valeur d'emblème de la


souveraineté, dont A. Alföldi souligne à juste titre l'importance,
pourrait donc bien n'être que secondaire dans l'histoire du mot, et elle est
d'ailleurs plus souvent exprimée par sceptrum, transcrit littéralement
du grec.
En définitive, on le voit, le mot hasta paraît avoir présenté une
certaine ambiguïté, ou offert simultanément plusieurs sens. Mais ce
caractère se trouve être aussi celui du σκήπτρον grec, et, également, de
l'emblème même du caducée, dont nous avons montré que la signification
originelle s'était perdue. Elle paraît finalement être assez floue pour
que le caducée soit mis aux mains, à Rome, de divinités très diverses62 :
Mercure, Anubis identifié à Hermès, Maïa, mère d'Hermès, Dea Syria,
sans doute à cause de la commune origine orientale de l'emblème et de
la déesse, Sucellus, ce qui est plus difficilement explicable
(identification avec Osiris?) et, enfin Félicitas, Pax et Victoria : chez ces déesses,
nous pensons que le caducée est emblème de paix et de prospérité63.
Malgré la fragilité de l'hypothèse qui consiste à faire de κηρύκεια une
traduction de hastae, - mais cette hypothèse est peut-être confirmée
par la tradition selon laquelle les Pénates étaient hastati64 -, nous
pensons tout de même que le rôle d'itinérants, de messagers, convenait
particulièrement à ces dieux, malgré un apparent paradoxe, puisque
nous avons vu que les Pénates symbolisent aussi le foyer et la patrie;
nous pensons pouvoir expliquer ce paradoxe par leur histoire65.
Quant à la mention selon laquelle les caducées sont «en fer et en
bronze», elle peut être mise en relation avec les deux périodes de la

62 R. Cagnat-V. Chapot, op. cit., p. 468.


63 Cf. B. Combet-Farnoux, op. cit., p. 345 sq. Un dernier avatar du caducée est d'être
devenu l'emblème des professions de santé. Plusieurs explications, semble-t-il, permettent
d'en rendre compte (J. Schouten, De slangestaf van Asklepios als symbool van de Genees-
kunde, Utrecht, 1963, p. 112-123). D'une part, le bâton sur lequel s'appuie généralement
Esculape, et autour duquel s'enroule un serpent, a pu être confondu, du point de vue
iconographique, avec le caducée; ensuite, la mythologie fait d'Esculape, comme
d'Hermès, le fils d'Apollon, tandis que par ailleurs Servius nous apprend (Ad Aen. IV, 242) que
c'est Apollon qui donna le caducée à Mercure; enfin, au Moyen Age, l'aspect magique de
la médecine semble avoir fait prendre comme emblème à ceux qui l'exerçaient la
baguet e d'Hermès-Mercure, qui avait parfois des pouvoirs magiques. Il semble que ce soit au
XVIe siècle que le caducée ait été adopté officiellement comme emblème des médecins et
pharmaciens.
64 Servius-Daniel, Ad Aen. II, 325 : alii (Penates) hastatos esse. . . tradunt.
65 Cf. ci-dessous, p. 292-317.
274 LES PÉNATES PUBLICS

préhistoire du Latium précisément désignées par le nom de ces deux


métaux66. En effet, les découvertes récentes ont montré que le site de
Lavinium, comme celui de Rome, a été occupé, pendant l'Age du
Bronze, par des éléments appartenant à la civilisation apenninique67. Or,
cette période est marquée, dans le Latium et en Italie, par la présence
de productions mycéniennes68. R. Peroni, à la suite d'H. Müller-Karpe,
remarque la présence, dans le mobilier funéraire de cette époque,
d'éléments à valeur nettement symbolique, qui auraient été introduits grâce
à des supports non pas matériels, mais conceptuels, les contacts ayant
été probablement établis par des sortes de prêtres itinérants69.
Pouvons-nous penser que les caducées auraient été leurs emblèmes,
façonnés dans le métal qui représente la grande nouveauté de cette période?
Le travail du fer est lui aussi représenté dans l'archéologie lavinate70;
l'un des plus importants monuments de la cité, l'«Hérôon d'Enée»71, a
livré un important matériel datant de l'époque orientalisante72, et
notamment, parmi les pièces métalliques, une grande épée et un couteau
de fer. Aussi peut-on être tenté de rapprocher de la culture attestée par
ces documents la mention de «caducées de fer» à Lavinium. Si nos
hypothèses étaient justes, elles attesteraient l'ancienneté de ces objets,
que la tradition a, par la suite, identifié avec les Pénates.
La signification de ces caducées, emblèmes de prêtres ou de dieux
itinérants, s'éclaire peut-être par la suite de la phrase de Denys : και
κέραμον Τρωίκον. Le mot κέραμος s'applique à tout objet fabriqué en
terre cuite, et il paraît désigner ici un, ou des vases, ou de la vaisselle à
destination cultuelle, ce qui serait assez banal si cette poterie n'était pas

66 Cette suggestion, dont nous le remercions vivement, nous a été faite par M. A.
Hus.
67 P. Sommella, Lavinium. Rinvenimenti preistorici e protoistorici, AC, 21, 1969,
p. 18-33; M. A. Fugazzola Delpino - R. Peroni, Le fasi cultuali della protoistoria laziale, in
Lazio primitivo, Catalogue de l'Exposition, Rome, 1976, p. 17-25; G. Dury-Moyaers, Enee
et Lavinium. A propos des découvertes archéologiques récentes, Coll. Latomus, vol. 174,
Bruxelles, 1981, p. 99 sq. (avec bibliographie).
68 R. Peroni, Contatti tra il Lazio e il mondo miceneo, in Enea nel Lazio, Catalogue de
l'Exposition Rome, 1981, p. 87-89.
69 Op. cit., p. 87.
70 M. Pallottino (Storia della prima Italia, Milan, 1984, p. 59) note que la légende
d'Enée, comme tous les nostoi des héros de la Guerre de Troie, fait partie des apports
mycéniens en Italie à cette époque.
71 Voir infra p. 320 sq.
72 P. Sommella, Heroon di Enea a Lavinium, RPAA, 44, 1971-72, p. 47-74.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 275

qualifiée de Τρωικόν. Car il nous paraît que cet adjectif est une allusion
aux origines troyenne, sinon de Rome, au moins de Lavinium, et qu'il
est appliqué, par les Lavinates, à des objets sacrés (ιερά) apportés par
Enée, selon la légende, jusqu'au Latium. A tout le moins, il implique la
tradition d'une venue des Troyens à Lavinium73, peut-être d'une
fondation de Lavinium par des Troyens. Peut-être aussi faut-il interpréter ce
κέραμος comme le vase, ou la ciste, qui était supposé renfermer les
sacra de Troie, et que l'on voit aux mains d'Anchise sur certaines
représentations, le scarabée étrusque de la Collection de Luynes notamment,
et aussi la Tabula Iliaca du Capitole, mais, également, sur l'amphore de
Vulci74 où un personnage identifié comme Creuse tient sur la tête un
vase allongé. M. Crawford75 propose de voir dans ce récipient la ciste
dans laquelle furent transférés les sacra troyens, met cette
représentation en rapport avec le texte de Timée, et établit, de plus, un
parallélisme avec des faits romains, puisque, selon Tite-Live76, les sacra du
Penus Vestae furent cachés dans des doliola lors du siège de Rome par
les Gaulois en 390.
A la lumière de l'adjectif Τρωικός, les caducées de nos dieux nous
paraissent mieux s'expliquer, comme emblèmes de divinités errantes,
elles aussi d'origine troyenne. Il est tout à fait remarquable, d'ailleurs,
que ce soit dans la seule Lavinium, où les Pénates sont, à strictement
parler, des étrangers, qu'existe cette tradition concernant la présence
de caducées. Au demeurant, la signification originelle des caducées de
Lavinium a pu, elle aussi, se perdre, ou prêter à d'autres
interprétations, conformes à la nature ou aux attributions des Pénates, dont nous
suggérons l'une comme possible. Le caducée est l'emblème de Mercure,
comme messager des dieux, mais aussi, comme patron negotiorum
omnium77, dieu des marchands78; étant donné l'importance du commerce
du blé à Rome, il a été considéré également comme le dieu de
l'approvisionnement en blé79. Les Pénates étant «ceux de la réserve aux
provisions», on peut avancer l'hypothèse selon laquelle les caducées de Lavi-

73 Cette tradition est confirmée, avant Timée même, par des témoignages littéraires
et iconographiques. Cf. ci-dessus, p. 162 sq.
74 Voir ci-dessus, p. 201 sq.
75 A Roman Representation of the κέραμος Τρωικός, JRS, 61, 1971, ρ. 153-154.
76 V, 40, 8 ; voir ci-dessous, p. 470-80.
77 Festus, 111 L.
78 G. Dumézil, La Religion romaine archaïque, 2e éd., Paris, 1974, p. 439-440.
79 Cf. Heichelheim, op. cit., col. 975-982.
276 LES PÉNATES PUBLICS

nium ont été compris à la lumière de la commune relation, de Mercure


d'une part, des Pénates de l'autre, avec l'approvisionnement : l'un
assure son bon acheminement, les autres veillent sur lui une fois qu'il a été
déposé dans le penus. Toutefois, même si des interprétations autres ont
pu s'y superposer, la signification des caducées de Lavinium comme
bâtons de messagers, ou de voyageurs, reste, à nos yeux,
fondamentale.
Cette définition des Pénates comme «des caducées et de la poterie
troyenne» a donné lieu à d'abondants commentaires et suscité des
polémiques, notamment celle qui s'est élevée autour du prétendu caractère
non anthropomorphique des Pénates de Lavinium. Ces «symboles non
figuratifs» («anikonische Symbole») ont frappé G. Wissowa80, qui a cru
pouvoir les éclairer par deux textes de Varron. Le premier nous est
transmis par le scholiaste de Vérone : Varrò secundo historiarum re-
fert. . . capta Troia. . . deos pénates ligneis sigillis uel lapideis, terrenis
quoque Aenean umeris extulisse81. Les dieux que transporte Enée sont
«des figurines de bois, de pierre, ou de terre cuite» apportées de Troie;
elles étaient probablement enfermées82 dans la ciste que l'on met
généralement dans les mains d'Anchise, mais parfois dans celles d'Enée83.
D'autre part, Servius-Daniel évoque en ces termes le départ d'Enée avec
ses dieux : Varrò sane rerum humanarum secundo ait Aeneam deos
pénates in Italiani reduxisse, quaedam lignea uel lapidea sigilla**: les
termes qualifiant les sigilla sont les mêmes, sauf terrenis, qui manque.
G. Wissowa a cru pouvoir identifier les sigilla mentionnés ici par
Varron et les κηρύκεια de Timée, comme «symboles aniconiques» des
Pénates. Cette théorie selon laquelle la religion romaine aurait d'abord
connu des représentations non figurées des dieux, sur laquelle s'appuie
le savant allemand, repose sur une citation de Varron faite par
Augustin, dont nous avons déjà souligné l'importance à propos du culte pri-

80 Die Όeberlief erung über die römischen Penateti, Gesammelte Abhandlungen zur
römischen Religions und Stadt Geschichte, Munich, 1904 p. 110 sq.
81 Ad Aen. II, 717: «Varron, dans le second livre des Histoires, raconte qu'après la
prise de Troie, Enée emporta sur ses épaules ses dieux Pénates, représentés sous forme
de statuettes de bois, de pierre, et aussi de terre».
82 Cf. F. Borner, Rom und Troia, Baden-Baden, 1951, p. 60 sq.
83 Comme dans l'une des représentations de la Tabula Iliaca du Musée du Capitole;
voir supra, p. 163 sq.
84 Ad Aen. III, 148: «Varron, dans le second livre des Res Humanae, dit qu'Enée
ramena en Italie ses dieux Pénates, des statuettes de bois ou de pierre».
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 277

vé : Dicit etiam (= Varron) antiquos Romanos plus annos centum et sep-


tuaginta deos sine simulacro coluisse; quod si adhuc, inquit, mansisset
castius dii obseruarentur85. Varron affirme donc que la religion
romaine archaïque n'a pas connu de représentations figurées des dieux avant
le règne de Tarquin l'Ancien; cette forme de religion, ajoute Varron,
aurait été plus pure (castius) que celle qui adore des images des dieux.
G. Wissowa souligne d'ailleurs que, par cette conception non figurative
des Pénates, Varron s'opposait à toute une tradition, illustrée
notamment par Denys d'Halicarnasse86, qui voyait en eux les deux jeunes
gens représentés dans le temple de la Vèlia selon un type
iconographique très proche de celui des Dioscures. Le témoignage de Varron
s'inscrirait au contraire dans la ligne de celui de Timée, rapporté par
Denys.
F. Borner87 a soulevé contre l'hypothèse de G. Wissowa une
importante objection à laquelle il nous paraît difficile de ne pas souscrire.
Elle s'appuie sur le sens du mot sigilla dans les deux textes de Varron
ayant trait à la fuite d'Enée. Citant d'autres exemples de l'emploi du
mot qui ne sont pas sujets à caution, F. Borner montre qu'un sigillum
est une petite statuette de bois, de pierre, ou de métal, mais toujours
une figuration du dieu; on trouvait des sigilla, en particulier, dans les
sacraria des maisons privées; les citations de Cicéron rassemblées par
F. Borner88 montrent que sigillum et simulacrum sont parfois employés
côte à côte pour désigner des représentations figurées des dieux, de
taille différente peut-être : statuettes et statues. L'étymologie proposée
par A. Ernout et A. Meillet89 confirme du reste l'objection de F. Borner
contre l'interprétation de G. Wissowa : sigillum est un diminutif de
signum, et signifie «petite statue»; il ne désigne pas un objet d'une
nature différente de signum ou de simulacrum. Le sens du mot rend
donc impossible l'hypothèse de G. Wissowa, qui avait pourtant le
mérite, souligné par P. Boyancé90, d'éviter une apparente contradiction à
Varron. Les sigilla dont parle Varron sont donc bien des statuettes

85 De Ciu. Dei IV, 31 : «Varron dit aussi que les anciens Romains honorèrent les
dieux sans images pendant plus de cent soixante-dix ans; si cette coutume, ajoute-t-il,
s'était maintenue, les dieux seraient vénérés avec plus de pureté».
86 I, 68, 1.
87 Op. cit., p. 61-65 et 99-110.
88 Op. cit., p. 102.
89 Dictionnaire étymologique de la langue latine, s.u. signum.
90 Les Pénates et l'ancienne religion romaine, REA, 54, 1952, p. 109-115.
278 LES PÉNATES PUBLICS

anthropomorphiques, comme l'a montré F. Borner, et il n'est pas


possible, nous semble-t-il, de voir dans les textes attribués à l'érudit latin une
confirmation du caractère non anthropomorphique des représentations
des Pénates de Lavinium, qu'attesterait Timée.
Du reste, le texte attribué à Timée n'est pas en contradiction avec
le seul Varron; il va à l'encontre de deux autres témoignages
concernant les Pénates de Lavinium. Le premier est celui de Lycophron, dans
le passage déjà mentionné91 : Enée installera dans le temple de
Minerve «les images des dieux de sa patrie». Le mot employé par le poète est
αγάλματα; or, si le sens premier de άγαλμα est «objet dont on se
pare»92, s'appliquant à des dieux, il ne paraît pas pouvoir signifier
autre chose que «statue», ce qui implique une représentation
anthropomorphique. L'autre est un texte de Denys lui-même, évoquant un
prodige relatif aux Pénates qui se produisit lors de la fondation d'Albe :
quand on voulut transférer dans la cité nouvelle les Pénates qu'Enée
avait apportés de Troie et installés à Lavinium, les dieux revinrent,
pendant la nuit, dans leur temple lavinate, et ce prodige s'accomplit à deux
reprises93; Denys désigne les représentations des dieux par les mots τα
εδη, τα βρέτη, qui signifient, eux aussi, «statues»94. Le témoignage de
Timée apparaît donc totalement isolé dans la tradition littéraire.
Dans ces conditions, l'interprétation de ce témoignage est fort
délicate, car, si du moins Denys le transcrit fidèlement, l'historien sicilien
dit que les ιερά conservés dans le temple de Lavinium « sont » (είναι) des
caducées de fer et de bronze et de la poterie troyenne; le sens à donner
à ιερά semble explicité par le début de la phrase de Denys : σχήματος δέ
και μορφής αυτών (= des Pénates de Lavinium) πέρι. Il serait pour nous
d'une importance capitale de savoir si ces derniers mots figuraient
chez Timée, ou s'il faut les attribuer au seul Denys95.
Malheureusement, la phrase de Denys, telle qu'elle se présente, ne permet pas de
trancher cette question. Pour résoudre la contradiction entre le
témoignage de Timée et ceux de Lycophron, Varron, et Denys lui-même,

91 Alex., 1261-62.
92 P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, I, Paris, 1968, s.u.
άγάλλομαι.
93 I, 67, 1-2.
94 P. Chantraine, op. cit., I, s.u. βρέτας; II, Paris, 1970, s.u. εζομαι.
95 F. Jacoby (F. Gr. Hist. Ill, Β, ρ. 566, Fr. 59) ne retient pas ces mots comme étant
de Timée, à qui il n'attribue que la description des ιερά.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 279

G. D'Anna96 propose de prendre en compte l'ensemble des chapitres


67-69 des Antiquités Romaines I de Denys. Cela l'amène à voir chez ce
dernier une attitude critique, réprobatrice même, vis-à-vis de Timée,
notamment lorsque Denys souligne97 qu'il est déplacé de s'enquérir de
choses qui doivent demeurer cachées aux profanes; en menant
semblable enquête auprès des Lavinates, Timée, dans l'interprétation du texte
de Denys que propose G. D'Anna, n'a pas, en fait, obtenu de réponse à
la question qu'il posait (sous quelle forme étaient représentés les
Pénates de Lavinium?), mais s'est vu décrire des objets sacrés conservés
dans le temple en même temps que les dieux. Et G. D'Anna conclut en
ces termes sur la signification de la notice de Timée : «Timée n'a jamais
écrit que les Pénates de Lavinium n'étaient pas représentés sous une
figure anthropomorphique, mais vénérés seulement sous forme
d'objets; l'historien sicilien, si je comprends bien, aurait dû se borner à
rapporter que, comme il n'avait pu voir de ses yeux, l'unique
renseignement que lui avaient donné les habitants du lieu était la description de
certains objets sacrés conservés dans le penetrale du temple; mais,
étant donné qu'il avait annoncé son projet de recueillir des
informations sur les Pénates de Lavinium, le résultat peu satisfaisant de sa
visite à Lavinium lui est durement reproché par Denys dans les termes que
nous avons vus».
Cette interprétation a le grand mérite de proposer une voie de
conciliation entre les contradictions des témoignages antiques, sans
utiliser le recours à un prétendu «culte aniconique» des Pénates,
incompatible avec certains de ces témoignages. Cependant, elle présente à nos
yeux deux inconvénients. Le premier - mais le caractère très subjectif
de cette appréciation ne nous échappe pas - est peut-être de surestimer
le désir de Denys de polémiquer avec Timée, de lui donner, en quelque
sorte, une leçon d'honnêteté historique98. Mais surtout, G. D'Anna ne
précise pas quel rapport les objets sacrés (qui ne sont pas les Pénates)

96 // ruolo di Lavinio e di Alba Longa nei primi scrittori latini, in Problemi di


letteratura latina arcaica, Rome, 1976, p. 68-73.
97 I, 67, 4.
98 Reconnaissons pourtant que si, dans ce même livre I des Antiquités Romaines,
Denys cite à deux reprises (I, 6, 1 ; I, 7, 1) le témoignage de Timée sans le critiquer, dans
une autre référence à l'historien sicilien (I, 74, 1), il constate que ce dernier établit un
synchronisme entre la fondation de Rome et celle de Carthage sans dire sur quel principe
il fonde une telle affirmation. La critique de Timée semble être de tradition chez les
historiens anciens : on la trouve notamment chez Polybe (XII, 13-15).
280 LES PÉNATES PUBLICS

décrits par Timée, ont avec ces dieux, ni même s'ils en ont un; c'est
précisément la nature de ce rapport que nous voudrions éclairer un
peu à présent.
J. Perret" a mis en doute l'existence de ce lien puisque, selon lui,
Timée «a reconnu. . . la poterie troyenne, il aura apparemment vu dans
ces vases des présents offerts par Enée aux indigènes; les caducées de
fer ou de bronze lui ont paru se rapporter aux inévitables ambassades
qu'un nouveau venu comme Enée devait adresser aux occupants de la
terre où il voulait se fixer»; et, ajoute J. Perret, ce n'est que beaucoup
plus tard, avec Varron, dont s'est inspiré Denys, que ces objets,
originellement sans rapport avec eux, auraient été identifiés comme les
Pénates de Lavinium. Pourtant, il ne nous parait guère douteux que ces
sacra ont entretenu avec les Pénates une relation qui justifie leur
commune présence dans le penetrale du sanctuaire de Lavinium. Nous
avons dit que nous croyions pouvoir considérer les caducées comme
l'emblème de personnages itinérants. D'autre part, Timée n'a pas vu
personnellement les objets, mais tient ses informations des Lavinates.
Ces derniers peuvent fort bien soit avoir fait une réponse
volontairement énigmatique à propos de sacra interdits aux profanes, soit avoir
indiqué à l'historien ce que les images des Pénates avaient de plus
singulier, ce qui leur paraissait le plus caractéristique dans ces statues. Si
l'on accepte l'une ou l'autre de ces interprétations, on admettra que les
caducées n'étaient pas les Pénates, mais seulement leurs attributs.
Quant à la relation existant entre les Pénates et le κέραμος Τρωικός,
nous pensons qu'il faut exclure, comme pour les caducées, l'idée d'une
identification entre l'objet et les dieux100. Au demeurant, considérer le
κέραμος comme un objet rattaché au culte des Pénates, ainsi que
l'interprétation de G. d'Anna y invite, est une hypothèse plausible : à
Lavinium, le culte de nos dieux semble étroitement lié à celui de Vesta,
comme le suggère l'attestation, chez Macrobe et Servius-Daniel, d'un
sacrifice commun; or, dans le culte de Vesta, les vases utilisés pour le
transport de l'eau sont l'objet de prescriptions rituelles extrêmement
strictes et doivent être, précisément, en terre cuite101. L'autre
interprétation, suggérée par M. Crawford, est qu'il s'agit de la ciste sacrée où

99 Les origines. . . p. 341.


100 Cf. ci-dessus, p. 276.
101 C. Koch, in RE VIII A, 2, s.u. Vesta, col. 1753-55.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 28 1

furent apportés les sacra troyens102. De ces deux interprétations, la


seconde nous semble préférable, à cause de l'adjectif Τρωικός,
référence explicite à l'origine troyenne, non seulement du vase, mais, croyons-
nous, de l'ensemble de ces objets. Certes, les cistes sont généralement
en métal (bronze le plus souvent) et ont une forme assez différente des
vases103; l'objet que l'on voit sur le scarabée de la Collection de Luynes,
et les deux - peut-être trois - figurations de la Tabula Iliaca
ressemblent fort aux cistes qui nous sont connues par ailleurs. Mais l'amphore
de Vulci, datée du Ve siècle, peut offrir un modèle iconographique du
récipient ayant contenu les sacra plus répandu que ne pourrait le
donner à penser le caractère d'hapax de cette représentation. Deux siècles
séparent cette représentation du voyage de Timée à Lavinium : le
modèle aurait donc pu se diffuser plus largement que nous ne
l'imaginons. D'autre part, il n'existe pas de tradition selon laquelle le culte de
Vesta serait venu de Troie avec celui des Pénates; dans ces conditions,
il serait peu explicable qu'on qualifiât de Τρωικός un vase destiné au
culte de la déesse.
F. Castagnoli104 a proposé avec prudence de reconnaître les
κηρύκεια sur l'une des monnaies d'Antonin, étudiées plus haut105,
représentant le débarquement d'Enée : au fond du tableau, on voit différents
monuments, dont un temple rond et sans doute un puteal; à la gauche
du temple, on aperçoit des éléments difficiles à identifier : peut-être
d'autres monuments, peut-être (il semble que l'on puisse reconnaître
deux bâtonnets ou deux colonnes) les caducées. Cette hypothèse nous
inspire quelques réserves, d'une part à cause de la petitesse de ces
objets et de l'extrême difficulté qu'il y a à voir leur configuration
exacte, d'autre part, en raison du caractère secret des Pénates de Lavinium,
souligné par Timée qui n'a pas pu les voir lui-même, et par Denys : ne
serait-il pas alors peu plausible que, voulant donner un lustre nouveau
à la légende lavinate, et présenter Antonin comme un nouvel Enée106,

102 A Roman Representation of the κέραμος Τρωικός, ρ. 154.


103 Elles ont une forme cylindrique, et sont le plus souvent en bronze, quelquefois en
bois, en ivoire, ou en os (Mau, in R.E. III, 2, s.u. cista, col 2591-93); cf. ci-dessus p. 164.
104 Lavinium I, Rome, 1972, p. 113 n. 11; p. 114.
105 F. Gnecchi, / medaglioni romani II, p. 20 n. 99 (pi. 54, 9) ; F. Castagnoli, Lavinium
I, p. 78 fig. 81. Voir ci-dessus p. 225-6.
106 Sur le «traditionalisme archaïsant» de l'époque d'Antonin, et la remise à
l'honneur de la légende troyenne, voir J. Beaujeu, La religion romaine à l'apogée de l'Empire. I :
La politique religieuse des Antonins, Paris, 1955, p. 291-293.
282 LES PÉNATES PUBLICS

l'artiste n'ait pas respecté le mystère entourant ces représentations? De


plus, cette identification semble supposer que l'on voie dans les
caducées, comme le fait F. Castagnoli, des «symboles aniconiques» des
Pénates; or, une telle interprétation ne nous a pas paru convaincante.
En revanche, nous croyons reconnaître sur le devant du petit
temple au-dessous duquel se déroule le sacrifice d'Enée, sur YAra Pacis,
une représentation de nos dieux. Nous avons déjà exposé107 les raisons
qui nous font penser, à la suite de G. Moretti, que la scène se déroule à
Lavinium, mais que, d'autre part, elle n'est pas réaliste dans tous ses
détails. Nous avons montré que la position de l'édifice, sur une
hauteur, attestée par d'autres témoignages iconographiques et littéraires,
nous semblait peut-être une indication réaliste; d'autre part, nous
avons suggéré que l'édifice en question n'était pas le temple des
Pénates à Lavinium, ni leur temple de Rome, mais plus vraisemblablement
une sorte de petite chapelle portative. Si l'on estime que les caducées
évoqués par Timée étaient les attributs de nos dieux, non leur
représentation elle-même, on peut considérer que les deux personnages assis sur
le devant du petit édifice sont les Pénates108, tels qu'ils étaient figurés
dans leur temple de Lavinium. Ils tiennent tous deux, dans la main
gauche, un long bâton, que l'on a généralement interprété comme une
lance à la lumière d'un texte de Denys qui décrit les statues des Pénates
dans leur temple de la Vèlia, dont le relief serait une «preuve
archéologique»109. Nous pensons, pour notre part, que c'est un caducée, non une
lance, que tiennent les deux divinités. Il y a à cela plusieurs raisons.
Nous avons vu que, sur les vases attiques, le caducée d'Hermès est
parfois un simple bâton, sans ornement particulier en son extrémité
supérieure : c'est le cas sur notre relief. Ensuite, il n'existe aucun
témoignage selon lequel les Pénates avaient une lance pour attribut, si ce n'est
précisément le même texte de Denys, qui nous paraît pouvoir
s'interpréter autrement110; au reste, un attribut guerrier conviendrait
particulièrement peu à ces dieux, d'un caractère essentiellement pacifique,

107 Cf. supra p. 212 sq. et p. 224 sq.


108 Nous nous sommes expliqué plus haut (cf. p. 117 sq.) sur la signification à donner
au chiffre deux.
109 R. Schilling, Penatibus et Magnis Dis, Mise. E. Manni VI, Rome 1980, p. 1972. Nous
reviendrons sur cette interprétation lorsque nous étudierons le culte des Pénates sur la
Vèlia (cf. ci-dessous p. 399 sq.) et notamment la description des statues des dieux donnée
par Denys (I, 68, 1-2).
110 Cf. ci-dessous, p. 400-2.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 283

comme semble le confirmer, sur le relief, le fait qu'ils sont assis, dans
une attitude calme et majestueuse. Certes, on peut dire que le caractère
d'itinérants n'est pas davantage conforme à leur nature, mais nous
avons déjà répondu à cette objection : les Pénates de Lavinium sont
troyens. Sur ce relief, les deux dieux sont vêtus d'un costume drapé
autour des jambes et sur les épaules, qui laisse à découvert une grande
partie du buste; la draperie est particulièrement bien modelée sur la
statuette de droite. Le vêtement doit être interprété, nous semble-t-il, en
fonction de l'ensemble de la scène, en particulier de ceux des autres
personnages : en contraste avec les vêtements des deux camilli et de la
silhouette très mutilée de droite, le costume des Pénates rappelle
beaucoup celui d'Enée; l'effet de draperie autour de la taille et sur l'épaule
est le même. Peut-être faut-il y voir une intention, chez le sculpteur, de
marquer un décalage géographique et chronologique entre les deux
groupes de personnages; en habillant Enée et les Pénates de costumes
grecs111, il aurait voulu les reléguer dans un passé lointain, mythique
même, par rapport à son propre temps, dans lequel se situent en
revanche les détails réalistes comme la présence des camilli et les objets
cultuels qu'ils ont dans les mains; cela peut être une façon de marquer
l'origine étrangère, lointaine, des Pénates, et il paraît en tout cas
vraisemblable que l'artiste ait voulu rappeler, par la ressemblance des
costumes, une certaine parenté entre Enée et les dieux qui assistent à cette
scène, parenté qui inviterait à penser qu'il s'agit des Pénates de
Lavinium.
Un autre détail du relief nous paraît révéler l'origine étrangère des
deux dieux assis, origine conforme à ce que la tradition nous apprend
des Pénates de Lavinium : ils sont représentés la tête nue, ce qui paraît
confirmé par une indication de Servius; commentant le passage de
l'Enéide où les Pénates apparaissent en songe à Enée avec des uelatas
comas, Servius précise qu'il ne peut s'agir là que de bandelettes,
puisque les Pénates de Lavinium étaient nu-tête : nam dii qui erant apud
Laurolavinium non habebant uelatum caput112. Or, il semble que les
dieux «indigènes», c'est-à-dire dont le culte était considéré comme
antérieur à l'arrivée d'Enée en Italie, avait la tête voilée : c'est le cas
notamment d'Hercule à l'Ara Maxima. La tenue du sacrifiant est à l'image de

111 Cî.ibid.
112 Ad. Aen., III, 174; cependant, J. Perret (Enéide, 1. 1, C.U.F., Paris, 1977, p. 81)
traduit cette expression par «leur chevelure voilée».
284 LES PÉNATES PUBLICS

celle du dieu : selon Macrobe113, Varron considérait que sacrifier la tête


nue était un ritus Graecus, tandis que la tradition rapporte par ailleurs
qu'Enée a été Γ« inventeur» de l'usage spécifiquement italique de
sacrifier operto capite, usage que Festus114 explique par le fait que, lorsque
le Troyen débarqua au Latium et fit un premier sacrifice à sa mère
Vénus, il se couvrit la tête pour n'être pas reconnu par Ulysse : c'est
d'ailleurs avec ce voile, dont le port est devenu à Rome un usage
sacerdotal, qu'il est représenté sur le relief de l'Ara Pacis115.
Enfin, dans l'étude iconographique du thème de la fuite d'Enée116,
nous avons constaté à plusieurs reprises la présence d'Hermès aux
côtés des fugitifs. Sur la scène centrale de la Tabula Iliaca, le dieu
guide les fugitifs au moment où il franchissent la Porte Scée : on l'identifie
grâce à son pétase, et il semble tenir un bâton dans la main droite;
dans la représentation de la Casa Omerica, V. Spinazzola croit
reconnaître, très altérée, la figure d'Hermès-Mercure. Pour notre part, nous
pensons pouvoir proposer d'identifier comme Hermès la figure de
droite, très mutilée elle aussi, du relief de Y Ara Pacis : ce personnage tient
en tout cas un long bâton, emblème qui nous paraît rapprocher les
«Pénates troyens» d'Hermès, comme dieux itinérants.
N'y a-t-il pas pourtant, objectera-t-on, la même difficulté, à
identifier comme les Pénates de Lavinium, les statuettes du relief de YAra
Pacis que nous évoquions à propos de l'hypothétique représentation des
caducées sur la monnaie d'Antonin? Les Pénates de Lavinium devaient
demeurer cachés : le sculpteur a-t-il enfreint cette interdiction? Il nous
paraît possible d'avancer quelques arguments en faveur d'une réponse
positive. Le caractère exceptionnel de la scène représentée est l'un
d'eux, encore qu'on puisse le faire valoir également à propos de la
monnaie d'Antonin qui représente le débarquement d'Enée dans sa
partie inférieure. Toutefois, la scène de YAra Pacis a sans doute un aspect
sacré plus marqué, puisqu'elle figure la prise de possession religieuse
par Enée de la terre latine, que les dieux lui avaient réservée. Du reste,
la solennité religieuse de ce moment est soulignée par divers éléments :

113 Servius-Daniel, Ad Aen. VIII, 288; Macrobe III, 6, 16; voir B. Liou-Gille, Les cultes
«héroïques» romains, Paris, 1980, p. 17-18.
114 432 L; voir En. III, 404-7.
115 Au contraire, l'obligation rituelle de sacrifier à Hercule, à l'Ara Maxima, operto
capite est présenté comme une singularité ; pour le culte de l'Ara Maxima, voir J. Bayet,
Les origines de l'Hercule romain, Paris, 1926, p. 141-154.
116 Voir ci-dessus, p. 196-217.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 285

la présence d'une guirlande de feuillages qui entoure en partie les


statuettes, et rappelle celle qui décore le bas de l'autel; la présentation des
dieux sur le devant du temple qui, quelle que soit l'identification de ce
dernier (petit temple portatif à Lavinium, ou temple de la Vèlia) ne
peut s'expliquer qu'en un jour de cérémonie117. Enfin, si l'on songe que
le sacrifice d'Enée se situe avant la fondation de la cité, et si d'autre
part on accepte notre hypothèse, suivant laquelle l'édifice est un temple
portatif, on pourra concevoir que les Pénates apportés par Enée n'aient
été enfermés dans Yadyton de leur sanctuaire définitif
qu'ultérieurement.
Nous proposons donc de reconnaître dans les statuettes de l'Ara
Pacts l'image des Pénates de Lavinium, hypothèse qui, nous le
verrons118, n'est pas totalement exclusive de celle qui les identifie comme
les dieux de la Vèlia. Il y aurait alors concordance entre le témoignage
de Timée et la documentation figurée pour leur prêter comme attribut
le caducée, emblème que nous interprétons comme celui des dieux
itinérants que les Pénates furent pendant une partie au moins de leur
histoire.

2) La dédicace à Castor et Pollux

Découverte en 1958 près de l'autel VIII119, cette inscription est


gravée sur une lame de bronze, cassée en deux, dont les dimensions, très
proches de celles de la lex sacra concernant le culte de Cérès, montrent

117 Cette pratique paraît tout à fait singulière : les statues des dieux ne sont offertes
aux regards des profanes qu'en deux types de circonstances : elles sont sorties des cellae
des temples lors des lectisternes, et, lors des supplicationes selon le Graecus ritus, les
temples sont ouverts de façon permanente (G. Dumézil, La religion romaine archaïque, p. 358-
359).
118 Cf. infra, p. 424-6.
119 Nous empruntons à F. Castagnoli {Iscrizioni, in Lavinium H, p. 442-443) la liste
des abondants commentaires suscités par cette inscription : F. Castagnoli Dedica arcaica
lavinate a Castore e Polluce, SMSR, 30, 1959, p. 109 sq.; S. Weinstock, Two archaic
inscriptions from Latium, JRS, 50, 1960, p. 112 sq.; R. Schilling, Les Castores romains à la lumière
des traditions indo-européennes, in Hommages. . . Dumézil (Coll. Latomus, 45), Bruxelles,
1960, p. 177 sq.; R. Bloch, L'origine du culte des Dioscures à Rome, RPh, 34, 1960, p. 182
sq.; id., Tite-Live et les premiers siècles de Rome, Paris, 1965, p. 88 sq.; id., in Acts of the
Fifth International Congress of Greek and Latin Epigraphy, Oxford, 1967, p. 180; G.
Pugliese Carratelli, PP, 17, 1962, p. 17 sq.; Α. Alföldi, Early Rome, p. 269 sq.; A. Degrassi, ILLRP
(lère ed. Berlin 1963) 1271a; id., Imagines (1965) 30; G. Radke, Zu der archaischen Inschrift
286 LES PÉNATES PUBLICS

la remarquable continuité existant dans les traditions religieuses de


Lavinium 12° puisque, tandis que la lex sacra est datée de IIIe siècle avant
J.-C, la dédicace aux Dioscures a dû être gravée soit, selon J. Heur-
gon121, au milieu du VIe siècle, soit, comme le pense F. Castagnoli122,
pendant la seconde moitié de ce même siècle. Résumons rapidement les
résultats des études menées sur le texte de l'inscription Castorei Podlou-
queique qurois, écrite en alphabet latin archaïque. La forme Podlouquei
est particulièrement intéressante, en ce qu'elle représente un
intermédiaire entre la forme grecque Πολυδεύκης et l'adaptation de cette
forme en latin, Pollux, intermédiaire qui exclut une médiation par une
forme étrusque Pultuke. On aurait donc ici un argument en faveur de la
thèse123 selon laquelle on a surestimé le rôle des Etrusques comme
intermédiaires entre la Grèce et le Latium : l'influence grecque a pu
s'exercer directement, ou encore par l'intermédiaire de la
Grande-Grèce; c'est le cas pour le culte des Dioscures, que l'on pense originaire
soit de Tarente124, soit, plutôt, de Locres125. D'autre part, l'appellation
de qurois donnée aux deux dieux, s'oppose au grec Διός κούροι, dans la
mesure où elle néglige la généalogie divine, qui n'a jamais beaucoup
intéressé les Latins126, et, plutôt qu'une forme amputée, doit être consi-

von Madonnetta, Gioita, 42, 1964 p. 214 sq.; id., Die Götter Altitaliens, Münster, 1965,
p. 84; R. M. Ogilvie, A Commentary on Livy-Books 1-5, Oxford, 1965, p. 289; M. Guarducci,
in Mélanges. . . Piganiol, Paris, 1966, p. 1618; G. Dumézil, La Religion romaine archaïque,
p. 415-6; M. Lejeune, BSL, 62, 1967, p. 76 n. 2; J. Heurgon, Atti dell'VIII Convegno di Studi
sulla Magna Grecia, Naples, 1969, p. 19 sq.; C. De Simone, Die griechischen Entlehnungen
im Etruskischen, II, Wiesbaden, 1970, p. 91 n. 50; R. Lazzeroni, SSL, 11, 1971, p. 9 sq.;
R. Arena, RIL, 106, 1972, p. 445; R. Schilling, A.N.R.W., I, Berlin-New-York, 1972, p. 320.
On pourrait ajouter: N. Masquelier, Pénates et Dioscures, Latomus, 25, 1966, p. 88-98;
G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 198-205; F. Castagnoli, in Enea nel Lazio, Catalogue de
l'Exposition de Rome, Rome, 1981, p. 179-180; G. Radke, Archaisches Latin, Darmstadt, 1981,
p. 97 ; M. Torelli, Lavinio e Roma. Riti iniziatici e matrimonio tra archeologia e storia,
Rome, 1984, p. 163 sq.
120 F. Castagnoli, Lavinium II, p. 441.
121 Op. cit., p. 20.
122 Op. cit., p. 442; Enea nel Lazio, p. 179.
123 Cf. l'ensemble des travaux du congrès Lazio arcaico e mondo greco, PP, 32, 1977.
124 S. Weinstock, Two archaic inscriptions from Latium p. 114; F. Castagnoli,
Lavinium I, p. 109.
125 R. Bloch, L'origine du culte des Dioscures à Rome, p. 186 sq.; J. Heurgon {op. cit.,
p. 22) pense aussi à une origine locrienne, avec Rhegium comme intermédiaire.
126 F. Castagnoli, Dedica arcaica lavinate a Castore e Polluce, p. 111 ; cf. J. Champeaux,
Fortuna. Le culte de la Fortune à Rome et dans le monde romain, Coll. de l'Ecole Française
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 287

dérée comme signifiant «les jeunes gens», ou «les cavaliers»127. Enfin,


la présence des Dioscures dans le Latium, à Lavinium, dès le VIe siècle,
explique qu'on ait pu, au début du siècle suivant, leur construire un
temple à Rome sur le Forum, c'est-à-dire à l'intérieur de l'enceinte du
pomerium : ils n'étaient pas considérés comme des divinités
res 128
La découverte de cette inscription, dont on mesure l'importance,
située près d'un sanctuaire devant lequel étaient alignés un nombre
impressionnant d'autels, et dont par ailleurs la divinité dédicataire est
inconnue, a donné matière, comme ce fut le cas lors de la découverte
de la lex sacra en l'honneur de Cérès129, à une interprétation qui voit
dans les Dioscures les dédicataires du temple, et, de plus, les identifie
aux Pénates. Nous avons exposé dans le précédent chapitre130 les
raisons qui nous faisaient refuser l'identification du sanctuaire comme
celui des Pénates. Nous voudrions examiner à présent la question de
l'identification des Pénates et des Dioscures à Lavinium131.
Cette identification n'est pas une hypothèse qui aurait été formulée
seulement lors de la découverte de l'inscription. Elle repose, en fait, sur
une longue tradition, remontant à l'Antiquité132, que le bronze inscrit
semble corroborer. En effet, elle s'appuie d'abord sur une tradition
iconographique : un certain nombre de monnaies représentent les Pénates
et les Dioscures comme deux têtes de jeunes gens accolées, ce qui
constitue une première ressemblance; de plus, on voit sur certaines des
monnaies, sous la figure des Dioscures, aisément identifiables, grâce à
l'étoile qui surmonte leur tête, les lettres P.P. qui signifient sans
doute133 Penates Publici, et que l'on retrouve sur d'autres monnaies à
l'effigie des Pénates, notamment sur des deniers émis à la fin du IIe siècle
avant J.-C. par M. Fonteius. La tradition littéraire atteste aussi cette

de Rome, 64, Rome, 1982, p. 118-119, pour le parallèle à établir avec la Fortuna
Primigenia de Préneste, mère et fille de Jupiter.
127 Enea nel Lazio, p. 179.
128 Enea nel Lazio, p. 180.
129 Cf. supra p. 234.
130 Cf. supra p. 249 sq.
131 Le problème sera repris de façon plus complète ci-dessous p. 430-9.
132 C. Peyre, Castor et Pollux et les Pénates pendant la période républicaine, MEFR, 74,
1962, p. 433.
133 Cette interprétation a été contestée : voir C. Peyre, op. cit., p. 447-449.
288 LES PÉNATES PUBLICS

confusion. Denys d'Halicarnasse134 décrit les Pénates dans leur


sanctuaire de la Vèlia à Rome comme deux jeunes gens assis tenant des
«lances»: leur nombre, leur jeunesse, l'«arme» qu'ils tiennent ont
probablement facilité leur assimilation avec les Dioscures, souvent
représentés armés, en particulier lorsque l'artiste se propose de rappeler
l'aide qu'ils apportèrent à la cavalerie romaine lors de la bataille du
Lac Régule, en 490. Un passage de Varron, cité par Servius, atteste
apparemment aussi cette confusion : Varrò quidem unum esse dicit
Penates et Magnos Deos135; à ce commentaire, Daniel a ajouté que, selon
Varron, mais aussi d'autres auteurs, les Grands Dieux étaient Castor et
Pollux, vénérés à Samothrace. Ainsi se trouve posée une double
équation, Pénates = Grands Dieux, Grands Dieux = Dioscures, qui permet
d'en poser une troisième : Pénates = Dioscures. Or, cette identification,
nous semble-t-il, n'a existé que très partiellement136.
F. Castagnoli, lors de la première publication de l'inscription de
Lavinium, était resté dans une prudente réserve sur les conclusions que
l'on pouvait en tirer137. Au contraire, S. Weinstock a cru pouvoir
affirmer l'identification des Pénates aux Dioscures138, grâce à l'inscription,
mais aussi par comparaison entre les faits lavinates et les faits romains.
Dans un précédent travail139, il avait souligné un parallélisme entre les
mystérieux objets enfermés dans le sanctuaire de Lavinium, «caducées
de fer et de bronze et poterie troyenne», aux dires de Timée, et certains
sacra romains : les caducées trouveraient un correspondant à Rome
dans les objets conservés par les Saliens à la Regia (c'est-à-dire les anci-
lia), supposés venir de Phrygie140; quant à la «poterie troyenne», elle
serait comparable aux doliola conservés dans le Penus Vestae du
sanctuaire du Forum. La découverte de l'inscription aux Dioscures permet
à S. Weinstock141 de compléter ce parallélisme entre Rome et
Lavinium : les deux jeunes gens assis dans le temple de la Vèlia, tels que

134 I, 68, 2. Voir ci-dessous, p. 419 sq.


135 AdAen. III, 12.
136 Voir ci-dessous, p. 437-9.
137 Dedica arcaica. . . p. 117.
138 Two archaic inscriptions from Latium, p. 112-114.
139 In R.E., XIX, 1, s.w. Penates col. 439.
140 Ad Aen. II, 325.
141 Two archaic inscriptions. . . ; R. Klausen {Aeneas und die Penaten, II, Hamburg
und Gotha 1840, p. 966 sq.) avait déjà établi ce parallèle; cf. aussi F. Castagnoli, Lavinium
I, p. 109 n. 10; G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 221, n. 210.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 289

nous les décrit Denys d'Halicarnasse, sont désignés à la fois comme


Pénates et Grands Dieux, et donc, selon S. Weinstock, identifiés aux
Dioscures; cette forme de culte des Pénates-Dioscures avait, assure-t-il,
un équivalent à Lavinium, attesté par l'inscription du sanctuaire des
Treize autels. Mais il y a plus; cette identification entre les Pénates et
les Dioscures permet, selon S. Weinstock, d'éclairer un point qui, même
à Rome, est toujours resté obscur : la relation existant entre ces deux
formes très dissemblables du culte des mêmes dieux; dans différents
centres de leur culte, à Sparte et à Tarente en particulier, on offrait
aux Dioscures deux jarres, deux amphores de terre cuite, représentées
sur des monnaies ou des monuments figurés142 : c'est le κέραμος
Τρωικός de Timée, auquel correspondent, à Rome, les doliola dans lesquels,
selon Tite-Live143, furent cachés les sacra du Penus Vestae pendant
l'invasion gauloise de 390. Il existe donc un lien entre les formes anthropo-
morphiques et les formes non-anthropomorphiques du culte des
Pénates-Dioscures, puisque les vases de terre cuite sont considérés comme le
symbole de ces dieux.
A. Alföldi a vu lui aussi dans l'inscription aux Dioscures de
Lavinium une confirmation archéologique de ce qui lui apparaît comme
une double forme du culte des Pénates144 à Lavinium comme à Rome,
où aux mystérieux sacra du Penus Vestae s'ajoutent les deux dieux du
temple de la Vèlia, les uns et les autres passant pour «troyens», et les
seconds, désignés par l'inscription Magnis Dis, étant identifiés aux
Dioscures. Toute tentative pour expliquer séparément chacun de ces deux
aspects du culte, ou pour les réduire l'un à l'autre est vouée à l'échec,
affirme A. Alföldi145; si au contraire on accepte cette double forme du
culte, on voit que les «Pénates secrets» du Penus Vestae appartiennent
au plus ancien noyau des divinités latines; le concept grec des
Dioscures y fut ajouté, formant ainsi une «interprétation modernisée des
Pénates», dont le culte n'avait plus dès lors de raisons d'être secret; le
temple de la Vèlia, avec ses deux jeunes gens assis armés de lances, a
pour correspondant à Lavinium la petite chapelle figurant sur le relief
de l'Ara Pacts, où sont représentés les mêmes personnages, dans la
même attitude; en plus de cett£ chapelle, conclut A. Alföldi, les Pénates-

142 S. Weinstock, ibid., pi. XIII fig. 2-4.


143 V, 40, 8.
144 Early Rome, p. 258-260.
145 Ibid., p. 268-271.
290 LES PÉNATES PUBLICS

Dioscures s'étaient vu consacrer à Lavinium le sanctuaire des Treize


autels, où a été trouvée l'inscription Castorei Podlouqueique qurois.
Ces arguments appellent toutefois quelques réserves. Tout
d'abord, il nous semble régner une certaine confusion dans les
relations ainsi établies entre les dieux et leur représentation «symbolique».
En effet, si l'on peut tirer du texte de Timée rapporté par Denys l'idée
que les caducées et la poterie troyenne «sont» les Pénates, celui de
Tite-Live est loin de permettre de poser une telle identification : selon
l'historien, les sacra ont été cachés dans les doliola pour être protégées
du sac gaulois, mais ils ne sont pas identifiés à ces mêmes doliola, qui
ne leur offrent qu'un abri passager : les vases ne sont pas les sacra, ils
n'en font sans doute même pas partie146. Aussi semble-t-il un peu
arbitraire de voir une analogie entre faits lavinates et faits romains sur ce
point; on peut du reste contester, de la même manière, que les
Dioscures aient jamais été représentés symboliquement sous forme
d'amphores à Sparte ou à Tarente, car la présence de ces objets sur des
monnaies ou des monuments dédiés aux Dioscures atteste peut-être
seulement le fait qu'on leur faisait, de préférence, offrande d'amphores,
non qu'ils s'identifiaient à ces amphores dans l'esprit du public. Cette
difficulté n'a pas échappé à M. Crawford147, qui propose de ne voir,
dans le κέραμος Τρωικός et dans les doliola de Rome, que les
récipients qui ont contenu, à un moment donné, les sacra troyens, lors
d'un transport, d'un transfert, par exemple; on résoudrait ainsi l'un
des problèmes posés par l'interprétation de l'amphore de Vulci, où
une femme généralement identifiée comme Creuse porte sur la tête un
vase qu'elle maintient d'une main148. M. Crawford croit reconnaître ce
même récipient, en un ou deux exemplaires, à la poupe du bateau
figurant sur les deniers de M. Fonteius; on se rappelle que la tête des
Dioscures, accompagnée des lettres P.P., figure sur l'autre face de la
monnaie. Nous sommes plus convaincu par le rapprochement des
mots de Timée avec la scène figurant sur l'amphore de Vulci que par
l'identification de deux vases à l'extrémité du bateau, car il est très
difficile de distinguer ces objets sur les monnaies. De toute façon, on

146 Cf. G. Pugliese Carratelli, Achei nell'Etruria e nel Lazio, p. 21.


147 hoc. cit.
148 Rappelons toutefois (cf. ci-dessus, p. 202 n. 207) que N. Horsfall {The Iconography
of Aeneas' Flight, A.K., 2, 1979, p. 104-105) voit dans l'objet que Creuse tient sur la tête
non un dolium, mais un bagage sur lequel on voit des courroies; cf. aussi F. Castagnoli,
La leggenda di Enea nel Lazio, Stud. Rom., 30, 1982, p. 5.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 291

se heurte toujours aux mêmes difficultés : pourquoi un seul récipient


sur l'amphore, et deux jarres pour représenter les Pénates-Dioscures?
Du fait que les Pénates troyens ont pu être transportés dans un ou des
vases, et qu'il existe une relation assez étroite entre les Dioscures et la
représentation de deux amphores, peut-on déduire que les Pénates et
les Dioscures ont été confondus dès le VIe siècle, ou même
auparavant, à Lavinium comme à Rome?
De plus, ces hypothèses nous paraissent présenter deux
inconvénients. D'une part, en essayant d'établir un parallélisme rigoureux
entre les faits romains, mieux connus, et les faits lavinates, on risque de
privilégier certains éléments de la tradition en en laissant d'autres dans
l'ombre. Le sort qui est fait au témoignage de Timée est très révélateur
à cet égard : de sa définition des sacra de Lavinium, on ne retient que la
«poterie troyenne», parce qu'on peut la comparer aux vases de Sparte
et aux doliola de Rome, mais on ne dit rien des caducées. D'autre part
il ne faut peut-être pas admettre a priori qu'à Rome les Pénates sont les
Dioscures parce que, dans leur temple de la Vèlia, comme nous le dit
Denys, une inscription les désignait comme les «Grands Dieux»149, ni en
déduire qu'il en allait de même à Lavinium. Enfin, on ne peut ni
identifier le sanctuaire des Treize autels comme celui des Pénates, sous
prétexte qu'on y a trouvé une dédicace à Castor et Pollux avec lesquels ils
étaient confondus, ni dire que, puisque le sanctuaire des Treize autels
était celui des Pénates, la découverte de l'inscription aux Dioscures
prouve la confusion des deux groupes de divinités. Nous pensons que
cette confusion a existé, mais qu'elle est limitée dans le temps et
l'espace150, et qu'en particulier, il n'est pas certain qu'elle se soit produite à
Lavinium. Nous ne sous-estimons pas pour autant l'importance du
témoignage que nous fournit la dédicace aux Dioscures sur l'histoire du
culte de ces dieux, sur les relations entre la Grèce et le Latium, et Rome
et Lavinium; mais il nous semble qu'en définitive, elle ne nous aide
guère à mieux connaître l'identité des Pénates de Lavinium.
Le témoignage de Timée, transmis par Denys, est, avec le relief de
Y Ara Pacts, la seule attestation de cette identité. Cette dernière apparaît
donc inséparable de l'histoire des Pénates, comme le suggère, nous
l'avons vu, la mention de la «poterie troyenne», ainsi que celle des

149 Cf. E. Cary, The Roman Antiquities of Dionysius of Halicarnassus , I,


Harvard-Londres, 1968, p. 222 n. 6. Voir ci-dessous, p. 420-4.
150 Voir ci-dessous, p. 437-9.
292 LES PÉNATES PUBLICS

caducées, où nous avons cru pouvoir reconnaître l'emblème de


personnages itinérants. C'est à la reconstitution de leur voyage que nous
allons nous attacher à présent.

II - L'Histoire des Pénates de Lavinium

Les témoignages que nous venons d'étudier concernant les Pénates


de Lavinium ne nous permettent pas de saisir leur identité
indépendamment des liens qu'ils entretiennent avec la légende d'Enée : ni la
citation de Timée chez Denys d'Halicarnasse, ni le relief de l'Ara Pacts,
ni même, éventuellement, la monnaie d'Antonin qui représenterait les
caducées à côté du temple rond, ne nous font atteindre un état du culte
des Pénates de Lavinium antérieur à l'introduction de la légende
d'Enée. Or, nous l'avons vu, il semble que cette dernière ait imprimé à
nos dieux, et à Lavinium seulement, le caractère particulier, et
apparemment contraire à leur définition étymologique, d'itinérants, de
messagers. Cette contradiction ne peut s'expliquer que par le fait qu'à leurs
caractéristiques propres s'en sont ajoutées d'autres, qui proviennent de
la légende d'Enée dans laquelle ils ont été insérés. Car les données de la
légende selon laquelle Enée aurait apporté au Latium «les Pénates de
Troie» ne sauraient être prises au pied de la lettre. Nous voudrions
montrer qu'au contraire, les objets sacrés que la littérature grecque
antérieure au IVe siècle a mis aux mains d'Enée se sont confondus avec
les Pénates de Lavinium, qui avaient par ailleurs leur identité propre.
Mais cette confusion a été facilitée par différents éléments du site et de
la civilisation lavinates, qui ont rendu possible l'implantation du
personnage et de la légende du Troyen151.

1) Eléments autochtones

A) Les Pénates et Vesta

Nous avons vu 152 que, par son thème pen-, le mot Penates désignait
à la fois «ceux de la partie la plus intime de la maison» et «ceux de la
réserve aux provisions», et que, d'autre part, le suffixe -aies ajouté à

151 Cf. F. Castagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, p. 9 sq.


152 Cf. supra p. 13 sq.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 293

des bases autres que les noms de villes s'employait particulièrement


dans le Latium; nous avons ainsi pu montrer que ces divinités étaient
spécifiquement latines à l'origine. Il est probable qu'elles sont très
anciennes, bien qu'il nous ait paru difficile d'en faire remonter les
premières représentations figurées aux XIIe-Xe siècles avant J.-C, comme
le fait F. Borner153, qui reconnaît dans les figurines des tombes albaines
les ancêtres des Pénates.
Nous voudrions montrer à présent que, bien qu'il soit à peu près
impossible de connaître l'histoire des Pénates de Lavinium avant
l'implantation de la légende des origines troyennes de la cité, nos dieux,
dans cette cité, présentent certains aspects que nous avions trouvés en
eux dans le culte privé : notamment, ils apparaissent comme liés au
foyer - ce en quoi on ne peut pas voir une influence de la légende
d'Enée -, et, de ce fait, avec Vesta154. Il ne nous échappe pas que les
témoignages sur lesquels nous nous appuyons sont postérieurs à
l'établissement de la légende des origines troyennes de Lavinium et de
Rome; mais ce qui nous fait penser que nous sommes en présence
d'éléments anciens de la personnalité des Pénates, c'est, d'une part, des
similitudes avec certains traits du culte privé, d'autre part le fait que
ces éléments correspondent à la définition étymologique de Penates.
A Lavinium, comme à Rome, il existe un lien étroit entre Vesta et
les Pénates, dont témoignent l'iconographie et, avec plus de certitude,
les textes. Nous avons vu plus haut155 qu'une monnaie du règne
d'Hadrien et deux monnaies d'Antonin représentent le thème de l'arrivée
d'Enée à Lavinium, comme l'indique la présence de la truie
miraculeuse, rapportant expressément la scène à cette ville; en haut et à gauche
de la figure, on peut voir un temple rond. Deux lampes, datant de la
même époque, mais mettant en scène la fuite d'Enée (Anchise est
présent) plutôt que son arrivée en Italie proprement dite, présentent le
même temple rond à la même place. F. Castagnoli propose156 nous
l'avons dit, d'identifier ce temple comme celui de Vesta et des Pénates à
Lavinium; la forme ronde est caractéristique du sanctuaire de Vesta, et
se retrouve dans X'Aedes Vestae du Forum à Rome; ce temple rond

153 Rom und Troia, p. 65 sq.


154 Cf. G. Radke Die dei pénates und Vesta in Rom, A.N. R.W. , II, 17, 1, Berlin-New-
York, 1981, p. 371-72.
155 Voir supra p. 226-8.
156 Lavinium I, p. 113-114.
294 LES PÉNATES PUBLICS

serait également, selon le même savant, la καλίας mentionnée par


Denys d'Halicarnasse 157. Cette hypothèse séduisante repose sur deux
observations : d'une part, le thème de la fuite ou du débarquement
d'Enée en Italie est lié inséparablement, pour les artistes de cette
époque, aux Pénates de Troie, et il est donc peu vraisemblable que les
monuments, et notamment le temple, représentés sur ces images, ne
soient pas en relation avec eux; d'autre part, la forme du temple
suggère de voir en Vesta la divinité dédicataire, et les liens de cette dernière
avec les Pénates à Lavinium sont bien attestés. Toutefois, étant donné
la date tardive de ces images, et le fait qu'à cette époque, la légende des
origines troyennes de Rome est parfaitement élaborée158, on peut
penser que le graveur n'a pas représenté de façon réaliste le temple de
Lavinium, mais s'est inspiré de celui du Forum. Nous avons vu plus
haut qu'un certain nombre de détails de la scène témoignent de son
caractère symbolique plus que de son réalisme.
En revanche, les témoignages de Macrobe et de Servius attestent
l'existence à Lavinium d'un lien très étroit entre Vesta et les Pénates,
qui ne peut être une simple projection des faits romains; chez les deux
auteurs, le sacrifice des magistrats romains aux Pénates et à Vesta est
mentionné comme preuve de ce que Vesta fait partie des Pénates, ou
du moins qu'elle leur est liée de très près; Macrobe note : eodem
nomine appellami (= Virgile) et Vestam, quant de numero Penatium certe
comitem eorum manifestum est159 et Servius-Daniel, presque dans les
mêmes termes : hic ergo quaeritur, utrum Vesta edam de numero
Penatium sit, an comes eorum accipiatur160. Ces indications commentent le
passage de l'Enéide où, après l'incendie de Troie, Hector apparaît en
songe à Enée et lui déclare :

Sacra suosque tibi commendai Troia penatis,

et Virgile poursuit :

157 I, 57, 1.
158 voir supra, p. 216-7.
159 III, 4, 11 : «Virgile a appelé du même nom (de Pénates) Vesta aussi, qui, à coup
sûr, fait partie des Pénates ou est leur compagne».
160 Ad Aen. II, 296 : «On se demande donc si Vesta aussi fait partie des Pénates, ou si
elle est considérée comme leur compagne».
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 295

Sic ait et manibus uittas Vestamque potentem


aeternum adytis effert penetralibus ignem161.

Vesta, et le feu qui la symbolise, sont donc présentés ici comme des
équivalents, presque des synonymes des sacra et des Pénates, et, du
reste, Hector va les chercher adytis penetralibus, «dans la partie la plus
retirée du sanctuaire», siège habituel des Pénates dont le nom même,
en relation étymologique avec penetralis, est suggéré par cet adjectif162.
A notre connaissance, il n'existe pas avant Virgile d'attestation d'une
telle assimilation entre Vesta et les Pénates troyens. Il est fort probable
que c'est la communauté de sanctuaire entre Vesta et les Pénates sur le
Forum, à Rome, et l'existence d'un sacrifice commun, à Lavinium, qui
ont amené Virgile à transformer ce lien en une identification, attestée
plus tard par Macrobe et Servius.
Vesta et les Pénates ont un autre point commun, spécifique, sem-
ble-t-il, du culte lavinate, probablement en relation avec le précédent.
On sait qu'au culte de Vesta est liée une très grande importance donnée
à la pureté, comme le montre, notamment, la chasteté exigée des
Vestales163. L'interpolateur de Servius affirme qu'il existe une différence
entre les Grands Dieux, vénérés à Rome, et les Pénates, vénérés à
Lavinium, mais que l'on qualifie eux aussi de Magni en raison de
l'importance attachée à leur culte, qui elle-même s'explique par l'étendue de
leur pouvoir; à l'appui de cette dernière affirmation, il rapporte
l'anecdote suivante : nam cum ambae uirgines in tempio deorum Lauini simul
dormirent, ea quae minus casta erat fulmine exanimata alteram nihil
sensisse1M. Les Pénates, divinités dédicataires du temple où dorment les
deux jeunes filles, punissent donc celle qui est minus casta, montrant
par là le prix qu'ils attachent à la pureté, ainsi que la capacité où ils
sont de la déceler chez ces jeunes filles. La relation établie par ce
témoignage entre les Pénates et la pureté, le fait que la scène est suppo-

161 II, 293 et 296-97 : « Troie te confie ses choses saintes et des Pénates. . . Ainsi dit-il,
et des profondeurs du sanctuaire, il apporte de ses mains les bandelettes, la puissante
Vesta et le feu éternel» (trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1981).
162 Cf. Cicéron, De Nat. Deor. II, 68 : (Penates) penitus insident; ex quo etiam
penetrates a poetis uocantur.
163 Cf. C. Koch, R.E., Vili A 2, s.u. Vesta, col. 1732; G. De Sanctis, Storia dei Romani,
IV, 2, t. I, Florence, 1953, p. 164 sq.; G. Radke (Die dei pénates und Vesta in Rom,
A.N.R.W., II, 17, 1, Berlin-New- York; 1981, p. 367-368) relève le fait que les Vestales, qui
doivent être chastes, sont d'autre part chargées du culte du fascinus : cf. infra p. 458-60.
164 AdAen. III, 12.
296 LES PÉNATES PUBLICS

sée se passer à Lavinium d'autre part, suggèrent que le temple évoqué


ici est peut-être le sanctuaire commun des Pénates et de Vesta, car
l'anecdote fait penser à la nécessaire chasteté des prêtresses de Vesta.
Nous ne possédons malheureusement aucune autre attestation de cette
importance de la pureté dans le culte des Pénates.
L'existence du lien entre Vesta et les Pénates mérite d'être
examinée de plus près; le culte de Vesta présente beaucoup de parentés avec
celui de l'Hestia grecque165, alors que les Pénates sont des divinités
spécifiquement romaines, sans équivalent dans le panthéon grec. Une
première explication de leur lien réside sans doute dans une certaine
communauté de fonction : Vesta est la déesse du feu, du foyer, et, à ce titre,
sa sphère d'action recoupe en partie celle des Pénates, dieux de la
partie la plus secrète de la maison, et, finalement, considérés comme dieux
du foyer. La communauté de temple apparaît donc comme l'expression
d'un commun rapport au foyer, lui-même sans doute fort ancien.
D'autre part, Vesta est considérée comme le garant du salut du peuple
romain, comme en témoigne la façon dont sont présentés les sacrifices
accomplis par les Vestales, et la formule même de la capito de ces
dernières, faite par le Grand Pontife pro populo Romano166; de même,
évoquant la célébration des mystères de la Bona Dea par les Romains Cicé-
ron écrit : fit per uirgines Vestales, fit pro populo Romano167; le maintien
de Y ignis sempiternus est garant du salut de l'Etat, croyance dont on a
tout lieu de penser qu'elle a des racines dans le plus lointain passé
indo-européen168. En revanche, si les Pénates sont censés veiller sur le
salut de Rome 169, et singulièrement dans YAedes Vestae du Forum où ils
figurent parfois parmi les pignora imperi170, il nous paraît rien moins
que certain qu'il s'agisse là d'un caractère originel de ces dieux. Il est
vrai qu'ils jouent ce rôle de protecteurs du foyer dans le culte privé,
mais ce caractère, dans le culte public, a été fortement accentué par la
place qui leur a été faite dans la légende des origines troyennes, où ils
sont une sorte de caution religieuse pour la «nouvelle Troie».

165 C. Koch, op. cit., col. 1718-20; G. Giannelli, // sacerdozio delle Vestali Romane,
Florence, 1913, p. 16 sq.
166 Gell., I, 12, 14; cf. G.Dumézil, Te, amata, capto, Quinze questions romaines, in
Mariages indo-européens, Paris, 1979, p. 241-243.
167 Uar. Resp., 12.
168 G. Dumézil, La Religion romaine archaïque, p. 322.
169 Cicéron, Sull, XXXI, 86; cf. C. Peyre, op. cit., p. 460.
ci-dessous, p. 454-70.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 297

B) Le Numicus

On sait qu'à côté du feu, l'eau joue un rôle considérable dans le


culte de Vesta. Même si l'on considère, comme le fait G. Dumézil, que
l'Aedes Vestae, contrairement à tous les autres temples, est «réfractaire
à l'eau»171, c'est encore là reconnaître la place très particulière de l'eau
dans ce rituel. Puiser et transporter jusqu'au temple l'eau indispensable
fait l'objet d'une série de règles cultuelles très strictes. L'eau destinée
au culte de Vesta ne doit pas toucher la terre; elle est donc transportée
dans un vase d'une forme particulière, le futile, qu'il est impossible de
poser à plat à terre sans en renverser le contenu172. Les Vestales
allaient puiser cette eau chaque jour à une source située en dehors de
l'enceinte de la ville, au milieu des bois, du moins à l'époque
archaïque173. Properce localise cette source, du temps de Tarpeia, sur
l'emplacement de la Curie :
murus erant montes; ubi nunc est Curia saepta,
bellicus ex ilio fonte bibebat equus 174.

Au contraire, Plutarque175 désigne cette fontaine comme la source


Egèrie, située près de la Porta Capena et rapporte à la législation
religieuse de Numa, à la coutume qu'avait le roi de s'entretenir avec les
Muses et la nymphe Egèrie dans les bois situés hors de l'enceinte de la
ville, l'obligation faite aux Vestales de puiser en cet endroit l'eau
nécessaire au culte et à l'entretien du temple.
Il existe peut-être un équivalent à Lavinium176 de ce qu'est à Rome
la source Egèrie pour le culte de Vesta. En effet racontant l'histoire du
Numicus, autrefois large fleuve, de son temps simple fontaine
comportant un stagnum, Servius affirme : Vestae enim libari non nisi de hoc
fluuio licebat177. Il s'agit, cette fois encore, d'un témoignage isolé, mais
il est possible que l'approvisionnement en eau du temple de Vesta ait
été réglementé à Lavinium comme il l'était à Rome. D'autre part,

171 Le religion romaine archaïque, p. 324-26.


172 Servius, Ad Aen. II, 339.
173 Cf. Tacite, Hist. IV, 53, 3.
174 IV, 4, 13-14.
175 Numa, 18.
176 Cf. C. Koch, op. cit., col. 1720.
177 Ad Aen. VII, 150.
298 LES PÉNATES PUBLICS

l'identification du Numicus a fait l'objet de longs débats178, mais on


s'accorde aujourd'hui à penser, à la suite de F. Castagnoli qu'il est le
moderne Fosso di Pratica; ce dernier se trouve179 hors des limites de
l'oppidum, mais non loin de lui, ce qui serait un autre point commun
avec la source Egèrie à Rome.

C) Le culte de Sol Indiges

La légende de la venue d'Enée en Italie ne s'implante pas dans un


Latium vierge de toute tradition légendaire, ou de tout culte. Denys
d'Halicarnasse, comme Virgile, nous raconte les longs combats qu'ont
dû mener Enée et ses compagnons contre les Latins et leur roi Latinus,
jusqu'à ce qu'intervienne, après la victoire d'Enée, un traité de paix
entre les deux peuples, symbolisé par le mariage d'Enée et de Lavinia.
De cette civilisation locale, la littérature ne nous permet pas toujours de
nous faire une idée exacte : Virgile180 attribue à Latinus et à son peuple
les usages des Romains de son temps. Mais il lui arrive aussi, nous le
verrons, d'intégrer dans sa version de légende des origines troyennes
des éléments qui devaient appartenir au vieux fonds légendaire local.
En revanche, les découvertes archéologiques faites sur le site de Pratica
depuis la fin du siècle dernier éclairent d'un jour nouveau l'histoire de
ce site181. Quelques rares tessons découverts à l'emplacement des treize
autels et sur la «petite Acropole», au nord de l'actuel village de Pratica,
attestent une occupation de ces sites dès la civilisation apenninique; or,
on a retrouvé dans d'autres sites du Latium, et notamment à Ardée, des
marques d'occupation à l'époque préhistorique et protohistorique, ce
qui permettrait peut-être de faire remonter très haut les relations entre
Lavinium et Ardée, dont nous connaissons des traces à l'époque
historique par la survivance de coutumes religieuses. La civilisation latiale est
bien représentée : la «petite Acropole» encore a livré les traces d'un
habitat des débuts de cette phase de civilisation, tandis qu'on fouillait,
en 1973 et 1974, une nécropole située à l'ouest des murailles de la

178 Cf. F. Castagnoli, Lavinium I, p. 91-92, avec une bibliographie du sujet.


179 / luoghi connessi con l'arrivo di Enea nel Lazio, ArchClass, 19, 1967, p. 240-243.
180 En. VII, 170 sq.
181 Pour un état présent de la question, cf. J. Poucet, Le Latium protohistorique et
archaïque à la lumière des découvertes archéologiques récentes, I, AC, 47, 1978, 566, sq.; II,
AC, 48, 1979, p. 177 sq. On trouvera dans le second de ces articles une bibliographie
détaillée du sujet.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 299

cité182. Cette nécropole aurait été utilisée du Xe au VIIe siècle, donc


jusqu'à l'aube de l'époque archaïque où la ville de Lavinium va être
entourée d'une muraille dont on a retrouvé d'importants fragments, ainsi
qu'une porte; une partie de cette enceinte date de l'extrême fin du VIIe
siècle183. Mais, pour notre propos, les vestiges les plus intéressants de
cette période se trouvent situés à une centaine de mètres au sud-est des
treize autels, avec les restes d'une tombe du VIIe siècle avant J.-C. Elle
comportait184 un caisson rectangulaire aux parois de cappellaccio,
recouvert de plaques de la même pierre. Le mobilier de terre cuite et de
métal qu'elle contenait, comparable, en moins riche, à celui de la
tombe Barberini de Préneste, était disposé tout autour du caisson, tandis
qu'un tumulus de 18 mètres de diamètre environ, au périmètre délimité
par de petits blocs de tuf, recouvrait le tout185. C'est le matériel trouvé à
l'intérieur de la tombe qui permet de dater la première phase
architecturale de cette dernière de l'époque orientalisante, plus précisément du
second quart du VIIe siècle186. Cette tombe, comme nous le verrons par
la suite, a été modifiée et reconstruite, et sa destination probablement
changée. Mais la nature du matériel funéraire datant du VIIe siècle
donne à penser qu'il s'agissait de la sépulture d'un personnage
important.
P. Sommella a proposé d'identifier cette tombe avec l'Hérôon
d'Enée évoqué par Denys d'Halicarnasse187. Pourtant, comme le
souligne J. Heurgon188, l'inscription que Denys a pu lire sur cette tombe et
qu'il nous a transmise ne mentionne pas le nom d'Enée : Πατρός θεοΰ
χθονίου, ος ποταμού Νουμικίου ρεϋμα διέπει, ce qui traduit
probablement le latin Pater Deus Indiges Numicius. Il est permis de penser que

182 P. Sommella Lavinium. Rinvenimenti preistorici et protoistorici, ArchClass, 21,


1969, p. 18-33; id., La necropoli protoistorica rinvenuta a Pratica di Mare, RPAA, 46, 1973-
74, p. 33-48.
183 C. F. Giuliani - P. Sommella, Lavinium : Compendio dei documenti archeologici, in
Lazio arcaico e mondo greco, PP, 32, 1977, p. 356-372.
184 Ibidem ; P. Sommella, Heroon di Enea a Lavinium. Recenti scavi a Pratica di Mare,
RPAA, 44, 1971-72, p. 47-74; id., Das Heroon des Aeneas und die Topographie des antiken
Lavinium, Gymnasium, 81, 1974, p. 273-297; id., Tomba a cassone sotto l '«heroon di
Enea», in Civiltà del Lazio primitivo, Catalogue de l'Exposition, Rome, 1976, p. 305-311.
.iss Voir plan de cette tombe in Compendio. . ., p. 366 fig. 7, 1.
186 P. Sommella, Heroon di Enea, p. 60-69.
187 I, 64, 5. Pour la discussion de cette identification, voir ci-dessous, p. 320-3.
188 Les récentes découvertes archéologiques dans le Latium, IL, 27, 1975, p. 126-129; de
même J. Poucet, op. cit., I, p. 597.
300 LES PÉNATES PUBLICS

cette inscription, aujourd'hui perdue, était fort ancienne, ou qu'elle


était la copie d'une autre, plus ancienne, ou encore la reproduction
écrite d'une formule orale dont l'origine est impossible à dater. Il est en
tout cas remarquable qu'à une époque où la légende de la venue d'Enée
au Latium, de sa divinisation, et des origines troyennes de Rome, était
définitivement établie, l'inscription vue par Denys n'ait pas comporté le
nom d'Enée.
Le terme d'Indiges a suscité des commentaires nombreux et
contradictoires, chez les anciens comme chez les modernes. Pour notre
propos, il nous paraît qu'il faut en distinguer l'emploi au pluriel, Di
Indigetes, attesté pour la première fois chez Tite-Live, dans la formule de la
deuotio prononcée par Decius en 340 av. J.-C.189, et l'emploi au
singulier, beaucoup plus ancien semble-t-il. L'étymologie du mot, inconnue
selon A. Ernout et A. Meillet 190, avait été expliquée par G. Wissowa191
dans un système d'opposition entre Di Indigetes «dieux indigènes» et Di
Nouensides «dieux nouvellement importés»; G. Dumézil192 ne voit
aucune explication possible du mot, tandis que R. Schilling193 propose deux
rapports étymologiques possibles avec le verbe indigitare «prier et
invoquer » : soit Indiges est un post-verbal formé sur indigitare, soit indigita-
a'
re est un dénominatif indiges «dérivé primaire à valeur passive»,
signifiant «invoqué». Or, nous connaissons des attestations très
anciennes d'un culte à' Indiges à Rome. Sur le «calendrier de Numa», à la date
du 11 décembre, sont mentionnés les AGON (alia) IND (igetis)194 en
grandes capitales, ce qui prouve l'ancienneté de la fête. Nous ne
possédons aucune indication supplémentaire sur la personnalité de la
divinité dédicataire de cette fête à Rome; C. Koch195, comme le rappelle
R. Schilling, a très ingénieusement rapproché cette fête des Matralia du
11 juin, célébration en l'honneur de Mater Matuta, qu'il assimile à
Aurora; il s'agirait alors de deux fêtes astrales, proches, l'une du solstice
d'hiver, l'autre du solstice d'été, célébrant, l'une le fait que les jours

189 vin, 9, 6.
190 Dictionnaire étymologique de la langue latine, s.u. Indiges.
191 Religion und Kultus der Römer, 2e éd., Munich, 1912, p. 18-23.
192 La Religion romaine archaïque, p. 55 n. 1.
193 Le culte de l'Indiges à Lavinium, REL, 57, 1980, p. 59.
194 Pour la lecture de ce texte, cf. commentaire et références in R. Schilling, op. cit.,
p. 54 n. 1.
195 Gestirnverehrung im alten Italien, Frankfurt-am-Main, 1933, p. 99; cf. J. Cham-
peaux, Fortuna, p. 232.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 301

vont bientôt commencer à croître, l'autre à décroître. On en arrive ainsi


à voir dans Indiges une très ancienne divinité solaire 196.
Bien qu'aucun argument irréfutable ne permette de l'affirmer,
puisque l'étymologie d'Indiges reste inconnue, il est assez probable qu'à
cette divinité solaire était associée, ou identifiée, une divinité des eaux,
ou l'eau divinisée. Nous avons le sentiment que ce lien est antérieur à
l'introduction du personnage d'Enée au Latium, sans pouvoir en
fournir une démonstration parfaite; mais divers éléments plaident en
faveur de cette hypothèse197. C'est tout d'abord l'inscription lue par Denys
sur la tombe à tumulus : il est impossible de lui assigner une datation
précise, mais elle a, de notre point de vue, l'intérêt d'associer les termes
Πατρός θεοΰ χθονίου au Numicus dont le dieu est le protecteur, sans
que soit mentionné le nom d'Enée. C'est aussi le récit même que fait
Denys 198 du prodige opéré par Ήλίος, divinité adorée au lieu où
débarquent Enée et ses compagnons : c'est le soleil qui, paradoxalement, a
fait surgir l'eau des sources qui désaltèrent les Troyens, et c'est à lui
qu'Enée en rend grâce199. Enfin, beaucoup de cultes lavinates qui sont
bien attestés à l'époque archaïque ou à l'époque classique sont liés à
l'eau : Vesta, les Dioscures, Juturne, Anna Perenna200; d'autres sont des
cultes agraires, et par là-même, en relation eux aussi avec l'eau
fertilisante, comme celui de Cérès ou de Liber.
Or, les faits lavinates viennent appuyer cette interprétation. Pline
l'Ancien, énumérant les villes côtières du Latium entre Ostie et Antium,

196 C'est cette conception qu'a encore récemment réaffirmée F. Castagnoli (La
leggenda di Enea nel Lazio, p. 10-11; p. 13 η. 64). Voir aussi B. Liou-Gille, Cultes «héroïques
romains, p. 86 sq. ; pour M. Torelli (Lavinio e Roma, p. 173-176), le caractère solaire
d'Enée-Indiges à Lavinium est essentiel, et se voit aussi dans le culte romain à l'origine
duquel il se trouve, celui de Sol sur le Quirinal, dont le dies natalis est en plein été, le 9
août.
197 Cf. I. Cazzaniga, // frammento 61 degli Annali di Ennio : Quirinus-Indiges, PP, 29,
1974, p. 369.
198 I, 54, 2.
199 II existe un texte d'Arnobe qui atteste ce lien : Indigetes Uli qui in flumen repunt et
in alueis Numici cum ranis et pisciculis degunt (Adu. Nat. I, 36); il nous paraît sujet à
caution pour diverses raisons; il s'agit ici des di indigetes, non d'Indiges ni de Sol Indiges,
et ce commentaire tardif pourrait porter la marque de l'embarras d'Arnobe pour définir
les Indigetes, notion assez confuse apparemment pour les Romains eux-mêmes, et,
d'autre part, n'être que l'écho de la légende, désormais bien établie, selon laquelle Enée,
devenu Aeneas Indiges, était mort en tombant dans le Numicus.
200 Cf. F. Castagnoli, Lavinium I, p. 71-75.
302 LES PÉNATES PUBLICS

cite le Locus Solis Indigetis201; cette mention d'un toponyme ne fournit


évidemment aucune date précise sur son ancienneté. Toutefois, les
fouilles menées sous la direction de F. Castagnoli ont mis au jour, au
nord-est des treize autels, à Tor Vaianica, sous les restes d'une villa
d'époque impériale, les traces d'un édifice datable au moins du Ve
siècle avant J.-C, avec des terres cuites architectoniques de fabrication
locale et d'importation grecque, datées de la première moitié du Ve
siècle. F. Castagnoli considère qu'il s'agit du Locus Solis Indigetis202. La
construction du sanctuaire au Ve siècle a des parallèles dans
l'architecture religieuse du Latium du VIe- Ve siècle, ce qui s'explique, selon le
même savant, par l'influence grecque, mais n'implique pas qu'il
n'existait antérieurement aucune forme de culte : «Après une longue période
pendant laquelle le culte se célébrait en plein air (en tout cas nous ne
trouvons que des dépôts votifs), comme à Satricum (fin du VIIIe et
surtout VIIe siècle), Gabii, Rome (Capitole, Quirinal, Forum Boarium), au
VIe siècle on assiste à un grand développement des sanctuaires»203. Ces
apports grecs s'insèrent donc dans une culture religieuse déjà existante.
Un texte de Denys d'Halicarnasse confirme ces données : lorsqu'Enée et
ses compagnons débarquent sur la côte latine, ils sont sur le point de
périr de soif; c'est alors que surgissent des sources d'une eau
délicieuse, qui sauve la vie des Troyens, en remerciement de quoi Enée élève en
ce lieu deux autels et y offre un sacrifice τω θεω χαριστήριον των
υδάτων204, et Denys ajoute que, de son temps encore, les habitants
considèrent ce lieu comme ιερόν 'Ηλίου. Ainsi, la légende locale, que
Denys nous a transmise, faisait remonter ce culte à une époque
antérieure à l'arrivée d'Enée.
Il reste cependant un point que le seul texte de Denys ne permet
pas d'élucider : quelle dénomination, entendue par lui à Lavinium,
traduit-il par Ήλίος? Est-ce Sol ou Sol Indiges? Problème qu'aide à
résoudre le texte de Pline mentionné plus haut, car le lieu désigné par Pline
correspond à l'emplacement où Enée, selon Denys, fit un sacrifice au

201 N. H. III, 5, 56; pour la lecture du texte, cf. F. Castagnoli, Lavinium I, p. 93 n. 10;
voir aussi B. Liou-Gille, op. cit., p. 99-116.
202 / luoghi connessi. . ., p. 235 sq. (voir carte p. 236); id., in Enea nel Lazio p. 167;
G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 143 sq.
203 Les sanctuaires du Latium archaïque, CRAI, 1977, p. 474.
204 I, 55, 2 : «au dieu, en remerciement pour les eaux»; sur l'association de l'eau et du
Soleil dans la légende d'Enée, voir infra p. 323 sq.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 303

Soleil en remerciement du prodige qu'il avait accompli en sa faveur205;


on peut s'étonner que Denys n'ait pas essayé de traduire le terme d'In-
diges, mais cette omission nous paraît pouvoir s'expliquer par la
difficulté où il était de trouver un équivalent grec du mot; de surcroît,
contrairement à ce qui se passe quand il reproduit l'inscription lue sur
l'Hérôon d'Enée, le propos de Denys n'est pas ici de traduire un texte
précis, mais de rapporter une légende, dans laquelle le seul mot
d'HXioç a pu lui sembler une transposition suffisante de Sol Indiges.
Peut-être est-ce à l'influence des conceptions religieuses de la
Grèce206 qu'il faut attribuer, à une date qu'il est très difficile de déterminer,
étant donné la pauvreté de notre documentation, les changements qui
semblent être intervenus dans le concept d'Indiges, originellement
divinité solaire. A cette notion de divinité astrale va s'en superposer une
autre, celle d'ancêtre fondateur207. La double valeur que va prendre le
mot est perceptible en particulier chez les auteurs grecs, qui, faute de
pouvoir le traduire, en donnent ce qu'ils estiment être des synonymes
dans les contextes où ils l'emploient. Lydus, en commentaire à la fête
du 1 1 décembre, écrit : έπετέλουν δε και έορτήν λεγομένην Άγωνάλια
δαφνηφόρω και γενάρχη Ήλίω208. Ces épithètes de δαφνηφόρω et de
γενάρχη données au Soleil par l'écrivain, sans qu'il indique s'il y a un
lien entre les deux, sont éclairées par le rapprochement qu'en fait
R. Schilling209 avec deux passages de l'Enéide. Virgile propose en effet
une version de l'histoire du Latium avant la venue d'Enée et de ses
compagnons qui corrobore et explique les termes employés par Lydus
pour désigner Indiges. D'une part, il présente Latinus, roi de cette
contrée, comme le descendant du Soleil, et ce lien généalogique est sen-

205 I, 55, 2.
206 Cette influence est sensible, nous l'avons vu, dans l'introduction à Lavinium du
culte de Castor et Pollux, au cours de la seconde moitié du VIe siècle. On la trouve aussi
dans la céramique d'importation : les mêmes dieux sont peut-être représentés allongés
sur une klinè, à l'intérieur d'une coupe laconienne datée du milieu du VIe siècle trouvée
dans la zone du sanctuaire des Treize autels (cf. E. Paribeni, Ceramica d'importazione, in
Lavinium II, p. 362-368; id., Enea nel Lazio, p. 177, D 10).
207 Cf. R. Schilling, op. cit. p. 63-64. I. Cazzaniga (ibid., passim) fait un parallèle entre
Indiges comme ancêtre fondateur à Lavinium, auquel fut assimilé Enée, et Quirinus-Indi-
ges à Rome; voir aussi J.-C. Richard, Le culte de «Sol» et les «Aurelii» : à propos de Paul
Fest. p. 22 L., Mélanges I. Heurgon II, Rome 1976, p. 917-919.
208 De Mens. 4, 155 : «Ils célébraient aussi une fête appelée Agonalia en l'honneur du
Soleil, protecteur du laurier et fondateur de race».
209 Op. cit., p. 61 et 64.
304 LES PÉNATES PUBLICS

sible dans l'apparence même du personnage : les douze rayons d'or qui
ceignent sa tête sont Solis aui specimen210; le Soleil est donc bien
l'ancêtre de la dynastie autochtone. D'autre part, Varron proposait de voir
une relation étymologique - vivement contestée par les modernes211 -
entre le nom du laurier, laurus, et celui des habitants primitifs de la
contrée où débarque Enée, les Laur entes : In (Auenti)no Lauretum ab
eo quod ibi sepultus est Tatius rex, qui ab Laurentibus interjectus est212.
Cette étymologie est reprise par Virgile, qui lie le laurier, non
seulement au nom des habitants de l'endroit, mais aussi à l'acte même de la
fondation de la ville par Latinus :

Laurus erat tedi medio in penetralibus altis


sacra comam multosque metu seruata per annos
quam pater inuentam, primas cum conderet arces,
ipse ferebatur Phoebo sacrasse Latinus
Laurentisque ab ea nomen posuisse colonis213.

Virgile rassemble donc ici les différentes données légendaires se


rapportant au culte du Soleil à Lavinium : le nom du laurier est mis en
rapport avec celui des habitants, et l'arbuste, dont la présence a
désigné à Latinus l'emplacement où il devait fonder sa cité, est consacré
par lui à Phébus, autrement dit au Soleil. Ainsi, Virgile, comme le note
R. Schilling214 «non seulement authentifie la présence du laurier et le
titre de «chef de lignée» du Soleil, mais il suggère l'existence d'un lien
interne entre ces deux données». Par ailleurs, dans la mythologie
grecque, le Soleil est présenté comme l'ancêtre plus ou moins lointain d'un

210 XII, 164; voir supra p. 240.


211 En particulier A. Walde-J. B. Hofmann, L.E.W. , s.u. laurus.
212 DeL.L. V, 152.
213 VII, 59-64 : «Au milieu du palais, au cœur de la haute maison, il était un laurier;
sa chevelure était sacrée, lui-même avait été consacré dans la crainte à travers de longues
années. On disait que le vénérable Latinus, l'ayant trouvé comme il jetait les premiers
fondements de la citadelle, l'avait lui-même consacré à Phoebus et en avait formé le nom
de Laurentes qu'il imposa aux habitants» (trad. J. Perret, op. cit.); C. J. Fordyce (Aeneidos
Libri VII-VHI, éd. commentée, Oxford, 1977, p. 170) remarque que Virgile manifeste ici
très peu de souci archéologique, puisqu'il décrit le palais de Latinus comme une riche
demeure de son temps, comme il l'avait fait précédemment pour le palais de Priam (II,
512 sq.).
214 Op cit., p. 64.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 305

certain nombre de dieux ou de héros : Circé était la fille du Soleil, et de


sa propre union avec Ulysse étaient nés Agrios et Latinos215.
Ce que Virgile nous dit de l'histoire légendaire du Latium pourrait
fort bien refléter un changement de la tradition locale sous l'influence
des contacts établis entre la Grèce ou la Grande-Grèce et Lavinium, et
ce d'un double point de vue. Au VIe siècle se déroulent à Lavinium deux
séries d'événements parallèles. D'une part, nous l'avons vu, les
archéologues situent à la fin du VIIe siècle et au milieu du VIe siècle
l'édification, puis la restructuration de la muraille d'enceinte de la cité : cela
indique que c'est à ce moment que Lavinium devient à proprement
parler un centre urbain. Or cette émergence est due en partie à l'essor que
lui ont imprimé ses contacts avec le monde grec. Mais d'autre part, les
marchands grecs qui arrivent dans le port de Lavinium apportent avec
eux des conceptions religieuses nouvelles pour les habitants de cette
contrée, conceptions dont nous avons déjà vu quelques aspects. Sans
doute est-ce à cette époque216 qu'a été introduite en Italie centrale la
notion grecque de «héros», personnage d'origine mi-divine,
mi-humaine, qui n'avait pas d'équivalent dans la religion romaine, ou latine;
aussi a-t-on divinisé les personnages prestigieux, notamment les fondateurs
de cité. C'est pourquoi il nous semble qu'on peut mettre en relation la
transformation de Lavinium en véritable cité et l'apparition de la
notion d'ancêtre fondateur divinisé. A cet égard, du reste, il y a un
certain flottement dans la conception virgilienne, car la dualité subsiste
entre deux personnages : d'une part, le dieu Phébus, d'autre part, son
descendant, fondateur de la cité des Laurentes, Latinus, dont Virgile ne
nous dit pas qu'il a été divinisé.
L'archéologie semble offrir une confirmation de ce changement du
concept d'Indiges, et de sa datation. Nous avons mentionné la présence,
près des treize autels, d'une tombe dont les plus anciens vestiges datent
de la fin de l'époque orientalisante, et dans laquelle il faut voir la sépul-

215 Hésiode, Théogonie 1008 sq.; cf. commentaire de S. Weinstock sur ces généalogies
mythiques in Two archaic inscriptions front Latium, p. 117-118. C. Cogrossi {Atena Iliaca e
il culto degli eroi, in Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l'oriente, Milan, 1982,
p. 89-98) suggère d'ailleurs que l'hérôon récemment découvert était à l'origine celui de
Latinus; cf. M. Sordi, Lavinio, Roma e il Palladio, ibid., p. 70. Au demeurant, il n'existe
aucune mention de ce monument dans les textes anciens, ni aucune attestation d'une
identification entre Latinus et Indiges.
216 Cf. B. Liou-Gille, op. cit., p. 7-8; R. Schilling, La déification à Rome. Tradition
latine et influence grecque, REL, 57, 1981, p. 137-139.
306 LES PÉNATES PUBLICS

ture d'un personnage important. Or, cette tombe a été ouverte au VIe
siècle, comme en témoigne la présence d'une œnochoè de bucchero qui
ne peut dater d'avant la première moitié du VIe siècle217. On est en droit
de supposer que cette ouverture de la tombe, accompagnée du dépôt
d'une pièce au moins de nouveau mobilier funéraire, correspond à un
changement dans la destination du monument. C'est peut-être à ce
moment que se produit la fusion du concept originel d'Indiges et de
celle du héros fondateur, divinisé du fait même de cette fusion. Il n'est
pas encore, à cette date, assimilé à Enée, et il est assez probable qu'il ne
porte pas d'autre nom que celui d'Indiges. A l'appui de cette hypothèse,
nous voudrions avancer une fois encore l'inscription lue par Denys
d'Halicarnasse sur la tombe qu'il désigne comme l'Hérôon d'Enée :
Πατρός θεοΰ χθονίου. Ces trois termes nous semblent très exactement
s'appliquer à la tombe d'un héros fondateur divinisé. Le mot χθονίος,
comme le note R. Schilling218 «pouvait convenir à un culte funéraire» et
paraît donc approprié à une inscription figurant sur une tombe. Sans
qu'on puisse l'affirmer avec certitude, Denys doit traduire par ce terme
le mot Indiges, qu'il interprète dans un sens dont nous verrons qu'il est
définitivement établi à l'époque où sont écrites les Antiquités Romaines.
Θεός, traduction très probable de deus, suggère que le personnage
enseveli là a eu une vie terrestre, une vie de mortel, et a été divinisé
après sa mort. Quant à Πατήρ, qui rend à coup sûr un Pater dans
l'inscription originale, il exprime, selon nous, deux notions : d'une part, il
traduit l'idée que le personnage enterré dans cette tombe est l'ancêtre
de la race; mais d'autre part, le mot se comprend aussi en liaison avec
θεός (deus), car, comme le note G. Dumézil219, la qualification de pater
et de mater que l'on donne aux dieux dans la religion archaïque est une
marque de respect. On pourrait même penser que le mot pater, par son
ambivalence, a facilité l'assimilation de l'ancêtre fondateur avec une
divinité très ancienne220.

217 C. F. Giuliani-P. Sommella, op. cit., p. 367.


218 Le culte de findiges à Lavinium, p. 58; id., La déification à Rome, p. 144-145:
R. Schilling montre comment l'épithète de χθόνιος qui, par son caractère «chthonien», ne
pouvait guère s'appliquer au Soleil, convient en revanche parfaitement à un «héros»
selon la conception grecque.
219 La religion romaine archaïque, p. 137.
220 C. Koch {Der römischer Iuppiter, Frankfurt-am-Main 1937, p. 68 sq.) a proposé
d'identifier Veiovis avec le Πατήρ θεός χθόνιος de l'inscription citée par Denys. F.
Castagnoli (Roma arcaica e i recenti scavi di Lavinio, PP, 32, 1977 p. 352-53) rappelle qu'une
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 307

II nous semble impossible de supposer, comme l'a fait G. Dury-


Moyaers221, qu1 Indiges est «sans doute la divinité primordiale des
Pénates». Nous avons eu mainte occasion de remarquer que les Pénates sont
originellement et essentiellement un groupe de divinités non
individualisées; il n'existe pas de singulier à ce mot. Indiges et Penates semblent
être des personnalités divines parfaitement distinctes, même si, comme
le note justement G. Dury-Moyaers, les seconds nous demeurent
inconnus à Lavinium antérieurement à l'adoption de la légende d'Enée. On
peut seulement supposer leur existence dans cette cité, comme à Rome
et dans le reste du Latium.

2) Introduction de la légende d'Enée à Lavinium

Nous avons vu que le thème de la fuite d'Enée et du transfert des


ίερά apparaît peut-être dans la littérature grecque au VIe siècle, avec
Stésichore222. Dans l'iconographie, des vases attiques de la même
époque, dont certains ont été trouvés en Etrurie, présentent une
illustration du même sujet, sans la présence des ίερά223; ce n'est que sur le
«scarabée étrusque» de la Collection de Luynes, daté du VIe siècle, ou
du début du Ve, que la ciste sacrée apparaît pour la première fois aux
main d'Anchise, mais l'origine de cette intaille n'est pas certaine224. La
seconde attestation iconographique de la présence des sacra lors de la
fuite d'Enée est l'amphore de Vulci, datée du début du Ve siècle, où
Creuse porte sur la tête un vase qui pourrait contenir ces sacra225. Il
paraît certain que la légende de la fuite d'Enée est connue en Italie
centrale (Etrurie méridionale et Latium) dès les VI-Ve siècles.
L'introduction de cette légende va se faire peu après que Lavinium
se soit constituée comme centre urbain, et non plus comme ensemble
d'habitats dispersés, ainsi qu'en témoigne l'essor architectural
remarquable du VIe siècle : construction d'une muraille d'enceinte répondant
à un souci stratégique, et non plus seulement défensif 226, qui trouve un

statue de Veiovis a été trouvée dans la zone des autels, ce qui est peut-être une
confirmation de l'hypothèse de C. Koch.
221 Op. cit., p. 22 L
222 voir supra p. 163 sq.
223 Voir supra p. 196.
224 Voir supra p. 197 sq.
225 Voir supra p. 201 sq.
226 C. F. Giuliani-P. Sommella, Compendio. . ., p. 368-370.
308 LES PÉNATES PUBLICS

correspondant à Rome dans la muraille dite de Servius Tullius, datant


de la même époque; édification d'édifices civils, habitations et même
four de potier, adossés à cette muraille227. Mais c'est l'architecture
religieuse qui a laissé les traces les plus remarquables, avec la construction
des premiers autels et d'un édifice utilitaire à proximité de ces
derniers228; des morceaux de terres cuites architectoniques229 permettent
de penser que les premiers éléments du sanctuaire datent du VIe siècle.
De la fin du VIe siècle ou du début du Ve siècle datent aussi le
sanctuaire oriental extra-urbain de Minerve, et celui de Sol Indiges à Tor Vaia-
nica. Or, nous l'avons déjà noté230, ce phénomène n'est pas propre à
Lavinium : un certain nombre de cités du Latium connaissent à la
même époque un essor urbain et architectural comparable.
J. Heurgon a montré231 que les sanctuaires du Latium archaïque
sont le lieu privilégié où s'exprime l'influence du monde grec sur cette
région. La culture grecque y a pénétré par des voies terrestres, mais
aussi maritimes. La situation géographique de Lavinium se prêtait tout
particulièrement à l'introduction dans la cité des influences grecques,
et l'importance de son développement est sans doute liée au rôle
commercial qu'elle a pu jouer. Selon la tradition, Enée aurait débarqué en
un lieu appelé Troia, où Denys d'Halicarnasse232 nous dit qu'il avait
mouillé ses navires, avant d'établir son campement sur le rivage; il y
existait déjà un culte, et, dès le Ve siècle, nous venons de le voir, un
sanctuaire de Sol Indiges. La présence de ce dernier, comme la
localisation en cet endroit du débarquement d'Enée, peuvent faire penser que
ce lieu servait de port à Lavinium, située, elle, un peu à l'intérieur des
terres. C'est là sans doute qu'arrivaient les bateaux en provenance de la
Grèce ou de la Grande-Grèce, c'est grâce à ce port que Lavinium a
connu la civilisation grecque, qui a vraisemblablement contribué à lui
assurer, par l'essor qu'elle lui a imprimé, une place prépondérante
dans le Latium archaïque233. D'autres cités, du reste, se sont trouvées

227 Ibid.
228 Plan et schémas de reconstitution de l'édifice, ibid., p. 262-263.
229 M. Mazzolani, Terrecotte architettoniche, in Lavinium II, p. 175-178.
230 Cf. F. Castagnoli, Les sanctuaires du Latium archaïque, passim.
231 La Magna Grecia e i santuari del Lazio, notamment, p. 9-19.
232 I, 55, 1 ; cf. F. Borner, Rom und Troia, p. 18 sq.
233 Cf. F. Castagnoli, / luoghi connessi . . ., p. 246. J. Heurgon, ibid. ; F. Zevi (Note sulla
leggenda di Enea in Italia, in Gli Etruschi a Roma, Incontro di studio in onore di M. Pallot-
tino, Rome, 1981, p. 154-156) a une vision plus nuancée du rôle portuaire de Lavinium,
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 309

dans des situations analogues, Antium et Ardée, par exemple. Pour


cette dernière, la similitude avec Lavinium est frappante : les deux villes
sont situées à l'intérieur des terres à peu près à la même distance de la
côte, et présentent l'une et l'autre une escale côtière, Troia pour
Lavinium, Castrum Inui pour Ardée.
En tout état de cause, il n'existe, à Lavinium même, aucun
témoignage attestant la présence d'Enée dès le VIe siècle, alors que la vulgate
des origines troyennes de Rome le présente comme le fondateur de la
cité; en revanche, les deux documents iconographiques les plus anciens
montrant Enée et les sacra sont étrusques : pour l'un, le scarabée de la
Collection de Luynes, cette origine n'est que probable234; elle est
certaine pour l'amphore de Vulci, mais, ici, c'est l'identification du doliolum
comme ciste sacrée qui peut être mise en doute, bien que
l'argumentation d'A. Alföldi en faveur de cette identification nous paraisse très
convaincante.
Il s'est instauré dans le monde savant un débat passionné pour
savoir si les origines de la légende d'Enée, et également, des sacra
troyens, sont étrusques ou lavinates. Le partisan le plus convaincu des
origines étrusques est sans douté A. Alföldi dont nous résumons
brièvement ici l'argumentation235. Dans la tradition littéraire grecque, avec
Stésichore et Alcimos, les Etrusques sont présentés comme des
descendants des Troyens, et ce fait se trouve confirmé par l'iconographie,
notamment par l'amphore trouvée à Tragliatella, dans les environs de
Caeré, représentant le Lusus Troiae : on peut y voir, à côté de l'image
de deux jeunes cavaliers, le dessin d'un labyrinthe dans lequel est
écrit le mot Truia, désignation de Troie dans la langue étrusque236; le
mot, ainsi que le rituel du Lusus Troiae, aurait été introduit dans le
Latium par les Etrusques, et serait à mettre en relation avec
l'organisation de la cavalerie dans l'armée romaine sous les rois étrusques. La
présence du thème de la fuite d'Enée dans les vases attiques trouvés en
Etrurie fournit un argument qui va dans le même sens : les peintres

incontestable, admet-il, à l'époque archaïque, plus douteux aux IV-IIIe siècles, ce qui le
conduit à placer l'apparition de la légende du débarquement d'Enée au Latium à une
date haute.
23" Cf. supra p. 198-9.
235 Die Trojanischen Urahnen der Römer, Bale, 1957, p. 14 sq.; thèse reprise dans
Early Rome, p. 278-287 (avec bibliographie de la question p. 278 n. 2).
236 Voir aussi F. Bömer, Rom und Troia, p. 19; F. Castagnoli, La leggenda di Enea nel
Lazio, p. 6.
310 LES PÉNATES PUBLICS

grecs s'adaptaient aux goûts de la clientèle étrusque en représentant


Enée. Mais, pour A. Alföldi, les Etrusques ont donné au personnage
d'Enée, que la tradition grecque présentait seulement comme fuyant
Troie, une nouvelle dimension : par lui, Troie renaîtra, et, pour qu'elle
puisse renaître, il lui faut un fondement divin, la caution religieuse des
sacra Troiana; aussi bien, c'est en Etrurie que ceux-ci sont représentés
pour la première fois, dans les deux documents que nous avons déjà
mentionnés. Sur l'amphore de Vulci, le personnage qu'A. Alföldi
identifie comme Creuse porte sur sa tête un doliolum, dans lequel ce savant
reconnaît le κέραμος Τρωικός mentionné par Timée selon Denys d'Hali-
carnasse, et aussi le vase de terre dans lequel, suivant la tradition
romaine, les Vestales auraient caché les sacra troyens conservés à
Rome lors de l'invasion gauloise. On aurait ainsi, conclut A. Alföldi,
trois «couches chronologiques» de la légende d'Enée comme ancêtre : à
Vulci, à Lavinium (où cette tradition n'est pas antérieure à celle de
Vulci), et enfin à Rome, où elle est imitée de Lavinium237. Enfin, Enée
n'était pas honoré, en Etrurie, dans la seule Vulci; il existait à Véies un
culte du héros troyen. A. Alföldi en cite deux preuves; d'une part, on a
trouvé dans cette cité plusieurs exemplaires d'un même modèle de
statuettes en terre cuite représentant Enée portant Anchise sur ses
épaules; d'autre part, l'acrotère figurant une femme serrant contre elle un
enfant doit être interprété comme le groupe de Creuse et Ascagne238 qui
aurait eu pour pendant un autre groupe, constitué d'Enée et d'Anchise;
cette symétrie, ajoutons-nous, serait tout à fait comparable à celle
qu'offre l'amphore de Vulci, sur laquelle s'opposent les deux mêmes
couples de personnages. Aux yeux d'A. Alföldi, l'adoption d'Enée
comme ancêtre des Latins, à Lavinium notamment, ne serait pas une
donnée originelle de la civilisation de cette cité ou une conséquence des
influences grecques qui ont pu librement s'y exercer par les échanges
maritimes ou commerciaux, mais le résultat de l'hégémonie étrusque
sur l'Italie centrale, et le Latium en particulier : Lavinium, dominée par
les Etrusques, aurait été obligée d'adopter le culte de l'ancêtre
fondateur de ses maîtres, et le culte des sacra troyens à Lavinium, décalque

237 Early Rome, p. 286.


238 M. Pallottino (II grande acroterio femminile di Veto, ArchClass, 2, 1950, p. 122-179)
reste très prudent à propos de cette identification, qu'il présente comme une hypothèse
possible, non prouvée. M. Pallottino avait formulé les mêmes réserves in SE, 26, 1958
p. 336-339 (C. R. de l'ouvrage d'A. Alföldi, Die Trojanischen Urahnen der Römer).
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 311

de celui que connaissaient les cités étrusques, ne serait que l'expression


religieuse d'une domination politique.
G. K. Galinsky239 défend lui aussi la thèse d'une origine étrusque de
la légende d'Enée et des Pénates, mais son argumentation est un peu
différente; en effet, bien qu'elle s'appuie à peu près sur les mêmes
documents littéraires et iconographiques que celle d'A. Alföldi, elle
aboutit à considérer que, si Enée a été connu en Italie comme ancêtre
fondateur d'un certain nombre de cités étrusques, Lavinium n'a pas
servi d'intermédiaire entre l'Etrurie et Rome pour la connaissance de
sa légende. S'appuyant sur la notice d'Hellanicos240 qui fait d'Enée le
fondateur de Rome, il considère que le lien entre Enée et Lavinium
n'est qu'un aspect secondaire de la légende, attesté pour la première
fois au IIIe siècle, dans Y Alexandra de Lycophron; l'adoption d'Enée
comme ancêtre par les Romains est une manifestation de la domination
étrusque sur Rome au VIe siècle, et l'enracinement de la légende
troyenne à Lavinium n'est que le fruit d'une réflexion secondaire241, qui
a assimilé aux composantes de la légende troyenne certains éléments de
la tradition lavinate : Indiges devient Enée, les Dioscures, vénérés à
Lavinium depuis le VIe siècle, comme en témoigne la dédicace trouvée
près d'un des treize autels, sont identifiés aux Pénates étrusco-troyens
vénérés à Rome; cette assimilation s'est faite, selon G. K. Galinsky, au
IVe siècle, au moment où Rome établit définitivement sa domination
sur l'Italie centrale par le traité de 338.
Si cette question est tellement épineuse et controversée, c'est en
partie - et le fait n'a pas échappé à G. K. Galinsky - parce qu'elle
soulève et pose en des termes nouveaux le problème de l'origine des
Etrusques, et plus précisément, ici, de la manière dont les Etrusques
voyaient eux-mêmes leurs origines; leur mère-patrie aurait été l'Asie
Mineure, d'où ils seraient venus avec Enée jusqu'en Etrurie, dans une
migration qui aurait supposé plusieurs étapes, et en particulier une en

239 Aeneas, Sicily and Rome, Princeton, 1969, p. 122-169.


240 In Denys d'Halicarnasse, I, 72, 2.
241 T. J. Cornell {Aeneas' arrival in Latium, Liverpool Classical Monthly, 2, 1977, p. 77-
83) estime que, malgré la présence du personnage d'Enée en Etrurie et les découvertes
archéologiques de Lavinium, la légende de la venue du Troyen au Latium est fort
probablement le fruit des spéculations d'érudits grecs, sans racines véritables dans les
traditions locales ; à Rome, cette légende aurait été tardivement « crée, développée et propagée
par des poètes, des hommes politiques et des professeurs». Cette conception est
violemment contestée par F. Castagnoli (La leggenda di Enea nel Lazio p. 8-9).
312 LES PÉNATES PUBLICS

Sicile, où les Elymes seraient considérés par les Etrusques comme leurs
ancêtres, ou leurs parents. Cependant, il nous semble qu'il faut se
garder de la tentation de vouloir établir la chronologie et l'itinéraire d'une
légende d'Enée, porteur des Pénates et fondateur d'une nouvelle Troie,
dont tous les éléments auraient été donnés dès l'origine; d'autre part,
s'il est certain que l'histoire politique de l'Italie centrale entre le VIe et
le IVe siècle a eu de fortes incidences sur les lieux d'implantation et la
formulation de la légende, il est à l'heure actuelle très difficile de
délimiter exactement, dans le temps et dans l'espace, les apports grecs et
étrusques dans l'élaboration de la civilisation latine242.
Les arguments sur lesquels s'appuie la thèse donnant à la légende
d'Enée en Italie des origines étrusques sont essentiellement d'ordre
iconographique. Or, il faut examiner avec beaucoup de prudence ces
documents. L'amphore de Tragliatella est d'une interprétation délicate,
et G. K. Galinsky, qui en tient pourtant pour une origine étrusque de la
légende d'Enée, conteste qu'il faille voir dans le mot Truia une allusion
à la cité de Priam, et considère au contraire qu'il désigne simplement
une place fortifiée243, en notant d'autre part que le sens de l'ensemble
des scènes représentées reste mystérieux, et que certaines sont
manifestement erotiques. La datation du scarabée étrusque de la Collection de
Luynes, comme des statuettes de Véies, est également très discutée.
M. Pallottino244 reconnaît dans les caractères stylistiques de l'intaille
une expression de l'art tardo-archaïque du début du Ve siècle, tandis
qu'il propose le milieu du Ve siècle pour le groupe de terre cuite
représentant Enée et Anchise; enfin, les acrotères de Véies, si tant est que
l'on puisse admettre (ce que le savant italien, nous l'avons rappelé,
conteste par ailleurs) que l'un d'eux représentait Enée et Anchise,
datent du Ve siècle. De la sorte, nous semble-t-il, on arrive assez bien à
se représenter l'histoire du thème iconographique de la fuite d'Enée en
Etrurie : dans la seconde moitié du VIe siècle, comme l'atteste la
découverte des 17 vases attiques traitant ce sujet, les ateliers grecs font
connaître la figure d'Enée, qui est ensuite reprise, vers le début du Ve
siècle, par les artistes locaux. Il n'y a donc pas coïncidence, ainsi que le

242 Cf. l'ensemble des études contenues dans Lazio arcaico et mondo greco, PP, 32,
1977.
243 Aeneas, Sicily and Rome, p. 121-122, et p. 122 n. 47 pour la bibliographic
244 Compte rendu de l'ouvrage d'A. Alföldi, Die Trojanischen Urahnen der Römer, in
SE, 26, 1958, p. 336-339.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 313

souligne fortement M. Pallottino, entre le moment où le thème d'Enée


est en vogue dans l'art étrusque, et celui de la domination étrusque sur
l'Italie centrale; la présence du thème, du reste assez brève (une
cinquantaine d'années semble-t-il), correspond au contraire à l'époque où
Rome et le Latium échappent à l'hégémonie de l'Etrurie et où
s'effondre cette dernière245.
Ainsi l'archéologie apporte des preuves assez fragiles de la
primauté de l'Etrurie dans la diffusion de la légende d'Enée. Il faut être
prudent dans les conclusions que l'on peut tirer de la présence du
personnage d'Enée en Etrurie à la fin de l'époque archaïque. M. Pallottino246
met en garde contre la tentation de déduire de l'existence des
représentations d'Enée celle d'un culte local des Enéades : les statuettes d'Enée
et d'Anchise peuvent fort bien être des ex-voto parmi d'autres,
nombreux et variés, sans qu'ils aient tenu une place privilégiée; de plus,
même si l'on admet que le modèle de ce groupe constituait un acrotère
brisé du temple de Véies, «cela ne voudrait pas dire qu'Enée avait un
culte, étant donné que la décoration architectonique des édifices sacrés
offre presque toujours des thèmes totalement indépendants de la
destination religieuse spécifique du monument»247. Aussi faut-il éviter le
danger, signalé par le savant italien comme par J. Perret248, de passer
d'une légende à une autre, et de croire que, parce qu'Enée était connu
dans le monde étrusque, il y était vénéré comme, ancêtre fondateur,
Y Aeneas Penatiger que nous présente la tradition romaine de l'époque
augustéenne. Rien n'indique qu'Enée ait bénéficié en Etrurie d'un culte
national249, ni qu'il y ait été considéré comme l'ancêtre divinisé, ce qui
relève d'ailleurs plutôt des conceptions grecques. Notons aussi que,
parmi les héros de l'épopée troyenne connus des Etrusques, Ulysse

245 G. Dury-Moyaers (op. cit., p. 173) aboutit à une conclusion analogue: «Si les
Etrusques ont reçu le personnage d'Enée dès la fin du VIe siècle, ils ne l'ont intégré à leur
culture que durant la première moitié du Ve siècle. C'est seulement à partir de ce
moment qu'ils sont susceptibles de l'avoir transmis aux Latins. Or à cette époque,
l'influence étrusque dans le Latium diminue, et l'on voit mal les Latins accueillir un héros
«vénéré» par ceux dont ils essaient de limiter l'influence sur leurs territoires».
246 Ibid.
247 Op. cit., p. 338.
248 Rome et les Troyens, REL, 40, 1971, p. 41-43; la même idée est exprimée chez un
certain nombre de critiques : cf. J. Poucet, op. cit., II, p. 181, n. 77.
249 Cf. J. Perret, Rome et les Troyens, p. 43 ; T. J. Cornell, Aeneas and the Twins,
PCPhS, 201, 1975 p. 13; F. Castagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, p. 3-4.
314 LES PÉNATES PUBLICS

semble avoir tenu une place aussi importante que celle d'Enée250.
Enfin, un certain flottement dans le traitement iconographique du thème
donne à penser que le personnage d'Enée, dont le nom ne figure du
reste dans aucun document étrusque archaïque, n'avait pas en Etrurie
l'importance qu'A. Alföldi et G. K. Galinsky veulent lui accorder : le
type, assez grossièrement façonné, quoique émouvant, des statuettes de
Véies, où les sacra ne figurent pas aux mains d'Anchise, est très
différent de celui du scarabée, d'une facture fine et d'un modelé délicat, et
sur lequel apparaît pour la première fois la ciste tenue par Anchise251.
Nous sommes donc en face de deux faits troublants : d'une part,
l'absence d'attestations de la légende d'Enée à Lavinium avant le IVe
siècle, d'autre part la présence de cette légende en Etrurie dès la fin du
VIe siècle ou le début du Ve siècle. Nul doute en tout cas - et les vases
attiques importés en témoignent - que la légende soit apparue en Italie
centrale sous l'influence de la Grèce. L'absence de documents
iconographiques ne prouve d'ailleurs pas que la légende d'Enée, non comme
héros fondateur, mais comme rescapé de la Guerre de Troie, ait été
inconnue à Lavinium à l'époque archaïque. Il faut, plutôt que de
chercher à assigner une primauté à telle ou telle influence, se représenter la
civilisation du Latium comme une «koinè culturelle», suivant
l'expression de J. Poucet252. Au VIe siècle, le personnage d'Enée est introduit en
Italie, mais peut-être simultanément dans le Latium et en Etrurie
méridionale253, parmi beaucoup d'autres éléments de la culture grecque.
J. Heurgon254 a insisté sur l'importance jouée par le trafic maritime sur
ces côtes, trafic qui a permis la pénétration de la civilisation grecque :
les villes portuaires ont naturellement joué un rôle de premier plan
dans ce processus, parmi lesquelles Caeré pour l'Etrurie méridionale,
et Lavinium pour le nord du Latium. Les navigateurs, remarque

250 Cf. F. Borner, Rom und Troia, p. 23 sq.


251 G. Dumézil se fonde sur l'étude d'une bouche de bronze trouvée à Castel de
Decima et représentant peut-être Anchise (cf. A. Bedini, L'ottavo secolo nel Lazio e l'inizio
dell'orientalizante antico, in PP, 32, 1977, p. 297 sq.) pour supposer que le personnage
d'Enée a été connu dans le Latium dès la fin du VIIe siècle, et que, loin d'être un apport
des Etrusques, il appartient au «patrimoine latin» et a été utilisé pour exalter le
nationalisme latin contre eux {Anchise foudroyé? dans L'oubli de l'homme et l'honneur des dieux,
Paris, 1985, p. 160-61; hypothèse déjà formulée dans La Religion romaine archaïque,
p. 317; voir aussi G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 175-79; cf. supra p. 238 n. 101.
252 Ibid., I, p. 600.
253 M. Pallottino, ibid.
254 La Magna Grecia e i santuari del Lazio, p. 12-19.
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 315

J. Heurgon, venaient souvent de la Chalcidique, et arrivaient sur la côte


tyrrhénienne après avoir fait escale en Grande-Grèce255. Or, en ce qui
concerne précisément la diffusion de la légende d'Enée, on sait que
selon certains auteurs, notamment Hellanicos256, Enée, après son
départ de Troie, aurait fait, dans son errance, une étape en Chalcidique
dans la ville de Pallènè; la ville d'Aineia, dont il était considéré comme
le fondateur et à laquelle il a donné son nom, a frappé au VIe siècle des
tétradrachmes représentant la fuite du héros portant son père,
accompagné de deux autres personnages, sans doute Creuse et Ascagne257. On
s'explique ainsi assez bien que cette légende soit arrivée en Etrurie,
mais probablement aussi dans le Latium : Caeré et Lavinium sont
distantes d'une cinquantaine de kilomètres.
Peut-être d'autres facteurs ont-ils, dès le VIe siècle, facilité
l'introduction de la légende d'Enée à Lavinium. Les trois plus anciens des
treize autels ont été construits au VIe siècle, et nous avons vu qu'on
avait retrouvé des traces d'édifices y attenant, eux aussi datables de
l'époque archaïque. L'hypothèse, soutenue par F. Castagnoli258 nous
paraît la plus vraisemblable, suivant laquelle cet ensemble serait l'Aphro-
disium fédéral des Latins, mentionné par ailleurs dans les sources
littéraires259. La présence de Vénus- Aphrodite en ce lieu, situé dans la zone
comprise entre l'oppidum de Lavinium et la mer, a pu contribuer au
succès de la légende d'Enée que l'épopée grecque présentait comme le
fils de Vénus et d'Anchise; dans l'annalistique romaine du reste, chez
Cassius Hemina en particulier, ce lien sera exploité jusqu'à faire d'Enée
l'initiateur du culte de sa mère à Lavinium : ibi (= in agro Lamenti)
dum simulacrum, quod secum e Sicilia aduexerat, dedicai Veneri mairi
quae Fruits dicitur260. Sans aborder ici le problème des origines du culte
de Vénus dans le Latium261, rappelons que cette épiclèse de Fruits,
employée uniquement ici et chez Festus262, reste mystérieuse : les
interprétations les plus probables sont soit une déformation étrusque

255 Cf. aussi G. Vallet, Rhégion et Zancle, Paris, 1958, p. 309 sq.
256 In Denys d'Halicarnasse, I, 47, 6 et 48, 1.
257 Voir ci-dessus, p. 197.
258 Lavinium I, p. 110-111; Lavinium II, p. 5.
259 Strabon V, 3, 5; Cassius Hemina cité par Solin, II, 14.
260 Cassius Hemina, in Solin, II, 14.
261 R. Schilling, {La religion romaine de Vénus, 2e éd., Paris, 1982, p. 83-84) reconnaît
à Lavinium un rôle de premier plan dans la diffusion du culte.
262 80 L.
316 LES PÉNATES PUBLICS

d"A(ppoÔÎTT| 263 soit une adaptation en latin du grec πρύταννις264,


appellation signifiant «souveraine» et souvent appliquée aux grands dieux en
Grèce265. On ignore également à quelle date elle apparaît à Lavinium,
mais si on se rallie à une interprétation «étrusque» du mot, il faut la
rapporter au VIe siècle. De toute façon, et quelle que soit l'étymologie
proposée, le mot paraît l'illustration même, dans le domaine religieux,
de la «koinè culturelle» où se mêlent traditions locales, influences
étrusques, importations grecques. Enfin, dernier élément qui explique
peut-être le succès de la légende d'Enée à Lavinium, cette cité semble
être dès le début de l'époque archaïque, et surtout au VIe siècle, comme
nous l'avons vu par la floraison de l'architecture religieuse, un centre
cultuel important, abritant non seulement des cultes locaux, mais
également un sanctuaire fédéral, et probablement aussi le lieu d'une
activité commerciale qui explique sa prospérité. Une autre raison, enfin, est
peut-être d'ordre toponymique, mais elle est très controversée. Nous
avons vu qu'il existait sur la côte, un peu au nord de Lavinium, un lieu
appelé Troia, port de Lavinium, semble-t-il, que l'on présentait comme
le lieu du débarquement d'Enée. Reste à savoir si l'endroit fut appelé
Troia à cause de la légende d'Enée, ou si c'est au contraire l'existence
très ancienne de ce toponyme qui a aidé à la fixation de la légende.
Aucune étymologie sûre n'a été proposée pour ce nom266, et nous avons
indiqué que l'interprétation de l'amphore de Tragliatella portant le mot
Truia était fort délicate. On a songé aussi à rapprocher ce nom du
Lusus Troiae romain267. Peut-être l'élément le plus positif en faveur
d'une antériorité du toponyme sur la légende de la venue des Troyens
serait-il l'existence de ce même nom non loin de Lavinium, entre Lanu-
vium et Antium268.

263 R. Schilling, op. cit., p. 76-83.


264 F. Castagnoli, Lavinium I, p. 106 n. 7.
265 L'explication de Frutis comme signifiant «la Phrygienne» a été défendue par
S. Ferri (SCO, 1960, p. 167-169) et G. Pugliese Carratelli (Lazio, Roma e Magna Grecia
prima del secolo quarto a.C, PP, 32, 1968, p. 321-347).
266 F. Castagnoli, Lavinium I, p. 92-93.
267 F. Castagnoli (op. cit., p. 93 η. 5) propose avec prudence un très ingénieux
ensemble de rapprochements entre le Lusus Troiae et la légende de l'arrivée d'Enée, par
l'intermédiaire du rituel de YEquus October. Mais rien ne permet de dire à coup sûr quels
étaient les éléments préexistants.
268 Cicéron, Ad AU. IX, 9, 4; 13, 6; cf. F. Castagnoli (op. cit., p. 93 n. 4) pour la
mention de ce nom à Ardée chez Stéphane de Byzance, résultat d'une mauvaise interprétation
d'un texte de Denys. Revenant récemment sur ce problème (La leggenda di Enea nel
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM 317

A la fin de l'époque archaïque, donc, rien n'indique que la légende


d'Enée avait atteint à Lavinium la forme illustrée par la littérature
latine classique. Nous pensons au contraire que si Enée y est connu - ce
qui n'est pas prouvé, mais possible -, c'est, comme chez ses voisins
étrusques, en tant que personnage du cycle homérique, encore très
proche des poèmes du cycle troyen : un héros fugitif, chargé d'espérances
dont la réalisation reste vague. Il n'est, dans le Latium du VIe siècle, ni
porteur des Pénates, ni ancêtre fondateur, non plus d'ailleurs qu'en
Etrurie. Ce qui va donner sa formulation définitive à la légende des
origines troyennes de Lavinium, c'est l'enracinement de la tradition de
l'épopée grecque, du reste assez pauvre en ce qui concerne le
personnage d'Enée, dans la culture et les croyances locales, qui vont être
modifiées sous l'effet des influences grecques et étrusques. La conception
grecque du héros fondateur va modifier l'idée que les habitants
pouvaient se faire des origines de leur cité; de même, les sacra que Stési-
chore semblait avoir placés entre les mains d'Anchise, et qui figurent
aussi sur le scarabée de la Collection de Luynes, ont pu être mis en
relation avec des dieux locaux appelés Penates, symbolisant ainsi, sur le
plan religieux, la résurrection de Troie; enfin, l'histoire du Latium
archaïque, des rivalités entre les cités qui le composent, de leurs liens,
de leur coalition contre Rome, écrasée par cette dernière en 338 avant
J.-C, contribue à expliquer à la fois la transformation des Pénates de
Lavinium et l'extraordinaire succès de la légende à' Aeneas penatiger à
Lavinium et à Rome.

Lazio, p. 9), F. Castagnoli estime que le toponyme est une conséquence de l'introduction
de la légende d'Enée, et non l'inverse.
CHAPITRE IV

ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM

La légende du transfert des sacra en Italie par Enée légitime les


prétentions des Romains à être les héritiers des Troyens, en même
temps que celles de la Gens Iulia à exercer le pouvoir suprême. Au 1er
siècle avant J.-C, où cette légende connaît un grand succès, Lavinium
est considérée par les Romains comme la cité-mère de Rome, puisque
cette dernière lui doit non seulement les ancêtres du fondateur
Romulus, mais aussi les cultes qui constituent la base de la religion publique,
et notamment celui des Pénates. C'est ainsi que la présente Varron dans
un texte déjà cité : Oppidum quod primum conditum in Latio stirpis
Romanae, Lauinium : nam ibi dii Penates nostri1. Denys d'Halicarnas-
se souligne aussi ce caractère de métropole religieuse de Lavinium : την
μητρόπολιν ημών Λαουίνιον2 dit Véturie à Coriolan dans le long
discours qu'elle adresse à son fils pour le détourner de se battre aux côtés
des Volsques contre Rome qui l'a exilé. Elle lui rappelle qu'exilé, lui
aussi, à cause d'injustes soupçons, Tarquin Collatin n'en a pas eu de
ressentiment contre sa patrie, mais a fini ses jours à Lavinium,
présentée dans les termes cités ci-dessus comme une seconde patrie, et,
mieux, comme la patrie originelle de tout Romain.
Nous voudrions montrer ici que cette légende de la filiation entre
Lavinium et Rome, solidement établie au Ier siècle avant J.-C, a sans
doute trouvé une formulation à peu près définitive trois siècles plus tôt.
Nous avons vu, dans le précédent chapitre, que deux séries de faits ont
préparé l'établissement de cette légende : d'une part, il a existé sans
doute très anciennement à Lavinium des divinités latines appelées
Pénates, d'autre part, des éléments spécifiques du site et de la civilisation
lavinates ont favorisé l'implantation de la légende d'Enée; ce personna-

1 De L.L. V, 144.
2 VIII, 49, 6.
320 LES PÉNATES PUBLICS

ge apparu en Italie centrale dès le VIe siècle contenait des virtualités


qui l'ont fait choisir, de préférence à tel autre, comme ancêtre
légendaire des Romains. C'est, nous semble-t-il, au IVe siècle, que s'est
produite la fusion de tous les éléments qui allaient constituer la légende
des origines troyano-lavinates de Rome, dont l'expression est sensible à
Lavinium même, mais aussi dans les relations qui vont s'établir à cette
date entre Lavinium et Rome.

I - L'établissement à Lavinium de la légende d'Enée


COMME ANCÊTRE FONDATEUR

Le IVe siècle marque une étape décisive dans l'histoire de Lavinium


et de ses cultes, et dans le développement de la légende des origines
troyennes de la cité. L'essor de cette dernière a pour pivot la nouvelle
dimension prise par le personnage d'Enée à Lavinium.

1) Développements architecturaux

La tombe orientalisante à tumulus du VIIe siècle, rouverte au VIe


siècle, a été complètement remodelée à la fin du IVe siècle3, datation
suggérée par la céramique qu'on y a retrouvée4. Au-dessus du caisson
de la tombe archaïque, on construisit une cella carrée, sans pavement,
à laquelle on accédait par une sorte de vestibule rectangulaire à antes,
construit dans le tumulus, fait de blocs de tuf assemblés en opera
quadrata, et lui-même composé de deux parties; l'un de ses côtés ouvrait
sur l'extérieur du tumulus, formant une sorte de pronaos, l'autre
communiquait avec la cella par une fausse porte en tuf à deux battants
décorés de panneaux sculptés, dont on a retrouvé celui de droite5. Les
détails de cette construction, qui l'apparentent à un sacellum, ainsi que
le fait que la cella soit fermée par une porte scellée, permettent
d'identifier ce monument comme un cénotaphe, et de penser qu'il avait une
destination cultuelle, comme l'attestent les nombreux petits vases
trouvés dans le pronaos. D'autre part, deux détails montrent que la cons-

3 C. F. Giuliani-P. Sommella, Lavinium. : Compendio dei documenti archeologici, PP,


32, 1977, p. 366-368.
4 P. Sommella, Heroon di Enea a Lavinium, RPAA, 44, 1971 72, p. 52 et fig. 6 et 7.
5 Op. cit., p. 51, fig. 5.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 321

truction du IVe siècle ne s'est pas simplement superposée aux restes


d'une tombe ancienne avec laquelle elle n'aurait eu aucun rapport; P.
Sommella6 souligne qu'au contraire la cella, construite au-dessus de la
tombe ancienne, est en partie appuyée sur elle; de plus, le caisson
archaïque se trouve au centre du nouvel édifice, qui semble donc
s'ordonner autour de lui, et on a découvert, à la même profondeur que le
fond de la tombe, un cratère à cloche daté du IVe siècle, qui, selon
l'explication la plus probable, a été placé là lors du remaniement de
l'édifice à cette époque. P. Sommella7 croit pouvoir identifier dans ce
monument l'Hérôon d'Enée évoqué par Denys d'Halicarnasse : au cours du
combat entre Enée et Mézence, le Troyen disparaît sans que l'on ait pu
retrouver son corps; ses compagnons pensent donc soit qu'il est allé
rejoindre les dieux, soit qu'il est tombé dans la rivière près de laquelle a
eu lieu la bataille; on construit en son honneur un Hérôon, dont Denys
dit : εστί δε χωμάτιον ού μέγα και περί αυτό δένδρα στοιχηδον πεφυκότα
θέας άξια8. Denys a sans doute vu personnellement ce tumulus; P.
Sommella en veut pour preuve le détail ού μέγα, et, de même, F.
Castagnoli a pu montrer que les indications données par Denys
correspondent à des réalités précises de la topographie et de l'architecture lavina-
tes9. Denys ajoute qu'on pouvait lire sur la tombe une inscription qu'il
transcrit ainsi : Πατρός θεού χθονίου, ος ποταμού Νομίκιου ρεΰμα
διέπει10; l'inscription latine, elle, n'a pas été retrouvée par les
archéologues. Bien évidemment, cette identification n'est qu'une hypothèse,
dont J. Poucet11 souligne avec vigueur les difficultés. Il n'existe, selon
lui, aucune preuve décisive que le monument en question est bien celui
dont parle Denys d'Halicarnasse, puisqu'on n'a pas retrouvé
l'inscription dédicataire; J. Poucet ajoute que, quand bien même ce monument

6 Op. cit., p. 70-71.


7 Ibid. ; id., Das Heroon des Aeneas und die Topographie des antiken Lavinium,
Gymnasium, 81, 1974, p. 273-304; de même, G. Κ. Galinsky, The «Tomb of Aeneas» at Lavi-
nium, Vergilius, 20, 1974, p. 2-11; CF. Giuliani, Santuario delle Tredici are. Heroon di
Enea, in Enea nel Lazio, Catalogue de l'Exposition, Rome, 1981, p. 172-175.
8 I, 64, 4: «C'est un tumulus relativement petit, autour duquel ont été plantés des
arbres en rang régulier, qui valent d'être vus».
9 / luoghi connessi con l'arrivo di Enea nel Lazio, ArchClass, 19, 1967, p. 244; c'est
ainsi que F. Castagnoli a pu identifier l'antique Numicus comme l'actuel Fosso di
Pratica; voir ci-dessus, p. 297-8.
10 Ibid. ; voir ci-dessus, p. 299 sq.
11 Le Latium protohistorique et archaïque à la lumière des découvertes archéologiques
récentes, II, AC, 47, 1978, p. 181-182.
322 LES PÉNATES PUBLICS

serait celui qu'a vu Denys, l'inscription ne comporte pas la mention du


nom d'Enée; Denys peut donc fort bien rapporter, en toute bonne foi,
ce que probablement lui ont dit les habitants (que cette tombe est celle
d'Enée), sans que pour autant cette désignation remonte au IVe siècle;
elle peut refléter simplement la légende des origines troyennes telle
qu'elle était connue au Ier siècle avant J.-C, et de plus, aucun texte
littéraire antérieur au Ier siècle n'atteste l'identification d'Enée à Indiges12.
Il n'existe, en effet, aucune preuve irréfutable du fait que l'hérôon
découvert récemment est celui qu'a vu Denys, ni de témoignage de
l'assimilation d'Enée à Indiges au IVe siècle. Cependant, à l'appui de
l'hypothèse avancée par P. Sommella, nous voudrions rappeler ici une
série de faits dont aucun ne constitue une preuve déterminante de son
bien-fondé, mais dont la convergence n'est pas sans intérêt. A ce jour,
on n'a découvert aucune autre tombe à tumulus sur le site de
Lavinium, ce qui ne constitue pas en soi un argument suffisant, mais il faut
tout de même remarquer que l'hérôon découvert en 1963 devait être,
dans ce que l'on peut reconstituer de son état au IVe siècle, dédié à un
personnage de toute première importance dans la vie et dans l'histoire
de la cité13. D'autre part, P. Sommella accorde, à juste titre croyons-
nous, une grande importance au fait que la tombe à caisson du VIIe
siècle est restée, en quelque sorte, au cœur de l'édifice du IVe siècle,
comme il a été noté plus haut; ce qui se manifeste ainsi, c'est une
tentative des constructeurs du IVe siècle pour «mettre l'hérôon, ou le culte
qui y était pratiqué, en rapport avec la tombe protohistorique»14.
En outre, le monument se trouve à une centaine de mètres au sud-
est du sanctuaire des Treize autels. Il y a lieu de penser, étant donné
l'importance de ce complexe architectural, qu'il existait une relation
entre lui et l'hérôon. Or le sanctuaire a toutes les chances d'être

12 G. Dury-Moyaers (Enée et Lavinium. A propos des découvertes archéologiques


récentes, Coll. Latomus, vol. 174, Bruxelles, 1981, p. 212 n. 163) est elle aussi très réticente
pour admettre que la tombe à tumulus est bien celle d'Enée. J. Heurgon {La thèse de
Jérôme Carcopino et les fouilles actuelles sur le territoire des Laurentes, in Hommage à la
mémoire de J. Carcopino, Paris, 1977, p. 172) note que si le monument avait été élevé pour
Enée, l'inscription n'eût pas manqué de comporter son nom, mais rappelle toutefois la
présence de l'inscription de Tor Tignosa, contemporaine de l'hérôon. Cf. ci-dessous,
p. 332 sq. T. J. Cornell {Aeneas'arrival in Italy, Liverpool Classical Monthly, 2, 1977, p. 80-
83) nie cette identification, que F. Castagnoli {La leggenda di Enea nel Lazio, StudRom, 30,
1982, p. 13 n. 64) a, récemment encore, vigoureusement défendue.
13 Heroon di Enea a Lavinium, p. 62-63.
14 Op. cit., p. 71.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 323

Y Aphrodisium fédéral mentionné par Strabon15. Aussi est-on tenté de


trouver dans la proximité géographique du sanctuaire et de l'hérôon
une expression de la relation de filiation qu'établit la légende entre
Vénus et Enée. De plus, si l'hérôon est daté du IVe siècle, c'est à cette
époque aussi, nous l'avons vu dans le précédent chapitre, que
l'architecture du sanctuaire reçoit une nouvelle impulsion, avec l'achèvement
de la rangée des autels : les autels X, XI, XII, et l'autel IX reconstruit,
sont posés sur une seule plate-forme, donnant ainsi à l'ensemble
l'aspect d'un alignement continu16. Entre autres conclusions que l'on peut
en tirer, il y a sans doute une nouvelle signification, ou une importance
accrue, donnée à la divinité dédicataire, Vénus, croyons-nous.
L'hypothèse suivant laquelle l'hérôon tout proche serait celui d'Enée serait
ainsi étayée par une coïncidence chronologique entre l'essor du
sanctuaire et la nouvelle dimension donnée par les Lavinates au personnage
d'Enée, promu au rang d'ancêtre divinisé. Il nous paraît y avoir là une
cohérence entre les phases architecturales du monument et les étapes
de la constitution de la légende d'Enée.

2) Aeneas Indiges

Nous avons vu17 comment le nom d'Indiges, qui désignait sans


doute originellement une divinité solaire, avait été interprété par les
auteurs grecs comme signifiant «ancêtre fondateur». Que cette notion
n'ait pas été, dès le IVe siècle, appliquée à Enée, c'est éminemment
probable. Il n'en reste pas moins qu'à partir du Ier siècle avant J.-C, l'épi-
thète Indiges désigne Enée divinisé, dans des formulations assez variées
du reste. En effet Enée est, soit désigné seulement comme Indiges18,
soit comme Aeneas Indiges19, comme deus Indiges20, comme Pater
Indiges21, soit encore comme Iupiter Indiges22. Pourquoi cette assimilation
d'Enée à une divinité adorée à Lavinium dont le nom reste mystérieux?

15 V, 3, 5. Voir ci-dessus p. 315.


16 C. F. Giuliani-P. Sommella, Compendio. . . p. 355-359. Voir ci-dessus, p. 229 sq.
17 Voir ci-dessus, p. 306.
18 Ovide, Met. XIV, 608; Paulus-Festus, 94 L; Gell., II, 16, 9.
19 Virgile, En. XII, 794; Schol. de Vér., Ad Aen. I, 259; Martianus Capella, VI, 637.
20 Tibulle, II, 5, 49.
21 CIL, X, 8348; Origo Gent. Rom., 14, 4; Solin, II, 14.
22 Liv., I, 2, 6; Servius-Daniel, Ad. Aen. I, 259.
324 LES PÉNATES PUBLICS

Sans doute la notion d'Indiges a-t-elle connu ce que R. Schilling23


appelle «une période de flottement» entre le culte proprement solaire
et l'assimilation à Enée : elle était à la fois vague et prestigieuse, prête
donc à accueillir un personnage à qui était attribuée la fondation de
Lavinium. Nous avons noté qu'un certain nombre d'éléments de la
légende d'Enée font apparaître des parentés entre Enée et Indiges, en
raison de l'importance donnée au Soleil pour sauver la vie d'Enée et de
ses compagnons, et aussi du rôle joué par l'eau. Si de plus, comme
nous le croyons, l'influence grecque a introduit à Lavinium la notion
d'ancêtre fondateur24 et que cette dernière s'est plus ou moins fixée
sur le vieux terme d'Indiges, il y a là un élément supplémentaire qui a
facilité l'assimilation avec Enée25. Cela suppose un changement dans la
conception du personnage du Troyen : nous avons vu qu'au VIe siècle, il
était seulement l'un des protagonistes de la Guerre de Troie; le motif
iconographique de sa fuite - le motif littéraire aussi, chez Stésichore -
n'est que l'un de ceux que l'Italie a hérités de la Grèce, mais il semble
avoir connu une certaine vogue en Etrurie et en Italie centrale. Au
contraire, Y Aeneas Indiges que mentionne la littérature à partir du Ier
siècle est l'ancêtre fondateur divinisé.
Il existe des liens étroits entre le Numicus, nettement rattaché par
une inscription, Numice Lauinas26, à la ville de Lavinium, et Enée. A ce
fleuve est associé le souvenir du dernier combat mené par Enée contre
Mézence, roi des Etrusques et allié des Rutules27. Denys d'Halicarnasse
désigne le Numicus comme le fleuve παρ' ον ή μάχη έγένετο28, et ì'Origo
Gentis Romanae situe près du Numicus le rassemblement de l'armée
d'Enée : Aeneam copias in aciem produxisse circa Numici fluminis sta-
gnum29. Après la bataille, on ne retrouve plus le corps d'Enée. Servius,
citant un passage de Caton, rapporte qu'Enée est tombé dans le fleuve
au moment où il accomplissait un sacrifice : uictor Aeneas cum sacrifi-
caret super Numicum fluuium lapsus est30; on a retrouvé son cadavre

23 Le culte de findiges à Lavinium, REL, 57, 1980, p. 67.


24 B. Liou-Gille, Cultes «héroïques» romains. Les fondateurs, Paris, 1980, p. 7-13.
25 Cf. I. Cazzaniga, // frammento 61 degli Annali di Ennio, PP, 19, 1974, p. 370.
26 CIL XIV, 2065.
27 Voir C. Cogrossi, Alena Iliaca e il culto degli eroi, in Politica e religione nel primo
scontro tra Roma e l'Oriente, Milan, 1982, p. 79 sq.
28 I, 64, 4.
29 14, 4.
30 Ad Aen. IV, 620.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 325

dans le fleuve, qui lui a alors été consacré, indique ailleurs Servius : in
quo (= le Numicus) repertum est cadauer Aeneae et consecration31. Tite-
Live mentionne la mort d'Enée au même endroit et dans les mêmes
circonstances, en ajoutant que le Troyen a été enterré, ou qu'on lui a
construit un cénotaphe, près du Numicus, où il est vénéré sous le nom de
Jupiter Indiges : situs est (= Enée mort)... super Numicum f lumen :
louent Indigetem appellant32; toutefois, Tite-Live refuse de reprendre
tout à fait à son compte cette apothéose et même le nom sous lequel on
désigne le Troyen mort (quemcumque eum dici ius fasque est)33; Denys
d'Halicarnasse donne davantage de précisions34: quand la nuit qui a
séparé les deux armées fait place au jour, et que les Troyens constatent
la disparition d'Enée, certains expliquent ce fait comme une apothéose
(οί μεν είς θεούς μεταστήναι εϊκαζον), d'autres pensent qu'Enée est
tombé dans le fleuve (οί δ' έν τω ποταμφ. . . διαφθαρήναι). Mais surtout,
indépendamment du fleuve qui garde présent le souvenir du héros
divinisé, les compagnons d'Enée construisent en son honneur un hérôon
qui exprime clairement l'identification du mort avec le Numicus,
puisqu'on pouvait y lire, selon Denys, l'inscription suivante : Πατρός θεοϋ
χθονίου, ος πόταμου Νομικίου ρεΰμα διέπει35. L'étranger Enée est donc
assimilé, après sa mort, au lieu même où il a fini sa vie, identifié au
fleuve le plus important de la région de Lavinium. C'est non pas
identifié au fleuve, mais associé à lui, qu'il est représenté sur la ciste Pasinati
de Préneste36: Enée est au centre de la scène, en haut, symétrique
d'une divinité fluviale allongée en bas, dans laquelle on reconnaît le
Numicus; le dieu tient à la main une gerbe de roseaux, qui rappelle le

31 Ad Aen. VII, 150.


32 I, 2, 6.
33 Ibid. : «quelque qualité qu'on doive humainement ou religieusement lui
reconnaître» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1958).
34 I, 64, 4.
35 Voir ci-dessus, p. 299 sq. Le lien entre Indiges et le Numicus fait apparaître
comme aberrante, nous semble-t-il, la tradition rapportée par Denys (I, 64, 5) selon laquelle
on disait aussi que cet hérôon avait été édifié par Enée en l'honneur d'Anchise : Anchise,
dans la plupart des versions de la légende, n'est pas venu jusqu'au Latium, et il n'existe
pas de lien entre lui et les eaux du Numicus.
36 Pour la discussion sur l'authenticité de cette ciste, cf. A. Alföldi, Early Rome and
the Latins, Ann Arbor, 1964, p. 257 n. 2.
326 LES PÉNATES PUBLICS

caractère marécageux de la région, souligné par ailleurs dans les


témoignages littéraires37.
Mais cette relation privilégiée entre Enée et l'eau, nous la
retrouvons dès les premiers pas que fait le héros sur la terre italienne, dans le
récit qu'en fait Denys : επειδή γαρ ορμώ χρησάμενοι τω Λαυρέντω σκη-
νάς έπήξαντο περί τον αίγιαλόν, πρώτον μεν πιεξομένοις τοις άνθρώποις
ύπό δίψης ούκ έχοντος ΰδωρ του τόπου (λέγω δε ά παρά των εγχωρίων
παρέλαβον) λιβάδες αυτόματοι νάματος ήδίστου έκ γης άνελθοΰσαι
ώφθησαν, έξ ών ήτε στρατιά πάσα ύδρεύσατο και ό τόπος περιγυϊος έγέ-
νετο μέχρι θαλάττης καταβάντος άπό των πηγών του ρεύματος38. Ce
miracle de l'eau douce, surgie de terre, sauvant la vie des Troyens une
nouvelle fois menacée, est reconnu comme tel par Enée, qui va
s'empresser d'en remercier les dieux : νυν μέντοι ούκέτι πλήθουσιν ώστε και
άπορρειν αί λιβάδες, άλλ' εστίν ολίγον ύδωρ έκ κοίλω χωρίω συνεστηκός,
λεγόμενον ύπο τών εγχωρίων ιερόν ηλίου· και βωμοί δύο παρ' αύτω δείκ-
νυνται, ό μέν ανατολάς τετραμμένος, ό δέ προς δύσεως, Τρωικά
ιδρύματα, έφ' ών τον Αίνείαν μυθολογοΰσιν πρώτην θυσίαν ποιήσασθαι τω θεώ
χαριστήριον τών υδάτων39. Un élément du récit de Denys nous semble
remarquable : l'historien se fait l'écho d'une tradition locale, d'une
légende qu'il a recueillie des habitants mêmes de Lavinium. Or, la
tradition associe au thème de l'arrivée d'Enée en Italie celui de sa pietas,
attestée par son souci d'honorer le dieu qui a opéré le miracle, en lui
construisant deux autels sur lesquels il a procédé au premier sacrifice
en terre italienne; c'est le surgissement de l'eau qui a été à la fois le
signe de la prédilection marquée par les dieux à Enée, et l'occasion
pour le héros d'exercer sa piété. D'autre part, ce lieu est clairement
rattaché par la tradition locale au souvenir du débarquement des Troyens;
dans notre passage, les autels sont qualifiés de Τρωικά ιδρύματα, et un

37 Par exemple, Orig. Gent. Rom. 10, 12, 4 : peruenisse (Aenean) ad duo stagna aquae
salsae uicina inter se.
38 I, 55, 1 : «Lorsqu'ils eurent jeté l'ancre à Lavinium et qu'ils eurent monté leurs
tentes près du rivage, avant toute chose, les hommes torturés par la soif - car l'endroit ne
possédait pas d'eau douce (je dis ce que j'ai appris des habitants), virent surgir
spontanément hors de terre des sources de l'eau la plus douce, dont se désaltéra toute l'armée et
dont l'endroit fut baigné de toute part, car l'eau s'écoula des sources jusqu'à la mer».
39 I, 55, 2 : «Aujourd'hui cependant les sources ne sont plus assez abondantes pour
déborder, mais il y a juste un mince filet d'eau recueilli dans un endroit creux, dont les
habitants disent qu'il est consacré au Soleil; et près de lui se trouvent deux autels, l'un
tourné vers l'est, l'autre vers l'ouest, constructions troyennes sur lesquelles, selon la
légende, Enée offrit le premier sacrifice au dieu en remerciement de l'eau ».
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 327

peu plus haut, dans son récit, Denys note : το χωρίον εξ φ κατεστρατο-
πεδεύσατο εξ εκείνου Τροία καλείται40. Le toponyme de Troia comme
lieu du débarquement d'Enée en Italie est bien attesté par ailleurs chez
les auteurs latins : ab Sicilia classe ad Laurentum agrum tenuisse. Troia
et huic loco nomen est41, peut-on lire chez Tite-Live, et chez Festus :
Troia. . . locus in agro Laurente, quo primum Italiae Aeneas cum suis
constituit42. Le lieu-dit Troia, où a eu lieu le prodige du surgissement
de l'eau, est mis également en relation avec le Numicus par Dion Cas-
sius : περί Λαυρέντον δέ προσώκειλε (= Enee) το και Τροίαν
καλούμενη ν, περί Νουμίκιον ποταμόν43. En ce lieu, consacré par Enée au
Soleil, on construisit un sanctuaire à Sol Indiges, connu par la mention
qu'en fait Pline l'Ancien; énumérant les villes et lieux-dits de la côte du
Latium entre Ostie et Ardée, il cite, après la première de ces cités,
oppidum Laurentum (= Lavinium) locus solis Indigetis, amnis Numtcius44.
On remarque ici que l'emplacement consacré au Soleil se trouve entre
Lavinium et le Numicus ce qui est en partie confirmé par une
remarque de Denys, selon qui Troia serait à quatre stades de la mer45, et à
vingt-quatre stades de la colline où se réfugie la truie miraculeuse
qu'Enée doit sacrifier, et qui est l'emplacement de la future Lavinium :
l'animal y met bas les trente porcelets46. Même en tenant compte du
changement de la configuration de la côte depuis l'Antiquité, on est
parvenu à identifier comme le sanctuaire de Sol Indiges les restes d'un
bâtiment découvert sur la zone côtière au sud-est de Lavinium, et un
peu au nord de l'embouchure du Fosso di Pratica47. Cet endroit,
rattaché au souvenir du débarquement d'Enée, ne doit pas être confondu
avec l'emplacement de l'hérôon; Denys, excellent observateur de ces
lieux, qu'il a lui-même visités et sur lesquels il s'est informé auprès des
habitants, les différencie nettement, et par leur signification, et par

40 I, 53, 3 : «L'endroit où ils (= les Troyens) installèrent leur camp s'appelle depuis
ce temps Troia»; cf. supra p. 316.
41 I, 1, 4.
42 504 L.
43 Fr. 1, in Tzetzes, Ad Lyc, 1232.
44 N.H., III, 5, 56; certains éditeurs ont corrigé Locus Solis en Lucus louis.
45 I, 53, 3; cela fait une distance de 708 mètres.
46 I, 56, 2; vingt-quatre stades = 4.262 mètres; supra p. 174-5.
47 Cf. F. Castagnoli, / luoghi connessi..., p. 237-240. On se rappelle (cf. ci-dessus
p. 302) que le sanctuaire a dû être élevé à l'emplacement où se tenait plus anciennement
un culte en plein air.
328 LES PÉNATES PUBLICS

leur topographie : l'un, commémorant l'arrivée d'Enée et le miracle qui


a rendu sa survie possible, est très proche de la côte, dans un endroit
assez marécageux, près du stagnum du Numicus; l'autre, monument
dédié au héros mort, est sur une légère hauteur, entourée d'une rangée
d'arbres48.
Ce tombeau serait celui qui a été découvert à une centaine de
mètres des treize autels, au sud-ouest de Lavinium.
Il existe chez les auteurs latins la mention d'une autre source, liée
elle aussi à l'histoire d'Enée et à sa présence en Italie : c'est Anna
Perenna. Ovide49 rapporte en effet qu'entre autres légendes concernant
ce personnage, on racontait qu'elle était la sœur de Didon, chassée du
palais de la reine après la mort de cette dernière; elle fuit en bateau, et
finit, après diverses errances, par atterrir en Italie, sur la côte de
Lavinium; Enée la reconnaît, s'apitoie sur son sort et sur celui de Didon, et
la confie à sa femme Lavinia; mais cette dernière, folle de jalousie,
prépare sa perte, annoncée à Anna par Didon qui lui apparaît en songe;
Anna fuit donc, est emportée par les eaux du Numicus, et transformée
en nymphe des sources, près de ce dernier. Silius Italicus50 évoque
l'histoire d'Anna Perenna à peu près dans les mêmes termes. On a donc
là une légende, différente de celle rapportée par Denys, mais associant
la venue d'Enée en Italie à une source située près du Numicus51.

48 I, 64, 5.
« Fastes III, 655-56 :
Placidi sum Nympha Numici :
amne perenne latens Anna Perenna uocor.
50 Pun. VIII, 179-200.
51 Le lien étroit existant entre Anna Perenna et le Numicus avait été souligné par
R. H. Klausen {Aeneas und die Penaten II, Hambourg-Gotha, 1839-40, p. 719), pour qui
Anna Perenna est une nymphe dont le culte est attesté à Lavinium, Albe, et Rome; F.
Castagnoli {Lavinium I, Rome, 1972, p. 111, et n. 5 pour les références bibliographiques)
pense qu'elle est liée au Numicus, mais reste réservé sur sa nature, discutée, et n'accorde
guère de valeur au témoignage d'Ovide, en raison de l'identité que le poète postule entre
la nymphe et la sœur de Didon; M. Torelli {Lavinio e Roma, Rome, 1984, p. 63), estimant,
au contraire, qu'il faut accorder la plus grande foi aux vers d'Ovide et aux différentes
explications étiologiques qu'ils contiennent, réaffirme, à la suite du poète, les liens étroits
d'Anna et du Numicus, mais considère comme un motif secondaire l'identification des
deux «Anna»; D. Porte, enfin {L'étiologie religieuse dans les Fastes d'Ovide, Paris, 1985,
p. 142-150), considère que tout le passage est un pastiche de l'Enéide, une sorte de «suite
du chant IV» qui réussit à «opérer une assimilation complète entre Enée et Anna»
(p. 145); dans cette perspective, le lien entre Anna et le Numicus est, non la cause, mais la
conséquence de Γ« assimilation » effectuée entre Anna et Enée. Sans vouloir nous pronon-
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 329

Aussi l'épisode latin de la vie d'Enée nous apparaît-il comme


encadré par les eaux de source, les eaux fluviales, les eaux douces de la
campagne lavinate : prodige du surgissement de l'eau à son arrivée,
noyade mystérieuse et identification au fleuve, où il est supposé s'être
noyé, après sa mort. Le lien entre les deux événements est assuré aussi
par le fleuve voisin de la source apparue aux compagnons d'Enée, lieu
de la disparition du héros; il l'est encore par la double dénomination
d'Indiges, appliqué au dieu auteur du prodige, le Soleil, et à Enée mort,
πάτηρ χθονίος, ou Iupiter Indiges. F. Castagnoli52 pense qu'il faut
attribuer essentiellement à cette dénomination le caractère d'« ancêtre
fondateur», personnage primitivement anonyme qui fut identifié à Enée
lors du développement de la légende des origines troyennes. Mais le
rôle de l'eau nous semble aussi très important, car elle apparaît, dans
la légende locale rapportée par Denys, à la fois comme la condition de
la survie des Troyens et l'expression du lien privilégié qu'Enée
entretient avec la divinité : le Soleil fait surgir la source, Enée est divinisé
sous la forme d'un fleuve. Or, c'est précisément dans ce fleuve, si l'on
en croit Servius53, que les Vestales puisaient l'eau nécessaire au culte
de Vesta. Le personnage d'Enée se trouve ainsi étroitement lié aux
Pénates troyens d'une part, au culte de Vesta d'autre part54.
Il n'est donc pas surprenant que, par son intermédiaire, un
voisinage allant jusqu'à l'identification se soit établi entre Vesta et les Pénates
à Lavinium, comme à Rome55. Notons toutefois que cette
identification, attestée à une époque tardive, chez Macrobe et Servius, ne nous

cer ici sur les arguments littéraires qui soutiennent cette hypothèse - le goût d'Ovide
pour le pastiche, par exemple -, nous pensons que des arguments d'ordre géographique
et religieux peuvent lui être opposés; la région de Lavinium abrite, dans l'Antiquité, de
nombreuses sources et cours d'eau : Numicus, sources de la zone du sanctuaire des
Treize autels et de l'hérôon (F. Castagnoli, op. cit., p. 11); d'autre part, les cultes les plus
anciens de Lavinium s'adressent à des divinités liées aux eaux, Sol Indiges, Vesta, Juturne
(G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 105); enfin, les fêtes d'Anna Perenna à Rome se déroulent -
selon le témoignage d'Ovide, il est vrai -, sur les rives du Tibre. Nous estimons donc
préférable de considérer que c'est la relation d'Anna Perenna avec l'eau du Numicus qui a
suggéré à Ovide le rapprochement avec Enée, renforcé - et c'est peut-être là une
invention de son cru -, par l'identification de la nymphe et de la sœur de Didon.
52 / luoghi connessi . . ., p. 244.
53 Ad Aen. VII, 150.
54 Cf. M. Guarducci, Enea e Vesta, MDAI (R), 78, 1971, p. 73-118.
55 Cf. G. Radke, Die dei pénates und Vesta in Rom, A.N. R.W. , II, 17, 1, Berlin-New-
York, 1981, p. 344-373.
330 LES PÉNATES PUBLICS

renseigne guère sur la nature des Pénates, puisque Vesta est purement
et simplement confondue avec eux. Cette identification, dans le culte
public, est peut-être l'équivalent de ce qui s'est produit dans le culte
privé, où, comme le montrent les sacello, de Pompéi, le nom de Pénates
a fini par désigner toutes les divinités protectrices de telle maison,
divinités dotées par ailleurs d'une personnalité propre.
C'est précisément ce lien des Pénates avec une divinité liée à l'eau -
Enée, et, très différemment, Vesta -, qui a permis à certains
commentateurs d'assimiler les Pénates aux Dioscures, sur le modèle des faits
romains. En effet, Castor et Pollux sont venus en aide à l'armée
romaine pendant la bataille du lac Régule; la légende raconte56 qu'au soir de
cette bataille, les jumeaux apparaissent à Rome à la fontaine Juturne,
où ils abreuvent leurs chevaux; des deniers émis en 92 environ par la
Gens Postumia illustrent cet épisode57. Le temple consacré aux
Dioscures à la suite de cette bataille est du reste situé tout à côté de la
fontaine Juturne sur le Forum, mais aussi très près du sanctuaire de Vesta.
Or Juturne est une divinité originaire de Lavinium. Elle est, chez
Virgile la sœur de Turnus, aimée de Jupiter et transformée en fontaine
. . . deam, stagnis quae fluminihus sonoris
praesidet58.

Virgile ne fournit aucune précision géographique au sujet de cette


fontaine, alors que Servius, dans son commentaire à ces vers, la situe
près du Numicus : Iuturna fons est in Italia saluberrimus iuxta Numi-
cum. Elle apparaît ainsi comme un double, une autre forme, de la
source prodigieuse jaillie devant Enée et ses compagnons, et, peut-être cette
source elle-même, puisque Denys ne précise pas son nom. Elle est, du
reste, associée par Virgile aux combats menés par Enée pour se faire
accepter sur la terre du Latium : Juturne est la sœur de son adversaire
Turnus, et elle prend violemment parti pour ce dernier, aux côtés de
Junon. Ainsi, la légende nous propose trois sources du Numicus, toutes
liées aux aventures d'Enée en Italie : celle que fait jaillir le Soleil pour
les Troyens assoiffés, Anna Perenna, et Juturne. Des relations existant

56 Cf. Liv., II, 20, 12.


57 Cf. C. Peyre, Castor et Pollux et les Pénates pendant la période républicaine, MEFR,
74, p. 44 ï fig. 6 et 443.
58 En. XII, 138-139 : «une déesse. . . haute protectrice des étangs et des fleuves
sonores» (trad. J. Perret, C.U.F. Paris 1980); pour Juturne à Lavinium, voir F. Castagnoli,
Lavinium I, p. 106; 111.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 331

entre Enée et les Pénates, Enée et Juturne, Juturne et les Dioscures, on


a cru pouvoir déduire des liens entre Juturne et les Pénates, et
assimiler ces derniers aux Dioscures; ces liens sont apparus d'autant plus
plausibles que, par ailleurs, les Pénates sont liés à Vesta, elle-même liée
à l'eau, et qu'ils offrent, nous l'avons vu, d'autres ressemblances avec
Castor et Pollux59.
Enfin, les témoignages littéraires et archéologiques ayant trait au
débarquement d'Enée à Lavinium et à son apothéose permettent
d'établir un autre lien avec Vesta. Vesta est liée au feu, symbolisée par
Vignis perpetuus que les Vestales doivent alimenter dans son temple de
Rome pour assurer la sauvegarde de la ville : ce lien, contrairement à
celui, plus complexe, qu'elle entretient avec l'eau, est presque une
identification. Or, nous avons vu que, dans le récit de Denys d'Halicarnasse,
le prodige du surgissement des sources qui accompagne l'arrivée
d'Enée en Italie est dû à l'intervention du Soleil, dieu en l'honneur
duquel Enée accomplit un sacrifice sur les deux autels construits là :
τον Αίνείαν μυθολογοϋσιν πρώτην θυσίαν ποιήσασθαι τω θεω χαρισ-
τήριον των υδάτων60; d'autre part, il semble que, du temps même de
Denys, qui s'était personnellement rendu à Lavinium, le souvenir de ce
prodige et de la piété d'Enée envers le Soleil ait été conservé, puisque,
de cette source, Denys écrit λεγόμενον ύπο των εγχωρίων ίερόν ηλίου61.
De surcroît, le témoignage de Pline l'Ancien atteste en ce lieu la
présence d'un culte de Sol Indiges, si du moins on accepte cette leçon,
préférée par F. Castagnoli, tandis que Denys mentionne un culte d'Enée
divinisé sous le nom de πάτηρ χθόνιος, et Tite-Live sous le nom de Iupiter
Indiges. Etant donné la rareté de cette dénomination d'Indiges, il y a
tout lieu de penser qu'elle désigne un ancêtre fondateur parfois
as imilé au Soleil, auquel Enée a été plus ou moins confondu à Lavinium62.
Cette assimilation, qui est sans doute spécifiquement lavinate, atteste
l'existence de liens entre Enée et le feu, révélés par ailleurs, lors de son
arrivée, par le surgissement des sources grâce au Soleil. On voit donc

59 A. Alföldi (Early Rome, p. 270), remarque que quatre cultes originaires de


Lavinium, ceux des Pénates, de Vesta, des Dioscures, et de Juturne, se trouvent réunis dans
un espace assez concentré du Forum Romain, et pense que cela découle du rôle
prééminent de Lavinium dans le Latium de l'époque archaïque.
60 Denys d'Halicarnasse, I, 55, 2: «On raconte qu'Enée accomplit en l'honneur du
dieu le premier sacrifice en remerciement des eaux».
61 I, 55, 2 «Les habitants disent qu'elle est consacrée au Soleil».
62 Voir ci-dessus, p. 302 sq.
332 LES PÉNATES PUBLICS

comment les données du site ou des traditions lavinates ont fourni un


cadre à l'implantation de la légende d'Enée, les anecdotes concernant
son arrivée au Latium s'enracinant dans les réalités locales63.
Ces liens entre Enée et le feu, Enée et l'eau, s'expliquent du reste
fort bien par le caractère de fondateur du Troyen. Le fondateur est
celui qui rend la vie des hommes possible, grâce au feu et grâce à
l'eau : aussi ne faut-il pas s'étonner de voir Enée divinisé à la fois
comme le Numicus et comme le Soleil. Mais son rôle ne se borne pas à
assurer la survie matérielle de ses compagnons : il doit aussi donner
des racines à leur existence spirituelle et religieuse. Quand il emporte
de Troie les sacra, qu'il les établit en Italie, Enée pose les fondements
de la vie religieuse de ses descendants en la rattachant à l'ancienne
puissance troyenne; il assure un relais essentiel entre le passé de Troie
et le futur de Rome; les Pénates, eux, symbolisent cette continuité. C'est
pourquoi les liens entre Enée et les Pénates, et Enée et Vesta forment
un ensemble relativement cohérent et significatif : l'ancêtre fondateur
est lié au feu, à l'eau, et aux dieux de la patrie, et il est aussi une sorte
de trait d'union entre eux.
Si l'évolution du personnage d'Enée à Lavinium se laisse à peu
près reconstituer, il est néanmoins très difficile d'en fixer les étapes
chronologiques. Il est évidemment séduisant de voir, comme le fait P.
Sommella64, un parallélisme entre les phases architecturales de l'hé-
rôon, qui attestent la volonté d'annexer un culte local ancien, et
l'assimilation du personnage d'Enée, devenu ancêtre fondateur, au vieux
concept a'Indiges. Encore faut-il pouvoir affirmer que cette dernière
s'est faite au moment de la reconstruction de l'hérôon, c'est-à-dire au
IVe siècle; aucun témoignage littéraire, nous l'avons dit, ne l'atteste,
mais là encore, les récentes trouvailles archéologiques peuvent peut-
être fournir des éléments de réponse.
A Tor Tignosa, à 8 kilomètres au nord-est de Pratica di Mare, on a
découvert trois cippes de la même pierre et de la même dimension,
dédiés à Parca Maurtia, Neuna et Neuna Fata, publiés par M. Guarduc-

63 Cf. F. Castagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, p. 1 1 sq. ; Dans certains aspects du
mythe d'Héraklès, on trouve cette même association de l'eau et du soleil : voir F. Bader,
Les Travaux d'Héraklès, dans R. Bloch, F. Bader, D. Briquel, F. Guillaumont, D'Héraklès à
Poséidon. Mythologie et protohistoire, Paris, 1985, p. 94-95.
64 Herôon di Enea a Lavinium, p. 70-74.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 333

ci65, et dont l'interprétation est délicate. Un quatrième cippe, un peu


plus petit, a été trouvé au même endroit en 1958 et publié par la même
éditrice66. La lecture de l'inscription est difficile : M. Guarducci a lu
tout d'abord Lare Aineia D(ono), puis Lara Ainea D(ono), tandis que
H. G. Kolbe67 lit Lare Vestia Q.F. La majorité des commentateurs, au
demeurant, voit dans ce cippe une dédicace à Enée. Pour les
différentes interprétations des cas respectifs de Lare et de Aineia, et des
relations syntaxiques des deux mots, nous renvoyons à l'exposé très
éclairant de S. Weinstock68, qui se rallie à l'explication de M. Guarducci,
selon laquelle Enée était appelé Lar; d'autre part, on s'accorde, avec M.
Guarducci, à dater cette inscription du IVe siècle69.
La présence du personnage d'Enée non loin de Lavinium au IVe
siècle n'est pas pour nous surprendre; nous avons vu qu'il était connu
dès le VIe siècle dans le Latium. D'autre part, le terme de Lar, qui lui
est accolé, est essentiel pour notre propos. On sait que l'origine et le
sens du mot Lares sont très controversés. Tandis que S. Weinstock
pense que ces dieux sont les ancêtres divinisés, J. Heurgon70 suggère de
rapprocher le mot Lar du thème lar-, bien représenté en étrusque où il
devait suggérer «grandeur et puissance», et ajoute : «S'il est vrai,
comme il est difficile de se refuser à le penser, que telle est l'origine du
nom du dieu Lare en latin, on ne s'étonnera pas qu'il ait pu s'appliquer
aussi bien, sans les caractériser, aux diverses activités du Lar familiaris
et des Lares, genii et functorum animae»11. En ce sens, le terme
convenait particulièrement bien à un Enée dès lors considéré comme
l'ancêtre fondateur, et divinisé. J. Heurgon, comme S. Weinstock, souligne du
reste que Lar est tenu pour l'équivalent latin du grec ήρως, ainsi que
l'atteste le texte grec du Monument d'Ancyre72. Le mot est employé au
singulier dans le terme Lar familiaris, pour le nom duquel S. Weinstock

65 Tre cippi arcaici con inscrizioni votive, BCAR, 72, 1946-48, p. 3-10; cf. J. Cham-
peaux, Fortuna. Le eulte de la Fortune à Rome et dans le monde romain, Coll. de l'Ecole
Française de Rome, 64, Rome, 1982, p. 436 sq.
66 Cippo arcaico con dedica a Enea, BCAR, 76, 1956-58, p. 3 sq.
67 Lare Aineia?, MDAI (R), 77, 1970, p. 1-9.
68 Two arcate inscriptions from Latium, JRS. 50, 1960, p. 1-118.
69 Enea e Vesta, p. 73-89; voir aussi G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 240-246.
70 J. Heurgon, Lars, largus, et Lare Aineia, in Mélanges d'archéologie et d'histoire
offerts à A. Piganiol, Paris, 1966, p. 655-664.
71 Ibid., p. 660.
72 XIX, 2.
334 LES PÉNATES PUBLICS

rappelle, chez Plaute73, une variante très intéressante pour notre


propos : familiai Lar pater; cette expression, selon S. Weinstock, contient
l'idée de divinité (lar), celle d'ancêtre (pater) de la famille (familiai),
mais on peut étendre cette dernière notion jusqu'à la race, au peuple,
et, alors elle s'appliquerait parfaitement à Enée tel que nous le présente
la tradition littéraire du Ier siècle que nous mentionnions plus haut.
Ainsi l'inscription du cippe de Tor Tignosa non seulement attesterait que,
dès le IVe siècle, Enée était divinisé et considéré comme l'ancêtre
fondateur, mais, dans sa formulation même, elle serait l'équivalent d'Ae-
neas Pater, et de Pater Indiges. Tirant toutes les conséquences de cette
assimilation, S. Weinstock en vient à voir dans Indiges et di Indigetes
une notion originelle d'« ancêtre»74.
L'ensemble de cette brillante démonstration nous paraît assez
convaincant, et en particulier l'idée qu'Enée était divinisé comme
ancêtre dès le IVe siècle. La proximité de Tor Tignosa et de Lavinium
permet de penser qu'il en était de même dans la cité des Laurentes,
d'autant plus que sa situation, plus proche encore de la mer, a dû la rendre
plus perméable aux influences grecques qui ont introduit à la fois le
personnage d'Enée et la notion de héros-fondateur. En revanche,
l'interprétation du mot pater n'a pas valeur de preuve déterminante, dans
la mesure où il nous semble ambigu et peut parfois exprimer le respect,
non la reconnaissance d'une paternité véritable; il n'en reste pas moins
que cette ambiguïté même a pu favoriser les assimilations. D'autre
part, si au IVe siècle Lar et Indiges ont pu désigner le même Enée, il est
peut-être un peu imprudent d'en conclure qu'ils sont équivalents, et
que les di Indigetes ne sont autres que les Lares75. Ce qui nous paraît
plus vraisemblable, c'est que les deux mots de Lar et d'Indiges avaient à
la fois assez de prestige et assez de flou pour s'appliquer à Enée. De
Lar, J. Heurgon dit qu'«il n'exprimerait en fait qu'une vénération
indistincte en présence de certaines manifestations de la puissance
divine»76. Indiges désignait à l'origine une divinité solaire, mais le mot a

73 Mere, 834 (cité par S. Weinstock, op. cit., p. 116).


74 Cette lecture (Lare Aineia dono) et cette interprétation ont été très vivement
contestées par T. J. Cornell (Aeneas'arrival in Italy, p. 78-79), qui estime que l'inscription
n'est pas une dédicace à Enée, mais que les trois cippes proviennent d'un sanctuaire ora-
culaire totalement indépendant des cultes lavinates et du personnage du héros troyen.
75 Sur les Di Indigetes, voir B. Liou-Gille, Les cultes «héroïques» romains, p. 99-116;
supra p. 300.
76 Op. cit., p. 660.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 335

fini par devenir lui aussi assez vague. Cependant, il n'est pas possible,
en l'état actuel de notre documentation, d'affirmer qu'antérieurement
au IVe siècle, ni même après cette date, Lar et Indiges étaient
synonymes.
La découverte et l'interprétation de ce cippe tendent donc à
prouver que, malgré les réserves émises par certains savants77, il a existé
dès le IVe siècle un culte d'Enée dans la région de Lavinium.
Néanmoins, pour identifier l'hérôon découvert près de Pratica di Mare avec
le monument décrit par Denys, deux difficultés subsistent. La première
est que l'on n'a pas retrouvé l'inscription que Denys a traduite en grec,
ce qui laisse évidemment planer un doute sur la destination exacte du
monument; l'autre, qui est liée à la première, est de savoir si le
monument mis au jour était réellement considéré comme l'Hérôon d'Enée
antérieurement au Ier siècle. J. Poucet78, nous l'avons vu, insiste sur le
fait, indéniable, que le nom d'Enée n'apparaissant pas dans
l'inscription citée par Denys, il peut fort bien s'agir de la sépulture d'un héros
local dont l'assimilation à Enée ne s'est faite qu'au Ier siècle, au
moment où la légende des origines troyennes de Lavinium et de Rome est
définitivement établie. Nous avons dit plus haut que les mots employés
par Denys, Πατρός θεού χθονίου, nous semblaient traduire le latin Pater
Indiges ; d'autre part, cette divinité est mise en relation avec le Numicus
(ος ποταμού Νομικίου ρεΰμα διέπει). Certes, comme le note J. Perret, «il
importe de ne pas glisser, sans s'en apercevoir, d'une affirmation à une
autre»79, mais plutôt que d'une série d'équivalences, il nous semble
qu'on peut parler ici d'un faisceau de convergences. Le cippe de Tor
Tignosa atteste dès le IVe siècle la divinisation d'Enée comme ancêtre
fondateur; nous savons qu'au Ier siècle, Enée était assimilé à l'ancienne
divinité locale Indiges, dont Denys nous apprend qu'on le vénérait à
Lavinium dans un hérôon; les découvertes récentes mettent au jour à
Lavinium un hérôon du IVe siècle. Il nous paraît donc qu'on peut avec
quelque vraisemblance avancer l'hypothèse - en insistant, bien sûr sur
l'incertitude qui subsiste du fait de l'absence de preuve archéologique

77 J. Perret, Rome et les Troyens, REL, 49, 1971, p. 48 n. 1 ; J. Poucet, op. cit., II,
p. 183; T. J. Cornell, loc. cit.
78 Op. cit., II, p. 181-183. J. Heurgon {Les récentes découvertes archéologiques dans le
Latium, IL, 27, 1975, p. 126-129) avait déjà souligné ce fait.
79 Op. cit., p. 43.
336 LES PÉNATES PUBLICS

irréfutable - qu'il s'agit bien de l'Hérôon d'Enée devenu dès le IVe


siècle l'ancêtre fondateur adoré sous le nom d'Indiges30.

3) La transformation des Pénates

Nous en arrivons ainsi à ce qui nous semble être une autre preuve
de l'existence de la légende des origines troyennes de Lavinium dès le
IVe-IIIe siècle : la première mention des Pénates de Lavinium, présentés
par les indigènes comme des reliques troyennes, faite par Timée81. La
foi que l'on peut accorder à ce témoignage a été fortement mise en
doute. On a soupçonné Denys d'avoir «sollicité» le texte de Timée82,
lorsqu'il attribue à l'historien sicilien l'identification des Pénates
comme κηρύκεια σιδηρά και χαλκά και κέραμον Τρωικόν. Pourtant, la
présence des sacra dans la légende de la fuite d'Enée n'est pas une donnée
apparue au Ier siècle : nous les avons trouvés aux mains d'Anchise sur le
scarabée de la Collection de Luynes, et peut-être dans un doliolum tenu
par un personnage qui serait Creuse sur l'amphore de Vulci83. Aussi
est-il tout à fait plausible qu'on les trouve dans les développements
locaux de la légende que Timée a pu nous transmettre en témoin direct.
Nous avons vu que la littérature et l'iconographie grecques laissent
généralement dans l'ombre le transfert des sacra, qui semble bien être
un développement spécifiquement italique de la légende d'Enée; ils ne
sont du reste pas présents dans toutes les images archaïques italiques
de la fuite d'Enée, et manquent en particulier dans les statuettes de
Véies. Mais le succès extraordinaire des sacra dans la version lavinate
de la légende nous paraît lié à la transformation du personnage d'Enée
que nous avons notée plus haut, et que nous croyons pouvoir dater du
IVe siècle : Enée devient le fondateur de la ville de Lavinium; or toute
fondation s'appuie sur des éléments religieux, qui la sanctionnent et la
justifient. C'est ainsi que s'explique, selon nous, l'essor du thème des
sacra, dont le transfert finira par apparaître, en particulier chez
Virgile, comme la signification essentielle de la mission d'Enée : sacra deos-
que dabo84, dit-il pour définir la part qu'il se réserve dans l'alliance

80 Cf. B. Liou-Gille, op. cit., p. 132-133.


81 In Denys d'Halicarnasse, I, 67, 4.
82 J. Perret, Les origines de la légende troyenne de Rome, Paris, 1942, p. 341.
83 Voir ci-dessus, p. 197-8; 201-2.
84 En. XII, 192.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 337

qu'il conclut avec Latinus. Que ces sacra, présentés comme troyens à
Timée par les habitants de Lavinium, aient été désignés du terme de
Penates dès le IIIe siècle s'explique assez bien aussi. Le mot est
mentionné dès cette époque par Naevius à l'aube de la littérature latine. Ces
dieux sont spécifiquement latins; ils sont une pluralité indéterminée et
indéfinissable autrement que par sa fonction protectrice de la partie la
plus intime de la maison. Aussi se prêtaient-ils sans doute assez bien à
être assimilés aux sacra (dont on ne savait ce qu'ils étaient exactement)
symbolisant religieusement Troie. Les auteurs grecs nous parlent - Sté-
sichore notamment - des ιερά mis aux mains d'Anchise, ou d'Enée; il
est clair que le terme de sacra en est une traduction, et que ces derniers
ont été assimilés à des dieux latins existant à Lavinium, les Pénates, qui
n'avaient rien à voir, à l'origine, avec la légende troyenne85. Il a dû
subsister longtemps un flottement entre ces deux notions, ce que nous
prouvent les textes des IVe-IIIe siècles, mais aussi celui de l'Enéide.
Nous remarquions, dans le précédent chapitre, que la phrase de Denys
d'Halicarnasse citant le témoignage de Timée à propos des Pénates de
Lavinium, ne nous permettait pas, de par sa structure syntaxique, de
savoir si Timée prononçait le mot de «Pénates» à côté de celui de
ίερά86. En revanche, le texte de {'Alexandra de Lycophron parle sans
ambiguïté des πατρώα αγάλματα θεών87, où nous pensons que πατρώα
est employé, par hypallage, pour qualifier θεών, les θεοί πατρφοι étant,
comme l'indique Denys d'Halicarnasse88, l'une des désignations
grecques des Pénates. Il semble donc, d'après ce texte, qu'à l'époque de
Lycophron, la fusion entre ίερά troyens et Pénates soit réalisée. Au
reste, un autre détail du texte nous prouve l'insertion de la légende
troyenne dans les traditions lavinates : Enée déposera ces statues, nous dit le
poète, dans le temple de Myndia Pallènis, c'est-à-dire de Minerve. Or,
nous l'avons vu, les récentes découvertes archéologiques89 attestent
l'existence d'un culte de cette déesse à Lavinium dès le Ve siècle. Les
nombreuses statues et ex-voto trouvés dans le dépôt votif, datables du
début du Ve aux premières années du IIe siècle, avec un matériel parti-

85 Cf. F. Castagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, p. 10.


86 Rappelons que F. Jacoby exclut des fragments de Timée le membre de phrase où
les Pénates sont nommés ; voir supra p. 278 n. 95.
87 1261-1262.
88 I, 67, 3.
89 F. Castagnoli, 77 culto di Minerva a Lavinio, passim.
338 LES PÉNATES PUBLICS

culièrement important des IVe-IIIe siècles90, semblent attester la vitalité


du culte à cette époque, et éclairent peut-être l'allusion de Lycophron;
nous avons dit, par ailleurs91, qu'il ne nous semblait pas possible que
les Pénates de Lavinium aient été honorés dans le sanctuaire oriental
de Minerve, mais cette confusion peut s'expliquer par la notoriété de ce
culte au moment où écrit Lycophron.
Enfin, chez Virgile même, comme nous l'avons noté92, il subsiste
un flottement dans les termes employés pour désigner les objets sacrés
apportés par Enée de Troie en Italie : s'ils sont une fois désignés
comme sacra93, ce qui nous semble l'héritage de la tradition grecque, ils le
sont aussi comme Penates94, mais le plus souvent comme sacra Penates-
que, ou une expression équivalente95, où nous avons cru pouvoir
reconnaître un hendiadyn, dans lequel se lit la superposition de la légende
grecque à la tradition lavinate et latine.
Les développements de l'histoire des Pénates sont donc différents
de celle d'Enée : ce dernier, hérité des légendes grecques, a été
transformé à Lavinium en héros fondateur. Il nous paraît au contraire que
l'histoire des sacra doit très peu à la Grèce : elle est plutôt une
conséquence, née à Lavinium,, de la transformation d'Enée dans cette ville;
l'assimilation des sacra transportés par Enée et des Pénates, très
anciennes divinités latines, serait elle aussi, à l'origine, un fait lavinate.
Encore une fois, il ne peut s'agir ici que d'hypothèses, mais qui nous
semblent s'insérer dans un cadre chronologique assez cohérent, et que
viennent du reste appuyer d'autres éléments de ce que nous pouvons
connaître de l'histoire de Lavinium au IVe siècle.
Au point où nous sommes parvenu de notre enquête, il nous
semble que, jusqu'au IVe siècle, nous avons pu comprendre les
raisons de la fixation de la légende d'Enée à Lavinium : elles sont liées,
d'une part aux caractères mêmes du personnage dès sa première
mention chez Homère, qui souligne sa piété envers les dieux, sa
filiation divine96, les espoirs dont lui-même et ses descendants sont por-

90 M. Fenelli, Santuario orientale, in Enea nel Lazio, p. 187-190.


91 Cf. supra p. 257-261.
92 Cf. supra p. 193 sq.
93 En. VIII, 85.
94 En. II, 747; VII, 121; VIII, 11.
95 En. II, 293 {sacra suosque. . . penatis); II, 320 {sacra uictosque deos); II, 718 {sacra
patriosque penatis); XII, 192 {sacra deosqué).
96 II, II, 820; 247 sq.; XX, 209.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 339

teurs, et aux développements que la littérature et l'iconographie


grecques donneront à Enée; mais il existe d'autre part, à Lavinium
même, des éléments favorables à la fixation de ce personnage : le
lieu-dit Troia, peut-être préexistant à l'introduction de la légende
d'Enée, l'existence d'un culte de Vénus dès le milieu du VIe siècle, les
liens privilégiés qui semblent avoir associé Enée et le Soleil et qui,
sous l'influence grecque, ont favorisé l'identification du Troyen avec
l'ancienne divinité locale Sol Indiges, et sa divinisation comme
ancêtre fondateur. Les différentes phases de la transformation d'Enée, et
l'établissement à Lavinium des sacra - Pénates apportés de Troie,
sont bien attestés dans ce que nous savons de l'histoire de Lavinium,
dans l'évolution de son architecture. Il reste qu'à cette date du IVe
siècle, où il faut très probablement situer le nouvel essor du
sanctuaire des Treize autels, la réutilisation d'une tombe du VIIe siècle à
laquelle on superpose un hérôon, et sans doute l'assimilation des
sacra troyens aux Pénates locaux, on doit essayer de chercher une
signification non plus dans l'histoire de la seule cité des Laurentes,
mais, plus généralement, dans l'histoire du Latium et des rapports
des différentes cités qui le composent, Rome et Lavinium
notamment.

II - Rome et Lavinium

P. Sommella a remarqué97 que cette date du IVe siècle, à


laquelle on construisit un hérôon sur les restes d'une tombe archaïque qui,
loin d'être abandonnée, se trouve placée au cœur du nouvel édifice,
est aussi marquée par un événement politique majeur de l'histoire du
Latium, le traité de 338, par lequel Rome règle le sort de chacune
des cités de la Ligue latine séparément, et impose définitivement son
hégémonie en Italie centrale. Le savant italien souligne en particulier
que la rénovation architecturale est une tentative pour s'approprier
le culte pratiqué autour de la tombe orientalisante, et que le fœdus
de 338 conclu entre Rome et Lavinium est présenté par Tite-Live98

97 Hérôon di Enea a Lavinium, p. 71 sq.


98 VIII, 11, 15 : cum Laurentibus renouari fœdus iussum.
340 LES PÉNATES PUBLICS

comme le renouvellement d'un fœdus dont la signification est


«essentiellement religieuse»99. Enfin, P. Sommella rappelle l'analyse d'A.
Alfôldi100, selon qui les sacra principia des Latins deviennent, à partir
de cette date, les sacra principiorum populi Romani Quiritium nomi-
nisque Latini, culte qu'atteste, à l'époque de Claude, une inscription
de Pompéi101.
Il convient de s'interroger sur les raisons qui ont pu pousser
Rome à réserver à Lavinium un traitement de faveur en 338, alors
qu'elle a traité très durement d'autres cités, notamment Velitrae qui
fut détruite102. M. Humbert103 émet les plus grands doutes sur
l'explication avancée par Tite-Live pour justifier l'attitude romaine : quia
non desciuerant (= les habitants de Lavinium); il estime au contraire
que Tite-Live veut ainsi passer sous silence la participation de
Lavinium au soulèvement général de l'Italie centrale contre Rome, et
considère que le rôle de Lavinium comme métropole religieuse du
Latium rend très peu plausible qu'elle ne se soit pas engagée aux
côtés des Latins. Cette analyse nous paraît assez convaincante, dans
la mesure où les découvertes archéologiques des dernières décennies,
comme les fouilles actuellement en cours, attestent l'importance de
l'architecture religieuse lavinate entre le VIe et le IVe siècle;
l'existence de nombreux sanctuaires en témoigne, et la présence d'un Aphro-
disium fédéral montre que Lavinium a eu un rôle religieux à l'échelle
de tout le pays latin.
Reste à expliquer le choix fait par Rome de Lavinium comme cité-
mère et métropole religieuse, plutôt qu'un autre centre religieux du
Latium. On ne peut en rendre compte qu'en cherchant, d'une part,
quels liens antérieurs au traité de 338 peuvent contribuer à expliquer
l'indulgence romaine, d'autre part en essayant d'apprécier le rôle de
Lavinium dans le Latium du IVe siècle.

99 Op. cit., p. 72.


100 Early Rome, p. 259-265.
κ» CIL, X, 797.
102 J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale, 2è éd., Paris, 1980, p. 321-322.
103 Municipium et civitas sine suffragio. L'organisation de la conquête jusqu'à la guerre
sociale, Coll. de l'Ecole Française de Rome, 36, 1978, p. 178-194.
ROME ET LES PÉNATES DE LA VINIUM 341

1) Les sacrifices romains à Lavinium

A) Le sacrifice expiatoire de Titus Tatius

Les historiens grecs et romains font mention d'un sacrifice


accompli à Lavinium à l'aube même de l'histoire de Rome, pendant le règne
de Romulus104. Après l'intervention des Sabines dans la bataille
opposant Romains et Sabins, les deux peuples concluent un traité d'alliance
qui fait fusionner les Etats en un seul à la tête duquel se trouvent le
romain Romulus et le sabin Titus Tatius, qui régnent conjointement à
Rome105. Or, les délégués des Laurentes, dont Lavinium est la
métropole, ont été maltraités par des parents de Titus Tatius, et c'est ce dernier
qui, incapable de rétablir les Laurentes dans leurs droits, par faiblesse,
va expier cette mauvaise action, nous explique Tite-Live : nam Lauinii
cum ad solemne sacrificium eo uenisset, concursu facto interficitur106.
L'expression ad solemne sacrificium nous paraît mériter quelques
commentaires. G. Baillet107 la traduit par «pour un sacrifice solennel», ce
qui nous semble en affaiblir un peu le sens. En effet, solemnis est un
«adjectif de la langue religieuse s'appliquant à des cérémonies, rites,
coutumes, solennellement suivis et célébrés à date fixe»108, et les
Anciens voyaient dans ce mot un composé d'annus109. Il s'agirait donc ici
d'un sacrifice non pas occasionnel, mais accompli à date fixe chaque
année.
Le témoignage de Denys d'Halicarnasse nous paraît aller lui aussi
dans le sens de notre interprétation du solemne sacrificium de Tite-
Live : αμα 'Ρωμύλω παραγενόμενος (= Tatius) είς το Λαουίνιον ένεκα
θυσίας, ην εδεί τοις πατρφοις θεοϊς υπέρ της πόλεως θυσαι τους βασι-

104 Cependant, le scholiaste de Vérone attribue l'origine des sacrifices à Lavinium à


Ascagne (Ad Aen. I, 239), Lucain (VII, 394-396) à Numa (cf. A. Alföldi, Early Rome,
p. 263). Ces variantes de la tradition ne nous semblent pas infirmer les pages qui suivent.
Ascagne est probablement considéré plus comme le fils d'Enée que comme le fondateur
d'Albe; Numa est présenté dans la tradition romaine comme l'instaurateur de la
législation religieuse, ce que n'est pas Romulus.
105 Cf. Liv., I, 13, 4.
106 I, 14, 2.
107 C.U.F., Paris, 1967, ad loc.
108 A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire Etymologique de la langue latine, 4è éd., Paris,
1960, s.u. solemnis.
109 Festus, 304 L.
342 LES PÉNATES PUBLICS

λεΐς110. Le verbe έδει suggère bien qu'il s'agit d'une obligation rituelle,
et que, probablement, elle revient à date fixe; mais Denys va plus loin :
par les détails que, contrairement à Tite-Live, il nous donne sur
l'accomplissement du sacrifice (τοις πατρφοις θεοΐς, υπέρ της πολέως, τους
βασιλείς) il suggère un rapprochement entre ce dernier et le sacrifice
des magistrats romains à Lavinium lors de leur entrée en charge111.
Dans les deux cas, le sacrifiant est le personnage principal de Rome, ou
l'un des personnages principaux, et le sacrifice est offert, selon Denys,
aux πατρφοις θεοΐς, qui sont, pour lui, l'un des équivalents grecs des
Pénates latins112; ce sacrifice est donc implicitement rapproché de celui
qui est offert à Vesta et aux Pénates113. Il nous semble que le même
rapprochement est suggéré par les mots solemne sacrificium chez Tite-
Live. Bien sûr, on peut objecter à cette interprétation que Denys,
comme Tite-Live, ont pu projeter sur l'histoire de Rome naissante des
institutions qu'ils connaissaient bien eux-mêmes, mais dont l'instauration
est en réalité plus tardive. Il n'en reste pas moins que Tite-Live
connaissait très certainement l'étymologife de solemnis expliqué comme un
composé de annus et qu'il n'a pas employé le mot à la légère, non plus
que Denys n'a inventé tous les détails concernant les conditions du
sacrifice; le rapprochement des deux cérémonies, bien qu'il ne soit que
suggéré par les auteurs anciens, nous paraît très riche de signification.
Le récit que fait Plutarque de la scène du meurtre est très
semblable, dans l'ensemble, à celui de Tite-Live : άποκτιννύουσιν αυτόν έν
Λαβινιω θύοντα μετά 'Ρωμύλου προσπεσόντες114. Mais l'établissement du
sacrifice expiatoire par Romulus est présenté un peu différemment;
après l'assassinat de Tatius, les Laurentes, craignant des représailles de
la part des Romains, livrent les meurtriers à Romulus, qui les renvoie
en disant que la mort a payé la mort; quelque temps après, une
épidémie s'abat sur Lavinium et sur Rome, et on comprend que c'est parce
que les meurtriers n'ont pas été punis, ni la transgression des lois
expiée religieusement. Aussi Romulus décide-t-il de procéder à un sa-

110 II, 52, 3 : «Etant venu à Lavinium avec Romulus pour y accomplir un sacrifice,
que les rois devaient faire aux πατρώοι θεοΐς pour la prospérité de la cité».
111 Macrobe, III, 4, 11; Servius-Daniel, Ad Aen. Il, 296; cf. infra p. 355-61.
112 I, 67, 3.
113 F. Castagnoli, Lavinium I, p. 101.
114 Romulus, 23 : «Ils se jetèrent sur lui (= Tatius) au moment où il faisait un sacrifice
avec Romulus à Lavinium, et le tuèrent» (trad. R. Flacelière, E. Chambry, M. Juneaux,
CUF, Paris, 1957).
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 343

crifice expiatoire : και καθαρμοΐς ό Ρωμύλος ήνισε τας πόλεις, ους ετι
νυν ίστοροΰσιν επί την φερεντίνης πύλης συντελεΐσθαι115. Plutarque ne
parle pas explicitement d'un renouvellement annuel, mais il le suggère
fortement, en notant que le sacrifice est accompli encore de son temps,
renseignement qui n'est pas de première main, comme l'indique le mot
ίστοροΰσιν. L'indication έπί της φερεντίνης πύλης est surprenante : la
«porte Férentine» est inconnue par ailleurs. R. Flacelière, M. Juneaux
E. Chambry116 suggèrent que Plutarque désigne peut-être par ce terme
la Porta Latina, puisque Ferentinum était situé sur la Via Latina; il
faudrait alors admettre que ce sacrifice s'accomplit à Rome, ce qui est
possible dans le contexte (Plutarque indique que Romulus «purifia les
deux villes», Rome et Lavinium), mais constituerait alors une indication
isolée. Doujat et Cluver ont proposé de corriger πύλης, l'un en ΰλης,
l'autre en πηγής117, en raison de l'existence, bien attestée ailleurs118 d'un
Lucus Ferentinae, ou Caput aquae Ferentinae; Festus nous en indique la
localisation : caput Ferentinae, quod est sub monte Albano119. Il ne s'agit
donc ici ni de Rome, ni de Lavinium, ce qui paraît en contradiction
avec le récit de Plutarque. En ce lieu se tenaient des réunions des
peuples latins120, dont aucun texte ancien ne nous dit qu'elles
comportassent des cérémonies religieuses, mais qui étaient plutôt des réunions
militaires ou politiques121. Leur origine fait problème. Si l'on accepte la
correction de Cluver, elles dateraient de Romulus122, mais d'autres
auteurs les mettent en relation avec Tullus Hostilius123, Tarquin
l'Ancien124 et Tarquin le Superbe125, ce qui indique seulement leur
ancienneté, selon A. Alföldi126, qui ne pense pas, d'autre part, que les réunions
des Latins au Caput aquae Ferentinae datent d'avant le Ve siècle avant

115 Romulus, 24 : «Romulus purifia les deux villes par des sacrifices expiatoires, qui,
dit-on, sont encore célébrés aujourd'hui à la porte Férentine» (ibid.).
116 Ibid., p. 91 n. 2.
117 Plutarque, Vit. I, 1, éd. K. Ziegler, Leipzig, 1960, p. 67.
118 Cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 34-36.
"» 276 L.
i20 Liv., VII, 25, 5 : concilia populorum Latinorum ad Lucum Ferentinae habita.
U1 A. Alföldi, op. cit., p. 35.
122 Notons encore que la mention de sacrifices expiatoires en ce lieu serait la seule
indication de célébrations de caractère religieux.
123 Denys d'Halicarnasse, III, 34, 3.
124 Id., Ill, 51, 3.
125 Id., IV, 45, 3; Liv., I, 50, 1.
126 Op. cit., p. 34.
344 LES PÉNATES PUBLICS

J.-C, et estime qu'elles sont liées aux sacrifices communs du Mont


Albain et de Lavinium, dont elles n'étaient séparées que géographique-
ment. Il semble donc qu'il ne faille pas prendre au pied de la lettre le
récit de Plutarque; sans doute présente-t-il un amalgame de plusieurs
données légendaires originellement distinctes : sacrifice expiatoire du
meurtre de Titus Tatius, destiné à réconcilier Romains et Lavinates,
réunion des peuples latins au Caput aquae Ferentinae; la leçon έπί
φερεντίνης πύλης, aberrante par rapport au reste de la tradition, est
peut-être une inexactitude s'expliquant par une ignorance
géographique. Comme chez Tite-Live et Denys, on trouve donc chez Plutarque
une confusion entre le sacrifice expiatoire accompli par Romulus et un
autre sacrifice, accompli encore de son temps, non pas à Lavinium,
mais dans les Monts Albains, sacrifice annuel lui aussi. Au reste, dans
ce récit, on finit par confondre le sacrifice à l'occasion duquel Tatius a
été tué, et celui qu'instaure Romulus en expiation de ce crime, sacrifice
renouvelé par la suite et qui semble se substituer au premier.
Chez Zonaras, on trouve une confusion du même ordre, mais
encore plus nette, puisque la scène du sacrifice et le meurtre du roi se
déroulent dans les Monts Albains : έν Άλβανω θύοντα μετά Ρωμύλου
τον Τατιον προσπεσόντες κτιννύουσιν127; cette indication nous apparaît
comme une référence explicite aux sacrifices offerts par les Latins à
Jupiter Latiaris, dans les Monts Albains.

B) Le pacte d'alliance entre Enée et Latinus

Le sacrifice expiatoire du double meurtre des ambassadeurs des


Laurentes et de Titus Tatius n'est pas seulement mis en relation plus ou
moins claire, par Tite-Live et Denys, avec une réalité religieuse de leur
temps (le sacrifice annuel des magistrats romains à Lavinium lors de
leur entrée en charge), mais également avec une autre cérémonie, plus
ancienne celle-là. En effet, Tite-Live conclut l'épisode du meurtre de
Tatius par cette remarque : ut tarnen expiarentur legatorum iniuriae
regisque caedes, fœdus inter Romam Lauiniumque urbes renouatum
est128. L'emploi de renouatum est mérite d'être relevé. Le meurtre de
Titus Tatius, vengeance des Laurentes pour une injure grave, n'est pas
pour Rome et Lavinium l'occasion de sceller une alliance, mais de

127 vu, 4.
128 ι, 14, 3.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 345

renouveler un traité ancien. De quel fœdus peut-il s'agir ici? Il n'y en a


qu'un dont Tite-Live ait précédemment parlé : le pacte conclu entre
Enée et Latinus lors du débarquement des Troyens au Latium; à la
suite d'une défaite de l'armée latine, ou bien par une entente amicale, les
deux chefs concluent un parte d'alliance : inde fœdus ictum inter
duces129; l'emploi de ictum, comme, dans d'autres expressions, de ferire, à
propos d'un fœdus, s'explique parce qu'il s'agit bien de «frapper un
traité, à cause de la victime que l'on frappait pour la circonstance»130.
Le sacrifice est donc lié à la conclusion du traité. Puis, continue Tite-
Live, Aeneam apud Latinum fuisse in hospitio; ibi Latinum apud
Penates deos domesticum publico adiunxisse fœdus, filia Aeneae in matrimo-
nium datani. L'alliance privée qui s'ajoute au pacte officiel entre les
deux peuples se conclut dans le palais de Latinus, devant les images
des Pénates. Ce dernier détail, bien sûr, a pu être emprunté par Tite-
Live aux rites de la vie religieuse de son temps, puisque les Pénates
étaient les témoins de tous les événements de la vie familiale132. Mais il
nous semble avoir aussi une tout autre portée : d'abord, il est probable
que Tite-Live propose une image de la royauté de Latinus semblable à
l'idée qu'il se faisait de celle des rois de Rome, et que, par conséquent,
la vie religieuse privée du roi n'est pas distincte de celle de l'Etat, ce
qui donne à l'alliance d'Enée et de Lavinia un caractère officiel;
d'autre part, ce fœdus accompagné d'un sacrifice devant les images des
Pénates rappelle le sacrifice des magistrats romains à Vesta et aux
Pénates à Lavinium.
Nous avons vu que Denys d'Halicarnasse mentionnait, à propos du
meurtre de Titus Tatius, l'obligation pour les rois de Rome d'accomplir
un sacrifice aux πατρφοι θεοί. Denys n'explicite pas le rapprochement
de ce rituel avec le pacte entre Enée et Latinus, mais un détail pourtant
nous a paru révélateur133: au moment où Latinus apprend que des
étrangers - Enée et ses compagnons - viennent de débarquer au

129 i, 1, 9.
130 A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, s.u. ferio; voir
aussi ibid., s.u. ico.
131 Ibid. : «Enée aurait été reçu chez Latinus; c'est là que Latinus devant ses Pénates
aurait ajouté une alliance de famille à l'alliance politique en donnant sa fille en mariage à
Enée» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1958); voir R. M. Ogilvie, A Commentary on Livy,
Books 1-5, Oxford, 1965, p. 39.
132 Cf. supra p. 109.
133 I, 57-58.
346 LES PÉNATES PUBLICS

Latium, il décide de cesser de se battre avec les Rutules, et de lancer


son armée contre les nouveaux venus; Enée, de son côté, s'apprête à
livrer bataille pour conquérir un territoire. Mais la nuit précédant le
combat, un dieu (έπιχώριος δαίμων) apparaît à Latinus et le dissuade de
livrer ce combat134; de son côté, Enée voit en songe les πατρφοι θεοί qui
lui donnent le même conseil, et les deux hommes finissent par conclure
un pacte d'alliance. Le mariage d'Enée et de Lavinia intervient un peu
plus tard, mais, on le voit, les πατρφοι θεοί sont associés par Denys à
l'alliance primitive entre Troyens et indigènes, comme au sacrifice
célébré par les Romains à Lavinium; de surcroît, divinités d'origine troyen-
ne et divinité locale se trouvent donner le même conseil à Enée et ses
compagnons, et aux Latins. L'importance du pacte qui introduit les
Troyens en Italie est d'ailleurs attestée, à la même époque, par
l'illustration que Virgile a donnée du thème dans \'Enéidens, où un sacrifice,
non mentionné par Denys, accompagne la cérémonie. Virgile a dissocié
l'alliance privée du traité public : Latinus promet au troyen Ilionée de
donner sa fille en mariage à Enée dès l'arrivée de ses compatriotes en
Italie, alors que le pacte entre les deux peuples n'est solennellement
conclu qu'après une guerre; la première scène a lieu dans le temple de
Picus136, la seconde au pied des remparts de Lavinium, devant les
foyers et les autels dressés pour la circonstance. Mais les deux aspects,
privé et public, du fœdus, sont étroitement liés, comme chez Tite-Live;
lors de la conclusion du traité, Enée désigne continuellement Latinus
par le mot de socer, et annonce qu'il apportera sacra deosque137; nous
avons déjà relevé138 les difficultés d'interprétation de cette expression,
dont nous pensons qu'elle désigne les divinités considérées comme les
Pénates troyens. Il y a donc bien une convergence de témoignages liant
la présence de ces dieux au premier traité jamais conclu par Rome, ou
plutôt par ses ancêtres, au pacte d'alliance entre Troyens et indigènes,
qui marque l'installation d'Enée et des siens en Italie.

134 L'épisode de la prédiction de Γέπιχώριος δαίμων chez Denys correspond, dans


l'Enéide à la consultation par Latinus de son père Faunus, divinité prophétique (fatidici)
(VII, 81 sq.).
135 XII, 161-215.
136 Notons que Picus est, comme Faunus, l'un des rois légendaires du Latium. Cf. A.
Brelich, Tre variazioni sul tema delle origini di Roma, Rome, 1955, p. 48 sq.; F. Castagnoli,
Lavinium I, p. 106.
137 XII, 192.
138 Cf. ci-dessus, p. 195.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 347

C) Le renouvellement annuel du traité entre Rome et Lavinium

Tite-Live atteste l'existence d'un traité renouvelé chaque année


entre Rome et Lavinium : en 340, les cités latines se liguent et se soulèvent
contre Rome139, qui gagne la guerre en 338, dissout la Ligue latine et
assure, de façon plus ou moins oppressive, sa suprématie sur chacune
des cités conjurées. Selon Tite-Live, seuls les Laurentes de Lavinium et
les chevaliers campaniens furent épargnés, parce qu'ils ne s'étaient pas
associés à la Ligue : extra poenam fuere Latinorum Laurentes Campano-
rumque équités, quia non desciuerant. Et, concernant les relations de
Rome et de Lavinium, Tite-Live ajoute : cum Laurentibus renouari fœ-
dus iussum renouaturque ex eo quotannis post diem decimum Latina-
rum140. Il y a donc eu un traité d'alliance entre Rome et Lavinium à
l'issue de la Guerre latine. Comme tout établissement d'un fœdus,
celui-ci s'est accompagné d'un sacrifice141. Mais le point qui nous
semble important ici est l'emploi, à deux reprises, de renouare à propos de
ce traité {renouari, renouatur); ce verbe, déjà employé par Tite-Live à
l'occasion de la cérémonie religieuse et du traité destinés à expier le
meurtre de Titus Tatius, nous suggère les mêmes réflexions : il ne s'agit
pas pour les deux villes de contracter une alliance qu'elles ne
connaissaient pas auparavant, mais de redonner de la force à une alliance
antérieure. Nous avons du reste la trace de liens anciens entre Rome et
Lavinium dans les clauses du traité d'alliance entre Rome et Carthage
telles que nous les transmet Polybe, avec une mention du peuple des
Laurentes : Καρχηδόνιοι δέ μη άδικείτωσαν δήμος Άρδεατών, Άντιατών,
Λαυρεντίνων, Κιρκαιιτών, Ταρρακινιτών, μηδ' άλλον μηδένα Λατίνων,
όσοι αν υπήκοοι142. Lavinium n'a donc aucun mauvais traitement à

139 Cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 411 ; J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale,
p. 321-322; F. Castagnoli, Lavinium I, p. 102-103.
140 VIII, 11, 15.
141 G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2e éd., Munich, 1912, p. 552 sq.
142 III, 22, 11 «Les Carthaginois ne feront aucun tort au peuple d'Ardée, d'Antium, de
Laurente, de Circe, de Terracine, ni à aucun autre des peuples latins qui sont soumis à
Rome» (Trad. J. de Foucault, Paris, 1971, C.U.F.) sur le traité, voir A. Alföldi, Early Rome,
p. 350 sq. ; H. Bengston, Die Verträge der griechisch-römischen Welt von 700 bis 338 vor
Ch., II, Munich-Berlin, 1962, p. 16 sq.; J. Heurgon, Rome et la Méditerranée, p. 386 sq.; P.
Pédech, La méthode historique de Polybe, Paris, 1964, p. 385 sq.; R. Werner, Der Beginn
der römischen Republik, Munich, 1963, p. 304; la lecture Λαυρεντινοΐ a été contestée par
F. Zevi (Note sulla leggenda di Enea in Italia, in Gli Etruschi a Roma, Incontro in onore di
M.. F'allottino, Rome, 1981, p. 154-155).
348 LES PÉNATES PUBLICS

craindre de la part des Carthaginois, en raison de son alliance avec


Rome, ou plutôt, selon Polybe, de sa soumission à cette dernière. Par
ailleurs, ce fœdus est renouvelé annuellement (quotannis). Ces détails
suggèrent évidemment un rapprochement avec le traité entre Rome et
Lavinium qui suivit le meurtre de Titus Tatius, et, par-delà ce traité,
avec le pacte que lui-même est supposé renouveler : l'accord entre Enée
et Latinus143. Tite-Live ne nous dit pas où se déroulait la cérémonie du
renouvellement du traité de 338, mais une inscription de l'époque de
Claude trouvée à Pompéi144 nous permet d'affirmer que c'était à
Lavinium : il s'agit d'un certain Sp. Turranius, praif(ectus) pro pr(aetore)
i(ure) d(icundo) in urbe Lauinio, pater patratus populi Laurentis fœderis
ex libris Sibullinis percutiendi cum p(opulo) (Romano). Il nous paraît
donc tout à fait légitime, comme l'a fait A. Alföldi145, de mettre en
relation ces trois cérémonies, bien que Tite-Live ne l'ait pas fait
explicitement.
Par la mention de ces trois alliances, ou de ces trois formes de la
même alliance entre Rome et Lavinium, Tite-Live donne à la ville des
Laurentes une place tout à fait exceptionnelle, qu'il souligne d'ailleurs
à propos du traité de 338. Lavinium n'est évidemment pas représentée
dans le pacte entre Enée et Latinus, puisque ce dernier se situe avant la
fondation de la cité; aussi le terme de renouatum est, que Tite-Live
emploie à propos du fœdus qui a suivi le meurtre de Titus Tatius, est-il,
à la lettre, abusif, et ne peut-il se comprendre que dans un sens
symbolique. Rome et Lavinium jouent respectivement les rôles d'Enée et de
Latinus dans le premier pacte, ce qui s'explique par le fait que les
Romains et Romulus sont considérés comme des Enéades, face aux
autochtones plus anciennement établis, les habitants de Lavinium, bien
que cette cité soit d'autre part présentée par Tite-Live comme la
première fondation d'Enée en Italie. De plus, le traité d'alliance qui a suivi
la mort de Titus Tatius est en fait le premier conclu entre la toute jeune
ville de Rome et une autre cité. A propos de l'association entre les
peuples sabin et romain à l'issue d'une guerre et après l'intervention des
Sabines, et de la double royauté de Romulus et de Titus Tatius alors

143 Cf. G. Baillet, {op. cit., p. 24 n. 4) pour le rapprochement entre le pacte qui a suivi
la mort de Titus Tatius et le traité de 338.
144 CIL X, 797.
145 Op. cit., p. 263-264.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 349

instaurée à Rome, Tite-Live parle bien de fœdus146; mais il nous semble


qu'il s'agit d'un accord différent de celui qui est établi avec Lavinium.
Par ce fœdus ou cette pax, comme l'appelle encore Tite-Live147, les
Romains et les Sabins ne concluent pas une alliance, ils fusionnent en
un seul peuple, et leurs deux rois exercent conjointement une même
royauté148. Au contraire, Enée et Latinus, comme l'indique également
Virgile149, établissent entre eux et leurs deux peuples une alliance qui
conserve leur spécificité et leur identité, ainsi qu'en témoigne le fait
qu'Enée va fonder une ville nouvelle, Lavinium, qu'il habitera avec ses
compagnons troyens, tandis que Latinus garde la royauté sur les Lau-
rentes. De même, l'alliance entre Rome et Lavinium, «renouvelée»
après le meurtre de Titus Tatius, suppose que chacune des deux cités
garde son individualité. C'est dans cette mesure que nous pouvons dire
que nous sommes ici en présence du premier véritable traité conclu par
Rome. Le texte de Tite-Live paraît toutefois contredire notre hypothèse,
lorsque l'historien évoque le fœdus qui a uni Rome et Albe avant que
les Horaces et les Curiaces ne commencent leur combat : nec ullius
uetustior fœderis memoria est150 (il poursuit en détaillant les formules
qui constituent le traité). En réalité, le mot uetustior, comme l'a
justement fait remarquer Neumann151, ne s'applique pas au fait de conclure
un traité, mais plutôt au fait que c'est le premier traité dont on ait
conservé exactement les termes, à ce que prétend Tite-Live. Il est assez

146 I, 13, 4 : inde ad fœdus faciendum duces prodeunt.


147 I, 13, 6: laeta pax.
148 On pourrait d'ailleurs considérer que c'est là un cas extrême de l'association
pouvant être créée entre deux peuples par un fœdus ; car cette « fusion totale des
communautés» (J. Poucet, Recherches sur la légende des origines sabines de Rome, Kinshasa, 1967,
p. 269), soulignée par plusieurs auteurs anciens (Denys d'H., II, 46, 2; Plutarque, Rom.,
19, 9) peut être comprise comme une forme idéalisée d'incorporation à la ciuitas
Romana, procédure dont M. Humbert (Municipium et ciuitas sine suffragio, p. 251-271)
souligne, contre l'avis de beaucoup d'historiens antérieurs, qu'elle met fin, en réalité, à la
fédération créée par le fœdus ; Servius, peut-être moins porté que Tite-Live à magnifier la
fusion entre Romains et Sabins, assure que ces derniers reçurent la ciuitas sine suffragio
{Ad Aen. VII, 709), anachronisme manifeste, mais qui montre qu'ils furent incorporés à
l'Etat romain; J. Poucet {op. cit., p. 271) estime néanmoins qu'il ne s'agit là que d'une
« notice marginale », l'ensemble de la tradition antique considérant qu'il y eut fusion entre
les deux peuples.
149 XII, 192-194.
150 I, 24, 4; pour le commentaire de la formule du fétial, voir R. M. Ogilvie, op. cit.,
p. 110-112 (avec bibliographie).
151 S.u. fœdus, R.E. VI, 2, col. 2819.
350 LES PÉNATES PUBLICS

remarquable d'ailleurs que les premiers traités conclus par Rome,


selon ses propres historiens, l'ont été avec Lavinium et Albe, ses deux
cités-mères152. Dans le traité de 338, on retrouve, comme dans les deux
alliances précédentes avec Lavinium, une place exceptionnelle,
privilégiée, donnée à la cité des Laurentes dans l'établissement des relations
entre Rome et les autres villes du Latium; alors que, selon Tite-Live,
toutes ont été traitées sévèrement, Lavinium, seule dans le Latium,
demeure extra pœnam.
Quel sens faut-il donner au traitement de faveur accordé aux
habitants de Lavinium à l'issue de la guerre entre Rome et la Ligue latine?
Tite-Live nous en propose une explication : quia non desciuerant153; des-
ciuerant implique bien qu'il existait entre Rome et Lavinium une
alliance antérieure à celle de 338; les Laurentes ne l'ont pas désavouée,
quelles qu'aient pu être les sollicitations dont ils furent l'objet de la part des
autres cités de la Ligue latine. Il ne s'agit donc pas seulement pour eux
de rester neutres dans le conflit, mais de maintenir la fidélité jurée à
Rome. La situation respective de Rome et de Lavinium dans cette
affaire s'éclaire, du reste, par l'analogie avec celle de Rome et de Capoue.
Tite-Live affirme en effet154 que les chevaliers campaniens, comme les
Laurentes ont été extra pœnam . . . quia non desciuerant : les
Campaniens sont donc eux aussi restés fidèles à un traité d'alliance antérieur
à l'insurrection latine; la nature exacte des liens - deditio ou fœdus -
qui ont uni Capoue à Rome entre 343, date présumée de la deditio, et
338, fin de la Guerre latine, est particulièrement délicate à analyser,
car, d'une part, elle semble avoir été falsifiée par les historiens latins,
et d'autre part, ces liens n'ont pas toujours été parfaitement respectés.
Selon J. Heurgon, un fœdus associe en 341 Capoue et Rome155, et Tite-
Live souligne la fidélité des chevaliers campaniens, semblable, selon
lui, à celle des Laurentes.
Les attitudes de Capoue et de Lavinium en face de Rome peuvent à
bien des égards être comparées, comme l'a noté J. Beloch156. En effet,
les deux villes, liées à Rome par un fœdus, ne lui ont pas, en réalité, été
toujours aussi fidèles que voudrait nous le faire croire l'historiographie

152 Voir infra p. 368 sq.


153 VIII, 11, 15.
154 Ibid.
155 In Recherches sur l'histoire, la religion et la civilisation de Capoue préromaine,
p. 157-191 ; id., Rome et la Méditerranée occidentale, Paris, 1942, p. 324-326.
156 Römische Geschichte bis zum Beginn der punischer Kriege, Berlin, 1926, p. 376 sq.
ROME ET LES PÉNATES DE LA VINIUM 351

romaine. J. Heurgon157 a montré comment Tite-Live avait présenté


comme une deditio le fœdus de 343 entre Capoue et Rome, par analogie
avec la deditio de 211 d'abord, mais surtout pour excuser l'intervention
de Rome aux côtés de Capoue dans la guerre contre les Samnites (qui
étaient, eux aussi, ses alliés), en présentant les liens unissant Rome à
Capoue comme plus forts que ceux qui l'unissaient aux Samnites.
Néanmoins, en 340, Capoue s'associa à la Guerre latine, à l'exception
des chevaliers capouans. Les mêmes revirements vis-à-vis de Rome se
trouvent chez les habitants de Lavinium, de l'aveu même de Tite-Live :
Latinis quoque ab Lauinio auxilium, dum deliberando terunt tempus,
uictis demum ferri cœptum est158. Cette phrase, qui précède de peu le
texte où Tite-Live affirme la fidélité de Lavinium à Rome lors de la
Guerre latine, présente avec ce dernier une surprenante contradiction;
ab Lauinio est la leçon donnée par l'ensemble des manuscrits, mais
Weissenborn a proposé, pour éviter cette contradiction, la correction
ab Lanuuio, correction également acceptée par Dessau159. Cette leçon
est refusée par M. Humbert et par F. Castagnoli160, qui souligne que «la
suite des événements ne permet. . . pas d'accorder à Lanuvium la
timidité que Tite-Live lui aurait prêtée en VIII, 11, 3, si l'on admet cette
correction»161. L'inscription découverte par G. Manganaro162, qui
attribue à Fabius Pictor un récit selon lequel Enée aurait été l'allié de
Lanoîos, fondateur et éponyme de Lanuvium163, ne nous paraît pas
suffire à justifier cette correction. G. Manganaro estime que la communio
sacrorum de Rome et Lanuvium, réalisée par le traité de 338 164, trouvait
ainsi chez Fabius Pictor un modèle mythique dans l'alliance d'Enée et
de Lanoîos. Mais un raisonnement analogue explique l'alliance de

157 Capoue préromaine, p. 171-173.


158 VIII, 11, 2 et 3.
159 CIL XIV, p. 187. Cf. M. Humbert, Municipium et ciuitas sine suffragio, p. 181
n. 196.
160 Lavinium I, p. 69 n. 1.
161 Ibid.
162 Una biblioteca storica nel ginnasio a Tauromenion nel II secolo a.C. in A. Alföldi,
Romische Έ rügeschichte, Heidelberg 1976, p. 87 sq.
163 νόσ]τον Λανοίου συμ -
μάχου τε Αινεία και
Άσκα]νίου
164 Liv., VIII, 14, 2 : Lanuuinis ciuitas data sacraque sua reddita cum eo ut aedes lucus-
que Sospitae Iunonis communis Lanuuinis municipibus cum populo Romano esset; cf. A.
Alföldi, Early Rome, p. 260.
352 LES PÉNATES PUBLICS

Rome et de Lavinium et le traitement privilégié accordé par les


Romains à cette dernière en tant que cité-mère de Rome : Romains et
Lavinates ont Enée pour commun ancêtre. Aussi pensons-nous qu'il
faut maintenir la leçon ab Lauinio, et essayer d'en expliquer les
apparentes contradictions.
Il est probable que Lavinium, comme toutes les autres cités latines,
s'est, à un moment ou à un autre, laissé entraîner dans la Guerre latine;
étant donné sa position géographique, il semble difficile qu'elle ait pu
garder une réelle neutralité165, entourée qu'elle était de cités conjurées
contre Rome. Tite-Live, du reste, ne lui accorde pas le bénéfice d'une
telle neutralité, puisque, selon lui, elle a apporté aux Latins son auxi-
lium, ce qu'implique bien évidemment qu'elle a, à un moment, pris
activement parti pour eux. M. Humbert166 souligne la
quasi- mpos ib lité pour les Lavinates de prendre le parti de Rome contre les Latins : en
338, Lavinium est, comme Aricie, l'une des métropoles religieuses du
Latium, et, à ce titre, elle peut difficilement se ranger aux côtés d'une
des cités contre toutes les autres; il note d'autre part le peu d'à propos
de l'engagement des Lavinates aux côtés des Latins en ces
circonstances, en se fondant sur le texte même de Tite-Live que nous avons cité
plus haut; en effet, les Lavinates se décident à entrer en guerre contre
Rome au moment même où la défaite des Latins est déjà pratiquement
certaine (Latinis. . . uictis). Aussi l'historien fait-il preuve d'un certain
embarras pour justifier le traitement de faveur dont a bénéficié
Lavinium. M. Humbert a insisté à juste titre sur le fait que Tite-Live parle,
non du statut politique réservé à Lavinium, mais du fœdus entre
Lavinium et Rome, et de son renouvellement. Il nous paraît difficile de
soutenir, comme l'a fait A. Bernardi167, que les termes de renouari et
renouatur employés par Tite-Live à propos du traité de 338 qui met fin
à la Guerre latine, font référence à un traité séparé qui aurait été
conclu au début de cette guerre entre Rome et Lavinium. Il nous
semble préférable de considérer, avec J. Beloch168, que ces termes
impliquent. qu'il y a eu, à un moment, rupture d'un traité; si les Laurentes
n'avaient pas pris part à la guerre, ce renouvellement d'un pacte anté-

165 Cf. E. Manni, Per la storia dei municipi fino alla Guerra Sociale, Rome, 1947, p. 42
n. 2.
166 Op. cit., p. 179-184.
167 Roma e Capua nella seconda metà del quarto secolo av. C, Athenaeum, 20, 1942,
p. 92.
168 Ibid.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 353

rieurement conclu n'aurait aucun sens. Le texte de Tite-Live (Latinis ab


Lauinio. . . auxilium ferri cœptum est) nous semble fournir un solide
argument en faveur de cette interprétation, et aller aussi dans le sens
de notre précédente hypothèse, selon laquelle Tite-Live se référerait à
un traité légendaire entre Lavinium et Rome, «datant» au moins de
Romulus, peut-être d'Enée169.
Le renouvellement du traité d'alliance en 338 introduit néanmoins
un changement dans les relations entre Rome et Lavinium.
Contrairement à Capoue, Lavinium sera une alliée parfaitement fidèle, et on ne
trouve plus de défection vis-à-vis de Rome dans son histoire. A. Alföl-
di170 s'appuyant sur l'un des textes de Tite-Live que nous avons cités171,
voit dans les mots renouaturque ex eo quotannis la preuve que le
renouvellement annuel du traité date de 338. Il est fort probable, en effet,
qu'il y a eu à date ancienne une alliance entre Rome et Lavinium, mais
que la qualité des relations entre les deux villes a connu des hauts et
des bas : la vraisemblable participation de Lavinium aux débuts de la
Guerre latine en serait un témoignage.
Juridiquement, le fœdus implique que les deux partenaires en
présence ont le même statut politique, c'est-à-dire sont des cités
indépendantes. On pourrait donc penser qu'en 338, Lavinium avait encore une
autonomie politique, et que la ciuitas Romana n'a pu lui être octroyée
qu'après la conclusion du traité. Toutefois, J. Beloch172 fait justement
remarquer la faiblesse de cet argument : le fœdus a continué à être
renouvelé jusqu'à l'époque impériale, comme en témoigne l'inscription
de Pompéi datée du règne de Claude, en un temps où Lavinium avait
depuis longtemps été incorporée à l'Etat romain et était un municipium
fœderatum. J. Heurgon173 relève que «l'association de ces deux mots
comporte, sans doute, une contradiction théorique», mais souligne, une
fois encore, l'analogie des situations où se sont trouvées Capoue et
Lavinium dans ce qui nous apparaît comme une contradiction
juridique : Mommsen, puis Beloch174 ont essayé d'expliquer la simultanéité
de deux actions juridiques - conclusion d'un fœdus et octroi de la
ciuitas Romana - en apparence incompatibles. J. Heurgon propose une

169 A. Alföldi, Early Rome, p. 263 sq.


170 Early Rome, p. 262 note 2.
171 VIII, 11, 15.
172 Loc. cit; voir aussi M. Humbert, op. cit., p. 180 η. 93.
173 Capoue préromaine, p. 187.
174 Cf. résumé de leurs argumentations in J. Heurgon, Capoue préromaine, p. 188.
354 LES PÉNATES PUBLICS

autre solution, qui, renonçant à l'idée de la simultanéité des deux actes,


suggère au contraire d'envisager le statut de municipium fœderatum
comme la superposition de deux actes chronologiquement et
juridiquement distincts : le fœdus, que Tite-Live fait remonter au temps des rois
a été renouvelé chaque année, de 338 jusque sous l'Empire, sans que
l'octroi de la ciuitas aux Laurentes, qui vidait un peu le fœdus de sa
substance politique, l'ait pour autant supprimé: «cette survivance du
fœdus dans le municipium, chaque mot désignant des réalités distinctes
et pour ainsi dire se chevauchant l'une l'autre, la première de caractère
plus religieux, la deuxième de caractère plus politique, indique bien la
vraie nature des municipes fédérés; ce sont simplement des villes qui
ont d'abord été liées à Rome par un traité et qui ont ensuite été
naturalisées romaines, sans pour cela renoncer aux traditions et au prestige
qui leur venait du fœdus antique»175; nous aurions donc à Lavinium
l'exemple de la superposition de deux statuts, de nature un peu
différente d'ailleurs, superposition assez conforme à la mentalité romaine,
qui, surtout lorsqu'elles impliquent des actes religieux,' répugne à
abroger les coutumes anciennes. Le renouvellement du fœdus avec Rome
maintient Lavinium dans une situation de prestige que son importance
politique, sans doute dès le IVe siècle, ne lui aurait pas conservée, ainsi
qu'en témoigne l'octroi aux Laurentes de la ciuitas Romana116.
La conclusion, ou le renouvellement, du fœdus entre Rome et
Lavinium s'accompagne, comme il est habituel, d'un sacrifice177. A quelle
divinité était-il adressé? L'inscription de Pompéi178 donnant les titres de
Sp. Turranius, nous fournit peut-être quelques renseignements sur ce
point : pater patratus populi Laurentis fœderis ex Libris Sibullinis percu-
tiendi cum p(opulo) (Romano), sacrorum principiorum p(opuli) R(oma-
ni) Quirit(ium) nominisque Latini, quai apud Laurentes coluntur. Au
renouvellement du traité était associé l'hommage aux sacra principia,
ou sacra principiorum des Romains et du nomen Latinum. Nous avons
donc affaire à une réorganisation politique du Latium sous l'égide de
Rome, dont nous trouvons ici l'expression religieuse. Il s'agit d'un culte
fédéral, comme le montrent les mots nominis Latini, dont le siège est à

175 Capoue préromaine, p. 188-189.


176 Pour une analyse très détaillée de la notion de municipia fœderata, cf. M.
Humbert, op. cit., p. 251-271.
177 G. Wissowa, R.U.K., p. 552 sq.
178 CIL, X, 797.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 355

Lavinium. A. Alföldi a donné de très convaincantes raisons de


comprendre sacra principiorum et non sacra principia179, et pense qu'il
s'agit du culte des Pénates. Cependant le sens de l'expression n'est pas
des plus clairs. Littéralement, elle signifie «les cultes en relation avec
les origines». F. Castagnoli, après avoir d'abord estimé180 que le
renouvellement du traité de 338 était lié au culte des Pénates, affirme
aujourd'hui que les sacra principia ne peuvent être que les Pénates de
Lavinium181.

D) Le sacrifice des magistrats romains à Lavinium

Deux témoignages tardifs nous apprennent qu'une fois par an, les
plus hauts magistrats de Rome se rendaient à Lavinium pour y
accomplir un sacrifice adressé conjointement à Vesta et aux Pénates. Le fait
est attesté par Macrobe : eodem nomine appelauit (Vergilius) et Vestam,
quam de numero Penatium certe comitem eorum esse manifestum est
adeo, ut et consules et praetores seu dictatores, cum adeunt magistratum,
Lauini rem divinam faciant Penatibus pariter et Vestae 182. La cérémonie
est donc célébrée par les magistrats de Rome, qui l'accomplissent
chaque année au moment de leur entrée en charge. Ce dernier point a été
contesté, et semble démenti par un passage de Servius 183 : hic (=
Vergilius) ergo quaeritur, utrum Vesta etiam de numero Penatium sit, an
cornes eorum accipiatur, quod cum consules et praetores siue dictator
abeunt magistratu, Lauini sacra Penatibus simul et Vesta faciunt. Selon
Servius donc, le sacrifice des magistrats romains a lieu lors de leur
sortie de charge. Cette contradiction avec Macrobe est surprenante, car les
ressemblances entre les deux textes sont telles qu'il est certain que

179 Die Trojanische Urahnen der Römer, Bale, 1957, p. 46 η. 124-125; Early Rome,
p. 264-265 n. 9.
180 Lavinium I, p. 104.
181 La leggenda di Enea nel Lazio, p. 12.
182 III, 4, 11 : «Virgile a appelé du même nom Vesta, dont il est si manifeste qu'elle
fait partie des Pénates, ou qu'elle est leur compagne, que les consuls, les préteurs ou les
dictateurs, lorsqu'ils entrent en charge, font à Lavinium un sacrifice aux Pénates en
même temps qu'à Vesta».
183 Ad Aen. II, 296 : « Virgile se demande donc si Vesta aussi fait partie des Pénates,
ou si elle est considérée comme leur compagne, parce que, lorsque les consuls, les
préteurs ou le dictateur sortent de charge, ils accomplissent à Lavinium des cérémonies
sacrées destinées aux Pénates en même temps qu'à Vesta » ; voir supra p. 292-6 pour les
liens entre Vesta et les Pénates.
356 LES PÉNATES PUBLICS

Macrobe s'est inspiré directement de Servius pour faire ce


commentaire de Virgile. K. Latte184 propose comme la bonne la leçon abeunt
magistratu, et voit dans adeunt magistratum une erreur d'un copiste.
Cette solution à la contradiction précédemment relevée entre les deux
textes repose évidemment sur l'antériorité du texte de Servius. S.
Weinstock185 résout différemment le problème, puisqu'il pense que le
sacrifice avait lieu lors de l'entrée en charge des magistrats et lors de
leur sortie de charge, et cite à l'appui de ce dernier point, outre le texte
de Servius, deux autres témoignages; en effet, Valére Maxime écrit à
propos du consul C. Hostilius Mancinus : cui consult in Hispaniam ituro
haec prodigia acciderunt. Cum Lauini sacrificium facere uellet, pulii
cauea emissi in proximam siluam fugerunt 186 ; avant d'accomplir le
sacrifice, C. Hostilius Mancinus prend donc les auspices qui sont
défavorables; les circonstances qui entourent ces événements sont consult
in Hispaniam ituro, et l'interprétation de S. Weinstock laisse entendre
qu'il voit là le départ d'un consul à sa sortie de charge pour une
province où il exercera le proconsulat, en l'occurrence l'Espagne. Mais nos
autres sources d'information sur le personnage et sa conduite
infirment cette interprétation. C. Hostilius Mancinus nous est connu
notamment par Cicéron187, et fut consul pendant la Troisième Guerre
Punique, en 137: à ce moment, depuis plusieurs années, les Romains
doivent faire face à un soulèvement de l'Espagne - conquise par Scipion
l'Africain et province romaine depuis 206 -, dont le foyer le plus actif
est Numance, devant laquelle d'ailleurs C. Hostilius Mancinus
capitulera honteusement188. Il ne s'agit donc pas, on le voit, du départ d'un
consul sortant de charge pour l'administration d'une province
ordinaire, mais du départ du consul, au cours de l'exercice de sa magistrature,
comme imperator à la tête de l'armée romaine qui doit réprimer un
soulèvement grave : C. Hostilius Mancinus part pour livrer bataille, non
pour administrer; le texte de Valére Maxime, cui consult, suggère bien
cette interprétation, et il n'y est pas question de la sortie de charge du
consul. Un autre passage de Servius, invoqué par S. Weinstock à l'ap-

184 Römische Religions Geschichte, Munich, 1960, p. 295, n. 5; cf. aussi A. Alföldi,
Early Rome, p. 261 η. 3, et F. Castagnoli, Lavinium I, p. 72 n° 142, η. 1.
185 R.E., XIX, 1, s.u. Penates, col. 428.
186 I, 6, 7.
187 De Off., Ill, 109; cf. éd. de M. Testard, C.U.F., Paris, 1970, p. 188 n. 1.
188 Cf. C. Nicolet, Rome et la conquête du monde méditerranéen. I : Les structures de
l'Italie romaine, Paris, 1977, p. 337.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 357

pui de sa thèse, confirme plutôt, nous semble-t-il, notre interprétation :


quod imperatores in prouincias ituri apud eos (= les Pénates de Lavi-
nium) primum immolarmi189. Là encore, Servius ne parle pas de
proconsuls à leur sortie de charge, mais a' imperatores.
Le second texte cité par S. Weinstock est un passage de l'Histoire
Auguste, dans la Vie de Marc-Aurèle : Romam ut uenit triumphauit et
inde Lauinium profectus est190. On peut faire deux objections à la valeur
de ce témoignage : tout d'abord, il fait référence à des réalités
politiques très différentes de celles de la Rome républicaine191, puisque, sous
l'Empire, le consulat est un titre purement honorifique qui ne recouvre
aucun pouvoir réel192; d'autre part, il est extrêmement vague, puisqu'il
ne donne aucune précision sur les circonstances dans lesquelles Marc-
Aurèle a célébré ce triomphe, ni sur ce qu'il est allé faire exactement à
Lavinium; aussi nous rallierons-nous à l'opinion d'A. Alföldi, qui pense
que ce texte «n'est pas suffisamment clair ni sûr»193. En conclusion, on
peut donc dire qu'il n'existe aucun témoignage attestant un sacrifice
des magistrats romains à leur sortie de charge.
Pour résoudre la contradiction entre les textes, par ailleurs si
voisins, de Servius et de Macrobe, A. Alföldi194 et F. Castagnoli195 ont
proposé la correction inverse de celle de K. Latte : c'est le texte de
Macrobe {cum adeunt magistratum) qui donnerait la bonne leçon, et celui de
Servius (cum. . . abeunt magistratu) serait une erreur de copiste,
tardive, en tout cas postérieure à la tradition manuscrite du texte de Servius
qu'a pu connaître Macrobe. Cette interprétation nous semble
préférable, car la valeur symbolique de ce sacrifice, sorte de pèlerinage au
berceau du peuple romain effectué par les premiers personnages officiels
de la cité, retour aux sources, paraît avoir plus naturellement sa place
au début d'un mandat politique ou militaire important.
Deux témoignages attestent la présence de prêtres romains lors de
sacrifices à Lavinium. Selon Servius, les flamines venaient sacrifier
dans la ville des Laurentes, et il explique d'une manière assez amusante
l'utilité de la uirga qui se dressait sur leur bonnet, sorte d'épouvantail à

189 AdAen. III, 12.


190 27, 4.
191 Voir C. Nicolet, op. cit., p. 406-408.
192 P. Petit, La paix romaine, 3è éd. Paris, 1982, p. 134.
193 Early Rome, p. 261 n. 3.
194 Ibid.
195 Ibid.
358 LES PÉNATES PUBLICS

oiseaux, nécessaire, sans doute, dans cette région boisée : flamines in


capite habebant pilleum, in quo erat breuis uirga. . . Alii dicunt. . . hoc
factum. . . quia cum sacrificarent apud Laurolauinium et eis exta
frequenter aues de uicinis uenientes lucis abriperent, eminentia uirgarum
eas terrere uoluerunt. Exinde edam consuetudo permansit, ut apud
Laurolauinium ingénies haberentur uirgae, non breues ut in urbe190. Aucune
précision, toutefois, n'est donnée sur la divinité à laquelle ce sacrifice
était destiné; les Pénates ne sont pas mentionnés. Un passage du scho-
liaste de Vérone permet peut-être d'éclairer ce point : Aeneae Indigeti
templum dicauit, ad quod pontifices quotannis cum consulibus ire soient
sacrificaturi197 : il est ici question des pontifes, mais l'indication selon
laquelle ils sont accompagnés des consuls a suggéré à J. Scheid198 un
rapprochement avec les textes de Servius et Macrobe mentionnant la
présence des consuls, préteurs, ou dictateurs, qui lui fait considérer
comme «très probable» qu'il s'agisse du même sacrifice aux Pénates.
Au reste la mention que fait le scholiaste de «l'espace consacré à
Aeneas Indiges» comme lieu de la cérémonie peut paraître renforcer
l'hypothèse d'un sacrifice à ces dieux, étant donné le lien établi entre
Enée et les Pénates de Lavinium. G. Wissowa199, A. Alföldi200, et F.
Castagnoli201, affirment très nettement qu'il s'agit du même sacrifice.
Un passage du commentaire d'Asconius au Pro Scauro fournit sur
ce point un témoignage important, mais discuté : Cn. Domitius qui
consul fuit cum C. Cassio cum esset tribunus plebis, iratus Scauro quod
eum in augurum collegium non cooptauerat, diem ei dixit apud populum
et multam irrogauit, quod eius opera sacra populi Romani deminuta esse
diceret. Crimini dabat sacra publica populi Romani deum Penatium quae

196 Ad Aen. VIII, 664 : « Les flamines avaient sur la tête un bonnet surmonté d'une
courte baguette. Les uns disent que la raison de cet usage est que, alors qu'ils sacrifiaient
à Lavinium, et que les oiseaux venaient des bois voisins leur arracher les entrailles des
victimes, ils voulurent les effrayer par la hauteur des baguettes. La coutume s'est
maintenue de porter de longues baguettes à Lavinium, et non des baguettes courtes comme à
Rome ».
197 Ad Aen. I, 239.
198 Le délit religieux dans la Rome tardo-républicaine, in Le Délit religieux dans la cité
antique, Ecole Française de Rome, Rome, 1981, p. 171.
»» R.U.K., p. 518.
200 Early Rome, p. 261.
201 Lavinium I, p. 109 n. 3.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 359

Lanini fièrent opera eins minus recte casteque fieri202. E. Pais203 a


contesté que ce fût en tant que pontife que M. Aemilius Scaurus commit cette
faute; si l'on accepte cette interprétation, le texte d'Asconius n'apporte
aucun élément en faveur de la thèse selon laquelle les pontifes
assistaient au sacrifice des magistrats romains aux Pénates de Lavinium. Au
contraire, J. Scheid a pu démontrer, avec des arguments qui nous
semblent très convaincants204, que Scaurus était bien pontife lorsqu'il
commit l'impiété dont Domitius l'accusa.
Si l'on accepte l'identification du sacrifice fait à Lavinium par les
pontifes avec celui des magistrats romains lors de leur entrée en
charge, le texte d'Asconius comme celui de Valére Maxime à propos de C.
Hostilius Mancinus205 nous montrent l'importance attachée à
l'accomplissement de ces sacra lavinates. Scaurus, pour avoir sacrifié minus
recte casteque, semble avoir mis en péril l'équilibre religieux de Rome,
la pax deorum, et, d'autre part, cette faute a entraîné une punition pour
toute la cité, sous la forme d'une défaite206; aussi l'accusation portée
contre lui semble-t-elle avoir été extrêmement grave207. De même,
ïomen des poulets sacrés qui s'échappent de leur cage au moment où
C. Hostilius Mancinus va sacrifier à Lavinium lors de son départ pour
l'Espagne annonce sa capitulation devant Numance et la honte qui en
rejaillira sur lui208, mais aussi sur Rome tout entière. Sans doute faut-il
mettre également en relation avec le sacrifice aux Pénates, comme le

202 18-19, p. 21 C : «Cn. Domitius qui fut consul en même temps que C. Cassius,
lorsqu'il était tribun de la plèbe, courroucé contre Scaurus parce qu'il ne l'avait pas coopté
pour le collège des augures, l'assigna à comparaître devant le peuple et proposa à ce
dernier de lui infliger une amende parce que, disait-il, les cérémonies sacrées du peuple
romain avaient, par sa faute, subi un préjudice. Il lui faisait grief de ce que les
cérémonies sacrées en l'honneur des Pénates du peuple romain, qui se font à Lavinium, avaient
été par sa faute trop peu correctement et purement accomplies ».
203 Dalle Guerre Puniche a Cesare Augusto, Rome, 1918, p. 154 sq. Cf. J. Scheid, op. cit.
p. 168-169.
204 Op. cit., p. 169-171.
205 Un texte d'Obsequens reprend à peu près littéralement celui de Valére Maxime,
mais, curieusement, assimile la faute de Scaurus, considéré en tant que consul, à celle de
C. Hostilius Mancinus : M. Aemilio C. Hostilio Mancino coss. cum Lauinii auspicar entur,
pulii e cauea in siluam Laurentinam euolarunt neque inuenti sunt (24).
206 J. Scheid, op. cit., p. 125.
207 Cf. J.-L. Ferrary, Recherches sur la législation de Saturninus et Glaucia, II, MEFR,
91, 1979, p. 100, n. 47.
208 C. Nicolet, loc. cit. : C. Hostilius Mancinus perdit son titre de citoyen romain.
360 LES PÉNATES PUBLICS

suggère F. Castagnoli209, le prodige raconté par Caton : Lauini boues


immolatos, prius quant caederentur, profugisse in siluatn210; nous
ignorons tout des circonstances dans lesquelles se produisit ce prodigium.
Reste à préciser la relation existant entre le sacrifice des magistrats
et des prêtres de Rome aux Pénates de Lavinium lors de l'entrée en
charge des premiers, et le renouvellement annuel du traité d'alliance
entre Rome et Lavinium. G. Wissowa211 ne met pas en doute qu'il
s'agisse de la même cérémonie, non plus qu'A. Alföldi212; les deux savants
appuient leur affirmation sur l'inscription de Pompéi, mentionnée plus
haut, qui contient les mots sacrorum principiorum p(opuli) R(omani)
Quirit(ium) nominisque Latini, suivant immédiatement l'évocation du
fœdus entre Rome et Lavinium. Le texte d'Asconius que nous citions
plus haut semble venir à l'appui des arguments d'A. Alföldi rappelés
ci-dessus; les mots de l'inscription sont, en effet, bien proches des sacra
publica populi Romani deum Penatium, quae Lauini fièrent, à ceci près,
cependant, qu'aucun mot du texte d'Asconius ne suggère que ce culte
est commun à tous ceux qui se réclament du nomen Latinum. Ajoutons
que la date présumée des deux cérémonies ne permet guère de les
différencier : les magistrats romains entrent en charge le 1er janvier à
partir du Ier siècle av. J.-C.213 et les Fériés Latines - le renouvellement du
fœdus entre Rome et Lavinium a lieu neuf jours après elles214 - sont
célébrées le plus souvent en janvier. Enfin, un argument de poids pour
affirmer que ces deux cérémonies sont distinctes serait d'arriver à
montrer qu'elles ont des significations idéologiques différentes, ce qui
paraît difficile.
L'importance attachée par les Romains à la célébration des sacra
de Lavinium, comme leur réorganisation par le fœdus de 338, nous
paraissent une des expressions du courant idéologique et religieux qui a
donné sa forme, notamment, à la légende troyenne215. Cependant,
assimiler le renouvellement annuel du fœdus entre Rome et Lavinium et le
sacrifice des magistrats romains aux Pénates et à Vesta présente des
difficultés lorqu'on examine les lieux de culte découverts à Pratica di

209 Lavinium I, p. 109 n. 3; voir aussi A. Alföldi, Early Rome, p. 267.


210 Servius-Daniel, Ad Aen. X, 541 = fr. 55 Peter.
211 R.U.K. p. 518.
212 Early Rome, p. 260-261.
213 C. Nicolet, op. cit., p. 400.
214 Cf. ci-dessous, p. 372 sq.
215 Cf. ci-dessous, p. 378-9.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 361

Mare. Le traité de 338 semble renouvelé dans un sanctuaire fédéral,


puisque, à en juger par l'inscription de Pompéi, il associe tous ceux qui
se réclament du nomen Latinum; or, nous l'avons vu, les Pénates
s'accommoderaient mal, par leur nature, d'un sanctuaire fédéral
extraurbain. C'est pourquoi sans doute F. Castagnoli216 se borne, avec
beaucoup de prudence, à poser, sans le résoudre, le problème de cette
identification217.

2) La signification du choix de Lavinium comme métropole de Rome

Que représente Lavinium dans le Latium du IVe siècle? N'est-elle


déjà, comme elle le deviendra par la suite, qu'une ville sainte, sans
importance politique?

A) Rôle particulier de Lavinium

Nous avons vu précédemment que, au moins pendant l'époque


archaïque, l'architecture lavinate n'est pas exclusivement religieuse.
L'importance de la muraille d'enceinte du VIe siècle en est la preuve,
de même que le choix du site de l'oppidum sur une colline, où se trouve
aujourd'hui le village de Pratica, montre la volonté d'avoir une position
facile à défendre, naturellement protégée des agressions voisines.
Nous croyons d'autre part que, au VIe siècle au moins, Lavinium,
par son escale maritime Troia, a eu un rôle commercial qui explique
son essor architectural comme centre urbain et son rôle dans la
diffusion des légendes grecques, notamment celle d'Enée. Evoquant le traité
de 508 avant J.-C. entre Rome et Carthage, Polybe mentionne une
clause qui assure la paix pour Ardée, Antium, Lavinium, Circeii et Terraci-
ne218 : ces villes sont situées au bord de la mer, et les garanties dont

216 Lavinium I, p. 109.


217 Rappelons toutefois que, revenant récemment sur ce problème (La leggenda di
Enea nel Lazio, p. 12), F. Castagnoli et allé beaucoup plus loin: «il semble y avoir un
rapport évident entre le fœdus et les principia du peuple romain et du nomen Latinum,
qui ne peuvent être que les Pénates de Lavinium»; à l'appui de cette thèse, le savant
italien cite le texte de Varron que nous avons plusieurs fois mentionné : oppidum, quod
primum conditum in Latio stirpis Romanae, Lavinium : nam ibi dii Penates nostri (De L.L.
V, 144); voir aussi M. Torelli, Lavinio e Roma, p. 179; 209; 217.
218 III, 22; cf. F. W. Walbank, A Historical Commentary to Polybius, I, Oxford, 1957,
p. 341 sq.
362 LES PÉNATES PUBLICS

elles bénéficient de la part des Carthaginois s'expliquent par leur rôle


dans l'économie du Latium, non par leur rôle religieux. De plus Lavi-
nium présente l'avantage d'être située à peu de distance de l'Etrurie,
dont la prospérité et l'activité sont considérables au VIe siècle, et qui est
en liaison avec le monde grec. Si le rôle portuaire de Lavinium est
attesté à l'aube du VIe siècle, il est difficile de suivre l'histoire politique
de la cité entre le VIe et le IVe siècle. Strabon fournit une indication
peut-être précieuse, à propos de YAphrodisium fédéral des Latins à
Lavinium, dont il affirme qu'il est administré par des intendants d'Ar-
dée219. Or, un passage de Pline220, et un autre de Pomponius Mela221,
probablement dérivés d'une commune source grecque222, mentionnent
un Aphrodisium près d'Ardée, entre la ville et la côte, sanctuaire
fédéral selon Strabon223. Si l'existence de deux sanctuaires fédéraux dédiés
à la même déesse et aussi proches a pu sembler singulière, R.
Schilling224 a très justement noté qu'on connaît d'autres exemples de ces
duplications de sanctuaires225. Ainsi, lorsque Strabon note que
l'administration de YAphrodisium fédéral de Lavinium était placé sous la
tutelle d'Ardée, cela signifie probablement qu'à un moment de l'histoire
de la Confédération latine, Ardée a imposé son hégémonie et pris en
mains le culte fédéral. Aucune indication sur la date à laquelle cet
événement s'est produit ne nous est parvenue, mais il y a tout lieu de
croire que c'est antérieurement au IVe siècle, avant la victoire romaine sur
le Latium. Ardéea-t-elle arraché à Lavinium la place qu'elle aurait eue
à la tête des Latins? C'est possible, car l'importance économique de
Lavinium aurait justifié qu'elle tînt ce rôle, dont la présence de
YAphrodisium fédéral aux portes de son enceinte serait du reste un
témoignage. Mais ce n'est là qu'une hypothèse, une mince lueur jetée dans
l'ombre qui entoure l'histoire de la Confédération latine et des rivalités
entre les cités pour en prendre la direction. On peut donc supposer
qu'après le VIe siècle, date à laquelle sont édifiés les premiers autels du
sanctuaire que nous considérons comme YAphrodisium, Lavinium a

219 V, 3, 5 : επιμελούνται δ' αύτοΰ (= VAphrodisium fédéral) δια προπόλων Άρδεαται.


220 Ν.Η., III, 5, 56-57.
221 Π, 4, 71.
222 F. Castagnoli, Lavinium I, p. Ill; p. 55 n. 8 pour une bibliographie détaillée.
223 Ibid.
224 La religion romaine de Vénus depuis les origines jusqu'au temps d'Auguste, 2è éd.,
Paris, 1982, p. 68-69.
225 Liv., I, 45, 2 (sanctuaires de Diane à Aricie et à Rome); cf. supra p. 256.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 363

connu un certain déclin politique ou économique, mais a continué, son


architecture en témoigne, à être une métropole religieuse.
La récente découverte du dépôt de statues votives dans l'aire
sacrée située sur une hauteur à l'est de Pratica di Mare remettra peut-
être en question cette vision des choses. On estime226 que l'ensemble de
ces statues et ex-voto, parfois copiés sur des modèles grecs, sont le
produit d'ateliers locaux. Cette floraison artistique attesterait une
importante activité économique à Lavinium entre le Ve et le IIIe siècles,
limites chronologiques que l'on assigne à ces objets. Mais il est très difficile
d'apprécier le rôle que cette activité économique a conféré à Lavinium,
et, par là-même, d'en déduire que la ville avait à cette époque une
importance politique. Ce rôle économique n'est-il pas en effet très
spécialisé, limité à la production - quelle qu'en soit la remarquable valeur
artistique - d'objets sacrés à usage strictement local, même si les
commanditaires en étaient étrangers à la cité? Rappelons à ce propos le
mot de J. Heurgon qualifiant Lavinium de «véritable petite Delphes du
Latium antique»227. Nous penserions volontiers que, en 338, Lavinium
avait déjà perdu, sans qu'il soit possible de déterminer les causes ni la
date de ce fait, le rôle commercial et politique que nous lui supposons
au VIe siècle.
Une autre donnée nous semble venir à l'appui de cette hypothèse :
Lavinium, dit Tite-Live228 est demeurée extra pœnam lors de la défaite
de la Ligue latine devant Rome. La fidélité par laquelle Tite-Live
explique cette faveur étant assez douteuse, est-il concevable que Rome ait
accordé un traitement privilégié à une ville politiquement importante,
qui pouvait, si elle n'était pas écrasée par le traité de 338, constituer
une menace pour elle par la suite? Nous croyons, au contraire, que si
Lavinium a été épargnée, et même favorisée par rapport aux autres
cités latines, c'est que Rome n'avait rien à craindre d'elle sur le plan
politique.
Il faut sans doute voir une explication de ce traitement de faveur
dans le prestige religieux de la «Delphes latine», mais il convient aussi
de chercher les raisons qui ont amené Rome à considérer Lavinium
comme sa métropole religieuse et sa cité-mère, de préférence à d'autres

226 P. Sommella, Le dépôt de statues votives découvert à Pratica di Mare ; F. Castagnoli,


// culto di Minerva a Lavinio; id., Enea nel Lazio, p. 187-269.
227 La Magna Grecia e i santuari del Lazio, p. 11.
228 Vili, 11, 15.
364 LES PÉNATES PUBLICS

centres fédéraux de la religion latine, comme les Monts Albains ou Ari-


cie. La relation de filiation entre Rome et Lavinium est bien attestée au
Ier siècle avant J.-C, mais il est délicat de définir les éléments autour
desquels elle s'est constituée, et de les dater.

B) Eléments légendaires

On serait tenté, au premier abord, de penser que le personnage


d'Enée, dont nous avons dit qu'il a dû être connu à Lavinium et en
Etrurie dès le VIe siècle, a été l'un de ces éléments. Il existe en effet une
tradition qui rapporte à Enée lui-même, et non à Romulus, la fondation
de Rome, tradition connue grâce à Hellanicos, cité par Denys d'Hali-
carnasse. Denys passe en revue les différentes légendes ayant trait à la
fondation de la ville229, attribuée selon lui par certains auteurs grecs à
Romus, l'un des quatre fils d'Enée; il y ajoute le témoignage, différent,
d'Hellanicos,
καθ' έκάστην πραχθέντα
historien du
συναγάγων
Ve siècle : Αίνείαν
ό δέ ταςφησίν
ίερείας
έκ τάς
Μολοττών
έν "Αργείεις
και
Ίτα-
τα
λίαν έλθόντα μετ' 'Οδυσσέως οίκιστήν γενέσθαι της πόλεως, όνομάσαι δ'
αυτήν άπο μιας των Ίλιάδων 'Ρώμης230. Le récit d'Hellanicos, dont on n'a
pas de raison de penser qu'il ait été déformé par Denys - il ne le
reprend pas à son compte, mais le cite parmi d'autres traitant du
même sujet -, reprend un thème que l'on trouve peut-être déjà sous-
jacent dans un passage interpolé de la Théogonie23·1 , généralement daté
du VIe siècle : le poète, en évoquant à la suite les amours de Vénus et
d'Anchise, dont Enée est le fruit, et celles de Circe et d'Ulysse, s'est
peut-être, nous l'avons vu, souvenu d'une légende associant les deux
héros, ennemis dans la Guerre de Troie. Le témoignage d'Hellanicos à
propos de la fondation de Rome par Enée, postérieur, croyons-nous, à
l'introduction du personnage du Troyen en Italie, est un
développement grec de la légende d'Enée, sans relation avec l'élaboration que
connaît cette dernière en Italie après qu'elle y fut introduite232. En

229 1, 72-89.
230 I, 72, 2: «L'auteur de l'histoire des prêtresses d'Argos et des événements qui se
produisirent du temps de chacune d'elle dit qu'Enée vint avec Ulysse du pays des
Molosses en Italie, et fonda une cité dont il tira le nom de celui de Rome, l'une des Troyennes».
Voir N. Horsfall, Some Problems in the Aeneas' Legend, CQ, 29, 1979, p. 376 sq.
231 1008-1016; voir supra p. 162.
232 Contra : T. J. Cornell {Aeneas'arrival in Italy, passim), pour qui la légende, apparue
à la fin de la République, est une élaboration savante, sans racines populaires.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 365

effet, il n'existe pas à Rome de culte d'Enée comme fondateur, même


au Ier siècle, quand la légende des origines troyennes de Rome est
définitivement établie. S'il existe dans le «calendrier de Numa» une
mention en grandes capitales d'une fête des Agonalia Indigetis, à la date du
11 décembre, dont on s'accorde à penser qu'elle a une signification
astrale233, rien n'indique, dans les développements ultérieurs de ce
culte, qu'à Rome Enée ait été assimilé à Indiges comme il le fut à
Lavinium. Rome n'a pas connu de culte d'Enée comme ancêtre fondateur,
et ce n'est donc pas dans le personnage du héros troyen qu'il faut
chercher la raison du lien privilégié qui a uni Rome et Lavinium. De
surcroît, nous avons vu que le culte d'Enée n'est attesté à coup sûr à
Lavinium qu'au IVe siècle; la transformation de la tombe orientalisante du
VIIe siècle en hérôon date de la fin du IVe siècle, de sorte qu'il faut y
voir, selon nous, une conséquence de l'établissement du traité de 338, et
non l'explication du sort privilégié fait alors à Lavinium.
Nous pensons que cette explication se trouve plutôt dans la
rencontre entre les possibilités qu'offrait Lavinium et le désir de Rome de
donner à la légende de ses origines un éclat qui correspondît à son nouveau
rôle politique. Quelques faits religieux ou légendaires ont aidé à la
cristallisation et à l'enracinement de la nouvelle légende qui va naître de
cette rencontre. Au IVe siècle, Lavinium est à coup sûr une métropole
religieuse du Latium; mais elle n'est pas la seule. Par ailleurs, il existe
une légende grecque de la venue d'Enée en Italie, et ce personnage est
connu à Lavinium; on sait aussi qu'il transportait des ίερά troyens;
enfin, il existait à Lavinium, depuis le VIe siècle, un culte de Vénus. Les
témoignages de Timée et de Lycophron attestent l'existence d'une
légende troyenne des origines de Lavinium au IVe ou IIIe siècle, et, à ce
moment, les Pénates de Lavinium sont assimilés aux ίερά troyens. Cela
ne prouve pas, objectera-t-on, que la légende des origines troyano-lavina-
tes de Rome se soit constituée dès cette date; pourtant, on pourrait ainsi
expliquer le traitement réservé à Lavinium en 338, et nous nous
proposons de donner quelques justifications à l'appui de cette hypothèse.
Le culte des Pénates privés ou publics, est inconnu du monde grec
et il nous est apparu comme italique et même spécifiquement latin. Le
suffixe -ates234, quand il sert à former des dérivés à partir de mots

233 R. Schilling, Le culte de V« Indiges à Lavinium», p. 54-58. B. Liou-Gille, op. cit.,


p. 105-114; voir supra p. 300.
234 Voir supra p. 29 sq.
366 LES PÉNATES PUBLICS

autres que des noms de villes se trouve surtout dans le Latium235.


D'autre part, il y a tout lieu d'assigner à ce culte une très haute antiquité,
malgré l'absence de preuves archéologiques irréfutables et le fait que le
mot Penates n'apparaît dans les textes latins qu'avec Naevius.
L'existence, hypothétique, d'un très ancien culte des Pénates dans
le Latium ne suffirait pas à expliquer pourquoi les Romains ont
reconnu comme leurs les Pénates de Lavinium. Entre les deux cités existent
d'autres liens, d'autres parallélismes légendaires et religieux, parmi
lesquels la présence, dans les deux cités, du Palladium. Nous avons déjà
fait état du passage de Lycophron236 suggérant l'existence à Lavinium
d'un sanctuaire de Pallas-Athéna antérieurement à la venue d'Enée; G.
Pugliese Carratelli237 propose d'y voir l'une des traces du culte d'Athéna
Ilias en Italie centrale, originaire de la Grande-Grèce (le même culte est
attesté en Sicile, à Siris). Le nom de Pallas sous lequel la déesse était
peut-être vénérée à Lavinium238 suggérerait la présence du Palladium
dans cette cité239. D'ailleurs, parmi les statues trouvées dans le dépôt
votif du sanctuaire de Minerve, nous avons mentionné une
représentation de la déesse très rigide, de facture «archaïque», peut-être copie du
Palladium240. Il n'est pas exclu que la statue ait été conservée dans le
sanctuaire de Vesta. Or, à Rome, la présence du Palladium parmi les
sacra du Penus de l'Aedes Vestae sur le Forum est bien attestée à
l'époque classique241, mais il est difficile de dater les origines de cette
tradition, et de déterminer si le culte du Palladium à Rome est dérivé de
celui de Lavinium, ou s'il est apparu simultanément dans les deux
cités242.

235 Contra : F. Borner, Rom und Troia, p. 65-78 ; voir aussi P. Boyancé, Les Pénates et
l'ancienne religion romaine, REA, 54, 1952, p. 113-114.
236 Alex, 1261-62; voir supra p. 174 sq.; 260 sq.
237 Lazio, Roma e Magna Grecia, p. 324-325.
238 Virgile {En. XII, 447) désigne comme Palladts arces la cité où règne Latinus.
239 F. Castagnoli, Lavinium I, p. 106 n. 13.
240 M. Fenelli, Enea nel Lazio, p. 193-194 (D 63) et fig. D 63 p. 195. Pour M. Sordi
{Lavinio, Roma e il Palladio, in Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l'Oriente,
Milan 1982, p. 65-78), le Palladium de Lavinium est un «faux».
241 Cicéron, Scaur., 48 : eripuit fiamma Palladium Mud quod quasi pignus nostrae
salutis atque imperi custodiis Vestae continetur; cf. Denys d'H., I, 69, 4; voir infra p. 460-
7.
242 Lavinium I, p. 99 n. 9; id., Ancora sul culto di Minerva a Lavinio, BCAR, 90, 1,
1985, p. 7-12.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 367

De toute façon, sauf dans un fragment de vase où E. Paribeni243


croit pouvoir reconnaître le Palladium de Rome, nous ne saisissons
jamais les traditions littéraires ou iconographiques relatives à la statue
indépendamment de la légende d'Enée. Il est certain qu'il existe un lien
entre ce dernier et le Palladium, mais il est difficile de dire s'il existait
antérieurement à la fixation de la légende des origines troyano-lavina-
tes de Rome; si oui, on peut penser que la présence du Palladium
parmi les sacra, à Rome et à Lavinium, est une conséquence de l'adoption
d'Enée comme ancêtre; sinon, l'existence de la légende du Palladium à
Rome antérieurement à l'établissement de la légende de la filiation
entre Rome et Lavinium a pu faciliter la constitution de cette dernière,
tandis que se développait et s'établissait à Lavinium même la légende
d'Enée et du transfert des sacra, parmi lesquels la tradition
mentionnait le Palladium. Il en va de même du culte de Vesta, commun aux
deux cités, mis en relation avec le Palladium et la légende de l'arrivée
d'Enée; là encore, il est difficile de dire si le culte romain est dérivé du
culte lavinate, ou si ce culte s'est implanté parallèlement dans les deux
cités.

C) Réalités historiques

L'archéologie prouve que le site de Lavinium n'a pas été habité à


date plus ancienne que celui de Rome : pour l'un et l'autre, les
premières traces d'occupation datent de la fin de l'Age du Bronze ou des
débuts de l'Age du Fer, c'est-à-dire aux alentours du Xe siècle, et elles
sont connues par des groupes de tombes244. Mais il serait peut-être
imprudent d'en déduire que les relations de filiation que Rome se
reconnaît avec Lavinium relèvent de la seule légende, et d'une légende
relativement tardive. L'archéologie du site de Rome confirme, selon F.
Coarelli245, les données de la tradition, c'est-à-dire que Rome accède au
statut de cité au VIe siècle avant J.-C, comme en témoigne le dévelop-

243 Una testa d'Atena arcaica del Palatino, ΒΑ, 49, 1964, p. 193-198.
244 Μ. Pallottino, Le origini di Roma, ArchClass, 12, 1960, p. 1-36; P. Romanelli,
Certez e e ipotesi sulle origini di Roma, StudRom, 13, 1965 p. 4-18; M. Pallottino, Le origini di
Roma: considerazioni critiche sulle scoperte e sulle discussioni più recenti, A.N.R.W. I, 1,
Berlin-New York, 1972, p. 22-47; R. Peroni, Le fasi preurbane della fine dell'età del bronzo
et dell'inizio dell'età del ferro, in Civiltà del Lazio primitivo, Catalogue de l'Exposition,
Rome, 1976, p. 19-25; J. Poucet, Le Latium protohistorique . . ., I, p. 572 sq.
245 // Foro Romano. I : Periodo arcaico, Rome, 1983, p. 56 sq.
368 LES PÉNATES PUBLICS

pement architectural de ce temps (construction du foyer de l'Etat avec


le sanctuaire de Vesta, de la maison du roi, organisation d'une place
destinée à la vie publique, édification de la muraille attribuée à Servius
Tullius). Lavinium, nous l'avons vu, connaît un développement comme
centre urbain à la même époque. On peut conclure à une évolution
parallèle des différents peuples latins, au changement des villages en
cités au VIe siècle (peut-être en partie sous l'influence étrusque), et à
l'apparition simultanée de traditions religieuses analogues dans ces
cités appartenant à une même ethnie, avec, là aussi, la possibilité
d'influences grecques ou étrusques. Mais il ne faut pas exclure l'hypothèse
d'une colonisation lavinate à Rome; l'archéologie lui fournit peut-être
un appui, puisqu'il semble que le premier tracé des murailles de
Lavinium ait daté du VIe siècle, ce qui donnerait à sa constitution comme
cité une antériorité sur celle de Rome; que Lavinium ait connu ce
développement nouveau plus tôt que Rome peut s'expliquer par le fait que
sa situation géographique et son rôle portuaire l'ont rendue plus
perméable aux apports étrangers.
L'idée que Rome est la fille de Lavinium n'est donc pas forcément
une invention littéraire. Du reste, la tradition atteste une relation
privilégiée entre les deux cités à une date très ancienne; Denys d'Halicar-
nasse246 et Tite-Live247 font remonter l'alliance entre elles, et le sacrifice
l'accompagnant, au règne de Romulus; certes, ces indications n'ont pas
la valeur d'un témoignage historique, mais elles ont l'intérêt de refléter
une tradition qu'il n'y a pas lieu de récuser a priori248; le traité de 509
entre Rome et Carthage mentionné, par Polybe249, en assurant la
protection d'un certain nombre de cités du Latium parmi lesquelles
Lavinium, témoigne, lui aussi, de liens de la cité avec Rome. Il est
impossible de préciser comment ces liens étaient formulés, ou ressentis, par les
Romains, mais ils peuvent être l'un des éléments qui favorisèrent plus
tard l'élaboration de la légende des origines troyano-lavinates de
Rome.
Cette dernière résulte, croyons-nous, de la fusion de deux
traditions : d'une part, la légende de la venue d'Enée en Italie et de l'origine
troyenne de Lavinium, d'autre part, celle, plus diffuse peut-être, d'un

246 II, 52, 3.


247 I, 14, 2-3.
248 Cf. M. Pallottino, Le origini di Roma, A.N.R.W., I, 1, p. 31 notamment.
249 III, 22 ; voir supra p. 347-8.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 369

rapport de filiation entre Lavinium et Rome. Nous avons souligné


qu'un ensemble de faits, dans les deux cités, ont contribué à rendre
possible la légende des origines troyennes de Rome, par l'intermédiaire
de Lavinium. Il nous semble que le traité de 338 est, entre autres, une
manière de reconnaissance de cette légende. En effet, au moment où
Rome octroie à Lavinium un statut privilégié parmi les autres cités
latines, les différentes composantes de l'histoire des Pénates se
transforment et s'organisent en un tout cohérent : on reconnaît les Pénates de
Lavinium dans les objets «troyens» apportés par Enée et conservés
dans un sanctuaire de cette cité; la tombe orientalisante devient un
hérôon consacré à Enée divinisé sous le nom d'Indiges; le sanctuaire
fédéral de Vénus prend une nouvelle importance avec l'achèvement de
la rangée des treize autels. Sachant, par ailleurs250, que les Romains
considéraient comme leurs les Pénates de Lavinium, on peut être fondé
à penser que cette croyance s'établit au moment où l'histoire de ces
dieux reçoit à Lavinium une formulation définitive.
Nous croyons que c'est autour d'eux que s'est élaborée la légende
des origines. Le choix d'Enée comme penatiger ne nous semble guère
pouvoir s'expliquer par des raisons politiques. Voir dans le rôle qui
lui est conféré l'une des manifestations de la domination étrusque
sur le Latium est, nous l'avons vu, hasardeux, car il est peu probable
qu'il ait jamais eu un rôle essentiel en Etrurie. Qu'il ait servi au
contraire à la propagande latine contre les Etrusques ou contre les
Grecs est plus probable, mais très difficile à prouver251. Il nous paraît
vraisemblable - mais ce n'est qu'une hypothèse - qu'Enée avait
l'avantage d'établir un lien entre Lavinium, puis Rome, et la
fabuleuse et prestigieuse Guerre de Troie. S'il a été préféré à Ulysse, qui,
selon une tradition connue dès Hésiode, serait venu lui aussi en
Italie, c'est moins, croyons-nous, pour des raisons politiques que parce
qu'Ulysse a pour caractère essentiel, chez Homère, d'être intelligent,
mais aussi fourbe et sans scrupule, tandis que déjà dans l'Iliade sont
mentionnées, chez Enée, des qualités qui font de lui l'égal d'Hector,
et aussi les bonnes relations qu'il entretient avec les dieux. De là
naîtra le pius Aeneas252 et X Aeneas penatiger; mais le développement de

250 Varron, De L.L. V, 144.


251 Voir supra p. 238 n. 101 ; 314 n. 251.
252 J.-P. Brisson, Le «pieux» Enée, Latomus, 31, 1972, p. 379-412.
370 LES PÉNATES PUBLICS

cet aspect du personnage reste spécifiquement lavinate et romain, et


s'organise autour des Pénates.
Le traitement que Rome a réservé à Albe nous semble confirmer
ces hypothèses, encore qu'il soit d'une interprétation délicate. Rome se
considère comme la fille de Lavinium : elle honore dans les Pénates de
cette cité ses propres Pénates, et en Enée son lointain ancêtre.
Pourtant, deux légendes des origines ont dû se trouver en concurrence à
Rome au IVe siècle253 : celle qui reconnaissait comme fondateur le
héros local Romulus, et celle qui faisait descendre les Romains des
Troyens, par l'intermédiaire de Lavinium. On peut suivre, chez les
écrivains romains, d'Ennius à Fabius Pictor, les tentatives pour harmoniser
ces deux légendes, puis, pour les rendre chronologiquement
vraisemblables254. Fabius Pictor a été ainsi conduit non seulement, comme ses
prédécesseurs, à voir dans Albe, fondée par Ascagne, une colonie de
Lavinium et un intermédiaire entre Lavinium et Rome, mais à imaginer
une dynastie albaine qui comble l'hiatus existant entre la fin de la
Guerre de Troie et la fondation de Rome par Romulus, qui n'est plus
alors le fils ou le petit-fils d'Ascagne, mais son lointain descendant. Or,
curieusement, Albe est, d'une certaine manière, effacée. Certes, Rome a
maintenu le culte fédéral de Jupiter Latiaris sur les Monts Albains, où
Tite-Live reconnaît, avec les cultes de Lavinium, l'un des héritages
religieux des maiores255. Mais la légende assigne à Albe un rôle ingrat : le
bon Numitor en a été chassé par Amulius, qui tente de faire disparaître
les deux jumeaux qui menaceraient sa puissance; Romulus est donc
exclu d'Albe.
D'autres éléments en font une ville réprouvée : la légende de sa
destruction par Tullius Hostilius d'une part256, celle du transfert des
Pénates rapportée par Denys d'Halicarnasse d'autre part257: les dieux,

253 T. J. Cornell, Aeneas and the twins : the development of the Roman foundation
legend, PCPhS, 201, 1975, p. 1-32; G. D'Anna, // ruolo di Lavinio e di Alba Longa nei primi
scrittori latini, in Problemi di Letteratura latina arcaica, Rome, 1976 p. 49 sq.
254 J. Heurgon, Archeologie et critique historique : la Rome des rois, Catalogue de
l'Exposition Naissance de Rome, Paris, 1977.
255 V, 52, 8 : Uli sacra quaedam in monte Albano Lauiniique nobis facienda tradide-
runt. Ces paroles, par lesquelles Camille, après le siège de Véies, au moment de l'invasion
gauloise de 390, propose aux Romains les maiores comme modèles de piété sont très
significatives, en raison de l'association qu'elles font des cultes de Lavinium et du Mont
Albain d'une part, de l'importance qu'elles donnent à ces cultes d'autre part.
256 Liv., I, 22-23; voir infra p. 445 sq.
257 I, 67, 1 et 2.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 371

transportés de Lavinium à Albe lors de la fondation de cette dernière,


refusent par deux fois de rester dans le sanctuaire qu'on y avait
construit à leur intention. L'ensemble de ces traditions nous semble illustrer
la place centrale des Pénates dans les légendes des origines de Rome.
Le refus des dieux de résider à Albe symbolise sur le plan religieux un
certain désir qu'a eu Rome de minimiser ou d'effacer Albe; c'est à
Lavinium, non à Albe, qu'elle honorera ses Pénates.
Nous avons cru pouvoir montrer que la légende des origines
troyennes de Lavinium s'élabore entre le VIe et le IVe siècles, et devient,
vers le milieu de ce dernier, la légende des origines de Rome. A. Alföl-
di258 met en relation le fœdus de 338 avec l'inscription de Pompéi
mentionnant les sacrorum principiorum p(opuli) R(omani) Quirit(ium) no-
minisque Latini, quai apud Laurentis coluntur259, et un passage d'Asco-
nius : sacra populi Romani deum Penatium quae Lanini fièrent260; selon
lui, à cette date, les sacra principiorum261 des Latins sont identifiés à
ceux de Rome, ce qui correspond à l'affirmation de la suprématie de
Rome sur le plan politique; le sanctuaire fédéral des Latins, dédié aux
Pénates, serait celui des Treize autels; sur ce dernier point, nous avons
déjà formulé des réserves262.
L'inscription de Pompéi présente différents archaïsmes
morphologiques263 qui font penser qu'elle reproduit des formules anciennes,
figées. Le terme sacrorum principiorum a retenu notre attention,
parce qu'il nous paraît confirmer ce que nous avons dit au début de
cette étude sur l'histoire des dénominations des Pénates à Lavinium.
Le mot Penates n'apparaît pas ici - alors qu'il est cité par Asconius -
mais on trouve sacra, traduction probablement des ιερά d'Enée dans
la tradition grecque, notamment chez Stésichore; principiorum fait
allusion aux origines lavinates de Rome. Il est surprenant de trouver
les Romains mentionnés dans la célébration de ce culte avant le no-

258 Early Rome, p. 259-265.


259 CIL X, 797. P. Sommella (Heroon di Enea a Lavinio, p. 73) reprend à son compte
ce rapprochement.
260 In Scaurianam, 18-19.
261 A. Alföldi préfère cette expression à sacra principia {Die Trojanischen Urahnen der
Römer, p. 46 η. 124; il réaffirme la même interprétation dans Early Rome, p. 264 n. 9);
voir F. Castagnoli, La leggenda. . ., p. 12.
262 Voir ci-dessus, p. 251 sq.
263 La forme quai en est le seul exemple dans le passage que nous en avons cité, mais
l'inscription en contient d'autres.
372 LES PÉNATES PUBLICS

men Latinum; sans doute, comme le suggère A. Alföldi, la formule


affirme-t-elle la domination politique de Rome sur le Latium. En
revanche, il nous paraît peu probable que ces sacra, manifestement
les Pénates, aient été, antérieurement à 338, l'objet d'un culte fédéral
des Latins que Rome aurait plus ou moins confisqué à son profit
après la défaite de la Ligue latine. Il n'existe aucune preuve que le
culte des Pénates à Lavinium ait été un culte fédéral antérieurement
au IVe siècle, sauf à identifier le sanctuaire des Treize autels comme
celui des Pénates, ce qui nous paraît difficile. Nous proposons donc
pour l'histoire de ce culte un schéma un peu différent. Selon nous, le
culte des Pénates à Lavinium est, avant 338, un culte local, analogue,
sans doute, à celui qui existait dans d'autres cités latines. Il prend un
essor nouveau avec la formulation des origines troyano-lavinates de
Rome, et le sacrifice annuel des magistrats romains atteste qu'il est à
la fois lavinate et romain.
Aucun document ne prouve non plus qu'après 338 le culte des
Pénates à Lavinium ait été un culte fédéral du Latium264. Pourtant, on
peut rapprocher la mention du nomen Latinum dans l'inscription
pompéienne des précisions données par Tite-Live sur la date à laquelle le
fœdus entre Rome et Lavinium fut renouvelé chaque année à partir de
338 {renouaturque ex eo quotannis post diem decimum Latinarum)265.
Cette date manifeste le désir d'associer l'ensemble du Latium au
renouvellement du traité, puisqu'elle est fixée par rapport aux Fériés Latines,
fête religieuse rassemblant toutes les cités latines. Nous voudrions
montrer comment le lien chronologique entre ces deux cérémonies et leur
réorganisation sous l'égide de Rome témoigne de la mainmise de cette
dernière sur les cultes latins, par une sorte d'annexion qu'elle en fait
pour sa plus grande gloire.

D) La mainmise de Rome sur les centres religieux du Latium : les


Monts Albains et Lavinium

Tite-Live nous dit266 que depuis 338 jusqu'à son temps, et, nous
l'avons vu, au moins jusqu'au règne de Claude, le fœdus entre Rome et

264 Les textes de Servius et de Macrobe parlent du sacrifice romain à Lavinium, mais
n'y mentionnent pas la présence de représentants d'autres cités latines.
265 VIII, 11, 15; cf. M. Torelli, Lavinio e Roma, p. 228-236.
266 VIII, 11, 15.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 373

Lavinium était renouvelé post diem decimum Latinarum. La relation


ainsi établie entre les Fériés Latines et le renouvellement du pacte nous
paraît significative, en raison du type de relations politiques et
religieuses qu'elle implique à la fois entre Lavinium et Rome, Lavinium et les
autres peuples de la Ligue latine, et enfin entre Rome et ces mêmes
peuples267.
Les Fériés Latines sont la fête qui témoigne religieusement de
l'existence d'une union entre les Latins. Les origines de cette fête sont
particulièrement obscures, car les données légendaires ont été
interprétées par les historiens anciens en fonction de la place qu'ils ont voulu
donner à Rome. Nous ne possédons aucun témoignage sur les origines
des Fériés Latines antérieur au Ier siècle avant J.-C; Denys d'Halicar-
nasse attribue l'instauration de la fête à Tarquin le Superbe268 : après
avoir établi sa suprématie sur les Latins, le roi aurait proposé à ces
derniers de bâtir un temple où ils viendraient tous chaque année célébrer
la permanence de leur alliance; le lieu choisi fut le Mont Albain, où l'on
faisait à Jupiter Latiaris un sacrifice commun : chacune des cités
latines emportait une partie de la viande de la victime, un taureau.
D'autres témoignages attribuent à Tarquin l'Ancien l'établissement des
Fériés Latines269, en reculant ainsi un peu l'origine. Ces traditions
supposent que Rome aurait établi sa suprématie sur les Latins dès le début
du VIe siècle, ou selon Denys, vers la fin du siècle, donnée qui paraît
peu conforme aux faits historiques. Mais il semble certain que la
direction des Fériés Latines est la marque de la suprématie non seulement
religieuse, mais politique, de la cité qui l'assume sur les autres cités de
la Ligue. Au cours du VIe ou du Ve siècle, avec des difficultés et des
revers, Rome s'est imposée à la tête des Latins. C'est ce dont
témoignent les auteurs anciens en attribuant aux rois l'instauration des
Fériés Latines. Mais le choix d'Albe, ou plutôt du Mont Albain, comme
lieu de célébration de ce culte fédéral, nous paraît particulièrement
intéressant270. Pourquoi Albe? Une première réponse vient à l'esprit,
étant donné la date des Antiquités Romaines, et l'inspiration idéologi-

267 Cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 265.


268 iv, 49; A. Alföldi, Early Rome, p. 29 sq.
269 Schol. Bob., Cicéron, Pro Piando, 23; Aurelius Victor, De Vins Illustrious, III, 8, 2;
cf. Samter, in R.E., VI, 2, s.u. Feriae Latinae, col. 2213.
270 Cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 265.
374 LES PÉNATES PUBLICS

que de l'ouvrage. Denys a dû être largement influencé par Varron271,


chez qui devait se trouver un état pleinement élaboré de la légende des
origines troyennes de Rome : après le mariage d'Enée et de Lavinia, et
la fondation de Lavinium, Ascagne, ou Iule, fils du mariage troyen
d'Enée, devenu adulte, va fonder non loin de là la ville d'Albe, que la
légende considère comme une autre cité-mère de Rome, puisque
fondée par l'ancêtre de la Gens Iulia. Aussi Denys a-t-il pu croire que le
choix du Mont Albain s'explique par la légende des origines troyennes.
Mais les renseignements qu'il nous fournit ici contiennent peut-être
plus d'exactitude historique qu'il n'y paraît à première vue. On peut en
effet penser qu'au sein de la Confédération latine, différentes cités se
sont disputé l'hégémonie, parmi lesquelles Albe, dont le rôle dans la
légende des origines s'explique par l'importance politique qu'elle a eue
pendant longtemps dans le Latium. Au moment où Rome prend le
premier rôle dans la Confédération, elle met la main sur les Feriae Latinae
qu'elle instaure, ou réorganise. L'existence du sactuaire de Jupiter
Latiaris est bien attestée272. S'il préexistait à la mainmise des Romains
sur la Confédération latine, on peut expliquer le maintien de ce culte
fédéral par une concession faite à l'ancienne ville dirigeante, dans un
domaine qui ne mettait pas en cause la suprématie politique des
Romains. Si ces derniers ont instauré le culte du Mont Albain eux-mêmes,
on peut expliquer ce choix par des motifs un peu analogues; dans les
deux cas, les Romains se donnent l'élégance de rendre hommage à
l'ancienne métropole, et d'établir leur hégémonie sur le Latium sans
écraser Albe; ils ne prennent pas le risque de détruire un culte existant, ou
bien ils organisent les Fériés Latines de façon à cantonner le Mont
Albain dans le rôle de centre religieux, parce qu'Albe ne représente
plus pour eux une rivale politique dangereuse.
Pourtant, Rome devra encore lutter pour affirmer son hégémonie
sur le Latium273. Tite-Live, racontant les débuts de la Guerre latine en
340, prête à l'un des chefs de l'insurrection, L. Annius Setinus, des
paroles très sévères sur le fœdus qui unit les Latins à Rome, à propos

271 P. -M. Martin, La propagande augustéenne dans les Antiquités Romaines de Denys
d'Halicarnasse, REL, 48, 1971, p. 162-175.
272 Cf. C. Thulin, in R.E., X, 1, s.u. Iuppiter, col. 1134-35; Denys d'Halicarnasse, IV,
49, 2.
273 Cf. M. Pallottino, Compte rendu de l'ouvrage d'A. Alföldi, Die Trojanischen
Urahnen der Römer, in SE, 26, 1958, p. 336-339.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 375

duquel il parle de sub umbre fœderis aequi seruitutem pati274. En 338,


les victoires de Rome sur les Latins vont aboutir, non à un
anéantissement, à une destruction matérielle des cités révoltées, mais au
démantèlement de la Ligue - les cités latines n'ont plus le droit de conclure
entre elles des alliances particulières -, et à la soumission définitive à
Rome, puisque cette dernière les prive, soit d'une partie de leur
territoire, soit de leur autonomie politique275. On assiste donc, avec la série des
sénatus-consultes qui réglèrent le cas de chaque cité en particulier, à
une réorganisation politique complète du Latium.
Nous ne possédons aucun renseignement sur l'histoire des Fériés
Latines antérieur à ceux que fournit Denys. Il y a cependant tout lieu
de penser que, pendant les difficiles années de la Guerre latine, de 340
à 338, les Latins refusèrent de s'associer religieusement à la
commémoration d'un fœdus qu'ils trouvaient insupportable, mais que la
réorganisation politique du Latium sous la domination de Rome s'accompagna
d'un renouveau du culte fédéral abandonné. Il est probable aussi que
c'est de 338 que date l'existence à Rome d'un certain nombre de
manifestations qui font partie des Fériés Latines, ou qui les accompagnent,
bien qu'aucun témoignage sûr ne permette de l'affirmer : au moment
des Feriae les activités habituelles cessent à Rome; Cicéron276 fait dire à
Scipion l'Africain que c'est un jour où l'on peut s'adonner aux activités
que l'on aime, littéraires notamment, par opposition aux activités
politiques; Tite-Live277 mentionne l'existence de Ludi, et Pline de courses de
quadriges278. Donc, si Albe garde l'exclusivité des cérémonies
proprement religieuses sur le Mont Albain, une partie des Feriae se déroule à
Rome et y attire sans doute des habitants des autres villes du Latium.
La date des Fériés Latines n'est pas fixe. Elle est établie par le
Sénat lors de sa première réunion de l'année avec les consuls qui
viennent d'entrer en charge279. Ce fait atteste d'ailleurs, parmi d'autres, la
suprématie de Rome en Italie centrale et sa mainmise sur les Fériés
Latines, puisque ce sont les sénateurs romains, convoqués par les
consuls, qui décident, à Rome, de la date d'une fête théoriquement

274 vin, 4, 2.
275 Cf. J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale, p. 223 ; A. Alföldi, Early Rome,
p. 411-414.
2™ De Rep. I, 9.
277 V, 19, 1.
27» N.H., XXVII, 45.
279 Samter, op. cit., col. 2214.
376 LES PÉNATES PUBLICS

confédérale. D'après les témoignages anciens, il semble que la date de


cette célébration ait la plupart du temps suivi de peu l'entrée en charge
des consuls280. A partir du Ier siècle av. J.-C, les magistrats entrent
normalement en charge le 1er janvier. Avant cette date, il semble que les
Fériés Latines aient souvent été célébrées au printemps, en avril, en
mai, ou au début juin281. A partir du Ier siècle et jusqu'à la fin de la
République, les Fériés Latines ont le plus souvent lieu peu après
l'entrée en fonction des consuls, c'est-à-dire généralement en janvier282.
Sous l'Empire, elles sont souvent célébrées plus tardivement qu'à
l'époque républicaine, à une date qui varie de mai à août. Les fêtes duraient
plusieurs jours, probablement trois ou quatre283, au cours desquels
diverses manifestations avaient lieu, à Rome, nous l'avons vu, et peut-
être dans d'autres villes du Latium; mais aucun témoignage ne
confirme ce dernier point. La manifestation proprement confédérale était la
cérémonie religieuse, le sacrifice à Jupiter Latiaris sur le Mont Albain,
qui avait lieu le dernier jour, et couronnait ainsi la fête.
Neuf jours plus tard (post diem decimum Latinarum) était
renouvelé à Lavinium le traité d'alliance entre la cité et Rome. Le
renouvellement du fœdus η di donc pas lui non plus de date fixe dans l'année.
Mais ce qui est particulièrement significatif, c'est que la date en soit
fixée par rapport à celle des Fériés Latines : il existait donc, dans
l'esprit des Romains, une relation étroite entre les deux cérémonies. Il est
probable, nous l'avons vu, que Rome a commencé à établir son
hégémonie sur le Latium dès l'époque des rois, mais non sans difficulté ni
sans contestation de la part des Latins : la guerre de 340 en témoigne.
La victoire de Rome, en 338, s'est vraisemblablement accompagnée, sur
le plan religieux, d'une mainmise définitive sur les Fériés Latines,
parallèle de ce que furent, sur le plan politique, les sénatus-consultes
réglant le sort des différentes cités de la Ligue latine; la fête a pris une

280 G. Wissowa, R.U.K., p. 552 sq.; A. Alföldi, Early Rome, p. 265; CIL, X, 797.
281 CIL XIV, 2238; Liv., XXV, 12, 1; XLI, 16, 1; XLII, 22, 16 et 35, 3.
282 C'est en janvier 44 qu'eurent lieu les Fériés Latines au retour desquelles César fut
acclamé triomphalement et ne protesta pas lorsqu'un inconnu orna sa statue d'une
couronne de laurier entrelacée de bandelettes blanches (Suétone, César, 79, 2; cf. aussi Cicé-
ron, Ad Fam., VIII, 6, 3). Il est arrivé cependant qu'elles aient lieu en mars, comme en
témoigne une lettre de Cicéron à son frère {Ad Quint, fratr. II, 4, 2).
283 Suétone, Claude, 4; Tacite, Ann., IV, 36.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 377

forme qui ne changera plus désormais, jusqu'à l'Empire compris284. Il


nous semble possible d'établir un autre parallèle : de même que les
Fériés Latines illustrent religieusement l'association officielle des villes
du Latium - en réalité le triomphe de Rome sur des villes contraintes
d'accepter le statut d'association plus ou moins étroite que Rome leur
impose -, de même la partie religieuse du renouvellement du traité
d'alliance avec Lavinium, le sacrifice, est l'illustration, dans le domaine
du sacré, du sort privilégié accordé à la cité sur le plan politique,
puisqu'un fœdus implique l'accord des deux parties et leur égalité, et que le
fœdus de 338 est, en effet, présenté par Tite-Live comme une
récompense de la bonne conduite des Laurentes vis-à-vis de Rome. La victoire
de Rome en 338 établit entre elle et les autres villes latines des relations
politiques et religieuses qui ne changeront guère jusque sous
re 285
Dans le cas de Lavinium, nous avons vu que le renouvellement
annuel du traité d'alliance à partir de 338 est la marque, comme l'a
noté A. Alföldi s'appuyant sur le texte de Tite-Live (renouatur ex eo
quotaniis), d'une fidélité désormais indéfectible de Lavinium à Rome;
l'emploi du présent renouatur en témoigne. Quel sens précis faut-il
alors donner, dans cette phrase, à quotannis? Tite-Live écrit:
renouatur ex eo quotannis post diem decimum Latinarum286; quotannis peut
fort bien porter sur ce qui précède, mais aussi sur ce qui suit : à
partir de 338, le traité aurait été renouvelé tous les ans, ce qui
n'avait peut-être pas été le cas dans le passé, mais aussi renouvelé à
une date définie par rapport à celle des Fériés Latines. Cette
interprétation confirme ce que nous avons dit plus haut : le
raffermissement définitif des liens entre Lavinium et Rome s'insère dans
l'ensemble d'une réorganisation politique du Latium sous la domination
de Rome, qui trouve sa formulation religieuse dans les Fériés. Certes,
des liens particuliers unissent Rome et Lavinium, mais ils reçoivent
en 338 une nouvelle signification : la situation de Lavinium est
privilégiée, mais ces privilèges sont sanctionnés par le renouvellement

284 Les Fériés Latines furent célébrées jusqu'en IVe siècle ap. J.-C. (cf. Samter, op. cit.
col. 2216).
285 A. Alföldi (Early Rome p. 264-265) souligne le fait que la date du renouvellement
du traité d'alliance entre Rome et Lavinium, coïncidant avec celle des vœux des
magistrats au Capitole, a été fixée en même temps que Rome établissait définitivement son
hégémonie sur le Latium.
286 Ibid.
378 LES PÉNATES PUBLICS

d'un traité présenté presque comme un complément aux Fériés


Latines, en tout cas daté par rapport à elles.
Ce même désir de réunir l'ensemble des cités latines dans un
culte que Rome, en fait, contrôle, s'exprime probablement dans la
mention du nomen Latinum de l'inscription de Pompéi. L'intention
était d'ailleurs habile. Lavinium était une métropole religieuse
prestigieuse qui possédait déjà au moins un sanctuaire fédéral, celui de
Vénus. Lorsqu'au IVe siècle les Romains se mettent à honorer à
Lavinium leurs Pénates, ils associent à ce culte toutes les cités latines sur
lesquelles ils viennent d'établir leur domination. Enée devient
l'ancêtre non seulement des Romains, mais de tous les Latins; les Pénates
qu'il a sauvés de la ruine de Troie sont communs à tout le Latium.
Ainsi Rome réaffirmait, sans mettre en danger sa suprématie
politique (le nomen Latinum est cité après Rome), l'unité des peuples
latins287, au moment même où elle anéantissait la Ligue qui en
associait, non sans rivalité parfois, les différentes cités.
Cette association des peuples latins et de Rome dans le culte des
Pénates de Lavinium est-elle purement verbale, ou s'est-elle traduite
par des pratiques cultuelles précises? La documentation manquant
totalement sur ce point, on en est réduit à des hypothèses. Il est
possible que ce culte, sans être à proprement parler fédéral, (les autres
cités latines n'y étaient peut-être pas les égales de Rome, héritière
directe de Lavinium), ait associé les Latins à Rome, selon des
modalités difficiles à préciser. L'affirmation, au moins formelle, de la
participation de tous les Latins aux côtés des Romains dans le culte des
Pénates à Lavinium pourrait aider à résoudre l'une des difficultés
soulevées par l'éventuelle identification du sanctuaire des Pénates, ou
du sanctuaire, peut-être dédié à une autre divinité, où ils étaient
honorés. Nous signalions plus haut288 les difficultés que soulevait
l'identification comme temple des Pénates du sanctuaire des treize autels,
et, pour les mêmes raisons, du sanctuaire oriental de Minerve,
malgré la caution que le texte de Lycophron semble donner à cette
dernière289. En revanche, si le sanctuaire des Pénates était situé, comme
nous le croyons, dans l'enceinte de la cité, sur la hauteur aujourd'hui

287 A. Alföldi, Early Rome, p. 1-10 (et bibliographie, p. 1, n. 2).


288 Cf. supra p. 251-3; 257-61.
289 Cf. C. Cogrossi, Atena Iliaca e il culto degli eroi, dans Politica e religione nel primo
scontro tra Roma e l'Oriente, p, 97 sq.
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM 379

occupée par le village de Pratica, il est possible de penser que le


culte n'était pas à proprement parler fédéral : lors du renouvellement
du traité d'alliance entre Rome et Lavinium, les autres cités latines
auraient été seulement mentionnées dans la formule rituelle.
L'importance attachée par les Romains aux cérémonies de
Lavinium, comme la réorganisation de ces cérémonies par le traité de 338,
nous paraissent une des expressions du courant idéologique et religieux
qui a organisé, notamment, la légende des origines troyennes de Rome.
En effet290, les cultes lavinates vont être confisqués par Rome à son
profit, dans la mesure où ils serviront de caution à la légende d'Enée
comme ancêtre fondateur. Ils ne sont pas supprimés, mais détournés
par et pour Rome.

En essayant de reconstituer l'histoire des Pénates de Lavinium,


qui furent successivement ceux de Troie, ceux de Lavinium, puis
ceux de Rome, nous avons constaté à maintes reprises que les
données de la tradition concernant ces dieux étaient confirmées par les
récentes découvertes archéologiques faites à Pratica. L'élaboration de
la légende des origines troyano-lavinates de Rome s'est faite à partir
de diverses traditions : la venue d'Enée au Latium et le transfert des
sacra troyens par le héros, la divinisation d'Enée comme fondateur
de Lavinium et l'assimilation des sacra aux Pénates, enfin l'annexion
par Rome de cette légende qu'elle a sans doute contribué à mieux
formuler, au moment où elle voit en Enée son lointain ancêtre, et ses
propres Pénates dans ceux de Lavinium, et même où l'un et les
autres sont reconnus comme le bien commun de tous les Latins.
Cette élaboration a été rendue possible par la combinaison des traditions
locales de Lavinium, de Rome, et par leur transformation sous l'effet
des influences de leurs voisins grecs et étrusques. Nous avons essayé
de dégager une ligne cohérente dans l'histoire de nos dieux; mais en
proposant ces jalons, nous avons éminemment conscience du
caractère hypothétique de ce travail, qui ne s'explique pas seulement par le
fait que les fouilles du site de Pratica di Mare ne sont pas achevées,

290 Voir M. Humbert, op. cit. p. 183.


380 LES PÉNATES PUBLICS

ni tous les monuments découverts identifiés de façon irréfutable,


mais aussi, dans la mesure où nous touchons là aux origines de
Rome et à la conception qu'elle se faisait de sa propre histoire, par
la difficulté de démêler les fils dont elle a tissé sa légende. Le seul
point qui nous semble à peu près assuré, c'est que le IVe siècle a
marqué des changements considérables dans l'histoire du Latium et
de Rome, changements qui se manifestent dans l'architecture de la
métropole religieuse de Lavinium, mais dont il est difficile
d'apprécier la portée exacte. Le lien que nous avons proposé de voir entre
l'établissement définitif de l'hégémonie romaine et les
développements à Lavinium des éléments qui composent la légende d'Enée et
des Pénates reste de l'ordre de la conjecture.
DEUXIÈME SECTION

ROME
INTRODUCTION

Les liens privilégiés qui unissent Rome et Lavinium trouvent leur


expression politique la plus marquante dans le renouvellement annuel
du traité de 338, et leur formulation légendaire dans l'affirmation des
origines troyennes de Rome, dont l'état d'élaboration définitif semble
dû à Fabius Pictor, comme en témoigne le souci de l'annaliste de
rendre chronologiquement cohérentes, par l'insertion de la dynastie albai-
ne, les légendes de la fondation de Lavinium par Enée et de Rome par
Romulus1. Lavinium, comme premier établissement des Troyens en
Italie après de longues errances sur les mers, sert d'intermédiaire, de
relais, entre la cité de Priam, désormais anéantie, et la future Rome; sa
fondation marque l'aboutissement de la mission d'Enée, personnage
qui, dans la sphère humaine, assure la continuité entre Troie et la
nouvelle cité. A l'autre bout, pourrait-on dire, de cette chaîne légendaire, et
dans une position symétrique de celle d'Enée et de Lavinium, se
trouvent Romulus et Rome. Si le rapport de filiation entre les deux cités est
nettement établi, - Varron, nous l'avons dit, voit en Lavinium la cité-
mère de Rome -, la relation généalogique entre Enée et Romulus est
moins nette, puisque certaines versions de la légende font de Romulus
le petit-fils du Troyen2, alors que Fabius Pictor propose une parenté
plus éloignée entre les deux fondateurs; certains voient même en Enée
le fondateur de Rome3.

1 Cf. Fr. 4 Peter ; J. Heurgon, Archéologie et critique historique : la Rome des Rois, in
Naissance de Rome, Catalogue de l'Exposition, Paris, 1977; G. Manganaro, Una biblioteca
storica nel ginnasion a Tauromenion, in A. Alföldi, Römische Frühgeschichte, Heidelberg,
1976, p. 83-96.
2 Alcimos par exemple (cf. G. Manganaro, ibid.).
3 Cette tradition semble spécifiquement grecque; on la trouve notamment chez Hel-
lanicos (apud Denys d'Halicarnasse, I, 72, 2); cf. Enea nel Lazio, Catalogue de
l'Exposition, Rome, 1981, p. 109-154; dans la littérature latine, seul Salluste {Cat. VI, 1) s'est fait
l'écho de cette tradition.
384 LES PÉNATES PUBLICS

Cependant, s'il a existé à date ancienne entre Rome et Lavinium


des liens très étroits, d'ordre essentiellement religieux4, dont le traité
de 338 est une nouvelle affirmation, le personnage d'Enée ne saurait
avoir cristallisé l'expression de cette filiation. Il assure bien la
continuité entre Troie et Lavinium, et il semble avoir été, après sa mort, l'objet
d'un culte dans cette dernière cité comme ancêtre et fondateur
divinisé5. Mais Enée n'a jamais reçu de culte à Rome : il n'est pas un héros
romain, et ne peut par conséquent suffire à exprimer le lien légendaire
entre Troie et Rome; son histoire s'arrête à Lavinium, où il n'est pas
certain que les Romains l'aient honoré aux côtés des Lavinates.
En revanche, la continuité religieuse entre Troie et Rome, par
l'intermédiaire de Lavinium, s'exprime dans le culte des Pénates. C'est en
effet à ces dieux, spécifiquement latins, qu'ont été assimilés les sacra
troyens apportés en Italie par Enée, et vénérés comme tels à Lavinium :
ce culte des Pénates troyens dans la cité des Laurentes est attesté dès le
jljème siècle par Timée; les sacra sont symboles du lien mythique et
religieux entre Troie et le nouvel établissement des fugitifs sur le sol
italien. Mais il y a plus : les Pénates troyens ne sont pas vénérés par les
seuls Lavinates; les plus hauts magistrats de Rome, nous l'avons vu,
viennent une fois par an à Lavinium, en une sorte de procession,
accomplir au nom de l'Etat un sacrifice à Vesta et aux Pénates : par
cette cérémonie en l'honneur de dieux que Varron désigne comme
Penates nostri6, Rome reconnaît Lavinium comme sa métropole
religieuse, et les Pénates de la cité latine se voient dotés d'une aura
légendaire considérable.
Ce «pèlerinage aux sources», cet hommage rendu aux dieux
troyens établis à Lavinium, et considérés par les Romains comme leurs
propres Pénates, n'a pas paru à leurs yeux incompatible avec un autre
culte public des Pénates, à Rome même, et dans deux sanctuaires
différents. Les témoignages antiques attestent en effet l'existence d'une
Aedes deum Penatium1 sur la Vèlia, et aussi la présence de ces dieux
dans le sanctuaire de Vesta sur le Forum : delubrum Vestae cum Penati-
bus populi Romani*. L'existence même de ces deux cultes fait problè-

4 B. Liou-Gille, Cultes «héroïques» romains, Paris, 1980, p. 133.


5 Ibid., p. 85-134.
* De L.L. V, 144.
7 Notamment Varron, De L.L. V, 54; Liv., XLV, 16, 5, etc.
8 Tacite, Ann. XV, 4L.
ROME 385

me. Les Pénates du temple de la Vèlia, nous disent les Anciens, étaient
représentés comme deux jeunes gens assis tenant des lances, alors que
les Pénates enfermés dans le Penus de l'Aedes Vestae étaient de
mystérieux objets.
S. Weinstock9 a voulu voir dans cette double tradition un écho
romain de celle qu'il avait relevée à Lavinium, hésitant entre une
représentation anthropomorphique des Pénates proche du type
iconographique des Dioscures et les assimilant même à ces derniers, et une
conception des Pénates comme objets «aniconiques»; nous avons dit10 quelles
réserves nous inspirait cette interprétation du témoignage de Timée sur
les Pénates de Lavinium, et, par conséquent, toute tentative pour voir
un parallèle exact entre faits lavinates et faits romains.
Comment expliquer, d'autre part, que les Pénates du peuple
romain aient été honorés dans deux temples aussi proches, dont un seul,
il est vrai, leur était spécifiquement dédié? La réponse à cette question
est difficile, à cause de la minceur de la documentation littéraire
concernant le temple de la Vèlia, de son obscurité et de ses
contradictions à propos des mystérieux sacra du Penus Vestae; les attestations
iconographiques sont évidemment inexistantes pour ces derniers, rares
et sujettes à caution pour les dieux de la Vèlia. Enfin, la topographie du
Forum, en l'état où nous pouvons aujourd'hui la connaître, ne fait
guère qu'accroître ces difficultés : du Penus Vestae ne subsiste que la trace,
à l'identification hypothétique, d'une enceinte de pierres sur le sol;
quant à la Vèlia, elle a connu de tels bouleversements, dans l'Antiquité
comme à l'époque moderne, qu'il est bien délicat d'y reconnaître la
trace de monuments antérieurs au temps de Néron, malgré les très
intéressantes perspectives ouvertes par F. Coarelli11 sur l'histoire
architecturale de cette colline.
Outre l'étude de ces deux lieux du culte public des Pénates à Rome,
et de leurs rapports éventuels, il nous faudra aussi nous interroger sur
la coexistence dans la conscience religieuse des Romains du culte lavi-
nate et du culte romain des Pénates publics. S'il est clair que les
Pénates de Lavinium leur apparaissent comme les sacra apportés de Troie
par Enée, et qu'ils les reconnaissent pour leurs, on voudrait pouvoir

9 Two archaic inscriptions from Latium, JRS, 50, 1960, p. 112-114.


10 Cf. supra p. 289-91.
11 Roma (Guide archeologiche Laterza), Rome, 1980, p. 90-92; id., Il Foro Romano. I :
Periodo arcaico, Rome, 1983, p. 24-26; 40-42.
386 LES PÉNATES PUBLICS

expliquer quelles relations les dieux troyens entretiennent avec les


Pénates de Rome dans leur double culte. Pour cela, il nous faudra, une
fois encore, faire appel à l'histoire des premiers siècles de Rome, mais
aussi à l'idée que Rome s'en est faite, en la mêlant de légendes, car les
Pénates nous semblent éminemment liés à la vision que les Romains
ont eue d'eux-mêmes. Nous verrons en effet que, s'ils honorent ces
dieux à la fois à Lavinium et à Rome, c'est peut-être parce qu'ils ont
gardé vivant le souvenir de leurs doubles origines.
CHAPITRE I

LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA

Nous connaissons par des témoignages littéraires l'existence d'une


Aedes deum Penatium in Velia, mais les textes ne nous apportent
généralement que des renseignements bien pauvres sur ce sanctuaire : ici, il
est simplement mentionné pour permettre de localiser par rapport à lui
d'autres édifices1; là, nous apprenons un élément de son histoire,
destruction partielle2, ou restauration3, qui ne nous permet pas de nous
faire une idée de l'ensemble de cette dernière. C'est un écrivain de
langue grecque, Denys d'Halicarnasse, qui, seul, nous donne une
localisation et une description assez précises du sanctuaire et des statues de
culte qui y étaient vénérées4. D'autre part, les données de
l'archéologie sont ici particulièrement difficiles à interpréter, car le site de la
Vèlia a connu, depuis le règne de Néron jusqu'au temps de Mussolini,
des bouleversements tels qu'on ne peut espérer de confrontation très
éclairante entre les textes antiques et l'état actuel des lieux. En
revanche, nous verrons qu'on a souvent cru pouvoir rapprocher ces
témoignages littéraires des représentations figurées d'un monument qu'on
identifie comme le temple des Pénates sur la Vèlia : c'est le cas
notamment du petit temple du bas-relief représentant le sacrifice d'Enée sur
l'Ara Pacis - parfois identifié aussi, nous l'avons vu plus haut5, comme
le temple de Lavinium - et de l'édifice rond flanqué de deux cellae,
représenté sur certaines monnaies de Maxence frappées à la mémoire
de son fils Romulus, mort prématurément6. Ces deux figurations,

1 Varron, De L.L. V, 54.


2 Liv., XLV, 16,5.
3 Res Gestae, XIX.
4 I, 68, 1-2.
5 Cf. supra p. 209-216; 224-5.
6 F. Coarelli, Roma (Guide archeologiche Laterza), Rome, 1980, p. 86-É
388 LES PÉNATES PUBLICS

d'ailleurs fort différentes, ont l'intérêt de nous offrir non seulement la


représentation du temple, mais celle des dieux dédicataires.
C'est donc sur la localisation et l'architecture du sanctuaire des
Pénates, puis sur la figuration et la personnalité des dieux que nous
ferons d'abord porter notre étude, en comparant, autant que possible,
la tradition littéraire et les données de l'iconographie. Nous essaierons
ensuite d'utiliser les résultats de cette première enquête pour
reconstituer l'histoire du culte en liaison avec ce que nous savons de la Vèlia,
colline située à l'extérieur du pomerium de Romulus, et, si l'on en croit
la tradition, lieu de résidence du roi Tullus Hostilius - le temple aurait
même été construit sur l'emplacement de sa maison7 -, en liaison
aussi avec le type de représentation des dieux, tel que nous l'ont transmis
Denys d'Halicarnasse et certains documents figurés; il nous faudra voir
s'il n'existe pas un lien entre ces deux caractéristiques du culte -
localisation sur la Vèlia, type iconographique - et si ce lien l'apparente aux
autres cultes des Pénates, à Rome même, sur le Forum, et à Lavinium
ou, au contraire, le différencie d'eux. Enfin, nous essaierons
d'apprécier la signification du culte de la Vèlia dans l'ensemble des cultes
publics romains.

I - LA VÈLIA : CADRE GÉOGRAPHIQUE ET ARCHITECTURAL

1) Le cadre géographique

La définition du site de la Vèlia - plus rarement Veliae - est


particulièrement délicate et a donné lieu, depuis le début du siècle, à un
ample débat archéologique. La configuration actuelle des lieux, très
bouleversés à plusieurs reprises à travers l'histoire de Rome depuis le
Ier siècle ap. J.-C, ne permet guère d'éclairer la question. Pour
délimiter cette colline, on s'appuie soit sur les très rares définitions qu'en ont
donné les auteurs anciens, soit sur les quelques éléments qui nous sont
parvenus de l'histoire du site (ils sont d'ailleurs en partie légendaires),
soit encore sur la localisation des bâtiments civils ou religieux dont la
tradition nous dit qu'ils se trouvaient sur la Vèlia; méthode assez peu
sûre au demeurant, car on aboutit à des définitions de la colline qui ne

7 Solin, I, 25.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 389

se recoupent pas exactement, ce qui a conduit H. F. Rebert à suggérer


que le terme Velia a pu avoir plusieurs sens8.
Deux auteurs anciens seulement nous fournissent sur la Vèlia des
indications topographiques. C'est tout d'abord Varron : lorsqu'il énu-
mère les différentes collines qui constituent la ville de Rome et
explique leur nom9, il cite le Palatin et ajoute : Huic (= le Palatin) Cerma-
lem et Velias coniunxerunt. Ce texte fait donc de la Vèlia l'un des trois
sommet du Palatin, avec le Germai et le Palatin proprement dit10.
Quant à Denys d'Halicarnasse, il définit en ces termes la Vèlia : λόφον
ύπερκεΐμενον της αγοράς ύψηλον επιεικώς και περιτομον, ον καλοΰσι
'Ρωμαίοι Όυελίαν11. Ces indications complètent celles de Varron : la
Vèlia ferme le Forum à l'est; ύψηλον επιεικώς doit sans doute se
comprendre par rapport à la hauteur du Palatin, car le niveau du sol à
l'époque augustéenne étant celui que nous voyons aujourd'hui, la Vèlia
domine assez nettement le Forum; le renseignement le plus précieux se
trouve probablement dans l'adjectif περιτομον : il suggère en effet que
la colline est, de tous côtés, nettement délimitée par ses escarpements,
et non qu'elle se termine par des pentes molles qui rendraient difficile
de lui assigner des frontières exactes. C'est avec raison que F.
Castagnoli12 souligne qu'il faut entendre par «Vèlia» non pas seulement la zone
de la summa Sacra Vian, mais, essentiellement la hauteur derrière la
Basilique de Maxence, dont la Via Sacra n'est qu'une bordure.
S. B. Platner14 s'est sans doute appuyé sur les indications de Denys
lorsqu'il a représenté la Vèlia comme un petite colline ovale se dressant
dans la plaine qui sépare l'Esquilin et le Palatin. La spécificité
topographique de la Vèlia se fonde, suivant G. De Angelis d'Ossat15, sur une

8 The Velia : a Study in Historical Topography, TAPhA, 56, 1925, p. 54-69.


9 De L.L. V, 41-54.
10 Cf. G. Lugli, Roma antica. Il centro monumentale, Rome, 1946, p. 224; id., I templi
dei Lari et des Penati sulla Velia, in Mélanges J. Marouzeau, 1948, p. 401 ; voir plan de la
Rome primitive in M. Pallottino, Le origine di Roma : considerazioni critiche sulle scoperte
e sulle discussioni più recenti, A.N.R.W., I, I, Berlin-New- York, 1972, p. 34.
11 V, 19, 1 : «une colline dominant le Forum, modérément élevée, escarpée de tous
côtés, que les Romains appellent Vèlia».
12 // tempio dei Penati e la Velia, RFIC, 74, 1946, p. 160-161.
13 C'est ce que font S. Β. Platner et T. Ashby (A Topographical Dictionary of Ancient
Rome, Oxford-Londres, 1929, p. 550); cf. F. Castagnoli, op. cit., p. 160-161 n. 3.
14 Topography and Monuments of Ancient Rome, Oxford, 1911, fig. 4 et 6.
15 // sottosuolo dei Fori Romani e l'Elephas antiquus della Via dell'Impero, BCAR, 64,
1936, p. 10.
390 LES PÉNATES PUBLICS

unité géologique : la Vèlia est un ensellement étroit, isolé, aux pentes


escarpées, compris entre le Palatin et l'Esquilin, et, plus précisément,
entre la Via Sacra et la Via del Colosseo. Or, cette idée que la Vèlia est
une unité géographique bien déterminée trouve une confirmation dans
certains des éléments qui nous sont parvenus de son histoire. En effet,
Antistius Labeo, cité par Festus, présente la Vèlia comme l'une des
collines qui composaient le Septimontium : Septimontio . . . hisce montibus
feriae Palatio, cui sacrificium quod fit, Palatuar dicitur; Veliae cui item
sacrificium; Fagutoli, Suburae, Cermale, Oppio, Caelio monti, Cispio
monti™. Ainsi présenté, le Septimontium apparaît, plutôt que comme
une cité englobant différentes communautés, comme une sorte de ligue
groupant des unités probablement distinctes du point de vue politique,
et célébrant leur alliance par des fêtes religieuses {feriae), comme le
fera plus tard la Ligue latine17; la Vèlia est l'une de ces unités
politiques, où était accompli un sacrifice à l'occasion des manifestations
religieuses du Septimontium. Le témoignage de Varron, sans doute à peu
près contemporain de celui d'Antistius Labeo18 semble aller dans le
même sens, encore que l'interprétation en soit assez délicate. Varron
commence en effet par donner une définition du Septimontium : ubi
nunc est Roma, Septimontium nominatum ab tot montibus quos postea
urbs mûris comprehendit : e quis Capitolinum, etc. . .; suit une
enumeration de collines, parmi lesquelles la Vèlia, citée, nous l'avons vu plus
haut, comme l'un des trois sommets du Palatin. Mais cette enumeration
comporte beaucoup plus de sept noms, et, d'autre part, le propos de
Varron n'est pas de retracer l'histoire du Septimontium, mais de
donner la ou les etymologies des noms des différents sites de Rome; aussi
parle-t-il de la division «du reste de la ville» (reliqua urbis loca) en
quatre régions, allusion à l'organisation attribuée à Servius Tullius19, sans
fournir des données chronologiques sur le passage du Septimontium à
cette division nouvelle. Le Palatin, avec ses différents sommets,
appartient à la quatrième région. Nous ne pouvons donc pas savoir quels
sont, parmi les lieux cités (le plus souvent des collines, ou des hauteurs)
lesquels Varron considérait comme ayant fait partie de l'ancien Septi-

16 474 L.
17 Cf. commentaire de H. F. Rebert, op. cit., p. 56.
18 R.E. I, s.u. Antistius, col. 2550 sq.
19 Cf. Liv., I, 43, 13 : Quadrifariam enim urbe diuisa regionibus collibusque qui habi-
tabantur. Pour un résumé très clair des problèmes posés par cette Roma Quadrata, voir
F. Castagnoli, Topografia di Roma antica, Turin, 1980, p. 55-56.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 391

montium; concernant la Vèlia, la seule indication peut-être intéressante


est la mention, sur cette colline, d'une chapelle des Argées : Veliense :
sexticeps in Velia apud aedem deum Penatium; cette indication nous
permet de supposer que la Vèlia, outre le temple des Pénates, a abrité,
dans cette chapelle, un culte probablement fort ancien20; les
éventuelles relations entre ce culte et le sacrificium mentionné par Antistius
Labeo comme faisant partie des cérémonies du Septimontium restent
obscures, la seule conclusion que l'on puisse en tirer étant sans doute
que la Vèlia a été très anciennement un centre religieux, ce qui laisse
supposer qu'elle a constitué à un moment une unité politique, et ce
probablement comme l'un des membres du Septimontium, avant d'être
englobée dans l'enceinte de la cité.
A cet égard, l'anecdote, rapportée par Tite-Live21, de la
construction de la maison de Valerius Publicola, nous paraît assez révélatrice.
En 509, première année de la République, les consuls sont, dit-il, Bru-
tus, qui avait chassé le roi Tarquin, et Valerius, surnommé Publicola;
mais Brutus meurt au cours de la guerre que la toute jeune République
romaine doit mener contre les Etrusques soulevés par Tarquin, et
Valerius, resté seul consul, devient l'objet de violents soupçons : regnum
eum adfectare fama ferebat, quia nec collegam subrogauerat in locum
Bruti et aedificabat in summa Velia : «ibi alto atque munito loco arcem
inexpugnabilem fieri»22', devant l'assemblée du peuple, Valerius se
justifie alors en dissociant vigoureusement sa personne, ses intentions
profondes, et la valeur symbolique que l'on prétend accorder au choix de
son domicile : ego, si in ipsa arce Capitolioque habitarem, metui me
creder em posse a ciuibus mets?23. Et, pour prouver sa bonne foi, il
déclare : tuta erit uobis Velia; deferam non in planum modo aedes, sed colli
etiam subiciam, ut uos supra suspectum me ciuem habitetis; in Velia

20 Pour le commentaire de l'ensemble de ce passage, cf. J. Collari, Varron, De Lingua


Latina V, Paris, 1954, p. 169-179; sur les Argées, voir notamment G. Maddoli, // rito degli
Argei e le origine del culto di Hera a Roma, PP, 26, 1971, p. 153-166.
21 II, 6, 5-12.
22 Liv., II, 6, 6 : «le bruit courait qu'il aspirait au trône, parce qu'il ne s'était pas fait
donner de collègue en remplacement de Brutus et qu'il faisait bâtir au sommet de la
colline de Vèlia : « Sur cette position élevée et très forte, il aurait une citadelle
imprenable» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1962).
23 II, 6, 10 : «même si j'habitait la citadelle du Capitole, me viendrait-il à l'idée que je
puisse inquiéter mes compatriotes?» (ibid.).
392 LES PÉNATES PUBLICS

aedificent quibus melius quant P. Valerio creditur libertas24; joignant le


geste à la parole il fait descendre les matériaux destinés à la
construction de la maison infra Veliam, et cette dernière est finalement bâtie in
infimo cliuo.
Cet épisode, dans les termes où le raconte Tite-Live, nous donne à
voir dans la Vèlia une unité géographique : elle est désignée comme col-
lis, par opposition au planum, au même titre que le Capitole, dont
l'élévation au-dessus du Forum est aujourd'hui encore très manifeste;
pourtant, le fait de s'installer sur le Capitole est présenté par Valerius
Publicola comme une insolence plus grande que de bâtir sa maison sur
la Vèlia, probablement, pour une part, parce que le Capitole est plus
élevé. La même insistance sur la hauteur de la Vèlia s'exprime aussi
dans les mots choisis par Tite-Live pour évoquer l'emplacement
finalement choisi par Valerius, infra Veliam et in infimo cliuo, ce qui suggère
en outre que, comme nous le remarquins plus haut, la Vèlia devait être
alors escarpée de tous côtés25. La désignation de la Vèlia comme un
munitus locus va dans le même sens. Le fait, pour un individu, de
s'installer sur la hauteur, au-dessus des autres, prend évidemment une
valeur symbolique26, et exprime le désir de dominer autrui; en y
renonçant, Valerius montre sa détermination de n'être qu'un des
citoyens de Rome, au même niveau, à tous les sens du terme, que les
autres. Mais cette interprétation symbolique se double, dans la
conscience romaine, d'une expérience vécue : une colline peut devenir pour
celui qui s'y installe un refuge imprenable, une sorte de citadelle dont
les fortifications naturelles le protégeront, et d'où il pourra exercer son
pouvoir sur la plaine environnante {alto atque munito loco arcem inex-
pugnabilem fieri). Aux contemporains de Valerius, ce geste peut
rappeler l'établissement de places-fortes sur les hauteurs dans le Latium :

24 Ibid. : «vous n'aurez pas à craindre la Vèlia. Je descendrai habiter dans la plaine,
ou, mieux encore, au pied de la colline : ainsi, puisque je suis un citoyen suspect, vos
maisons domineront la mienne. Pour construire sur la Vèlia, il faut être meilleur
républicain que Publius Valerius»« (ibid).
25 λόφον περίτομον (Denys d'Halicarnasse, V, 19).
26 A propos de la description faite par le Pseudo-Aristote de la ville d'Oinarea, en
Etrurie, en partie située sur une hauteur et dont les habitants craignaient, pour cette
raison, que quelqu'un ne fût tenté par la tyrannie, J. Heurgon {Oinarea-Volsinii, in
Beiträge zur Alten Geschichte und deren Nachleben, Festschrift für F. Altheim, Berlin, 1969
p. 273-279) souligne que l'histoire grecque offrait des exemples analogues ; R. M. Ogilvie
(A Commentary on Livy, Books 1-5, Oxford, 1965, p. 250) pense qu'il s'agit peut-être d'un
thème hellénistique.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 393

c'est Yarx, position naturellement défendue, et d'où l'offensive est


facilitée. Ici, il n'est pas douteux que cette position, dont les avantages
pourraient être vantés en d'autres circonstances, est présentée comme
un danger pour Rome, ou plutôt pour le peuple romain, dans la
sensibilité duquel ces phrases éveillent peut-être l'écho d'épisodes
douloureux de son histoire, comme peut le faire penser la mention par
Valerius de la citadelle du Capitole; peut-être faut-il voir là une allusion à
l'épisode légendaire de la trahison de Tarpéia27. Il ne s'agit donc plus
de la peur de la tyrannie, mais du danger que représente une citadelle
inexpugnable lorsque la trahison la fait passer aux mains d'ennemis de
Rome. La dernière phrase du discours de Valerius Publicola devant
l'assemblée du peuple (in Velia aedificent quibus melius quant P.
Valerio creditur libertas) laisse entendre que, pour les Romains, la Vèlia est
un emplacement dont le choix est particulièrement inquiétant, et
justifie à lui seul le cupiditatis regni crimen qui pèse sur Valerius28. Il faut
sans doute voir là le souvenir de la tradition qui plaçait sur cette colline
la demeure du roi Tullus Hostilius29. On peut penser aussi que se lit en
filigrane derrière ces paroles le souvenir très lointain d'un temps où la
Vèlia constituait une unité politique appartenant au Septimontium,
alliée, mais peut-être aussi rivale, de la communauté romuléenne du
Palatin. Quoi qu'il en soit, si nous avons insisté sur le sens que l'on peut
donner au récit de Tite-Live, c'est qu'il nous paraît illustrer la valeur
que revêtait la Vèlia aux yeux des Romains. Ils n'ont pu voir en elle une
arx, annonçant chez celui qui l'avait choisie pour séjour une volonté de
domination, voire de tyrannie, et un danger politique et stratégique

27 Liv., I, 11-12.
28 R. M. Ogilvie (op. cit., p. 251) remarque justement qu'il faut accorder une
importance particulière au geste qui précède le discours de Valerius, par lequel il fait abaisser
les faisceaux devant le peuple, auquel il va s'adresser (II, 7, 7 : submissis fascibus) ; cette
explication historique d'une pratique romaine, l'abaissement des faisceaux devant le
peuple souverain, annonce bien la tonalité générale du discours du consul.
29 Solin, I, 25: Tullus Hostilius in Velia (habitauit) ; Varrón, αρ. Non., 531, 19: Tul-
lum Hostilium in Veliis. Le rapprochement entre Valerius Publicola et Tullus Hostilius
est d'ailleurs explicitement fait par Cicéron (De Rep. II, 31): P. Valerius ... aedes suas
detulit sub Veliam, posteaquam, quod in excelsiore loco Veliae cepisset aedificare eo ipso
ubi rex Tullus habitauerat, suspicionem populi sensit mouere. La localisation de la maison
de Valerius Publicola in Velia par le même écrivain dans un autre texte (De Har. Resp.,
1-6) n'est qu'une apparente contradiction avec ce qui précède, très justement expliquée
par H. F. Rebert (op. cit., p. 63). Cf. aussi Valére Maxime (IV, 1, 1) qui définit ainsi la
situation primitive de la maison de Valerius Publicola : excelsiore loco . . . instar arcis.
394 LES PÉNATES PUBLICS

pour l'ensemble du peuple romain, que parce qu'elle constituait bien,


géographiquement, une sorte de citadelle au-dessus du Forum,
nettement détachée de la plaine environnante.
L'anecdote du déplacement de la maison de Publicola du sommet
de la Vèlia au pied de la colline est racontée également par Denys d'Ha-
licarnasse30; le récit en est moins détaillé et plus froid, mais il est, en
substance, le même. Plutarque situe le premier emplacement de la
maison de Publicola sur la Vèlia : υπέρ την καλουμένην Όυελίαν οίκίαν έπι-
κρεμαμένην τη αγορά, και καθορώσαν έξ ύψους απαντά, δυσπρόσοδου δε
πελάσαι καί καλεπήν έξωθεν31. Cette description va dans le même sens
que le récit de Tite-Live, ainsi que l'indication donnée par Aurélius
Victor : domum in Velia tutissimo loco habebat32.
Pourtant, il est aujourd'hui bien difficile de connaître les limites
géographiques précises de cette colline, qui pouvait être qualifiée par
Denys d'Halicarnasse de περίτομος; car toutes les dépressions qui la
séparaient des hauteurs environnantes furent plus ou moins comblées,
pour des raisons diverses33, et seule sa limite ouest, sur le Forum, est
aujourd'hui à peu près certaine. Au sud, elle était séparée du Palatin
par une vallée qui fut comblée en 62 ap. J.-C. par les ruines de
l'incendie de Néron; son versant est, tourné vers l'Esquilin, fut nivelé par
certaines des constructions de la Domus Aurea, puis par le soubassement
du temple de Vénus et de Rome, monument formant l'un des côtés du
Forum de la Paix; la construction de l'énorme Basilique de Maxence,
au IVe siècle, a complètement modifié l'aspect de ce qui devait être le
sommet de la colline34; enfin, au nord-est, le percement, au milieu du
XXe siècle, de la Via dei Fori Imperiali, a détruit les Carinae, zone de
passage qui la séparait de l'Esquilin, derrière la Basilique de
ce 35

30 V, 48.
31 Publicola, 10, 3-6: «... sur le mont appelé Vèlia une maison qui surplombait le
Forum et voyait d'en haut tout ce qui se passait. Elle était d'un accès escarpé et difficile ».
(Trad. R. Flacelière, E. Chambry, M. Juneaux, C.U.F., Paris, 1961).
32 De Vins Illustrious, XV.
33 G. Lugli, / templi dei Lari e dei Penati sulla Velia, p. 401.
34 S. B. Platner-T. Ashby, op. cit., p. 76-78.
35 S. B. Platner-T. Ashby, op. cit., p. 100; E. Nash, Pictorial Dictionary of Ancient
Rome, Tübingen, 1962, I, p. 180; 290; F. Coarelli, Roma, p. 78; id., Il Foro Romano I:
Periodo arcaico, Rome, 1983, p. 111-113.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 395

2) Les monuments

Faute de pouvoir distinguer nettement aujourd'hui ce que furent


les contours de la Vèlia de l'époque archaïque au temps d'Auguste,
nous allons essayer de la définir par les monuments qui en
constituaient le cadre architectural pendant cette période. Pour ce qui est des
édifices situés sur la colline elle-même {in Velia, in Veliis), nous avons
vu qu'il existait une tradition qui plaçait là la demeure du roi Tullus
Hostilius, sur l'emplacement de laquelle, selon Varron, on aurait par la
suite construit le temple des Pénates; Cicéron ne mentionne pas cette
identité d'emplacement des deux monuments, mais seulement le fait
que la maison de Tullus Hostilius était in excelsiore loco Veliae36. Il
n'existe naturellement aucune trace de ce bâtiment, d'une authenticité
historique douteuse. On n'a rien retrouvé non plus de la chapelle des
Argées que Varron, nous l'avons vu, place aussi sur la Vèlia37. Sur
cette colline se trouvait également, jusqu'à l'époque d'Auguste, un petit
sanctuaire dédié à Mutunus Tutunus, mentionné par Festus : Mulini
Tutini sacellum fuit in Veliis, aduersum murum Mustellinum in angi
(portu), de quo ans sublatis balnearia sunt (f)acta domus Cn. D(omitii)
Caluini, cum mansisset ab urbe condita (ad pri)ncipatum Augusti3*; la
suite du texte est malheureusement très mutilée. La chapelle de
Mutunus Tutunus, dont Festus fait remonter l'ancienneté à la fondation de
Rome {ab urbe condita)39 aurait donc été démolie, selon lui, lors de la
construction de la maison de Domitius Calvinus, à l'époque
d'Auguste40. Il n'a subsisté aucune trace de cette maison, ce que F.
Castagnoli41 explique par la construction de la Basilique de Maxence : selon lui,
c'est dans cette zone, qui était à proprement parler la colline de la

36 De Rep. II, 31.


37 De L.L. V, 54.
38 142 L : «II y avait sur la Vèlia un petit sanctuaire de Mutunus Tutunus, en face du
Murus Mustellinus, dans une ruelle; on en avait enlevé les autels pour construire les bains
de la maison de Cn. Domitius Calvinus; le sanctuaire était resté là de la fondation de
Rome au principat d'Auguste ».
39 Pour l'ancienneté du culte de ce dieu, cf. aussi G. Wissowa, Religion und Kultus
der Römer, 2è éd., Munich, 1912, p. 243 sq.
40 F. Castagnoli (77 tempio dei Penati e la Velia, p. 163-164, n. 3) critique
l'identification que Hülsen a cru pouvoir faire du temple de Mutunus Tutunus et des autres édifices
de la Via Sacra sur le relief d'un sarcophage du Musée de Naples, en raison
d'impos ibil tés chronologiques.
41 Op. cit., p. 163.
396 LES PÉNATES PUBLICS

Vèlia, qu'il faut placer tous les monuments dont les auteurs anciens
nous disent qu'ils étaient in Velia, ou in Veliis. Quant au Murus Mustel-
linus, en face duquel se trouvait le sanctuaire de Mutunus Tutunus,
Festus ne nous donne aucune précision sur sa localisation dans
l'ensemble géographique qu'il appelle la Vèlia42.
D'autres édifices se trouvaient au pied de la colline. Nous venons
de voir que Valerius Publicola, soupçonné d'aspirer à la tyrannie, avait
décidé de faire construire sa maison au pied de la Vèlia : infra Ve-
liam; . . . ubi nunc Vicae Potae est domus in infimo cliuo aedificata43. Le
sanctuaire de Vica Pota, très ancienne divinité selon G. Wissowa44,
dont Cicéron explique le nom comme signifiant «vaincre et pouvoir»
(uincendi et potiundi)45, existait donc encore à l'époque d'Auguste,
mais aujourd'hui aucun vestige ne permet de le localiser. Il y avait dans
la zone de la Vèlia un autre monument lié à Valerius Publicola, le
tombeau de la Gens Valeria, présenté par les auteurs anciens comme
exceptionnel et par son emplacement, et par les conditions dans lesquelles il
fut édifié. Cicéron46 souligne que, bien que la loi des XII Tables
interdît les sépultures à l'intérieur de la ville, certains grands hommes, dont
Publicola, avaient obtenu antérieurement à cette loi le privilège d'être
enterrés dans Rome, privilège dont leurs descendants continuaient à
bénéficier. Selon Tite-Live47, Valerius Publicola, à sa mort, était si
pauvre que ses ressources personnelles ne suffirent pas à payer ses
funérailles; l'Etat s'en chargea, pour marquer sa reconnaissance des
immenses services qu'il avait rendus à Rome : sumptus . . . de publico est
datus. Chez Denys d'Halicarnasse se trouvent combinées les deux
traditions : ή μέντοι βουλή, μαθοϋσα ώς είχεν αύτοΐς τα πράγματα άπορώς, έκ
των δημοσίων εψηφίσατο χρημάτων έπιχορηγηθήναι τας είς την ταφήν

42 G. Lugli (/ templi . . ., p. 402) propose de localiser sur la Vèlia la maison de Procu-


lus, l'ami du poète Martial. Ce dernier désigne la demeure comme excelsa domus (I, 70,
12); excelsa, pense G. Lugli, s'applique moins à l'édifice proprement dit qu'à sa situation
sur une hauteur; mais, aucune des indications topographiques données auparavant par
Martial ne nous semble devoir faire préférer une localisation de la maison sur la Vèlia
plutôt que sur le Palatin.
43 Liv., II, 7, 12; Plutarque (Publicola, 10, 6) donne une indication analogue; cf. S. B.
Platner-T. Ashby, op. cit., p. 569.
44 Ibid.
45 De Leg. II, 28.
46 Ibid., 58.
47 Π, 16, 7; de même Aurelius Victor, De Viris Illustribus, XV : publiée sepultus;
Plutarque, Publicola, 23.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 397

δαπανάς, και χωρίον ένθα έκαύθη και ετάφη . . . έν τη πόλει σύνεγγυς της
αγοράς άπέδειξεν ύπο Όυελίας48. Si l'on en croit Denys, la sépulture de
Valerius se serait donc trouvée en bas de la Vèlia, ce que Plutarque
note également en localisant le tombeau παρά την καλουμένην Όυε-
λίαν49. Il semble que, cette fois, l'archéologie puisse confirmer la
tradition littéraire, puisque l'on a découvert, en 1876, un fragment d'un
éloge de M. Valerius Messalla 50, sur le chemin qui mène à l'Aedes Pacts,
derrière la Basilique de Maxence. Cette inscription provient
évidemment de la sépulture de la Gens Valeria, mais les indications
topographiques que nous pouvons en tirer pour notre propos restent
imprécises : le fragment n'a sans doute pas été trouvé à son emplacement
originel, et a dû être réutilisé dans une construction qui a remplacé la
sépulture des Valerii51. Si l'on admet qu'il n'a pas été beaucoup déplacé, il
indiquerait alors à peu près la limite nord de la Vèlia, vers les Carinae;
cette sépulture constituerait donc l'unique référence topographique
utilisable des monuments dits in Velia, sub Veliis, infra Veliam. Il est
probable, au reste, que c'est la présence de cette sépulture, encore visible,
semble-t-il, au temps de Cicéron, qui a donné naissance à toutes les
légendes concernant la maison de Valerius Publicola, celle de son frère,
et la générosité de Rome à leur égard ; ces traditions, assez confuses,
viennent peut-être, comme le note H. F. Rebert52, de la Gens Valeria
elle-même : Cicéron53 affirme que les deniers de l'Etat servirent à
payer non le tombeau, mais la maison, de Publicola, tandis qu'Asco-
nius54, citant Hygin, rapporte que le fils de Valerius, M. Valerius Valé-

48 V, 48, 3 : «Le Sénat, toutefois, apprenant dans quel dénûment ils (= les parents de
Valerius Publicola) étaient, décida de subvenir avec l'argent de l'Etat aux dépenses de la
sépulture et désigna un lieu où il fut brûlé et enseveli, dans la cité, près du Forum, au
pied de la Vèlia».
49 Publicola, 23; la contradiction entre cette indication topographique et celle que
donne ailleurs Plutarque pour le même monument (Quaest. Rom., 79 : έν άγορα) est
résolue de façon très convaincante par F. Castagnoli (op. cit., p. 160 n. 1) : dans ce dernier
passage, Plutarque fait référence à des hommes illustres que les Romains décidèrent
d'ensevelir sur le Forum, à titre exceptionnel; l'imprécision dans la localisation de la
sépulture de Publicola tient peut-être au fait qu'elle est mentionnée dans une
enumeration de monuments.
50 Cf. A. Degrassi, Elogia, 77.
51 Cf. A. M. Colini, Forum Pacis, BCAR, 65, 1937, p. 14.
52 Ibid., p. 64.
53 De Ear. Resp., 26.
54 In Pis., 52.
398 LES PÉNATES PUBLICS

sius, bénéficia de la même générosité; une autre tradition assure que


l'Etat fit construire, à ses frais également, une maison au frère de
Publicola, M. Valerius55, sur le Palatin.
Tels sont les édifices dont la tradition littéraire nous affirme qu'ils
s'élevaient sur la Vèlia, mais dont, répétons-le, seule la sépulture des
Valerti a laissé une trace visible. Avant d'aborder l'étude du dernier
d'entre eux, le temple des Pénates, nous voudrions ajouter ici quelques
remarques sur la confusion qui a parfois été faite entre la Vèlia et la
summa Sacra Via. G. Lugli, comme le montre d'ailleurs bien le titre de
son article56, estime que les deux termes désignent le même lieu et
considère par conséquent que le temple des Lares, qu'Auguste avait
restauré57, est situé sur la Vèlia. Il nous semble, au contraire, que
F. Castagnoli58 critique à très juste titre cette conception, en s'ap-
puyant précisément sur le texte des Res Gestae : aedem Larum in
summa Sacra Via, aedem deum Penatium in Velia . . . feci ; Auguste paraît ici
faire une différence entre les deux emplacements59, qui sont sans
doute très proches cependant60. Du reste, les monuments situés sur la Via
Sacra au pied du Palatin ne sont jamais désignés comme in Velia :
Solin61 situe le temple des Lares sur l'emplacement de la maison d'An-
cus Marcius (Ancus Marcius in summa Sacra Via, ubi aedes Larum est);
or Varron62 le place in Palatio, et la demeure d'Ancus, in Palatio, ad
portant Mugionis; il en va de même pour la maison de Scaurus63, au
pied du Palatin sur la Via Sacra. Il semble donc que la Via Sacra passait
devant la Vèlia, qu'elle séparait du Palatin : lorsque, tournant le dos au
Capitole, on empruntait la Via Sacra jusqu'à son extrémité est - que
désigne le terme summa Via Sacra - le Palatin se trouvait à droite, la
Vèlia à gauche64.

55 Denys d'Halicarnasse, V, 39.


56 / templi dei Lari e dei Penati sulla Velia.
57 Res Gestae, XIX.
58 Op. cit., p. 159-160.
59 La même distinction est clairement posée par E. Van Deman (The Neronian Sacra
Via, AJA, 27, 1923, p. 390), qui s'appuie, elle aussi, sur le texte du Monument d'Ancyre.
60 F". Coarelli (Roma, p. 77-79) propose une localisation de la Via Sacra un peu
différente de celle qui est traditionnellement acceptée, mais qui n'infirme pas la distinction
faite entre la Vèlia et la summa Sacra Via.
61 I, 25.
62 Apud Non., 531, 19.
63 Asconius, In Scaur., 45.
64 Cf. F. Castagnoli, Topografia di Roma antica, p. 73; 105.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 399

II - Le Temple des Pénates

Parmi les monuments que la tradition situe sur la Vèlia figure,


enfin, le Temple des Pénates; malheureusement, il n'en est que
rarement et brièvement question chez les auteurs anciens. Varron65
mentionne l'Aedes deum Penatium in Velia, sans autre précision, pour situer
par rapport à elle l'une des chapelles des Argées, et le même auteur,
cité par Nonius à propos du lieu de résidence des différents rois, note :
Tullum Hostilium in Veliis, ubi nunc est aedis deum Penatium00. Tite-
Live, à propos de prodiges annonciateurs de catastrophes pour Rome,
indique, avec la même sécheresse : Aedes deum Penatium in Velia de
caelo tacta erat67. Nous avons déjà cité la mention du temple dans les
Res Gestae68, assez brève elle aussi. Enfin, Solin, localisant les
habitations des différents rois sur différentes collines de Rome, écrit : Tullus
Hostilius in Velia, ubi postea aedes deum Penatium facta est69. Ces
textes, on le voit, restent fort imprécis en ce qui concerne la localisation
du temple, puisqu'il ne comportent guère que la mention in Velia, ou in
Veliis. Varron, cité par Nonius, et Solin, identifient l'emplacement du
monument avec celui de la maison de Tullus Hostilius; mais, d'une
part, nous ignorons quelle localisation la tradition assignait à cette
dernière; d'autre part, même si l'on considère qu'elle la situait au sommet
de la colline, d'où Tullus Hostilius pouvait voir et surveiller - comme
Plutarque dit que pouvait le faire Valerius Publicola depuis sa maison -
l'ensemble du Forum, il n'est pas sûr qu'il faille donner aux mots ubi
nunc et ubi postea un sens très précis : ils peuvent fort bien désigner la
colline de la Vèlia en général, et non l'emplacement précis de la maison
de Tullus Hostilius70.

65 De L.L. V, 54.
66 531, 19.
67 XLV, 16, 5.
68 XIX.
69 I, 25.
70 Nous avons déjà noté à deux reprises un certain flou dans les indications
topographiques données par Cicéron pour la localisation de la maison de Valerius Publicola, par
Plutarque pour celle du sépulcre des Valerti.
400 LES PÉNATES PUBLICS

1) La description de Deny s d'Halicarnasse

Seul Denys d'Halicarnasse nous a laissé une description détaillée


de la situation du temple : νεώς έν 'Ρώμη δείκνυται της αγοράς ού πρόσω
κατά την έπί Καρίνας φέρουσαν έπίτομον όδον υπεροχή σκοτεινός
ιδρυμένος ού μέγας · λέγεται δε κατά την έπιχωρίων γλώτταν Ούελία το
χωρίον71. Les indications de Denys concernant la Vèlia, qui serait donc
limitée par le Forum et les Carinae, confirment ce que nous avons déjà
noté; en revanche, il nous fournit une précision supplémentaire avec
les mots κατά την έπί Καρίνας φέρουσαν έπίτομον όδόν, qui doivent être
rapprochés de la suite du texte de Festus précédemment cité72 à
propos du sanctuaire de Mutunus Tutunus; le fragment présente
malheureusement des lacunes considérables, mais on peut lire dextra
u(ia) . . . (diuer)ticulum. ubi et colitur et . . . Il est permis d'avancer
quelques hypothèses : la uia est peut-être la Via Sacra, sur la droite de
laquelle se trouve la Vèlia, lorsqu'on va du Palatin vers le Capitole;
quant au diverticulum, il pourrait désigner la petite rue conduisant aux
Carinae mentionnée par Denys; enfin, et colitur doit faire allusion à
l'un des lieux de culte situés sur la Vèlia, mais nous avons vu qu'il y en
avait plusieurs, et il est impossible, en l'état du texte, de savoir duquel
parle Festus. La position du temple, le long de la rue qui conduit aux
Carinae, rend peu probable que ce dernier se soit trouvé au sommet de
la Vèlia, à la place du centre actuel de la Basilique de Maxence. Il y a
tout lieu de croire que cette rue, que Denys qualifie d'έπΐτoμoς, était
taillée dans le flanc de la colline et gagnait les Carinae par un chemin
plus court que celui qui ferait escalader la Vèlia du côté du Forum
pour la redescendre ensuite vers le nord. Le sens de «raccourci» nous
semble donc plus intéressant que celui de «petite rue» («short street»)
adopté par E. Cary73 pour επίτομος.
Plus difficile est l'interprétation de υπεροχή. Ρ. Whitehead74 traduit
par «dans un endroit très obscur», contestant la traduction habituelle
«obscur en raison de la hauteur», pour des raisons grammaticales
assez confuses, et surtout pour des raisons topographiques sur lesquel-

71 I, 68, 1 : «A Rome, on montre un temple non loin du Forum, en bordure du


raccourci qui mène aux Carinae ; il est rendu obscur par la hauteur de ce qui l'entoure (ou :
par sa hauteur) et n'est pas grand; l'endroit est appelé Vèlia dans la langue locale».
72 142 L; cf. supra p. 395.
73 Denys d'H., Antiquités Romaines I, Londres, 1967 (Loeb Classical Library).
74 The Church of S.S. Cosma e Damiano in Rome, AJA, 31, 1927, p. 11.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 401

les nous reviendrons plus bas; il fait donc de υπεροχή un adverbe.


F. Castagnoli75 critique cette traduction, mais reconnaît la difficulté du
passage et hésite entre les deux sens possibles de «obscur à cause de sa
propre hauteur», ou «obscur à cause de quelque chose qui le
surplombe, à cause d'une hauteur ou d'un sommet au-dessus de lui». Sans
préjuger des conclusions auxquelles nous pourrons aboutir sur la
localisation du temple, il nous semble, dès à présent, que le sens de «obscur à
cause de sa propre hauteur» est un peu difficile à accepter : Denys
précise que le bâtiment est petit (ού μέγας); aussi est-il peu vraisemblable
qu'il ait été très haut, car cela impliquerait qu'il ait eu des proportions
notablement différentes de celles qu'avaient habituellement les
temples.
Cette difficulté du texte de Denys n'est pas éclairée par un
commentaire de Donat à l'Eunuque de Terence; Donat cite un passage de
Varron dans les Humanae Res : Numerius Equitius Cuppes et Manius
Macellus singuîari latrocinio multa loca habuerunt infesta. His in exsi-
lium actis bona publicata sunt, aedes ubi habitabant dirutae eque ea
pecunia scalae deum penatium aedificatae sunt10. Les deux voleurs dont
les biens furent confisqués ne sont pas autrement connus, et aucun
autre texte n'atteste l'existence de ces Scalae deum Penatium. Leur nom
suggère une comparaison avec les Scalae Caci11, situées sur la pente
sud du Palatin, qui reliaient cette colline avec la zone du Forum Boa-
rium78. Cet escalier tire son nom d'un des héros de la plus ancienne
histoire de Rome79, et se trouve à proximité de la grotte du Lupercal;
toutefois, comme le souligne B. Liou-Gille80, nous ne connaissons
aucune attestation littéraire ou archéologique d'un temple ou d'un autel de
Cacus sur le Palatin. Au contraire, nous savons qu'il existait sur la Vèlia
un sanctuaire des Pénates, et il paraît donc assez naturel de mettre en

75 Op. cit., p. 158 n. 2.


76 Eunuchius II, 2, 25 : « Numerius Equitius Cupper et Manius Macellus mirent au
pillage beaucoup d'endroits par leur extraordinaire brigandage. Après qu'on les eut
exilés, leurs biens furent affectés au domaine public, les maisons dans lesquelles ils
habitaient détruites, et avec cet argent on construisit l'escalier des dieux Pénates».
77 Leur existence est attestée par Plutarque (Rom., 20; texte corrigé) et Solin (I, 18).
Cf. S. B. Platner-T. Ashby, op. cit., p. 475-66.
78 F. Coarelli (Roma, p. 126; plan, p. 123) pense que ces Scalae reliaient la zone du
Forum Boarium au sommet de la colline, tandis que F. Castagnoli (Topografia ... p. 106)
estime qu'elles étaient situées dans la partie basse de la pente seulement.
79 Cf. B. Liou-Gille, op. cit., p. 46-47.
80 Ibid.
402 LES PÉNATES PUBLICS

relation l'escalier et le sanctuaire, et de localiser ces Scalae sur la Vèlia.


S'agit-il d'un escalier qui, gravissant une partie de la pente de la
colline, desservait particulièrement le temple, ou simplement des marches
du podium? La première hypothèse nous paraît préférable81, dans la
mesure où, d'une part, la fortune dérobée par les deux voleurs était,
semble-t-il, confortable (singulari latrocinio) et pouvait donc permettre
la construction d'un escalier assez imposant; d'autre part, il n'est pas
usuel de dire scalae suivi du génitif du nom du dieu pour parler des
marches du podium d'un sanctuaire82.

2) L'identification de la partie rectangulaire de l'église SS. Còme et


Damien comme le sanctuaire des Pénates

L'identification topographique du sanctuaire se révèle


particulièrement délicate, en raison de la relative pauvreté des témoignages
littéraires, en raison aussi des bouleversements architecturaux du site. Faute
d'en trouver la trace ailleurs, on a cru pouvoir reconnaître, au début du
XXe siècle, des restes du temple des Pénates dans le groupe de
bâtiments qui constituent l'actuelle église des SS. Còme et Damien, entre la
partie basse de la colline où se trouve la Basilique de Maxence, et le
Temple d'Antonin et de Faustine. Cette église a été édifiée au VIe siècle
par le pape Félix IV sur plusieurs bâtiments antiques, ce qui donne à
son plan un aspect singulier. L'identification de ces bâtiments a soulevé
beaucoup de controverses, dont nous ne retiendrons ici que ce qui
intéresse directement notre sanctuaire; en effet, les monuments antiques
que l'on peut reconnaître sous les parties plus récentes ont été eux-
mêmes construits à des époques différentes, au temps d'Auguste, de
Vespasien et de Sévère. Ces multiples réutilisations des constructions
antérieures rendent très hasardeuses les tentatives de reconstitution ou
d'identification des monuments en question. Ce groupe architectural,
tel qu'il se présente à nos yeux, se compose, en gros, de deux parties,
dont les orientations différentes attestent l'hétérogénéité83 : ce sont
d'une part un monument rond flanqué de deux cellae absidiales, regar-

81 C'est l'interprétation de S. B. Platner - T. Ashby, op. cit., p. 388.


82 Scalae Caci et Scalae deum Penatium sont, à notre connaissance, les deux seuls
exemples où scalae est suivi du génitif d'un nom de héros ou de dieu.
83 R. Lanciani, Degli antichi edifici dei S.S. Cosma e Damiano. BCAR, 10, 1882, p. 29-
54.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 403

dant vers le Forum et s'ouvrant sur la Via Sacra par deux portes de
bronze datant de l'Antiquité, d'autre part une partie rectangulaire,
utilisée pour l'édification de l'église proprement dite, à laquelle le
monument rond a servi de vestibule, puisqu'une porte a été percée entre les
deux corps de bâtiments pour les relier. L'identification de ces
monuments est problématique, et a été l'objet d'une longue controverse, dont
nous retraçons brièvement l'histoire84. R. Lanciani85 voit dans l'édifice
rond le tombeau de Romulus, fils de Maxence, tandis que l'édifice
rectangulaire aurait été une seule salle à l'origine (le Temple de la Paix,
construit par Vespasien), divisée ensuite en deux parties dont l'une
serait le Templum Sacrae Urbis; P. Whitehead, dans une première
étude86, puis G. Biasotti et P. Whitehead87, et à nouveau P. Whitehead88,
au contraire, contestent l'existence d'un tombeau - ou d'un hérôon - de
Romulus près du Forum, et identifient la partie nord-est du bâtiment
rectangulaire comme le temple des Pénates, et le bâtiment rond comme
un vestibule monumental construit par la suite pour entrer dans ce
dernier; l'hypothèse de ces deux savants s'appuie du reste, en ce qui
concerne l'identification du temple des Pénates, sur une étude
antérieure de E. Van Deman89. H. F. Rebert90 propose, lui aussi, cette
identification du temple des Pénates, en se fondant sur la même étude, et elle
est acceptée également par S. Weinstock91. Au contraire, F.
Castagnoli92 conteste l'identification du bâtiment rectangulaire comme le
temple de nos dieux, et le même savant et L. Cozza93 proposent d'y voir
deux parties distinctes : le Templum Pacis et, peut-être, la Bibliotheca
Pads mentionnée par des auteurs tardifs.
Examinons de plus près cette identification du temple des Pénates.
E. Van Deman fonde son hypothèse, déjà avancée par H. Jordan et C.

84 Cf. G. Lugli, Roma antica. Il centro monumentale, p. 225.


85 Op. cit., p. 33.
86 Degli antichi edifici componenti la chiesa dei S.S. Cosma e Damiano al foro
romano, Nuovo Bull. d'Arch. Crist., 19, 1913, p. 143-165.
87 La Chiesa dei S.S. Cosma e Damiano al Foro Romano e gli edifici preesistenti,
RPAA, 3, 1924-25, p. 83-122.
88 The Church of S. S. Cosma e Damiano in Rome, AJA, 31, 1927, p. 1-18.
89 The Neronian Via Sacra, AJA, 27, 1923, p. 394-95.
90 hoc. cit.
91 S.w. Penates in R.E., XIX, 1, col. 451.
92 II tempio dei Penati e la Velia, p. 164.
93 L'angolo meridionale del Foro della Pace, BCAR, 76, 1956-58 p. 119-142.
404 LES PÉNATES PUBLICS

Hülsen94, sur un examen minutieux des murs du bâtiment


rectangulaire; la partie la plus basse de ces derniers est formée de blocs de tuf de
l'Anio, et elle est nécessairement antérieure à la partie supérieure, en
blocs de peperino, datée du temps de Vespasien; d'après la nature du
matériau et le mode de construction, E. Van Deman la date de l'époque
d'Auguste. Cette datation, le fait qu'Auguste ait mentionné lui-même
dans les Res Gestae la réfection du temple des Pénates sur la Vèlia, et
l'emplacement de ces restes de murs, non loin du Forum, sur les pentes
de la colline, permettent à l'archéologue américaine d'assurer que nous
sommes là en présence des restes du fameux temple; enfin, elle cite
comme confirmation supplémentaire de cette hypothèse la proximité
du sanctuaire de Vesta et de la Regia, les trois bâtiments étant liés par
d'étroites connexions politiques et religieuses.
G. Biasotti et P. Whitehead, pour leur part, ont cru pouvoir tirer de
l'examen de ces murs latéraux de la partie postérieure de l'église,
tournée vers le Forum, la conclusion qu'ils constituaient un mur d'enceinte,
datant de l'époque d'Auguste. En effet, ils notent que ces murs
présentent un bossage à l'intérieur aussi bien qu'à l'extérieur, qu'ils sont sans
fenêtre, et qu'une corniche les surmonte, comme c'était le cas des
murs, semblables à ceux-ci, qui entouraient le Forum d'Auguste.
Comme ces derniers, les murs intégrés dans la construction de l'église
seraient donc des murs d'enceinte, ayant pour fonction d'entourer un
espace couvert. Ils sont percés de deux portes, dont l'emplacement est
visible aujourd'hui encore, donnant accès au sanctuaire proprement
dit. Cette hypothèse, enfin, trouverait une confirmation dans le texte de
Denys d'Halicarnasse que nous citions plus haut95 : il s'agirait d'un
mur d'enceinte délimitant un téménos, à l'intérieur duquel s'élevait le
petit temple des Pénates; la présence de ces murs élevés et peu distants
du sanctuaire expliquerait un détail du texte de Denys, υπεροχή
σκοτεινός, dont nous avons vu que l'interprétation faisait difficulté96. Cette
hypothèse a aussi le mérite, contrairement à celle d'E. Van Deman, qui
faisait des murs augustéens ceux mêmes du temple, de rendre compte
d'un autre détail du texte de Denys qualifiant ce dernier de ού μέγας, ce
qui cadrait mal avec l'explication proposée par l'archéologue américai-

94 Topographie der Stadt Rom im Altertum I, 2, Berlin, 1878, p. 416 sq.


95 I, 68, 1.
96 La fig. 2 p. 86 présente une reconstitution planimétrique très claire de l'ensemble :
voir la reproduction ci-contre.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 405

ne. S. Weinstock97, enfin, accepte cette localisation du temple des


Pénates qui lui paraît tout à fait conforme à la description de Denys, en
soulignant toutefois qu'elle correspond à ce que les textes anciens
désignent comme sub Velia, c'est-à-dire le pied de la colline; cette
interprétation s'appuie sur la lecture des manuscrits qui donnent en cet
endroit ύπ'Έλαίας, ou ύπ' Ούελίας98; Ε. Cary99, au contraire, propose la
correction Ούελία, ce qui évite la contradiction entre la notation de
Denys et toutes les autres localisations du temple des Pénates, in Velia.
S. Weinstock avance, en outre, un argument nouveau en faveur de cette
localisation. Nous avons vu qu'il considérait qu'à Lavinium comme à
Rome, les Pénates étaient, dès l'origine, identifiés aux Dioscures 10°, et la
description des statues des dieux, qui suit le texte de Denys
précédemment cité et sur laquelle nous reviendrons plus bas, le confirme dans
ces vues; or, note-t-il, les saints Corne et Damien, deux frères médecins
et patrons des médecins, étaient assimilés par les Grecs aux Dioscures,
divinités jumelles et protectrices; aussi ne faut-il pas s'étonner, selon

CLIVVS AD CARINAS

ÌVÌ4

AEDLS t
DEVM j
PENATtV/Λ ·

97 Loc. cit.
98 Cf. aussi F. Castagnoli, op. cit., p. 165 n. 2.
99 Op. cit., ad. loc.
100 Supra p. 288-9.
406 LES PÉNATES PUBLICS

lui, que l'église dédiée aux deux saints se soit élevée précisément sur
l'emplacement du temple des Pénates-Dioscures; ce serait, au contraire,
un témoignage d'une remarquable continuité dans les traditions
religieuses, du paganisme gréco-romain au christianisme. Le monument
antique utilisé pour la construction de l'église est d'ailleurs désigné
comme le «Temple des Castors» dans un dessin du bâtiment fait au
XVIe siècle par P. Ligorio, accompagné d'un commentaire de son
contemporain Panvinio, conservés à la Bibliothèque Vaticane101.
Cette localisation nous paraît au demeurant appeler de sérieuses
réserves. La première vient du fait que, dans toutes les références
littéraires au temple, sauf chez Denys si l'on accepte la leçon ύπ' Ούελίας,
ce dernier est situé in Velia, ou εν Ούελία. Or, nous l'avons vu à propos
des autre édifices que la tradition situe sur la Vèlia, il semble que les
auteurs fassent une différence très nette entre les monuments situés
sur la colline elle-même (in Velia, in Veliis) et ceux qui se trouvent en
contrebas (sub Velia, infra Veliam). Cette distinction est
particulièrement bien illustrée par l'anecdote du déplacement de la maison de
Valerius Publicola. Aucun des monuments n'est localisé à l'aide de l'un
ou l'autre terme indifféremment, sauf, précisément, la maison de
Publicola située in Velia dans un texte de Cicéron, singularité dont nous
avons rendu compte précédemment102. Nous verrons plus bas qu'il est
ύπ'
peut-être possible de résoudre la contradiction entre la leçon
Ούελίας et les autres références littéraires antiques. De toute façon,
cette localisation constitue une difficulté topographique, dans la mesure
où l'emplacement même de l'église S.S. Corne et Damien n'est pas à
proprement parler au pied de la Vèlia, mais un peu plus à l'ouest, le
long de la Via Sacra. Cette difficulté n'a d'ailleurs pas échappé à H. F.
Rebert103 qui, pour justifier le relatif éloignement de cet emplacement
par rapport à la hauteur sur laquelle est construite la Basilique de
Maxence (hauteur qu'il identifie comme la Vèlia) propose de donner
plusieurs sens au terme Velia : oppidum, dans la mesure où elle était
l'une des collines du Septimontium; deuxièmement le nom d'une
colline; troisièmement «une expression pour ainsi dire formelle qui a fini
par être vidée de tout contenu topographique»104; ce dernier sens se

101 F. Castagnoli-L. Cozza, op. cit., p. 125.


102 Voir ci-dessus p. 393 n. 29.
103 Op. cit., p. 56 sq.
104 Op. cit., p. 60.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 407

trouverait dans toutes les mentions du Temple des Pénates, où


l'expression in Velia serait restée figée par le conservatisme religieux des
Romains. Cette théorie a été très justement combattue par F.
Castagnoli105. Nous voudrions ajouter qu'il nous paraît peu plausible, étant
donné que le terme Velia correspond sans aucun doute à une réalité
géographique précise du site de Rome, qu'il ait pu être employé dans une
expression, Aedes deum Penatium in Velia, où il était privé précisément
de cette référence; de plus, comme F. Castagnoli le souligne, cette
hypothèse repose sur une erreur de méthode : H. F. Rebert accepte
comme une certitude la localisation du temple avancée par E. Van
Deman, et tente, à partir de là, de proposer pour le mot Velia une, ou
des définitions cohérentes, alors qu'il nous semble au contraire qu'une
identification de l'édifice qui ne le situerait pas in Velia est par là
même fortement sujette à caution.
On peut faire à cette localisation d'autres objections plus graves.
F. Castagnoli106 note tout d'abord que l'édifice antique, dans la partie
augustéenne duquel on a cru pouvoir reconnaître les restes du téménos
abritant le Temple des Pénates, semble parfaitement intégré dans
l'ensemble plus vaste du Forum de la Paix, dont il occupait l'angle sud-
ouest; d'autre part, son orientation (nous avons déjà noté que le
bâtiment rectangulaire présente une orientation différente de celle que
définissent la porte et les deux absides latérales du bâtiment rond qui
borde la Via Sacra) fait également penser qu'il constituait une partie du
Forum de la Paix. F. Castagnoli remarque que l'hypothèse d'E. Van
Deman, reprise par G. Biasotti et P. Whitehead, se heurte aux habitudes
de l'architecture religieuse romaine : ces murs sans ornements,
composés de blocs grossièrement taillés, ne peuvent être ceux d'un temple, ni
même de l'enceinte d'un temple. Alors que P. Whitehead107 considère
que les deux murs parallèles, en blocs de tuf, que l'on peut identifier
aujourd'hui encore, épais de 0,90 m, avaient originellement 23 m de
long et 17,50 m de hauteur, et que le quadrilatère ainsi délimité avait
18,50 m de large, F. Castagnoli note que ce schéma architectural ne

105 Op. cit., p. 160-161 n. 3 : selon F. Castagnoli, on ne peut admettre la distinction


entre plusieurs sens du terme «Vèlia», soit colline à proprement parler, soit expression
vide de contenu topographique ; ce dernier sens, retenu par H. F. Rebert pour expliquer
l'expression Penates in Velia, le conduit à une identification fausse du Temple des
Pénates.
106 Op. cit., p. 157.
107 The Church of S.S. Cosma e Damiano in Rome, p. 9.
408 LES PÉNATES PUBLICS

peut être comparé, comme on a suggéré de le faire, avec celui de l'Ara


Pacis 108 : en effet, ce dernier monument offre des proportions
harmonieuses, les murs du téménos étant relativement beaucoup plus bas que
ceux de l'enceinte supposée du sanctuaire des Pénates, et surtout, ces
murs abritent un autel, non un temple (même si la tradition littéraire -
Denys en particulier - nous affirme qu'il était petit); l'ensemble dont la
reconstitution est suggérée par G. Biasotti et P. Whitehead aurait été un
exemple unique dans l'architecture des sanctuaires et d'un
«indiscutable mauvais goût», selon le savant italien109; on comprend mal
d'ailleurs quelle aurait été, dans cette hypothèse, l'histoire architecturale du
temple après sa reconstruction par Auguste : en particulier la
construction d'un contrefort de tuf sur le mur augustéen à l'époque de Néron,
que l'on peut reconnaître aujourd'hui encore, aurait été d'un effet
particulièrement disgracieux, et l'indiscutable incorporation de cette aire
sacrée dans le Forum de la Paix s'expliquerait difficilement; enfin, si
l'on accepte de localiser au pied de la colline le Temple des Pénates, on
peut très malaisément mettre en relation avec lui les Scalae deum Pena-
tium mentionnées par Varron cité par Donat110.
Il nous paraît donc, en définitive, très difficile d'accepter
l'hypothèse selon laquelle le Temple des Pénates aurait été situé sur
l'emplacement de l'actuelle église des S.S. Corne et Damien; outre les raisons
négatives que nous venons de passer en revue, plaide aussi contre elle
le fait que les bâtiments antiques sur lesquels s'est édifiée l'église
peuvent être identifiés de facon beaucoup plus convaincante comme le
Templum Pacis et la Bibliotheca Pacis111. Faut-il alors accepter l'idée,
avancée par G. Lugli112, que l'emplacement du Temple des Pénates nous
demeure inconnu? F. Castagnoli113 propose une reconstitution de la
topographie antique de la Vèlia qui permet de suggérer un autre
emplacement; selon lui, le centre de la Vèlia aurait été, non l'actuelle
Basilique de Maxence, mais la zone qui se trouve derrière cet édifice114;

los Voir G. Moretti, Ara Pacis Augustae, Rome, 1948, passim.


109 Op. cit., p. 158.
110 Soulignons toutefois que cette relation n'est qu'une hypothèse : la localisation des
Scalae deum Penatium demeure inconnue.
111 Cf. F. Castagnoli-L. Cozza, ibid.
112 Roma antica. Il centro monumentale, p. 226.
113 Op. cit., p. 159-160.
114 II a soutenu à nouveau, plus récemment, cette localisation (Topografia di Roma
antica, p. 73-74).
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 409

le Temple des Pénates se trouvait, dans cette hypothèse, sur le versant


nord de la colline, derrière la Basilique, versant qui fut entaillé par le
percement de la Via dei Fori Imperiali à l'époque moderne. Cette
localisation, selon le savant italien, permet de résoudre la contradiction
entre les mentions du temple in Velia et ύπ' Ούελίας - cette dernière
chez Denys -, car l'emplacement en question peut être désigné par l'un
ou l'autre terme; en effet, la Via ad Carinas, dit F. Castagnoli, était
taillée dans le flanc assez abrupt de la colline, comme le fait apparaître un
grand terrassement mis au jour par les travaux de la première moitié
du XXe siècle115; le Temple des Pénates devait être situé au-dessus de
cette rue, à laquelle il était relié par un long escalier - les Scalae deum
Penatium probablement -, et était peut-être encaissé dans le flanc de la
colline et, par là - même, rendu obscur par le sommet de cette
dernière, qui le dominait; de plus, note F. Castagnoli116 la distinction est
clairement exprimée par Auguste dans les Res Gestae entre le temple des
Lares, situé in summa Sacra Via, et celui des Pénates, in Velia.
Cette hypothèse nous paraît intéressante à bien des égards. Elle a
le très grand mérite de cadrer avec tous les témoignages littéraires, et
de ne pas offrir de singularité du point de vue de l'architecture
religieuse. Nous retiendrons tout particulièrement l'idée que le petit
temple était à flanc de colline, en haut d'un grand escalier : cela permet en
effet d'expliquer qu'on ait pu à la fois dire qu'il était sur la Vèlia et en
bas de la Vèlia, de justifier l'existence des Scalae deum Penatium et,
d'autre part, de comprendre qu'à cause de sa petite taille, le temple
devait être encaissé dans le flanc de la colline, dont le sommet le
surplombait probablement, d'où la notation de Denys sur l'obscurité qui y
régnait, ou qui l'entourait. Nous avouons être un peu moins convaincu
par la localisation du monument sur le versant nord de la Vèlia. En
effet, il nous semble que ce versant est assez éloigné du Forum, alors
que Denys affirme que le temple était της αγοράς ού πρόσω; bien
entendu, il s'agit là d'une réserve fondée sur un argument bien fragile, car
en définitive, les termes employés par Denys sont vagues, et la notion
de proximité est toute relative. D'autre part, la localisation du temple
par rapport au Cliuus ad Carinas nous paraît particulièrement délica-

115 BCAR, 61, 1933, p. 82, cité par F. Castagnoli (// tempio dei Penati e la Velia, p. 159
n.2).
116 Op. cit., p. 159-160.
410 LES PÉNATES PUBLICS

te117. Si cette rue conduit bien, comme nous le croyons, du Forum aux
Carinae, et est taillée à flanc de colline, il est néanmoins impossible de
s'appuyer sur le texte de Denys pour savoir quelle portion de la rue
était voisine du Temple des Pénates. F. Castagnoli118 fait valoir que le
Temple de Tellus, que P. Ligorio situe près de l'église Sant'Andrea in
Portogallo, aux environs de l'actuelle Via del Colosseo, était localisé,
par le même Denys, κατά την έπί Καρίνας έρουσαν όδόν119, et encore in
Carinis. Mais, selon nous, ces références n'indiquent pas que le Temple
de Tellus était en bordure de la même section de la rue, ni même qu'il
s'agissait de la même rue; les deux temples peuvent avoir été situés,
l'un - celui des Pénates - près du Forum, l'autre - celui de Tellus - à
l'autre extrémité de la rue, aux Carinae même. En l'état actuel des
lieux, il nous paraît à peu près impossible de trancher de cette dernière
question. En revanche, il est fort probable que ce temple, quel qu'ait
été son emplacement précis par rapport au sommet de la Vèlia -
versant tourné vers les Carinae ou versant tourné vers le Forum -, a été
détruit au IVe siècle lors des énormes travaux de construction de la
Basilique de Maxence, qui occupe en fait la plus grande partie de la
superficie de la Vèlia.

3) Le «Temple de Romulus» comme sanctuaire des Pénates

Un autre localisation du Temple des Pénates, qui n'infirme pas du


reste la précédente, a été proposée par F. Coarelli120. Selon lui, ce
temple, qui se trouvait sur le flanc de la Vèlia, au sommet d'un escalier, fut
détruit lors de l'édification de la Basilique de Maxence. Il fut alors
reconstruit aussi près que possible de son emplacement d'origine, dans
un endroit libre : c'est le monument rond généralement désigné comme
le «Temple de Romulus». La démonstration de l'archéologue italien est
faite en deux temps : d'une part, il conteste l'identification de l'édifice
rond comme l'hérôon du fils de Maxence, d'autre part, il donne des
arguments en faveur de son identification comme le Temple des
Pénates.

117 Le plan proposé par G. Biasotti et P. Whitehead {op. cit., p. 86, fig. 2), reproduit
ci-dessus, offre une interprétation de cette localisation.
118 Op. cit., p. 159 n. 1.
119 VIII, 79.
120 Guida archeologica di Roma, Milan, 1975, p. 94.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 411

La désignation comme «Temple de Romulus» de l'édifice repose


sur une tradition assez confuse, dont il est diffide de suivre la trace à
travers les siècles. Le Liber Pontificalis note que le pape Félix IV a
construit l'église de S.S. Còme et Damien in loco qui appellatur Via
Sacra, iuxta templum urbis Romae; ce temple est en réalité le Templwn
Veneris et Romae121, et le monument auquel il est fait référence est plus
probablement la Basilique de Maxence122. Plus tard, la tradition
rattacha le souvenir de Romulus à la Basilique de Maxence : Romulus était
le nom du fils, mort jeune, de cet empereur, et on lui rendit un culte
quasi-divin; de plus, des monnaies du temps123 représentent, dans la
Basilique, une statue de Romulus et Rémus allaités par la louve. Cette
zone paraît donc liée aux deux Romulus, le fondateur de Rome et le fils
de l'empereur, au point que, dans les Mirabilia, la Basilique semble
avoir été désignée comme Templum Romuli. En 1450, Poggio Braccioli-
ni124 donne ce nom, non pas à la Basilique, mais à l'église elle-même;
enfin, à partir du XVIIe siècle, on appelle ainsi le vestibule rond, et non
l'église proprement dite125; le premier, semble-t-il, Canina126 a eu l'idée
de l'identifier avec l'hérôon bâti par l'empereur Maxence à la mémoire
de son fils Romulus divinisé. Telle est la tradition sur laquelle se fonde
la désignation du monument rond qui borde la Via Sacra comme le
«Temple de Romulus». Elle s'appuie aussi, comme le rappelle F. Coa-
relli, sur des monnaies de Maxence représentant au droit le buste de
Romulus, désigné par la légende, au revers un temple rond surmonté
d'un dôme sur lequel est posé un aigle, avec la légende aeternae
memoriae127 : cet édifice serait celui qui servit par la suite de vestibule à
l'église SS. Còme et Damien. Cette identification du monument rond en
bordure de la Via Sacra, appuyée sur le témoignage des monnaies de
Maxence à la mémoire de son fils, est soutenue par S. B. Platner et

121 Cf. F. Castagnoli-L. Cozza, op. cit., p. 119.


122 Cf. aussi P. Whitehead, op. cit., p. 2.
123 J. Maurice, Numismatique Constantinienne, Paris, 1908, I, p. 307; planche VIII,
fig. 8.
124 Cf. Valentini et Zuchetti, Codice topografico, IV, p. 234, cité in F. Castagnoli -
L. Cozza - op. cit., p. 119, n. 1.
125 Ciampini, Vet. Mon. (1686), I, p. 5 cité par P. Whitehead, op. cit., p. 4, n. 5.
126 Cité par P. Whitehead, ibid., n. 6.
127 C. H. V. Sutherland - R. A. G. Carson, The Roman Imperial Coinage, vol. VI,
Londres, 1967, p. 337, n° 207.
412 LES PÉNATES PUBLICS

T. Ashby128. F. Castagnoli129 rejette l'hypothèse suivant laquelle il


s'agirait du Temple des Pénates, qu'il situe plutôt sur les pentes de la
colline, sans proposer d'autre identification pour l'édifice.
F. Coarelli, tout en affirmant que l'identification du monument
«pose de graves problèmes», conteste celle que nous venons de
rappeler : selon lui, le Templum Romuli, dont l'existence est signalée dans
cette zone, est une fausse identification de la Basilique de Maxence en
ruines; il n'a probablement jamais existé de «Temple de Romulus» en
ce lieu, et F. Coarelli cite à l'appui de sa thèse la mention, au XVIe
siècle130, d'une inscription sur une pierre de l'édifice, signalant qu'il avait
été dédié par Constantin, ce qui exclut de le lier au souvenir du fils de
Maxence. Quant au témoignage des monnaies frappées au temps de
Maxence, elles représentent, dit F. Coarelli, le mausolée de Romulus
sur la Via Appia. L'identification de ce dernier est, du reste, bien
établie, et il forme un ensemble avec le Cirque de Maxence situé tout à
côté, construit également par l'empereur à la mémoire de son fils
mort131.
Reste à donner des arguments en faveur de l'identification du
monument rond comme le Temple des Pénates. Nous avons déjà dit
que F. Coarelli note la proximité du probable emplacement originel du
sanctuaire et de celui de l'édifice rond, le plus proche parmi ceux qui
étaient disponibles, également en bordure de la Via ad Carinas, dont
F. Coarelli reconnaît le commencement sur la droite de la rotonde. De
plus, il souligne la présence, des deux côtés de cette dernière, de deux
niches rectangulaires terminées par une abside; celle de gauche est
actuellement fort endommagée, mais celle de droite, en revanche, est
bien conservée. On peut voir que les deux cellae s'ouvraient sur la
façade de l'édifice, du côté de la Via Sacra, par une entrée flanquée de deux
colonnes de cipolin, à laquelle on accédait par quelques marches; les
colonnes de celle de droite sont encore en place, et l'une d'elles est
ornée d'un gracieux chapiteau corinthien132. La présence de ces deux
niches avait d'ailleurs été relevée au XVIe siècle par P. Ligorio, qui

128 Op. cit., p. 450.


129 Topografia di Roma antica, p. 75-76.
130 F. Coarelli fait sans doute allusion à la description de Panvinio dont nous avons
fait état plus haut.
131 Cf. F. Coarelli, Dintorni di Roma (Guide archeologiche Laterza), Rome, 1981,
p. 30-38.
132 Cf. E, Nash, Pictorial Dictionary of Ancient Rome, II, p. 268-69, fig. 1023 et 1025.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 413

avait cru pouvoir en déduire que le monument était le «Temple de


Romulus et Rémus», identification d'ailleurs également suggérée au
dessinateur par le souvenir de Romulus associé à cette zone, avec la
dénomination de «Temple de Romulus» donnée à la Basilique de
Maxence133. La présence de ces deux niches aux flancs d'un monument
rond avait suggéré à R. Lanciani134, puis à G. Lugli135, une comparaison
avec une monnaie frappée au temps de Maxence et représentant, au
droit, un buste de Romulus désigné par une légende, au revers, un
monument rond, surmonté d'un dôme sur lequel est posé un aigle, et
flanqué de deux cellae contenant chacune une statue d'un dieu placée
sur un piédestal avec la mention aeternae memoriae 136. La ressemblance
du monument servant de vestibule à l'église SS. Còme et Damien, et de
celui qui est représenté sur la monnaie, jointe à la rareté de ce type
architectural - une rotonde flanquée de deux niches rectangulaires à
absides -, ont semblé à ces deux auteurs de suffisantes garanties pour
les identifier comme le Temple de Romulus en bordure de la Via Sacra;
nous venons de voir pour quelles raisons F. Coarelli refuse cette
identification. Mais l'archéologue italien a voulu, en outre, rendre compte de
la présence de deux niches aux flancs du monument (niches qui
auraient abrité les statues, d'après la figuration de la monnaie) dont
l'identification de l'ensemble de ce dernier comme le Temple de
Romulus n'explique pas la présence. Ces deux niches, selon F. Coarelli,
auraient abrité les statues des Pénates, représentés au nombre de deux
sur la monnaie, ce qui serait d'autre part conforme à ce que dit Denys
d'Halicarnasse de la représentation de ces dieux dans le temple de la
Vèlia137; l'ensemble de l'édifice serait donc le Temple des Pénates,
reconstruit à cet emplacement au moment où s'édifiait la Basilique de
Maxence.
Revenant tout récemment sur cette question, F. Coarelli138 a
proposé du monument une autre identification, liée à la modification qu'il
suggère du tracé traditionnellement admis de la Via Sacra. S'appuyant

133 Cf. R. Lanciani, op. cit., p. 34.


134 Loc. cit.
135 Roma antica. Il centro monumentale, p. 225.
136 Pour la description de la monnaie, voir J. Maurice, op. cit., p. 192, et pi. XVIII
n°ll.
137 I, 68, 2 ; cf. ci-dessus, p. 400-2.
138 Roma (Guide archeologiche Laterza), p. 77-78 ; // Foro Romano I : Periodo arcaico,
p. 11-38.
414 LES PÉNATES PUBLICS

sur les indications de Varron et de Festus, qui distinguent un sens


étroit et un sens plus large de ce terme, F. Coarelli assigne comme
limites au premier le parcours compris entre la Regia et le début de la
montée qui se trouve pratiquement en face du «Temple de Romulus»
(le prolongement de la route jusqu'à l'Arc de Titus étant plutôt désigné,
selon lui, comme Cliuus Sacer), au second le parcours compris entre
l'Arx et le Sacellum Streniae sur les Carinae. Il en résulte évidemment
un changement profond dans la localisation d'un certain nombre
d'édifices que les témoignages littéraires placent sur la Via Sacra ; nous n'en
retiendrons ici que ce qui concerne le «Temple de Romulus». F.
Coarel i fonde sa démonstration sur ces données topographiques nouvelles,
plaçant en fait notre monument in summa Sacra Via, et sur les Catalogi
des édifices de Rome par région, datant de l'époque de Constantin, et
mentionnant, parmi les édifices situés sur la droite de la Via Sacra
quand on vient du Colisée, le Temple de Jupiter Stator. F. Coarelli
affirme qu'il est impossible de reconnaître, comme on le fait traditionne-
ment, les traces de ce temple dans les vestiges qui subsistent à côté de
l'Arc de Titus; en revanche, le «Temple de Romulus» étant le seul
monument non identifié qui se trouve dans cette zone, il est tentant de
l'identifier comme le Temple de Jupiter Stator, d'autant que les sources
littéraires localisent ce dernier en un endroit qui correspond à
l'emplacement du «Temple de Romulus». Dans cette nouvelle perspective,
l'histoire du monument se trouve changée : le Temple de Jupiter Stator,
dont la tradition attribue la fondation à Romulus pour remercier le
dieu d'avoir arrêté les Romains en fuite devant les Sabins qui
descendaient du Capitole139, aurait sans doute été tout d'abord un sanctuaire à
ciel ouvert, auquel fut substitué en 294 av J.-C. un temple dédié par
Régulus après sa victoire sur les Samnites. A l'époque de Maxence, le
monument fut remanié, et c'est alors que l'on lui adjoignit les deux cel-
lae absidiales qui sont représentées sur la monnaie, et qui ont fait - à
tort dit F. Coarelli - identifier l'ensemble corame le «Temple de
Romulus». En effet, le Temple des Pénates aurait été démoli à cette époque
en raison des travaux de construction de la Basilique; on ne le
reconstruisit pas totalement - contrairement à ce que F. Coarelli avait admis
dans sa première étude -, mais on transféra les deux statues des dieux
dans les niches construites à cet effet sur les côtés du temple le plus
proche, celui de Jupiter Stator, qui fut restauré, ou reconstruit, à cette

139 cf. Liv., i, 12.


LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 415

époque : c'est l'état du monument que nous voyons aujourd'hui. Enfin,


note F. Coarelli, le choix de ce temple pour abriter les statues des
Pénates s'explique fort bien, pour des raisons topographiques que nous
avons déjà mentionnées, mais aussi pour des motifs idéologiques;
l'empereur Maxence a eu le désir de renouer avec le plus ancien passé de
Rome, comme en témoignent, entre autres, le choix de cette ville pour
sa capitale, et le nom de Romulus qu'il donna à son fils; l'intérêt porté
à ces cultes, liés aux deux fondateurs de Rome, celui de Jupiter Stator à
Romulus et celui des Pénates à Enée, et leur réunion en un seul
ensemble architectural, n'ont, dans cette perspective, rien qui doive
surprendre.
Cette démonstration brillante, et à première vue assez
convaincante, nous paraît appeler cependant quelques réserves. Nous ne
retiendrons pas ici comme objection à cette identification le témoignage
iconographique du relief du tombeau des Haterii, dont l'un des motifs a
souvent été interprété comme la représentation du Temple de Jupiter
Stator : on voit essentiellement de l'édifice sa facade, mais quelques
lignes de perspective permettent de penser que le monument
représenté était quadrangulaire; au demeurant, l'interprétation de ces reliefs est
particulièrement épineuse, puisqu'il n'est pas certain qu'ils aient
constitué un ensemble topographique, ni même qu'ils soient des édifices
réels140, et l'identification de notre temple est douteuse. Nous n'avons
aucun autre témoignage iconographique concernant ce monument, et
les mentions qui en sont faites dans les textes ne permettent pas de
savoir s'il était rond ou quadrangulaire141. Sa désignation comme aedes,
sans impliquer une forme ronde, ne l'exclut pas142; cette forme serait
du reste la plus probable, car il n'est guère concevable que, lors de la

140 F. Castagnoli, Gli edifici rappresentanti in un rilievo del sepolcro degli Haterii,
BCAR, 69, 1941, p. 59-60.
141 Cicéron déclare (Cat. I, 5, 11) avoir réuni le Sénat dans YAedes louis Statoris pour
y prononcer la Première Catilinaire, ce qui est repris par Plutarque (Cic, 16). Or, nous
savons par Aulu-Gelle (N. Ait. XIV, 7, 7) que le Sénat ne pouvait voter de sénatus-consulte
valable que dans un espace orienté et inauguré, ce qui exclut un monument rond (cf.
G. Dumézil, La Religion romaine archaïque, 2è éd., 1974, p. 322-3). Cependant, le
sanctuaire proprement dit, ici désigné comme aedes, pouvait être construit à l'intérieur d'un
espace délimité consacré au dieu - que désigne précisément le mot templum -, lui-même
orienté.
142 G. Dumézil, loc. cit.; l 'Aedes Vestae est un monument rond, non orienté.
Remarquons cependant que peuvent être désignés comme aedes des sanctuaires quadrangulai-
res, par exemple, sur le Forum, X Aedes Saturni, X Aedes Concordiae, X Aedes Castorum.
416 LES PÉNATES PUBLICS

restauration par Maxence, ou antérieurement à elle, on ait changé la


forme du sanctuaire. Mais ce point nous semble au demeurant faire
difficulté, car le temple de Jupiter Stator est probablement très ancien,
comme en témoigne la tradition rapportant sa fondation à Romulus.
Or, parmi les sanctuaires archaïques, seul celui de Vesta est rond, ce
qui s'explique par la personnalité religieuse propre de la déesse, ainsi
que l'a montré G. Dumézil.
D'autre part, s'il est difficile d'admettre que Maxence a érigé deux
monuments ronds, hérôa à la mémoire de son fils, dont l'un aurait été
situé sur la Via Appia, et l'autre en bordure de la Via Sacra, un examen
de l'ensemble des monnayages commémoratifs frappés par cet
empereur à la mémoire de membres de sa famille disparus suscite une
certaine perplexité143; des monnaies portant au revers aeternae memoriae
ont en effet été frappées par l'empereur, pour commémorer non
seulement la mort de son fils Romulus, mais aussi celle de son père Maxi-
mianus Herculius, de son beau-père Galérius, de son oncle par alliance
Constantius, dont les noms figurent au droit des monnaies; au revers,
au-dessous de l'inscription aeternae memoriae, on voit sur toutes un
monument rond, surmonté d'une coupole sur laquelle est posé un aigle,
animal qui symbolise sans doute les prétentions dynastiques que
Maxence exprimait par ce monnayage144; le monument est soit tétrasty-
le145, soit hexastyle 146, soit encore sans colonnade147, et on y voit deux
portes, soit fermées soit entr'ouvertes. Il est évident que ce type
architectural n'a pas dans ses détails de caractère réaliste. L'archétype de ce
monnayage est celui qui célèbre la mémoire de Romulus, mort le
premier, en 309, et le monument rond représente, avec plus ou moins
d'exactitude, l'hérôon du prince : certaines monnaies le montrent
composé de gros blocs de pierre, d'autres ne figurent du corps du bâtiment
que les colonnes, en nombre variable. En revanche, il paraît
improbable que des monuments identiques aient été construits pour les autres
parents de Maxence, morts après Romulus : le monument de ce dernier
a servi de modèle pour les monnayages commémoratifs de la famille,
ainsi que la légende aeternae memoriae, qui n'existe d'ailleurs, à notre

143 C. H. V. Sutherland - R. A. G. Carson, op. cit., p. 346-382; 400-406.


144 Ibid., p. 346.
145 Ibid., n°211; 243-249.
146 Ibid., n° 250-256.
147 Par ex., ibid., n° 239.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 417

connaissance, que sur les monnaies de Maxence; seul change le nom du


mort, écrit au droit de la pièce.
Mais si les détails varient, l'allure générale du monument est la
même, et elle est aussi très proche de l'édifice représenté sur les
monnaies auxquelles F. Coarelli fait allusion. Ces dernières existent en
quelques exemplaires au Cabinet des Médailles148 avec des variantes de
détail : dans les niches latérales, il n'y a pas de statues sur certains
exemplaires, sans qu'il soit possible de déterminer si cette absence est
due à l'usure du métal à cet endroit, ou si elle est délibérée; l'architrave
et les acrotères sont plus ou moins stylisés sous forme de figures
géométriques, suivant les exemplaires; les deux portes sont rectangulaires
ici, là elles sont arrondies en haut ou sont surmontées d'un fronton
triangulaire. Sans doute ne faut-il pas chercher dans ce monument,
non plus que dans les représentations de l'Hérôon de Romulus, une
figuration réaliste, encore que ce type de monnayage ait été frappé
exclusivement à Rome, alors que le précédent provient à la fois de
Rome et d'Ostie149. Mais ce qui est surprenant à nos yeux, c'est la
ressemblance indéniable entre les deux types de monnayages, encore
renforcée par le fait que les deux niches latérales sont incorporées dans la
structure générale du monument, dans la mesure où elles sont incluses
dans l'espace délimité par la coupole; notons du reste que dans le
monument de la Via Sacra, les deux cellae, quoique appuyées de chaque
côté de la rotonde, ne sont pas abritées sous la coupole qui recouvre
cette dernière. Il y a d'autres points de ressemblance : le droit des deux
types de monnaies, et, au revers, la légende aeternae memoriae. Enfin
on comprend mal pourquoi Maxence aurait fait figurer cette dernière
inscription au-dessus du temple de Jupiter Stator, sauf à vouloir
associer le souvenir de son fils à son homonyme, instaurateur légendaire de
ce culte. Au demeurant, l'hypothèse de F. Coarelli ne saurait être tout à
fait rejetée : d'autres détails, notamment la présence des deux statues,
que nous étudierons plus loin, sont des arguments convaincants en
faveur, sinon de l'identification de l'ensemble du monument comme le
temple de Jupiter Stator, du moins de l'attribution des deux cellae aux
Pénates, après la destruction de leur temple sur la Vèlia même.

ne N° 9005-9006.
149 Cf. C. H. V. Sutherland-R. A. G. Carson, op. cit., p. 346 sq.
418 LES PÉNATES PUBLICS

4) Conclusion

II semble donc bien qu'il faille admettre que nous ignorons


l'emplacement originel exact du temple des Pénates, et l'aspect du
sanctuaire. Pourtant, certains savants, et notamment F. Castagnoli150, pensent
que c'est de lui que s'est inspiré le sculpteur du relief représentant le
sacrifice d'Enée sur l'Ara Pacis; mais nous avons vu précédemment151
qu'on avait aussi proposé de situer la scène à Lavinium, cité à laquelle,
beaucoup plus qu'à Rome, est lié le personnage d'Enée. F. Castagnoli
souligne cependant qu'une telle identification est d'autant plus
plausible qu'Auguste, comme en témoignent les Res Gestae, avait restauré le
temple de la Vèlia; l'anachronisme qui consiste à faire sacrifier Enée
devant ce temple n'est pas gênant, note-t-il, étant donné que l'artiste n'a
manifestement aucune préoccupation historique.
Cette hypothèse nous paraît toutefois devoir soulever des
objections. La première est qu'il est tout de même plus plausible que la
scène se passe à Lavinium, et nous avons donné précédemment152 des
arguments à l'appui de cette suggestion. D'autre part, l'édifice qui a été
sculpté sur le relief de l'Ara Pacis ne correspond guère à ce que Denys,
à peu près à l'époque où est exécuté le monument, nous dit du
sanctuaire de la Vèlia. Malgré l'altération du relief sur tout le côté gauche,
l'édifice semble construit, non sur le flanc d'une colline, comme Denys
nous le laisse entendre du temple des Pénates, mais à son sommet,
raison qui, entre autres, nous avait fait penser qu'il fallait sans doute
situer la scène à Lavinium. De plus, contrairement à ce que dit F.
Castagnoli, l'accès à ce petit sanctuaire ne se fait pas, comme pour un
temple ordinaire, par une série de marches taillées dans le podium; en
l'état du relief, on voit simplement une marche, qui est plutôt du reste
une sorte d'encadrement faisant le tour de la façade ouverte de
l'édifice. Il nous semble, en tout cas, qu'on est fort loin de l'image que l'on
peut se faire des Scalae deum Penatium que, selon Donat, mentionnait
Varron; d'autre part, le petit édifice de l'Ara Pacis n'a pas l'air d'être
dans l'ombre, ni encaissé, comme le laisse entendre Denys du temple de
la Vèlia. Enfin, il y a une grande différence de style architectural entre
l'autel qui figure au centre de la scène et le petit édifice : le premier est

150 // tempio dei Penati e ία Velia, p. 164-165.


151 Supra p. 209-216; 224-5.
152 Ibid.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 419

en pierres sèches, d'une construction assez sommaire, alors que le


second présente au contraire une architecture élaborée, avec un mur
latéral en blocs régulièrement taillés, des colonnes à chapiteaux
corinthiens, un fronton décoré en son centre d'une phiale et orné de deux
acrotères en forme de palmettes. Ces détails invitent à voir une
opposition entre le caractère hâtif et improvisé, provisoire, de la construction
de l'autel, et l'aspect soigné de celle du petit temple qui nous a fait
plutôt penser à un sacellum apporté de Troie par Enée153. Rappelons
brièvement les détails qui appuient cette hypothèse : l'absence de
colonnade tout autour du temple, la petite taille de l'édifice par rapport au
reste de la scène. Par conséquent, même si l'on admet que l'ensemble du
tableau n'a pas un caractère historique, il semble difficile de voir dans
le petit édifice de Y Ara Pacis une figuration du temple de la Vèlia154. Il
faut donc, sans doute, nous résigner à l'idée que nous ne connaissons ni
l'emplacement exact, ni l'aspect précis de ce temple, détruit très
probablement lors du plus grand bouleversement qu'ait connu la colline où il
s'élevait, au cours de la construction de la Basilique de Maxence.

III - Les statues des Pénates

Sur la représentation des Pénates publics dans le sanctuaire de la


Vèlia, nous possédons trois témoignages : l'un, littéraire, est la
description qu'en donne Denys d'Halicarnasse; les deux autres sont
iconographiques : ce sont d'une part le relief du sacrifice d'Enée de l'Ara Pacis,
d'autre part, des monnaies frappées par Maxence; mais nous verrons
que l'identification des Pénates de la Vèlia sur ces deux derniers
documents n'est pas certaine, et la représentation qu'ils en offrent devra
faire l'objet d'une confrontation serrée avec le texte de Denys.

1) Le témoignage de Denys d'Halicarnasse

Nous devons à Denys d'Halicarnasse une description détaillée des


statues des Pénates qui se trouvaient dans le sanctuaire de la Vèlia; elle
fait suite à celle du monument lui-même : έν δε τούτω κείνται των

153 Voir ci-dessus, p. 212-4.


154 Cette identification a été, en dernier lieu, affirmée par R. Schilling (Penatibus et
Magnis Dis, Mise. E. Manni VI, Rome, 1980, p. 1972).
420 LES PÉNATES PUBLICS

Τρωικών θεών εικόνες, ας άπασιν όραν θέμις, έπιγραφήν εχουσαι δηλοϋ-


σαν τους Πενάτας · είσί δε νεανίαι δύο καθήμενοι δόρατα διειληφότες,
της παλαιάς έργα τέχνης · πολλά δε και άλλα εν ίεροϊς άρχαίοις είδωλα
τών θεών τούτων έθεασάμεθα, και έν άπασι νεανίσκοι δύο στρατιωτικά
σχήματα έχοντες φαίνονται · όραν μεν δε ταύτα εξεστιν, ακούει ν δε και
γράφειν υπέρ αυτών155. Nous citons ici le texte établi par E. Cary156;
mais, à la suite de la mention de l'inscription désignant les statues
comme celles des Pénates, les manuscrits indiquent ; δοκοΰσι γαρ μοι του θ
μήπω γράμματος εύρημένου τω S δηλουν την εκείνου δύναμιν οί πα-
λαίοι157; cette remarque s'intègre particulièrement mal dans le texte des
manuscrits; aussi un commentateur allemand du XIXe siècle, J. J.
Ambrosch158, a-t-il supposé qu'elle était le fait d'un scribe ancien, et qu'elle
s'appliquait à l'inscription et au membre de phrase précédent, ας
άπασιν όραν θέμις; pour ce dernier mot, l'un des manuscrits donne la leçon
δέμας. Ambrosch propose donc l'hypothèse suivante : originellement le
texte de Denys était εικόνες άπασιν όράν, ΔΙΣ ΜΑΓΝΙΣ έπιγραφήν
εχουσαι, δηλουσαν τους Πενάτας; la transcription des mots latins ΔΙΣ
ΜΑΓΝΙΣ, mal compris, aurait été altérée en ΔΕΜΑΣ et ΔΕΜΙΣ, et cette
seconde altération aurait été rapprochée de θέμις, ou prise pour une
variante de ce mot, ce qui permettrait d'expliquer la remarque du
scribe; et il est en effet assez difficile autrement de comprendre à quel mot
elle s'applique; plus tard enfin, on aurait transcrit θέμις et ajouté le
relatif ας que ce dernier mot nécessitait. Mais Ambrosch admet lui-
même que ce serait alors l'unique cas où Denys aurait cité le texte latin
d'une inscription, au lieu, comme il le fait habituellement, de la
traduire en grec. Cette hypothèse repose sur deux éléments : d'une part,
l'accusatif τους Πενάτας a très peu de chances d'être le texte même de
l'inscription, mais se justifie par la présence de δηλουσαν; d'autre part,
la reconstitution proposée par Ambrosch pour le texte de l'inscription

155 I, 68, 1-2: «dans ce temple se trouvent des images des dieux de Troie qu'il est
permis à tous de voir, portant une inscription qui les désigne comme les Pénates : ce sont
deux jeunes gens assis, tenant des lances, ouvrages d'une facture ancienne ; nous avons
vu beaucoup d'autres images de ces dieux dans des sanctuaires anciens, et dans tous, ils
sont représentés comme deux jeunes gens en tenue militaire; il est permis de les voir,
d'en entendre parler et d'écrire à leur sujet».
"' Op. cit., p. 222, et p. 222-223, n. 6.
157 «II me semble en effet que la lettre θ n'ayant pas été inventée, les anciens
rendaient sa valeur par le δ».
158 Commentaire aux Antiquités Romaines, Breslau, 1840-46, I, p. 236.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 421

s'appuie très probablement sur un texte de Varron cité par Servius :


Varrò quidem unum esse dicit Penates et Magnos Deos; nam et in basi
scribebatur Magnis Dis 159. Aucune précision n'est donnée par Varron ni
par Servius sur l'identité de la statue sur le socle de laquelle seraient
écrits les mots Magnis Dis, mais les commentateurs s'accordent
généralement à penser qu'il s'agit des statues du temple de la Vèlia160, en
admettant, d'une part, que, comme nous le notions, Denys ne donne
pas le texte exact ni complet de l'inscription, non plus que Varron, si
l'on s'en tient du moins aux termes de la citation de Servius; c'est en
éclairant les deux textes l'un par l'autre, avec l'appui d'autres
témoignages littéraires et iconographiques que nous étudierons plus loin, que
l'on peut tenter de reconstituer le texte de l'inscription et identifier la
statue à laquelle Varron fait allusion. D'autre part, ce texte opposerait
à la tradition lavinate des Pénates que Dénys, citant Timée et se
référant à sa propre expérience, vient de rappeler, une conception
dif érente de ces dieux: tandis que les Pénates «troyens» de Lavinium se
présentaient comme «de la poterie troyenne et des caducées de fer et de
bronze», qu'il était interdit aux profanes de voir et dont on ne devait
pas non plus parler, les Pénates honorés à Rome sur la Vèlia, selon
Denys, étaient visibles par tous; il insiste à deux reprises sur cette
caractéristique de leur culte, encadrant en quelque sorte par cette
remarque la description qu'il donne des images des dieux; d'autre part
les Pénates y sont représentés sous la forme anthropomorphique de
deux jeunes gens. De façon assez surprenante, Denys reconnaît les deux
statues de la Vèlia comme des images des dieux «troyens», ce qui est
apparemment en contradiction avec le fait que les mêmes Pénates
troyens sont conservés à Lavinium sous la forme de poterie et de
caducées. Il existe donc bien, si l'on s'en rapporte au témoignage de Denys,
une double tradition concernant les sacra troyens> et même, plus
précisément, les Pénates troyens. Denys, qui semble avoir vu
personnellement les statues de la Vèlia, les présente comme des œuvres «d'une
facture ancienne» (της παλαιάς τέχνης), et ce type iconographique des
Pénates, nous dit l'historien, se retrouve dans d'autres sanctuaires an-

159 AdAen. III, 12.


160 Notamment S. Weinstock, s.u. Penates, in R.E. XIX, 1, col. 449; R. Β. Lloyd,
Penatibus et Magnis Dis, AJPh, 77, 1956, p. 41 ; C. Peyre, Castor et Pollux et les Pénates pendant
la période républicaine. MEFR, 74, 1962, p. 452; R.Schilling, Penatibus et Magnis Dis,
p. 1963-1978.
422 LES PÉNATES PUBLICS

ciens (έν ίεροΐς άρχαίοις), en de nombreux exemplaires (πολλά είδωλα).


Malheureusement, les indications de Denys nous permettent seulement
de savoir que ces statues lui apparaissaient comme nettement
antérieures au Ier siècle avant J.-C, mais en aucune facon d'en préciser la
datation; il aurait été intéressant, en particulier, de pouvoir les situer
chronologiquement par rapport aux «Pénates troyens» que, selon Denys,
Timée a vus à Lavinium.
Le type iconographique que nous décrit Denys donne aux dieux
ainsi représentés un caractère militaire, ou guerrier : sur la Vèlia, nous
dit-il, ils tiennent des «lances» (δόρατα διειληφότες) ; dans les autres
temples, ils portent un vêtement militaire (στρατιωτικά σχήματα
έχοντες). Cet aspect guerrier nous semble former une curieuse
contradiction avec ce qui est dit par ailleurs de leur attitude : ils sont assis
(καθήμενοι), position suggérant le repos et la paix, que l'on ne voit
généralement pas dans les représentations de divinités guerrières, ou
en tenue guerrière. Nous nous arrêterons donc sur ces caractéristiques
singulières des statues de la Vèlia, dont le texte de Denys est le seul
garant.
Nous avons vu161 que, dans le monde grec, le long bâton a des
significations symboliques diverses162: bâton du messager, bâton de
l'orateur, il est aussi le σκήπτρον, symbole du pouvoir royal, mais
E. Benveniste lui donne comme sens étymologique «le bâton sur lequel
on pèse et qui vous retient de tomber»163. Du reste, l'insigne de la
royauté n'était pas toujours désigné de ce terme. Pausanias164 raconte
l'histoire du sceptre d'Agamemnon, fabriqué par Zeus pour Héphaïstos,
selon Homère165, et passé ensuite aux mains de Pélops, d'Atrée, de
Thyeste, et enfin d'Agamemnon; ce sceptre est conservé et vénéré à
Chéronée, et désigné du terme de δόρυ : τούτο ούν το σκήπτρον σέβουσι
(= les habitants de Chéronée) Δόρυ όνομάζοντες166. Or, le mot δόρυ, qui
a fini par désigner en grec classique la lance de l'hoplite, signifie chez

161 Cf. ci-dessus, p. 265 sq.


162 Cf. E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, II, Paris, 1969,
p. 29-33.
163 Op. cit., p. 32.
164 IX, 40, 11-12.
»« //. II, 101 sq.
166 Ibid. : «Ils vénèrent donc ce sceptre, qu'ils appellent Δόρυ».
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 423

Homère «tronc d'arbre», «bois», et «bois d'une pique»167; pourtant, il


nous paraît peu probable que Denys ait joué sur cette pluralité de sens;
il n'est guère douteux que l'historien a pris le mot dans le sens qu'il
avait très couramment de «lance».
Comment expliquer que Denys ait reconnu des «lances» aux mains
des dieux de la Vèlia, alors que les Pénates n'ont jamais eu de caractère
guerrier, à aucun moment de leur histoire168? Nous voyons deux
explications possibles, qui ne sont d'ailleurs pas exclusives l'une de l'autre.
Tout d'abord, Denys déclare que les Pénates de la Vèlia étaient «deux
jeunes gens assis tenant des lances», sans donner d'autre précision sur
leur costume; et il poursuit en affirmant que dans «beaucoup d'autres
sanctuaires anciens», les Pénates «sont représentés comme deux jeunes
gens en tenue militaire», ce qui est l'unique attestation de ce costume
pour les Pénates. Cette singularité nous semble explicable par une
confusion avec les Dioscures, partiellement identifiés avec les
Pénates 169 : Castor et Pollux, eux, sont très souvent représentés en tenue
guerrière, une lance à la main170; Denys a vu des statues des Dioscures
dans des sanctuaires autres que la Vèlia, et, à la lumière de
l'assimilation entre Dioscures et Pénates, il interprète comme des lances les
longs bâtons que les dieux de la Vèlia tiennent à la main : aussi les qua-
lifie-t-il de δόρατα, mais rien d'autre n'indique que nos dieux aient eu
un aspect guerrier; au contraire, comme nous l'avons déjà souligné, la
position assise paraît leur donner un caractère pacifique.
D'autre part, si Denys déclare avoir vu personnellement ces
statues, puisque, dit-il, cela était permis à tous171, il est possible aussi qu'il
ait recueilli à Rome des témoignages à leur sujet; mais le mot par
lequel les Romains désignaient le long bâton nous reste inconnu. Il
n'est pas interdit de supposer que les informateurs de Denys ont pu
employer le mot hasta, dont nous avons vu172 que la signification de
«lance» n'était que l'un des sens, à côté de celui de «bâton», attribut du

167 P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, I, Paris, 1968, s.u.


δόρυ. Notons toutefois que l'indication d'Homère, selon laquelle le sceptre d'Agamemnon
avait été fabriqué par Héphaïstos, suggère plutôt un objet métallique.
168 Cf. N. Masquelier, Pénates et Dioscures, Latomus, 25, 1966, p. 93.
169 Voir ci-dessous p. 430-9.
170 Cf. l'iconographie des Dioscures sur les monnaies, donnée par C. Peyre, op. cit.
171 I, 67, 2 : ας απασιν όραν θέμις.
172 Cf. supra p. 270-3.
424 LES PÉNATES PUBLICS

héraut ou du roi173. Toutefois, si Denys a entendu ce mot, dont le sens


le plus courant est celui de «lance», il n'est pas surprenant qu'il l'ait
traduit par δόρυ, sans avoir la moindre intention de jouer sur la
polysémie des deux mots. Ainsi pourrait-on rendre compte du mot employé
par l'historien dans sa description des dieux de la Vèlia, ce qui
permettrait d'éviter de leur assigner un aspect guerrier qui cadre bien mal
avec leurs fonctions habituelles.

2) Le sacrifice d'Enee sur l'Ara Pacis

Si l'on accepte notre interprétation du texte de Denys, il paraît


exister une grande parenté entre la description que fait l'historien des
dieux de la Vèlia, où les Pénates seraient dépourvus de caractère
guerrier, et le relief de l'Ara Pacis, parenté que plusieurs savants ont déjà
soulignée174. Historiquement, cette hypothèse est très plausible : le texte
et le relief sont contemporains entre eux, contemporains aussi de la
restauration du temple de la Vèlia par Auguste mentionnée dans les
Res Gestae 175. Sur le devant du petit temple qui figure en haut et à
gauche du relief, on voit en effet deux personnages dans lesquels on
reconnaît généralement les Pénates176; ils sont assis, probablement sur une
sorte de banc, caché, comme le bas de leurs jambes, par la grille
décorée de guirlandes au-dessus de laquelle ils apparaissent; telle est bien
en effet la position dans laquelle les décrit Denys. Ils sont vêtus d'un
costume drapé autour des jambes et sur les épaules, qui laisse à
découvert une grande partie du buste; cette draperie est particulièrement
bien modelée sur la statuette de droite.
Ce vêtement doit être interprété, nous semble-t-il, en fonction de
l'ensemble de la scène, en particulier de ceux des autres personnages :
en contraste avec le costume des deux camilli et du personnage très
mutilé de droite, le costume des Pénates rappelle beaucoup celui
d'Enée; l'effet de draperie autour de la taille et sur l'épaule est le
même. Peut-être faut-il y voir une intention, chez le sculpteur, de
marquer un décalage géographique et chronologique entre les deux grou-

173 Cf. A. Alföldi, Hasta - Summa Imperii, AJA, 63, 1959, p. 1-27.
174 F. Castagnoli, op. cit., p. 164-165 : «les images des Pénates (sur le relief de l'Ara
Pacis) sont identiques à celles que décrit Denys»; R. Schilling, op. cit., p. 1972.
175 Res Gestae, XIX.
176 Une autre identification a été proposée par Petersen. Cf. ci-dessus, p. 212.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 425

pes de personnages, dont les différents représentants alternent de la


gauche à la droite de la scène : en habillant Enée et les Pénates de
costumes grecs177, il aurait voulu les reculer dans un passé lointain, et
même mythique, par rapport au Ier siècle, dans lequel se situent en
revanche les détails réalistes comme la présence des camilli et les objets
cultuels qu'ils tiennent dans les mains; il a peut-être aussi voulu
souligner leur origine étrangère, lointaine; il paraît certain en tout cas qu'il
a voulu rappeler entre le héros troyen et les Pénates une certaine
parenté qui s'exprime, ici, par la ressemblance des costumes, et aussi
par le fait que, sous Yhimation, ils ont le buste nu, ce qui paraît
caractéristique de la représentation des divinités, et donnerait ainsi à Enée
une dimension surhumaine178. Or, si Denys ne nous donne aucun détail
précis concernant les vêtements des statues de la Vèlia, il affirme qu'il
a vu dans d'autres sanctuaires «beaucoup d'autres images de ces
dieux ... en tenue militaire». Faut-il en déduire que Denys laisse
entendre que, dans leur temple de Rome aussi, les Pénates portaient ce
type de vêtements? On aurait alors ici une contradiction entre les
témoignages littéraires et iconographiques, et il faut beaucoup plus
probablement considérer que cette notation ne s'applique pas aux
statues de la Vèlia, mais à d'autres statues, que Denys pense être aussi
celles des Pénates.
En revanche, les deux documents semblent concorder à propos
d'un autre attribut des Pénates de la Vèlia: ils tiennent des «lances»,
nous dit Denys, et le relief de l'Ara Pacts nous les montre tenant dans la
mains gauche un long bâton. Mais s'agit-il bien d'une lance, comme on
l'a très généralement admis, probablement sous l'influence du texte de
Denys? La statuette de droite est mutilée dans sa partie supérieure : la
tête et la partie de la «lance» qui est au-dessus de la main ont disparu.
Mais dans celle de gauche, qui est intacte, rien n'indique que le bâton
tenu par le dieu soit précisément une lance. Aussi convient-il de
s'interroger sur la nature de l'objet que les deux dieux tiennent à la main sur

177 Le costume d'Enée, à part le voile sacerdotal qui recouvre sa tête et sur lequel
nous nous sommes expliqué plus haut (cf. ci-dessus, p. 283-4) présente une ressemblance
frappante avec celui de certaines sculptures grecques classiques, par exemple celui du
personnage de droite d'une stèle funéraire du Musée des Beaux-Arts de Moscou (cf. Y.
Morisot, A propos de la représentation sculptée des vêtements dans l'art grec, REA, 75, 1974,
p. 117-132, pi. VII = H. Diepoler Die Attische Grabereliefs des 5 und 6 Jahr v. Chr., Berlin,
1931, pi. 31).
178 Cf. G. Moretti, Ara Augustae, Rome, 1948, p. 215.
426 LES PÉNATES PUBLICS

notre relief, comme sur l'indication de Denys, selon laquelle ils sont
représentés comme δόρατα διειληφότες. Il nous paraît en effet que l'on
s'est peut-être trop hâté d'interpréter dans un sens guerrier cet attribut,
et qu'il convient plutôt d'y voir un bâton de messager, comme dans les
δόρατα que Denys mentionne aux mains des dieux de la Vèlia.

3) Les monnaies de Maxence

Un autre témoignage iconographique nous fait penser que la


figuration des Pénates dans le temple de la Vèlia était bien celle de deux
jeunes gens assis tenant un long bâton. Nous avons mentionné plus
haut les monnaies, conservées à Paris au Cabinet des Médailles,
frappées par Maxence à la mémoire de son fils Romulus, et rappelé la très
intéressante interprétation du monument proposée par F. Coarelli : les
deux cellae absidiales qui flanquent le monument rond étaient destinées
à abriter les statues des Pénates, dont le temple sur les pentes de la
Vèlia aurait été démoli lors de la construction de la Basilique de
Maxence179. Nous avons vu qu'il y avait certaines variations dans
l'iconographie du monument, suivant les différents exemplaires des
monnaies; sur certaines, les niches latérales sont vides, sur d'autres, elles
contiennent des bases de statues, sur d'autres enfin, on voit une statue
dans chaque niche. Ces statuettes nous montrent deux personnages qui
semblent assis (on ne voit cependant pas leur siège), ou du moins
appuyés sur quelque chose, car ils ont une jambe assez largement
croisée par-dessus l'autre; ils tiennent à la main un long bâton qu'il n'est
pas possible d'identifier plus précisément; l'usure des monnaies et la
très petite taille de ces effigies ne permettent pas de voir comment ils
sont vêtus, mais ils semblent nus sur l'un des exemplaires; enfin, les
deux divinités sont représentées dans des attitudes parfaitement
symétriques : celle de gauche tient le bâton dans la main gauche et a la
jambe gauche croisée par-dessus la droite, celle de droite tient le bâton
dans la main droite et a la jambe droite croisée sur la gauche.
Il est clair, dès l'abord, que ces représentations offrent avec celles
de YAra Pacis, où l'on a voulu reconnaître les statues du Temple de la
Vèlia, d'assez notables différences. Ces deux petites effigies n'ont pas la
majesté grave, l'attitude un peu raide des statues du relief; elles n'en

179 Roma, p. 87-88; voir supra p. 414-5.


LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 427

ont pas non plus les vêtements qui rattachent les deux jeunes gens assis
côte à côte dans le petit temple à un monde lointain et surhumain;
contrairement à ces derniers, les figurines des monnaies de Maxence
sont montrées dissociées, et dans des positions non pas semblables,
mais symétriques. Au demeurant, ce dernier détail nous paraît
aisément explicable par des raisons relevant de la composition générale de
l'une et l'autre images. Sur les monnaies, les deux statuettes ne sont pas
côte à côte, mais encadrent, en quelque sorte, la partie centrale du
monument qui, par son volume, est la plus importante, et sert d'axe de
symétrie à l'image. Sur l'Ara Pacis, au contraire, les deux statues
constituent un groupe, et le choix qu'a fait le sculpteur de leur mettre leur
long bâton dans la main gauche s'explique par l'orientation du temple,
sur le devant duquel ils apparaissent, par rapport à l'ensemble de la
scène; en effet, l'édifice n'est pas représenté de face, mais de trois-
quarts, et ce n'est qu'en leur faisant tenir leur bâton dans la main
gauche que l'artiste pouvait éviter qu'une partie du corps des dieux fût
cachée par leur bras droit. La rareté des représentations figurées des
Pénates publics ne permet pas de faire une étude concluante sur ce
point, mais dans la figuration, souvent assez voisine, des Dioscures, les
dieux tiennent leur lance dans la même main ou non, et dans la main
droite ou gauche, suivant un critère qui semble être essentiellement
l'effet de composition de l'ensemble de la scène, ou du groupe qu'ils
constituent180. Il existe de grandes parentés entre les statuettes des
monnaies et celles de YAra Pacis : le fait que les dieux soient au nombre
de deux, qu'ils soient assis, qu'ils tiennent de longs bâtons.
Evidemment, nous ne pouvons affirmer avec certitude qu'il faut reconnaître
les statues des Pénates dans le temple de la Vèlia, ni sur le relief, ni sur
les monnaies commémoratives de Maxence. Cependant - et le fait nous
paraît mériter d'être fortement souligné -, les caractères communs aux
deux figurations sont précisément ceux que relève Denys dans sa
description des Pénates de la Vèlia : deux jeunes gens assis tenant de longs
bâtons dont nous avons essayé d'expliquer pourquoi Denys les avait
identifiés comme des lances.

180 Cf. F. Chapouthier, Les Dioscures au service d'une déesse, Paris, 1935, p. 22-96
(pour l'iconographie des Dioscures); cf. aussi l'ensemble des monnaies représentant les
Dioscures réunies par C. Peyre (op. cit.).
428 LES PÉNATES PUBLICS

4) Les attributs des Pénates «troyens» et leur signification

Dans sa description des statues cultuelles du sanctuaire de la Vèlia,


Denys précise qu'il s'agit des «images des dieux troyens», ce qui
implique une sorte de duplication des Pénates apportés par Enée, puisqu'ils
sont donc supposés se trouver à Lavinium et sur la Vèlia. Or, nous
croyons181 qu'il faut interpréter les «caducées de fer et de bronze» où
Timée, selon Denys d'Halicarnasse, voyait l'image, ou plutôt les
attributs des dieux troyens, comme des bâtons de messagers, insignes de
dieux itinérants. Ces attributs instaurent une profonde parenté entre les
Pénates de Lavinium et ceux de la Vèlia, parenté encore renforcée par
le fait qu'il s'agit d'une particularité propre à ces deux seuls cultes : les
Pénates n'ont cet insigne ni dans le culte privé, ni dans le sanctuaire de
Vesta sur le Forum.
Dès lors, l'interprétation du petit édifice figurant sur le relief de
YAra Pacis, et, surtout, des statuettes assises sur le devant de ce dernier
nous paraît plus facile. Nous avons déjà dit182 que la scène nous
paraissait se situer à Lavinium, et que nous voyions dans l'édifice une petite
chapelle portative. Qui sont les dieux assis sur le devant? Il nous
semble plausible que ce soient ceux de la Vèlia, mais on peut faire à cette
hypothèse deux objections : la première est que, la scène se déroulant à
Lavinium, le sculpteur n'avait pas de raison de représenter les Pénates
de la Vèlia; la seconde est d'ordre iconographique: les dieux sont
représentés sous forme de petites statuettes, à l'échelle de ce temple-
miniature, alors que les statuettes de la Vèlia devaient avoir au moins
la taille humaine. A ces deux objections, on peut répondre en
soulignant, une fois encore, l'absence de réalisme de la scène, qui rend peu
gênant de représenter des statues d'une taille plus petite que leur taille
véritable, et de montrer à Lavinium des statues conservées à Rome183.
La qualification de «troyens» que Denys donne aux dieux de la Vèlia ne
justifie-t-elle pas leur présence à Lavinium? Mieux, cette dernière n'est-

181 Supra p. 264 sq.


182 Supra p. 212 sq.
183 Cette amphibologie iconographique ne se trouverait d'ailleurs pas que sur l'Ara
Pacis. Nous avons déjà mentionné (supra p. 225-8) les monnaies d'Hadrien et d'Antonin
qui représentent Enée débarquant, avec son père sur ses épaules, dans une ville de
Lavinium déjà construite, et où le monument rond figurant à l'arrière-plan est peut-être le
sanctuaire de Vesta à Rome (cf. F. Castagnoli, Lavinium I, Rome, 1972, p. 78-79 fig. 80-82
et p. 113-114).
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 429

elle pas une façon de rappeler les origines troyano-lavinates de Rome?


A ces raisons idéologiques s'ajoute une justification historique que nous
avons rappelée plus haut : c'est au moment où est sculpté le relief
qu'Auguste fait restaurer le temple de la Vèlia. Enfin, nous pensons
que les représentations des Pénates «troyens» de Lavinium et de la
Vèlia étaient assez voisines, ou, au moins, que les divinités de Lavinium,
comme celles de Rome, possédaient comme attribut commun un long
bâton, insigne des messagers.
Ce caractère nous apparaît fondamental dans le rôle assigné aux
Pénates «troyens» du culte public. Dans la légende des origines troyen-
nes de Rome, les Pénates jouent un rôle essentiellement symbolique : ils
représentent la continuité entre Troie et Rome, dont l'instrument, dans
le domaine humain, est Enée. Mais eux-mêmes, malgré leur qualité de
dieux, sont finalement les intermédiaires d'une volonté supérieure qui a
voulu la renaissance de Troie et la grandeur de Rome, Jupiter ou le
Fatum. Cet aspect de la personnalité des Pénates est d'ailleurs confirmé
par leur rôle dans l'Enéide; lorsque Hector, mort, apparaît en songe à
Enée, il lui déclare :
Sacra suosque tibi commendai Troia penatis1*4;

La personnification de Troie symbolise ici cette volonté supérieure,


dont le transfert des Pénates est l'un des desseins. De même, après
l'installation d'Enée et des siens en Crète, par suite d'une erreur
d'interprétation de l'oracle de Délos, les Pénates, à leur tour, apparaissent à
Enée pendant son sommeil, pour lui révéler son erreur et sa véritable
destination, l'Italie; or, ils se présentent à Enée tout d'abord comme les
porte-parole d'Apollon, ou les véridiques interprètes de l'oracle :
Quod tibi delato Ortygiam dicturus Apollo est,
hic canit et tua nos en ultro ad limina mittit185.

Et leur discours se termine par une exhortation à gagner l'Ausonie


et à abandonner la Crète, ce en quoi ils se présentent cette fois comme
les messagers de Jupiter, ou révèlent ses intentions cachées :

184 II, 293 : «Troie te confie ses choses saintes et ses Pénates» (trad. J. Perret, C.U.F.,
Paris, 1977).
185 III, 154-155: «Ce qu'Apollon te dira si tu te rends à Ortygie il te l'annonce ici:
voici qu'il prend les devants et nous envoie sur ton seuil» (ibid.).
430 LES PÉNATES PUBLICS

Dictaea negat tibi Iuppiter arua 186.

On peut donc penser que cette mission d'intermédiaire entre les


divinités supérieures et les hommes - en l'occurrence Enée - dont sont
investis les Pénates, trouve son expression, sur le plan iconographique,
dans le long bâton qu'ils tiennent à la main, et qui signifierait que leur
présence résulte de la volonté d'une puissance souveraine dont ils sont
les messagers. L'attitude pleine de majesté qu'on leur voit sur le relief
de Y Ara Pacis est peut-être précisément le reflet de la gravité de la
mission dont ils sont investis, et l'expression de la toute-puissance de la
divinité qui les a envoyés.

IV - Dioscures et Pénates

Paradoxalement, c'est en partie à cause de ce type iconographique


que les commentateurs anciens, comme Denys d'Halicarnasse, mais
aussi des savants modernes ont cru pouvoir affirmer que les Pénates
du temple de la Vèlia et les Dioscures étaient confondus. Nous avons
montré plus haut187 que la découverte à Lavinium, près d'un des treize
autels, d'une inscription du VIe siècle dédiée à Castor et Pollux, avait
semblé apporter aux tenants de cette thèse un argument
sup lémentaire, dans la mesure surtout où l'on identifie le sanctuaire attenant aux
autels comme celui des Pénates.

1) La confusion des Pénates et des Dioscures

Parmi les critiques modernes, S. Weinstock188, le premier, a


proposé, avant même la découverte de la lame de bronze gravé de Lavinium,
de reconnaître, dans la description donnée par Denys des dieux de la
Vèlia, «les Dioscures, comme ils sont souvent représentés dans les
temples romains», hypothèse que le savant fonde donc tout d'abord sur des
raisons iconographiques : les dieux figurés sous la forme de deux
jeunes gens armés de lances sont Castor et Pollux. Il nous semble toutefois

186 III, 171 : «Jupiter te refuse les champs Dictéens» {ibid.).


187 Cf. supra p. 285 sq.
188 S.u. Penates, in R.E., XIX, 1 col. 449.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 43 1

que S. Weinstock ne prend pas assez en compte la position assise des


dieux dans ces statues, qui nous paraît pourtant, nous l'avons dit,
fondamentale pour leur interprétation. Or, dans la tradition
iconographique des Dioscures, il n'existe, à notre connaissance, aucun exemple où
ils soient figurés assis189. La tradition se rapportant à l'introduction de
leur culte à Rome190 les présente comme des divinités guerrières: au
cours de la guerre opposant les Romains aux Latins, Castor et Pollux, à
la suite de vœu du général romain Aulus Postumius de leur consacrer
un temple à Rome s'ils viennent au secours des Romains lors de la
bataille du lac Régule, ils apparaissent dans les rangs de la cavalerie
romaine sur leurs montures; quinze ans plus tard, un temple leur fut
consacré sur le Forum191. Dans les statues, comme sur les monnaies, les
Dioscures, en souvenir de cet épisode sans doute, sont représentés soit
à cheval, soit debout à côté de leurs chevaux, soit encore simplement
debout192, attitudes de dieux guerriers bien éloignées de celles des
Pénates. C. Peyre193 note à ce propos : «L'attitude des seconds (= les Pénates)
est toujours plus immobile, plus statique, que celle de Castor et Pollux,
debout, comme suspendus dans leur marche». Cette difficulté a été
relevée par N. Masquelier194 qui propose plusieurs explications pour la
résoudre : les lances mises aux mains des Pénates dans les statues de la
Vèlia pourraient avoir une signification apotropaïque qui consisterait à
faire «éloigner les esprits méchants» du foyer par les divinités chargées
de sa protection; ou bien la position assise des Dioscures-Pénates
exprimerait «la volonté de signifier dans leur rôle une stabilité nouvelle, un
élément de calme propre à leur fonction : sauvegarder l'Etat prospère».
Disons tout de suite que ces arguments nous paraissent l'un et l'autre
peu convaincants. De plus, entre les statues des Pénates sur la Vèlia
décrites par Denys et la représentation habituelle des Dioscures, il
existe une autre notable différence : les attributs caractéristiques de Castor
et Pollux les plus fréquents, qui même les symbolisent parfois, sont soit

189 Ph. L. Williams, Amykos and the Dioskouroi, AJA, 49, 1945, p. 330-347.
190 Cf. R. Bloch, L'origine du culte des Dioscures à Rome, RPh, 86, 19 60, p. 182-193;
id., Tempium Castoris, BSAF, 1980-81, p. 35-47.
191 Cicéron, De Nat. Deor. II, 2, 6; Liv., II, 20, 12; Denys d'Halicarnasse, V, 13.
192 M. Albert, Le culte des Dioscures en Italie, Paris, 1883, p. 18.
193 Op. cit., p. 456.
194 pénates et Dioscures, p. 93.
432 LES PÉNATES PUBLICS

l'étoile ou le pileus surmonté d'une étoile, soit l'amphore195; aucun n'est


mentionné dans la description de Denys.
Pourtant, il est certain qu'il y a eu, dans certains monnayages, une
confusion entre Dioscures et Pénates : sur une série de monnaies,
émises en 103 av. J.-C. environ, par M. Fonteius, on voit les têtes de deux
jeunes gens surmontées d'une étoile - attribut qui suffit à faire
reconnaître les Dioscures -, désignées par les lettres P.P., dont C. Peyre196,
après une étude approfondie, conclut avec beaucoup de vraisemblance
qu'elles signifient Penates Publici. Il est incontestable que ce
monnayage atteste l'identification des deux groupes de dieux. Encore faut-il
mesurer la portée de cette identification. Il est clair que, du point de
vue strictement iconographique, il existait entre les deux types de
représentations, aussi bien les images en pied que les têtes accolées qui
figurent sur les monnaies, des ressemblances certaines qui ont pu
faciliter la confusion. Entre la représentation traditionnelle des Dioscures
armés d'une lance, avec ou sans leurs chevaux, la monnaie émise en
106 av. J.-C. par Caius Sulpicius et représentant, au droit, les têtes
accolées des Pénates, au revers, deux hommes debout tenant des lances
dans la main gauche et désignant de la main droite une truie, couchée
entre eux197, et celle des Lares Praestites, représentés, sur la monnaie
émise en 112 ou 111 av. J.-C. par L. Caesius198, comme deux hommes
assis face à face avec un chien entre eux, et tenant un bâton dans la
main gauche, il n'y a guère de différence pour un observateur peu
attentif. Cela ne signifie pas, selon nous, que Dioscures, Pénates, et
Lares soient confondus, moins encore qu'ils l'aient été dès l'origine,
comme l'a soutenu S. Weinstock pour les Dioscures et les Pénates. Si
l'on veut comprendre ces images, il faut les étudier, comme l'ont fait
C. Peyre199 et A. Alföldi200, replacées dans des séries dont elles
représentent une des variantes. On s'aperçoit alors que la «confusion» entre les
différents groupes de divinités n'est en fait qu'une ressemblance, non
pas fortuite, mais limitée dans l'espace et dans le temps.
La confusion qui a pu se produire à certains moments entre Dios-

195 R. Chapouthier, Les Dioscures au service d'une déesse, p. 113-114 et 315-316; C.


Peyre, op. cit., p. 443-444.
196 Op. cit., p. 447-450.
197 M. Crawford, Roman Republican Coinage, Cambridge, 1974, n° 312 (pi. XLI).
198 Ibid., n° 298 (pi. XL).
199 Op. cit., passim.
200 Hasta - Summa Imperii, passim.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 433

cures et Pénates ne se manifeste pas uniquement dans le domaine


iconographique. Comme l'a très bien montré C. Peyre, elle repose sur une
commune dénomination de Magni DU, et nous reprenons brièvement ici
sa démonstration, qui nous semble tout à fait convaincante201. A propos
d'une expression de Virgile, Penatibus et Magnis Dis202, Servius écrit :
Varrò quidem unum esse dicit Penates et Magnos Deos; nam et in basi
scribebatur MAGNIS DUS. Potest tarnen hoc pro honore dici; nam Dii
Magni sunt Iuppiter, Iuno, Minerva, Mercurius, qui Romae colebantur,
Penates uero apud Laurolauinium : unde apparet non esse unum. Ce
commentaire attribue donc à Varron l'opinion selon laquelle les
Pénates seraient les Grands Dieux, opinion confirmée par l'inscription
figurant sur la base de leurs statues, très probablement dans le temple de
la Vèlia, comme nous l'avons vu plus haut. Mais Servius objecte
(tarnen) que la désignation de Magni Dii peut être purement honorifique,
puisque les Grands Dieux sont Jupiter, Junon, Minerve et Mercure,
honorés à Rome alors que les Pénates l'étaient à Lavinium. Daniel a
fait, à cet endroit, l'interpolation suivante : id est Varrò et alii complures
Magnos Deos adfirmant simulacra duo uirilia, Castoris et Pollucis, in
Samothracia ante portam sita, quibus naufragio liberati uota soluebant.
Alii Deos Magnos caelum et terram putant ac per hoc Iouem et Iunonem.
Dii Penates a Samothracia sublati ab Aenea in Italiani aduecti sunt, unde
Samothraces cognati Romanorum esse dicuntur. Quos inter cetera ideo
magnos appellant quod . . ,203, et Daniel énumère différentes preuves de
la puissance des Pénates et de l'importance de leur culte, notamment à
Lavinium. C. Peyre souligne fortement l'importance de ces témoigna-

201 Op. cit., p. 452 sq.


202 Ad Aen. III, 12 (passage auquel se rapportent les commentaires cités ici; mais
aussi VIII, 679) : «Varron dit que les Pénates sont identiques aux Grands Dieux; en effet, sur
la base de leurs statues était écrit : « Aux Grands Dieux. Mais cette formule peut avoir une
valeur honorifique; car les Grands Dieux sont Jupiter, Junon, Minerve et Mercure, qui
étaient honorés à Rome alors que les Pénates l'étaient à Lavinium : d'où il ressort qu'ils
ne sont pas identiques»; voir supra p. 145-6; 149 sq.
203 Ibid., «C'est-à-dire que Varron et plusieurs autres affirment que les Grands Dieux
sont deux statues de jeunes gens, Castor et Pollux, placées à Samothrace devant une
porte, à qui ceux qui avaient échappé à un naufrage offraient des vœux. D'autres pensent
que les Grands Dieux sont le ciel et la terre, et donc Jupiter et Junon. Les dieux Pénates,
arrachés à Samothrace, furent apportés en Italie par Enée; c'est pourquoi on dit que les
Samothraciens sont parents des Romains. On les appelle 'Grands' entre autres parce
que ... ». On trouvera un commentaire de ces deux citations de Varron chez B. Cardauns,
M. Terentius Varrò, Antiquitates Rerum Divinarum, Wiesbaden, 1976, II, p. 220-22.
434 LES PÉNATES PUBLICS

ges, attestant «l'existence, dans l'opinion romaine, de deux traditions


concurrentes : selon l'une, les Pénates étaient les Grands Dieux, qui
étaient eux-mêmes les Dioscures; selon l'autre, le terme de Magni DU
n'était qu'une façon d'honorer les Pénates, justifiée par l'importance de
leur culte dans la religion romaine, mais qui n'impliquait aucune
identification avec les authentiques Grands Dieux. Varron aurait été l'un
des tenants de la première tradition; ceux de la seconde nous
demeurent inconnus»204. Très ingénieusement, C. Peyre a rapproché de cette
opinion, que Servius et Daniel attribuent à Varron, un autre texte de
Varron : Terra enim et caelum, ut (Sa) mothracum initia docent, sunt
Dei Magni, et hi quos dixi multis nominibus, non quas (S)amo(th)racia
ante portas statuii duas uirilis species aeneas Dei Magni, neque, ut uolgus
putat, hi Samothraces dii, qui Castor et Pollux, sed hi mas et femina et hi
quos Augurum Libri scriptos habent sic «diui potes» pro ilio quod
Samothrace θεοί δυνατοί»205. Ce texte, remarque C. Peyre, se trouve en
contradiction avec l'opinion que Servius et Daniel, nous venons de le
voir, attribuent à Varron. Ici, en effet, Varron fait état de deux
traditions concernant la définition des Grands Dieux : l'une, savante, attestée
par l'enseignement des mystères de Samothrace et les Livres des
Augures, voit dans les Grands Dieux deux divinités de sexe différent, Terre et
Ciel, l'autre, populaire, les identifie avec Castor et Pollux, originaires,
eux aussi, de Samothrace. Mais il n'est pas question d'une assimilation
des Pénates à l'un ou l'autre groupe de divinités, Grands Dieux - Ciel et
Terre, ou Grands Dieux - Dioscures. Toutefois, selon C. Peyre, on peut
penser que Varron attribuait à la même opinion populaire
l'identification des Pénates comme les Grands Dieux - Ciel et Terre, impossible
elle aussi, puisque les Pénates sont des divinités masculines, du moins
dans le culte public. Aussi conclut-il : «II semble que la confusion soit
venue des mots plutôt que des réalités religieuses elles-mêmes. Dans

204 Op. cit., p. 453.


205 De L.L. V, 58 : «Or le Ciel et la Terre, comme l'enseignent les mystères de
Samothrace, sont les Grands Dieux; je viens de les mentionner sous de nombreuses
appellations; mais ils ne s'identifient pas pour autant avec les Grands Dieux dont Samothrace a
placé les deux effigies masculines en bronze devant ses portes. Ils ne sauraient en effet se
confondre, malgré l'opinion populaire, avec les dieux de Samothrace en question qui, eux
s'identifient avec Castor et Pollux; or ceux dont je parle sont deux divinités, homme et
femme, ce sont celles que les Livres des Augures ont enregistrées sous la dénomination
diui qui potes pour rendre l'expression de Samothrace θεοί δυνατοί (= les Dieux
Puissants)» (trad. J. Collari, Paris, 1954).
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 435

une perspective savante, théologique dirait-on, les termes de Magni DU,


appliqués aux Pénates, ne pouvaient se rapporter qu'à leurs fonctions
de toute particulière importance dans le culte romain, mais ne
signifiaient pas qu'ils s'identifiaient aux dieux homonymes de Samothrace.
Distinction peut-être trop subtile pour les croyances populaires et pour
de nombreux auteurs »... 206.
Nous voyons ainsi souligné, très justement nous semble-t-il, le rôle
essentiel qu'a dû jouer la dénomination commune de Magni DU dans
l'assimilation des Dioscures et des Pénates; cette dénomination, tous les
Romains pouvaient la voir sur la base des statues de la Vèlia, dans
l'inscription à propos de laquelle R. B. Lloyd207 fait une intéressante
remarque, en notant que l'inscription mentionnée par Varron chez Servius,
Magnis Dis, n'est sans doute pas le texte entier de cette dernière, non
plus que l'indication de Denys, selon qui les dieux sont désignés comme
les Pénates. Mais les deux indications, de Varron et de Denys,
apparaissent complémentaires à R. B. Lloyd; si on les combine, on arrive à un
texte si proche de celui de Virgile que l'on peut, selon lui, considérer
comme plausible que l'expression employée par le poète soit une
reproduction pure et simple du texte de l'inscription, d'autant que la
restauration par Auguste du Temple de la Vèlia avait pu attirer l'attention sur
le sanctuaire et les statues qui y étaient conservées. Toutefois, cette
hypothèse ne nous paraît pas totalement convaincante; on pourrait
penser également que le texte de l'inscription était Penatibus Magnis
Dis, texte qui pouvait, lui aussi, se prêter à la confusion entre Pénates et
Grands Dieux, mais permettrait de mieux comprendre la remarque de
Servius, selon qui l'expression Magnis Dis pourrait être simplement un
titre honorifique.
Toutefois, quelle qu'ait pu être l'importance des mots Magni DU
pour la confusion entre Pénates et Dioscures, il nous semble qu'elle a
reposé aussi sur la tradition des origines samothraciennes des deux
groupes de dieux et sur les relations qu'ils entretiennent avec la
légende d'Enée, tous points sur lesquels, dans un récent article, R.
Schilling208 a justement attiré l'attention. Etudiant de près les indications
fournies par Denys d'Halicarnasse209, R. Schilling note que l'historien

206 Op. cit., p. 454.


207 Penatibus et Magnis Dis, p. 41-42.
208 Penatibus et Magnis Dis, p. 1963-1978.
209 I, 68 et 69; II, 66, I.
436 LES PÉNATES PUBLICS

distingue des autres sacra emportés par Enée en Italie les μεγάλοι θεοί,
culte apporté en dot par Chrysè à Dardanus, qui l'établit à Samothrace,
où l'on en célèbre encore les mystères, puis en Asie, dans les deux cités
fondées par Dardanus, Dardania et Troie; à la chute de Troie, les
μεγάλοι θεοί furent emportés par Enée en Italie, et constituent une partie
des objets sacrés, interdits à la vue des profanes, conservés dans le
sanctuaire de Vesta. Enée, dit Denys, a emporté en Italie d'autres sacra
interdits aux profanes, que R. Schilling croit pouvoir identifier avec les
Pénates, ou πατρφοι θεοί, bien distincts, donc, des μεγάλοι θεοί; or,
constate-t-il, à Rome, les faits sont compliqués par l'assimilation des
Dioscures aux Grands Dieux; les dieux de la Vèlia, décrits par Denys et
figurés sur le relief de l'Ara Pacts, sont en fait «une représentation des
Dioscures qui, par suite d'un anachronisme propre à la restauration
d'Auguste, n'ont de Pénates que le nom»210. Nous sommes donc en
présence d'un «enchaînement des assimilations» Pénates - Grands Dieux -
Dioscures. «Ce confusionnisme», poursuit R. Schilling, «serait
décourageant s'il n'apparaissait comme un phénomène largement artificiel,
entretenu sinon créé par les glossateurs . . . Tout se -passe comme si
l'expression grecque μεγάλοι θεοί, qui avait chez Denys d'Halicarnasse
une signification claire avec sa référence d'origine à Samothrace, avait
perdu dans la traduction latine sa spécificité et s'était prêtée aux
spéculations les plus fantaisistes». En fait, conclut R. Schilling, dans la
pratique cultuelle, les Romains n'ont jamais pu confondre les Pénates avec
les Castores honorés dans leur temple du Forum, non plus qu'avec les
dieux de la Vèlia, les μεγάλοι θεοί qu'Enée avait apportés de Troie. On
notera combien les conclusions de cette étude sont opposées à celles de
C. Peyre, à la fois pour l'identification des statuettes de la Vèlia et pour
la portée donnée à la confusion Pénates-Dioscures, savante pour
R. Schilling, populaire pour C. Peyre.
Au demeurant, il nous apparaît que la confusion entre Pénates et
Dioscures, à cause d'une commune origine samothracienne, est en fait
le résultat de l'assimilation des deux groupes de divinités aux Cabires
de Samothrace - les grands Dieux211 -, dont les raisons essentielles sont
les suivantes : les Cabires, qui passaient pour avoir à Samothrace un

210 Ibid., p. 1972.


211 Cette confusion apparaît dans le passage de Varron cité plus haut {De L.L. V,
58).
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 437

culte à mystères212, furent transportés par Dardanus à Troie, puis par


Enée en Italie : on les confondit donc avec les Pénates. Les Dioscures
furent eux aussi confondus avec les Cabires, essentiellement à cause de
leur commune fonction de protecteurs des navigateurs213.

2) Les limites de cette confusion

II nous semble cependant que cette confusion des Pénates et des


Dioscures est relativement tardive - du moins est-elle attestée pour la
première fois à la fin du IIe siècle av. J.-C. sur les monnaies de M. Fon-
teius -, et limitée; nous avons vu quels motifs pouvaient l'expliquer:
traits iconographiques communs, commune dénomination de Magni
DU. Mais l'élaboration de la légende des origines troyennes et du
transfert des Pénates par Enée, qui en est le principal acteur, a dû jouer un
rôle essentiel dans cette confusion, flottement plutôt qu'assimilation
véritable, croyons-nous. En effet, on a, d'une part, les Grands Dieux de
Samothrace, dont la légende rapporte à Enée l'introduction en Italie, et
que certaines traditions, populaires selon Varron, identifiaient aux
Dioscures; et, d'autre part, les Pénates, eux aussi apportés par Enée de
Troie en Italie, et nommés, peut-être indépendamment de toute
assimilation aux dieux de Samothrace, Magni DU. Il faut avouer que, dans ces
conditions, les distinctions faites par Denys entre différentes sortes de
sacra paraissent assez artificielles et fragiles; toute une tradition a sans
doute eu tendance à ne pas faire de différence entre les sacra apportés
par Enée. Au reste, selon nous, la distinction des Pénates parmi ces
derniers n'est probablement pas une donnée primitive de la légende de la
venue d'Enée au Latium, mais la conséquence de l'établissement de la
légende des origines troyennes214. Si, comme nous le pensons, les
Pénates sont des dieux locaux, spécifiquement latins, protecteurs de la
réserve aux provisions et du bien-être domestique, il n'y a aucune raison de
penser qu'ils aient pu être assimilés, dès les origines, aux Dioscures
grecs, divinités guerrières. Ces dieux locaux, nous l'avons vu pour Lavi-
nium, ont été insérés dans la légende de la venue d'Enée au Latium215

212 Cf. Kern, s.u. Kabeiros und Kabeiroi, in R.E., X, 2, col. 1424.
213 Ibid., col. 1430; cf. aussi le texte de Varron cité par Servius (Ad Aen. III, 12) que
nous avons rappelé ci-dessus; et B. Hemberg, Die Kabiren, Uppsala 1950, passim.
214 Voir ci-dessus p. 316-7.
215 Cf. F. Castagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, StudRom, 30, 1982, p. 10.
438 LES PÉNATES PUBLICS

qui les a du même coup ennoblis : ils ont été considérés comme une
partie de l'héritage sacré apporté par Enée de Troie, héritage assez
vague d'abord, désigné du nom de ίερά, chez Stésichore par exemple.
Ces sacra associés au voyage du héros troyen étaient suffisamment
imprécis pour prendre place dans d'autres légendes, qui se sont
combinées à celles des errances des fugitifs. C'est ainsi par exemple que les
sacra ont connu des spécifications diverses selon les légendes
auxquelles ils ont été associés : Grands Dieux de Samothrace, Pénates,
Palladium. De là viennent les flottements et les confusions des traditions les
concernant, traditions que Varron, Denys, Servius et son interpolateur
Daniel, semblent avoir tenté d'unifier et de rationaliser216. Aussi
l'assimilation des Pénates aux Dioscures nous paraît-elle un effet secondaire
de la légende troyenne, conséquence du lien établi entre Enée et les
Grands Dieux-Dioscures d'un côté, Enée et les Pénates, de l'autre. Elle
ne peut donc pas être antérieure au IVe siècle av. J.-C.
D'autre part, nous croyons aussi qu'elle est limitée dans la
conscience religieuse des Romains. C. Peyre, comme R. Schilling,
soulignent qu'il était difficile à un habitant de Rome de confondre deux
groupes de divinités dont les temples, sur le Forum même, étaient si
clairement distingués. Certes, C. Peyre a bien montré217 par le
rapprochement de deux textes de Cicéron, invoquant sur Rome, l'un la
protection des Pénates, l'autre celle des Dioscures, combien ils étaient
proches dans leur rôle de divinités tutélaires. Il n'en reste pas moins
que des compétences partiellement communes ne sauraient suffire à
établir une confusion entre dieux que séparent leur origine, leur
histoire et l'ensemble de leur sphère d'action. De plus, C. Peyre a sans
doute raison de remarquer que ce rapprochement, attesté de façon
très limitée dans le domaine iconographique, a été rendu possible par
la modification proprement romaine de la personnalité des
Dioscures218, qui, de dieux guerriers, sont devenus simplement des
protecteurs de la ville, rôle qui les rapprochait évidemment des Pénates, en

216 R. Schilling {op. cit., p. 1973) ajustement souligné que ces tentatives apparaissent
bien souvent comme des spéculations d'érudits.
217 Op. cit., p. 460.
218 R. Schilling {Les Castores romains à la lumière des traditions indo-européennes,
Hommages à G. Dumézil, Coll. Latomus, 45, 1960, p. 186 sq.) a montré comment, dans
cette transformation proprement romaine des Dioscures de divinités guerrières en
divinités pacifiques, Castor avait éclipsé son frère au point que le couple des jumeaux était
appelé Castores.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 439

qui il faut certainement voir, comme le dit C. Peyre, les divinités «assi-
milatrices». Cette confusion a, croyons-nous, été faite par Denys dans
la description qu'il nous a laissée des dieux de la Vèlia, et elle lui a
fait identifier le long bâton qu'ils tiennent à la main comme une lance.
Quant aux autres sanctuaires «anciens» où Denys prétend avoir vu les
Pénates figurés comme deux jeunes gens en costume militaire, nous
pensons qu'il s'agissait en réalité de temples des Dioscures, puisque
l'historien ne fait apparemment pas la distinction entre les deux
groupes de divinités.

V - Histoire du culte de la Vèlia

Concernant l'organisation du culte des Pénates sur la Vèlia, aucun


texte ne nous fournit le moindre renseignement. Le relief de YAra Pacis
offre très probablement une représentation de nos dieux dans le petit
temple figuré à gauche, mais on ne peut rien en conclure sur les
sacrifices faits aux dieux de la Vèlia. Nous avons déjà souligné le caractère
délibérément non réaliste de la scène; si les dieux sont représentés ici
sous la forme qu'ils revêtent dans leur temple de la Vèlia, le relief ne
les montre pas installés dans ce temple; nous avons cru pouvoir
montrer219 que le petit édifice était un sacellum portatif, sur le devant
duquel étaient placées les statues, ce qui n'est possible que dans des
circonstances exceptionnelles220 dont témoignent les guirlandes qui
décorent l'édifice. Enfin, il n'est pas certain que l'animal - porc ou truie -
qu'Enée s'apprête à sacrifier avec l'aide des camilli soit destiné
précisément aux dieux qui contemplent la scène depuis le devant de leur petit
temple : il est possible que, comme chez Virgile, la destinataire soit
Junon, et que les dieux de Troie soient seulement les témoins solennels
du sacrifice qui marque religieusement l'installation d'Enée en terre
italienne221.

219 Voir supra p. 212-3.


220 G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, p. 56 sq.
221 Voir supra p. 214-5.
440 LES PÉNATES PUBLICS

1) L'histoire du temple

Nous sommes un peu moins ignorants sur l'histoire du temple


puisque nous disposons là de quelques points de repère. Tite-Live,
mentionnant une série de prodiges survenus en 167 av. J.-C, écrit : Aedes
Penatium in Velia de caelo tacta erat222, preuve que l'édifice date au
moins du milieu du IIe siècle. D'autre part, Auguste note dans les Res
Gestae223 : Aedem Larum in summa Sacra Via, aedem deum Penatium in
Velia . . . feci. On a parfois voulu tirer argument de l'emploi du verbe
feci pour dire qu'Auguste avait entièrement reconstruit un temple en
ruines. Cela nous semble assez peu probable, car peu conforme aux
indications de Denys d'Halicarnasse : νεώς έν 'Ρώμη δείκνυται . . . ύπε-
ροχχί σκοτεινός ιδρυμένος ού μέγας224. De ce passage, F. Castagnoli225
croit pouvoir tirer la conclusion suivante : le temple était petit et assez
oublié; le verbe δείκνυται prouve, dit-il, que «le temple ne s'imposait
pas par sa célébrité et qu'il était nécessaire d'attirer spécialement
l'attention sur lui». Il paraît vraisemblable que Denys a vu ce temple avant
sa restauration par Auguste, car, sinon, il ne le présenterait pas comme
un sanctuaire peu renommé; Auguste a donc dû faire procéder à une
restauration, non à une reconstruction complète. Après l'indication des
Res Gestae, nous ne savons plus rien de l'histoire du temple, sauf si
nous acceptons les hypothèses de F. Coarelli rappelées plus haut : au
IVe siècle, au moment où Maxence décide la construction de l'énorme
Basilique qui occupe la majeure partie de la colline, il fait démolir le
Temple des Pénates qui se trouvait sur une des pentes de la Vèlia, et
fait transférer les statues des dieux dans deux cellae absidiales qui
flanquent un bâtiment en rotonde, Hérôon de Romulus, ou plutôt, selon
F. Coarelli, Temple de Jupiter Stator. Ces deux cellae après la
disparition des statues, à l'occasion sans doute d'un des nombreux
remaniements postérieurs de l'édifice, sont encore visibles aujourd'hui.
On le voit, ces quelques repères chronologiques constituent, en
définitive, un dossier bien mince, à la fois à cause du petit nombre des
mentions du temple, et du laconisme avec lequel en ont parlé les
écrivains qui le citent. Bien que G. Lugli226 affirme que sa fondation est

222 XLV, 5.
223 XIX.
224 I, 68, 1 ; cf. supra, p. 400-2.
225 Op. cit., p. 158-159.
226 Roma. Il centro monumentale, p. 226.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 441

sûrement plus ancienne que la moitié du IIe siècle av. J.-C, nous ne
possédons pas le moindre document qui permette de connaître avec
certitude tout ou partie de son histoire, et, en particulier, l'origine du
culte reste mystérieuse. Aussi allons-nous tenter de reconstituer cette
histoire en mettant en relation les différentes traditions ayant trait à la
Vèlia et aux Pénates.

2) La Vèlia dans l'histoire des origines de Rome

Nous avons déjà vu qu'il existait une tradition qui plaçait sur la
Vèlia la maison de Tullus Hostilius; elle est attestée chez Solin : Tullus
Hostilius in Velia, ubi postea deum Penatium aedes facta est221; Nonius
la mentionne aussi, en l'attribuant à Varron : Tullum Hostilium in
Veliis, ubi nunc est aedis deum Penatium22*. La grande ressemblance
des deux formulations fait penser qu'il s'agit dans les deux cas d'une
citation de Varron229. Mais d'autres faits témoignent d'un lien entre
Tullus Hostilius et la Vèlia. Comme le montre clairement le récit de
Tite-Live, l'événement essentiel du règne du roi est la guerre contre
Albe, avec ses diverses péripéties, et, pour finir, la destruction de la
cité; l'épisode des Horaces et des Curiaces, le plus frappant sans doute
dans le déroulement des hostilités, se clôt, après le meurtre de sa sœur
par Horace triomphant, sur le châtiment infligé au jeune guerrier par
son propre père au nom de toute la cité : transmisso per uiam tigillo,
capite adoperto uelut sub iugum misit iuuenem. Id hodie quoque publiée
semper refectum manet : sororium tigillum uocant230. Or, le Tigillum

227 I, 22.
228 531, 19.
229 II existe une variante au moins à cette tradition, transmise par Tite-Live, selon
qui, après la destruction d'Albe et l'agrandissement de Rome consécutif à l'arrivée des
Albains, Tullus Hostilius aurait désormais habité sur le Caelius, dès lors rattaché à la
ville ; aucune indication n'est donnée sur sa première résidence : Caelius additur urbi
mons et, quo frequentius habitaretur, earn sedem Tullus regiae capit ibique habitauit (I, 30,
1).
230 I, 26, 13 : «Le père plaça une poutre en travers de la rue et fit passer son fils la
tête voilée sous cette sorte de joug. Cette poutre existe encore et est toujours restaurée
par l'Etat. On l'appelle «la Poutre de la Sœur» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1958). Selon
G. Dumézil (Heur et malheur du guerrier, 2è éd. Paris, 1985, p. 37), ce rite du passage sous
la poutre, ou sous le joug, « rappelle des moyens connus de désacralisation, de transfert
d'un monde à l'autre, du retour du surnaturel ou de l'exceptionnel à l'ordinaire et à
l'humain ».
442 LES PÉNATES PUBLICS

Sororium231 était voisin du Compitum Acilii et la découverte de ce


dernier a permis de le localiser en bordure de la Vèlia232.
F. Coarelli233 voit une preuve de l'association faite par les Romains
entre la Vèlia et Tullus Hostilius, et plus généralement les rois, dans
l'épisode de la tentative faite par Valerius Publicola pour faire bâtir sa
maison sur cette colline. La récente découverte d'une inscription datée
du VIe siècle sur une pierre de remploi du temple de Mater Matuta à
Satricum234, portant probablement la mention du nom de Valerius
Publicola, dont elle attesterait ainsi l'existence historique, renforce
évidemment cette hypothèse. F. Coarelli pense que l'épisode de la
construction de la maison de Valerius, l'un des premiers consuls de Rome,
sur la Vèlia, est sans doute une illustration du passage des rois aux
consuls, passage moins aisé que n'ont voulu le faire croire les
annalistes. La légende qui situe sur la Vèlia la maison de Tullus Hostilius se
rattache à toute une tradition, selon laquelle les rois auraient habité sur
les différentes collines qui entourent le Forum. Solin235 en offre un
résumé très clair : Tatius habitait sur YArx à l'emplacement du temple
de Iuno Moneta236, Numa d'abord sur le Quirinal, puis dans la Regia
proche du sanctuaire de Vesta, Servius Tullius et Tarquin le Superbe
sur l'Esquilin. Selon Varron, cité par Nonius237, Ancus Martius aurait
habité sur le Palatin, près de la Porta Mugonia, cette dernière indication
étant donnée aussi par Solin.
G. Lugli238 explique le choix de la Vèlia comme résidence de Tullus
Hostilius par le fait que, dans les premiers temps de Rome, cette colline
était très proche de la cité palatine, tout en étant à l'extérieur d'elle, et
qu'à ce titre, elle constituait un lieu de séjour privilégié pour les rois ou
les riches Romains qui voulaient une résidence à l'écart de l'agitation
citadine. En fait, il semble que cette tradition soit beaucoup plutôt un

231 Cf. F. Coarelli, Guida archeologica di Roma, p. 194.


232 Cf. E. Nash, op. cit., I p. 290-291 ; F. Castagnoli, Topografia di Roma antica, p. 76.
233 // Foro Romano I : Periodo arcaico, p. 79-82.
234 Lapis Satricanus : Archaelogical, epigraphical, linguistic and historical aspects of the
new inscription from Satricum, by C. M. Stibbe, G. Colonna, C. de Simone, H. S. Vesnel,
with an introduction by M. Pallottino, Archaelogische Studien van het Nederlands Instituut
te Rome, Scripta Minora V, 1980, (notamment p. 13-17; 95-150).
235 I, 21-26.
236 Voir H. Zehnacker, Moneta. Recherches sur l'organisation et l'art des émission
monétaires de la République romaine, B.E.F.A.R., 222, Rome, 1973, p. 52.
237 531, 19.
238 / templi dei Lari e dei Penati sulla «Velia», p. 407.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 443

moyen de rendre compte de l'extension progressive de Rome, ou de


l'intégration des différentes collines membres de l'ancien Septimontium
dans la cité239. F. Coarelli240 a très bien montré les bouleversements
survenus dans le développement de cette zone au VIIIe siècle. Vers le
milieu du siècle, date légendaire de la fondation de Rome, la nécropole
du Forum, utilisée depuis le XIe siècle, cesse brusquement de l'être241,
tandis que la cité palatine s'impose comme centre essentiel parmi tous
les montes avoisinants. Vers la fin du siècle, ou le début du VIIe, ce qui
correspond à la date traditionnelle du règne de Tullus Hostilius, la
Vèlia a été intégrée à la cité palatine, dans laquelle elle va jouer un rôle
considérable242. En l'état actuel de nos connaissances archéologiques, il
n'a pas été retrouvé sur la Vèlia de traces d'habitat aussi ancien que
sur le Palatin243. Cependant, nous avons déjà noté plus haut que
certains des cultes implantés sur la Vèlia étaient fort anciens, notamment
celui des Argées. Mais nous avons d'autres preuves de l'ancienneté de
la constitution de cette cité palatino-vélienne. En effet, pour localiser
Subure, Varron écrit : eidem regioni adtributa Sutura, quod sub muro
terreo Carinarum2*4. Les Carinae, nous l'avons vu, sont la zone de
passage entre la Vèlia et l'Esquilin; il y a\^ait donc là, selon Varron, un mur
de terre qui délimitait l'enceinte de la ville «ancienne», ensemble formé
par la Vèlia et le Palatin. P. De Francisci souligne à fort juste titre que
l'emplacement de la Regia, du temple des Lares, et de celui des Pénates,
révèle un déplacement du centre de la communauté245, auparavant
situé sur le Palatin, ou même le Germai. Un autre fait aussi nous
apparaît comme très significatif à cet égard. Dans une liste des populi

239 Sur ce problème, qui a été très largement débattu, voir la mise au point de M. Pal-
lottino, Le origini di Roma, A. N.R.W. , I, 1 p. 33-37.
240 Guida Archeologica di Roma, p. 194-195; id., Il Foro Romano I, p. 24-26.
241 Cf. M. Pallottino, Le origini di Roma, ArchClass 1960, p. 26; P. Romanelli, Certezze
e ipotesi sulle origini di Roma, StudRom, 13, 2, 1965, p. 11-12; F. Delpino, Sepolcreti della
valle del Foro e tombe del Palatino, in Civiltà del Lazio primitivo, Rome, 1976, p. 103-107;
F. Coarelli, Roma, p. 40.
242 Cf. aussi M. Pallottino Le origini di Roma, ArchClass, 12, 1960, p. 9.
243 Ibid., p. 7.
244 De L.L. V, 48; cf. P. De Francisci, Primordia Civitatis, Rome, 1959, p. 483; J.
Collari, Varron, De Lingua Latina V, p. 174.
245 Ibid., p. 482; G. Lugli exprime (// tempio . . ., p. 407) l'opinion contraire : pour lui,
la Vèlia aurait été une sorte de banlieue élégante de la cité palatine, appréciée pour son
calme.
444 LES PÉNATES PUBLICS

Albenses donnée par Pline246 à laquelle M. Pallottino247 pense qu'il faut


reconnaître un caractère certain d'authenticité, et qu'il estime dater du
milieu du VIIe siècle - époque à laquelle se constitue la cité palatino-
vélienne -, on lit le nom des Velienses, à côté de celui des Querquetula-
ni, habitants du Querquetual, ancienne dénomination du Caelius248 :
c'est donc de la Vèlia que les habitants de la cité tiraient leur nom, ce
qui confirme la place centrale de cette colline dans la nouvelle
communauté.
L'existence du Tigillum Sororium au pied de la Vèlia nous paraît
une autre preuve de l'existence de la cité palatino-vélienne, car il était
composé de trois poutres qui formaient comme une porte d'entrée à
cette dernière249. Aussi peut-il sembler particulièrement intéressant de
noter que la construction du Tigillum Sororium est mise en relation
avec le combat des Horaces, et donc le règne de Tullus Hostilius. On
arrive ainsi à reconstituer un ensemble assez cohérent : au début du
VIIe siècle, la cité palatine annexe la Vèlia qui devient en fait son centre
architectural et religieux250; on construit un mur de terre qui fait le
tour de la nouvelle cité251, et une porte, qui ne cessera, au moins jusqu'à
l'époque de Tite-Live, d'être maintenue en bon état par les deniers
publics; avec l'extension de Rome, cette porte perdit sa signification
politique pour ne plus garder qu'une valeur religieuse, légendairement
liée à l'expiation d'Horace, ce qui explique sans doute qu'on l'ait si
soigneusement conservée. Nous sommes donc ici en présence d'une phase
bien définie de l'histoire de Rome, avec des fortifications de terre
entourant la cité, fortifications qui seront remplacées au VIe siècle par
le mur en cappellaccio «de Servius Tullius»252.

246 N.H. III, 69.


247 Le origini di Roma, ArchClass, 12, 1960, p. 27.
248 P. De Francisci, op. cit., p. 429.
249 Cf. F. Coarelli, Guida archeologica di Roma, p. 194.
250 M. Pallottino, op. cit., p. 29-33.
251 Peut-être le ruisseau qui coulait sur la pente ouest de la Vèlia (cf. E. Gjerstadt,
Early Rome II, Lund, 1956, p. 17) servait-il de frontière entre cette cité palatino-vélienne
et la nécropole du Forum: cf. P. Romanelli, op. cit., p. 11-12; J. Heurgon Rome et la
Méditerranée occidentale, p. 85.
252 F. Castagnoli, Roma, in Civiltà del Lazio primitivo, p. 99-101.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 445

3) Tullus Hostilius, les Pénates et la Vèlia

On peut se demander si les indications de Solin et de Nonius citant


Varron veulent dire que le Temple des Pénates était situé à l'endroit
précis où se trouvait la maison de Tullus Hostilius, ou seulement dans
son voisinage; question impossible à résoudre, et qui, d'ailleurs, n'a pas
en définitive autant d'importance que la relation ainsi établie, de façon
incontestable, entre le temple des dieux et la maison du roi. On sait que
les dieux du foyer de l'Etat étaient d'abord ceux du foyer du roi. Le cas
est particulièrement net pour le culte de Vesta sur le Forum, dont la
tradition attribue l'instauration et l'organisation à Numa253. F. Coarel-
li254 a justement attiré l'attention sur le fait que les bâtiments de la
Regia, dont Solin nous dit qu'ils étaient la demeure de Numa255, sont
proches de l'Aedes Vestae, ce qui suggère qu'à l'origine, le culte de
Vesta était celui du foyer du roi; de même, Solin met en relation la maison
d'Ancus Martius et le Temple des Lares in summa Sacra Via256. F. Coa-
relli voit là l'illustration du même processus par lequel les dieux
domestiques du roi deviennent ceux de l'Etat; les Lares d'Ancus
Martius et les Pénates de Tullus Hostilius deviennent, dit-il, des cultes
publics, et il note du reste que ces trois cultes du foyer public, Vesta,
Pénates et Lares, sont établis dans des bâtiments proches les uns des
autres, et proches aussi de la Regia, qui n'est séparée de la Vèlia que
par la Via Sacra257. Nous ajouterons qu'il est intéressant de voir deux de
ces cultes du foyer public, celui des Lares et celui des Pénates,
mentionnés côte à côte par Auguste dans l'énumération des temples qu'il a
restaurés : aedem Lamm in summa Sacra Via, aedem deum Penatium in
Velia . . . feci25*; cela peut s'expliquer à la fois par la proximité
géographique des deux sanctuaires et par la parenté existant entre Lares et
Pénates.
Nous constatons donc que la tradition établit des relations entre la
Vèlia, Tullus Hostilius, et les Pénates vénérés sur cette colline. Poussant
plus loin les conclusions que l'on peut en tirer, et rappelant que c'est
au règne de Tullus Hostilius que l'on rapporte la destruction d'Albe,

253 Liv., I, 20, 3.


254 // Foro Romano I, p. 65 sq.
255 I, 21 : Numa . . . deinde propter aedem Vestae in regia quae adhuc ita appellatur.
256 I, 23 : Ancus Martius in summa Sacra Via, ubi aedes Larum est.
257 Op. cit. p. 57.
258 Res Gestae, XIX.
446 LES PÉNATES PUBLICS

F. Zevi259 a proposé de voir dans les Pénates de la Vèlia ceux d'Albe,


hypothèse que nous allons à présent étayer de quelques remarques, et
dont nous voudrions montrer toute la richesse.
Nous avons déjà noté que, chez Tite-Live, le récit de la guerre avec
Albe et la destruction de cette dernière après l'échec des tentatives
d'alliance ou d'association avec Rome occupe la presque totalité du récit
retraçant le règne de Tullus Hostilius : les démêlés avec Albe semblent
avoir été l'événement majeur de ce règne, lui avoir donné son caractère
essentiel260. De plus, le lien entre Tullus Hostilius et Albe est peut-être
confirmé par la localisation du Tigillum Sororium et par les traditions
s'y rapportant. D'après Tite-Live en effet, cette sorte de porte, dont
nous savons d'autre part qu'elle était située au pied de la Vèlia, avait
été placée là par le vieil Horace pour faire passer son fils sous elle, à
titre d'expiation du meurtre de sa sœur; le Tigillum Sororium est donc
lié, dans cette tradition, à l'épisode central de la rivalité avec Albe, le
combat des Horaces et des Curiaces. Ainsi se trouveraient liés Tullus
Hostilius, la Vèlia et Albe. Peut-on supposer, en conséquence, qu'il a
existé une relation entre Albe et les Pénates de la Vèlia, par
l'intermédiaire de Tullus Hostilius qui formerait entre eux une sorte de trait
d'union légendaire?
S'il est assez aisé de croire que les Pénates de la Vèlia ont pu
passer pour ceux de Tullus Hostilius, il faudrait encore accepter l'idée que
ces derniers étaient aussi ceux d'Albe, ce qui, à première vue, paraît un
peu surprenant. En effet, il existe des exemples d'euocatio par les
Romains des dieux de l'ennemi ou de procédés divers d'incorporation
de ceux-ci à la religion de Rome261; mais jamais on ne voit ainsi annexés
des dieux aussi intimes, aussi personnels, aussi symboliques de la patrie
que les Pénates; s'approprier les Pénates d'autrui paraît contradictoire
dans les termes. Cependant, le cas des relations entre Rome et Albe est

259 // mito di Enea nella documentazione archeologica : communication faite au XIXe


Congrès de Tarente, le 9 octobre 1979 (pas encore publiée); id., Note sulla legenda di Enea
in Italia, in Gli Etruschi a Roma, Incontro di studio in onore di Massimo Pallottino, Rome,
1981, p. 156-58.
260 Cependant, J. Poucet {Archéologie, tradition et histoire : Les origines et les premiers
siècles de Rome, Et Class, 47, 1979, p. 201 sq.) conteste le caractère historique de la
destruction d'Albe par Tullus Hostilius, et même l'existence de cette cité, dans un site où il
n'y aurait eu, selon lui, que de petits villages; voir A. Grandazzi, La localisation d'Albe,
MEFRA, 98, 1986, p. 74.
261 G. Dumézil, La religion romaine archaïque, p. 425-431.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 447

à mettre à part, cette dernière cité n'étant pas, par rapport à Rome,
dans une simple relation d'hostilité, ni même d'altérité. Car, Tite-Live le
souligne dès le début de son récit de la guerre avec Albe, Romains et
Albains sont, dans une large mesure, semblables, comme peuvent l'être
des frères, ou des pères et des fils : Et bellum utrimque summa ope
parabatur, ciuili simillimum bello, prope inter parentes natosque, Troia-
nam utramque prolem, cum Lauinium ab Troia, ab Lauinio Alba, ab
Albanorum stirpe regum oriundi Romani essent262. La similitude entre
les deux peuples est soulignée chez Tite-Live non seulement par le
rappel de la filiation entre Rome et Albe - filiation bien établie désormais
par la vulgate de la légende des origines -, mais aussi par le rappel
d'une commune origine troyenne, et d'une autre relation de filiation,
entre Albe et Lavinium cette fois; la mention de cette filiation ne sert
d'ailleurs qu'à expliquer le fait essentiel, le centre de la phrase Troia-
nam utramque prolem. Cette «guerre civile» présente deux phases dans
le récit de Tite-Live : après le combat des Horaces et des Curiaces et la
victoire d'Horace, un premier traité de paix est conclu entre les deux
peuples, donnant évidemment la suprématie à Rome, conformément
aux clauses établies conjointement avant le combat par les deux rois.
Mais, à la première occasion - la guerre contre Véies -, les Albains se
rendent coupables de trahison vis-à-vis de leurs alliés Romains, ce
pourquoi Tullus Hostilius décide de détruire la ville et d'accueillir à
Rome sa population, considérée non pas comme étrangère, mais
comme profondément parente de celle de Rome, fraternelle, au point que
ce transfert est finalement présenté par le roi comme le retour à une
unité perdue lors de la fondation de Rome : mihi . . . populum omnem
Albanum Romam traducere in animo est . . . unam urbem, unam rempu-
blicam facere; ut ex uno quondam in duos populos diuisa Albana res est,
sic nunc in unum redeat263. La fusion des deux peuples prend ainsi
l'allure d'une réconciliation, après une division plus ou moins imposée par
le méchant roi Amulius et une trahison dont est seul rendu responsable
le dictateur Mettius Fufétius, cruellement châtié. Aussi, dans la mesure

262 I, 23, 1 : Les deux peuples mettent toute leur ardeur à préparer la guerre,
véritable guerre entre concitoyens, presque entre pères et fils : tous deux étaient d'origine
troyenne, puisque Lavinium était sortie de Troie, Albe de Lavinium et Rome de la famille
royale d'Albe (trad. G. Baillet, op. cit.).
263 Liv., I, 28, 7: «J'ai pris la résolution de transférer toute la population d'Albe à
Rome ... de n'avoir plus qu'une seule ville et un seul Etat. Autrefois, Albe a partagé son
peuple en deux; qu'elle reprenne aujourd'hui son unité» (trad. G. Baillet, op. cit.).
448 LES PÉNATES PUBLICS

où le transfert des Albains à Rome est présenté comme une


réconciliation familiale, devient-il possible de supposer que Tullus Hostilius a
ramené à Rome les Pénates de la cité pour les installer chez lui, sur la
Vèlia; cette installation a dû alors éminemment symboliser la cohésion
et l'unité familiale retrouvées.
Pourtant, cette version de la guerre avec Albe, où Rome se donne le
beau rôle de réunir les frères devenus ennemis, pourrait en réalité
recouvrir des faits plus brutaux, et en particulier la violence probable
de l'antagonisme qui a dû opposer Rome et Albe à la fin du VIIe
siècle264. Tite-Live, d'ailleurs, ne cherche pas à dissimuler que les «frères
albains» ont fort mal pris les retrouvailles familiales, puisqu'ils quittent
leur ville en un long cortège pleurant et gémissant. La destruction
totale de tous les bâtiments privés et publics, à l'exception des temples, ne
laisse guère de doute non plus sur l'animosité des Romains à l'égard
d'Albe, ni sur la peur qu'elle révèle sans doute de voir un jour renaître
la cité-mère. Ce qui se lit donc à travers le récit de Tite-Live, c'est une
lutte à mort entre deux cités rivales, entre lesquelles la chance a dû
longtemps balancer. Au reste, dans la liste des peuples du Latium
donnée par Pline265 que nous avons mentionnée plus haut, les Velienses,
comme les Querquetulani, sont rangés parmi les populi Albenses,
dénomination où nous croyons pouvoir lire la marque d'une hégémonie
d'Albe sur les peuples environnants, y compris ceux qui composeront
plus tard Rome. Au moment où s'effectue la destruction d'Albe, Rome
est encore très menacée à l'intérieur même du Latium, comme le
montre cet épisode, mais aussi par ses puissants voisins d'Etrurie266. Elle est
une petite cité, qui n'a réussi à imposer sa loi qu'à une partie des
Sabins : c'est ce qu'illustre l'association de Romulus et de Tatius267.
Albe, sa toute proche voisine, a dû très tôt constituer pour elle une

264 Cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 236 sq.; selon R. M. Ogilvie {op. cit., p. 105), on peut
distinguer dans le récit de Tite-Live trois couches de matériel : d'une part, des éléments
légendaires, par exemple la bataille des champions et la mort de Mettius Fufétius,
appartenant à la. tradition indo-européenne et plus anciens que Rome même; ensuite, des
éléments historiques qui ont quelques chances d'appartenir au VIF siècle, comme le nom du
roi Tullus Hostilius, celui de Fufétius, et la prise d'Albe; enfin, les résultats des
recherches faites par les Romains pour expliquer, par des éléments légendaire ou historiques
des premiers temps de Rome, le nom, autrement inexpliqué, de certains lieux, comme la
Fossa Cluilia, ou les Sepulcra Horatiorum et Curiatiorum.
265 N.H. III, 69.
266 Cf. R. Bloch, Les origines de Rome, Paris, 1959, p. 47-58.
267 Cf. M. Pallottino, Le origini di Roma, A.N.R.W., I, 1 p. 40-41.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 449

menace, et réciproquement; Tite-Live268 mentionne du reste, avant la


guerre proprement dite, les nombreuses incursions des Albains dans le
territoire romain, des Romains dans le territoire albain.
Ce violent antagonisme n'exclut d'ailleurs pas que les deux cités
aient été unies par des liens réels. La légende du bon roi Numitor
chassé par son frère, de la naissance et de l'exposition des deux jumeaux
Romulus et Rémus, de la fondation et du premier peuplement de
Rome, peuvent fort bien refléter un fait historique : le départ de colons
albains de la métropole, non pas à proprement parler pour fonder
Rome (M. Pallottino269 remarque avec raison que la contemporanéité
archéologique entre l'occupation du site du Palatin et celui des Monts
Albains exclut à peu près cette vision des choses), mais pour défendre
leurs intérêts dans la plaine, et notamment dans la basse vallée du
Tibre270, a inévitablement créé des liens entre eux et les habitants de
cette région. La parenté entre les deux cités, hautement affirmée par
Tullus Hostilius chez Tite-Live, peut donc être en partie une réalité, qui
expliquerait l'installation des Pénates d'Albe à Rome. Elle justifierait
aussi l'existence de deux temples des Pénates à Rome, ou plutôt de
deux sortes de Pénates : les Pénates de la Vèlia, qui seraient ceux
d'Albe, transférés à Rome, et ceux de Rome même conservés dans l'Ae-
des Vestae271.
Mais l'hypothèse selon laquelle les dieux de la Vèlia seraient les
Pénates d'Albe éclaire aussi d'un jour nouveau le rôle essentiel de nos
dieux dans la légende des origines de Rome, car leur histoire permet de
voir comment deux traditions ont été superposées, avec un effort
manifeste pour leur donner une cohérence. En effet, Rome connaît et
vénère aussi comme ses Pénates ceux d'une autre cité-mère, Lavinium272.
D'une part, comme nous l'avons vu, les Romains se reconnaissent
comme des Enéades, avec Lavinium comme relais entre Troie et Rome, ce
qui justifie le culte officiel dont les Pénates «troyens» de cette cité sont
l'objet. Mais d'autre part, ils sont aussi les descendants de l'albain
Romulus, et Albe est à ce titre leur autre cité-mère : ses Pénates ont
donc leur place chez eux après sa destruction. La légende de la filiation

268 I, 22.
269 Le origini di Roma, A.N.R.W., I, 1, p. 40.
270 Ibid.
271 Voir ci-dessous p. 453 sq.
272 Voir ci-dessus p. 355 sq.
450 LES PÉNATES PUBLICS

entre Lavinium et Albe est pour partie destinée, croyons-nous, à rendre


compatibles les deux légendes des origines, de même que la dynastie
albaine comble l'hiatus de plusieurs siècles qui sépare Enée et
Romulus, les deux fondateurs273. Le sort fait par Rome à ses deux cités-mères
est pourtant bien différent : au VIIe siècle, Albe est anéantie, mais ses
Pénates, reconnus comme leurs par les Romains, sont transférés à
Rome; au IVe siècle, Lavinium bénéficie d'un traitement de faveur lors
de l'anéantissement de la Ligue latine, et ses Pénates sont vénérés
chaque année par les hauts magistrats de Rome à Lavinium même. Cette
différence s'explique, selon nous, par le fait qu'Albe a dû représenter
un très grand danger pour Rome, danger qu'elle a voulu conjurer dès
qu'elle a pu prendre le dessus dans le conflit qui opposait les deux
cités; Lavinium, peut-être en partie dépouillée de son importance
politique274, a sans doute pu être épargnée et honorée sans qu'il en coûtât
beaucoup à l'hégémonie romaine sur le Latium. Toutefois, il nous
semble très significatif du rapport de forces instauré entre Rome et ses
deux métropoles que les cultes fédéraux dont Albe et Lavinium étaient
le siège soient passés sous le contrôle des Romains, ce qui fait dire à
Camille: Uli (= nos ancêtres) sacra quaedam in monte Albano Lauinique
nobis facienda tradiderunt275.
Au reste, la réprobation qui pèse sur Albe dans la pensée romaine
est symboliquement justifiée par la bassesse de deux de ses chefs, Amu-
lius et Mettius Fufétius; ce dernier entraîne la cité dans une trahison
qui amène sa destruction. Or ce côté maudit d'Albe s'exprime
également, comme nous l'avons souligné déjà, dans une anecdote rapportée
par Denys d'Halicarnasse à propos de la fondation de la ville276 : un

273 T. J. Cornell, Aeneas and the twins : the development of the Roman foundation
legend, PCPhS, 201, 1975 p.. 1-32; G. D'Anna, // ruolo di Lavinio e di Alba Longa nei primi
scrittori Latini, in Problemi di letteratura latina arcaica, Rome, 1976, p. 43-144.
274 Cependant, il n'est pas douteux que Lavinium ait gardé à cette époque tout son
prestige comme cité sainte, ainsi qu'en témoignent les réalisations architecturales du
temps : transformation de l'hérôon, achèvement de la rangée des autels (cf. supra p. 232;
299). Cela implique d'ailleurs une activité économique importante, l'existence de
nombreux artisans et de riches commanditaires, la fortune de ces derniers étant attestée par
les bijoux et parures féminines de certaines statues votives : cf. Enea nel Lazio.
Archeologia e mito, Catalogue de l'Exposition, Rome, 1981, p. 211-269.
275 Liv., V, 52, 8 : «leurs traditions à eux nous obligent à faire des sacrifices sur le
Mont Albain et à Lavinium» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1969).
276 I, 67, 1-2; les mêmes événements se trouvent rapportés dans YOrigo Gentis Roma-
nae (17, 2).
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA 451

groupe de Lavinates, avec Ascagne à leur tête, s'établissent dans cette


nouvelle cité, où ils ont bâti un temple pour les Pénates qu'ils
transfèrent en grande pompe de Lavinium; mais pendant la nuit, les dieux
retournent dans leur sanctuaire primitif; l'événement se produit à deux
reprises, après quoi les Albains renoncent à établir chez eux les dieux
de Troie. Les Pénates d'Albe sont par conséquent «autochtones». Aussi
peut-il paraître surprenant, si nous ne nous trompons pas en pensant
que ce sont eux qui occupent le sanctuaire de la Vèlia, que Denys,
décrivant les statues de ces dieux, les présente comme des Τρωικοί
θεοί277. Cela prouve simplement, croyons-nous, que la légende des
origines troyennes, et de la triple filiation Troie-Lavinium, Lavinium-Albe,
Albe-Rome, était suffisamment bien établie pour quon qualifiât de
«troyens» - qualification due à Denys lui-même, mais peut-être inspirée
par ses informateurs à Rome - tous les sacra rattachée à la légende des
origines, et en particulier les Pénates.
Il nous semble donc qu'encore une fois, nos dieux se trouvent liés
de très près à la vision qu'a eue Rome de son histoire et de sa légende.
Le culte de la Vèlia peut sembler faire double emploi avec celui de
Lavinium : l'un et l'autre s'adressent aux Pénates d'une cité-mère. Mais
en même temps qu'à la légende de ses origines albaines, c'est à un
épisode crucial de l'histoire de Rome que le culte de la Vèlia fait
référence, celui d'une lutte à mort avec la puissante cité qui eut longtemps
l'hégémonie sur le Latium; l'anéantissement de cette dernière et
l'appropriation de ses Pénates par les Romains en sont l'aboutissement,
que viendra expliquer, et aussi justifier, la légende.

277 i, 68, 1.
CHAPITRE II

LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE


SUR LE FORUM

Nous avons vu comment on peut rendre compte de l'existence


d'un double culte des Pénates «troyens» par la légende des origines
troyano-lavinates de Rome : les Pénates de l'Etat sont honorés à
Rome, mais aussi dans la cité-mère, Lavinium. Si l'on accepte de voir
dans les Pénates de la Vèlia les dieux d'Albe, la même légende des
origines peut justifier leur présence sur cette colline, puisque Rome
se reconnaît en fait deux cités-mères : Lavinium, fondée par l'ancêtre
de tous les Latins, le troyen Enee, et Albe, d'où Romulus est
originaire. Mais il est plus surprenant de voir qu'à Rome même, les
témoignages des auteurs anciens semblent bien attester qu'à côté du
temple de la Vèlia, dont ils étaient les dédicataires spécifiques, les
Pénates étaient honorés aussi dans l'Aedes Vestae, sur le Forum, ou du
moins, qu'on y vénérait des sacra parmi lesquels, peut-être, se
trouvaient les Pénates de l'Etat romain. C'est ce second lieu de culte que
nous allons examiner à présent. Nous étudierons d'abord les
traditions relatives à la nature des sacra du Penus Vestae, dont la
définition apparaît assez confuse pour que la présence des Pénates en cet
endroit ait pu être récemment controversée; nous essaierons ensuite
d'éclairer cette définition par une histoire des sacra du sanctuaire de
Vesta, ou, plus précisément, par une étude des témoignages
concernant les circonstances historiques à l'occasion desquelles ces sacra
sont mentionnés dans la tradition littéraire; enfin, nous voudrions
essayer de définir ces sacra-Pénates par la signification que l'on peut
donner à leur présence dans l'Aedes Vestae, en montrant que ce
monument renferme à l'origine le foyer du roi, mais que ces Pénates,
les seuls vraiment romains, ont fini par être insérés eux aussi dans la
légende des origines troyennes.
454 LES PÉNATES PUBLICS

I - Les traditions relatives à la présence de sacra


DANS L'AEDES VeSTAE

L'Aedes Vestae, telle qu'elle se présente aujourd'hui à nos yeux, est


le fruit d'une restauration partielle récente, qui restitue un monument
datant, dans sa plus grande partie, de la fin du IIe siècle après J.-C,
époque où il fut reconstruit par les soins de Julia Domna, épouse de
Septime-Sévère, à la suite de l'incendie de \9\l. Une grande part des
fondations et du podium datent de l'époque augustéenne. Bien qu'on
ait parfois attribué la fondation de ce sanctuaire à Romulus2, la
tradition antique l'attribue plutôt à Numa3. Ce monument rond, non
orienté, forme un ensemble unitaire avec le bâtiment adjacent de la Domus
Vestalium, Maison des Vestales, ensemble que l'on désigne du terme
d'Atrium Vestae4.

1) Le Penus Vestae et les sacra

A l'intérieur du sanctuaire se trouvait un locus intimus5, le Penus


Vestae6, interdit aux profanes, qui contenait des sacra importants et
mystérieux7. Malheureusement, il n'y a pas grand secours à attendre
de l'archéologie pour éclairer les difficiles problèmes posés par le
Penus Vestae et son contenu. On a retrouvé une cavité de forme
trapézoïdale, de 2,50 m de côté et de 5 m de profondeur, à laquelle on ne
pouvait accéder que par la cella; on a cru pouvoir l'identifier comme le

1 Cf. A. Preuner, Hestia-Vesta, Tübingen, 1864; H.Jordan, Der Tempel der Vesta,
Berlin, 1886; E. Van Deman, The Atrium Vestae, Washington, 1909; S. B. Platner-T. Ash-
by, A Topographical Dictionary of Ancient Rome, Oxford, 1929, p. 557-59; A. Brelich, Vesta,
Zurich, 1949; F. Coarelli, Roma, (Guide archeologiche Laterza), Rome, 1980, p. 80-86;
F. Castagnoli, Topografia di Roma antica, Turin, 1980, p. 82.
2 Cf. S. Β. Platner-T. Ashby, op. cit., p. 558; F. Castagnoli, op. cit., p. 82.
3 Plutarque, Numa, 11; Festus, 320 L.
4 Cette signification du terme Atrium Vestae a été contestée : cf. ci-dessous, p. 507
sq.
5 Festus, 296 L.
6 Cf. supra p. 21-2.
7 G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2e éd., Munich, 1912, p. 165 sq. ;
G. Radke Die dei pénates und Vesta in Rom, A.N.R.W., Π, 17, 1, Berlin-New- York 1981,
p. 358-361.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 455

Penus8, mais cette identification n'est qu'hypothétique, et il n'y a nulle


trace des objets qu'il contenait.
L'existence d'un emplacement considéré comme «le saint des
saints» à l'intérieur du sanctuaire de Vesta, et appelé Penus Vestae est
bien attestée dans la tradition littéraire9. Festus le définit ainsi : Penus
uocatur locus intimus in aede Vestae tegetibus saeptus, qui certis diebus
circa Vestalia aperitur; i dies religiosi habentur10. Nulle trace, bien
évidemment, n'a pu subsister de ces sortes de nattes de paille (tegetibus)
qui délimitaient verticalement le Penus à l'intérieur du sanctuaire, et,
plus précisément, de la cella, tandis que son tracé sur le sol est peut-
être encore reconnaissable dans la cavité trapézoïdale mentionnée plus
haut; il n'est pas certain, toutefois, que cet espace trapézoïdal ait
représenté toute la surface du Penus; peut-être était-il lui-même englobé
dans l'enceinte, plus vaste, de ce dernier; Festus parle en un autre
endroit an penus exterior, où l'on conservait la mûries11, ce qui
supposerait une distinction entre ce dernier et un penus interior, plus secret,
plus saint aussi. Nous savons que la mûries, saumure fabriquée selon
des prescriptions très strictes par les Vestales12, était destinée à saler la
mola salsa, farine elle aussi préparée par ces prêtresses13, dont on
versait un peu sur les animaux que l'on s'apprêtait à sacrifier14. Bien
qu'aucun texte ancien ne le précise, on est fondé à penser que la mola
salsa était également conservée dans le penus exterior : avec la mûries,
elle constitue, pour ainsi dire, les ingrédients des sacrifices publics; il
paraît donc logique qu'elles soient préparées par les Vestales et
conservées dans le lieu le plus sûr du foyer de l'Etat. Dans cette partie
extérieure du Penus, on gardait probablement aussi les cendres de veaux
morts-nés brûlés lors des Fordicidia15, les tiges de fèves, qui, mêlées
aux cendres, servaient lors du rituel des Parilia, et peut-être également,
selon certains savants - mais ce point de vue est très vivement contesté

8 Cf. Ch. Hülsen, // Foro Romano, Rome, 1905, t. II, p. 179; S. Β. Platner-T. Ashby,
op. cit., p. 558; F. Coarelli, op. cit., p. 82.
9 Cf. supra p. 21-2.
10 296 L.
11 152 L : mûries. . . quae est intus in aede Vestae in penu extenore.
12 C. Koch, in R.E., Vili A 2, s.w. Vesta, col. 1730.
13 Cf. G. Dumézil, La Religion romaine archaïque, 2e éd., Paris, 1974, p. 324-25.
14 C. Koch, loc. cit.
15 C. Koch, loc. cit.
456 LES PÉNATES PUBLICS

par G. Dumézil16 -, le sang du Cheval d'Octobre. Nous sommes, là


encore, en présence d'éléments dotés de valeur religieuse, certes, mais
destinés à disparaître et à être remplacés chaque année; loin d'être en
eux-mêmes les objets d'un culte, ils servent seulement d'instruments
dans la célébration d'un culte; au même titre que la mûries et la mola
salsa, ils sont des ingrédients qui ne prennent de sens qu'insérés dans
l'ensemble d'un rituel. Que tous aient été conservés à l'abri des regards
des profanes dans le Penus du foyer de l'Etat se comprend aisément, de
même qu'il est vraisemblable qu'en raison de leur caractère périssable,
de leur existence transitoire, ils se trouvaient dans le penus exterior.
La présence du feu de Vesta, Yignis perpetuus, dans le penus
exterior a été contestée par S. Weinstock17, qui le situe dans le penus
interior, probablement en raison de son caractère hautement sacré. A cette
hypothèse, C. Koch18 oppose une argumentation assez convaincante; il
note tout d'abord que si le feu de Vesta est souvent qualifié de sempi-
ternus ou à'aeternus, il ne l'est jamais d'arcanus; s'appuyant d'autre
part sur un texte d'Ovide19, selon lequel, lors des Vestalia, les matrones
se rendaient en pèlerinage au sanctuaire de Vesta, C. Koch estime
impossible qu'elles n'aient pu apercevoir le feu de Vesta et soutient
que, puisque la mola salsa était préparée précisément au moment des
Vestalia, il est concevable que les matrones en aient, lors de leur
passage, emporté chacune une petite quantité à l'usage du culte de la déesse
dans leur propre foyer. Ajoutons que si nous rapprochons le
témoignage d'Ovide du premier texte de Festus que nous avons mentionné, nous
nous trouvons devant un ensemble de données assez cohérentes : le
penus exterior, habituellement fermé aux profanes, s'ouvrait, du moins
pour les matrones20, au moment des Vestalia.
Bien que l'expression penus interior ne figure, à notre
connais ance, dans aucun texte ancien, beaucoup de savants l'ont utilisée par
commodité, en opposition avec le penus exterior mentionné par Festus,
pour désigner le saint des saints, un endroit jamais ouvert aux profa-

16 La religion romaine archaïque, p. 231-4: G.Dumézil présente les textes anciens


traitant de ce sujet, les théories d'un certain nombre de savants (H. J. Rose et F. Borner
notamment), et propose une explication différente, en affirmant que le sang du Cheval
d'Octobre n'a jamais été conservé dans l'Aedes Vestae.
17 R.E., XIX, 1, s.u. Penates, col. 441.
18 Op. cit., col. 1730.
19 Fastes VI, 395 sq.
20 Selon Ovide (Fastes VI, 450), aucun homme n'avait accès au sanctuaire de Vesta.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 457

nés. Nous ignorons tout des emplacements respectifs du penus interior


et du penus exterior; tout au plus pouvons-nous penser que le premier
était situé derrière l'autre, de façon à être inaccessible lors même que
ce dernier s'ouvrait, au moment des Vestalia. Etait-il seulement
constitué de la cavité trapézoïdale encore visible? Il est impossible d'en rien
dire, et supposer, comme le fait S. Weinstock21, qu'il comportait peut-
être une niche où étaient conservés les Pénates est une hypothèse qui
ne se fonde que sur une assimilation des usages du culte public à ceux
du culte privé, mais qu'aucune donnée archéologique ne confirme. Il
semble d'ailleurs que, dans les textes anciens, ce penus interior soit en
fait désigné du terme de penetrai, penetrale22, ou de penetralia23, bien
que la définition qu'en donne Servius reste assez vague24.
Beaucoup de témoignages littéraires attestent la présence dans ce
penetrale de mystérieux sacra ; ils sont simplement désignés par ce mot
chez Tite-Live25, chez Ovide26, tandis que Pline27 parle de sacra
Romana; chez les auteurs grecs, Denys d'Halicarnasse, lorsqu'il évoque le
geste héroïque de Lucius Caecilius Metellus sauvant lors d'un incendie
du temple les objets sacrés abandonnés là par les Vestales épouvantées,
désigne ces derniers du terme τα ίερά28, de même que Plutarque29.
Pourtant, ce même auteur rapporte une tradition, sans mentionner
malheureusement ses origines, selon laquelle le temple de Vesta
n'aurait rien renfermé d'autre que le feu : καίτοι τινές ουδέν είναι το φρου-
ύπ'
ρούμενον αυτών έτερον ή το πυρ άφθιτον ίστορουσι30. Nous avons
déjà noté l'imprécision de cette expression de sacra - τα ίερά, désignant
les objets apportés par Enée de Troie en Italie, imprécision qui a pu
donner matière, chez les Anciens mêmes, à des interprétations diverses;
il en va de même pour les sacra du Penus Vestae.
Pourtant, nous voudrions montrer que l'affirmation de Tacite, se-

21 Loc. cit.
22 Liv., XXVI, 27, 14.
23 Hist. Aug., Héliogabale, 6, 6.
24 Ad Aen. III, 12 : nam et ipsum penetrai penus dicitur.
25 V, 40, 7 : quae sacrorum secum ferenda. . . essent consultantes.
26 Fastes VI, 450 : sacra uir intrabo non adeunda uiro.
27 N. H. XXVIII, 7.
28 II, 66, 4.
29 Cam., 20, 5.
30 Cam., 20, 4: «Cependant, quelques écrivains prétendent que celle-ci (= les
Vestales) ne gardent pas autre chose que le feu perpétuel » (trad. R. Flacelière, E. Chambry,
M. JUneaux, C.U.F., Paris, 1961).
458 LES PÉNATES PUBLICS

Ion laquelle les Pénates du peuple romain se trouvaient dans l'Aedes


Vestae31, ne doit pas être mise en doute. Nous croyons en trouver une
première preuve, étymologique, pourrait-on dire, dans le nom même
du penus, ou du penetrale, où étaient conservés ces sacra, mot dont la
parenté avec Penates est soulignée par Cicéron32. A cette raison
s'ajoute, nous allons le voir, le fait que certains de ces sacra, le phallus sacré
et le Palladium, nommément désignés, ont des liens avec les Pénates
qui justifieraient la présence de ces derniers à leurs côtés dans le Penus
Vestae.

2) Le phallus

On trouve chez Pline l'attestation de la présence d'un phallus dans


le sanctuaire de Vesta : quamquam illos religione muta tutatur et fasci-
nus, imperatorum quoque, non solum infantium, custos, qui deus inter
sacra Romana a Vestalibus colitur33. Ainsi, le phallus conservé dans le
sanctuaire est considéré comme l'un des sacra, et même comme un
dieu; d'après cette phrase de Pline, son symbolisme paraît assez clair :
la protection qu'il assure aux tout jeunes enfants (infantium) est
probablement en relation avec la force virile fécondante qu'il représente34;
s'il veille aussi sur les imperatores , c'est peut-être par une extension de
la fonction protectrice précédemment évoquée, peut-être encore parce
que le général en chef est en quelque sorte l'une des incarnations de la
force virile. La valeur de protection de la fécondité que symbolise la
présence de ce phallus dans le Penus Vestae nous paraît ici essentielle.
S. Weinstock35 a fort judicieusement rapproché cette notation de Pline,

31 Ann. XV, 41, 1.


32 De Nat. Deor. II, 68 : ... Penates, siue a penu ducto nomine (est enim omne quo
uescuntur homines penus) siue ab eo quod penitus insident; ex quo etiam penetrales a poe-
tis uocantur; cf. supra p. 13 sq.
33 N.H. XXVIII, 39 : « Cependant, un phallus aussi les protège de son pouvoir sacré
et muet, gardien non seulement des nourrissons, mais aussi des généraux, et qui est
honoré comme un dieu par les Vestales parmi les sacra de Rome ».
34 Le lien entre le feu et le pouvoir fécondant est illustré notamment dans le mythe
de la naissance de Servius Tullius : cf. J. Champeaux, Fortuna. Le culte de Fortuna à Rome
et dans le monde romain, Coll. de l'Ecole Française de Rome, vol. 64, Rome, 1982, p. 295-
96 et n. 240; le même mythe de la «conception miraculeuse par le feu» se retrouve dans
certaines traditions relatives à la naissance de Romulus et Rémus, et du fondateur de
Préneste, Caeculus.
35 Op. cit., col. 445.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 459

isolée et apparemment surprenante, si l'on pense à la nécessaire


chasteté des Vestales, d'un texte d'Augustin, citant Varron, à propos de
cérémonies qui se déroulaient à Lavinium en l'honneur de Liber et pendant
lesquelles on honorait un phallus : In oppido autem Lauinio unus
Libero totus mensis tribuebatur, cuius diebus omnes uerbis flagitiosissimis
uterentur, donec illud membrum per forum transuectum esset atque in
loco suo quiesceret. Cui membro inhonesto matrem familias honestissi-
mam palam coronam necesse erat imponere. Sic uidelicet Liber deus pla-
candus fuerat pro euentibus seminum, sic ab agris fascinatio repellendo,,
ut matrona facere cogeretur in publico, quod nec meretrix, si matronae
spectarent, permuti debuit in theatro36. Ces rites, qui suscitent chez
Augustin une si grande indignation, sont donc de caractère agraire (pro
euentibus seminum, ab agris), destinés à détourner les influences
néfastes et à assurer une heureuse récolte; cependant, le fait qu'ils soient
célébrés par une matrone leur donne une portée plus large : ce n'est
pas seulement la prospérité agricole qu'ils sont supposés apporter,
mais la fécondité en général, végétale, animale et humaine. On est
évidemment tenté de mettre en relation ces cérémonies avec la présence
d'un phallus dans le sanctuaire de Vesta sur le Forum, étant donné le
rôle joué par la matrone dans les rites lavinates d'une part, le fait que
le Penus Vestae s'ouvrait pour les matrones aux Vestalia d'autre part37.
Toutefois, notons que le texte de Varron, tel que nous l'a transmis
Augustin, n'indique pas où était conservé le phallus en dehors des Libe-
ralia ; l'expression in suo loco quiesceret est d'une interprétation délicate
en effet, car elle ne permet nullement de préciser quel était ce locus
(peut-être un temple, mais il n'est pas certain que ce soit celui de
Liber), et on hésite entre deux interprétations : le phallus est-il sorti du

36 De Ciu. Bei VII, 21 : «Dans la cité de Lavinium, un mois tout entier était consacré
à Liber, pendant lequel chacun employait les mots les plus orduriers, jusqu'au jour où ce
membre était porté à travers le forum et installé au lieu qu'on destinait à son repos. Sur
ce membre déshonnête, il fallait que la mère de famille la plus honnête déposât
publiquement une couronne. Voilà comment on devait apaiser le dieu Liber pour obtenir
l'heureuse germination des semences, voilà comment on devait détourner des champs les
mauvais sorts; il fallait qu'une matrone fût contrainte de faire en un lieu public ce
qu'une courtisane même ne devrait pas pouvoir faire au théâtre, si les matrones
risquaient de voir la scène» (Trad. J. Perret, Paris, 1960).
37 Cependant, J. Champeaux (op. cit., p. 404) met les rites lavinates en rapport avec
les fêtes romaines de Fortuna Virilis aux calendes d'avril : à la croyance en la vertu
fécondante de 1 obscénité à Lavinium correspondrait à Rome l'indécence du «bain
choquant des humiliores et des courtisanes parmi les hommes».
460 LES PÉNATES PUBLICS

locus où il est habituellement gardé, promené en procession sur le


forum de la cité, puis ramené dans le temple où il est publiquement
couronné par une matrone, ou est-il sorti d'un temple (mais lequel?),
promené sur le forum, puis déposé en un lieu traditionnellement fixé,
sur ce même forum, pour y être couronné en public? Rien ne permet
de répondre à ces questions. S. Weinstock va jusqu'à affirmer38 que le
phallus de Lavinium a pu être transporté dans le sanctuaire de Vesta à
Rome avec les autres sacra lavinates, ce qui ne nous paraît guère
plausible, aucun témoignage n'attestant le transfert de ces sacra de
Lavinium à Rome. Nous croirions plutôt à l'existence de deux cultes,
identiques mais indépendants, d'un phallus comme symbole de prospérité et
de fécondité, dans les deux cités latines.

3) Le Palladium

Parmi les sacra conservés dans le penetrale de ÏAedes Vestae, Rome


se vantait de posséder le Palladium, statue d'Athéna supposée venir de
Troie39. La première attestation de la présence de cette statue dans le
sanctuaire se trouve dans le Pro Scauro de Cicéron, qui date de 54 avant
J.-C. : Palladium illud quod quasi pignus nostrae salutis atque imperii
custodiis Vestae continetur40. Le passage contient deux indications
importantes : Cicéron y affirme que la statue d'Athéna avait été sauvée
des flammes par le Grand Pontife L. Caecilius Metellus lors d'un
incendie de l'édifice en 241 avant J.-C, sans préciser la date à laquelle la
statue avait pu y être déposée; ce texte indique, en outre, l'importance
exceptionnelle que revêtait le Palladium aux yeux des Romains comme
garant de la pérennité de leur puissance (pignus nostrae salutis atque
imperi), importance qui justifie sa place en ce lieu. La mention de la
présence de la statue est attestée ensuite chez Tite-Live, qui la rapporte
à une date plus ancienne encore, puisqu'il fait dire à Camille, au
moment où il exhorte les Romains à ne pas s'exiler pour s'abriter à
Véies lors de l'invasion gauloise de 390 avant J.-C, arguant de
l'impossibilité d'abandonner les plus saintes institutions de Rome : «Quid de

38 Loc. cit.
39 Cf. L. Ziehen, in R.E., XVIII, 3, s.u. Palladion, col. 182; les différentes traditions
antiques relatives au Palladium ont été très clairement présentées par F. Chavannes {De
Palladii raptu, Berlin, 1891).
40 48 ; cf. Philippiques XI, 24, à propos de Brutus : qui ita conseruandus est ut illud
signum quod, de caelo delapsum, Vestae custodiis continetur : quo saluo, salui sumus.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 461

aeternis Vestae ignibus signoque quod imperii pignus custodia eius


templi tenetur loquar?»41. Tite-Live atteste dans un autre passage, en des
termes très voisins, la présence du Palladium dans le penetrale au début
du IIIe siècle avant J.-C. : en 210, après la prise de Capoue, le romain
Quintus Flaccus s'explique devant les Campaniens de la haine qu'il leur
voue à titre public : Vestae aedem petitam et aeternos ignés et conditum
in penetrali fatale pignus imperi Romani42. Une distinction apparaît ici
très clairement faite par Tite-Live entre l'aedes et le penetrale, le sens
de ce dernier étant du reste renforcé par conditum, allusion au fait
qu'aucun profane ne pouvait y avoir accès; le sens du mot, ainsi que
l'emploi de fatale pour désigner le pignus, montre l'importance, déjà
notée dans le texte de Cicéron, qu'avait la statue pour les Romains,
souligne l'énormité du forfait que les Campaniens s'apprêtent à
commettre, et justifie les publicas inimicitias que Quintus Flaccus leur voue. On
trouve plusieurs mentions de la présence du Palladium dans le
sanctuaire de Vesta chez des auteurs contemporains et postérieurs43, ce qui
prouve qu'elle était bien attestée à Rome, mais il faut souligner dès à
présent qu'aucun document littéraire ne fait allusion à la présence de
la statue à Rome avant le IVe siècle. Encore peut-on remarquer que les
textes de Cicéron et de Tite-Live peuvent attester anachroniquement
l'existence de la statue aux IIIe et IVe siècles.
Nous ne possédons aucune représentation figurée du Palladium,
sûrement identifiée, antérieure au règne d'Auguste. E. Paribeni44 a cru
pouvoir reconnaître dans la tête assez mutilée d'Athéna trouvée sur le
Palatin, appartenant à une statue identifiée par lui comme une œuvre
attique du VIe siècle, le fameux Palladium du sanctuaire du Forum.
Mais cette suggestion paraît «tout à fait hypothétique» à F.
Castagnoli45, de même que la proposition faite par G. Colonna46 d'identifier
comme le Palladium la statuette de terre cuite dont on a découvert la

41 V, 52, 7 : « Faut-il citer le feu éternel de Vesta et la statue, gage de notre puissance,
gardée dans son temple?» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1969).
42 XXVI, 27, 14 : «Ils avaient cherché à atteindre le temple de Vesta, son feu éternel,
et, caché dans son sanctuaire, le gage donné par le destin à l'empire romain» (trad.
E. Lasserre, Paris, 1950).
43 Sénèque, Contr., I, 3, 1 ; Properce, IV, 4, 45; Ovide, Fastes VI, 424-435; Pline, N.H.
VII, 45, 141; Lucain, Pharsale 1, 598; Juvénal, Sat. Ill, 139.
44 Una testa di Minerva arcaica del Palatino, BA, 49, 1964, p. 193-198.
45 Ancora sul culto di Minerva a Lavinio, BCAR, 90, 1985, p. 12 n. 32.
46 Naissance de Rome, Catalogue de l'Exposition, Paris, 1977, η. 707.
462 LES PÉNATES PUBLICS

tête sur la Vèlia, datable du dernier quart du VIe siècle. Si l'on suit
F. Castagnoli, il n'y a donc pas d'attestation iconographique du
Palladium avant le Ier siècle après J.-C.
Sous le règne d'Auguste, on voit le Palladium pour la première fois
sur la base de Sorrente47 : la statue d'Athéna armée apparaît dans
l'encadrement de la porte entre les colonnes du sanctuaire de Vesta;
encore faudrait-il avoir la certitude que le relief représente bien YAedes Ves-
tae du Forum, et non un temple de la déesse qu'Auguste aurait fait
construire sur le Palatin48, édifice dont l'existence est d'ailleurs
discutée49; G. E. Rizzo50 et M. Guarducci51 pensent que le sanctuaire a bien
été bâti par Auguste sur le Palatin, et que c'est lui qui figure sur la base
de Sorrente. Posant plus précisément le problème de la présence du
Palladium sur le relief, M. Guarducci fait remarquer52 que la statue
d'Athéna, tenue hors de portée des regards profanes, n'aurait, selon
une tradition rapportée par Hérodien53, été montrée au public pour la
première fois qu'à la fin du IIe siècle après J.-C, sous le règne de
Commode, et affirme qu'il ne peut s'agir, sur notre relief, que d'une copie
du «vrai» Palladium, celui du sanctuaire du Forum, qu'Auguste aurait
fait exécuter pour la placer dans le temple du Palatin. Cette hypothèse
permet de rendre compte d'un fait à première vue peu vraisemblable :
la représentation figurée, sur le relief, d'une statue que nul ne devait
voir. Cependant, ne montrer qu'une copie du Palladium rendait-il
possible de contourner l'interdit religieux pesant sur lui? La réponse à cette
question est d'autant plus délicate que, comme nous le verrons plus
loin, une partie de la tradition affirme qu'il a existé très tôt, à Troie
même, des copies du Palladium. Après l'époque d'Auguste, on constate
la présence de la statue sur des monnaies à partir du règne de Galba54 :
elle figure aux côtés d'une représentation de Vesta. Nous avons vu plus

47 G. E. Rizzo, La base di Augusto, BCAR, 60, 1932, p. 7-109.


48 Voir M. Guarducci, Enea e Vesta, MDAI(R), 78, 1976, p. 90 sq., pour un résumé des
arguments en faveur de l'identification du monument comme le sanctuaire du Forum
d'une part/ celui du Palatin d'autre part.
49 M. Guarducci, op. cit., 89-90.
50 Ibid.
51 Op. cit. p. 90.
52 Op. cit., p. 109 sq.
53 I, 14, 4.
54 H. Mattingly-E. Sydenham, The Roman Imperial Coinage I, Londres, 1923, pi. XV,
265; L. Ziehen, op. cit., col. 200.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 463

haut55 que, sur une lampe conservée au Musée Kestner de Hanovre, il


fallait reconnaître le Palladium dans la statue qui figure aux côtés
d'Enée fuyant sa patrie avec son père et son fils56; l'épisode se situe à
un moment bien antérieur, dans le déroulement chronologique de la
légende, à la construction du sanctuaire du Forum, mais ce monument
figure tout de même à l'arrière-plan, à gauche d'Enée qui constitue
l'élément central de la scène; le type iconographique du Palladium est
conforme aux représentations traditionnelles où Athéna est figurée
casquée et tenant une lance57. Il apparaît donc que, alors que les
témoignages littéraires font peut-être remonter au IVe siècle la présence du
Palladium sur le Forum, les premières images sûrement identifiées de
la statue datent, elles, de l'époque d'Auguste, et leur rareté s'explique
sans doute en partie par le mystère qui entourait l'ensemble des sacra
du sanctuaire de Vesta et l'interdiction faite aux profanes de les voir.
Comment rendait-on compte de la présence du Palladium «troyen»
à Rome? Elle apparaît généralement liée à la légende de la venue
d'Enée en Italie, et en rapport avec la mention de la même statue à
Lavinium. C'est Cassius Hemina qui a, le premier dans la tradition
littéraire, fait venir le Palladium au Latium58 : Enée le reçoit sur la côte
latine des mains de Diomède, dont nous savons, par les citations de Cal-
listratos et Satyros (elles-mêmes inspirées par le poète Arctinos) faites
par Denys d'Halicarnasse59, qu'il avait dérobé le Palladium à Troie en
compagnie d'Ulysse. Denys, quant à lui, rapporte la tradition selon
laquelle Enée aurait en personne apporté la statue en Italie, les deux
Grecs n'en ayant dérobé que la copie60. Plutarque, enfin, mentionne
une tradition, très répandue selon lui, rapportant à Enée l'introduction
en Italie du Palladium conservé dans l'Aedes Vestae61. Toutefois cet
épisode, tel que nous le présentent les traditions antiques, ne va pas sans

55 Cf. supra p. 228.


56 C'est l'interprétation de F. Castagnoli (Lavinium 1, Rome, 1972, p. 114).
57 Selon Servius (Ad Aen. II, 166), le Palladium était caractérisé par la mobilité des
yeux et de la lance de la déesse : uerum tarnen agnoscitur hastae oculorumque mobilitate.
58 Apud Solin, II, 14 : Nec omissum sit Aenean. . . ut Hemina tradii. . . in agro Laurenti
posuisse castra : ubi. . . a Diomede Palladium suscepit.
59 I, 68-69.
60 II, 66, 5.
61 Cam., 20, 6 : καί πλείστος μεν λόγος κατέχει το Τρωικον έκεΐνο Παλλάδιον άπολεΐ-
σθαι δι' Αινείου κομισθεν εις Ίταλίαν.
464 LES PÉNATES PUBLICS

quelques difficultés ni incohérences62. Après son débarquement sur la


côte du Latium, Enée fonde Lavinium, dont certains habitants, autour
d'Ascagne, fonderont Albe, elle-même cité d'origine de Romulus. Mais
il n'y pas de lien direct entre Enée et Rome (rappelons du reste que le
Troyen ne reçoit pas de culte dans la cité de Romulus); seul peut-être
permettrait d'expliquer la présence du Palladium à Rome l'un des
développements grecs de la légende, au Ve siècle, qui fait d'Enée le
fondateur de Rome63 et qui semble n'avoir eu aucun écho en Italie64; telle
était, d'après Denys d'Halicarnasse65, l'origine de Rome selon Hellani-
cos, Damastes de Sigée, et d'autres dont il ne cite pas le nom; pour ces
auteurs, le nom de Rome aurait été donné par Enée à la nouvelle cité,
et viendrait de celui de Rhomè, l'une des Troyennes, qui aurait joué un
rôle décisif dans l'installation des fugitifs en Italie en invitant ses
compagnes à brûler les vaisseaux pour empêcher un nouveau départ et de
nouvelles errances.
Certaines des traditions concernant les aventures d'Ulysse après la
chute de Troie expliqueraient peut-être aussi la mention du Palladium
«troyen» à Rome. Selon Hellanicos cité par Denys66, Ulysse
accompagnait Enée dans ses voyages «depuis le pays des Molosses», c'est-à-dire
l'Epire, jusqu'à Rome. Il est vrai qu'il n'est fait, dans ce passage,
aucune mention du Palladium, mais il existait chez des écrivains grecs, nous
l'avons vu, une tradition rapportant à Ulysse le vol de la statue. Peut-
être est-ce à lui, donc, qu'on attribuait l'introduction du Palladium à
Rome; mais cette explication reste largement hypothétique.
Il faut souligner toutefois que ces légendes sont des
développements spécifiquement grecs des aventures des protagonistes de la
Guerre de Troie. Il n'existe aucune attestation latine de la venue d'Ulysse en
Italie. Quant aux voyages d'Enée, la tradition romaine considère que

62 Pour M. Sordi (Lavinio, Roma e il Palladio, in Politica e religione nel primo scontro
tra Roma e l'Oriente, Milan, 1982, p. 65-66), le culte d'Athéna à Lavinium préexiste à
l'arrivée d'Enée, tradition qu'a, du reste, suivie Virgile dans l'Enéide (XII, 477 sq.), puis-
qu'Amata et d'autres femmes se réfugient aux pieds de la déesse lors de l'arrivée des
Troyens. Selon M. Sordi, le culte d'Athéna à Lavinium serait, chez Virgile, anti-troyen et
anti-romain.
63 Cf. supra p. 364-5.
64 Contra : T. J. Cornell, Aeneas' arrival in Italy, Liverpool Classical Monthly, 2, 1977,
p. 77-83.
65 I, 72, 2.
66 Ibid.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 465

Lavinium en constitue la dernière étape, et que le héros meurt noyé


dans le Numicus, près de la cité qu'il a fondée67.
D'autre part, si le transfert des sacra par Enée de Troie en Italie, à
l'emplacement de la future Lavinium, est bien attesté dans la tradition
littéraire et iconographique68, il n'existe, à notre connaissance, aucune
légende selon laquelle tout ou partie de ces sacra aurait été transféré de
Lavinium dans une autre cité; une seule tentative (dont nous trouvons
la première mention chez Denys69, et, plus tard, dans YOrigo Gentis
Romanae70) fut faite pour emporter les Pénates installés par Enée à
Lavinium vers Albe, et se solde à deux reprises par un échec, puisque
les dieux revinrent de nuit à Lavinium. Cette légende suggère peut-être,
d'ailleurs, qu'un interdit pesait sur le déplacement des sacra troyens
après leur première installation au Latium. De toute façon, il n'existe
pas d'attestation du transfert du Palladium de Lavinium à Rome.
L'établissement de la tradition de la présence du Palladium à
Rome, qui suppose une duplication de la statue de Lavinium, a dû,
toutefois, être facilité par certains éléments des légendes ayant trait soit
aux sacra troyens, soit à la statue elle-même. D'une part, en effet, elle
trouve un correspondant exact dans la duplication des Pénates publics
de Rome, honorés à la fois à Lavinium et à Rome, et, comme le
Palladium, liés à la légende d'Enée. D'autre part, il semble qu'à la statue de
Pallas aient été attachées, dès ses attestations à Troie, des traditions de
duplication, voire de multiplication, qui ont pu favoriser le
développement de la tradition romaine. Ces dernières sont bien évidemment liées
au pouvoir magique attribué à la statue de conférer la pérennité à la
cité qui la détenait71, et nous sont connues, dans leurs différentes
variantes, par Denys d'Halicarnasse, d'après les compilations de Callis-
tratos et de Satyros, elles-mêmes tirées d'un poème d'Arctinos daté du

67 C'est la tradition rapportée par Servius, Ad Aen. VII, 150: nam Numicus ingens
ante jluuius fuit, in quo repertum est cadauer Aeneae et consecratum ; cf. supra p. 323-6.
68 Cf. supra p. 161-218.
69 I, 67, 1-2.
70 17, 1.
71 C'est ce qu'exprime l'oracle en vers rendu à Dardanos lorsqu'il quitte Samothrace
pour l'Asie avec le Palladium et les images des Grands Dieux, reproduit par Denys (I, 68,
4); G. Dumézil (Ilos, Mon et le Palladium, dans L'oubli de l'homme et l'honneur des dieux,
Paris, 1985, p. 38-46) prête au Palladium une signification « trif onctionnelle ».
466 LES PÉNATES PUBLICS

VIIIe siècle avant J.-C.72 : le Palladium est un don divin d'Athéna à Dar-
danos73 et consiste dès l'origine en deux statues, installées à Troie par
Dardanos; après la prise de la ville, Enée en aurait emporté une, tandis
qu'Ulysse et Diomède auraient volé l'autre. Mais Denys oppose à cette
tradition le récit même d'Arctinos, selon qui une seule de ces statues
aurait été le véritable Palladium, l'autre n'étant qu'une copie destinée à
tromper des voleurs éventuels, et effectivement dérobée par les
Grecs74. Enfin, dans l'Antiquité, de nombreuses cités se targuaient de
posséder le véritable Palladium75. Ces confusions ont sans doute
largement facilité l'établissement des traditions romaines concernant la
statue.
De quand date la prétention des Romains à détenir le Palladium?
W. Volgraff 76 considère qu'elle se formule au IIIe siècle avant J.-C;
pour M. Sordi77, elle s'accompagne nécessairement de la conviction
que la statue de Lavinium est un faux : selon elle, la liste, connue par
Servius78, des sept pignora imperii - dont le Palladium - possédés par
Rome comporte plusieurs couches chronologiques, exprimant
l'élargissement progressif des ambition romaines de domination; la présence
supposée, à Rome, du vrai Palladium, daterait du conflit avec Antio-
chus, en 192 avant J.-C; L. Ziehen79, à la suite de G. Wissowa, date au
contraire les prétentions romaines du temps de Varron. Nous croyons
préférable de considérer que la tradition selon laquelle YAedes Vestae
du Forum aurait enfermé le Palladium de Troie est intimement lié au
rôle assigné par les Romains à Enée, d'une part comme fondateur de
Lavinium80, mais surtout comme ancêtre de tous les Latins, légende

72 I, 68, 3; sur Arctinos, voir H. G. Evelyn- White, Hesiod; the Homeric Hymns and
Homerica, Loeb Classical Librairy, Londres, 1920, p. XXXI; M. L. West met en doute la
valeur du témoignage de Denys, qui est de troisième main (Hesiod, Theogony, Oxford,
1966, p. 432).
73 Selon une tradition rapportée par Varron (chez Servius, Ad Aen. II, 166) et Ovide
(Fastes VI, 421), le Palladium était tombé du ciel.
74 I, 69, 2-3.
75 L. Ziehen, op. cit., col. 171-172; E. Paribeni, in E.A.A., V, s.u. Palladio, p. 893-97;
G. Pugliese Carratelli, Roma e Magna Grecia prima del secolo quarto a.C, PP, 23, 1968,
p. 324 sq. ; F. Castagnoli, op. cit. p. 7.
76 Le Palladium de Rome, BAB, 1938, p. 34 sq.
77 Op. cit., p. 74-77.
78 Ad Aen. VII, 188.
79 Op. cit., col. 183.
80 F. Castagnoli, op. cit., p. 12 n. 32.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 467

qui donne à Rome l'héritage de Troie. La mention du Palladium dans le


sanctuaire du Forum est donc une des conséquences de la légende
faisant d'Enée ancêtre des Romains, et daterait, si nos hypothèses sont
exactes81, du milieu du IVe siècle avant J.-C.82.
Expression hautement symbolique des liens de filiation unissant
Rome à Lavinium et à Troie, cette duplication du Palladium s'explique
par le désir de Rome d'être l'héritière des cultes les plus prestigieux de
la cité fondée par Enée, et elle a un correspondant exact dans la
duplication des Penates publici à Lavinium et à Rome.

4) Les Pénates

Les Pénates faisaient-ils partie des sacra conservés dans le


sanctuaire de Vesta sur le Forum? Les spéculations des érudits modernes
semblent tenir pour certaine une réponse positive83. Au demeurant,
comme nous l'avons déjà noté plus haut, les témoignages
archéologiques manquant totalement, nous ne pouvons nous référer qu'à la
tradition littéraire; or, chez tous les auteurs anciens, il n'est jamais question
que de sacra, ou de Ιερά; le seul qui mentionne explicitement la
présence des Pénates dans YAedes Vestae est Tacite : delubrum Vestae cum

81 Voir supra p. 339 sq.


82 Au contraire, pour C. Ampolo {Analogie e rapporti fra Atene e Roma arcaica.
Osservazioni sulla Regia, sul Rex sacrorum e sul culto di Vesta, PP, 26, 1971, p. 455), la présence
du Palladium au côté de Vesta à Rome et à Lavinium a pour modèle le lien entre Pallas et
le foyer sacré à Athènes, et X interpretatio par Rome de ces cultes athéniens date de la fin
du VIe siècle (contra F. Castagnoli, op. cit., p. 12 n. 32); d'autre part, la légende de
l'introduction au Latium du Palladium est parfois liée non à Enée, mais à Ulysse, l'un des
auteurs du rapt de la statue et ancêtre, selon Hésiode (Théogonie, v. 1011-1016), d'Agrios
et Latinos (cf. G. Dury-Moyaers, Enée et Lavinium. A propos des découvertes
archéologiques récentes, Coll. Latomus, vol. 174, Bruxelles, 1981, p. 40); ces derniers seraient les rois
latins de Lavinium et d'Albe (ibid., p. 43 η. 58 et 59), à qui leur père aurait peut-être
transmis le Palladium (contra A. Alföldi, Die Struktur des voretruskischen Römerstaates,
Heidelberg, 1974, p. 115); l'introduction de la statue en Italie n'aurait été rapportée à
Enée qu'au IVe siècle (M. Sordi, op. cit., p. 67; F. Castagnoli, op. cit., p. 11 n. 25).
83 Pourtant, Servius (Ad Aen. VII, 188), expliquant la signification de ancile, écrit :
septem fuerunt pignora, quae Imperium Romanum tenent : Faius matris Deum, quadriga
fictilis Veientanorum, cineres Orestis, sceptrum Priami, uelum Ilionae, Palladium, ancilia.
Le chiffre sept a évidemment une valeur magique ; parmi ces pignora, seuls le sceptre de
Priam et le Palladium sont «troyens», et tous ne sont pas gardés dans le sanctuaire de
Vesta; pour l'interprétation de ce texte, cf. M. Sordi, op. cit., p. 74-75.
468 LES PÉNATES PUBLICS

Penatibus populi Romani exusta84. Soulignant fortement la singularité


de ce témoignage, A. Brelich85 a contesté, non la bonne foi de Tacite,
mais l'exactitude du renseignement par lui fourni; certes, note-t-il, il
s'agit d'une argumentation ex silentio; le fait que seul le témoignage de
Tacite nous soit parvenu peut n'être qu'un hasard, mais il est plus
curieux de constater que de nombreux auteurs ont mentionné les objets
sacrés contenus dans le Penus Vestae, raconté leur histoire, ou tel
épisode de leur histoire, sans jamais les désigner clairement comme les
Pénates. Aussi A. Brelich s'efforce-t-il de montrer que le témoignage de
Tacite ne peut que refléter une confusion datant de l'époque augustéen-
ne. Résumons brièvement sa démonstration. A l'époque républicaine, le
culte des Pénates était bien distinct de celui de Vesta. Ces dieux étaient
l'objet d'un culte à Lavinium, où l'on considérait qu'ils avaient été
apportés de Troie par Enée. A Rome, ils étaient honorés dans un
temple à eux spécifiquement dédié, sur la Vèlia, sous une forme qui était
celle des Grands Dieux de Samothrace (A. Brelich note au passage que
la distinction entre Pénates et Grands Dieux n'a nullement été faite par
Varron mais, pour la première fois, au IVe siècle, par Servius86: deux
jeunes gens assis armés d'une lance. Aucun lien n'a existé à l'époque
républicaine, ni à Lavinium, ni à Rome, entre Vesta et les Pénates. Mais
au moment où Auguste, après son accession au pouvoir, se fait
construire une maison sur le Palatin, et édifie sur cette même colline un
sanctuaire à Vesta, ce dernier abrite un foyer qui est à la fois celui
d'Auguste et celui de l'Etat; au titre de foyer d'Auguste, on y honore les
Pénates de la Gens Iulia, apportés par Enée, selon la légende, de Troie
en Italie, ceux de Lavinium donc; ainsi se trouvent pour la première
fois associés, selon A. Brelich, Vesta et les Pénates, au foyer d'Auguste
devenu celui de l'Etat; les liens attestés par Servius et Macrobe entre
ces mêmes divinités à Lavinium, ne sont qu'un reflet de la pratique
romaine, datable, donc, au plus tôt, de l'époque augustéenne. Etant
donné la confusion dès lors établie entre les cultes, originellement
distincts, de Vesta et des Pénates, à Rome sur le Palatin, et à Lavinium, il
n'est pas surprenant, ajoute-t-il, que Tacite ait pu considérer que le

84 Ann. XV, 41, 1.


85 Vesta, p. 75-85.
86 II faudrait alors admettre, comme le fait C. Peyre (Castor et Pollux et les Pénates
pendant la période républicaine, MEFR, 74, 1962, p. 453), que Servius n'est pas fidèle à la
doctrine de Varron lorsqu'il écrit (Ad Aen. III, 12) : Varrò quidem unum esse dicit Penates
et Magnos Deos. Voir ci-dessus p. 433-7.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 469

sanctuaire de Vesta sur le Forum abritait, lui aussi, les Penates populi
Romani.
Telle est, résumée à grands traits, l'argumentation d'A. Brelich,
fondée essentiellement sur le silence de la tradition littéraire
concernant la présence des Pénates dans YAedes Vestae à l'époque
républicaine, et, d'autre part, sur le caractère unique et la date du témoignage de
Tacite. Cependant, il nous semble que la présence, parmi les sacra de
YAedes Vestae, du phallus sacré et du Palladium peut être un argument
contre la thèse d'A. Brelich. Il est clair, en effet, que l'un et l'autre ont
une valeur de talisman : ils sont des gages de fécondité dans un cas, de
pérennité dans l'autre; à leur présence est attachée l'existence même de
Rome. Or, précisément, dans la légende de la fuite d'Enée emportant
ses dieux, dans les pratiques du culte privé, dans l'usage même que
font les textes du mot Penates, on voit que ces dieux représentent
l'essence de la maison, ou de la patrie, qu'ils peuvent désigner par
métonymie. Est-il alors vraiment surprenant qu'ils soient conservés au foyer
de l'Etat87? D'autre part, l'analogie avec les faits lavinates - rappelons
que le sacrifice des magistrats romains à Lavinium était dédié à Vesta
et aux Pénates, ce qui laisse supposer un temple commun88 - a pu
jouer en faveur de l'identification comme Pénates des sacra de YAedes
Vestae*9.
A cette première série d'arguments, nous voudrions à présent en
ajouter deux autres, qui tendent, croyons-nous, à établir que les Pénates
de l'Etat se trouvaient bien dans le sanctuaire de Vesta antérieurement
à l'époque augustéenne. Ce sont, d'abord, les récits qui nous sont
parvenus concernant l'histoire des sacra du sanctuaire, récits qui prouvent,
selon nous, des parentés entre eux et les Pénates publics que nous
connaissons par ailleurs à Lavinium et sur la Vèlia; d'autre part, la
présence des Pénates publics dans YAedes Vestae nous paraît s'expliquer
par la signification topographique et historique de ce monument dans
la Rome archaïque; enfin, la légende des origines troyennes de Rome a
pu exercer une certaine influence sur les traditions concernant ce
troisième lieu du culte des Pénates publics.

87 Cf. G. Radke, Die dei pénates und Vesta in Rom, p. 371-72.


88 Voir supra p. 292-8; 355-61.
89 La présence, à Lavinium, d'un culte phallique, ainsi que celle, hypothétique, du
Palladium, tout en étant comparables aux faits romains, ne suffisent pas à prouver
l'existence de Pénates dans YAedes Vestae, dans la mesure où phallus et Palladium semblent
avoir reçu à Lavinium un culte indépendant de celui des Pénates.
470 LES PÉNATES PUBLICS

II - L'histoire des sacra de l'Aedes Vestae

II ne nous est possible de reconstituer une histoire des sacra du


sanctuaire de Vesta que par les épisodes, peu nombreux, où ils sont
expressément mentionnés. Ils le sont principalement à l'occasion des
récits que font historiens ou poètes soit de l'invasion gauloise, soit des
incendies qui, à plusieurs reprises, ravagèrent l'édifice : cela les amène
à parler de la nécessité de sauver les sacra, et, par conséquent,
d'expliquer pourquoi ils sont si précieux, et même indispensables à la survie
de Rome.

1) L'invasion gauloise de 390 avant J.-C.

La présence de sacra particulièrement précieux à l'intérieur du


sanctuaire de Vesta est mentionnée pour la première fois à l'occasion
de l'invasion gauloise de 390 av. J.-C.90, et de l'émotion suscitée à Rome
par l'arrivée des Gaulois dans la ville, après la défaite romaine de
l'Allia. Nous avons de ces événements deux récits détaillés de Tite-Live et
Plutarque, et deux mentions rapides, chez Valére Maxime et Florus.

A) Le récit de Tite-Live

Tite-Live raconte qu'à Rome, devant le danger, on décide de se


rassembler, avec vivres et armes, sur le Capitole, ainsi transformé en une
véritable forteresse, où l'on protégerait «les dieux, les hommes, et le
nom romain» (deos hominesque et Romanum nomen defendere)91; on
prend aussi, ajoute Tite-Live, les dispositions suivantes : flaminem sa-
cerdotesque Vestales sacra publica a caede, ab incendiis procul auferre,
nec ante deseri cultum eorum quant non superessent qui colerent92.
L'interprétation qu'il faut donner de ces sacra publica est assez délicate;
elle est liée à celle des mots flaminem, sacerdotesque Vestales, leçon
choisie par J. Bayet93; d'autres manuscrits donnent flamines, ou
sacerdotesque et Vestales. Le fait que, si l'on accepte flaminem, au singulier,

90 S. Weinstock, R.E., XIX, 1, s.u. Penates, col. 442.


91 V, 39, 9-10.
92 V, 39, 11 : «Le flamine et les prêtresses de Vesta mettraient les objets du culte
national à l'abri de la destruction et de l'incendie, on n'abandonnerait pas le culte des
dieux, tant qu'il resterait quelqu'un pour l'assurer» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1969).
93 Ibid. p. 64-65 n. 1.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 471

le prêtre ne soit pas également désigné par le nom du dieu qu'il servait
est assez surprenant94, mais J. Bayet justifie le choix de cette leçon par
la suite du texte ; nous y reviendrons. La leçon sacerdotesque et Vestales
donnerait à entendre que c'est de l'ensemble des prêtres et prêtresses
de Rome qu'il s'agit, ce qui rend alors difficilement compréhensible la
mention du flaminem : en effet, les leçons flamines d'une part, et
Vestales d'autre part, se trouvent dans des manuscrits différents95. Si l'on
accepte, comme le fait J. Bayet, la leçon Vestales, il est permis de
penser que les sacra publica mentionnés sont uniquement ceux du
sanctuaire de Vesta, considérés comme les plus saints et les plus importants de
Rome, ce qui semble bien confirmé, nous allons le voir, par le récit que
fait Tite-Lïve de la suite de l'épisode. Cependant, dans la fin de la
phrase, nous croyons pouvoir relever une discordance entre la leçon cultum
eorum, choisie par J. Bayet, de préférence à cultum deorum donnée par
un manuscrit, et la traduction «le culte des dieux» de G. Baillet. La
leçon eorum nous paraît un argument en faveur de notre
interprétation : l'anaphorique renvoie à sacra publica, et il s'agirait des sacra de
l'Aedes Vestae, auxquels est lié le salut de Rome. Du reste, l'ensemble
du passage cité, et la suite96, semblent bien marquer une opposition
entre les dieux gardés par les Romains sur le Capitole (ceux de la
Triade Capitoline évidemment, mais peut-être d'autres dont on aurait
envisagé de mettre les statues en lieu sûr dans la citadelle ou dans le triple
temple du Capitole), et ceux que les prêtres emportent loin de Rome.
Dans la suite de son récit, Tite-Live explique que le Capitole étant
une colline trop petite pour accueillir l'ensemble de la population de
Rome; les plébéiens renoncent à ce refuge et se dirigent vers le Janicu-

94 Habituellement, le nom du flamine est suivi d'un adjectif formé sur le nom du
dieu qu'il sert (Dialis, Martialis, etc. . .); G. Dumézil (Flamen-Brahmane, Paris, 1935, p. 43-
44) note l'étroite dépendance où se trouve ce prêtre par rapport à son dieu, et souscrit
entièrement à la définition qu'en donne C. Jullian (in D.A. II, p. 1159 b) : «esclave du dieu
dont il est prêtre»; id., La religion romaine archaïque, 2e éd. Paris, 1974, p. 118 sq.; il
semble donc naturel que le flamine soit toujours désigné par le nom de son dieu.
95 R. M. Ogilvie (A Commentary on Livy, Books 1-5, Oxford, 1965, p. 722) souligne
très clairement les deux problèmes posés par ce passage : qui est ce flamine ? Sacerdotes
désigne-t-il les Vestales, ou est-il employé pour distinguer d'elles d'autres collèges de
prêtres qui auraient fui en leur compagnie? Le rapprochement avec le passage que nous
citons ci-dessous (V, 40, 7) amène R. M. Ogilvie à identifier le flamine comme celui de
Quirinus, tandis que les sacerdotes seraient les Vestales, interprétation appuyée sur le
commentaire de Weissenborn (Liv., V, Berlin, 1821, ad /oc).
96 V, 39, 2 : si arx Capitolium, sedes deorum. . .
472 LES PÉNATES PUBLICS

le, ou encore vers la campagne ou des villes voisines. Il poursuit :


Flamen interim Quirinalis uirginesque Vestales, omissa rerum suarum cura,
quae sacrorum secum ferenda, quae, quia uires ad om.nia ferenda dee-
rant, relinquenda essent consultantes, quisue ea locus fideli adseruaturus
custodia esset, optimum ducunt condita in doliolis sacello proximo aedi-
bus flaminis Quirinalis, ubi nunc despui religio est, defodere; cetera inter
se onere partito ferunt uia quae Sublicio ponte ducit ad Ianiculum. In eo
cliuo eas cum L. Albinius de plebe homo conspexisset plaustro coniugem
ac liberos auehens inter ceteram turbam quae inutilis bello urbe excede-
bat, saluo edam turn discrimine diuinarum humanarumque rerum reli-
giosum ratus sacerdotes publicas sacraque populi Romani pedibus ire fer-
rique, se ac suos in uehiculo conspici, descendere uxorem ac pueros ius-
sit, uirginesque sacraque in plaustrum imposuit et Caere, quo iter sacer-
dotibus erat, peruexit97.
Tel est le récit de Tite-Live, qui, pour détaillé qu'il soit, laisse
planer beaucoup d'incertitudes sur les points qui nous importent.
L'identité des prêtres qui sont les héros de cet épisode ne nous semble pas
sujette à caution, et est clairement indiquée dès les premiers mots : ce
sont le flamine de Quirinus et les Vestales, qui vont tous jusqu'à Caeré;
car si Tite-Live indique bien que seules les Vestales montent dans le
chariot qui emporte vers Caeré Lucius Albinius et sa famille (eas cum
conspexisset, sacerdotes publicas, uirgines), c'est sans doute parce que
cet homme, présenté comme un modèle de respect et de piété, juge
scandaleux, non pas que des femmes aillent à pied (il fait descendre du
chariot non seulement ses enfants, mais sa propre épouse pour faire
place aux Vestales), mais qu'aillent à pied les femmes chargées du plus

97 V, 40, 7-10 : «Cependant, le flamine de Quirinus et les Vestales, sans songer à eux-
mêmes, se demandent quels objets sacrés ils doivent prendre avec eux, lesquels il faut
laisser faute de pouvoir tout emporter, et dans quelle cachette fidèle ils les mettront en
sûreté. Le mieux, pensent-ils, est de les enfermer dans des jarres, et de les enterrer dans
une chapelle voisine de la maison du flamine de Quirinus, à l'endroit où aujourd'hui
encore il est sacrilège de cracher. Quant aux autres objets, ils se partagent entre eux le
fardeau et les emportent par la route qui mène au Janicule par le pont Sublicius. Les
prêtresses montaient la côte quand un homme de la plèbe, Lucius Albinius, les aperçut. Il
emmenait sur un chariot sa femme et ses enfants parmi toute la foule des
non-combattants qui évacuait Rome, Sachant même en un pareil moment faire une différence entre
les choses divines et les choses humaines, et se faisant scrupule de voir à pied des
prêtresses de l'Etat avec les objets sacrés du peuple romain tandis que sa famille était en
voiture, il fit descendre sa femme et ses enfants, installa sur son chariot les Vestales et les
objets sacrés et les conduisit à Caeré, où les prêtres se rendaient» (op. cit.).
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 473

prestigieux sacerdoce de Rome, parce qu'il exige un dévouement de


toute la personne qui revêt cette charge à la divinité. Il est probable, au
demeurant, qu'une fois les Vestales installées sur le chariot de Lucius
Albinius, le flamine de Quirinus continue de les escorter, à pied,
comme le suggère très bien, à la fin de notre passage, la traduction «les
prêtres» que donne G. Baillet pour sacerdotibus. Il faut encore
expliquer la présence du flamine de Quirinus aux côtés des Vestales
pendant tout cet épisode, et nous pensons que c'est de lui qu'il était
question dans le passage précédent (flaminem sacerdotesque Vestales),
beaucoup plus probablement que du flamine de Jupiter, bien que l'absence
de l'adjectif Dialis ait pu suggérer cette dernière interprétation à
J. Bayet98, et que le flamine de Jupiter soit en effet le premier dans
l'ordre hiérarchique.
Au demeurant, il n'existe, à notre connaissance, aucun lien
religieux particulier entre le flamen Dialis et les Vestales, ces dernières
étant seulement placées sous la dépendance du Pontifex Maximus, qui
les «prend» et veille sur elles". Pour quelle raison les prêtresses sont-
elles ici liées au flamine de Quirinus, ou du moins, agissent-elles de
concert avec lui? Au cours de l'une des trois cérémonies où nous
savons que le flamine de Quirinus jouait un rôle100, il n'apparaît associé
aux Vestales que lors de la fête du blé engrangé, les Consualia.
Comment justifier, dès lors, son intervention aux côtés des Vestales au
moment de l'invasion gauloise? Une explication nous paraît possible :
Quirinus «veille à la subsistance, au bien-être, à la durée de cette (= des
Romains) masse sociale», laissant la «superstructure idéologique» à
Jupiter et Mars101. Peut-être, en des circonstances aussi dramatiques,
est-ce au prêtre de cette divinité protectrice que l'on a confié la survie
toute matérielle des sacra populi Romani du sanctuaire de Vesta102.

98 Op. cit., p. 64-65, n. 1 ; J. Bayet renvoie à Liv., V, 52, 13-14; mais dans le passage en
question, il n'est pas réellement établi de lien entre les Vestales et le flamine de Jupiter :
Tite-Live se contente de les présenter comme les prêtres les plus prestigieux de Rome, et
flamen employé seul (§ 14) renvoie évidemment au flamen Dialis mentionné quelques
lignes plus haut (§ 13).
99 Voir G. Dumézil, «.Te, amata, capto», Quinze Questions Romaines, Dans Mariages
Indo- Européens, Paris, 1979, p. 241-243.
100 Cf. G. Dumézil, La religion romaine archaïque, p. 168-172.
101 G. Dumézil, op. cit., p. 257.
102 II est possible, également, que la tradition rapportée par Tite-Live s'explique par
l'identification du fondateur, Romulus, à Quirinus, dont le prêtre interviendrait ici pour
sauver la ville dans ce qu'elle a de plus sacré ; mais la datation de cette identification fait
474 LES PÉNATES PUBLICS

Reste à définir plus précisément ces sacra, pour lesquels deux


interprétations sont possibles: ou bien, comme le propose J. Bayet103,
on considère qu'il s'agit de l'ensemble des «fétiches» de Rome, toutes
les reliques et les objets auxquels était attaché un pouvoir magique, ou
bien on ne voit dans les sacra publica dont parle Tite-Live sans autre
précision que ceux de l'Aedes Vestae. Il est évident que les mots
employés par l'historien laissent flotter une incertitude autour des objets
en question, évident aussi que l'interprétation que l'on donne de ces
sacra dépend en partie de celle que l'on donne de l'identité des prêtres
qui ont été les agents effectifs de leur sauvetage, aidés par le plébéien
Lucius Albinius. On peut, bien sûr, objecter à l'interprétation la plus
étroite des sacra comme ceux du Penus Vestae, qu'il n'est pas exclu que
les Vestales, dont le collège, parmi tous les sacerdoces de Rome, était le
plus vénéré et le plus considéré, aient pu s'occuper aussi d'autres sacra
que ceux que renfermait le sanctuaire de la déesse au service de
laquelle elles étaient consacrées. D'autre part, des objets sacrés, les ancilia,
étaient conservés dans le sacrarium de Mars à l'intérieur de la Regia 104,
bâtiment situé tout à côté de l'Aedes Vestae et de la Maison des Vestales,
et dont nous verrons qu'il était lié très étroitement à l'ensemble
constituant l'Atrium Vestae, ce qui pourrait expliquer l'intervention des
prêtresses.
Tite-Live donne une autre précision qui, loin d'aider à résoudre le
problème de l'identité des sacra emportés par les prêtres, ajoute à sa
confusion. Les Vestales et le flamine, nous dit-il, renoncent à emporter
dans leur fuite tous les sacra, trop encombrants (quia uires ad omnia

problème : cf. G. Dumézil (op. cit., p. 260) qui, refusant de la considérer comme une fable
répandue par la Gens Iulia, à des fins de propagande politique, au Ier siècle av. J.-C,
estime qu'elle peut dater «du temps même où les légendes sur les origines de Rome
recevaient leur forme définitive»; pour R. M. Ogilvie (op. cit., p. 724), la seule circonstance où
les Vestales et le flamine de Quirinus apparaissent conjointement est la fête des Consua-
lia, et le point commun entre elle et le sauvetage des sacra servait peut-être, pense-t-il, le
suivant : Consus étant le dieu de l'emmagasinage, il serait naturel que son flamine
participe à celui des sacra; de plus, les Consualia sont une «fête sabine», et Quirinus était le dieu
de la communauté sabine du Quirinal avant son identification avec Romulus; selon
F. Coarelli, au contraire (Foro Romano I : Periodo arcaico, Rome, 1983, p. 284), les cultes
auxquels est attaché le Flamen Quirinalis ont un caractère chthonien et funéraire, et
notamment les Consualia.
103 Op. cit., p. 66 η. 1.
104 Servius, Ad Aen. Vili, 663; voir U. Scholz, Studien zum altitalische und
altrömischen Marskult und Marsmythos, Heidelberg, 1970, p. 26-29.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 475

f erenda deerant); aussi en font-ils deux parts, dont l'une, laissée à


Rome, est cachée dans des jarres enfouies dans une chapelle proche de
la maison du flamine de Quirinus (optimum ducunt condita in doliolis
sacello proximo aedibus flaminis Quirinalis. . . defodere), l'autre
effectivement emportée par eux. Quel fut le critère du choix? Emportèrent-ils
les moins encombrants, les plus précieux? Tite-Live ne nous en dit rien,
ce qui laisse supposer que la tradition était assez confuse sur ce point,
et nous croyons pouvoir saisir, à travers le récit que nous a livré
l'historien, les traces de pratiques religieuses très anciennes dans l'anecdote
de l'enfouissement des sacra105. Tite-Live précise que le lieu où ils
furent enterrés est resté entouré d'interdits religieux : nunc despui
religio est.
Or, sur ce lieu-dit Doliola, Varron nous rapporte une autre
tradition : Locus qui uocatur Doliola ad Cluacam Maximam, ubi non licet des-
puere, a doliolis sub terra. Eorum duae historiae, quod alii inesse aiunt
ossa cadauerum, alii Numae Pompila religiosa quaedam post mortem
eius infossa106; cette notice n'a de commun avec le récit de Tite-Live que
l'interdiction religieuse de cracher en ce lieu; elle localise les Doliola
près de la Cloaca Maxima, sans plus de précision, tandis que Tite-Live
les plaçait près de l'Aedes flaminis Quirinalis, dont l'emplacement ne
nous est pas autrement connu. Aussi G. Lugli107 se fonde-t-il sur la

105 J. Gagé (Le chariot d'Albinius et le transfert des sacra au temps de l'invasion
gauloise à Rome, in Enquêtes sur les structures sociales et religieuses de la Rome primitive, Coll.
Latomus, vol. 152, Bruxelles, 1977, p. 520-545) donne de l'épisode une interprétation qui
tend à abolir cette distinction ; en effet, relevant le rapport établi par les Anciens entre les
mots Caere et caerimonia, il suppose que la ville est à l'origine de cette pratique, mal
connue, et consistant sans doute, selon lui, en «une demi-exibition aux fidèles de
symboles divins d'ordinaire invisibles» (p. 533), d'origine pélasge, et exprimant, dans le fait de
promener ces symboles , « le souvenir et le respect essentiel du mouvement de migration »
(p. 534), caractéristiques de ces peuples; J. Gagé fait enfin remarquer que les sacra qui
furent transportés et ceux qui furent enfouis sont sans doute les mêmes : « La caerimonia
d'Albinius aurait compris, selon nous, le placement et la promenade de symboles très
sacrés sur un chariot sans valeur officielle, mais probablement aussi le dépôt scrupuleux
de ces symboles au terme de l'itinéraire, en les faisant descendre du chariot pour leur
assigner un lieu où ils seraient inviolables et invisibles» (p. 537).
106 De L.L. V, 157 : «Le lieu que l'on appelle Doliola, situé près de la Cloaca Maxima,
et où il est interdit de cracher, tire son nom de jarres enfouies sous terre. Il existe deux
traditions concernant ces dernières, puisque les uns disent qu'elles contiennent des os de
morts, les autres des objets sacrés ayant appartenu à Numa, enfouis là après sa mort».
107 / monumenti minori del Foro Romano, Rome, 1947, p. 101-110; E. Nash, Pictorial
Dictionary of Ancient Rome, Tübingen, 1962, p. 305-6.
476 LES PÉNATES PUBLICS

proximité des Doliola avec la Cloaca Maxima pour les localiser au


Forum Boarium, où des traces de l'égout sont visibles. Cette hypothèse,
qui impliquerait que YAedes Flaminis Quirinalts y fût située aussi,
présente l'inconvénient, justement souligné par F. Coarelli108, de placer les
Doliola en un lieu assez éloigné du sanctuaire de Vesta, rendant ainsi
difficilement explicable que les Vestales le choisissent pour y
transporter les sacra. Au contraire, la localisation proposée par F. Coarelli, en
plein Forum, sur l'emplacement ensuite occupé par YEquus Domitia-
ni 109, a le mérite de ne pas susciter semblable objection, de se trouver à
proximité d'une section de la Cloaca Maxima, et de suggérer une
localisation de YAedes Flaminis Quirinalts, sur le Forum, qui paraît
compatible avec ce que nous savons d'autre part des fonctions de ce prêtre110.
L'autre tradition dont Varron se fait l'écho ici n'est pas moins
intéressante, puisque, recoupant dans une certaine mesure ce que dit Tite-
Live, elle affirme que les Doliola auraient été liés au souvenir d'objets
sacrés (religiosa quaedam) ayant appartenu à Numa. Or, si l'on se
rappelle que la construction de YAedes Vestae est attribuée au même
Numa111, cela plaide en faveur d'une identification des sacra dont le
sauvetage est évoqué ici avec ceux du temple de Vesta. Festus explique
le nom du lieu-dit Doliola d'une façon semblable à Tite-Live, mais avec
moins de précision : Doliola locus in Urbe sic uocatus quia inuadentibus
Gallis Senonibus sacra in eodem loco doliolis reposita fuerunt112; les
circonstances historiques sont les mêmes que chez l'historien, mais il n'est
pas question de l'autre partie des sacra, transportés à Caeré. Le seul
point commun à toutes les traditions concernant ces jarres et le lieu où
elles furent enfouies est le caractère sacré des objets qu'elles
contenaient, caractère qui se manifeste par l'interdiction religieuse de
cracher en cet endroit.
Malgré tout, la définition de ces sacra, ou religiosa, reste fort vague,
ce qui n'est peut-être pas surprenant pour des objets mystérieux, invisi-

108 Op. cit., p. 284.


109 Op. cit., p. 286.
110 F. Coarelli (op. cit., p. 284) note à ce propos que les maisons des flamines majeurs
ne devaient pas être trop éloignées de la Regia, demeure du rex dont ils étaient les
proches collaborateurs dans ses activités religieuses.
111 Plutarque, Numa, 11 ; Festus, 320 L.
112 60 L. : «Doliola est un endroit de la ville qui tire son nom du fait que, lors de
l'invasion des Gaulois Senons, les sacra furent déposés dans des jarres (doliolis) en ce
même lieu».
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 477

bles. On a l'impression que Tite-Live rapporte à des événements précis,


l'invasion gauloise de 390 avant J.-C. et le transfert des sacra, la légende
attachée au lieu-dit Doliola, que d'autres témoignages, que nous
connaissons par Varron, rapportaient à des événements différents, bien
antérieurs. Au demeurant, la confrontation des textes de Tite-Live et de
Varron n'éclaire pas vraiment la question de la définition des sacra
sauvés en 390.
S. Weinstock113 a cru*· pouvoir déduire du récit de Tite-Live une
confirmation de sa théorie d'un double culte des Pénates-Dioscures à
Rome et à Lavinium; rappelons rapidement l'essentiel de sa
démonstration : à Rome, les Pénates sont honorés sur la Vèlia sous une forme qui,
telle que nous la voyons représentée sur le relief de l'Ara Pacts, est
identique à celle des Dioscures, avec qui ils sont confondus; pour Lavinium,
Timée fait état d'un culte des Pénates sous forme de κέραμος Τρωικός;
or, le récit de Tite-Live nous apprend que les sacra des Pénates
conservés dans le Penus Vestae furent à cette occasion placés dans des doliola,
qui, selon S. Weinstock, sont l'exact correspondant de la «poterie
troyenne» mentionnée par Timée. Nous avons déjà dit114 que la
conclusion de S. Weinstock, pour qui Pénates et Dioscures sont dès l'origine
les mêmes divinités, nous paraissait difficilement acceptable; sur le
point précis des Doliola, son argumentation n'est pas convaincante, car
d'une part, il ne met nullement en doute l'équation sacra du Penus
Vestae = Pénates; d'autre part, dire, comme le fait Tite-Live, que les sacra
ont été cachés dans des doliola, ne signifie nullement qu'ils sont ces
doliola. Aussi nous semble-t-il impossible d'arguer du texte de Tite-Live
pour affirmer que les sacra étaient les doliola, donc les Dioscures-Péna-
tes115.

113 Two archaic inscriptions from Latium, JRS, 50, 1960, p. 112-114.
114 Voir supra p. 431 sq.
115 La suite du récit de Tite-Live évoque la résistance des Romains lors de l'assaut des
Gaulois vers le Capitole, l'échec de cette tentative, l'organisation de la résistance romaine
par ceux qui avaient fui à Ardée et à Véies, autour de Camille, lui-même exilé à Ardée par
Rome; ce dernier est nommé dictateur, et, grâce à lui, les Romains parviennent, malgré
leur épuisement, à mettre en fuite les Gaulois, puis il les convainc de ne pas abandonner
leur ville, presque entièrement détruite, pour s'installer à Véies, mais, au contraire, de
rebâtir les édifices privés et publics ; et il fait dire par un sénatus-consulte : cum Caereti-
bus hospitium publice fieret, quod sacra populi Romani ac sacerdotes recepissent beneficio-
que eius populi non intermissus honos deum immortalium esset (V, 50, 3). Les mot sacra
populi Romani ac sacerdotes reprennent exactement les termes employés plus haut, et ne
nous éclairent donc pas; en revanche honos deum immortalium tendrait à nous faire
478 LES PÉNATES PUBLICS

F. Coarelli a récemment proposé116 une hypothèse nouvelle sur la


nature des objets enfouis au lieu dit Doliola. Selon lui, les fouilles faites
sur le Forum à YEquus Domitiani montrent que sous le socle de la
statue se trouvait un petit édifice, probablement un temple, dans les restes
duquel se voient des cavités qui semblent avoir été originellement
fermées par des couvercles, véritables «châsses» destinées à renfermer
des objets sacrés particulièrement précieux; l'une d'elles a même
conservé son contenu, cinq vases archaïques datables du second quart
du VIIe siècle av. J.-C. Ces vases semblent avoir constitué l'originalité
spécifique du sanctuaire, qui peut être identifié comme les Doliola. On
a découvert, aux abords de l'édifice, les squelettes d'un couple sans
doute enterré vivant, ce que F. Coarelli rapproche de la pratique de
l'ensevelissement d'un couple de Grecs et d'un couple de Gaulois au
Forum Boarium117, mais aussi du supplice de la Vestale fautive. On
retrouverait ainsi le caractère funéraire attaché à ce lieu, déjà noté par
le savant italien à propos de la présence du Flamen Quirinalis lors de
cérémonies à signification chthonienne. Le supplice de la Vestale,
enfin, enfermée vivante dans une chambre souterraine avec des
provisions118, sans doute contenues dans des vases, suggère à F. Coarelli
d'interpréter le matériel découvert dans la cavité du petit édifice comme
les récipients où l'on déposait les vivres destinés aux suppliciés,
religieusement conservés jusqu'à l'époque impériale qui n'en connaissait
d'ailleurs plus la signification.
Bien que la brillante démonstration de F. Coarelli ne soit pas
parfaitement explicite sur ce point, il semble que, pour lui, soient assimilés
à ces vases les objets sacrés relatifs au culte de Vesta et des Pénates,

donner un sens large à sacra, car il est assez peu probable que ce terme désigne
seulement Vesta et les Pénates, et non l'ensemble des dieux du Forum dont les sacra auraient
été emportés par les prêtres ; la suite du texte appuie cette hypothèse : on y apprend que
Jupiter, loin de devoir partir pour l'exil, a protégé le Capitole où est édifié son temple :
quod Iuppiter Optimus Maximus suam sedem atque arcem populi Romani in re trepida
tutatus esset (V, 50, 4). Il nous paraît impossible, toutefois, de déduire d'une confrontation
entre ce passage et le précédent que, dans le premier, le mot sacra désignait l'ensemble
des objets sacrés de Rome, et non pas seulement ceux que renfermait le Penus Vestae.
116 Op. cit., p. 290-94.
117 Voir A. Fraschetti, Le sepolture rituali del Foro Boario, in Le délit religieux dans la
cité antique, Rome, 1981, p. 51-115; D. Briquel, Des propositions nouvelles sur le rituel
d'ensevelissement des Grecs et des Gaulois au Forum Boarium, REL, 49, 1982, p. 30-37.
118 Plutarque, Numa, 10.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 479

comme eux conservés religieusement, et consistant eux aussi, pour une


part, en vases119. Cette hypothèse, pourtant, ne permet pas de rendre
parfaitement compte du texte de Tite-Live, car si l'on veut bien
admettre, à la suite de F. Coarelli, que les Doliola étaient un petit sanctuaire
essentiellement destiné à abriter les vases découverts par les
archéologues, il est certain que les sacra sur lesquels veillaient les Vestales n'y
figuraient pas en permanence. On pourrait alors penser que c'est, outre
la proximité de YAedes Vestae et des Doliola, la relative ressemblance
existant entre les sacra et les vases enfermés aux Doliola qui aurait
déterminé le choix de ce lieu par les prêtresses : l'édifice, comme le
Penus Vestae, aurait contenu des vases, et, de plus, les uns et les autres
étaient rapportés au temps de Numa.
D'autre part, il serait intéressant de savoir pourquoi le flamine de
Quirinus et les Vestales ont choisi de s'enfuir vers Caeré, cité sur la
route de laquelle ils rencontrent Lucius Albinus et sa famille120. Malgré
l'extraordinaire épanouissement urbain et artistique de Caeré aux VII-
VIe siècle121, en dépit du rôle important qu'elle a dû jouer dans l'actif
courant d'échanges entre la Grande-Grèce, l'Etrurie et le Latium
archaïque122, cette cité ne semble avoir eu aucune place particulière ni
dans la légende de la venue d'Enée en Italie123, ni dans la légende des
origines de Rome, qui justifierait qu'elle fût choisie pour abriter les
sacra troyens. Il est beaucoup plus probable qu'il faut attribuer ce
choix aux liens étroits existant entre Rome et cette cité, formés depuis
déjà plusieurs siècles, mais qui se resserrèrent très fortement à cette

119 Cf. S. Weinstock, loc. cit.


120 Voir R. M. Ogilvie, op. cit., p. 273; J. Heurgon, Rome et la Méditerranée
oc identale, 2e éd., Paris, 1980, p. 298.
121 J. Heurgon, op. cit., p. 104-105; M. Torelli, Etruria (Guide archeologiche Laterza),
Rome, 1980, p. 52-56.
122 J. Heurgon, La Magna Grecia e i santuari del Lazio, in La Magna Grecia e Roma
nell'età arcaica, Atti Vili convegno di Studi sulla Magna Grecia (Tarente, oct. 1968),
Naples, 1969, p. 13 sq.: id., Rome et la Méditerranée occidentale, p. 110-114; cf. aussi
M. Torelli, op. cit., p. 59 : des documents épigraphiques attestent la présence de Romains
à Caeré dès le VIIe siècle.
123 Au demeurant, par son rôle portuaire, elle a pu contribuer à l'introduction des
légendes grecques en Italie centrale, et notamment celle d'Enée; mais elle n'aurait eu
qu'un rôle d'intermédiaire, contrairement à Lavinium, où la légende d'Enée s'est
enracinée.
480 LES PÉNATES PUBLICS

époque, en partie sous la forme d'une commune alliance contre Véies124


et qui furent peut-être si forts que Lucius Albinius et les prêtres fugitifs
pensèrent trouver en elle, plus qu'une alliée, une véritable «seconde
patrie»; le sénatus-consulte décrété après la défaite des Gaulois à
l'instigation de Camille, par Yhospitium qu'il accorde aux habitants de
Caere, atteste le caractère quasi-religieux de ces liens125. Mais ces données
ne permettent malheureusement pas de définir plus précisément les
sacra qui furent alors mis en sûreté à Caeré, et il semble bien qu'il faille
nous résigner, en l'état actuel de nos connaissances, à considérer qu'un
halo de mystère entourait ces objets, ou que Tite-Live rapporte des
traditions contradictoires ou confusément exprimées.

B) Le récit de Plutarque

Le récit que fait Plutarque de ces mêmes événements, en revanche,


offre une définition beaucoup plus précise des sacra. Après avoir
abandonné la ville, les Romains se retranchent sur le Capitole : έν πρώτοις
δε των ιερών α μεν είς το Καπιτωλιον ανεσκευάσαντο τα δε της 'Εστίας
αί παρθένοι μετά των ιερέων εφευγον άρπασάμεναι126. Τα ιερά est ici
l'équivalent de sacra, et parmi ces derniers, Plutarque distingue très
clairement deux catégories : d'une part, des ίερά se rapportant à des
divinités non nommées, que les Romains mettent en sûreté avec eux sur
le Capitole; d'autre part, les ιερά de Vesta, qui furent emportés hors de
Rome par les Vestales et des prêtres dont l'identité n'est pas autrement
précisée. Dans la suite de son récit, Plutarque, nous l'avons vu plus
haut, rapporte des traditions divergentes sur l'identité des ίερά du
temple de Vesta : feu seul, ou feu et différents autres objets. Sur la nature
de ces objets sacrés eux-mêmes, il existe également différentes tradi-

124 M. Torelli, op. cit., p. 59 : Tite-Live (IX, 36) atteste qu'à cette époque, certains
nobles romains étaient éduqués à Caeré. Sur les rapports entre Rome et Caeré, voir
M. Sordi, / rapporti romano-ceriti e la civitas sine suffragio, Rome, 1960, p. 36-52.
125 J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale, p. 299-301 ; pour J. Gagé (op. cit.,
p. 532-36), Caeré est, certes, une ville hellénisée, mais elle porte peut-être aussi la trace
d'influences pélasgiques, impossibles à dater, qui se manifestent, à l'époque historique,
par des traditions religieuse comme les caerimoniae, que Rome lui aurait empruntées
dans un moment de crise, lors de l'invasion gauloise.
126 Cam., 20, 3 : «Mais leur premier soin fut pour les objets sacrés; il en est que l'on
transporta au Capitole, mais ceux de Vesta furent emmenés hors de Rome, avec l'aide
des prêtres, par les Vestales en fuite» (ibid.).
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 481

tions. Selon les uns, comme nous l'avons vu, il s'agirait du Palladium
troyen, apporté par Enée en Italie; mais ces ιερά sont aussi définis
δ'
autrement : είσι oi τα Σαμοθράκια μυθολογουντες Δάρδανον μεν εις
Τροίαν έξενεγκάμενον όργιάσαι και καθιερώσαι κτίσαντα την πόλιν,
Αίνείαν δε περί την άλωσιν έκκλέψαντα διασώσαι μέχρι της έν 'Ιταλία
κατοικήσεως 127. Cette seconde tradition rapportée par Plutarque
as imile donc les sacra du temple de Vesta à ceux de Samothrace, transférés
par Dardanos de l'île à Troie, par Enée de Troie en Italie. Evidemment,
les lignes de Plutarque plaident fort en faveur d'une identification de
ces sacra comme les Pénates, pour deux raisons. D'une part, nous avons
vu128 que pour certains auteurs, en particulier Varron129, les dieux de
Samothrace sont Castor et Pollux, eux-mêmes parfois identifiés avec les
Pénates; il est tout à fait possible que le terme, vague, de τα
Σαμοθράκια désigne, outre les mystères cultuels, les dieux. D'autre part, le fait
qu'Enée, dans cette tradition, est supposé avoir transporté ces sacra de
Troie en Italie suggère fortement qu'il s'agit des Pénates. Si ces
derniers ne sont pas nommément désignés, nous pensons que c'est parce
que Plutarque a sans doute ici comme source Denys d'Halicarnasse130,
et, à travers lui, des sources grecques, qui ne connaissent pas, ou
n'utilisent pas, le terme de «Pénates». Au demeurant, il nous semble très
probable que c'est bien d'eux qu'il s'agit dans ce texte. A la lumière de
cette tradition rapportée par Plutarque, on peut peut-être interpréter,
dans le récit précédemment étudié que fait Tite-Live de la même
invasion gauloise, la mention des sacra populi Romani que le texte de
l'historien, nous l'avons vu, ne permettait pas de définir précisément : nous
pensons que l'expression désigne, elle aussi, les Pénates publics.
Plutarque conclut ainsi l'exposé des différentes traditions sur les
sacra du temple de Vesta : Οι δε προσποιούμενοι τι πλέον έπίστασθαι
περί τούτων δύο φασίν ού μεγάλους άποκεΐσθαι πίθους, [ών]τον μεν
άνεωγότα και κενόν, τον δε πλήρη και κατασεσημασμένον, αμφότερους
δε ταΐς παναγέσι μόναις παρθένοις ορατούς. "Αλλοι δε τούτους διεψεϋ-

127 Cam., 20, 6: «D'autres racontent que Dardanos, après avoir fondé la ville de
Troie, y apporta les objets sacrés de Samothrace, qu'il fit servir au culte et à la
célébration des mystères, et qu'Enée, à la prise de la ville, les enleva secrètement et les garda
jusqu'à son établissement en Italie» {ibid.).
128 Ci-dessus, p. 432 sq.
129 De L.L. V, 58.
130 Cf. R. Flacelière, E. Chambry, M. Juneaux, op. cit., Notes complémentaires,
p. 236; voir ci-dessous, p. 490 sq.
482 LES PÉNATES PUBLICS

σθαι νομίζουσι τω τα πλείστα των ίερών τότε τας κόρας εμβαλούσας εις
πίθους δύο κρύψαι κατά γης υπό τον νεών του Κυρίνου, και τον τόπον
εκείνον έτι και νυν των Πιθίσκων φέρεσθαι την έπωνυμίαν131. Nous
trouvons ici la notation, déjà rencontrée dans d'autres témoignages, de
l'interdiction faite aux profanes de voir les ίερά du temple de Vesta, ce qui
explique en partie les incertitudes de la tradition à leur sujet. Plutarque
est le seul auteur à nous faire connaître la version de la légende selon
laquelle il y aurait eu en permanence dans le temple de Vesta deux
jarres; cette tradition, dont il ne cite malheureusement pas les tenants,
nous semble s'expliquer, une fois encore, à la lumière de l'assimilation
qui a été faite, pendant une période limitée132, entre les Pénates et les
Dioscures, ces derniers étant souvent symbolisés par des jarres ou
représentés avec des jarres133; la précision selon laquelle l'une était
pleine et l'autre vide peut être mise en relation avec le pouvoir magique
accordé à ces ίερά, et rapprochée des légendes sur la duplication du
Palladium, dont une ou plusieurs copies auraient été faites pour
tromper les voleurs éventuels; de même, ici, seule la jarre pleine (Plutarque
ne précise pas de quoi elle est remplie, mais on peut imaginer que c'est
de ίερά, en tout cas des objets précieux et mystérieux, puisque la jarre
est scellée) aurait une valeur réelle, et la seconde ne serait qu'un double
destiné à brouiller les pistes; mais on peut penser aussi que les jarres
constituent en elles-mêmes les objets sacrés. Cependant, Plutarque le
note lui-même (άλλοι δε τούτους διεψεΰσθαι νομίζουσι), cette tradition
paraît se superposer à une autre, que nous avons déjà relevée chez Tite-
Live, selon laquelle les ίερά du temple de Vesta n'auraient pas séjourné
en permanence dans des jarres, mais n'y auraient été placés par les
Vestales que lors de l'invasion gauloise. Plutarque, toutefois, nous
fournit ici un détail qui ne figurait pas chez Tite-Live : ces jarres étaient au

131 Cam., 20, 7-8 : «Ceux qui prétendent en savoir là-dessus plus que les autres disent
qu'il existe là deux jarres de médiocre grandeur, dont l'une est ouverte et vide, et l'autre
pleine et scellée, et que toutes les deux ne sont visibles que pour les vierges sacrées.
D'autres, enfin, pensent que ces derniers ont été abusés par le fait que les Vestales mirent
alors la plupart des objets sacrés dans deux jarres, qu'elles cachèrent sous terre au pied
du temple de Quirinus, et que cet endroit porte encore aujourd'hui le nom de «Petites
Jarres» (op. cit.).
132 Cf. supra p. 437-9.
133 Cf. S. Weinstock, Two archaic inscriptions from Latium, pi. XIII. Notons
cependant qu'ici, Plutarque précise que les ίερά qui furent enterrés ne sont pas ceux du temple
de Vesta.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 483

nombre de deux, ce qui explique probablement la confusion avec la


première tradition qu'il rapporte, elle-même, sans doute, plus ou moins
explicable par une assimilation Dioscures-Pénates que rendait possible
la présence des deux vases. Chez Plutarque, l'explication du nom de
lieu Doliola est la même que chez Tite-Live et Festus, mais il localise les
Doliola près du temple de Quirinus, indication isolée qui les situerait
donc sur le Quirinal134, et doit être le résultat d'une confusion entre la
maison du flamine de Quirinus et le temple du dieu.
On peut noter cependant qu'à travers les discordances de la
tradition littéraire antique à ce sujet, il y a un point commun entre les
indications de Tite-Live et celles de Plutarque : la relation établie entre les
sacra qui furent enterrés et Quirinus; double relation chez Tite-Live,
puisque le lieu d'enfouissement est proche de la maison du flamine de
Quirinus, mais aussi que le flamine agit conjointement avec les Vestales
dans le sauvetage des sacra; relation dans le récit de Plutarque
également, puisque les sacra sont mis à l'abri près du temple du dieu. Enfin,
si Plutarque rapporte des traditions diverses sur l'identité des ίερά
conservés dans le sanctuaire de Vesta, il n'est guère précis sur le point
de savoir quels furent ceux des ίερά que l'on enterra dans les deux
jarres.
Dans la suite de son récit, Plutarque rapporte la tradition, que nous
avons déjà relevée chez Tite-Live, selon laquelle les Vestales, après
avoir enterré dans des jarres «la plupart des objets sacrés» (ceux qui ne
se trouvaient pas dans YAedes Vestae, si l'on s'en rapporte à ce qu'il a
dit plus haut) s'enfuient avec les ίερά du sanctuaire de Vesta : τα δε
κυριώτατα καί μέγιστα των ίερών αύται λαβουσαι φυγή παρά τον ποτα-
μον έποιοΰντο καί άποχώρησιν135. Les superlatifs κυριώτατα et μέγιστα
indiquent clairement qu'aux yeux de Plutarque, ou de ses sources, la
première place dans la hiérarchie des ίερά revient à ceux du sanctuaire
de Vesta, qui furent emportés par les prêtresses hors de Rome. La
rencontre avec Lucius Albinius, qui installe les Vestales portant les ίερά
sur son chariot à la place de sa femme et de ses enfants, est très
semblable chez Plutarque, quoique plus rapidement évoquée, à ce qu'elle
était chez Tite-Live. La destination des voyageurs, elle, est moins
précise, puisque Plutarque dit seulement : έκείναις παρέδωκεν έπιβήναι καί

134 C£. F. Coarelli, Roma, p. 237-238.


135 Cam., 21, 1 : «Donc, ces Vestales, ayant pris les objets sacrés les plus importants et
les plus précieux, s'enfuirent et suivirent dans leur retraite la rive du fleuve» {op. cit.).
484 LES PÉNATES PUBLICS

διαφυγεΐν εις τίνα των 'Ελληνίδων πόλεων136. Il y a tout lieu de croire,


toutefois, que c'est bien à Caeré que songe Plutarque, conformément à
la tradition transmise par Tite-Live137.

C) Les témoignages de Valere Maxime et Florus

Cette hypothèse est confirmée par une anecdote rapportée par


Valére Maxime à propos des mêmes événements138 : il n'y est question
des sacra que de façon assez vague, et nulle mention n'est faite de
l'enfouissement d'une partie d'entre eux dans des jarres : ils sont emportés
à Caeré par les Vestales et le flamine de Quirinus, avec l'aide de Lucius
Albinius, et Valére Maxime se fonde sur cet épisode du séjour des sacra
à Caeré pour proposer une étymologie du mot caerimonia139. Le seul

136 Cam., 21, 2 : «II les y (= sur le chariot) fit monter, pour qu'elles pussent gagner
l'une des villes grecques» (op. cit.).
137 Cf. R. Flacelière, E. Chambry, M. Juneaux, op. cit., Notes complémentaires,
p. 237 : «II n'y a pas de raison de croire que Plutarque suivait une autre tradition, car, n'y
regardant pas de trop près, il pouvait considérer comme grecque une ville telle qu'Agylla-
kCaeré, qui était en bons rapports avec les Grecs et avait construit un trésor à Delphes
(Strabon, V, 2, 3; Hérodote, I, 167)».
138 I, 1, 10 : Urbe enim a Gallis capta, cum flamen Quirinalis uirginesque Vestales sacra
onere partito ferrent easque pontem Sublicium transgressas et cliuum, qui ducit ad Ianicu-
tum ascendere incipientes L. Albanius, plaustro coniugem et liberos uehens, aspexisset, pro-
prior publicae religioni quam priuatae cantati suis, ut plaustro descenderent, imperauit
atque, in id uirgines et sacra imposita, omisso coepto innere, Caere oppidum peruexit, ubi
cum summa ueneratione recepta. Grata memoria ad hoc usque tempus hospitalem humani-
tatem testatur; inde institutum est sacra caerimonias uocari, quia Caeretani ea infracto ret-
publicae statu perinde ac fiorente coluerunt : « A la prise de Rome par les Gaulois, le
flamine de Quirinus et les Vestales emportaient les objets sacrés dont ils s'étaient partagé le
fardeau. Ils venaient de passer le pont Sublicius, et commençaient à gravir la côte qui
mène au Janicule, lorsque L. Albanius, qui emmenait sur son chariot sa femme et ses
enfants, les aperçut : plus attaché à la religion de l'Etat qu'à ses affections privées, il fit
descendre sa famille du chariot, y plaça les Vestales et les objets sacrés et, se détournant
de sa route, il les conduisit au bourg de Caeré, où ils furent accueillis avec la plus grande
vénération. La reconnaissance a perpétué jusqu'à ce jour le souvenir de cette généreuse
hospitalité. Car dès lors s'établit l'usage de donner aux rites sacrés le nom de cérémonies,
parce que les habitants de Caeré les célèbrent aussi bien dans les malheurs de la
république qu'au temps de sa prospérité» (trad. P. Constant, Paris, 1935).
139 L'étymologie du mot reste incertaine. A. Ernout-A. Meillet (Dictionnaire
étymologique de la langue latine, s.u. caerimonia) proposent une dérivation à partir d'un mot
étrusque caerimo. L'étymologie avancée par Valére Maxime n'est donc peut-être pas aussi
fantaisiste qu'il paraît; cf. supra p. 475 n. 105.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 485

détail original donné par l'écrivain, par rapport aux récits de Tite-Live
et de Plutarque, se trouve dans les mots omisso coepto itinere : Lucius
Albinius change donc sa destination primitive pour aller à Caeré, et il
est facile d'imaginer que c'est à la demande des Vestales. Cela
confirmerait une importance particulière de la ville à cette époque aux yeux
des Romains, comme nous avons cru pouvoir le montrer en étudiant le
récit de Tite-Live.
Le dernier témoignage concernant ce sauvetage des sacra est celui
.

de Florus : Pontifices et flamines quidquid -religiosissimi in templis erat,


partim in doleis defossa terra reçondunt, partim inposita plaustris secum
Veios auferunt. Virgines simul ex sacerdotio Vestae nudo pede fugientia
sacra comitantur. Tarnen excepisse fugientis unus e plebe fertur Albinius,
qui depositis uxore et liberis uirgines in plaustrum recepii 14°. Par rapport
aux récits précédents, on peut dire que les acteurs sont les mêmes, mais
que les rôles sont distribués un peu différemment. D'une part, les
pontifes quittent Rome et participent au sauvetage des sacra, ce qui est
sans doute dû à la contamination avec un autre épisode de l'histoire de
l'Aedes Vestae, l'incendie de 241 avant J.-C. Les sacra, d'autre part, ne
sont pas ceux du seul sanctuaire de Vesta, mais de tous les temples de
Rome, de sorte qu'ils ne sont évidemment pas désignés avec plus de
précision; toutefois, comme dans le récit de Tite-Live, ils sont partagés
en deux, une partie restant à Rome dans des récipients où on les
dispose pour cette seule circonstance, et qui sont enterrés, l'autre partant
sous l'escorte des prêtres qui les installent, dès le départ, dans des
chariots, détail qui ne figurait pas dans le récit de Tite-Live. Les Vestales,
qui ne semblent pas avoir eu l'initiative du sauvetage, ne font
qu'accompagner le cortège, et l'on peut supposer qu'elles n'avaient pas pu
trouver place dans les chariots où étaient montés les pontifes et les fia-
mines; le geste de piété d'Albinius ne s'adresse donc qu'à la seule
personne, particulièrement sacrée il est vrai, des Vestales, non aux sacra;
enfin, la destination du cortège est Véies, non Caeré, ce qui s'explique
peut-être par une confusion avec la tradition selon laquelle Camille

140 I, 13, 11-12 : «Les pontifes et les flamines prennent dans le temples les objets les
plus sacrés et les cachent dans des tonneaux enfouis sous la terre, ou les emportent avec
eux à Veies sur des chariots. En même temps, les vierges affectées au sacerdoce de Vesta
accompagnent nu-pieds les objets sacrés dans leur fuite. On raconte que les fugitives
furent cependant recueillies par un plébéien, Albinius, qui, après en avoir fait descendre
sa femme et ses enfants, les prit dans son char» (trad. P. Jal, C.U.F., Paris, 1967).
486 LES PÉNATES PUBLICS

s'était alors réfugié à Véies, avant de prendre la tête de la résistance au


siège gaulois141.
Indiquons, pour en finir avec l'épisode capital de l'histoire des
sacra que constitue l'invasion gauloise de 390 avant J.-C, que Lucius
Albinius est certainement un personnage historique 142, comme tend à le
faire penser YElogium anonyme trouvé sur le Forum, qui rappelle la
part que prit dans le sauvetage des sacra un personnage qui est peut-
être Albinius143. Il n'est sans doute pas indifférent que Tite-Live le
désigne comme un de plebe homo144. Le rôle décisif joué par ce plébéien
dans le sauvetage de sacra dont dépend le salut de Rome est très
significatif de l'intégration définitive de la plèbe dans l'Etat romain, mais
aussi, selon l'interprétation que donne J.-C. Richard de l'expression
homo de plebe, confirme l'aristocratie «dans l'assurance de sa propre
supériorité»145. Enfin, nous avons cru pouvoir conclure du récit de cet
épisode fait par Plutarque que les sacra en question étaient ceux qui
furent apportés de Troie en Italie par Enée, tandis que l'explication
donnée par Tite-Live du lieu-dit Doliola tendait plutôt à mettre ces
sacra en relation avec Numa. Dans l'un et l'autre cas, on assiste au
passage d'un culte privé de l'ancêtre fondateur ou du roi, à un culte
public; les dieux d'Enée deviennent ceux de tous les Latins, ceux de
Numa les dieux de l'Etat romain. Si, comme nous le pensons, ces sacra
sont les Pénates, l'intervention de Lucius Albinius montre comment des
cultes gentilices deviennent ceux de tous les Romains, patriciens et
plébéiens mêlés.

141 Cf. P. Jal, op. cit., p. 25, n. 1 ; M. Sordi, / rapporti. . ., p. 1-23.


142 Cf. J. Heurgon, Rome et la Méditerranée. . ., p. 298.
143 CIL VI, 1272; cf. S. Weinstock, in R.E., XIX, 1, s.u. Penates, col. 442.
144 V, 40, 9.
145 Les origines de la plèbe romaine. Essai sur la formation du dualisme patricio-plé-
béien, B.E.F.A.R., vol.232, Rome, 1978, p. 109-110; voir aussi J. Gagé, Matronalia. Essai
sur les dévotions et les organisations cultuelles des femmes dans la Rome ancienne, Coll.
Latomus, vol. 60, Bruxelles, 1963, p. 280-283; id., Le chariot d'Albinius, p. 529-530 : J. Gagé
doute que YElogium fasse référence à Albinius, dans la mesure où le sauveteur des sacra
est supposé avoir assuré la continuité du culte à Caeré, ce qui, pense-t-il, implique à peu
près sûrement qu'il soit patricien ; en revanche, J. Gagé estime certain que la famille,
plébéienne, d'Albinius avait «du prestige sur le plan religieux», et en voit une confirmation
dans le fait qu'une Albinia, probablement sœur ou fille de Lucius Albinius, était l'auteur
du uotum du temple de Junon Lucina.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 487

2) L'incendie de 241 avant J.-C.

Les sacra sont de nouveau mentionnés à l'occasion d'un autre


événement majeur de l'histoire du temple de Vesta, l'incendie de 241 avant
J.-C. Le texte de Tite-Live manque pour cette période; voici le résumé
qui nous en a été conservé : Cum templum Vestae arderei, Caecilius
Metellus pontifex maximus ex incendio sacra rapuit146. Ce texte très bref
mentionne les sacra sans aucune autre précision, et la fidélité de l'abré-
viateur aux mots mêmes employés par Tite-Live est douteuse, puisque
le sanctuaire du Forum est désigné du terme de templum Vestae, au
lieu de l'habituel Aedes Vestae.

A) Le témoignage d'Ovide

Le premier récit que nous en connaissons est celui d'Ovide :


Heu quantum timuere patres, quo tempore Vesta
arsii et est tectis obruta paene suis!
Flagrabant sancii sceleratis ignibus ignes,
mixtaque erat flammae fiamma profana piae;
adtonitae flebant demisso crine ministrae :
abstulerat uires corporis ipse timor.
Prouolat in medium et magna « Succurrite ! » uoce
«Non est auxilium fiere!» Metellus ait.
«Pignora uirgineis fatalia tollite palmis :
non ea sunt uoto, sed rapienda manu.
Me miserum! dubitatis? » ait. Dubitare uidebat
et pauidas posito procubuisse genu.
Haurit aquas tollensque manus «Ignoscite» dixit
«Sacra! Vir intrabo non adeunda uiro.
Si scelus est, in me commissi poena redundet!
Si capitis damno Roma soluta mei!»
Dixit et irrupit : factum dea rapta probauit
Pontificisque sui munere tuta fuit141.

146 Per., 19.


147 Fastes VI, 437-454 : « Ah ! quelle fut la crainte du Sénat, le jour où le temple de
Vesta brûla, et où la déesse fut presque ensevelie sous la chute de son propre toit! Les
feux sacrés brûlaient de feux criminels, et la flamme profane se mêlait à la flamme
sainte. Frappées de stupeur, cheveux épars, les prêtresses pleuraient; la peur leur avait ôté
toute force. Metellus bondit au milieu d'elles et s'écrie d'une voix forte : « A l'aide ! Pleurer
488 LES PÉNATES PUBLICS

De cet acte héroïque du Grand Pontife L. Caecilius Métellus, nous


avons déjà trouvé une mention, citée plus haut, à propos du sauvetage
du Palladium lors de ce même incendie148. Ce dernier, selon Ovide, ne
serait pas imputable à un accident, bien que S. Weinstock149 souligne
les dangers que courait un édifice qui abritait un feu perpétuel, et dont
au moins une partie de la structure intérieure était faite de nattes de
paille150; il serait le fait d'une main impie (sceleratis ignibus fiamma
profana). Le récit d'Ovide prête aux Vestales une attitude bien
dif érente de l'énergique détermination dont elles firent preuve lors de
l'invasion gauloise : épouvantées, stupéfaites, elles sont incapables non
seulement de prendre une décision par elles-mêmes, mais même d'obéir aux
injonctions de Métellus. Il est clair, d'ailleurs, que le comportement
qu'Ovide leur donne, caractérisé par la peur, les larmes, et
l'impuis ance, est destiné à donner davantage de relief et d'éclat à l'action
héroïque de Métellus. Cette opposition entre les réactions des représentants
des deux sexes échappe ici au lieu commun, et est rendue plus
saisissante par la transgression de l'interdit religieux que suppose le geste de
Métellus, Notons d'abord que son intervention, en tant que Grand
Pontife, est moins surprenante que ne l'était, lors de l'épisode
précédemment étudié, celle du flamine de Quirinus aux côtés des Vestales,
puisque son titre met les prêtresses sous sa tutelle. On sait que l'intérieur de
l'Aedes Vestae était interdit aux profanes, sauf au moment des Vesta-
lia 151 où les matrones avaient sans doute accès au moins au penus
exterior, sinon au penetrale. En revanche, l'intérieur du temple semble
avoir été absolument interdit aux hommes, y compris au Grand Pontife,

ne sert à rien! Emportez dans vos mains virginales les gages de notre destin ce ne sont
pas vos vœux, mais vos bras qui les sauveront ! Malheur à moi ! vous hésitez ? » dit-il. Il les
voyait hésiter et tomber à genoux toutes tremblantes. Il puise de l'eau et levant les
mains : «Pardonnez-moi, dit-il, objets sacrés. Moi, un homme, je vais entrer dans ce lieu
où un homme ne doit pas pénétrer. Si c'est un crime, que le châtiment de la faute
retombe sur moi! Que Rome, au prix de ma vie, soit tenue quitte!». Il dit et s'élança; la déesse
qu'il enlevait approuva son acte et fut sauvée par l'intervention de son pontife» (trad. H.
Le Bonniec, Bologne, 1970).
148 Cicéron, Scaur., 48.
149 Penates, in R.E., XIX, 1, col 441.
150 Cf. Festus, 296 L; Ovide (Fastes VI, 261-262) oppose à la toiture de bronze que l'on
voit de son temps sur l'Aedes Vestae le toit de chaume et les murs d'osier tressé de «
l'époque de Numa», sans qu'il soit possible de dater ces changements dans l'architecture du
temple.
151 Festus 296 L.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 489

à qui Ovide fait dire uir intrabo non adeunda uiro, et dont la fonction
ne suffit pas pour le faire excepter de la règle générale152; nous verrons
d'ailleurs plus loin que d'autres éléments de la légende de Métellus
semblent confirmer ce point153. Le poète met dans la bouche de
Métellus des propos qui insistent beaucoup sur la conscience qu'il a de
transgresser la loi religieuse : il demande par avance son pardon (ignoscite),
et revendique pour lui-même, et non pour Rome, toute la punition que
pourra vouloir susciter le courroux des dieux outragés. Sans doute
peut-on expliquer comme un geste de purification les mots haurit
aquas : il faut comprendre que Métellus se purifie les mains - on se
rappelle le rôle capital que joue l'eau dans le culte de Vesta à Rome, et
les prescriptions religieuses très strictes qui réglementaient le puisage
et le transport de cette eau154 - avant de toucher les objets sacrés
désignés deux fois, de façon très vague, par les mots sacra et pignora
fatalia; nous avons déjà relevé l'emploi de cette dernière expression
chez Tite-Live pour désigner le seul Palladium155, mais nous ne pensons
pas qu'il faille interpréter ce pluriel comme poétique; il nous semble au
contraire que c'est bien de l'ensemble des sacra qu'il s'agit, et qu'Ovide
désigne ainsi, outre, très probablement, le Palladium, les autres objets
sacrés que la légende faisait venir de Troie, et en particulier les
Pénates156. Aussi, en définitive, le geste courageux de Métellus, qui brave les
dangers matériels de l'incendie, mais aussi la colère des dieux en
enfreignant les interdits, fait-il ressortir l'extraordinaire valeur des
sacra qu'il permet de préserver de la destruction, valeur qui se comprend
d'autant mieux qu'ils sont considérés comme l'héritage de Troie. Les
mots dea rapta sont ambigus; nous croyons en effet qu'on peut en
donner deux interprétations. Si, comme on est naturellement tenté de le

152 Dans le récit que fait Tite-Live de l'invasion gauloise de 390, le Grand Pontife
n'accompagne pas les Vestales et les sacra, mais se retire avec une partie des Romains sur le
Capitole, pour organiser la défense de Rome (V, 41, 3).
153 Cf. aussi Denys d'Halicarnasse (II, 66, 3), pour qui le fait que les sacra soient
confiés à des jeunes filles, et l'interdiction faite aux hommes de pénétrer à l'intérieur du
temple, se justifient par la nécessaire pureté des premières; voir supra p. 295.
154 C. Koch, in R.E., Vili, A 2, s.u. Vesta, col. 1753-1755.
155 V, 52, 7. Cf. aussi Cicéron, Scaur., 48.
156 Dans la suite du texte (v. 455-456), Ovide oppose d'ailleurs les dangers courus
autrefois par les sacra du sanctuaire à la sécurité que leur assure le principat d'Auguste,
et se félicite de ce que le feu brûlera toujours in Iliads focis ; selon J. G. Frazer (Publii
Ovidii Nasonis Fastorum Libri sex, vol. IV, 1. V-VI, Londres, 1929, p. 267), Ovide, malgré le
vague de l'expression pignora fatalia, pense principalement au Palladium.
490 LES PÉNATES PUBLICS

faire, on pense qu'il s'agit de Vesta, on se trouve en présence d'une


double difficulté : d'une part, le même Ovide avait signalé, un peu plus
haut157, qu'il n'y avait pas de statue de la déesse à l'intérieur du
sanctuaire; d'autre part, l'expression pontificis sui surprend, car le Grand
Pontife n'est pas spécialement affecté au culte de Vesta, encore que,
par la captio qu'il fait des Vestales, il assure dans ce culte un rôle
essentiel; on peut aussi penser qu'il s'agit du Palladium, mais l'emploi
du possessif sui après pontificis ne se justifie pas davantage. Quant à la
prétendue origine criminelle de l'incendie, elle nous paraît devoir
s'expliquer moins comme une indication émanant d'une quelconque source
historique, que comme l'occasion pour Ovide d'opposer, en un
contraste d'une force et d'une poésie saisissantes, le scandaleux mélange du
feu sacré et du feu profane, allumé par une main impie.

B) Le récit de Denys d'Halicarnasse

Denys d'Halicarnasse mentionne ces même événements, lorsqu'il


s'interroge sur le contenu exact de l'intérieur du sanctuaire de Vesta, et
oppose deux traditions, selon l'une desquelles on n'y conserverait que
le feu sacré de la déesse, selon l'autre le feu et des objets sacrés; à
l'appui de cette dernière, Denys cite l'épisode de L. Caecilius Métellus :
έμπρησθέντος γαρ του τεμένους καί των παρθένων φευγουσών, έκ του
πυρός των ίεροφαντω τις Λεύκιος Καικίλιος ό καλούμενος Μέτελλος
άνήρ ύπατικός. . . ύπεριδών της ιδίας ασφαλείας του κοινή συμφέροντος
ένεκα παρεκινδύνευσεν είς τα καιόμενα βιάσασθαι καί τα καταλειφθέντα
ύπο των παρθένων άρπάσας ίερα διέσωσεν έκ του πυρός · έν ω τιμάς
παρά της πόλεως έξηνέγκατο μεγάλας, ως ή της εικόνος αυτού της έν
Καπι τωλίω κειμένης επιγραφή μαρτυρεί158. L'ensemble de l'épisode,
quoique moins détaillé et moins théâtral, ressemble fort au récit qu'en
fait Ovide; comme le poète, Denys oppose à la passivité des Vestales,
qui ne songent qu'à la fuite, l'héroïsme du Grand Pontife; mais,
contrairement à Ovide, Denys ne fait pas état du cas de conscience qui

157 VI, 295-296.


158 II, 66, 4 : «Tandis que le temple brûlait et que les Vestales fuyaient l'incendie, l'un
des pontifes, Lucius Caecilius, surnommé Métellus, homme de rang consulaire. . .,
négligeant sa propre sécurité en faveur du bien public, s'exposa au danger de se jeter dans le
temple en flammes, et arracha et sauva du feu les objets sacrés abandonnés par les
Vestales en récompense de quoi l'Etat lui accorda de grands honneurs, comme en témoigne
l'inscription de sa statue qui fut élevée sur le Capitole».
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 491

se pose à L. Caecilius Métellus, pour savoir s'il doit sauver les sacra (ou
ίερά), au risque de bafouer l'interdiction faite aux hommes d'entrer
dans le penetrale. Aussi le problème a-t-il été posé de savoir si le Grand
Pontife n'était pas excepté de cette interdiction159; à cette question,
Denys a donné, dans le passage qui précède immédiatement notre texte,
une réponse positive160. Son témoignage est particulièrement
intéressant pour notre propos, parce que, précisément, l'historien s'interroge
sur la nature et la définition des ίερά. L'épisode de leur sauvetage par
Métellus lui semble la preuve que l'intérieur du sanctuaire du Forum
ne contient pas simplement le feu de la déesse. Mais, poussant plus loin
son enquête sur les ίερά sauvés par Métellus, il ajoute : τούτο μη λαβον-
τες όμολογούμενον έπισυνάπτουσιν αυτοί στοχασμούς τινας ίδιους, οί
μεν εκ των έν Σαμοθράκη λέγοντες ίερών μοΐραν είναί τίνα φυλαττο-
μέυην την ένθάδε Δαρδάνου μεν είς την ύφ' έαυτοΰ κτισθεΐσαν πόλιν έκ
της νήσου τα ίερά μετενεγκαμένου, Αινείου δέ, οτ' εφυγεν έκ της Τρω-
άδος άμα τοις άλλοις καί ταύτα κομίσαντος είς Ίταλίαν161. Cette
tentative de définition est, on le voit, particulièrement incertaine et confuse.
D'une part, Denys ne nomme pas les tenants des différentes définitions
des ίερά, et, d'autre part, il indique que ces hypothèses (στοχασμούς),
plutôt qu'étayées sur des traditions nettement établies, risquent fort de
n'être que des spéculations fantaisistes d'érudits (ίδιους), qui tentent de
mettre en ordre ou de rationaliser des données légendaires confuses et
contradictoires. La forme même dans laquelle Denys les expose montre
ce flottement : rien n'y est strictement défini; των έν Σαμοθράκη ίερών
μοΐραν reste vague, et ne peut guère s'éclairer que par un passage du

159 Cf. C. Koch, op. cit., col. 1730-31; si l'on en croit Lucain (Pharsale I, 598), l'accès
au Palladium était même réservé à la seule Grande Vestale.
160 II, 66, 3 : είσί δέ τίνες οι φασιν εξω του πυρός απόρρητα τοις πολλοίς ίερά κεΐσθαι
τίνα έν τω τεμένει της θεάς, ών οϊ τε ίεροφάνται την γνώσιν εχουσι καί ai παρθένοι : « II y
a des gens qui disent qu'en plus du feu, il y a dans le sanctuaire de la déesse des objets
sacrés interdits aux profanes, et dont seuls ont la connaissance les pontifes et les
Vestales». Denys ne prend donc pas à son compte l'affirmation du fait que les pontifes - et
non pas seulement le Grand Pontife - ont accès aux ίερά, mais la rapporte à des auteurs
dont il ne cite pas le nom.
161 II, 66, 5 : « Considérant ce point comme acquis, ils ajoutent des hypothèses de leur
cru : les uns déclarent que c'est une partie des objets sacrés de Samothrace qui est
conservée là, Dardanos ayant transporté les objets sacrés de cette île jusqu'à la cité par
lui fondée, et Enée, lorsqu'il fuit de Troade, les ayant emportés, en même temps que
d'autres, en Italie».
492 LES PÉNATES PUBLICS

livre I des mêmes Antiquités Romaines162 que nous avons commenté


plus haut : Dardanos, en quittant Samothrace, aurait laissé dans l'île les
rites et les mystères des Grands Dieux, et aurait emporté, dans la cité
qu'il allait fonder, le Palladium et les statues de ces mêmes dieux;
éclaircissement tout relatif d'ailleurs, car il peut paraître assez
surprenant de dissocier d'une part les mystères des Grands Dieux, d'autre
part leurs statues. Mais si la définition des ίερά, finalement établis à
Troie par Dardanos, est obscure, celle des objets sacrés emportés par
Enée en Italie, d'après le texte de Denys, ne l'est pas moins : le Troyen,
nous dit-il, prend avec lui les ίερά de Dardanos «en même temps que
d'autres» (άμα τοις άλλοις) qui ne sont nullement définis. Cependant, il
semble bien qu'il faille comprendre que les ίερά apportés en Italie ne
sont pas les seuls Grands Dieux de Samothrace et le Palladium,
héritage de Dardanos. Cette hypothèse se trouve peut-être confirmée par un
autre passage de Denys dans lequel, après avoir déclaré que les ίερά
apportés par Enée en Italie étaient les images des Grands Dieux et le
Palladium (ce dernier étant conservé à Rome dans le sanctuaire de
Vesta), il ajoute : εϊη δ' αν και παρά ταΰτα τοις βεβήλοις ήμΐν άδηλα ετέρα163.
R. Schilling, au terme d'une analyse très aiguë et très pertinente de ces
textes, conclut: «La distinction faite par Denys est importante. A
confronter ses différentes déclarations, il y a lieu de différencier les
éléments sacrés du sanctuaire de Vesta. Il y aurait les symboles des
grands dieux, ainsi que le Palladium d'une part, et d'autre objets sacrés
protégés par un secret qui les soustrait totalement à la curiosité du
profane»164. Tout en reprenant cette conclusion à notre compte, nous
voudrions ajouter que dans les deux passages que nous venons d'étudier,
sur lesquels se fonde R. Schilling, Denys rapporte expressément ces
autres ίερά, non définis, à la venue en Italie d'Enee, qui les y aurait
transportés.
Ce témoignage, pour difficile qu'en soit l'interprétation, est capital,
car il constitue la seule attestation claire de l'origine des sacra de l'Ae-
des Vestae, origine à la fois samothracienne et troyenne, avec Enée
pour intermédiaire entre Troie et l'Italie. Cette origine justifierait
évidemment, si elle était établie avec plus de certitude, que l'on identifiât

162 I, 68, 3-4.


163 I, 69, 4 : « II se peut qu'outre ceux-là, il y ait encore d'autres objets interdits à nous
autres profanes».
164 Penatibus et Magnis Dis, Mise. E. Manni, VI, Rome, 1980, p. 1969.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 493

comme les Pénates certains des sacra du sanctuaire de Vesta, et l'on


peut supposer que Denys songe à cette identification, car il conclut son
exposé par la remarque suivante : «Sur la nature de ces objets, j'estime
que ni moi ni ceux qui désirent observer le respect envers les dieux ne
doivent mener d'indiscrètes recherches»165. Cette réflexion rappelle
curieusement celle qui concluait l'exposé consacré à la définition des
mystérieux Pénates de Lavinium166, et le rapprochement des deux
passages nous invite à penser qu'il s'agit, dans l'un et l'autre cas, d'objets
de même nature, mystérieux garants de la puissance d'une cité, qui ont
été identifiés avec les Pénates. Certes, dans ce texte, Denys parle de
ίερά, non de Pénates, alors qu'à propos des dieux de Lavinium167, ou de
ceux de la Vèlia168, il transcrit en grec le mot latin Penates. Cela nous
paraît pouvoir s'expliquer par le fait qu'il rapporte des traditions
antérieures à l'assimilation ίερά troyens-Pénates. Plutarque, qui s'est
manifestement inspiré de ce passage dans son récit, reprend presque mot
pour mot le texte de Denys.
Denys, voyant dans l'exploit de Métellus la preuve de l'existence de
ίερά, en plus du feu, à l'intérieur du sanctuaire de Vesta, en cite cette
première définition. Mais il ajoute aussitôt qu'il en existe une autre qui
prétendait que les ίερά n'étaient que le Palladium apporté par Enée de
Troie en Italie169; définition très restrictive donc, mais qui établit
également un lien entre Enée et Rome, entre les sacra apportés par lui et
ceux du sanctuaire de Vesta.

C) - Les témoignages d'Augustin et d'Orose

Le seul autre témoignage, à notre connaissance, qui attribue au


Grand Pontife L. Caecilius Métellus le sauvetage de l'ensemble des sacra
est celui d'Augustin; évoquant la personnalité de Varron, son désir,
dans les Res Diuinae, d'assurer par ses écrits la pérennité du culte des
dieux, Augustin affirme qu'il leur a, par là-même, rendu un service
plus utile quant Metellus de incendio sacra Vestalia et Aeneas de Troiano

165 II, 66, 6.


166 I, 67, 4.
167 I, 67, 3 ; voir supra p. 264.
168 I, 68, 1 ; voir supra p. 400.
169 II, 66, 5 ; voir supra p. 463-6.
494 LES PÉNATES PUBLICS

excidio pénates liberasse praedicatur170. Avec beaucoup moins de détails


qu'Ovide et que Denys, - mais son propos est tout à fait différent -,
Augustin nous apporte donc là un témoignage analogue, dans ses
grandes lignes, aux deux précédents : Métellus, dont l'action est présentée
comme exemplaire, a sauvé des flammes l'ensemble des sacra du
sanctuaire de Vesta. Il est clair que, pour faire mesurer à ses lecteurs le
sens religieux dont, selon lui, Varron a fait preuve, Augustin le
compare à deux personnages proverbialement considérés comme des modèles
de piété, parce qu'ils ont sauvé les dieux du plus grand péril. Cela dit, il
est assez difficile d'apprécier le sens du rapprochement fait par
Augustin entre Métellus et Enée. Il y a, en effet, deux façons de le
comprendre, qui, croyons-nous, aboutissent à deux définitions opposées des
sacra de YAedes Vestae. On peut considérer, d'abord, qu'Augustin établit
un parallèle entre deux actions analogues, le sauvetage des dieux : ce
qu'Enée a fait pour les Pénates de Troie, Métellus l'a fait pour les sacra
Vestalia; cela n'implique pas que les premiers soient l'équivalent des
objets sacrés, ou même comptent parmi eux; les deux hommes ont en
commun d'avoir sauvé ce à quoi leur patrie tenait le plus, ce qui la
symbolisait religieusement et était le garant de son pouvoir, mais
n'était pas forcément identique dans l'une et l'autre ville171. Cependant,
on peut aussi comprendre que les actions héroïques d'Enée et de
Métellus sont en tous points semblables, et que ce sont les mêmes sacra que
l'un et l'autre ont sauvés de la destruction, le premier lors de la chute
de Troie, le second lors de l'incendie de 241 ; sacra Vestalia et Penates ne
seraient alors qu'une seule réalité religieuse, la différence dans les
désignations s'expliquant par une sorte de tradition lexicale attachée à
l'une et l'autre circonstances où ces dieux furent arrachés à la
destruction. Il n'est d'ailleurs pas exclu que sacra Vestalia ne désigne pas les
seuls Pénates, puisque, nous l'avons vu, la tradition littéraire atteste la
présence d'autres objets sacrés dans le Penus Vestae.
Enfin, Orose nous a laissé un récit du même événement : Dehinc
cum omnia in circuitu fori popularetur (ignis), aedem Vestae corripuit.
Et ne sibi quidem diis subuenientibus, ignem illum, qui aeternus putaba-
tur, temporarius ignis oppressiti unde etiam Métellus, dum arsuros deos

170 De Ciu. Dei VI, 2 : « que celui de Métellus arrachant les objets sacrés de Vesta à
l'incendie, ou d'Enée soustrayant les Pénates au désastre de Troie» (trad. J. Perret, Paris,
1960).
171 II nous semble que c'est dans ce sens que va l'analyse d'A. Brelich (Vesta, p. 77).
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 495

eripit, uix brachio semiustus aufugtt172. C'est, à notre connaissance, le


seul texte où figure le mot deos à propos des sacra contenus dans YAe-
des Vestae, et il faut très certainement y voir une allusion aux Pénates;
au demeurant, il est probable que ce n'était pas l'expression usuelle,
mais le mot est sans doute choisi pour faire avec arsuros un contraste
plus expressif, et ridiculiser des dieux si fragiles.

D) Interprétation du geste de Métellus

Le geste héroïque du Grand Pontife Métellus173 semble, bien qu'il


soit mentionné pour la première fois chez Cicéron, avoir eu la valeur
d'une sorte de référence proverbiale aux yeux des Romains, très
perceptible dans le texte d'Augustin. Cependant, mis à part les textes que
nous venons de citer, qui sont les moins nombreux, les autres
témoignages attestant son exploit parlent en fait du sauvetage du Palladium,
et non de celui des sacra en général. Parmi ceux-ci, le premier en date,
pour la mention du Palladium comme pour celle de l'exploit de
Métellus, est le texte de Cicéron déjà cité174, mais de nombreux auteurs
parlent de cette action du Grand Pontife: Valére Maxime175, Sénèque le
Rhéteur176, Pline l'Ancien177, Ampelius 178, Juvénal179. Plus curieuse est la
mention que fait Augustin de ce même incendie de 241, qu'il présente

172 IV, 9, 14-15 : «A partir de ce moment, alors que le feu dévastait tout dans
l'enceinte du Forum, il s'empara du sanctuaire de Vesta. Et, comme les dieux ne se portaient
même pas secours à eux-mêmes, un feu éphémère écrasa ce feu que l'on pensait éternel;
à cette occasion aussi, Métellus, en arrachant aux flammes les dieux qui allaient brûler,
les emporta à grand peine dans ses bras, à demi brûlé lui-même».
173 Pour l'identification du personnage, voir F. Münzer, in R.E. III, 1, s.u. Caecilius,
col. 1203 n°72; F. Coarelli, Le Tyrannoctone du Capitole et la mort de Tiberius Gracchus,
MEFR, 81, 1969, p. 149 n. 1; J.-C. Richard, Sur quelques grands pontifes plébéiens,
passim.
174 Scaur., 48.
175 I, 4, 4 : Insequenti nocte aedis Vestae arsit, quo incendio Métellus inter ipsos ignis
raptum Palladium incolume seruauit.
176 Contr. IV, 2 : Métellus pontifex, cum arderei Vestae templum, dum Palladium
rapuit. . .
177 N.H. VII, 45 : Métellus . . . cum Palladium raperei ex aede Vestae.
178 20, 1 1 : Gaius Métellus pontifex (qui ex) ardente tempio Vestae Palladium extulit. . .
179 III, 138-139 : qui/seruauit trépidant flagranti ex aede Mineruam : Juvénal ne
nomme pas Métellus, ce qui prouve la notoriété de son exploit; il est d'ailleurs remarquable
que le poète fasse allusion à lui après avoir mentionné Scipion Nasica, qui reçut chez lui
la pierre noire de Pessinonte, et Numa comme modèles d'honorabilité et de piété.
496 LES PÉNATES PUBLICS

comme un désastre succédant à un autre immédiatement antérieur,


une crue dévastatrice du Tibre : Turn uero illic ignis non tantum uiue-
bat, sed etiam saeuiebat. Cuius impetu exterritae uirgines sacra Ma fata-
lia quae iam très, in quibus fuerant, presserant ciuitates, cum ab ilio
incendio liberare non possent, Metellus pontifex suae quodam modo
saluas oblitus inruens ea semiustus abripuit1S0. L'expression ilia fatalia a
suggéré à G. Combes la traduction «l'emblème fatal», c'est-à-dire le
Palladium181, sans doute par analogie avec l'expression fatale pignus de
Tite-Live182, qui désigne très certainement cette statue. Mais il nous
paraît impossible de ne pas considérer que ce terme désigne, non le
seul Palladium, mais l'ensemble des sacra dont Enée se chargea. C'est
que, dans l'interprétation de G. Combes, le pluriel Ma fatalia est
compris comme un pluriel poétique; or, nous avons cru pouvoir montrer
que l'expression venait probablement des auteurs dont s'est inspiré
Denys, selon qui il aurait existé, dès l'origine, plusieurs statues d'Athé-
na; Rome n'a pas connu la légende selon laquelle le Palladium
existerait en plusieurs exemplaires authentiques, c'est-à-dire dotés du
pouvoir magique de conférer la puissance à la cité qui le détiendrait. Ser-
vius nous rapporte une tradition concernant l'introduction du
Palladium à Rome, différente de celle qui la rattache à la venue d'Enée au
Latium; le Palladium, lors de la chute de la ville, serait resté à Troie :
intra parietem extructum; quod postea bello Mithridatico dicitur Fimbria
quidam Romanus inuentum indicasse. Quod Romam aduectum, et cum
responsum fuisset illic imperium fore, ubi et Palladio adhibito Mamurio
fabro multa similia facta sunt. Verum tarnen agnoscitur hastae oculo-
rumque mobilitate1^. Ce passage indique clairement que les Romains

180 De du. Dei III, 18 : «Mais à ce moment-là, le feu ne se contentait pas de vivre, il
faisait rage. Epouvantées de son assaut, ces vierges étaient impuissantes à dérober aux
flammes l'emblème fatal qui déjà avait porté malheur aux trois villes qui l'avaient gardé.
Alors, le pontife Métellus, oublieux en quelque sorte de son propre salut, s'y précipitant à
demi-brûlé l'emporta» (trad. G. Combes, Paris, 1959).
181 Op. cit., p. 485 n. 2; P. de Labriolle {La cité de Dieu, livres I-V, Paris , 1941), traduit
aussi Ma fatalia par «l'emblème fatal» et explicite cette traduction dans la fin de la
phrase « Métellus. . . leur arracha le Palladium ».
182 xxvi, 27.
183 Ad Aen. II, 166 : «inséré à l'intérieur de la muraille. Au cours de la guerre contre
Mithridate, un Romain, Fimbria, signala, dit-on, qu'il l'avait découvert. On sait qu'il fut
transporté à Rome, et comme un oracle avait prédit que le pouvoir se trouverait là où
serait la statue, beaucoup d'exemplaires semblables furent faits par les soins du forgeron
Mamurius. Mais on reconnaît la vraie statue à son pouvoir de faire bouger sa lance et ses
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 497

considéraient qu'il n'y avait à Rome qu'un seul vrai Palladium. De


surcroît, l'interprétation de la proposition quae iam très, in quibus fuerant,
presserant ciuitates, dans le texte d'Augustin, nous semble soulever, en
tout état de cause, une difficulté que l'interprétation de Ma fatalia par
«le Palladium» est loin de résoudre. G. Combes184 suggère que les trois
villes en question sont Troie, Lavinium et Albe, hypothèse qui nous
paraît très plausible. Or, si la présence du Palladium à Troie est un fait
bien attesté, il n'en va pas de même à Lavinium, où nous ne
connaissons avec certitude qu'un culte de Minerve, dans le sanctuaire
extraurbain oriental185, où la présence du Palladium n'est pas
indubitablement attestée186.
En revanche, il n'existe, à notre connaissance, aucune mention de
la présence de cette statue d'Athéna à Albe187. D'autre part s'il est vrai
que la présence du Palladium à Troie n'a pas suffi à éviter
l'anéantissement de la cité188, Lavinium, bien qu'elle ait connu un certain déclin au
cours de son histoire, n'a jamais subi véritablement de revers cuisant,
encore moins de destruction complète. Mais sans doute, pour Augustin,
Rome elle-même est-elle l'une de ces trois cités.
Si l'on considère, au contraire, que le terme Ma fatalia, loin de
s'appliquer au seul Palladium, désigne l'ensemble des sacra dont
Augustin laisse implicitement entendre qu'ils furent apportés par Enée, et
probablement parmi eux ceux que l'on a appelés dans le Latium, peut-
être à Rome, et à coup sûr à Lavinium, les Pénates, l'expression quae
très presserant ciuitates devient un peu plus claire. La présence de sacra

yeux ». Voir M. Sordi, Lavinio, Roma e il Palladio, in Politica e religione nel primo scontro
tra Roma e l'Oriente, p. 76.
184 Op. cit., p. 485, η. 1.
iss Voir ci-dessus, p. 257-61.
186 Ce sont les conclusions auxquelles parvient F. Castagnoli (Ancora sul culto di
Minerva a Lavinio, passim), à partir de l'analyse du texte de Strabon que nous avons cité :
le Palladium n'a, en fait, jamais été déposé à Lavinium, et Strabon se moque des
prétentions de la cité à le détenir; le culte de Minerve, très richement attesté dans le sanctuaire
extra-urbain découvert à l'est des murs de la ville, doit être distingué de celui du
Palladium, conservé à Rome.
187 Cf. L. Ziehen, in R.E. XVIII, 3, s.u. Palladion, col. 171-201; P. Grimai, Dictionnaire
de la mythologie grecque et latine, Paris, 1951, p. 339-340.
188 II est évident que l'expression employée par Augustin (très presserant ciuitates) est
tout-à-fait polémique, puisqu'elle tend à faire des fatalia, non les victimes de la défaite,
mais les véritables agents de cette défaite : le sens et la forme active du mot presserant en
témoignent.
498 LES PÉNATES PUBLICS

à Troie, parmi lesquels les di patrii emportés par Enée pour les
soustraire à la destruction de la ville, est un thème dont nous avons vu qu'il
est bien attesté dans la littérature et l'iconographie189. De même,
l'allusion probable à Albe parmi les trois cités s'explique mieux : Augustin
peut songer, soit à l'épisode du transfert des Pénates de Lavinium à
Albe lors de la fondation de cette cité, de l'échec de cette tentative, et
du retour des Pénates, la nuit, dans le sanctuaire de Lavinium190, soit
encore à la guerre entre Rome et Albe et à la destruction totale de cette
dernière. Cette seconde interprétation est incompatible avec la
première, qui reconnaît dans Albe une cité fille de Lavinium et nie la présence
à Albe de Pénates lavinates; mais on peut considérer qu'Augustin ne
prend en compte que le lien de filiation existant entre les deux cités.
Toutefois, même dans l'hypothèse où Ma fatalia désignerait les sacra en
général, la mention de Lavinium reste inexplicable si ce n'est par une
assimilation polémique faite par Augustin du sort de cette cité à celui
de sa cité-mère, Troie, et de sa cité-fille, Albe, toutes deux anéanties. Il
nous semble, en tout cas, que cette interprétation est de beaucoup
préférable à celle qui voit dans les fatalia le seul Palladium. Par
conséquent, le témoignage d'Augustin nous "paraît, en définitive, se ranger
parmi ceux qui attribuent à Métellus le sauvetage de l'ensemble des
sacra, et non pas simplement du Palladium. Le rapprochement entre ce
passage et celui que nous avons précédemment étudié du même auteur
est du reste assez éclairant à ce sujet191.
En définitive, il ne nous paraît pas téméraire de penser que l'action
héroïque de Métellus consiste à avoir sauvé des flammes les sacra du
sanctuaire de Vesta, plutôt que la seule statue d'Athéna. Que le
Palladium soit assez souvent mentionné seul nous paraît pouvoir s'expliquer
par le fait qu'il était sans doute le seul objet sacré à avoir un nom
propre, et par le prestige dont il jouissait; l'identité des autres était assez
vague, comme le montre du reste leur désignation par le simple terme
de sacra, sauf dans le texte de Tacite où il est question de Penates populi
Romani.
Quant à la portée de l'action de Métellus, et donc à l'importance
des objets sacrés qu'il mit à l'abri par son courage, elle est, en
général, fortement soulignée par les auteurs que nous venons de citer.

189 Cf. supra p. 161-217.


190 Cf. Denys d'Halicarnasse, I, 67, 2-4.
191 De Ciu. Dei VI, 2.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 499

Nous n'insisterons pas sur la valeur qu'elle revêt chez les deux
auteurs chrétiens, Augustin et Orose, valeur essentiellement polémique,
puisqu'il s'agit de ridiculiser les dieux des païens en montrant qu'en
des circonstances critiques, incapables d'assurer leur propre salut, ils
ne furent sauvés que par une intervention humaine. Le point de vue
des auteurs païens est évidemment tout autre, et met fortement en
valeur l'exploit de Métellus, comme nous avons cru pouvoir le
montrer dans le cas d'Ovide. Denys192 signale que de grands honneurs
(τιμάς μεγάλας) furent rendus au Pontifex Maximus, rappelés dans
une inscription figurant au pied de sa statue sur le Capitole. Pline
l'Ancien est plus précis : tribuit ei populus Romanus quod nulli alii ab
condito aeuo, ut, quotiens in senatum iret, curru ueheretur ad cu-
riam19i. D'autre part, de même qu'Ovide insistait sur le danger couru
par Métellus, Valére Maxime, Augustin et Orose194 notent que
Métellus fut à demi-brûlé. Mais d'autres précisent qu'il perdit la vue à
cette occasion: Pline l'Ancien195, Sénèque le Rhéteur196 et Ampelius197.
Cette cécité peut parfaitement s'expliquer comme la suite des
brûlures que subit le Grand Pontife, ou comme la blessure causée à ses
yeux par la lumière trop vive des flammes. Mais il semble bien que,
comme le suggère A. Brelich198, il faille accorder une autre
signification à cette infirmité, dont Sénèque, dans la Controversia déjà citée,
souligne ce qu'elle a d'incompatible avec les charges exercées par la

192 π, 66, 4.
193 N.H. VII, 45, 141 : «II reçut du peuple romain un privilège qui n'a jamais encore
été accordé depuis notre ère : celui de se faire transporter en char à la curie, chaque fois
qu'il se rendait au Sénat» (op. cit.). A. Brelich (// mito nella storia di Cecilio Metallo,
SMSR, 15, 1939, p. 33) pense, tout en en critiquant, à la suite de Mommsen (ibid., n. 7), la
plausibilité historique, que cet honneur fait entrer Métellus dans un monde surhumain.
R. Schilling (op. cit., Commentaire, p. 205 n. 6) est beaucoup plus nuancé et réservé.
194 I, 4, 4 : semiustus; De Ciu. Dei III, 18 : semiustus; IV, 11, 9 : semiustatus.
195 N.H. VII, 141 : /5 Métellus orbam luminibus exegit senectam amissis incendio, cum
Palladium raperei ex aede Vestae : « Ce Métellus passa sa vieillesse dans la cécité ; il avait
perdu la vue dans un incendie, en enlevant le Palladium du temple de Vesta» (op. cit.);
dans la suite, Pline affirme que le privilège qui lui fut octroyé par le peuple romain était
destiné à compenser cette infirmité.
196 Contr. IV, 2 : oculos perdidit ; le titre de la Controuersia est d'ailleurs Métellus Cae-
catus.
197 20, 1 1 : oculos amisit.
198 Op. cit., p. 34 sqq.
500 LES PÉNATES PUBLICS

suite par Métellus, posant par là même un problème juridique199.


Ovide avait insisté sur la difficulté que présentait l'intervention de
Métellus lors de l'incendie du point de vue du strict respect de la
législation religieuse : sauver les sacra l'amène à pénétrer dans un lieu
interdit aux hommes, et à voir des objets qui ne doivent pas être vus,
απόρρητα ίερά, comme le note Denys200. La cécité du Grand Pontife
serait alors, non une lésion accidentelle, mais le résultat d'une
punition divine. Il est manifeste, d'ailleurs, que ce point a embarrassé les
auteurs latins, dans la mesure où ils présentaient l'intervention de
Métellus comme un acte héroïque, et non pas impie. Factum dea rap-
ta probauit201 écrit Ovide, tandis que Sénèque fait gagner Métellus sur
les deux tableaux, celui du courage et celui de la piété, en déclarant :
habes, Vesta, duplex pontificis tui meritum : seruauit sacra nec ui-
dit202.
A Brelich propose d'établir un parallèle entre Métellus, devenu
aveugle à la suite de l'incendie du sanctuaire de Vesta, et l'ancêtre
éponyme de la Gens Caecilia, Caeculus, fondateur de Préneste, qui
était né d'une étincelle de feu203, et avait le pouvoir de rendre
aveugle204: chez le Grand Pontife comme chez son ancêtre légendaire,
souligne A. Brelich205, il existe une relation entre la perte du sens de
la vue et le feu. Mais ce qui nous semble surtout notable ici, c'est
que la cécité est présentée comme la punition de ceux qui ont vu des
choses divines qui devaient rester cachées. Il existe au moins deux
exemples analogues, qui peuvent, croyons-nous, être rattachés à la
légende troyenne, ou à ses héros. Selon le pseudo-Plutarque, Ilos, qui
avait sorti le Palladium de son temple troyen en flammes, fut
aveuglé : ού γαρ έξη ν ύπ' ανδρός βλέπεσθαι, conclut-il206. La ressemblance

199 Cf. Münzer, op. cit., col 1204, et la bibliographie donnée par A. Brelich, op. cit.,
p. 33 n. 1.
200 II, 66, 3.
201 Fastes VI, 453.
202 Loc. cit.
203 Servius, Ad Aen. VII, 678; Schol. Veron., Ad Aen. VII, 681 ; Solin, II, 9. Cf. A.
Brelich, op. cit., p. 38 n. 1.
204 Tertullien, Ad Nat. II, 15. Cf. A. Brelich, op. cit., p. 36 n. 3.
205 Op. cit., p. 38.
206 par Min> 17 (cf_ a. Brelich, op. cit., p. 35 n. 5). Cependant, chez le
pseudo-Plutarque, Métellus et Ilos, après avoir été punis par la cécité, finissent par recouvrer la vue, ce
qui, pour Métellus, est absolument contraire à l'ensemble de la tradition, comme le
souligne A. Brelich (ibid.).
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 501

avec l'épisode de Métellus est frappante. Mais ce caractère secret des


objets enfermés dans l'Aedes Vestae rappelle aussi ce que Denys d'Ha-
licarnasse notait à propos des sacra apportés et établis par Enée à
Lavinium, identifiés par l'historien comme les Pénates : au moment
où les fondateurs d'une nouvelle cité, Albe, construisent un temple où
ils se proposent d'installer les Pénates de Lavinium, ils prennent soin
de ménager à l'intérieur de ce dernier un espace inviolable, où il sera
interdit d'entrer : κατασκευασθέντος. . . ναού χωρίον έχοντος άβα-
τον207; et, concluant sur le problème de l'identification des sacra lavi-
nates, Denys affirme qu'il refuse d'enquêter davantage sur des objets
qu'il est interdit de voir208. Bien qu'il n'existe pas de tradition selon
laquelle la vue des sacra de Lavinium aurait pu être cause de cécité,
il nous semble que l'interdit qui les frappe permet de les rapprocher
de ceux du Penus Vestae du sanctuaire du Forum. Cette parenté, déjà
soulignée plus haut, permet peut-être d'expliquer pourquoi, à un
certain moment, on a considéré que les seconds étaient, comme les
premiers, les Pénates du peuple romain.
Enfin, concernant la légende de la cécité de Métellus comme
punition pour avoir vu des sacra qu'il était interdit de voir, un autre
rapprochement nous paraît peut-être pouvoir être suggéré avec beaucoup de
prudence. Il existe une tradition littéraire selon laquelle Zeus aurait
menacé Anchise de l'aveugler de la foudre, ou même aurait mis cette
menace à exécution, pour le punir de son union avec Aphrodite209,
tradition grecque à l'origine. Or, on a découvert à Castel de Decima, dans
une tombe datée de la fin du VIIIe siècle210, un objet de bronze placé
entre les roues d'un char, pièce sans doute destinée à maintenir l'écart
entre les chevaux. A. Bedini propose de reconnaître, dans l'un des
personnages figurés sur cette pièce de bronze, Anchise aveuglé par deux
oiseaux, dont le bec semble en effet plongé dans ses yeux, tandis qu'un
autre personnage, symétrique, semble être une femme allaitant un
enfant, peut-être Vénus et Enée. A. Bedini, suivant une suggestion faite

207 I, 67, 1 : «un temple comprenant un espace inviolable ayant été construit».
208 I, 67, 4.
209 Cf. Hymne homérique à Aphrodite, 286-288, pour la menace; Théocrite, ap. Ser-
vius, Ad Aen. I, 617 et II, 35, 649, 687, pour son exécution. Voir A. Bedini, L'ottavo secolo
nel Lazio e l'inizio dell'orientalizzante antico, in Lazio arcaico e mondo greco, PP, 32, 1977,
p. 302, n. 61.
210 Cf. A. Bedini, op. cit., p. 297-303.
502 LES PÉNATES PUBLICS

dès la découverte du bronze par G. Pugliese Carratelli211, propose donc


de l'expliquer en liaison avec la légende troyenne, ce qui ferait
remonter à une date haute, sans doute le VIIIe siècle, la présence de cette
dernière en Italie centrale. Naturellement, le héros et les circonstances
de l'anecdote sont tout à fait différents de ceux de l'incendie du
sanctuaire de Vesta en 241. Mais, outre le point commun constitué par
l'aveuglement comme punition d'une relation interdite de simples
mortels avec le divin, il y en a peut-être un autre, le personnage d'Enée, qui
nous apparaît ici comme le pivot autour duquel s'organisent les deux
légendes d'Anchise et de Métellus : Anchise est aveuglé par Zeus parce
qu'il s'est uni à Aphrodite, union dont naît Enée; ce dernier transporte
de Troie au Latium des sacra qu'il est interdit de voir, et qu'une partie
au moins de la tradition identifie avec ceux du sanctuaire de Vesta,
Pénates et Palladium; or, pour avoir sauvé ces derniers des flammes, et
donc les avoir vus, le Grand Pontife Métellus est aveuglé. Au reste, nous
avons déjà cité un texte d'Augustin qui établit un parallélisme entre
Métellus et Enée : Métellus de incendio sacra Vestalia et Aeneas de
Troiano excidio pénates liberasse praedicatur212.
Ainsi, il nous semble que l'épisode du sauvetage des sacra du
sanctuaire de Vesta par Métellus tend à authentifier la présence des Pénates
parmi ces derniers. Les auteurs qui ont mentionné l'épisode insistent
sur l'importance de cet exploit, considéré, au même titre que le
sauvetage des sacra de Troie par Enée, comme héroïque et exemplaire.
D'autre part, pas plus que les Pénates de Lavinium, ces sacra ne doivent être
vus par les profanes. Enfin, les liens avec la légende de la fuite d'Enée
et de sa venue au Latium sont nombreux. La présence du Palladium
parmi les sacra de X'Aedes Vestae suggère une relation entre eux et ceux
de Troie. Comme ces derniers, ils sont les garants et les symboles de la
pérennité de la ville qui les détient, et le geste de Métellus, comparé à
celui d'Enée, suggère fortement qu'ils ont l'un et l'autre sauvé des
objets sacrés de nature identique.

211 Op. cit., p. 302, n. 62; G.Dumézil {Anchise foudroyé?, in L'oubli de l'homme et
l'honneur des dieux, Paris, 1985, p. 151-161) accepte cette interprétation du bronze de
Castel di Decima, qu'il appuie par des exemples analogues, empruntés à la mythologie
grecque et scandinave.
212 De du. Dei VI, 2.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 503

3) Incendies divers

Tite-Live nous rapporte un autre épisode marquant de l'histoire du


sanctuaire de Vesta sur le Forum, l'incendie de 210 avant J.-C, auquel
nous avons déjà fait allusion. Là encore, un sauvetage héroïque est
accompli, cette fois par des esclaves : Aedis Vestae uix defensa est trede-
cim maxime seruorum opera, qui in publicum redempti ac manu misst
sunt213. Il s'agit d'un incendie criminel, allumé par des nobles campa-
niens qui furent dénoncés par un esclave de l'un d'eux, sur promesse
d'une forte récompense du consul romain; ils avaient, dit Tite-Live,
cherché à atteindre YAedes Vestae, son feu éternel, et conditum in
penetrali fatale pignus imperi Romani. Tite-Live ne cite donc là que le
Palladium, et non les autres sacra, sans doute parce qu'il est le plus connu;
mais il nous semble que la mention du penetrale suggère aussi la
présence des autres, et notamment de ceux qui ont un rapport
étymologique avec le nom de ce lieu, les Pénates. On peut, enfin, à la lumière de
cet épisode, faire la remarque suivante : le fait que les sacra aient été
sauvés par des esclaves, comme ils l'avaient été précédemment par le
plébéien Lucius Albinius, rend difficile d'interpréter le geste du Grand
Pontife Métellus comme une preuve du caractère gentilice du culte des
sacra de YAedes Vestae, interprétation que pourrait suggérer un texte de
Festus citant les Caecilii parmi les «familles troyennes», descendantes
des compagnons d'Enée214.
Dion Cassius mentionne encore deux incendies, l'un, pendant la
guerre civile, en 47 avant J.-C, l'autre en 17 avant J.-C, mais il se
contente de dire que les Vestales durent sortir du temple les ίερά dans
le premier cas215, dans le second cas qu'elles transportèrent les ίερά
dans la maison du flamine de Jupiter sur le Palatin216. Nous n'avons
donc aucune précision sur la nature de ces ίερά. Cependant, une
indication donnée par Dion Cassius nous semble particulièrement intéressan-

213 XXVI, 27 : « Le temple de Vesta fut défendu à grand peine, surtout grâce aux
efforts de treize esclaves, qui furent rachetés pour le compte de l'Etat et affranchis»
(trad. E. Lasserre, op. cit.).
214 38 L. : alii appellatos eos (= Caecilios) dicunt a Caecade Troiano, Aeneae comité ; des
listes des «familles troyennes» figuraient, notamment, dans l'ouvrage de Caton, De
aduentu Aeneae (cité par Servius, Ad Aen. IX, 707; Or. Gent. Rom., 15, 4), et dans celui de
Varron, De familiis troianis (Servius, Ad Aen. V, 704); cf. S. Weinstock, Penates, col. 446.
215 XLII, 31, 3.
216 LIV, 24, 2.
504 LES PÉNATES PUBLICS

te, et confirme notre analyse de l'action de Métellus : c'est la mention


de la cécité de la Grande Vestale. Il est peu probable qu'une telle
infirmité soit antérieure à l'incendie du temple, car elle paraît peu
compatible avec cette fonction très prestigieuse217. Est-elle une punition pour
avoir pénétré dans le Penus où étaient gardés les ίερά? Mais cela
semble en contradiction avec le fait que, précisément, seules les Vestales y
avaient accès. Il se peut que Dion Cassius rapporte à la Grande Vestale,
et à cette circonstance, une cécité plus souvent attribuée à Métellus;
nous n'avons aucun autre témoignage sur cet événement, mais le lien
entre le transfert des ίερά et la cécité nous semble devoir être relevé.
Ensuite, nous connaissons par Tacite l'incendie du sanctuaire sous
le règne de Néron : delubrum Vestae cum Penatibus populi Romani
exusta2U. Ici, la mention des Pénates est claire. S. Weinstock219 souligne
le contraste entre Métellus qui sauva les sacra au péril de sa vie, en
bravant les interdits religieux, et en perdant peut-être la vue à la suite
de ce geste, et Néron, dont certains prétendirent à Rome220 qu'il avait
lui-même ordonné de mettre le feu pour pouvoir mener à bien les
réalisations architecturales qu'il projetait; lors de cet incendie, ajoute
S. Weinstock, les «Pénates troyens» furent brûlés, et c'est en effet ce
qu'on peut déduire du texte de Tacite pris à la lettre. L'histoire des
Pénates dans l'Aedes Vestae s'arrêterait là. Pourtant, comme nous allons
le voir, la présence des sacra est à nouveau mentionnée plus tard. Il
faut donc probablement interpréter l'indication de Tacite de la manière
suivante : le sanctuaire et le lieu spécifique où l'on conservait les sacra,
le Penus Vestae, furent brûlés, mais sans doute les sacra eux-mêmes
furent-ils sauvés.
Hérodien221 signale un dernier incendie du temple en 191 après J.-
C; les Vestales, dit-il, sauvèrent des flammes le Palladium, dont il
précise que c'était la statue apportée par Enée de Troie en Italie; il n'est
pas question d'autres sacra. En revanche, l'Histoire Auguste nous donne
des indications, les dernières que nous possédions concernant les sacra
de l'Aedes Vestae, à propos d'une série d'actes d'impiété et de
profanation dont se rendit coupable l'empereur Héliogabale : sacra p. R. subla-

217 Cf. C. Koch, Vesta, col. 1732-1754.


218 Ann. XV, 41, 1.
219 Op. cit., col. 444.
220 Cf. Tacite, Ann. XV, 40.
221 I, 14; cf. Dion Cassius LXXII, 24.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 505

tis penetralibus profanami. Ignem perpetuum extinguere uoluit. . . et in


penum Vestae quod solae uirgines solique pontifices adeunt, inrupit. . . et
penetrale sacrum est auf erre conatus cumque seriam quasi ueram rapuis-
set, quant uirgo maxima falso monstrauerat atque in ea nihil repperisset
adplosam fregit. . . Signum tarnen quod Palladium esse credebat abstulit
et auro uinctum in sui dei tempio locauit222. Dans ce témoignage tardif,
nous trouvons rassemblées la plupart des données que nous
connaissons déjà sur les sacra. Notons d'abord l'emploi du terme penetralia, et
penetrale, dont le sens n'est pas, ici, tout à fait clair. Le sens habituel de
penetralia est «le lieu le plus secret du temple»223, et c'est celui qu'il
faut lui donner dans sublatis penetralibus; en effet, si l'on comprenait
le mot comme «objets sacrés», il ferait double emploi avec sacra; mais
il faut alors donner à ferre le sens de «violer»; en revanche, penetrale
sacrum nous semble signifier, comme complément de auferre, «les
objets sacrés cachés dans le secret du temple». En fait, le texte de
l'Histoire Auguste paraît distinguer trois catégories de sacra enfermés dans
le penetrale : le feu, le Palladium, et au moins deux jarres, dont le texte
suggère que l'une, vide, est destinée à tromper d'éventuels ravisseurs,
et que l'autre - qui échappe finalement à l'impiété d'Héliogabale - est
pleine. Cette anecdote semble présenter la contamination de deux
traditions. D'une part, dans la présence de jarres, ici désignées par le mot
seria, on reconnaît la tradition que nous avons étudiée plus haut,
connue par Tite-Live et par Plutarque, selon qui224 les Vestales, lors de
l'invasion gauloise, auraient enterré dans des jarres une partie des
sacra avant d'emporter l'autre à Caeré. Le témoignage de l'Histoire
Auguste est différent, puisque, d'après ce texte, des sacra n'auraient pas
été enfermés dans des jarres lors d'une circonstance précise, et hors du
sanctuaire de Vesta, mais l'auraient été continuellement à l'intérieur

222 Hist. Aug., Heîiog. VI, 6-9 : « II profana les objets sacrés du peuple romain après
avoir violé les penetralia. Il voulut éteindre le feu perpétuel. . . et se précipita dans le
Penus Vestae, où seuls les Vestales et les Pontifes ont accès. Il tenta d'emporter les objets
sacrés cachés dans le sanctuaire et tandis qu'il avait enlevé, la prenant pour la vraie, une
jarre que la Grande Vestale lui avait mensongèrement désignée, et qu'il avait constaté
qu'elle ne contenait rien, il la jeta à terre et la brisa. . . Pourtant, il emporta une statue
qu'il croyait être le Palladium, et la plaça dans le temple de son dieu, attachée par des
chaînes d'or».
223 Ce sens est conforme à la définition de Festus (231 L.) : penetralia sunt penatium
deorum sacrario.
,224 Liv., V. 40, 8; Plutarque, Cam., 20, 7.
506 LES PÉNATES PUBLICS

même du Penus. D'autre part, l'Histoire Auguste nous apprend qu'il y


avait deux jarres, dont l'une - la vraie - était pleine (elle contenait des
sacra), et l'autre vide et sans valeur, ce qui explique le geste de fureur
d'Héliogabale, lorsqu'il s'aperçoit qu'il a été trompé. Or, tandis que,
pour Tite-Live, les deux jarres sont pleines, pour Plutarque, comme
pour l'auteur de l'Histoire Auguste, l'une est pleine et l'autre vide. Dans
ce dernier texte, comme chez Plutarque, ce détail peut s'expliquer par
une contamination avec certaines des traditions relatives au Palladium,
selon lesquelles, dès l'origine, les Troyens auraient fait faire une copie
de la statue, copie sans valeur qu'auraient volée Ulysse et Diomède.
Selon ce dernier témoignage que nous possédons sur l'histoire des
sacra, et bien que le texte ne le dise pas explicitement, ce sont sans
doute les Pénates qui sont supposés être conservés dans l'une des jarres de
manière permanente, contrairement à ce que suggère le récit de Tite-
Live sur le sauvetage des sacra en 390, mais conformément à la
tradition rapportée par Plutarque.
En conclusion, à examiner les témoignages sur l'histoire des sacra
du sanctuaire de Vesta, il nous semble, malgré les réserves formulées
par A. Brelich225, qu'il existe bien une tradition qui les identifie aux
Pénates, identification plus ou moins claire suivant les textes. Nous
avons souligné, au cours de l'étude de ces témoignages, l'extraordinaire
importance que revêtent ces sacra pour le salut du peuple romain, les
parentés avec les sacra apportés par Enée à Lavinium, dans lesquels les
Romains reconnaissent leurs propres Pénates. Mais ce lien des sacra du
Penus Vestae avec Enée est aussi, et surtout, assuré par leur association
avec le Palladium, dont la plupart des traditions font d'Enée
l'introducteur en Italie. Aussi est-il permis de penser que si seul le texte de Tacite
mentionne explicitement la présence des Penates populi Romani dans le
sanctuaire de Vesta, cette attestation, loin d'être un fait isolé et ne
datant que de l'époque d'Auguste, repose sur une tradition assez solide
et bien antérieure à l'instauration du pouvoir augustéen, même si l'on
admet que le premier témoignage concernant les sacra dans leur
ensemble - non le seul Palladium -, celui de Tite-Live à propos de
l'invasion gauloise de 390, atteste peut-être de manière anachronique, au IVe
siècle, des traditions beaucoup plus récentes.
Nous nous proposons d'examiner à présent l'origine des Pénates
conservés dans l'Aedes Vestae, qu'une partie de la tradition rattache à

Vesta, p. 75-85.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 507

Enée, alors qu'une autre tradition, beaucoup mieux représentée,


affirme qu'il avait installé ses Pénates à Lavinium. Pour préciser l'origine
de ces dieux dans YAedes Vestae, nous étudierons l'histoire du
sanctuaire, en le replaçant dans l'ensemble architectural auquel il appartient.

III - L'Aedes Vestae, la Regia et les Pénates

Le sanctuaire de Vesta, où sont gardés les sacra populi Romani, est


voisin de la Maison des Vestales, avec laquelle il forme un ensemble,
lui-même proche de la maison du Rex sacrorum, devenue ensuite celle
du Pontifex Maximus226; de plus, YAedes Vestae n'est séparée de la Regia
que par une rue, que l'on identifie généralement comme la Via Sacra,
identification d'ailleurs contestée par F. Coarelli227, pour qui la Via
Sacra serait, non la rue, qui, passant entre ces deux bâtiments, longe
ensuite la Basilica Iulia jusqu'à ÏAedes Saturni, mais celle qui longe la
Basilica Aemilia et va jusqu'à YArx en passant par le Comitium; enfin, le
long de la Via Noua, au pied du Palatin, se trouvait le Lucus Vestae228. Il
se pose, à propos de cet ensemble, quelques problèmes de
dénomination. Selon E. Van Deman229, il n'y avait pas, à l'époque des rois, ces
différents bâtiments à l'intérieur de «l'enceinte de Vesta»; la maison du
Rex sacrorum n'avait d'ailleurs pas de raison d'être, puisque cette
fonction sacerdotale date précisément de la chute des rois; les différentes
parties qui constituaient cet ensemble étaient fortement resserrées et
unifiées autour de la personne du roi, formant ce que l'archéologue
américaine appelle une «structure complexe» qu'elle désigne du terme
de Regia (ce qui apparaît aujourd'hui comme une dénomination
erronée, après avoir fait l'objet de longs débats230), Yatrium proprement dit
étant, selon elle, équivalent de ce qu'il est dans l'architecture privée :
un espace ouvert. Au contraire, F. Castagnoli et F. Coarelli, à la suite de
S. B. Plainer et T. Ashby, distinguent nettement la Regia, d'un côté de la
Via Sacra, et Y Atrium Vestae de l'autre, enceinte comprenant la Domus
Vestalium et YAedes Vestae. Il n'en reste pas moins que l'ensemble

226 Cf. F. Coarelli, Roma, p. 81; II Foro Romano I, p. 70-72.


227 Roma, p. 78.
228 E. Van Deman, op. cit., p. 9; S. Β. Platner-T. Ashby, op. cit., p. 58-59; F. Castagnoli,
Topografia di Roma antica, p. 82-83 ; F. Coarelli, II Foro Romano I, p. 234.
229 Ibid.
230 Cf. E. Van Deman, op. cit., p. 10 η. 4.
508 LES PÉNATES PUBLICS

Regia - Atrium Vestae forme un tout organique autour de la personne


du roi. En effet, ces différents édifices ne constituent pas seulement
une unité topographique - ils sont regroupés dans un espace
relativement limité, entre la Vèlia et le Palatin -, mais aussi une unité
fonctionnelle, rassemblant les cultes rattachés à la personne du roi et, peut-être,
la demeure même du roi et de sa famille.

1) L'Aedes Vestae et la Regia

Examinons d'abord les données littéraires relatives à ces deux


édifices, que sépare la Via Sacra. On rapportait la fondation du sanctuaire
de Vesta à Numa, selon une tradition qui nous est connue par Tacite231,
Plutarque232 et Festus233. Cette tradition s'explique du reste assez bien :
tandis que Romulus a fondé Rome et lui a donné une organisation
politique et militaire, Numa la dote d'une législation religieuse et instaure
différents sacerdoces, notamment celui des Vestales234. Or, un texte de
Solin attribue également à Numa la construction de la Regia, qui aurait
été, selon lui, la demeure royale235 : Numa in colle Quirinali (habitauit),
deinde propter aedem Vestae in regia quae adhuc ita appellatur236. Les
données fournies par ces témoignages sont donc relativement claires : il
y aurait eu, à l'époque de Numa, c'est-à-dire suivant l'historiographie
romaine, à la fin du VIIIe ou au début du VIIe siècle, deux bâtiments
distincts : d'une part le sanctuaire de Vesta, rond, où était conservé le
feu perpétuel, d'autre part la Regia, résidence du roi; la construction
des deux édifices était rapportée à Numa.
Un texte d'Ovide nous apporte pourtant à ce sujet un témoignage
singulier :

231 Dans le passage déjà cité des Annales (XV, 41, 1), à propos de l'incendie de Néron,
Tacite écrit : Numae regia et delubrum Vestae cum Penatibus populi Romani exusta.
232 Numa, 11, 1 : «On dit que Numa donna au temple de Vesta, où l'on garderait le
feu perpétuel, la forme ronde» {op. cit.).
233 320 L : Rutundam aedem Vestae Numa Pompilius rex Romanorum consecrasse
uidetur.
234 Cf. Liv., I, 20, 1 sq.
235 Nous reviendrons sur cette question très largement controversée : cf. infra p. 513
sq.
236 I, 25.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 509

Hic locus exiguus, qui sustinet atria Vestae,


tune er at intonsi regia magna Numae237.

Une première difficulté réside dans l'interprétation du terme atria


Vestae; le pluriel est de toute évidence poétique, au lieu de l'expression
habituelle Atrium Vestae. H. Le Bonniec238 pense que ce terme désigne
uniquement la Maison des Vestales, tandis qu'E. Van Deman239 et
F. Coarelli240 voient dans l'Atrium Vestae l'ensemble constitué par le
sanctuaire de Vesta et la Maison des Vestales. Mais surtout, comme le
souligne H. Le Bonniec, Ovide a l'air de considérer que la Regia est
confondue avec l'Atrium. Cette notation n'est sans doute pas une
confusion ou une fantaisie du poète. Elle prouve, croyons-nous, qu'à
l'origine, il n'y avait guère de distinction entre ces différents bâtiments,
Regia, sanctuaire de Vesta, Maison des Vestales241. L'adjectif magna,
dans l'expression regia magna, nous paraît, dans cette hypothèse, faire
référence à une vaste enceinte plutôt qu'à un palais somptueux; regia
doit ici être compris comme «l'espace appartenant au roi». L'histoire
des bâtiments compris dans l'enceinte de Vesta serait, en conséquence,
celle d'une progressive spécialisation. A l'époque de Numa, la maison
du roi, le sanctuaire de Vesta, et la Maison des Vestales ne sont pas
clairement différenciés : le foyer de Vesta est celui du roi, et n'est, pas
conséquent, pas distinct de sa maison; les Vestales sont peut-être les
filles non mariées du roi242, et habitent donc la maison du roi.

237 Fastes VI, 263-264 : « Cet espace étroit, qui porte aujourd'hui l'Atrium de Vesta,
était alors le grand palais de Numa, le roi chevelu» (trad. H. Le Bonniec, op. cit.).
238 Op. cit., p. 208 n. 62.
239 Op. cit., p. 9.
240 Roma, p. 81.
241 Une remarque d'E. Van Deman va dans le même sens : « Pendant la première
période de son existence, il n'y avait pas de constructions distinctes à l'intérieur de
l'enceinte de Vesta, mais les différentes parties, plus ou moins étroitement unies entre elles,
formaient une unique structure complexe» (loc. cit.); et elle ajoute en note : «La route qui
sépare à présent le temple de la dernière Regia n'est pas d'origine» (loc. cit., n. 2); voir
aussi J. G. Frazer, op. cit., p. 188-201.
242 Cf. A. Preuner, Hestia-Vesta, passim; A. Brelich, Vesta, passim; J.-P. Vernant, Hes-
tia-Hermès : sur l'expression religieuse de l'espace et du mouvement chez les Grecs, in
l'Homme, 1963, 3, p. 12-50 (repris dans Mythe et Pensée chez les Grecs I, Paris, 1965,
p. 124-170); cette explication du statut des Vestales peut être rapprochée de la tradition
rapportée notamment par Tite-Live (I, 3, 11), selon laquelle Rhéa Silvia, fille du roi d'Albe
Numitor, était Vestale (voir P. M. Martin, L'idée de royauté à Rome. De la Rome royale au
consensus républicain, Clermont-Ferrand, 1982, p. 108); cette opinion est combattue par
510 LES PÉNATES PUBLICS

Quant au temple lui-même, toujours d'après le témoignage d'Ovide,


il était originellement en roseaux, de même que les huttes primitives :
Quae nunc aere uides, stipula turn teda uideres,
Et paries lento uimine textus erat243

Comme le souligne à juste titre H. Le Bonniec244, cette parenté,


dans le matériau de construction, avec les cabanes primitives, explique
probablement aussi en partie la forme du sanctuaire245. Du reste, les
documents figurés, en particulier les monnaies, représentent très
souvent l'Aedes Vestae comme une hutte ronde, avec un toit de chaume
pointu246.
Or, l'archéologie semble confirmer la tradition selon laquelle
l'Aedes Vestae aurait été construite «par Numa», c'est-à-dire vers le milieu
du VIIe siècle, selon les données de l'annalistique romaine. De la
construction du bâtiment de cette époque, on n'a retrouvé aucune trace247,
ce qui s'explique fort bien s'il était fait de branchages, comme le
prétend Ovide. Cette affirmation, comme la datation du monument, est, du
reste, corroborée par la découverte de deux puits situés près de
l'enceinte ronde de X'Aedes, entre l'édifice et la Maison des Vestales. Cette
découverte revient à G. Boni et date du début du siècle, mais le matériel
trouvé dans ces deux puits, l'un archaïque, l'autre d'époque républicai-

M. Beard (The sexual status of the Vestal virgins, JRS, 70, 1980, p. 12-27), pour qui les
Vestales sont les épouses, plutôt que les filles, du roi : leur costume ressemble à celui des
matrones, et la formule de la capito, où le Pontifex Maximus a pris la place du roi,
instaure une relation de type conjugal, plutôt que filial; la légende de Rhéa Silvia est
interprétée en ce sens : c'est l'aspect de la Vestale comme mère de Romulus et Rémus qui est
retenu, tandis que M. Beard souligne que le rapport privilégié des Vestales au feu peut
être expliqué comme une sorte d'union sexuelle, la flamme étant un symbole phallique,
comme l'illustre la légende de la naissance de Servius Tullius (cf. supra p. 458 n. 33);
M. Beard estime d'ailleurs que le statut sexuel des Vestales est ambigu, pour partie
féminin, pour partie masculin.
243 Fastes VI, 261-262: «Ce temple que vous voyez aujourd'hui couvert de bronze,
vous l'auriez vu alors couvert de chaume, et ses parois étaient faites alors d'osier
flexible» (trad. H. Le Bonniec, op. cit.).
244 Op. cit., p. 208 n. 61; voir aussi C. Koch, Vesta, col. 1725-26.
245 Comme le rappelle H. Le Bonniec, loc. cit. ; G. Dumézil (La religion romaine
archaïque, p. 319-326) explique cette forme par des traditions religieuses indo-européennes.
246 C. Koch, op. cit., col. 1724-25.
247 Cf. R. Lanciani, Notizie Scavi, 1883, p. 434 sq.; G. Boni, ibid., 1900, p. 159 sq.;
A. Bartoli, // valore storico delle scoperte al Palatino e al Foro, in Atti della Soc. hai.
Progresso delle Scienze, 21, 1932.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 51 1

ne, fut publié par A. Bartoli248 en 1961. Dans le puits archaïque, on a


retrouvé, notamment, un fragment de crépi grossier portant
l'empreinte d'un roseau249, ce qui confirme la ressemblance entre le sanctuaire et
les cabanes servant d'habitation. D'autre part, ce puits archaïque
contient essentiellement de la vaisselle, datable, par comparaison avec
du matériel analogue découvert sur le Forum, d'une période comprise
entre le VIIe et le début du VIe siècle, et rien, dans le matériel enfoui là,
n'est postérieur à cette date250. Nous avons donc la preuve qu'il a existé
en ce lieu un culte de Vesta dès le VIIe siècle251, sans qu'il soit possible,
indique A. Bartoli252, de faire une distinction entre les objets purement
cultuels et ceux qui appartenaient aux Vestales, en raison du très
mauvais état de la plupart d'entre eux.
A peu près à la même époque, dans le courant du VIIe siècle,
apparaissent les premières traces de construction du bâtiment tout proche,
la Regia, dont nous avons vu que la tradition attribuait aussi
l'édification à Numa. En effet, les fouilles récentes faites sur l'emplacement de
la Regia253 font commencer l'histoire, ou plutôt, selon la terminologie
de F. E. Brown, la «protohistoire» du site à cette date. Selon ce savant,
la plus ancienne trace d'occupation du site serait constituée par un
groupe de cabanes, pour lesquelles on a pu fixer une datation précise
grâce à un morceau de bois appartenant à l'une d'elles : 679 avant J.-C.
environ; mais il est possible qu'il faille faire remonter la première
apparition de cet habitat à la fin du VIIIe siècle, ou aux toutes
premières années du VIIe254; ce groupement de cabanes aurait constitué, dit
F. E. Brown, une sorte de faubourg du village du Palatin, qui se serait
progressivement étendu de la colline à la plaine du Forum, vers le sud.

248 I pozzi dell'area sacra di Vesta, Monumenti Antichi, Accademia dei Lincei, 45, 1961,
p. 3-143; cf. aussi G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV, 1, Florence 1953, p. 164-165.
249 Op. cit., p. 19.
250 Op. cit., p. 13-14.
251 P. Romanelli, Certezze e ipotesi sulle origini di Roma, StudRom, 13, 2, 1965, p. 12.
252 Op. cit., p. 15-16.
253 F. E. Brown, New Soundings in the Regia : the evidence for the early Republic, in
Les Origines de la République romaine, Entretiens sur l'Antiquité Classique, XIII,
Fondation Hardt, Vandoeuvres-Genève, 1967, p. 47-64; La Protostoria della Regia, RPAA, 47,
1974-75, p. 15-36. F. R. Brown avait, en 1935 consacré une première étude à la Regia (The
Regia, MAAR, 12, 1935), essentiellement topographique et archéologique. Enfin, on trouve
un résumé des travaux récents sur la Regia chez J. Poucet, La Rome archaïque. Quelques
nouveautés archéologiques : S. Omobono, le Comitium, la Regia, AC, 49, 1980, p. 308-312.
254 Cf. F. E. Brown, La Protostoria della Regia, p. 19.
512 LES PÉNATES PUBLICS

Cet habitat, antérieur à la date légendaire du règne de Numa, n'aurait


eu aucun caractère royal, ni sacré. Mais, au début du dernier quart du
VIIe siècle, il y a eu sur le site une importante inondation venue des
eaux du Tibre - selon F. E. Brown, cet emplacement a connu au cours
de sa protohistoire de nombreuses inondations, du fait du débordement
périodique du Tibre, et de l'écoulement d'un torrent qui descendait de
la Vèlia255 - accident qui marque une étape décisive dans l'histoire de la
Regia; les cabanes alors dévastées par les eaux ne furent jamais
reconstruites, et les seules qui subsistèrent, parce qu'elles se trouvaient
placées à un niveau un peu plus élevé, furent abattues. Tout cet espace fut
recouvert d'une couche de terre battue contenant quelques morceaux
de tuf, de façon à rendre le sol uniforme et à pallier les dénivellations
dues à la pente, opération qui, selon F. E. Brown256, semble exprimer
l'intention de constituer un templum, par l'acte rituel de la liberano de
l'espace, qui change ainsi complètement de nature avant d'être à
proprement parler inauguré257. On a retrouvé, datant de la même époque,
un cippe de tuf, que F. E. Brown croit pouvoir interpréter comme
l'attestation de l'existence en ce lieu d'une aire sacrée, avec, peut-être, un
autel. De la construction de bâtiments, on n'a retrouvé que quelques
vestiges, mais F. E. Brown a pu en reconstituer le plan : il s'agit de deux
pièces couvertes d'un toit de tuiles, séparées l'une de l'autre par une
sorte de cour centrale, et s'ouvrant par une porte sur une enceinte de
forme irrégulière; en face de l'entrée de la pièce sud, on trouve, creusé
dans le dallage du sol, un foyer circulaire d'environ 1 mètre de
diamètre, et des vestiges de fourneaux; enfin, il semble qu'il y ait eu un
portique à colonnade devant les deux bâtiments, donnant sur le reste de
l'enceinte sacrée.
Des phases architecturales suivantes de l'histoire de la Regia,
minutieusement étudiées par F. E. Brown, nous ne retiendrons ici que ce qui
intéresse notre propos : ce premier groupe de bâtiments semble avoir
été remanié au début du VIe siècle, puis partiellement détruit par une
inondation torrentielle, suivie d'un incendie; on reconstruisit les
bâtiments, en utilisant les fragments qui subsistaient, avec une orientation

255 Voir E. Gjerstad, Early Rome II, Lund, 1956, p. 17; P. Romanelli, op. cit., p. 11-12;
J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale, p. 85.
256 Op. cit., p. 20-21.
257 A l'appui de son hypothèse, F. E. Brown cite un texte de Cicéron (De Leg. II, 21) à
propos de l'action des augures : urbemque et agros et templa liberata et effata habento.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 513

différente, mais suivant un schéma d'ensemble toujours identique :


deux pièces desservies par un vestibule, s'ouvrant sur un espace
délimité par un mur d'enceinte de forme irrégulière, dont l'un des coins
forme un angle aigu qui restera, jusqu'à l'époque impériale,
caractéristique de la Regia.
La destination exacte de ce bâtiment tripartite pendant l'époque
royale soulève de très délicats problèmes, que n'a pas contribué à
résoudre la découverte d'une coupe de bucchero portant l'inscription
REX25S. Dans la première étude qu'il consacra à la Regia259,
F. E. Brown avait considéré qu'il s'agissait de sanctuaires, hypothèse
fondée sur différentes considérations. Certaines d'entre elles
s'appuient sur la tradition littéraire, qui désigne la Regia comme un
fanum260, renfermant les sanctuaires de Mars261 et d'Ops Consiva262 et
un focus263. D'autre part, F. E. Brown a tout d'abord cru pouvoir
appuyer cette hypothèse sur des arguments archéologiques reposant
sur la décoration du fronton et du toit de la Regia lors des
reconstructions du VIe siècle, avec des acrotères et des terres cuites peintes; ce
type d'ornements, pensait-il, ne se trouve, au VIe siècle, que dans
l'architecture religieuse. Quelques années plus tard, le savant américain,
dans l'étude que nous avons largement utilisée pour exposer l'histoire
architecturale du bâtiment, est revenu sur cette interprétation
religieuse de la Regia de l'époque royale. Des analogies avec d'autres
constructions archaïques de l'Italie centrale264 ont modifié l'orientation de
sa réflexion. D'une part, note-t-il, aucun temple de cette période ne
présente de ressemblance, dans son organisation architecturale, avec
la Regia, dont les pièces, avant d'être, dans une dernière phase,
réunies en un bâtiment tripartite, furent, dans les étapes de cette cons-

258 E. Gjerstad, Early Rome III, Lund, 1960, p. 307. Cette inscription a été étudiée en
dernier lieu par M. Guarducci (L'epigrafe REX nella Regia del Foro Romano, Vestigia,
XVII, 1972, p. 381-84) qui considère que l'inscription date d'avant 509 et désigne donc un
des derniers rois de Rome, et non le rex sacrorum républicain. J. Poucet (ibid., p. 309)
donne une bibliographie détaillée du sujet.
259 New soundings in the Regia : the evidence for the early Republic.
260 Festus, 346 L.
261 Servius, Ad Aen. VII, 603; Gell., Ν. Au. IV, 6, 1-2.
262 Varron, De L.L., VI, 21 ; Festus, 202 L. ; voir P. Pouthier, Ops et la conception
divine de l'abondance. . ., Rome, 1981, p. 65 sq.
263 Festus, 190 L.
264 Voir M. Torelli, Storia degli Etruschi, Rome-Bari, 1981, p. 174 sq.; F. Coarelli, //
Foro Romano I, p. 61-70.
514 LES PÉNATES PUBLICS

truction, dispersées autour de la cour constituant l'enceinte sacrée,


suivant un schéma variable, comme nous l'avons vu; la présence de
restes de fourneaux, dans la première Regia, est, elle aussi, assez
difficile à expliquer dans une interprétation religieuse des bâtiments. Or, à
Acquarossa, l'antique Ferentum, l'Institut suédois de Rome a mis au
jour un bâtiment considéré d'abord comme un temple, et aujourd'hui
comme le palais du prince local265, dont la structure ressemble fort à
celle de la Regia du Forum : elle est constituée par trois corps de
bâtiments s'ouvrant sur une cour centrale, de forme irrégulière, mais qui
n'est pas sans rappeler la forme trapézoïdale de la cour de la Regia
romaine. Dans un autre site étrusque, à Poggio Civitate266, on a
retrouvé des terres cuites architectoniques, datées du VIe siècle, et utilisées,
non dans l'architecture religieuse, mais dans une demeure princière.
F. E. Brown en est donc venu à considérer que la Regia romaine a été,
dès l'origine, non pas un sanctuaire ou un groupe de temples, comme
il l'avait d'abord cru, mais la demeure du roi.
Il existe, à propos du lieu de la résidence des rois, une double
tradition, rapportée par Solin267 : selon l'une, leur résidence était la Regia,
selon l'autre, ils demeuraient sur les collines dominant le Forum268.
F. E. Brown269 explique cette double tradition par le caractère
particulier de la Regia du Forum, qui ne représente, selon lui, que la partie
sacrée de la demeure royale; en effet, note-t-il, il existait un culte de
Mars et d'Ops Consiva dans la Regia, cultes liés à la personne du roi
primitif, à la fois guerrier et dispensateur d'abondance; or, la relative
petitesse des pièces de la Regia rend peu vraisemblable que le roi, la
reine, leurs enfants, leurs serviteurs, les aient effectivement habitées :

265 Cf. C. E. Ostenberg, Med Kungen pa Acquarossa, Malmö, 1972, p. 133-137, cité par
F. E. Brown, La Protostoria della Regia p. 34 η. 1 1 ; M. Torelli, Etruria, p. 225.
266 Κ. Phillips, Poggio Civitate: The archaic Etruscan Sanctuary, Florence, 1970;
M. Cristofani, Considerazioni su Poggio Civitate, in Prospettiva, I, 1975, p. 9 sq.
267 I, 25 : Ceteri reges quibus locis habitauerunt dicemus. . . Huma in colle primum
Quirinali, deinde in regia quae adhuc ita appellatur. . . Tullus Hostilius in Velia, ubi postea
deum Penatium aedes facta est. . . Ancus Martius in summa Sacra Via ubi aedes Larum
est. . . Tarquinius Priscus ad Mugoniam Portant, supra summam Nouam Viam. . . Servius
Tullius Esquilinus supra cliuum Urbium. . . Tarquinius Superbus et ipse Esquilinus supra
cliuum Pullium ad Fagutalem lacum ; voir F. Coarelli, // Foro Romano I, p. 56-57.
268 La tradition cependant situait les demeures de Romulus et de Tatius
respectivement sur le Palatin et sur l'Arx uniquement, la fondation de la Regia du Forum n'étant
attribuée qu'à leur successeur Numa.
269 La Protostoria della Regia, p. 35-36.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 515

leur «résidence profane» était donc, dit F. E. Brown, située dans


différents quartiers de la ville, suivant les rois, leur «résidence sacrée» à la
Regia210. Il semble bien que, pendant toute la période royale, les
bâtiments compris dans l'enceinte sacrée de Vesta aient été peu distincts, et
tous étroitement rattachés à la personne sacrée du roi, à mi-chemin,
comme le roi lui-même, entre profane et sacré. Les liens unissant
Numa et Egèrie, Servius Tullius et la Fortune271, nous paraissent
significatifs, entre autres, de ce statut de la personne royale. Au moment de
l'instauration de la République, il n'est guère pensable que la Regia ait
pu conserver un caractère d'habitation : elle est uniquement le
sanctuaire de Mars et d'Ops, substituts divins du couple royal, tandis que le
Rex sacrorum reçoit comme résidence un édifice voisin, situé à l'endroit
le plus élevé de la Via Sacra212.
C. Ampolo273 a montré, de facon très convaincante, que les faits
historiques romains et leurs conséquences sur les édifices de l'enceinte
de Vesta trouvent des correspondants politiques et architecturaux à
peu près complets à Athènes : sur le côté ouest de l'Agora, à
l'emplacement où fut édifiée plus tard la Tholos, on construisit vers 540, sous la
tyrannie de Pisistrate, un bâtiment, remanié ensuite, aux environs de
500, après la réforme de Clisthène. Or, ce dernier présente de grandes
analogies de structure avec la Regia, et cette structure correspond, elle
aussi, à la chute d'une tyrannie et à l'instauration d'un régime
démocratique; C. Ampolo propose de reconnaître dans ce bâtiment le βουλοι-
κεΐον, demeure de l'archonte-roi, où se trouvait la κοινή εστία, liée au
culte de Pallas; cela prouverait, ajoute-t-il, des contacts étroits entre
Athènes et Rome dès le début du VIe siècle, peut-être par
l'intermédiaire de Lavinium, où des cultes grecs, comme celui des Dioscures et peut-
être celui de Vesta que les Romains considéraient comme d'origine
étrangère, étaient implantés à cette date.

270 Cette interprétation est contestée par G.-Ch. Picard : « Ne vaudrait-il pas mieux
supposer que l'édifice a toujours eu une destination religieuse, y compris les repas qui
pouvaient être préparés et consommés dans la chapelle d'Ops, déesse de l'abondance?»
(Les mystères de la Regia, REL, 54, 1977, p. 354).
271 Voir J. Champeaux, op. cit., p. 293-95.
272 F. Coarelli, II Foro Romano I, p. 64.
273 Analogie e rapporti fra Atene e Roma arcaica. Osservazioni sulla Regia, sul Rex
sacrorum e sul culto di Vesta, PP, 26, 1971, p. 443-460.
516 LES PÉNATES PUBLICS

2) Les Pénates de Numa

La tradition attribuant à Numa à la fois la construction de la Regia


et celle de l'Aedes Vestae est essentielle pour comprendre ce qu'étaient
les sacra conservés dans le mystérieux penetrale du sanctuaire, car cette
tradition, croyons-nous, fait référence à un stade précis de l'histoire du
développement de Rome.
On a débattu le point de savoir si le sanctuaire de Vesta se trouvait
à l'intérieur du pomerium de la cité romuléenne, située sur le Palatin.
Pour S. B. Plainer et T. Ashby274, il est à l'extérieur de l'enceinte de la
ville; de même, A. Bartoli considère qu'il appartient plutôt à la zone du
Forum qu'à celle du Palatin275. La réponse à cette question paraît en
réalité à peu près impossible, étant donné que, comme le note du reste
l'archéologue italien, les limites du pomerium de Romulus ne nous sont
connues que par deux textes de Tacite276 et de Solin277 qui sont trop
imprécis pour permettre une définition rigoureuse des frontières de la
cité. Il est certain, en revanche, que, même si l'on admet, ce qui est
contestable, que Vesta tire son nom de celui de la déesse grecque
'Εστία278, il n'est pas possible que cette déesse du foyer ait eu un temple à
l'extérieur de l'enceinte urbaine.
Par conséquent, le culte de Vesta nous ramène à un temps où le
Forum, ou du moins sa partie orientale où se dresse YAedes Vestae,
partie comprise entre le Palatin et la Vèlia, est inclus dans l'enceinte de la
ville. Nous avons vu précédemment279 que ce stade du développement
de Rome correspond à la cité palatino-vélienne, qui se forme dans le
courant du VIIe siècle. Cette date correspond à l'attestation sûre d'un
culte de Vesta et des premières constructions de la Regia, dont la
contemporanéité est très importante pour notre propos, car si
l'emplacement de YAedes Vestae peut encore apparaître comme les derniers
contreforts du Palatin, la Regia, elle, se trouve au pied de la Vèlia. L'en-

274 Op. cit., p. 557.


275 Op. cit., p. 7.
276 Ann. XII, 23 : et pomerium urbis auxit Caesar, more prisco, quo Us qui protulere
Imperium etiam terminos urbis propagare datur.
277 I, 18 : Ea (= Roma) incipit a silua quae est in area Apoîlinis, et ad supercilium sca-
larum Caci habet terminum.
278 Cf. G. De Sanctis, op. cit., p. 164 n. 144 et p. 165; contra : G. Dumézil, La religion
romaine archaïque, p. 329.
279 Voir supra p. 441-5.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 517

semble fonctionnel constitué par YAedes Vestae et la Regia apparaît


donc, topographiquement, comme un trait d'union entre les deux
collines.
La date que l'archéologie peut assigner à ce stade du
développement de Rome, où pour la première fois la construction d'un mur
d'enceinte en terre la constitue en cité280, correspond non seulement à
l'apparition probable de nos deux édifices, mais aussi à la date que la
tradition assigne au règne de Numa. Nous avons dit plus haut les raisons
qui nous portaient à croire que, parmi les sacra conservés dans YAedes,
se trouvaient les Pénates. Le lien établi entre Numa et ce sanctuaire,
foyer du roi avant d'être celui de l'Etat, nous fait supposer que le Penus
Vestae contenait les Pénates que la légende des origines rapportait à
Numa, les seuls Pénates publics véritablement romains, autochtones,
puisque ceux de Lavinium venaient de Troie et ceux de la Vèlia,
croyons-nous, d'Albe. Il nous paraît explicable que ces Pénates soient
ceux «de Numa», et non ceux du fondateur Romulus, dans la mesure
où c'est au premier qu'est rapportée toute l'organisation religieuse de
Rome.
La présence des Pénates dans le sanctuaire de Vesta sur le Forum
n'a rien qui doive surprendre. Nous avons vu281 que Servius et Macrobe
mentionnent un sacrifice fait conjointement à Vesta et aux Pénates à
Lavinium, ce dont nos auteurs déduisent que la déesse est cornes des
Pénates ou peut-être même qu'elle fait partie des Pénates282. Il s'agit
évidemment là d'attestations tardives, mais Cicéron écrit, à propos des
Pénates : nec longe absunt ab hac ui (= Vesta)283. Cette affirmation nous
paraît exclure, bien que Cicéron puisse songer aussi aux faits lavinates
et, en particulier, au sacrifice annuel des magistrats romains, qu'il
n'existe pas, à Rome même, un lien entre Vesta et les Pénates. Ces
témoignages paraissent aller à l'encontre de la suggestion d'A. Brelich,
selon laquelle ce lien daterait de l'époque augustéenne, les Pénates
honorés au foyer de l'Etat ne pouvant être que ceux de la Gens Iulia;
notre propre hypothèse, consistant à voir en eux les «Pénates de
Numa», est également incompatible avec elle.
D'autre part, dans notre étude des possibles représentations figu-

280 Ibid.
281 Voir supra p. 355-61.
282 De numero Penatium. . . esse (Servius, Ad Aen. II, 296; Macrobe, III, 4, 11).
283 De Nat. Deor., II, 68.
518 LES PÉNATES PUBLICS

rées du temple des Pénates à Lavinium284, nous avons constaté que, sur
des monnaies d'Hadrien et d'Antonin et des lampes de la même époque
montrant l'arrivée d'Enée à l'emplacement de la future Lavinium, on
apercevait dans le fond de la scène un temple rond offrant une
ressemblance frappante avec les images de ÏAedes Vestae sur le Forum,
soulignée par F. Castagnoli285. Nous avions noté alors qu'il n'était pas
impossible que ce monument fût le sanctuaire du Forum; dans cette
hypothèse, l'allusion très claire faite aux Pénates par la présence d'Enée serait
une attestation supplémentaire du lien entre Vesta et les Pénates à
Rome même.
Si, comme nous avons cru pouvoir le montrer, les Pénates étaient
honorés dans le sanctuaire de Vesta, et si ces Pénates étaient ceux «de
Numa», il subsiste deux difficultés. La première est qu'une partie de la
tradition désigne ces sacra comme troyens, ce qui revient à les
rattacher plutôt à Enée qu'à Numa. La légende qui fait d'Enée le fondateur
de Rome ne nous paraît pouvoir fournir qu'une solution partielle à
cette difficulté, dans la mesure où cette tradition reste très limitée et
semble le fait de l'historiographie grecque, tandis qu'à Rome même,
Romulus s'impose comme fondateur286. Deux éléments nous semblent avoir
joué un rôle beaucoup plus important dans la tradition relative à
l'origine troyenne des sacra du Penus Vestae. C'est, d'une part, la présence
parmi eux du Palladium, dont l'origine «troyenne» a pu s'étendre à
tous les objets conservés là, d'autant plus d'ailleurs que, en tant que
pignora imperii, ils étaient entourés d'un mystère qui favorisait ces
confusions. D'autre part, nous croyons qu'il faut voir dans cette
tradition le reflet de l'importance prise par la légende des origines troyen-
nes de Rome : à partir du moment où cette dernière fut nettement
affirmée, dans le courant du IVe siècle selon nous287, les Pénates du
sanctuaire du Forum, originellement romains, autochtones et rattachés
à Numa, furent considérés comme troyens. Cette fois encore, nous
constatons que nos dieux apparaissent comme l'expression de l'image
que Rome se fait d'elle-même.
La seconde difficulté est la suivante : pourquoi seul le texte de

284 Voir ci-dessus, p. 224-9.


285 Lavinium I -p. 113-115.
286 Toutefois, le caractère mystérieux de ces sacra empêchait sans doute de les
rapporter systématiquement et exclusivement à Enée plutôt qu'à tel autre.
287 Cf. supra p. 372 sq.
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM 519

Tacite mentionne-t-il la présence des Penates populi Romani dans YAe-


des Vestae, alors que les autres témoignages littéraires nous parlent de
sacra, et pourquoi ce sanctuaire ne porte-t-il pas le nom des Pénates, à
côté de celui de Vesta? A la première question, on peut répondre que
sacra désigne l'ensemble des pignora imperii, les Pénates n'étant pas
seuls à être considérés comme tels. Enfin, si le sanctuaire ne porte pas
le nom de ces dieux, c'est peut-être parce qu'à quelques dizaines de
mètres de YAedes Vestae se trouvait, sur la Vèlia, un sanctuaire appelé
Aedes deum Penatium. N'aurait-il pas été gênant, dans ces conditions,
de désigner aussi par le nom des Pénates le sanctuaire de Vesta? Mais
surtout, comme l'a fort brillamment montré F. Coarelli288, il semble
qu'à la chute de la royauté, la cohésion que donnait la personne du roi
aux divers cultes qui lui étaient attachés se soit brisée, et que l'on
assiste à une spécialisation de différents bâtiments pour chacun de ces
cultes : la Domus Vestalium et YAedes Vestae sont distinctes, la Regia
devient un simple sanctuaire de Mars et d'Ops Consiva, le Rex sacrorum
habite un autre édifice, les Lares et les Pénates ont des temples
propres. Il est remarquable, comme l'a noté F. Coarelli289, que les trois
principaux cultes du foyer du roi, celui de Vesta, celui des Pénates,
celui des Lares, aient été finalement rattachés aux trois rois
«légendaires», Numa, Tullus Hostilius, Ancus Martius290.
Cette spécialisation des bâtiments au service d'un seul culte
explique, selon nous, que la tradition suivant laquelle les Pénates publics
proprement romains se trouvaient dans le sanctuaire de Vesta ait été
un peu éclipsée, à la fois par la présence du temple, tout proche, de la
Vèlia, et par la tradition, liée à la légende des origines de Rome, du
caractère troyen des sacra du Penus Vestae.

288 // foro Romano I, p. 77.


289 Ibid.
290 Solin, I, 25.
CONCLUSION
Les Pénates, «ceux du penus», semblent avoir été, à l'origine, les
dieux de la partie la plus reculée de la maison, et la notion trouve sans
doute son point de départ dans le culte privé, comme il a été noté par
beaucoup de savants, G. Wissowa notamment. Au reste, l'étymologie
même du mot ne laisse guère de place au doute sur ce point, car le
penus appartient à l'architecture de la maison privée, et il faut
probablement expliquer l'existence du Penus Vestae dans le sanctuaire du
Forum par le lien établi entre Pénates et foyer du roi.
Les Pénates forment, dans le culte privé, une collectivité
indéterminée, au sein de laquelle aucune individualité ne se détache.
Malheureusement, l'iconographie primitive de ces dieux ne nous est pas connue
par l'archéologie, en dépit de l'hypothèse de F. Borner consistant à voir
dans les figurines d'argile des tombes albaines, statuettes masculines et
féminines, les ancêtres des Pénates romains. Peut-être d'ailleurs des
représentations figurées d'une pluralité indistincte sont-elles
inconcevables. Beaucoup plus tardivement, on trouve, comme dans les laraires de
Pompéi, un certain nombre de dieux, bien connus par ailleurs et
individualisés, protecteurs personnels du maître de maison et de sa famille.
Ce qui nous manque alors, ce sont des images qui nous montreraient la
figuration archaïque de Pénates privés, comme les statues de la Vèlia,
aux dires de Denys d'Halicarnasse, le faisaient pour le culte public.
Aucun témoignage archéologique ne vient, à ce jour, appuyer ce que
nous croyons pouvoir reconstituer de l'histoire de la notion dans le
culte privé : pluralité indifférenciée de divinités résidant dans la partie
la plus retirée de la maison, qu'ils protègent, les Pénates ont dû
forcément s'individualiser dès lors qu'on les a représentés sous une forme
figurée. Il est possible, mais non certain, qu'ils aient alors d'abord été
deux, dans le culte privé comme dans le culte public, ce nombre
apparaissant comme la façon la plus simple de représenter la pluralité.
Nous voudrions à nouveau insister sur le contraste existant, à
l'intérieur du culte privé, entre deux faits : d'une part, le mot Penates est
524 LES ORIGINES ET LE DÉVELOPPEMENT DU CULTE DES PÉNATES À ROME

très employé, de façon métonymique souvent, et semble chargé pour


les Romains d'une forte valeur affective; d'autre part — et sur ce point
les laraires de Pompéi constituent un document exceptionnel -, on a
l'impression que les Romains finissent par ne plus savoir ce que sont
exactement les Pénates, et qu'ils éprouvent le besoin de renforcer leur
identité, en quelque sorte, en les assimilant à d'autres dieux,
individualisés par ailleurs, et choisis par le paterfamilias en fonction de son
activité ou de ses goûts; la confusion existant dans la conception romaine
des Pénates trouve son point d'aboutissement avec la définition que
Servius donne d'eux) {omnes di qui domi coluntur1), où les Pénates
sont sentis comme protecteurs de la maison, mais ont en fait perdu
leur originalité et, finalement, leur identité véritable; la notion, vidée de
son sens, était prête à accueillir d'autres divinités, qui ont joué
d'ailleurs dans le culte privé un rôle assez proche de celui qu'ont dû avoir
les Pénates à l'origine, comme protecteurs de ce que la maison a de
plus précieux.
Le lien entre Pénates privés et Pénates publics se comprend assez
bien par l'ambivalence de la personnne du roi et, à cet égard, la
comparaison avec d'autres cultes domestiques est tout à fait éclairante. Les
Pénates de l'État sont à l'origine ceux du roi, ce qui est illustré par les
légendes concernant leur culte à Rome : le temple des Pénates sur la
Vèlia est situé à l'emplacement de la maison de Tullus Hostilius, ou
près d'elle2; le sanctuaire de Vesta, où sont aussi gardés les Pénates
du peuple romain, est intégré dans un complexe architectural qui
comprend la maison du roi, la Regia, liée à Numa. Il en va sans doute de
même d'un autre culte domestique, celui des Lares, dont Solin, et Var-
ron cité par Nonius3, nous disent que le temple se trouvait à
l'emplacement de la maison d'Ancus Martius. Nous avons souligné que la
proximité de ces bâtiments, Regia et Aedes Vestae, Temple des Pénates
sur la Vèlia, Temple des Lares, prouvait sans doute une unité originelle
de ces différents cultes autour de la personne du roi. Il nous paraît
remarquable que les trois cultes du foyer - Vesta, Pénates et Lares -r,
soient rapportés précisément à la personne de trois des rois légendaires
de Rome, Numa, Tullus Hostilius et Ancus Martius, alors qu'à la
«dynastie étrusque», qui, elle, semble correspondre à une réalité histori-

1 Ad Aen. II, 514.


2 Solin, I, 25; Varron ap. Nonius 531, 19.
3 Ibid.
CONCLUSION 525

que4, aucun culte du foyer public n'est rattaché par la tradition


romaine.
La dispersion des cultes du foyer du roi entre trois lieux et le lien
établi entre ces trois cultes et trois rois légendaires de Rome nous
semblent pouvoir être éclairés par l'histoire des origines de la ville, du Sep-
timontium, et des différentes enceintes de Rome. Au VIe siècle, c'est-
à-dire à l'époque de la «dynastie étrusque» inaugurée par Tarquin
l'Ancien, apparaît la muraille en cappellaccio dite «servienne» qui consacre
l'accession de Rome au statut de cité regroupant un certain nombre de
villages situés sur les collines entourant la dépression constituée par le
Forum. Mais nous avons vu qu'antérieurement à la constitution de
cette cité, il a existé, sans doute dans le courant du VIIe siècle, une ville
composée du Palatin et de la Vèlia : le Tigillum Sororium en aurait
constitué une sorte de porte d'entrée, bien qu'il n'ait pas, semble-t-il,
existé de mur de fortification en dur. Or, les trois cultes du foyer du roi
se trouvent inclus dans cet ensemble. L'existence de ces cultes serait
donc antérieure à la constitution de la cité dite de Servius Tullius, et ils
auraient, pour cette raison, été mis en relation avec les rois légendaires
de Rome. D'autre part, le fait que ces trois lieux de culte, pour proches
qu'ils soient les uns des autres, ne sont pas rassemblés dans un seul
bâtiment, la Regia par exemple, ancien foyer du roi, s'explique peut-
être par le processus d'intégration progressive des collines avoisinantes
au noyau primitif de la cité constitué par le village du Palatin, lié, lui, à
la personne du fondateur Romulus, La dispersion géographique des
trois cultes serait alors l'expression religieuse d'une disparité originelle,
tandis que leur complémentarité, au contraire, manifesterait la
constitution de la ville palatino-vélienne en un tout organique.
Timée cité par Denys d'Halicarnasse, et Denys lui-même, nous font
connaître deux types de représentations figurées des Pénates publics. A
Lavinium, si l'on en croit Timée, les Pénates «étaient des caducées de
fer et de bronze et de la poterie troyenne», alors que, dans le temple de
la Vèlia, à Rome, les Pénates étaient représentés, dit Denys, comme
deux jeunes gens assis tenant de longs bâtons. Nous avons vu que la
définition de Timée ne devait pas être prise au pied de la lettre, dans la
mesure où les objets troyens ne représentaient sans doute pas les dieux,
mais étaient plutôt leurs attributs; quant au nombre de deux des sta-

4 Cf. J. Heurgon, Archéologie et critique historique : la Rome des Rois, in Naissance


de Rome, Catalogue de l'Exposition, Paris, 1977.
526 LES ORIGINES ET LE DÉVELOPPEMENT DU CULTE DES PÉNATES À ROME

tues de la Vèlia, il nous paraît, comme dans le culte privé, exprimer la


pluralité au sein du groupe que forment les Pénates. Cette signification
originelle n'a plus été perçue par la suite, et a favorisé la confusion
partielle avec les Dioscures. Quant aux sacra du sanctuaire de Vesta,
considérés, eux aussi, comme les Pénates du peuple romain, ni
l'archéologie ni les témoignages littéraires ne peuvent nous donner une
idée de la forme qu'ils revêtaient; contrairement aux dieux de la Vèlia,
mais comme ceux de Lavinium (Timée n'a connu l'identité de ces
derniers, qui devait demeurer inconnue aux profanes, que par une
indiscrétion de ses informateurs lavinates), leur vue était interdite. Il est
d'ailleurs remarquable que dans les deux cultes des Pénates liés à la
venue d'Enée en Italie, celui de Lavinium et celui de l'Aedes Vestae à
Rome, la vue des dieux était rigoureusement refusée aux profanes,
comme l'illustre bien l'épisode de l'aveuglement du Grand Pontife Mé-
tellus. Cela s'explique, croyons-nous, par le caractère talismanique des
sacra troyens. Il en va tout autrement des Pénates de la Vèlia, eux aussi
liés à la légende des origines de Rome, mais dont nous avons cru
pouvoir montrer qu'ils étaient de provenance albaine. Or, les Pénates
d'Albe ne sont pas ceux de Lavinium, puisque selon le récit de Denys,
ces derniers refusèrent par deux fois de s'installer dans le temple qu'on
leur avait construit dans la nouvelle cité. Ils ne sont donc pas liés à
Enée, ni d'origine troyenne, et n'ont pas le caractère mystérieux des
dieux troyens.
La conception des Pénates publics paraît avoir connu une
évolution assez comparable à celle des Pénates privés. L'expression Penates
populi Romani est usuelle, mais des écrivains comme Cicéron ne
définissent pas davantage ces dieux. Les tentatives d'explication
apparaissent plutôt comme les efforts des érudits (Varron et Nigidius Figulus
en sont de bons exemples) pour donner un contenu théologique ou
philosophique à la notion, en assimilant les Pénates à d'autres divinités
dont la personnalité est connue par ailleurs : Dioscures, Apollon et
Neptune, dieux de la Triade Capitoline, auxquels s'ajoute parfois Mercure.
Mais les contradictions que présentent entre elles ces diverses
spéculations tendent à prouver qu'elles restent assez artificielles, coupées du
sentiment religieux vécu, de la pratique quotidienne. Seule est
probablement authentique la conscience d'un lien entre les Pénates de Rome
et les sacra de Troie : encore n'a-t-elle pu se former que lorsque s'est
affirmée la légende des origines troyennes de Rome, sans doute au
cours du IVe siècle avant J.-C.
Les Pénates du peuple romain sont honorés dans trois temples : un
CONCLUSION 527

à Lavinium, deux à Rome, sur la Vèlia et dans le sanctuaire de Vesta,


sur le Forum, au plus profond du Penus Vestae. Ce triple culte ne peut
s'expliquer, nous semble-t-il que dans la mesure où les Pénates sont liés
aux diverses légendes des origines de Rome, et en sont comme
l'expression symbolique. Le fait que Rome ait considéré comme ses propres
Pénates non seulement ceux qu'elle abritait dans ses sanctuaires du
Forum et de la Vèlia, mais, en outre, ceux de Lavinium, est en étroite
liaison avec la double légende des origines troyano-lavinates et albaines
de Rome, et la reconnaissance de Lavinium et d'Albe comme cités-
mères.
Dans les traditions de filiation d'une cité à une autre, il est
particulièrement difficile de faire la part de l'histoire et celle de la
légende. On a pu, en effet, penser qu'Albe était une colonie de
Lavinium, fondée par des Lavinates qui, pour une raison inconnue, se
seraient exilés; il en va de même pour les relations entre Albe et
Rome; les personnages mythiques d'Ascagne et de Romulus, fils ou
descendant du fondateur de la cité-mère, symbolisent cette tradition
et ont fixé sur eux les légendes de fondation. Il est probable,
cependant que ni Albe ni Rome n'ont été créées ex nihilo par des
emigrants lavinates et albains, mais qu'il y a eu, néanmoins, un
phénomène d'émigration, qui ne correspond pas forcément à la fondation
d'une nouvelle cité. Les récentes découvertes archéologiques dans le
Latium tendent du reste à prouver une certaine unité de la
civilisation latiale et il existe, en effet, un parallélisme entre l'évolution des
différentes cités, qui n'exclut évidemment pas des influences de l'une
sur l'autre. En particulier, pour ce qui nous concerne, l'archéologie a
prouvé qu'il n'y avait pas d'antériorité d'occupation des sites de
Lavinium et d'Albe par rapport à celui de Rome, ce qui semble exclure
une fondation d'Albe par des Lavinates, de Rome par des Albains. Au
contraire, il est frappant de constater la concordance chronologique
entre certains phénomènes dans les différentes cités latines,
notamment la construction de murs d'enceinte en cappellaccio dans le
courant du VIe siècle à Lavinium et à Rome, par exemple.
Aussi la légende des origines lavinates et albaines de Rome nous
paraît-elle devoir s'expliquer par d'autres raisons que la réalité
historique, d'ailleurs possible, de migrations de populations. On voit bien quel
intérêt Rome a pu trouver à se poser comme l'héritière de Troie, par
l'intermédiaire du personnage d'Enée : plutôt que de penser qu'elle a
obéi à des intérêts de propagande anti-grecque ou anti-étrusque,
comme on l'a parfois suggéré, nous croirions volontiers que Rome, qui ne
528 LES ORIGINES ET LE DÉVELOPPEMENT DU CULTE DES PÉNATES À ROME

put imposer son hégémonie sur le Latium qu'au prix de luttes longues
et difficiles, pouvait tirer un grand prestige de sa parenté avec la
fabuleuse cité évoquée par les poèmes homériques, dont la chute même
avait quelque chose de grandiose.
Au demeurant, l'existence de la légende des origines troyano-lavi-
nates n'a été rendue possible que parce qu'à Lavinium ont existé, très
tôt, des éléments de l'histoire d'Enée, dont nous avons vu au cours de
notre étude les preuves archéologiques. A cet égard, le rôle portuaire
de Lavinium, ou du lieu-dit Troia, situé sur la côte même, a dû être
déterminant dans l'introduction et la fixation d'éléments de la religion,
de l'art, et de la littérature grecs. Toutes les découvertes de ces vingt
dernières années à Lavinium tendent à nous montrer une cité
marchande florissante au VIe siècle, attirant de nombreuses importations
grecques, mais aussi une ville à l'architecture religieuse imposante, qui
fait voir en elle une des métropoles religieuses du Latium. Il est
probable qu'entre le VIe et le IVe siècle, pour des raisons qui nous échappent
en partie, le rôle politique de Lavinium, sans doute lié à son rôle
portuaire, a connu un certain déclin, mais que son rôle de métropole
religieuse a toujours été rayonnant, comme le montre la construction
progressive, entre ces deux dates, de la rangée des treize autels. La
découverte, en 1977, de l'important dépôt votif sur une hauteur à l'est du
village de Pratica, montre l'importance des commandes qu'étaient
capables de satisfaire les ateliers locaux au IVe siècle, et, en définitive, le
rôle économique, probablement centré sur la vie religieuse, qu'avait
encore la cité. Le prestige de cette métropole religieuse, l'implantation
sur son territoire, autour du personnage d'Enée, d'éléments de la
légende troyenne, expliquent largement, à côté des raisons qui pouvaient
faire préférer Enée à un autre héros des poèmes homériques comme
ancêtre fondateur, que Rome se soit plu à voir en elle l'une de ses deux
cités-mères, la seule en tout cas qu'elle n'ait cessé de respecter et
d'honorer par le pèlerinage annuel de ses plus hauts magistrats. Nous
avons souligné le contraste existant entre l'attitude de Rome vis-à-vis de
Lavinium en 338, les égards qu'elle manifesta pour les Lavinates, et la
dureté du châtiment qu'elle avait exercé, trois siècles plus tôt, à l'en-
contre de son autre cité-mère, Albe, totalement anéantie, cependant
qu'était maintenu le grand culte de Jupiter Latiaris sur les Monts
Albains. La double filiation lavinate et albaine que se reconnaît Rome
s'exprime en particulier dans des cérémonies religieuses, comme le
montrent les paroles adressées par Camille aux Romains, selon Tite-
Live, au moment où ils envisagent d'abandonner Rome pour se réfu-
CONCLUSION 529

gier à Véies: Uli (- maiores) sacra quaedam in monte Albano Lauiniique


nobis facienda tradiderunt5.
L'existence de trois cultes publics des Pénates du peuple romain
nous paraît devoir s'expliquer par la superposition de plusieurs
légendes de fondation, le culte des Pénates représentant, dans chacune,
comme l'essence même de la nouvelle cité. D'une part, il y a une tradition
locale, selon laquelle Romulus fonde la ville et lui donne ses institutions
politiques et militaires, fondation complétée par Numa, qui, roi
pacifique, organise les cultes et la législation religieuse de Rome. Au reste,
nous l'avons vu, c'est à lui que la tradition attribue la construction de
l'édifice rond de ÏAedes Vestae, en tout cas l'institution religieuse du
foyer du roi. Nous croyons donc vraisemblable que des Pénates aient
été présents à ce foyer et qu'ils aient été conservés dans le Penus du
sanctuaire, ce qui reproduirait parfaitement les usages du culte privé,
tout en permettant de rendre compte de la singularité que représente
l'existence d'un penus dans un édifice religieux. Toutefois, au sein
même de la tradition concernant le sanctuaire où sont abrités les
«Pénates de Numa» se lisent certains éléments de la légende des origines
troyennes de Rome; aussi les dieux ont-ils fini par être confondus avec
les sacra qu'Enée était censé avoir apportés en Italie; la présence du
Palladium dans le Penus Vestae a pu contribuer à favoriser cette
confusion.
A côté de ces Pénates «locaux», Rome abrite, dans le temple de la
Vèlia, des Pénates dont nous avons cru pouvoir montrer les origines
albaines. Ils seraient l'expression religieuse de l'autre tradition
concernant la naissance de Rome, celle de sa filiation albaine, Romulus étant
le petit-fils du roi légitime Numitor, lui-même descendant d'Ascagne,
fils d'Enée. La venue des habitants d'Albe à Rome est présentée comme
une réconciliation entre frères ennemis, et l'adoption des dieux albains
par les Romains prend une signification particulière quand il s'agit des
Pénates; on sait en effet que dans le culte privé, ces dieux étaient
hérités et se transmettaient de père en fils. En installant les Pénates d'Albe
sur la Vèlia, ce sont donc les dieux de leurs pères que les Romains
établissent dans leur propre cité.
Les conclusions de notre étude ne sauraient avoir qu'un caractère
provisoire, puisqu'un site essentiel pour notre recherche, le temple des
Pénates à Lavinium, n'a pas été découvert à ce jour. Cependant, avec

5 V, 52, 8.
530 LES ORIGINES ET LE DÉVELOPPEMENT DU CULTE DES PÉNATES À ROME

les éléments dont nous disposons, nous croyons pouvoir affirmer que le
culte des Pénates est au cœur de l'image que les Romains se font de
leur maison, et, pour le culte public, de leur patrie. En lui se lisent
beaucoup de traits spécifiques de la mentalité romaine : attachement
très fort au foyer dans le culte privé, et à la patrie dans le culte public.
Mais dans le culte des Penates populi Romani s'exprime également la
fascination des maiores et du passé, si reculé soit-il, ainsi que le désir
de l'auréoler. Aussi le culte des Pénates publics nous apparaît-il, en
définitive, comme l'une des expressions les plus significatives de
l'image que, entremêlant légende et histoire, réalité et mythe, Rome a voulu
offrir d'elle au regard d'autrui et à sa propre contemplation.
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Les textes latins et grecs sont tirés des collections suivantes :

- Collection des Universités de France (C.U.F.), Les Belles Lettres, Paris.


- Collection Teubner, Leipzig.
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- Loeb Classical Library, Oxford-Londres.


- Les abréviations des noms des périodiques sont celles de l'Année Philologique.
- Roschers Lexicon = Ausführlisches Lexicon der Griechischen und Römischen Mythologie,
herausgegeben von W. H. Röscher, Leipzig, 1884-1937.
- CIL = Corpus Inscriptionum Latinarum, Berlin, 1885-1965.
- R.E. = Pauly's Real-Encyclopädie der classischen Altertumwissenschaft, Stuttgart, 1893.
- A. N.R.W. = Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt. Geschichte und Kultur Roms
im Spiegel der neueren Forschung, Berlin-New- York, 1972-.
INDEX NOMINVM ET RERVM NOTABILIVM

Acquarossa-Ferentum :514 Antium : 119 n. 127; 309; 316; 361.


Aedes Vestae : 3; 27; 28; 44; 59; 69; 81 Antonin: 225; 281. - médailles d'A.: 210;
n. 96; 135; 139; 202; 222; 223; 229; 236; 211; 213; 226; 227-8; 252; 261; 284; 292;
259; 269 n. 42; 293; 294; 295; 296; 366; 293; 518.
384; 385; 404; 416; 428; 442; 449; Anubis: 79; 82; 267; 273.
453 sq.; 524; 527; 529. Aphrodite : voir Vénus.
aedicula et pseudo-aedicula : 73; 74; 75; Apollon: 79; 82; 140; 141; 153; 188; 189;
77. 190; 429; 526. - Area Apollinis : 516
Ager Laurens : 254; 255; 327. η. 277. -prêtre d'A. (Panthus) : 164;
Aineia : 168. - tétradrachme d'A. : 197; 183; 189; 193.
198; 201; 315. Apulie: 30; 202.
Ajax : 259. Ara Pacts : 87; 90; 158; 209; 216; 224; 225;
Albe: 174; 192; 241; 242; 243; 328 n. 51; 260; 282-85; 289; 291; 292; 387; 408;
341 n. 104; 349; 350; 370 sq.; 441; 445- 418; 419; 424-6; 427; 428-30; 436; 439-
51; 464; 497; 498; 501; 517; 526; 527; 40; 477.
528. - Monts Albains : 27; 241 ; 243; 246; Arctinos : 137.
344; 364; 370 n. 255; 372 sq.; 449; 450; Ardée:256;298; 309; 316 n. 268; 327; 361;
528 ; 529. - tombes albaines : 7 ; 27-8 ; 97 ; 477 n. 115. - sanctuaire d'Aphrodite à
113-7; 293; 523. - Populi Albenses : 243- Α.: 256; 257 η. 205; 362.
4; 443-444; 448. - Voir transfert des Argées: 391; 399; 443.
Pénates. . . Ariane : 75.
Albinius L. : 472; 474-5; 479-80; 483; 484-6; Aride : 245; 352; 362 η. 225; 364.
503. Artemis : 242.
Amata : 464 η. 62. Arvales : 240.
Amor : 79. Ascagne-Iule : 8; 49; 86; 125; 165; 170;
Anchise: 7; 8; 36; 49; 86; 123; 125; 157; 178; 180; 181; 185; 186; 189; 192; 195;
164; 165; 167; 170; 176; 178; 180; 181; 196; 197; 198; 200; 201; 202; 203; 205;
185; 186; 188; 189; 193; 195; 196; 197; 206; 207; 210; 217; 225; 226; 228; 243;
198; 199; 200; 201; 202; 203; 204; 205; 310; 315; 341 n. 104; 370; 374; 464; 527;
206; 207; 208; 217; 227; 228; 310; 312; 529.
315; 317; 325 n. 35; 336; 337; 364; 501- Astarté : 266.
2. Athéna: 138; 175; 220; 260; 460; 461; 462;
ancile (-ia) : 467 n. 83 ; 474. 463; 464 η. 62; 497; 498. - Athéna Ilias :
Ancus Martius: 398; 442; 445; 514 n. 267; 221; 366. - Pallas Α. : 515.
519; 524. Athènes: 171; 515.
Anna Perenna : 301 ; 328; 330. Atrium Vestae: 21; 454; 474; 507-8; 509.
548 INDEX NOMINVM ET RERVM

Atticus: 125; 126; 127; 131-2. ciste : 202; 281. - ciste contenant les sacra
Auguste: 6; 52; 70; 181; 189; 215; 224; troyens: 164; 165; 167; 169; 178; 196;
395; 396; 398; 404; 408; 409; 424; 429; 197; 198; 204; 207; 209; 222; 276; 280-
436; 440; 461; 462; 463; 468; 506. - 81; 307.
Octave: 185 n. 119; 188 n. 130; 205. - Cloaca Maxima : 100; 475-6.
Forum d'A. : 205; 216. Consentes Complices (Di) : 5 ; 1 34-5 ; 1 52-3 ;
Aulus Postumius : 431. 233-6; 249.
Baal : 266. Consualia : 473; 474 n. 102.
Bacchus: 79; 80; 81; 82; 120. Coriolan: 54; 319.
bulla: 109; 258 η. 207. Cornélius Labeo : 6; 129; 131; 134; 140;
Cabires: 127; 128; 145; 437. 141; 144; 145; 149.
Cacus : voir Scalae Caci. Crète: 187; 429.
caducée: 124; 172; 220; 264-70; 292; 421; Creuse: 8; 165; 181; 185; 186; 187; 196;
428-30; 525. 197; 201; 202; 275; 290; 307; 310; 315;
Caecilius Métellus L. : 457; 460; 487; 500; 336.
503; 504; 526. Critolaos: 127.
Caecina : 152. Crustumerium : 118 n. 125.
Caeculus : 118; 458 n. 34; 500. cuisine - culina : 66 sq.
Caere: 309; 314; 315; 472 sq.; 475 η. 105; Damastes de Sigée : 170-1 ; 216.
476; 479-80; 484-5; 505. Dardania: 138; 139; 436.
caerimonia : 475 η. 105; 480 η. 125; 484. Dardanus: 130; 131; 135; 136; 138; 139;
Caesius: 143; 144. 140; 144; 174; 436; 437; 466; 481; 491-
Caesius L. : - monnaie de C. : 432. 2.
Callistratos : 137; 465. Dea Syria : 273.
Camille: 54; 477 η. 115; 485; 528. Demeter: 238; 239; 249.
Campanie: 2; 30; 74; 165-8; 347. Depidii Digidii (frères) : 119 η. 125.
Campaniens: 174; 350 sq.; 461; 503. deuotio: 112; 300.
Capitole: 135; 390; 391; 392; 393; 400; Diane: 75; 79; 81; 82; 362 η. 225. - culte
414; 470; 471; 477-8 η. 115; 480; 489 de l'Aventin : 237; 242; 246. - Diana Ne-
η. 152; 490 η. 158; 499. - Temple du C. : morensis : 246.
115; 148; 471; 477-8 η. 115. Didon: 182; 328-9 n. 51.
Capoue: 119 η. 127; 350-55; 461. Diomède: 141; 190; 259; 463; 466; 506.
Cannae : 394; 397; 400; 409; 410; 412; 414; Dionysos : 238 ; 239.
443. Dioscures: 8; 9; 127; 128; 132; 133; 137;
Carthage: 347; 361; 368. 145; 158; 159; 236; 238; 239; 249; 251;
Cassandre: 172; 173; 220; 259; 260. 285-92; 301; 303 n. 206; 311; 330; 331;
Castel di Decima : 501 ; 502 η. 211. 385; 405-6; 423; 427; 430-39; 477; 481;
Castores: - Temple des C. : 431; 436. 482; 483; 515; 526.
- nom des C. : 438 n. 218. di parentes (parentum) : 98-101; 104; 109;
cella penaria : 19-20; 26; 27; 67; 69. 110; 120.
κέραμος τρωικός: 124-5; 171-2; 202; 220; di patrii - θεοί πατρφοι : 94-8; 110; 120;
265; 274-5; 280; 289-91; 421; 477; 525. 146; 181; 190; 222; 223; 225; 250; 251;
Cérès: 79; 81; 143; 144; 234; 238; 249; 337; 341-2; 345; 346.
285; 287; 301. dodécapole : 240 sq.
César: 6; 46; 165; 204. - monnayage de dodékathéon : 237-9; 240; 248.
C. : 204; 205; 207. doliolum (-α): 100; 114; 116; 201-2; 217;
Chalcidique: 168; 315. 275; 288; 289-91; 309; 310; 336. - nom
Chrysé: 138; 139; 436. de lieu: 100; 475-9; 486.
INDEX NOMINVM ET RERVM 549

duodecim populi : 245-7; 248. 5 ; 234. - Fortuna Virilis : 459 n. 36. - à


Egèrie: 297; 515. Préneste: 119 n. 127.
église SS. Còme et Damien : 3; 402-410; foyer (focus): 40; 41; 42; 43; 46; 49; 56;
411; 413. 59; 66; 83; 98; 99; 103; 108 n. 77; 368;
Enee: - E. ancêtre des Etrusques: 200; 513; 517; 519; 523; 524; 525; 529; 530.
310; 311-12. - E. ancêtre des Latins: 10 ; Gabies: 118 n. 125.
47 ; 61 ; 123-4; 216; 264; 310; 313; 320- Gaule : 32; 33; 204. - gaulois : 31 ; 478.
39; 352; 364 sq.; 378-9; 384; 453; 466; Gela (cratère de) : 196.
467. - arrivée d'E. au Latium ou en Genius: 2; 47; 68; 69; 70; 76; 78; 81; 83;
Italie : 7; 8; 60-1; 125; 130; 134; 138; 159; 84; 90; 94; 105; 118. - Genius Iouialis :
161; 171; 209 sq.; 216; 226; 228; 255; 143; 234.
256; 259; 263; 275; 300; 308; 332; 436-8; Gens Caecilia : 500; 503.
464; 496; 502; 518. - arrivée d'E. à Lavi- Gens Herennia (monnayage de la) : 205.
nium: 6; 8; 158; 159; 161; 171; 181; Gens Mia: 7; 46; 167; 169; 170; 181; 204;
216; 226; 228; 256; 259; 263; 275; 299- 207; 210; 319; 374; 468; 473-4 n. 102;
300; 308; 326; 328; 332; 336-9; 463; 464; 517.
502; 518; 526. - E. fondateur de Rome: Gens Valeria (tombeau de la): 396-8; 399
3; 311; 364; 383; 464; 518. - fuite d'E.: n. 70.
4; 125; 129; 158; 176; 177; 196 sq.; 209; Grande-Grèce (influence dans le Latium) :
217; 254; 307; 309; 312; 463; 469; 502. 8; 10; 159; 196; 217; 231; 237-9; 286;
- Hérôon d'E. : voir Lavinium. - E. Indi- 291; 302; 303 sq.; 308; 314; 334; 361;
ges : voir Indiges. - E. et les Pénates 379.
troyens : voir origines troyennes des Grands Dieux - Μεγάλοι θεοί: 45; 127;
Pénates de Lavinium. - piété d'E. : 169; 128; 132 sq.; 137; 138; 139; 145; 149;
170; 175; 179-80; 184; 185; 186; 205; 153; 288-91; 295; 421; 433-8; 468.
216; 217; 223; 326. Guerre Latine : 347-50; 374-5.
Epona : 79. Hadrien: - médailles d'H. : 211-2; 213;
Equus October : 22 η. 46; 316 η. 267; 456. 227-8; 252; 261; 281; 293; 518.
Esculape : 82. Harpocratès : 79; 81 ; 82.
Etrurie (influence dans le Latium) : 7 ; 8 ; 9 ; hasta : 270-73 ; 423-4.
159; 233; 234; 235; 237; 241-2; 245; 264; Hector: 47; 185; 193; 195; 294; 429.
309 sq.; 368; 369; 379. Hélénus: 188; 191.
euocatio : 446. Herculanum : 63; 72; 81.
Fabius Q. : 270. Hercule: 75; 79; 81; 82; 237; 249; 283; 284
Faustulus: 105; 215. n. 115.
Félicitas : 273. Hermès: 150 n. 82; 265; 266-7; 273; 282;
Ferentinum, Lucus Ferentinae, Caput aquae 284.
Ferentinae : 343-4. Hesperia: 165; 166; 167; 177; 183; 186;
Fériés Latines : 347; 360; 372 sq. 187; 215; 216.
flamine : 357-8; 470-6; 479; 485. - F. Dialis, Himère: 163; 168; 169.
Martialis : 471 n. 94. - F. Quirinalis : 471 Horace(s): 349; 441-2; 444; 446; 447; 448
n. 94 ; 472-6 ; 484-6. - Aedes Flaminis n. 264.
Dialis : 503. - Aedes Flaminis Quirinalis : Horus: 81; 82.
475-6; 483. Hostilius Mancinus C. : 356 sq.
foedus : 339-40; 344-55; 360-1; 371; 372-77. Hygéia : 82.
Fonteius (deniers de) : 287; 290; 432; 437. ignis perpetuus: 331; 456; 480; 487; 488;
Fordicidia : 22 n. 46; 455. 490; 491; 493; 503; 505; 508; 509-10
Fortuna: 76; 79; 80; 81; 82; 120; 143; 144- n. 242.
550 INDEX NOMINVM ET RERVM

Ilionée : 190. Laurentes-Lauinates : 124; 250; -304; 341


imagines maiorum : 99; 99 n. 32; 110. sq.; 347 sq.; 377.
Indiges: 303-7; 311; 331; 332; 334; 335; Lavinia: 4; 180; 181; 185 n. 119; 271; 298;
336; 365; 369. - Agonalia Indigetis : 300; 328; 345; 346; 374.
365. - Enee Indiges: 112; 249; 322; Lavinium: 4; 5; 8; 10; 124; 127; 137; 146;
323 sq.; 336; 358. - Jupiter Indiges : 323; 150; 151; 155 sq.; 383-6; 387; 428; 430;
329; 331. - Sol Indiges: 112; 298 sq.; 433; 450; 451; 463 sq.; 497; 498; 501;
308. - Locus Solis Indigetis: 32; 327. - 502; 515; 518; 525 sq. - Aphrodision :
Indiges et les Pénates : 251 η. 171. - Qui- 256; 315 sq.; 323; 340; «362; 369. -
rinus-Indiges : 303 η. 207. καλιάς: 222-3; 227; 228; 252; 294. -
Indigetes : 300; 334. - Indigetes/Nouensi- dédicace à Cérès: 234; 237; 249; 285-6; 287. -
des : 112. - Indigitamenta : 113. dédicace aux Dioscures : 8; 158; 159;
invasion gauloise de 390 av. J.-C. : 100; 238; 239; 249; 251; 285-92; 311; 430. -
310; 460; 470-77; 488 n. 152; 505; 506. Hérôon d'Enée : 9; 158; 250; 257; 274;
Isis: 79; 81; 82. - Isis Fortuna: 79; 81; 299-300; 303; 305-6; 320-23; 335-6; 339;
82. 369. - Pénates de L. : 4; 59; 124; 136;
Janus : 239. 137; 146; 157 sq.; 418; 428; 433; 451;
502; 517; 518; 525 sq. - sacrifice des
Junon-Héra: 82; 136; 146 η. 72; 148; 190;
magistrats romains: 4; 150-1; 157-8; 212;
192; 193; 194; 212; 214; 238; 330; 433;
439. 215; 219; 223; 233-4; 252; 294; 295; 342;
344; 345; 355-61; 372; 384; 517. - les
Jupiter: 46; 61; 76; 79; 81; 82; 136; 142; treize autels et le sanctuaire attenant : 8 ;
143; 146; 148; 151-52; 216; 238; 330; 158; 220; 229-257; 315 sq.; 322-23; 339;
414; 429; 430; 433; 473; 477-8 η. 115. -
371; 372; 378; 430; 528. - sanctuaire de
Jupiter Indiges : 323; 329; 331. - Jupiter
Minerve-Athéna : 176; 220; 221; 257 sq.;
Latiaris: 241; 246; 344; 373; 374; 528. - 308; 337-8; 366; 378; 497. - dépôt votif
Temple de J. sur le Capitole : 115. -
proche du sanctuaire : 257-9 ; 363 ; 366 ;
Temple de J. Stator: 9; 45; 272; 414; 415; 528.
416; 417; 440. Liber: 249; 301; 459.
Juturne : 234; 235; 301 ; 330; 331. Libera : 249.
Korè : 248. Liberalia : 459.
Lanuvium : 316; 351-2. liberano : 512.
laraire (lararium): 63; 65; 71 ; 75; 77; 78; Ligue latine: 175; 241-47; 347 sq.; 372 sq.;
107; 117; 213; 214; 523; 524. 390; 450.
Lare(s) : - Lar : 333 sq. - Lar familiaris : Lucus Vestae : 507.
76; 101; 103; 105; 107; 108; 109; 110; Luna: 79; 268.
333-4. - Lares: 1; 2; 56; 74; 75; 77; 78; Lunus : 79.
81; 83; 84; 94; 120; 333; 398; 519; 524.- Lupercal : 215.
Lares compitales : 101. - Lares Lusus Troiae : 309 ; 3 1 6.
familiäres : 106. - Lares Grundiles : 90 n. 144. - Mamurius : 496.
Lares militares, L. praestttes : 101. - Mânes (Di): 101; 104; 106; 109.
Lares et Pénates: 45-6; 59; 68; 69-70; 75; Mania - Mater Larum : 105.
101-111. - type iconographique des L. : mariage: 52; 258 n. 207; 258; 298; 345;
76; 102. - Temple des L. sur le Forum: 346.
398; 409; 445; 514 n. 267; 519. Mars: 75; 79; 80; 81; 215; 473; 474; 513;
Larentia-Larunda : 105. 514; 515; 519.
Latinus: 4; 180; 190; 192; 240; 298; 303-4; Marzabotto : 231.
344-46; 348. Mater Matuta : 300; 442.
INDEX NOMINVM ET RERVM 551

Mattalia : 300. 489; 491; 492; 493; 494; 496; 497-8; 502;
Maxence (Basilique de): 9; 394; 395; 400; 506; 517; 529.
402; 406; 409; 410; 411; 412; 413; 414; Osiris: 79; 267.
415-6; 419; 426; 440. - monnaies de M. : Palatin; 2; 3; 70; 389; 390; 393; 394; 398;
387; 411-2; 413; 416-7; 426-7. 400; 401; 442-4; 449; 461; 462; 468; 503;
mensa : voir table. 508; 511; 514 n. 268; 516; 525.
Mercure: 61; 79; 80; 81; 82; 120; 146; Paies: 143; 144-5; 234.
150; 164 η. 23; 208; 267; 268; 275; 276; Palinure: 166.
284; 433; 526; voir Hermès. Palladium (-a): 128; 204; 205; 222; 228;
Mézence : 324. 259; 366-7; 438; 460-7; 469; 481; 482;
Minerve- Athéna : 79; 81; 82; 136; 146; 148; 488; 489; 491 n. 159; 492; 493; 495; 495-
175; 259; 433; 495 n. 179. - voir Athéna 8; 500; 502; 503; 504; 505; 506; 518;
et Myndia Pallénis. 529.
Misène : 165-9. Pan : 79.
Mithra : 65. - Mithreum : 75. Parilia: 22 n. 46; 455.
mola salsa : 22 η. 46; 455-6. Pasinati (ciste) : 325.
Mucius Scaevola Q. : 17; 18; 20. patella : 87 ; 88; 89; 90.
mundus : 115. Pax : 79.
Pénates étrusques : 142 sq.; 233 sq.
municipium : 353 sq.
Pénates dans l'héritage : 95; 96; 98 n. 22.
mûries : 455-6.
Penates louts : 143.
Murus Mustellinus : 395-6. Penates populi Romani : 2; 3; 7; 10; 59; 60;
Mutunus Tutunus : 395-6; 400.
96; 468-9; 498; 501; 504; 506; 508
Myndia Pallénis : 174; 220; 260; 337. n. 231; 518; 524; 526; 530.
Neptune: 82; 140; 141; 142; 144; 153; Pénates et Vesta: 3; 44-45; 60; 150-1 ; 219;
526. 227; 252; 260; 280; 292-6; 329-30; 331;
niche: 66; 67; 72; 73; 77; 84; 457. 342; 355 sq.; 384; 468; 469; 477-78
Numa : 100; 341 n. 104; 442; 445; 454; 475- η. 115; 478; 517; 518.
6; 479; 486; 488 n. 150; 495 n. 179; 508; penator : 20; 23.
509; 510; 511; 512; 514 n. 267 et 268; Penestes : 15 n. 13.
515; 516-9; 524; 529. - calendrier de N. : penetrale (ta, is) : 13; 22; 64; 134; 135; 279;
300; 365. - N. et Egèrie : 515. 280; 295; 457; 458; 460; 461; 488; 491;
Numicus: 297-98; 324-32; 335; 465. 503; 505; 516.
Ops Consiva: 513; 514; 515; 519. penus: 5; 7; 13; 14-21; 29; 97; 523; 529.
origines albaines de Rome: 117; 370; 383; Penus Vestae: 14; 15; 21-22; 25; 26; 27;
446-51; 453. 28; 44; 59; 69; 100; 275; 288; 289; 366;
origines troyennes de Rome: 5; 6; 9; 124; 385; 453; 454-8; 459; 468; 474; 477; 479;
125; 157; 167; 170; 205; 215; 228; 264; 488; 494; 501; 504; 506; 517; 518; 519;
293; 294; 296; 298; 300; 309; 335; 360; 523; 527; 529.
365 sq.; 429-30; 438; 447-51; 453; 467; Perséphone-Korè : 82 ; 237.
506; 518; 526; 527; 528. phallus: 458-60; 469.
origines troyennes des Pénates de Lavi- pignora imperii: 22; 202; 259; 296; 466;
nium: 5; 6; 124; 125; 126; 127; 130; 467 η. 83; 487; 489; 518; 519.
131; 132; 134; 139; 144-5; 161; 167; 168; pignus : 366 η. 241 ; 460-1 ; 496; 503.
172; 182; 188; 190; 198; 209; 215; 217; Plaisance (foie de) : 151 ; 153.
219; 263-4; 275; 280-1; 283; 292; 307; Poggio Civitate : 514.
319; 332; 336-7; 384; 385; 419; 422; 428- pomerium : 388; 516.
30; 435-37; 451; 457; 465; 468; 481; 486; Pompéi: 2; 61; 63; 65; 67; 71; 72; 74; 75;
552 INDEX NOMINVM ET RERVM

77; 80; 81; 82; 93; 96; 99; 102; 107; 111; origine troyenne des Pénates de Lavi-
116; 117; 118; 119; 207; 216; 250; 330; nium.
340; 348; 353; 354; 360; 371; 523; 524. sacra Penatium : 36; 47-8.
Pontifex Maximus: 473; 487; 500; 503; sacra populi Romani: 22; 25; 139; 250;
507; 509 n. 242; 526. 360; 385; 457 sq. 470 sq.; 481; 504 sq.;
pontifices : 485. 507; 516; 517; 518; 519; 526.
pore (sacrifice du): 90; 109 η. 86; 211; sacra principia(-orum) : 354; 360; 371.
212; 439. sacrarium: 65; 71; 75; 84; 99; 277; 474.
Pratica di Mare: 4; 8; 158; 162; 172; 176; sacrifice aux Pénates privés : 108-9.
220; 233; 252; 360; 363. Saliens: 127; 145; 240; 288.
Frenesie : 118; 299; 458 n. 34; 500. salinum : 87; 89.
Priam: 8; 184. Samothrace: 125-8; 130; 131-4; 138; 140;
Priape : 82. 148-50; 433; 468; 481; 491-2.
Pyrrhus (fils d'Achille) : 184. Sant'Omobono (aire sacrée de) : 230.
Pyrrhus (roi d'Epire) : 6. Saon : 127.
Quirinal: 302; 442; 483; 508; 514 η. 267. Sarnus: 79; 80; 81; 83.
Quirinus: 46 sq.; 118; 473-4 η. 102; 483-4. Satyros: 137; 465.
- Q. Indiges : 303 η. 207. - Temple de Q. : Scaevola M. Q. : 17 sq.
483. Scalae Caci : 401-2; 516 n. 277.
Regia: 21; 27; 145; 288; 404; 443; 445; Scalae deum Penatium: 401-2; 408; 409;
474; 476 n. 110; 507-8; 509; 511-5; 516; 418.
517; 519; 524; 525. scarabée étrusque (coll. de Luynes) : 7 ;
relief du British Museum (sacrifice
198-9; 202; 275; 281; 307; 309; 312; 314;
d'Enee): 226-7; 260.
317; 336.
représentation non anthropomorphique
sceptre-σκήπτρον : 80; 266-7; 272; 273;
des dieux: 114-5; 124; 130; 276-7; 282; 422-3.
288-92; 385; 421; 523; 525. Scipion (s) : 128.
rex sacrorum : 507; 513 n. 258; 515; 519.
Ségeste : 203-4.
Rhéa Silvia : 509-10 n. 242.
Rhomè : 8 ; 464. Septimontium : 390-1; 393; 406; 443; 525.
ritus Graecus : 284. Sérapis: 79; 82.
Romulus (fondateur de Rome) : 47 ; 99 ; serment (par les Pénates) : 47.
115; 206; 207; 216; 319; 341-4; 348; 353; Servius Tullius : 53; 185 n. 119; 241; 242;
370; 383; 388; 411; 413; 414; 415; 449; 245; 246; 308; 368; 390; 442; 444; 458
450; 453; 454; 458 n. 34; 464; 473-4 n. 34; 509-10 n. 242; 514 n. 267; 515;
n. 102; 508; 514 n. 268; 516; 517; 518; 525.
525; 527; 529. - R. et Rémus : 4; 105; Sicile: 172; 199; 203; 312; 366.
118; 215; 411; 413; 449; 509-10 n. 242. sigillum (-a): 88; 130; 131 n. 24; 179; 276-
Romulus (fils de Maxence) : 387; 403; 410- 8.
8. - Temple ou Hérôon de Romulus : 3 ; Sol : 79 ; 82 ; 268 ; 302 sq. ; 324 sq. ; 332 ; 339.
403; 410-8; 440. - Sol Indiges : voir Indiges.
sacellum : 66; 213; 225; 330; 419; 439. Stésichore: 163; 170; 180; 183; 184; 186;
sacra - Pénates troyens : 5; 6; 46; 126; 130; 198; 208; 217.
139; 140; 144; 162; 165; 172; 177; 178; Sucellus : 273.
182; 186; 187; 195; 202; 215; 275; 292; Sulla: 74; 80.
295; 307; 310; 329; 332; 337; 346; 365; Sulpicius C. : - monnaies de C.S. : 432.
369 ; 379 ; 383-6 ; 428 sq. ; 436 sq. ; 465 sq. ; suouetaurilia : 215.
489; 492-3; 494; 496; 502; 517. - Voir table(s)-raensa : 36; 85 sq.; 102-3; 176-7.
INDEX NOMINVM ET RERVM 553

- manducation des t. : 86; 188; 189; 191 ; Tyrrhénos : 241.


192; 194; 222. Ulysse: 95; 168; 169; 255; 259; 284; 305;
Tabula Iliaca : 158; 163-70; 178; 184 η. 115; 313; 364; 369; 463; 464; 466; 467 n. 82;
186; 198; 207; 211; 216; 217; 275; 281; 506.
284. Valerius Publicola : 391-4; 396-8; 399 n. 70;
Tanaquil : 108 η. 77. 406; 442.
Tanit : 266. Véies: 115; 370 n. 255; 447; 477 n. 115;
Tarpéia : 393. 480; 485-6; 529. - statuettes d'Enée et
Tarquin l'Ancien: 115; 147; 149; 150; 241; Anchise: 199; 201; 205; 310-4; 336.
343; 373; 514 η. 267; 525. - statue de la courotrophe : 201 ; 310-1.
Tarquin le Superbe: 98; 343; 373; 391; Véiovis : 306 n. 220.
442; 514 η. 267. Vèlia: 116; 117-8; 132; 136; 214; 387 sq.
Tarquinia : 241 ; 267 η. 30. - Pénates de la V. : 139; 285; 288-9; 291 ;
Tibre: 189; 191; 193; 449; 496; 512. 385; 387 sq.; 468; 493; 517; 523 sq. -
Tibur: 118 η. 125. Temple des Pénates: 137; 145-6; 285;
Tigillum Sororium : 441-42; 444; 446; 525. 384; 385; 387 sq.; 468; 514 n. 267; 519;
Titus Tatius: 99; 251; 341-44; 347; 348; 524 sq. - inscription de la statue: 132;
349; 442; 448; 514 η. 268. 137; 145 sq.; 420 sq.; 433-6.
toge prétexte : 52 ; 84. Velienses : 444; 448.
toge virile (prise de la) : 109; 258 n. 207. Vénus: 75; 79; 80; 81; 82; 125; 204; 238;
Tor Tignosa (cippes de) : 332-4. 249; 254-57; 284; 315; 323; 339; 364;
Tor Vaianica : 301 ; 308. 378; 501-2. - V. Frutis : 128; 234; 235;
transfert des Pénates de Lavinium à Albe : 254-5; 315-6. - V. Pompeiana: 79; 80;
498; 526. 81; 83.
Triade Capitoline: 5; 82; 115; 136; 148; Vesta: 3; 61; 79; 81; 150-1; 280; 281; 292-
149; 150; 153; 471; 526. - Première 96; 297; 301; 329; 330; 332; 367; 384;
Triade capitoline : 118. 445; 515; 519.
Troia : 308; 309; 316; 327; 339; 361; 528. Vestales: 22 n. 46; 100; 269 n. 42; 295-6;
Troie: 3; 5; 48; 61; 126; 129; 130; 131; 297; 310; 329; 331; 455; 457; 458; 459;
134; 138; 139; 141; 142; 144; 157; 162; 470 sq; 507; 508; 509-10; 511. - Maison
163; 164; 165; 178-83; 185; 189; 193; des V. : 454; 507; 509; 510; 519.
195; 205; 210-1; 221-2; 254; 259; 264; Vestalia: 455-7; 459; 488.
281; 310; 312; 315; 337; 364; 370; 383-6; Véturie: 54; 319.
419; 429; 436-7; 463 sq.; 489; 492-3; 496- Via Sacra: 389; 390; 395 n. 40; 398; 403;
8; 502; 517. 406; 407; 409; 411; 414; 416; 417; 440;
truie: - aux trente porcelets: 174; 188; 445; 507; 508; 514 n. 268; 515.
192; 213; 215; 222; 224; 225; 227; 242-3; Vica Pota : 396.
293; 327; 432. - représentée sans les Victoria : 79.
porcelets : 211-2; 226-7. - sacrifice de la t. : Vulca: 115.
192-4; 211; 439. - statue de la t. à Vulcain : 79; 81. - V. Iouialis : 152.
Lavinium: 174; 243. Vulci (amphore de): 8; 201-2; 217; 275;
Tullia: 53; 98; 99. 281; 290; 307; 309-10; 336.
Tullus Hostilius: 343; 370; 388; 393; 395; Zancle : 168.
399; 441; 514 n. 267; 519; 524. Zeus : 75 ; 501 ; 502. - Zeus-Sérapis : 75.
INDEX LOCORVM ANTIQVORVM

Ampélius 707: 503 n. 214. X, 541 (fr. 55 Peter):


20, 11 : 495; 499. 214 n. 269; 224; 360.
Antistius Labeo Catulle
ap. Festus, 474 L : 390. 9, 3-4 : 39; 44; 48. 68, 102 : 67 η. 25.
Arnobe ClCÊRON
I, 36: 301 n. 199. III, 40: 134-5; 140; Cat. I, 5, 11 : 415 η. 141. IV, 18 : 44.
142 sq.; 233; 236. Cat. Mai., 56 : 19.
Asconius *De Or., I, 202 : 270.
In Pis., 52 : 397. Dom. 108: 46; 101 η. 41. 144: 54 η. 70;
In Scaur., 18-19, p. 21 C : 358-9; 371. 96 η. 14.
(Ad) Farn. Vili, 6, 3 : 376 η. 282.
Augustin
Har. Resp. 12 : 296. 16 : 393 η. 29. 17, 37 :
De Ciu. Dei I, 3 : 184 η. 115. Ill, 18 : 496;
499. IV, 31: 114; 277. VI, 2: 493-4; 94; 98. 26: 397. 57: 67 η. 25.
502. VII, 6: 105. VII, 21: 249; 459. Leg. Agr. 2, 57: 53; 95 η. 10.
Leg. Π, 21 : 512 η. 257. Π, 28 : 396. II, 58 :
VII, 28: 136; 149 n. 78.
109 η. 85 et 86.
Aulu-Gelle Mil. 38: 49; 95.
N. Att. I, 12, 14 : 296 η. 166. Π, 16, 9 : 323 Nat. Deor. II, 2, 6 : 431 η. 191. Π, 68 : 13;
η. 18. IV, 1, 2 : 14. IV, 1, 16 : 16 sq. IV,
24; 35; 60 η. 6; 64; 69-70; 86; 129
1, 17 : 18; 97 η. 21. IV, 1, 21 : 18. IV, 1, η. 18; 135; 151; 295 η. 162; 458; 517.
23 : 17. IV, 6, 1-2 : 513 η. 261. Χ, 27, 1 : III, 80 : 82 η. 97.
270. Χ, 27, 3: 270. XIV, 7, 7: 415 Off. Π, 27 : 272 η. 61. III, 109 : 356.
η. 141. XVI, 10: 30 η. 74. Phil. 2, 64 : 272. 11, 24 : 460 η. 40. 12, 14 :
Aurélius Victor 95 η. 11.
De Vir. III. Ill, 8, 2 : 373 η. 269. XV : 394; Prou. Cons. 35 : 50; 98 η. 25.
396 η. 47. Quinci. 83 : 54 η. 71 ; 95.
Cassius Hemina (Ad) Quint, fratr. Il, 4, 2 : 376 η. 282.
αρ. Macr., Sat. Ill, 4, 9 : 126-7. Rep. I, 9 : 375. Π, 31 : 393 η. 29; 395. V,
αρ. Serv., Ad Aen. Π, 717: 125-8; 178. 5: 101 η. 41.
αρ. Solin, II, 14 : 128; 254-5; 463. Rose. Am. 23 : 49; 54 η. 71 ; 55.
Caton Scaur. 48: 366 η. 241; 460; 488 η. 148;
De Agr. 2 : 103. 3 : 19. 5,3 : 108 n. 79. 489 η. 155; 495.
ap. Festus, 268 L. : 30-1. Sest. 30: 41; 55 η. 74. 45: 45; 98. 145:
ap. Priscian., IV, n. 629 Ρ (= fr. 58 48; 98.
Peter) : 244. Süll. XXXI, 86 : 296 η. 167.
ap. Servius, Ad Aen. IV, 620: 324. IX, Tim. 38 : 106 η. 66.
556 INDEX LOCORVM ANTIQVORVM

Verr. II, 2, 5 : 19. II, 21, 46 : 87 n. 129. IV, EUSÈBE


4, 3 : 88. Mai. n. coll. VIII p. 214 (= fr. 4 Peter):
C.I.L. 383.
X, 797: 250; 340; 348; 353; 354-5; 360-1; Fabius Pictor
371 sq. 8348: 323 n. 21. XIV, 2065: ap. Diod., VII, 3 : 188 n. 132.
324n.26. 2238: 376 n. 281. ap. Euseb. Arm., Mai, n. coll. VIII, p. 214
Corp. Gloss. Lat. (= fr. 4 Peter) : 383.
Ill, 167, 56: 106 n. 68. Festus
Denys d'Halicarnasse 20 L : 14 n. 5. 26 L : 30 n. 74. 41 L : 270.
I, 45, 1 : 181. 46, 4 : 181. 47, 6 : 167; 315. 55 L : 271. 60 L : 476. 80 L : 255 n. 189;
48, 1 : 167; 315. 53, 3 : 327. 55 sq. : 194. 315. 90 L : 271. 94 L : 323 n. 18. 111 L :
55, 1 : 308; 326. 55, 2: 302; 306; 326; 275 n. 77. 142 L : 395; 400. 152 L : 22;
331. 55, 3: 188 n. 129. 56, 2: 327. 56, 455. 190 L: 513 n. 263. 202 L: 513
5: 188 n. 132. 57, 1 : 222-3; 227; 228; n. 262. 231 L : 24 n. 58; 505 n. 223. 260
294. 64, 4: 321; 324; 325. 64, 5: 299; L : 99. 268 L : 20; 31 n. 75. 276 L : 343.
301; 325 n. 35. 67, 1: 501. 67, 1 sq. : 296 L : 21-22; 454 n. 5; 455; 488 n. 150
370; 450; 465. 67, 2 sq. : 498. 67, 3: et 151. 298 L: 29 n. 72. 304 L: 341
136; 250; 337; 493. 67, 4: 124-5; 202; n. 109. 320 L: 454 n. 3; 476 n. 111;
220; 264-5; 278; 279; 336 n. 81; 493; 508. 346 L: 513 n. 260. 432 L: 255;
501. 68, 1 : 400; 404; 440; 451 ; 493. 68, 284. 439 L : 127. 474 L : 390. 475 L : 30
lsq. : 137; 224; 420 sq. 68, 2: 116; n. 74. 504 L : 327.
117; 214; 288; 413. 68, 2 sq. : 138. 68, Florus
3 : 466. 68, 3 sq. : 492. 68, 4 : 465 n. 70. I, 13, 11-12: 485.
68 sq. : 436. 69, 1 sq. : 138. 69, 4 : 366 Hellanicos
n. 241; 492. 72, 2: 311; 364; 383 n. 3; αρ. Denys d'H., I, 47, 6 : 167; 315. 48, 1 :
464. 167; 315. 72, 2: 311; 364; 383 n. 3;
II, 46, 2: 349 n. 148. 52, 3: 251; 341-2; 464.
368. 66, 1 : 436. 66, 3 : 489 n. 153; 491 ; Hérodien
500. 66, 4: 457; 490; 499. 66, 5: 463; I, 14: 504. I, 14, 4: 462.
491; 493. 66, 6: 493. Hérodote
III, 31, 4 : 243. 34, 3 : 343 n. 123. 51, 3 : I, 167: 484 n. 137. IX, 10: 267.
343 n. 124. 61, 2: 241. Hésiode
IV, 26, 4: 241. 27, 4: 241. 45, 3: 343 Théog. 893: 259. 924: 259. 938-9: 266.
n. 125. 49, 2 : 374 n. 272. 1008 sq.: 162; 169; 304 n. 215; 364.
V, 13 : 431 n. 191. 19, 1 : 389; 392 n. 25. 1011 sq.: 467 n. 82.
39: 398 n. 55. 48: 394; 397. 61, 3: Histoire Auguste
244. Héliog. 6, 6 : 457 n. 23. 6, 6-9 : 505.
VI, 63, 4 : 243. 74, 6 : 243. 75, 1 : 243. Marc. Aur. 27, 4 : 357.
VIII, 49, 6 : 319. 58, 1 : 245. 79 : 410. Homère
Diodore de Sicile //. II, 101 sq. : 422. II, 247 sq. : 338. II,
VII, 3: 188 η. 132; 192. 820: 338. IV, 515: 259. VII, 277-8:
Dion Cassius 267. VIII, 39 : 259. XX, 209 : 338. XX,
XLII, 31, 3 : 503. LIV, 24, 2 : 503. LXXII, 307-8 : 162. XXIII, 183 : 259.
24: 504 n. 221. Od. Ili, 78 : 259. Χ, 319 : 266.
Fr. 1 in Tzetzes, Ad Lyc. 1232 : 327. Horace
Donat Ερ. I, 7, 94-95 : 47, 54 η. 70.
Eun. II, 2, 25 : 401. Odes II, 4, 15 : 94. Ill, 14, 3-4 : 42. Ill, 23,
INDEX LOCORVM ANTIQVORVM 557

17 sq. : 53; 87; 89-90; 91. III, 23, 19: Nonius


94. 531, 19: 393 η. 29 398; 399; 441; 442;
Sat. I, 5, 65 : 108 η. 80; 109 η. 82. Π, 5, 524. 528 : 270 η. 45.
4-6 : 95. Obsequens
Hygin 24: 224 η. 25; 359 η. 205.
αρ. Asc, In Pis. 52 : 397. Orose
αρ. Macr., Sat. Ill, 4, 13 : 146. IV, 9, 14-15: 494-5; 499.
Hymnes Homériques Ovide
Aphr. 196-7 : 162. 286-8 : 501. Am. II, 11, 7-8: 50.
Justin, 43, 3, 3: 271. Fastes I, 527-8: 217.
Juvénal Π, 546-553 : 111 η. 90. 634 : 76 η. 75.
III, 138-9: 495. Ill, 139: 461 n. 43. VIII, III, 55-6 : 105 η. 63. 655-6 : 328.
110: 104 n. 54. IV, 802 : 103 η. 52.
LUCAIN V, 563-65 : 206.
Phars. I, 196-8: 46. 598: 461 n. 43; 491 VI, 59-61 : 254. 261-2 : 488 η. 150; 510.
n. 159. 263-4: 509. 263-66: 21. 295: 82
II, 333-4 : 37. 384-5 : 41-2. η. 97. 395 sq. : 456. 421 : 466 η. 73.
VII, 347 : 96 η. 15. 394 : 101 η. 41. 394- 424-35 : 461 η. 43. 437-54 : 487. 450 :
6: 341 η. 104. 456 η. 20; 457. 453 : 500. 455-6 : 489
IX, 230: 96 η. 14. η. 156. 633 sq. : 108 η. 77.
Χ, 479-80 : 54. Met. V, 660: 37; 52. VII, 575-6: 40. IX,
LUCILIUS 640 : 98 η. 25. XIV, 608 : 323 η. 18.
XVI, 6:16. Tr. Ι, 3, 45 : 101 η. 41. 3, 47 : 91 η. 146. 5,
Lycophron 81 : 96 η. 16.
Al. 617 sq. : 141. 1226 sq. : 86 η. 121.
Pausanias
1250-52: 188 η. 129; 194. 1253 sq. :
IX, 40, 11-12: 422.
242-3. 1255 sq. : 188 η. 132; 194. 1261 :
190. 1261-62 : 220; 260; 278; 337-8. Perse
Lydus Sat. Ill 24-26: 89-90. 73-75: 18 η. 26. V,
De Mens. IV, 2 : 239. IV, 155 : 303. 31 : 76 η. 76; 109 η. 82.
Macrobe Pétrone
Sat. I, 9, 16 : 239 η. 106. 15, 18 : 254. XIX: 74; 79. XXIX: 68; 268 η. 32. LX :
III, 4, 6: 140. 4, 7: 134; 147 sq. 4, 9: 77 η. 78; 102 η. 45; 109 η. 82.
126-7. 4, 11: 150; 212; 219; 252 Plaute
η. 179; 260; 294; 342 η. Ill; 355 sq.; Merc. 834: 36; 38; 95; 98 η. 22; 99; 101;
517 η. 282. 4, 13 : 146. 6, 16 : 284. 14, 103; 107 η. 73; 334. 836 : 36; 38.
41 : 60 η. 7. Mil Gl. 1339: 103.
Martial Pseud. 178: 15. 601: 21. 608: 21; 86
I, 70, 12 : 396 η. 42. VII, 27, 5-6 : 66-67. η. 120.
Martianus Capella Rud. 1208: 90 η. 141.
De Nupt. Phil, et Mere. I, 41 : 151-53. 45 : Pline l'Ancien
233. N.H. Ill, 5, 56: 301-302; 327. 56-7: 256;
Naevius 362. 68 sq. : 243. 69 : 444; 448.
Fr. 3: 36; 47; 61; 85; 86; 117; 123-4; VII, 45; 141 : 461 η. 43; 495; 499.
176. Fr. 11 : 164 n. 23. XXVII, 45 : 375.
NlGIDIUS FlGULUS XXVIII, 7 : 457. 27 : 102 η. 46. 39 :
ap. Arn., Ili, 40: 140; 142 sq. 458.
ap. Macr., Sat. Ill, 4, 6:140. XXXV, 157: 115 η. 111.
558 INDEX LOCORVM ANTIQVORVM

Plutarque Sénèque
Quaest. Rom, 79 : 397 n. 49. Oed. 708: 51.
Vitae : Phèdre 89-91 : 42.
Cam. 20, 3 : 480. 20, 4 : 457. 20, 5 : 457. Phén. 503-4 : 42. 663 : 54 n. 68.
20, 6: 463; 481. 20, 7: 505 n. 224. 20, Servius-Daniel
7-8: 482. 21, 1 : 483. 21, 2: 484. Ad Aen I, 170 : 164 n. 23. 259 : 323 n. 22.
Cic. 16: 415 n. 141. 378: 126. 617: 501 n. 209. 703: 18-9.
Cor. 29, 2 : 250. 736 : 87.
Numa 10: 478 n. 118. 11: 454 n. 3; 476 II, 35 : 501 n. 209. 166 : 463 n. 57; 466
n. 111. 11, 1 : 508. 18: 297. n. 73; 496. 296: 60 n. 7; 149; 150-1;
Public. 10, 3-6 : 394. 10, 6 : 396 n. 43. 23 : 219; 294; 342; 517. 320: 184 n. 115.
397. 325: 142; 145; 234; 273 n. 64. 339:
Rom. 19: 349 n. 148. 20: 401 n. 77. 23: 297. 469 : 66. 484 : 24 n. 58; 64. 514 :
342. 24 : 343. 2; 63-4; 76; 524. 636: 129. 649: 501
POLYBE n. 209. 687 : 501 n. 209. 717 : 36; 125-
III, 22, 11 : 347; 361; 368. 52: 268. 6.
Pomponius Mela III, 12: 132; 145 n. 71; 150; 212; 252;
II, 4, 71 : 256; 362. 260; 288; 295; 355 sq.; 421; 433-4;
Priscien 437 n. 213; 457; 468 n. 86. 119 : 141.
IV, 629 Ρ : 244. 148: 131; 276. 168: 130 n. 21. 174:
Probus 283. 257 : 87.
Ad Verg. Bue. VI, 31 : 151 η. 86. IV, 242 : 268; 273 n. 63. 620 : 324.
Properce V, 64: 99; 110. 704: 503 n. 214.
IV, 4, 13-14 : 297. IV, 4, 45 : 461 η. 43. IV, VI, 152: 104. 760: 271 n. 55.
11, 73 sq. : 182 η. 107. VII, 150: 297; 325; 329; 465 n. 67.
PSEUDO-AURÉLIUS VICTOR 188: 466; 467 n. 83. 207: 127. 603:
Origo Gent. Rom. 10, 12, 4 : 326 η. 37. 14, 513 n. 261. 678 : 500 n. 203. 709 : 349
4 : 323 η. 21 ; 324. 15, 4 : 503 η. 214. 17, n. 148.
1 : 242 η. 121; 465. 17, 2: 450. VIII, 138: 268. 288: 284 n. 113. 663:
Pseudo-Plutarque 474. 664 : 358. 679 : 127.
Par. Min. 17: 500. X, 541 : 214 n. 268; 224; 360.
Res Gestae XI, 211 : 66; 83.
IV, 2, 3: 106. IV, 7: 225. X, 12: 106. Ad Georg. I, 21 : 113.
XIX, 2: 333; 387 η. 3; 398; 424; 440; Silius Italicus
445. Pun. : VIII, 179-200: 328.
Salluste SOLIN
Cat. VI, 1 : 383 n. 3. I, 18: 401 n. 77; 516. 21: 445. 21 sq. :
Hist. 2-, 47, 3: 50 n. 52; 98. 47, 4: 50 442. 22 : 441. 23 : 445. 25 : 388 n. 7; 393
n. 52; 98. n. 29; 398; 399; 508; 514; 519; 524.
SCHOLIASTE DE BOBBIO II, 9: 500 n. 203. 14: 128; 254; 315; 323
Cic. Pro Plane. 23 : 373 n. 269. n. 21; 463.
SCHOLIASTE DE VÉRONE Souda s.u. 'Αφροδίτη : 255. s.u. κηρύ-
Ad Aen. I, 239 : 341 η. 104; 358. 259 : 323 κειον : 268 ; 269.
η. 19. II, 717 : 130; 179; 276. VII, 681 : Stace
500 η. 203. Silves III, 5, 12-13: 43 n. 23.
Sénèque le Rhéteur Strabon
Contr. I, 3, 1 : 461 n. 43. IV, 2 : 495; 499; V, 2, 2 : 240. V, 2, 3 : 484 n. 137. V, 3, 5 :
500. 255; 315; 323; 362. VI, 1, 14: 221.
INDEX LOCORVM ANTIQVORVM 559

Suétone 396. 20, 12: 330 n. 56; 431 n. 191. 40,


Aug. 92: 56; 70. 7: 54.
Cal. 5 : 104 η. 53. IV, 25, 7-8 : 245.
César : 79, 2 : 376 η. 282. V, 19, 1 : 375. 30, 6: 54. 39, 2: 471. 39,
Claude 4 : 376 η. 283. 9-10: 470. 39, 11 : 470. 40, 7: 457; 471
Nér. 32: 51-52; 56. n. 95; 472. 40, 8: 100; 275; 289; 505
Tacite n. 224. 41, 3: 489 n. 152. 52, 7: 461;
Ann. Ill, 34, 3 : 43. IV, 36 : 376 η. 283. V, 489. 52, 8: 370; 450; 529. 52, 13-14:
I, 3: 52. XII, 23: 516. XIII, 4, 3 : 37 473 n. 98. 53, 5 : 54. 53, 8 : 54.
η. 9. XIV, 61, 3-4: 43; 52; 109 η. 83. VI, 3, 3 : 54. 14, 7 : 55. 14, 8 : 98 n. 25.
XV, 40: 504. XV, 41, 1: 3; 45; 384; VII, 2, 2 : 239 η. 104. 13, 8 : 50; 54. 25, 5 :
458; 467-8; 504; 508 η. 231. 343 η. 120. 27, 1 : 239 η. 104.
Germ. 15, 1 : 50; 56. Vili, 4, 2 : 375. 9, 6 : 107 η. 72; 300. 11,
Hist. I, 15, 2 : 56. 51, 7 : 42. Ill, 84, 3 : 40; 2-3: 351. 11, 15: 339; 350; 353; 363;
50 η. 52; 98 η. 25. 86, 8 : 98 η. 22. IV, 372. 14, 2: 351 η. 164. 25, 1 : 239
53, 3: 297 η. 173. η. 104.
Terence IX, 36: 480 η. 124. 42, 11 : 245.
Phorm. 311-12: 36; 103. XXII, 3, 10: 54; 98 η. 25.
Tertullien XXV, 12, 1 : 376 η. 281.
Ad. Nat. I, 10, 46: 59; 63. I, 10, 76: 101. XXVI, 27, 14: 457 η. 22; 461; 27: 496;
II, 15: 500 η. 204. Ill, 41 : 105. 503. 36, 6 : 89.
XXX, 13, 13 : 98 η. 26. 14, 2-3 : 52.
Théocrite
XLI, 16, 1 : 376 η. 281.
αρ. Serv., Ad Aen. I, 617 : 501 n. 209. II,
XLII, 22, 16: 376 η. 281. 35, 3: 376
35 : 501 n. 209. II, 649 : 501 n. 209. II,
η. 281.
687 : 501 n. 209.
XLV, 5: 440. 16, 5: 384 η. 7; 387 η. 2;
Théodose 399.
Codex XVI, 10, 18: 90; 91.
Periochae, 19 : 487.
Thucydide
I, 53 : 267. Tzetzès
TlBULLE Ad Lyc, 1232: 327.
I, 10, 5 : 90 n. 141. II, 4, 53 : 104 n. 54. 5, Valére Maxime
42 : 103 n. 52. 5, 49 : 323 n. 20. I, 1, 10: 484. 4, 4: 495; 499. 6, 7: 224
TlMÉE η. 25; 356.
αρ. Denys d'H., I, 67, 4: 124-5; 171-2; IV, 1, 1 : 393 η. 29.
202; 220; 264-5; 278; 336. Varron
TlTE-LIVE De L.L. V, 41-54: 389 sq. 48: 443. 54:
I, 1, 1 : 181. 1, 4 : 327. 1, 9 : 345. 2, 6 : 323 384 η. 7; 387 η. 1 ; 395; 399. 58: 15
n. 22; 325. 3, 11 : 509 n. 242. 12: 414. η. 13; 133-4; 434; 436 η. 211; 481. 144:
13, 4: 341 n. 105; 349. 13, 6: 349. 14, 4; 157; 180; 219; 319; 361 η. 217; 369
2: 341. 14, 2 sq. : 368. 14, 3: 344. 20, η. 250; 384. 152 : 304; 437 η. 213. 157 :
1 sq. : 508 n. 234. 20, 3 : 445. 22 sq. : 475. 161 : 20. 162 : 20.
370. 23, 1: 447. 26, 13: 441-2. 28, 7: VI, 21 : 513 η. 262.
447. 30, 1: 441 n. 229. 38, 7: 115 VIII, 83 : 29 η. 73.
n. 110. 43, 13: 390 n. 19. 45, 2: 362 R.R.: Ι, 62: 86 η. 120. II, 4, 18: 174;
n. 225. 243.
II, 6, 5-12 : 391. 6, 6 : 391. 6, 10 : 391-2. 7, Sat. : 265 : 89.
7 : 393 n. 28. 7, 12 : 396 n. 43. 16, 7 : αρ. Am., Ill, 40: 134-5.
560 INDEX LOCORVM ANTIQVORVM

ap. Aug., De Civ. Dei, IV, 31 : 114; 277. sq. : 188. 404-7 : 284 η. 114. 395 : 188.
VII, 21 : 249; 459. VII, 28 : 136. 603-4 : 43.
αρ. Donat, Eun II, 2, 25 : 401. V, 61-63: 91 η. 145. 615: 259.
αρ. Macr., Ill, 4, 7 : 134. 6, 16 : 284. VI, 760-5: 271.
ap. Non., 528: 270. 531 : 109 η. 84. 531, VII, 59-64: 304. 71 sq.: 185 η. 119.
19: 393; 398; 399; 441; 442; 524. 81 sq. : 346 η. 134. 106 : 189. 116 : 86-
αρ. Prob., Ad Verg. Bue. VI, 31 : 151 7. 120 sq. : 189; 191. 122 sq. : 161.
η. 86. 170 sq. : 298. 229-30: 190.
αρ. Schol. Ver., Ad Aen. II, 717: 130; VIII, 11: 184 n. 114. 11-12 : 190. 29:
179; 276. 191. 31 sq. : 192. 36 sq. : 191. 81 sq. :
ap. Serv., Ad Aen. II, 166 : 466 n. 73. 636 : 192; 211. 82 : 214 n. 268. 84 sq. : 192.
129. Ili, 12: 132; 288; 421; 433; 468 85: 214; 338. 86 sq. : 193. 543: 1;
n. 86. Ili, 148 : 131 ; 276 n. 84. V, 704 : 101 n. 41. 678-9: 42 n. 18; 45; 134.
503 n. 214. 680 sq: 185 n. 119. 720: 189 n. 134.
Virgile IX, 258: 101 n. 41.
En. I, 704: 67; 90. XII, 138-9: 330. 161-63: 240; 303-4.
Π, 171: 259. 227: 259. 293: 184 η. 115; 161-215: 346. 192: 336; 338; 346.
193; 195; 295; 429. 293 sq. : 182; 338. 294 : 192 sq. : 349. 366; 477 sq. : n. 238
48. 296-7 : 295. 318 sq. : 164. 319 : 183. 320 : 464. 794 : 323 n. 19.
193. 320-1: 184; 338. 559-60: 184. 632: VlTRUVE
185. 707 sq. : 186; 206. 717: 193. 747 sq. : IV, 9, 1 : 230. VI, 150: 20 n. 33.
206. 718: 338. 747: 186; 338. 767-8: 49.
804: 187. XÉNOPHON
Ill, 11-12: 42 η. 18; 45; 134; 187. 15- Cyn. I, 15: 171 n. 57.
16: 41. 118-9: 141. 154-5: 429. ZONARAS
163 sq. : 161; 187. 255-7: 188. 388 VII, 4 : 344.
Le sacrifice d'Enee (/Ira Pacis, Rome. Cliché Deutsche Archäologische Insti
Planche II

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Les monnaies de Maxence (Cliché Bibliothèque nationale, Paris).


TABLE DES MATIÈRES

Pag.
Introduction 1

Première partie

ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT

Chapitre I: Etymologie -.pénates et penus 13


I - L'étymologie de Penates . 13
II - Sens de penus 15
1) Penus dans le vocabulaire profane 16
2) Le Penus Vestae 21
3) Rapport entre les deux sens de penus. Le thème
pen- 22
III - Le suffixe -aies 29

Chapitre II : L'usage du mot pénates dans la littérature


classique 35
I - Penates et di pénates 35
II - Les sens du mot Penates ' 39
III - Penates et son contexte 44
IV - Circonstances de l'emploi de Penates 51
562 table des matières

Deuxième partie

LES PÉNATES PRIVÉS

Introduction 59

Chapitre I : Les réalités du culte des pénates privés 63


I - La localisation du culte 63
1) dans la maison en général 63
2) dans une pièce particulière de la maison 65
3) les différentes formes de chapelles domestiques . . 71
II - Les représentations des Pénates 75
1) peintures et statuettes 77
2) les divinités représentées comme Pénates 79
III - Le culte des Pénates 83

Chapitre II : Les pénates privés : essai d'interprétation 93


I - Les Pénates et les autres dieux domestiques 94
1) Pénates, θεοί πατρώοι et di patrii 94
2) Pénates et diui parentes 98
3) Pénates et Lares 101
II - Histoire des Pénates privés 111
1) La définition étymologique des Pénates 112
2) Les figurines des tombes albaines 113
3) La signification du nombre deux 117
4) La pluralité et la confusion avec d'autres dieux . . 119

Troisième partie

LES PÉNATES PUBLICS

Introduction : Les traditions antiques sur les Pénates 123


Timée 124
Cassius Hemina 125
TABLE DES MATIÈRES 563

Varron 129
Denys d'Halicarnasse 136
Nigidius Figulus . 140
Indications éparses et anonymes 146
Martianus Capella 151

Première section : Lavinium 155

Introduction 157

Chapitre I : Énée et les Pénates : le transfert des sacra 161


I - Les sources littéraires 162
1) Enée dans la littérature grecque antérieure au IIIe
siècle avant J.-C 162
2) Le IIIe siècle 171
3) La tradition annalistique 177
4) L'épanouissement de la légende 179
II - La tradition iconographique 196
1) Le VIe siècle 196
2) Les Ve-IIIe siècles 199
3) Le Ier siècle avant J.-C 204

Chapitre II: Le sanctuaire des pénates À Lavinium 219


I - Les données littéraires et iconographiques 220
1) La tradition littéraire 220
2) Les documents iconographiques 224
II - Les témoignages archéologiques 229
1) Le sanctuaire des Treize autels 229
A - Présentation des découvertes 229
Β - Tentatives d'interprétation du nombre des
autels 232
C - La divinité dédicataire 249
2) Le sanctuaire de l'est 257

Chapitre III : Identité et histoire des pénates de Lavinium .... 263


I - L'identité des Pénates de Lavinium 264
1) Le témoignage de Timée {. 264
2) La dédicace à Castor et Pollux 285
564 TABLE DES MATIÈRES

II - L'histoire des Pénates de Lavinium 292


1) Eléments autochtones 292
A - Les Pénates et Vesta 292
Β - Le Numicus 297
,C - Le culte de Sol Indiges 298
2) Introduction de la légende d'Enée à Lavinium . . . 307

Chapitre IV: Rome et les Pénates de Lavinium 319


I - L'établissement à Lavinium de la légende d'Enée
comme ancêtre fondateur 320
1) Développements architecturaux 320
2) Aeneas Indiges 323
3) La transformation des Pénates 336
II - Rome et Lavinium 339
1) Les sacrifices romains à Lavinium 341
A - Le sacrifice expiatoire de Titus Tatius 341
Β - Le pacte d'alliance entre Enée et Latinus . . . 344
C - Le renouvellement annuel du traité entre
Rome et Lavinium 347
D - Le sacrifice des magistrats romains à
Lavinium 355
2)' La signification du choix de Lavinium comme
métropole de Rome 361
A - Rôle particulier de Lavinium 361
Β - Eléments légendaires 364
C - Réalités historiques 367
D - La mainmise de Rome sur les centres religieux
du Latium : les Monts Albains et Lavinium . . 372

Deuxième section : Rome 381

Introduction 383

Chapitre I : Le culte des Pénates sur La Velia 387


I - La Vèlia : cadre géographique et architectural .... 388
1) Le cadre géographique 388
2) Les monuments 395
II - Le Temple des Pénates 399
1) La description de Denys d'Halicarnasse 400
TABLE DES MATIÈRES 565

2) L'identification de la partie rectangulaire de


l'église SS. Còme et Damien comme le sanctuaire des
Pénates 402
3) Le «Temple de Romulus» comme sanctuaire des
Pénates 410
4) Conclusion 418
III - Les statues des Pénates 419
1) Le témoignage de Denys d'Halicarnasse 419
2) Le sacrifice d'Enée sur l'Ara Pacis 424
3) Les monnaies de Maxence 426
4) Les attributs des Pénates «troyens» et leur
signification , 428
IV - Dioscures et Pénates 430
1) La confusion des Pénates et des Dioscures 430
2) Les limites de cette confusion 437
V - Histoire du culte de la Vèlia 439
1) L'histoire du temple 440
2) La Vèlia dans l'histoire des origines de Rome ... 441
3) Tullus Hostilius, les Pénates et la Vèlia 445

Chapitre II : Les Pénates et l'Aedes Vestae sur le forum 453

I - Les traditions relatives à la présence de sacra dans


YAedes Vestae 454
1) Le Penus Vestae et les sacra 454
2) Le phallus 458
3) Le Palladium 460
4) Les Pénates 467
II - L'histoire des sacra de YAedes Vestae 470
1) L'invasion gauloise de 390 avant J.-C 470
A - Le récit de Tite-Live 470
Β - Le récit de Plutarque 480
C - Les témoignages de Valére Maxime et Florus 484
2) L'incendie de 241 avant J.-C 487
A - Le témoignage d'Ovide 487
Β - Le récit de Denys d'Halicarnasse 490
C - Les témoignages d'Augustin et d'Orose .... 493
D - Interprétation du geste de Métellus 495
3) Incendies divers 503
566 TABLE DES MATIÈRES

III - L'Aedes Vestae, la Regia et les Pénates . 507


1) L'Aedes Vestae et la Regia 508
2) Les Pénates de Numa 516

Conclusion 521

Bibliographie 531

Index nominvm et rervm notabilivm 547

Index locorvm antiqvorvm 555

Planches I et II

Table des matières 561

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