2012 Rizzoli
2
Capitolo 1
Fuochi da campo.
Quando il GPS gli confermò che si trovava esattamente sopra la zona di
lancio, si voltò un istante a scrutare il cielo stellato, nel vano tentativo di
individuare la sagoma dell’aereo da cui si era lanciato.
Erano soli. Questa era la sua unica certezza.
Non sapeva molto del Paese sul quale stavano piombando a duecento
chilometri orari, e ancora meno dell’uomo che costituiva il loro bersaglio. Caleb
Bahame era un terrorista, un brutale assassino, ed era difficile determinare se le
notizie trapelate sul suo conto corrispondessero al vero o fossero frutto di un
bizzarro mosaico di leggende tramandate da una popolazione terrorizzata. Alcuni
atti di crudeltà, tuttavia, erano attestati da numerose prove fotografiche.
Una volta aveva ordinato ai suoi uomini di arroventare i machete prima di
mozzare le gambe e le braccia dei bambini. Cruente istantanee documentavano
l’agonia delle piccole vittime, lasciate morire lentamente per quelle ferite
rozzamente cauterizzate.
A causa dell’esistenza di uomini come quelli, Rivera si chiedeva se Dio fosse
davvero perfetto, o se invece anche lui commettesse degli errori. In tal caso,
probabilmente la responsabilità di quella missione era in parte sua.
3
Controllò di nuovo l’altimetro e voltandosi vide la distesa delle chiome
alberate, illuminata dalle stelle, farsi sempre più vicina. Dopo qualche secondo,
quando le cifre fosforescenti diventarono rosse, aprì il paracadute, scendendo in
una rapida spirale verso una radura ancora non visibile a occhio nudo, ma la cui
esistenza gli era stata assicurata dagli esperti dell’intelligence.
Era a una trentina di metri dal suolo quando identificò la zona di atterraggio.
Vi si diresse, iniziando una brusca discesa che concluse rotolando su un fianco,
come da manuale. Raccolse il paracadute e corse al riparo degli alberi,
recuperando dallo zaino gli occhiali per la visione notturna e il fucile.
Gli fece uno strano effetto poter nuovamente stringere tra le mani il suo
fidato AK-47, mentre, a intervalli di trenta secondi, gli altri membri della sua
squadra toccavano il suolo. Quando ne furono trascorsi quattro, attivò il
laringofono.
«Spegnete il volume. State tutti bene?»
Era impossibile prevedere l’esito di quel tipo di lanci, e si sentì sollevato nel
verificare che tutti i suoi uomini erano giunti a terra sani e salvi.
Rivera si addentrò silenzioso nella giungla, dove il rombo del vento aveva
lasciato il posto al ronzio degli insetti e agli stridii degli uccelli tropicali. Avevano
scelto quella zona perché la natura selvaggia scoraggiava insediamenti umani. Ne
era certo, presto avrebbe maledetto quella decisione, ma in quel momento non
essere inseguiti da qualcuno con un machete arroventato gli sembrava già un
buon punto di partenza.
Procedevano verso nord, disposti in una fila ordinata. Rivera era dietro un
uomo basso e muscoloso, con le braccia dipinte di verde che spuntavano da una
felpa nera con le maniche tagliate. Puntava rapido a destra e a sinistra la canna
della sua mitragliatrice di fabbricazione israeliana, avanzando su un terreno che
avrebbe fatto incespicare di continuo un uomo normale. Ma quello non era un
uomo normale. Nessuno di loro lo era.
4
La formazione ordinata degli uomini tornò a mimetizzarsi nella vegetazione,
disponendosi intorno a una piccola area aperta creatasi di recente a causa della
caduta di un fulmine. Rivera sbirciò tra il fogliame gli alberi anneriti dal fuoco,
individuando infine un alto ugandese, in piedi su un cumulo di cenere. Era
immobile; solo la testa oscillava avanti e indietro a ogni minimo rumore, come se
fosse la terra stessa a muoverla attraverso le scariche di energia elettrica
immagazzinate.
5
Rivera annuì e si voltò per rientrare nel folto degli alberi, ma l’uomo lo afferrò
per una spalla. «Scappa» lo esortò. «Di’ ai tuoi superiori che non sei riuscito a
trovarlo.» «E perché dovrei?» «Bahame è a capo di un esercito di demoni. Non
hanno paura di niente. Non è possibile ucciderli. Qualcuno dice che sanno
addirittura volare.» Rivera si liberò dalla presa dell’uomo e si addentrò nella
giungla.
L’esercito del diavolo in persona.
6
Capitolo 2
7
«Queste sono riprese effettuate dai vostri soldati?» domandò Sembutu
indicando cinque monitor che trasmettevano immagini in diretta. Ognuno di essi
emanava una luce verdastra, mentre istantanee sfocate della giungla scorrevano
lente sugli schermi.
8
Capitolo 3
Uganda settentrionale
Fece per spostarsi, ma si bloccò quando una voce gracchiò nel suo auricolare.
«Tieni d’occhio il cielo.» Rivera si appiattì contro il tronco massiccio di un albero
e guardò in alto, appoggiando una mano sul laringofono. «Perché?»
Non l’avrebbe mai ammesso davanti ai suoi uomini, ma Rivera ne era rimasto
molto turbato e gli pareva ancora di sentirla: un chiacchiericcio sommesso e il
crepitio del fuoco che si trasformavano all’improvviso in urla di panico e raffiche
di mitragliatrice, mescolate alle grida disumane degli assalitori. E poi gli scontri
corpo a corpo, i grugniti dei combattimenti a mani nude. Un sanguinoso
gorgoglio di morte.
9
suoi uomini dopo essersi scolato parecchie birre. No, erano militari preparati,
addestrati a operare sul proprio territorio.
Rivera sollevò un pugno e si chinò, puntando il suo AK-47 verso gli alberi, in
direzione di un riflesso ramato nel mare di vegetazione color smeraldo. Dietro di
sé i suoi uomini non avevano prodotto alcun suono, ma sapeva che si stavano
disponendo a ventaglio in formazione di difesa.
Il rivestimento di paglia intrecciata della capanna di fronte a lui era una delle
poche cose che si erano salvate dalle fiamme. Nemmeno gli abitanti avevano
avuto scampo. Era difficile stabilire con precisione quanti fossero i corpi
carbonizzati ammucchiati accanto a quella che un tempo era stata la porta di un
improvvisato campo da calcio, ma dovevano essere almeno quaranta. Allora
l’informazione era giusta: si trovavano nel territorio di Bahame.
Alle sue spalle udì un gemito soffocato e un tonfo, come di un corpo caduto al
suolo. Imprecando fra i denti, si voltò, il dito sul grilletto.
«Mi dispiace, capo, non ho potuto farci niente. È venuta dritta verso di me.»
La donna se ne stava rannicchiata contro un albero in preda al panico, le braccia
strette intorno alle ginocchia. Gli occhi saettavano da una parte all’altra, mentre
gli uomini uscivano allo scoperto e la circondavano.
«Chi può essere?» chiese uno di loro, in tono calmo.
«Qui c’è un villaggio» osservò Rivera. «O per meglio dire, c’era. Poi è arrivato
Bahame. Dev’essere riuscita a sfuggirgli. Forse è rimasta qui da sola negli ultimi
giorni.»
Aveva una ferita infetta al braccio e una caviglia fratturata, ruotata in modo
grottesco e innaturale verso destra, con le ossa che tendevano la pelle. Rivera
tentò di calcolare quanti anni avesse, ma le sue caratteristiche fisiche erano a dir
poco contraddittorie: la pelle aveva il colore e la consistenza di un vecchio
copertone, le braccia erano forti e muscolose, i denti bianchi e regolari. Era
impossibile capire qualcosa di lei.
10
labbra. «Capisci l’inglese?» le ripeté.
Quando tolse la mano, lei riprese a parlare a voce più bassa, ma sempre nel
dialetto locale.
«Cosa ne pensi, capo?» Rivera fece un passo indietro, mentre un rivolo di
sudore gli correva sulla guancia. Non sapeva cosa pensare. Avrebbe voluto
informare il suo comando, ma conosceva già la risposta dell’ammiraglio Kaye: lui
non si trovava sul campo, dunque non era in grado di valutare la situazione e
pertanto non c’era motivo di chiamarlo.
Rivera rimase immobile per un tempo che parve eccessivo agli occhi della sua
squadra. L’indecisione non era una qualità molto apprezzata nel suo mestiere.
11
Capitolo 4
Namibia meridionale
La dottoressa Sarie van Keuren allungò una mano, e una smorfia di dolore le
si dipinse in volto quando le sue dita si chiusero su un ramo spinoso. Non
pioveva da settimane e inerpicarsi sul terrapieno era faticoso perché i piedi non
facevano presa sul terriccio arido.
All’inizio aveva lottato per liberarsi, opponendosi con tutta la forza delle sue
sei zampette alla morsa del parassita. Ora però i suoi arti sembravano paralizzati,
forse perché l’altra creatura le stava divorando i nervi dall’interno.
La dottoressa gettò un’occhiata alla volta sconfinata del cielo azzurro, alla
ricerca degli uccelli, vero obiettivo del parassita. Questo particolare nematode
poteva riprodursi solo nei visceri dei volatili e aveva bisogno di un organismo
ospite per potersi spostare. Un connubio perfetto. A meno, naturalmente, di
essere una formica.
La van Keuren si sedette, abbracciandosi le ginocchia nel tentativo di ripararsi
il più possibile all’ombra dell’ampio cappello. In basso, il paesaggio brullo e arido
si estendeva all’infinito, in ogni direzione.
L’unica traccia del mondo moderno era il suo Land Cruiser, rimasto in panne
12
ai piedi del terrapieno.
Cercò di calcolare quante specie avesse scoperto nel corso degli anni, ma
subito tornò con la mente alla prima. Quella settimana sarebbero stati
venticinque anni da quando suo padre era tornato a casa con un videoregistratore
un po’ malconcio e uno scatolone di videocassette, un lusso per la comunità
rurale namibiana in cui era cresciuta. Aveva appena otto anni, all’epoca, ed era
rimasta affascinata dai cartoni animati; li guardava per ore, analizzando ogni
dettaglio, imparando a memoria tutte le battute. Dopo un po’, tuttavia, aveva
cominciato a considerarli noiosi ed era tornata a frugare nello scatolone, dove
aveva trovato una vecchia copia di Alien seminascosta sul fondo.
Secondo suo padre le avrebbe fatto venire gli incubi, ma lei l’aveva guardato lo
stesso, ammaliata dall’orrenda creatura che si attaccava alla faccia delle persone e
si riproduceva all’interno dei loro corpi.
Era stato un film horror rinvenuto in fondo a una scatola ad accendere in lei
la scintilla di un’ossessione che avrebbe condizionato il resto della sua vita. Chi
l’avrebbe mai immaginato?
Grazie al cielo non aveva trovato una videocassetta di Rocky. Forse in quel
momento sarebbe stata su un ring, a farsi massacrare di pugni.
13
Sarie si appoggiò con la schiena al Land Cruiser e si lasciò scivolare contro la
lamiera rovente, sistemandosi contro la gomma di scorta, un poco meno calda. La
tanica d’acqua era sufficiente solo per un altro giorno, però a qualche chilometro
di distanza sapeva esserci una fonte. Quanto a scorte di cibo, era messa un po’
meglio, ma non le importava granché: in caso di necessità avrebbe trovato di che
sfamarsi sul territorio. Il vero problema era il gin. Ormai ne rimaneva solo un
fondo di bottiglia, e questo davvero non riusciva a sopportarlo.
Era a metà del terzo drink quando in lontananza cominciò a delinearsi una
sagoma indistinta, distorta dall’effetto del calore.
All’inizio pensò fosse un miraggio prodotto dall’alcol, ma presto capì che era
una persona in carne e ossa. Sarie entrò nel fuoristrada dal portellone posteriore
aperto e prese il fucile, osservando attraverso il mirino la figura in
avvicinamento.
Era un ragazzo di circa sedici anni, con la pelle del colore dell’ossidiana, frutto
di una vita trascorsa all’aria aperta. Non aveva scarpe, era vestito solo di un paio
di pantaloncini color kaki e portava una bisaccia di tela a tracolla sulle spalle
nude.
Sarie si versò quanto rimaneva del gin per festeggiare, sorseggiando felice il
liquore tiepido mentre guardava il ragazzo avvicinarsi.
«Salve!» esordì, quando lui poté sentirla. «Se in quella sacca hai un
alternatore, fratello, sei il mio eroe.» Si fermò di fronte a lei, con un’espressione
confusa sul volto. Sarie allora gli si rivolse in afrikaans, ancora senza successo,
poi finalmente riuscì a farsi capire parlando ndonga, idioma che aveva imparato
dai braccianti della fattoria della sua famiglia.
«Sì» rispose il ragazzo, annuendo con aria stanca. «Gli uomini della macchina
l’hanno dato a mio padre a Windhoek e lui mi ha detto di portarlo qui.» Gli offrì
una Coca-Cola e del cibo presi dal frigo ormai a temperatura ambiente, quindi si
mise alla ricerca degli attrezzi. «Riposati all’ombra. Se siamo fortunati, ci
14
muoveremo prima del buio.»
15
Capitolo 5
Uganda settentrionale
Gettò un’occhiata alle sue spalle: l’uomo più vicino a lui era immobile e
appiattito al suolo, mentre il resto della squadra era del tutto invisibile, anche al
suo sguardo allenato.
«Ci stiamo avvicinando» annunciò Rivera nel laringofono. «Ci sono
problemi?»
Negativo.
Stavano avanzando senza sosta da quindici ore e il tenente ringraziò Dio per
l’estenuante addestramento a cui si erano sottoposti in Florida. La sua filosofia di
ufficiale di comando era: «Segui un addestramento lungo il doppio e con il
doppio delle difficoltà rispetto a quante dovrai affrontarne sul campo». Erano le
operazioni come questa a dare un senso a tutta la fatica e la sofferenza.
16
Erano domande senza risposta. Non avevano informazioni sufficienti,
potevano soltanto entrare in azione e sperare di farsi venire in mente qualcosa.
Rivera restò immobile. Non potevano uscire allo scoperto, se prima la ragazza
non si allontanava. Ma invece di proseguire sul sentiero, la giovane si gettò nella
vegetazione a pochi metri da lui e cominciò a guardare tra i cespugli, in preda al
panico, come se stesse cercando qualcosa.
Pochi secondi dopo, oltre una curva a qualche centinaio di metri a sud, si
materializzò ciò da cui stava scappando.
Sembrava l’intera popolazione di uno dei piccoli villaggi locali.
Correvano tutti, stravolti, a stento capaci di reggersi in piedi. Sangue misto a
sudore copriva i loro volti e scendeva a rivoli sul corpo e sugli abiti. Davanti
c’erano uomini e donne adulti, i bambini e gli anziani leggermente indietro, più
lenti ma di certo non meno motivati.
17
Il tenente toccò il laringofono con la mano libera. «Trentacinque, forse
quaranta in tutto. Non sono armati. Cerchiamo di allontanarci da qui.»
Iniziò a strisciare per uscire da sotto il cespuglio, ma si bloccò quando vide la
mucca fuggire verso la foresta. Almeno cinque persone si staccarono dal gruppo,
si avventarono sull’animale terrorizzato e lo colpirono su un fianco,
abbattendolo. Rivera notò appena la ragazza agitarsi sotto di lui e tirarlo per la
manica, incitandolo a scappare.
Nessuno lo inseguiva più. Uomini, donne e bambini, erano stati tutti distratti
dai colpi esplosi dai suoi uomini asserragliati e ora correvano allo sbando
incontro al fuoco. Sembravano non rendersi conto di quanto accadeva intorno a
loro, superavano i caduti, talora calpestandoli, lo sguardo fisso sui soldati che li
tenevano sotto tiro. A volte chi veniva colpito non pareva nemmeno
accorgersene.
Cercavano di rialzarsi, per poi soccombere accasciandosi come sacchi di patate
a causa delle ferite.
18
Il tenente cercò di spostarsi per vedere meglio, ma era impossibile: percepiva
a tratti soltanto un’accozzaglia di corpi, il luccichio di una lama, il rosso del
sangue. Non poteva fare niente. Il compagno con cui aveva condiviso oltre cinque
anni di combattimenti e addestramenti non sarebbe uscito vivo da quella foresta.
«Ritirata!» ordinò nel laringofono.
La squadra uscì allo scoperto, mentre lui faceva del suo meglio per rallentare
gli inseguitori.
Donny Praman correva alla ricerca di una copertura, mentre una donna
corpulenta con un abito tradizionale ridotto a brandelli e sporco di sangue lo
rincorreva. Rivera sulle prime non si preoccupò, ma poi fu costretto a chiudere e
riaprire le palpebre, faticando a credere ai suoi occhi. La donna stava
raggiungendo il soldato.
19
20
Capitolo 6
«Ne ho già parlato con loro, JB, ma i tuoi soldi qui non valgono, è questo il
problema. Diavolo, quest’anno non vedo proprio l’ora di firmare un assegno per il
fisco.»
Smith si accigliò. La situazione gli stava sfuggendo di mano. Il proprietario del
vecchio motel in cui alloggiava gli portava ogni sera in camera pasti cucinati in
casa e il giorno prima, quando aveva platealmente ignorato lo stop davanti alla
stazione di polizia, lo sceriffo si era limitato a rivolgergli un sorriso e un pollice
alto.
21
«È pericoloso guidare, per chi non è abituato» continuò lei. «Potrei darle un
passaggio in hotel, stasera…» Smith posò le cartelle sul bancone che li separava e
cercò sul viso dell’infermiera il minimo indizio di una ruga, senza successo.
Calcolò mentalmente la sua età, doveva avere all’incirca venticinque anni:
diciannove meno di lui.
«Ah, e poi, Jon, mio fratello gestisce il miglior ristorante della città.
Magari potremmo fermarci a mangiare un boccone.»
Forse a lei non sembrava così vecchio. Certo, aveva le spalle larghe e gli
addominali scolpiti, ma Stacy non poteva avere la minima idea di quanti sforzi
dovesse fare per mantenersi in forma. I capelli erano ancora folti e neri e
incorniciavano un volto dalla carnagione scura.
A guardarlo nessuno avrebbe sospettato a quali condizioni estreme era stato
sottoposto.
D’istinto Smith avrebbe rifiutato: lo stile di vita che aveva scelto non lasciava
spazio a coinvolgimenti personali. D’altro canto, cenare con una donna simpatica
e carina era senz’altro preferibile a un’altra serata trascorsa a guardare
l’ennesima replica sull’unico canale della TV dell’albergo.
22
Aveva intrapreso una campagna per convincere le altre famiglie a evitare o
posticipare le vaccinazioni dei figli. E ci era riuscita.
«Mia madre» mentì con disinvoltura Smith, come aveva imparato quando era
nell’intelligence militare. «E non si può ignorare la mamma, lo sai, vero?»
23
Capitolo 7
Uganda settentrionale
Il tenente Craig Rivera lasciò cadere il fucile scarico ed estrasse una pistola
dalla fondina sul fianco, cercando di restare concentrato e di non perdere terreno.
Alcuni sassi nascosti sotto il tappeto di rampicanti lo fecero quasi cadere e,
mentre ritrovava l’equilibrio, azzardò una rapida occhiata alle sue spalle. C’erano
ancora quattro inseguitori, sempre più vicini. La giovane accanto a lui gli teneva
dietro spinta unicamente dal terrore, ma stava cominciando a rallentare, ormai
vinta dalla stanchezza.
Sparò una raffica in pieno petto a un uomo con una maglietta del Manchester
United insanguinata e prese in braccio la ragazza esausta, cercando di spremere
ancora un po’ di energia dalle sue gambe doloranti.
Non riusciva a capire come facesse quella gente alle sue calcagna a correre più
veloce di quanto facesse lui al top della condizione. Con il peso della giovane, poi,
sarebbe stato raggiunto in una manciata di secondi. Rivera si diresse verso una
fila di cespugli dalle foglie grandi come orecchie d’elefante, nella speranza di
confondere gli inseguitori.
Restò senza fiato per il fortissimo impatto. Considerata l’altezza del salto,
aveva creduto di morire all’istante. L’acqua torbida vorticava attorno a lui mentre
lottava per non lasciar andare la ragazza, cercando di capire dov’era il fondo e
dove la superficie.
24
Aveva i polmoni in fiamme, ma ignorò il dolore il più a lungo possibile, e
attese di essere sul punto di perdere conoscenza prima di emergere. Riusciva a
vedere solo uno degli inseguitori; si dibatteva disperatamente, provando a tenere
a galla la testa. Gli altri sembravano essere stati inghiottiti dalle acque agitate del
fiume.
Rivera guardò in alto, verso lo strapiombo di una ventina di metri dal quale
era precipitato, mettendo a fuoco le persone affacciate sul ciglio. Non gli
staccavano gli occhi di dosso, ma parevano incerte sul da farsi.
Si girò per contrastare la corrente che lo stava trascinando, bilanciandosi per
trattenere la ragazza tra le braccia. Quando la testa di lei gli sfiorò il petto,
tuttavia, notò l’angolazione innaturale del collo, e a malincuore lasciò andare il
corpo.
Sopra di lui, gli africani stavano cercando il modo di scendere dal dirupo e
raggiungerlo. Tentò di nuotare verso la riva opposta, ma la corrente era troppo
forte e lo riportava continuamente, insieme agli altri detriti, al centro del fiume.
25
ultime coordinate note alla squadra di estrazione?»
Kaye si voltò e Sembutu incrociò il suo sguardo, sforzandosi di non far
trapelare la sua collera. In genere, quando qualcuno a cui lui aveva assegnato un
compito falliva, finiva per avere una vita molto breve e decisamente sgradevole.
Ma finché erano coinvolti gli americani non poteva fare ricorso a quel genere di
rimedi.
In apparenza, il suo gli era sembrato un piano perfetto: lasciare agli stranieri
il compito di eliminare un uomo disprezzato da tutto il mondo, e attribuirsene il
merito. Con una sola mossa avrebbe neutralizzato una minaccia al proprio potere
e sarebbe diventato un eroe agli occhi della popolazione rurale vessata da
Bahame.
26
Capitolo 8
Washington, USA
«Ha qualche domanda, signore?» Lawrence Drake, direttore della CIA, sedeva
di fronte a lui su una poltrona dallo schienale alto, regalatagli dai francesi. Non
avrebbero esitato a dichiarare guerra agli americani se avessero visto il tessuto
tradizionale dei nativi con cui era stata rifoderata.
«Riguardo alla Corea del Nord?» «Sì, signore.»
27
Circolano voci di un’imminente epurazione di funzionari governativi ritenuti
troppo liberali. È accaduto migliaia di volte, nel corso della storia. Quando la
paranoia raggiunge questi livelli, la crisi non può essere molto lontana.»
«Tempi previsti?» «Difficile fare una stima. Le variabili sono molteplici e noi
non abbiamo il polso reale della situazione, in quel Paese. Detto questo, non sarei
sorpreso se succedesse qualcosa entro i prossimi diciotto mesi.» Castilla trasse
un lento e profondo respiro. «Non posso dire che mi dispiacerebbe vederli
crollare.» Drake strinse le labbra.
«Cosa c’è?»
«Signore?» «Conosco quell’espressione, Larry. Cosa c’è?» «Il nemico del
nostro nemico non necessariamente è nostro amico.» «Farrokh.»
Drake non si preoccupò di nascondere il disgusto nel sentir pronunciare il
nome del capo della resistenza iraniana. «Le nostre sanzioni hanno avuto una
certa efficacia, ma ancora più importante è il fatto che il governo non abbia il
sostegno dei giovani e degli intellettuali. E, diciamolo, costruire una bomba
atomica senza il supporto di queste due categorie può comportare un cospicuo
dispendio di tempo.» «Mentre Farrokh ha il sostegno di entrambe.» «Sì, signore.
Ancora non sappiamo molto su di lui, solo che è un mago della tecnologia,
soprattutto nel campo della telefonia cellulare e di Internet. Il modo in cui
utilizza la musica degli artisti alternativi mediorientali e i filmati storici per
raccogliere consensi farebbe impallidire la maggior parte dei consulenti delle
campagne elettorali occidentali. Quello su cui dobbiamo concentrarci, però, è il
fatto che veicola un messaggio non certamente filoccidentale. Lui aspira al
cambiamento, ma in fondo è un nazionalista.»
«Andiamo, Larry. Non penserai che instaurare una democrazia progressista
laggiù possa peggiorare la situazione attuale.» Drake fece una pausa prima di
rispondere, e Castilla attese. Fin dal primo giorno in cui aveva messo piede nello
Studio Ovale, era stato chiarissimo su un punto: in quell’ufficio ognuno era
libero, anzi in obbligo, di esprimere il proprio pensiero in tutta sincerità. Il modo
più sicuro per essere licenziati dal suo staff era far circolare informazioni
distorte, al solo scopo di renderle gradite all’opinione pubblica.
28
progressisti. C’è il pericolo concreto, se uno come lui andasse al potere, di
assistere a un’unificazione del Medio Oriente in qualcosa di simile al blocco
sovietico. Ma con un’arma molto più appropriata ed efficace…»
«Il petrolio.» «Proprio così, signore.» Castilla si appoggiò allo schienale del
divano in pelle e rifletté.
Farrokh era un fantasma. Molti agenti dei servizi segreti non credevano
neppure che esistesse davvero, ipotizzando fosse solo una sorta di avatar dei capi
della resistenza iraniana. Da politico esperto, tuttavia, Castilla si era fatto un’altra
idea. I gruppi compositi non erano in grado di prendere le redini del potere: solo i
singoli individui potevano riuscirci. E chiunque fosse questo Farrokh, non
c’erano dubbi che volesse con tutte le sue forze mettere le mani su quelle redini.
Castilla puntò i piedi sul pavimento e si protese in avanti, fissando negli occhi
29
il direttore della CIA. «Si sa cos’è accaduto?» «La dinamica sembrerebbe la stessa
dell’incidente occorso alla squadra dell’Unione Africana inviata per stanare
Bahame. Riteniamo che tutti i nostri soldati siano stati fatti fuori, a eccezione del
caposquadra. Lui potrebbe essere ancora vivo. Abbiamo alcuni uomini sul posto
ad attenderlo, ma a mio parere è solo una perdita di tempo…»
«Una perdita di tempo!» esclamò Castilla, quasi urlando. «Nessuno ha visto
morire quell’uomo e noi non abbiamo alcuna intenzione di abbandonarlo.»
«Non stavo dicendo che dovremmo farlo, signore.» Il presidente tenne lo
sguardo fisso sul tappeto per un momento. Si era messo contro tutti inviando la
squadra in quella missione. Per quanto trovasse ripugnante un’alleanza con
Charles Sembutu, le atrocità commesse da Caleb Bahame erano ormai diventate
intollerabili e non potevano più essere ignorate.
«Perdonami, Larry» mormorò Castilla quando rialzò gli occhi. «So che non
intendevi dire questo. E so anche che eri contrario all’operazione sin dall’inizio.»
«Sì, signore. L’ho esaminato stamattina.» «Hai mai visto una cosa del genere?
Cosa diavolo sta succedendo, laggiù? I tuoi sono riusciti a trovare una
spiegazione?» Drake rifletté a lungo prima di rispondere. Riguardo all’Uganda si
era premurato di fornire alla Casa Bianca solo quelle informazioni che non
potessero in alcun modo lasciar intendere che la CIA stava nascondendo
qualcosa, ma nemmeno così aveva potuto evitare di finire in quell’impresa
insensata ed estremamente inopportuna. Si chiese se Castilla sapesse più di
quanto veniva comunicato nei briefing dell’Agenzia. Aveva forse altre fonti?
30
«No, signore, non credo. Bahame deve aver ricevuto una soffiata e ha inviato i
suoi soldati a intercettare i nostri.» «Soldati? Quelli non erano soldati, Larry.»
«Se mi permette, non sono d’accordo. Quella era una delle tipiche milizie messe
assieme da Bahame dopo le sue razzie nei villaggi: dà la possibilità alle persone di
scegliere se morire o combattere per lui.
Non è una novità, nel contesto africano.»
Castilla era visibilmente scosso, come sarebbe stato chiunque alla vista di
quelle terribili immagini, e Drake decise di approfittare della momentanea
debolezza del presidente.
«Signore, Bahame è un pessimo soggetto. Mi dispiace per gli ugandesi, ma
questo è un problema loro. Cosa possiamo fare noi?
Inviare un battaglione? Né l’Unione Africana, né Sembutu accetteranno mai, e
anche se riuscissimo a convincerli, dove recluteremmo i soldati? Ci abbiamo già
provato, signore, e non abbiamo ottenuto alcun risultato.»
«Quindi tu non ci trovi nulla di insolito in quel video?» «Mi perdoni, signore,
ma… no, non mi pare. I nostri uomini si sono trovati in condizione di inferiorità
numerica, all’incirca otto contro uno. Hanno dovuto affrontare indigeni invasati
che hanno subito il lavaggio del cervello e si sono convinti della natura
semidivina di Bahame. Di solito, la sopravvivenza di una piccola squadra in
questo tipo di situazioni tattiche dipende, almeno fino a un certo punto, dalla
capacità di ingenerare timore negli avversari: se spari e uccidi delle persone, gli
altri decidono di ritirarsi. Questa volta non ha funzionato.» «Cosa suggerisci di
fare?» «Di seppellire i morti e andarcene.» Castilla annuì con aria assorta, ma
non disse nulla.
«Abbiamo finito, signore?» «Sì… abbiamo finito. Grazie, Larry.»
Rimasto solo, il presidente Castilla si avvicinò alle finestre dietro la scrivania
e osservò le nuvole ammassate sopra la città. Non si voltò quando la porta dello
studio si aprì. «Hai sentito?» «Sì.» «Cosa ne pensi?» «Ti ho fatto avere quel
video perché sapevo che volevi vederlo, Sam.
Ma in questo caso devo dare ragione a Larry.»
Castilla si girò a guardare Fred Klein mentre si sedeva su una poltroncina.
Appariva invecchiato rispetto a qualche anno prima: ormai era stempiato e il
completo scuro sembrava di due taglie più grande, tanto era dimagrito. Essere
l’amico più fidato del presidente non era un lavoro facile.
31
«Non posso.» «Qualcosa non va» osservò Castilla, accomodandosi sul divano
di fronte a lui. «Ti chiedo di servirti delle tue risorse e di studiare la questione per
me. Ho bisogno di sapere cos’è successo laggiù, Fred.
Devo poter dormire, la notte.» Sulle labbra di Klein balenò un fugace sorriso,
mentre continuava a pulire le lenti.
Castilla strinse gli occhi. «Detesto essere prevedibile.»
32
Capitolo 9
Sarie van Keuren sterzò, imboccando con il Land Cruiser una strada rurale
deserta, e socchiuse gli occhi, abbagliata dal sole. Avrebbe dovuto fermarsi a
Springbok per la notte, ma aveva deciso di proseguire. Dopo ventuno ore di
viaggio, tredici tazze di caffè e una quantità imbarazzante di salsicce caserecce, si
trovava ora a meno di un chilometro da casa.
Nessuno dei suoi amici capiva perché si ostinasse a vivere da sola nel
cosiddetto «hinterland», e a volte non sapeva spiegarselo neppure lei.
Più o meno ogni sei mesi cominciava a pensare di trasferirsi a Città del Capo e
lasciarsi alle spalle i quarantacinque minuti di macchina fino all’università dove
lavorava, ma quando poi arrivava il momento di alzare il telefono per chiamare
un’agenzia immobiliare le mancava il coraggio.
Due delle ragioni principali della sua riluttanza le corsero incontro nell’istante
in cui spense il motore. Si avventarono contro la portiera, aggiungendo altri graffi
a quelli già presenti, nel tentativo di infilare il muso nel finestrino aperto. Sarie si
tirò indietro, ma non riuscì a schivare una leccata umida sull’orecchio. «Halla!
Ingwe! Giù!»
I cani ignorarono il comando, continuando ad abbaiare mentre lei appoggiava
un piede alla portiera per cercare di aprirla, opponendosi al peso dei due
Rhodesian Ridgeback.
Una rastrelliera, con le formiche ancora attaccate agli steli d’erba nelle
33
provette, era posata sul sedile del passeggero, e dovette tenerla alta sopra la testa
per raggiungere la porta d’ingresso.
Appoggiò i campioni accanto alla pila della posta lasciata dalla governante su
un buffet antico e si inginocchiò per accarezzare i cani sulla testa, cercando di
non farsi sbavare addosso.
Sarie van Keuren non era nulla del genere. Anche da quella distanza poteva
vedere le sue braccia tornite e muscolose e la grazia atletica dei suoi movimenti. I
capelli, come il Land Cruiser, erano impolverati, ma una volta lavati sarebbero
tornati di un biondo schiarito dal sole, lucido ed esotico.
Lei avrebbe lottato. Gli pareva quasi di sentirla sotto di lui, mentre cercava di
divincolarsi dalla sua stretta, fino a quando non avrebbe finalmente capito di non
poter fare niente e si sarebbe arresa. Forse, quando non fosse più stata utile,
gliel’avrebbero concessa come ricompensa per la sua lealtà.
Kaikara tornò al riparo del canale e prese dalla tasca il cellulare per fare una
chiamata.
«Sì.» «È qui.» «E la strada?» «Non c’è traffico e nessun’altra casa nel raggio
di oltre un chilometro. Sarà un gioco da ragazzi.»
«Nessuno sta giocando, qui!» La collera improvvisa nella voce del suo
interlocutore gli provocò una scarica di adrenalina. «È solo una donna. Non ti ho
mai deluso finora, e non inizierò adesso.» «Attendi il buio, quando si sarà
addormentata.» La voce era di nuovo calma e Kaikara si abbandonò a un sospiro
34
grato e silenzioso. «Okay.» «Il codice del cancello è quattro-tre-nove-sei. Hai
preso nota?» Estrasse una pistola e tracciò i numeri nella polvere con la canna,
proprio come gli aveva insegnato la suora belga.
«Sì. Sono pronto.»
35
Capitolo 10
Covert-One era vittima in parte del suo stesso successo e in parte degli
insuccessi delle agenzie di intelligence di stampo tradizionale.
Gli sforzi della Sicurezza interna per rendere più efficiente la comunicazione
fra strutture cruciali del governo avevano avuto invece l’effetto contrario: una
corazzata di burocrazia, paralizzata dai conflitti di competenza, dalla politica e da
gente che pensava solo ai propri interessi.
36
«Nessun problema. Ormai sono tutti fuori pericolo, e un mio amico al CDC li
terrà d’occhio al posto mio. Cos’è successo?» Klein sembrava titubante mentre si
sedeva, tirava fuori una pipa dal cassetto e l’accendeva. Un ventilatore a soffitto si
accese automaticamente, attirando il fumo verso l’alto.
«A essere sinceri, non sono neppure certo che dovremmo occuparcene, Jon.
Come ben sai, ho sempre cercato di non chiamare in causa Covert-One.» Smith
annuì. La segretezza che circondava l’organizzazione era allo stesso tempo
opprimente e necessaria. Ogni volta che Klein sguinzagliava i suoi uomini
rischiava di essere scoperto, e ciò sarebbe stato disastroso non solo per
l’amministrazione, ma per l’intero Paese.
«Il presidente non intende tenerci fuori da tutto questo, suppongo.»
«È molto coinvolto in questa faccenda. Non riuscirò a fargli cambiare idea, lo
so, lo conosco troppo bene. Forse tutto questo si trasformerà presto, e senza
clamore, in un’impresa disperata.» Fece una breve pausa. «Hai mai sentito
nominare Caleb Bahame?»
«È un capo guerrigliero affetto da delirio di onnipotenza» rispose Smith. «Ha
una milizia formata per lo più da bambini soldato, di cui si sta servendo per
creare scompiglio nell’Uganda settentrionale.» «Complimenti. Forse però non sai
che di recente abbiamo inviato sul posto una squadra speciale per stanarlo.»
«Bene» commentò Smith. «Quel tipo è un osso duro. L’hanno preso?» Klein
aspirò una profonda boccata dalla pipa e soffiò fuori un filo di fumo. «La squadra
è stata annientata nel giro di pochi minuti. Il capo, un SEAL di nome Rivera, è
riuscito a fuggire e da due giorni sta vagando nella foresta per raggiungere il
punto di estrazione.»
«Non ne sapevo niente.» «Nessun altro lo sapeva. Il presidente si è esposto
politicamente per questa operazione. La gente si sta stancando di veder morire i
nostri ragazzi in missioni che sembrano non portarci mai da nessuna parte.
E per quanto il Medio Oriente possa essere considerato una battaglia persa in
partenza, l’Africa subsahariana è messa molto peggio.» «Se non gli serve per la
popolarità, cosa ci facciamo noi, laggiù?» «Bahame sta mettendo in atto azioni
più efficaci e mirate, nell’ultimo periodo. Le sue milizie irrompono nei villaggi
quasi tutti i giorni, radendoli al suolo. L’ondata di panico crescente potrebbe
destabilizzare non solo l’Uganda, ma anche il Kenya e la Repubblica Democratica
del Congo. Stiamo parlando di un incubo umanitario di proporzioni spaventose e,
secondo il presidente, il nostro Paese ha l’obbligo morale di intervenire.»
«Potrei anche essere d’accordo» osservò Smith. «Ma cosa c’entra Covert-
One? Sembra più una faccenda di competenza dell’ONU o dell’Unione Africana.»
37
perché potesse vedere i cinque video.
Klein annuì, con espressione solidale. «L’avrò guardato venti volte ma faccio
ancora fatica a rivedere quelle scene. All’inizio ho pensato a una suggestione di
massa. Stando ai rapporti, al confronto di Bahame Charles Manson è un
dilettante. Avevo immaginato che potesse caricare i suoi combattenti attraverso
una sorta di sacrificio rituale, per poi imbrattarli di sangue e sguinzagliarli. Ma
adesso non ne sono più tanto sicuro.»
«Perché no?» «Ho messo all’opera i nostri investigatori. Hanno intercettato
delle voci in Iran riguardo a Bahame. Parlavano di una nuova arma.» «Sono
fondate?» domandò Smith.
«No, niente di concreto. Scavando più a fondo è emersa un’altra
indiscrezione, proveniente da una fonte iraniana meno affidabile: menzionava
Bahame e la possibilità di qualche tipo di compenso o di accordo.»
«La CIA o l’NSA (National Security Agency) ne sanno qualcosa?»
«Apparentemente no. O, se ne sono al corrente, non hanno intenzione di
occuparsene.» Smith guardò alle spalle di Klein, dove si trovava un antico
mappamondo con il continente africano bene in vista. In genere nelle questioni
d’intelligence il problema non era mai la scarsità, ma la sovrabbondanza di dati.
Le risorse umane limitate obbligavano a stabilire delle priorità e di solito i capi
guerriglieri africani finivano sempre in fondo alla pila di scartoffie. In Africa certe
assurdità erano all’ordine del giorno.
«Hai mostrato il video a qualche esperto?» s’informò Smith.
«Solo a te.» «Io sono un microbiologo, Fred, non uno psicologo. Non ne so
molto di isteria collettiva.»
«Ma da quel poco che sai, questa potrebbe essere una spiegazione plausibile,
secondo te?» Smith si strinse nelle spalle. «Il rasoio di Occam… la spiegazione
più semplice di solito è quella corretta. Basta guardare alla storia per capire di
cosa sono capaci gli esseri umani. È per questo che esiste il nostro lavoro.»
«Okay, ma ti chiedo di fare qualche indagine» replicò Klein. «Nella migliore
delle ipotesi avremo una conferma della tesi della suggestione di massa e a quel
punto archivieremo il caso.» «Posso avere una copia del video?» «Chiederò a
Maggie di fartene avere una prima che tu vada in aeroporto.» «Dove, scusa?» «Il
SEAL sopravvissuto è in ospedale a Camp Lejeune. Immagino tu voglia
38
parlargli.»
39
Capitolo 11
Sarie van Keuren vedeva suo padre, con le bretelle della tuta da lavoro sulle
spalle ampie, il vecchio cappello da cowboy acquistato in America, gli occhi
chiarissimi che sembravano vedere e comprendere ogni cosa.
Sarie saltò a sedere sul letto con il cuore in gola, finché non riconobbe la sua
stanza, che pareva galleggiarle intorno nel bagliore verdastro emanato dalla
sveglia sul comodino. Sollevò una mano tremante e si asciugò il sudore dalla
fronte, sforzandosi di calmare i battiti impazziti del suo cuore.
Erano anni che non faceva quell’incubo, ma aveva sempre avuto un lieto fine.
Suo padre si voltava e scompariva lentamente, mentre lei lo chiamava e cercava
con tutte le sue forze di raggiungerlo; non ci voleva certo un genio per
interpretarlo. Ma cosa significava il nuovo finale?
Di sicuro non sarebbe riuscita a riprendere sonno. S’infilò i pantaloni di una
tuta e andò a piedi nudi in cucina, a vedere cosa ci fosse in frigorifero. Bevve un
po’ di succo d’arancia andato a male, nel vano tentativo di calmarsi.
40
Ricordò i gesti concitati di suo padre che cercava di aprire l’armadio dei fucili
e le risate crudeli degli uomini introdottisi in casa loro. Lei era stata sbattuta a
terra con violenza, incapace di gridare mentre le strappavano gli abiti di dosso.
Suo padre aveva cercato di soccorrerla, ma era stato colpito alla nuca con un
grosso bastone ed era caduto barcollando. L’avevano picchiato per quelle che le
erano sembrate ore, e quando era rimasto immobile Sarie aveva perso i sensi. Sua
madre allungava le braccia verso di lei mentre venivano stuprate più e più volte
ma, come nel sogno, la gravità le impediva di muoversi.
Alla fine quegli uomini se n’erano andati, dopo aver rubato tutto ciò che
potevano portare via e lasciandole là, come morte. Sarie aveva ripreso conoscenza
solo quando il sole era già alto e penetrava attraverso le finestre. Aveva cercato
con lo sguardo i suoi genitori: erano distesi a terra e la fissavano, la luce del
mattino riflessa sulle pupille immobili.
Avrebbe voluto essere morta anche lei. Essere con loro in quel paradiso di cui
le parlavano ogni domenica. Ma il suo cuore di dodicenne non si era fermato,
aveva continuato a battere.
La fattoria in Namibia era stata messa in vendita poco dopo e lei era stata
mandata a vivere da una zia a Città del Capo, dove avrebbe potuto ricevere
un’educazione adeguata e andare a scuola. Ma adesso anche quella donna gentile
e meravigliosa non c’era più.
Quando il senso di solitudine, mai così intenso, cominciò a farsi
insopportabile, Sarie si accorse del silenzio. Dov’erano i cani? Di solito, quando si
alzava di notte, correvano subito a farle le feste.
«Halla? Ingwe?» chiamò, andando alla porta sul retro per aprirla.
«Qui ci sono delle salsicce per voi. Venite a fare uno spuntino!»
41
Lo sconosciuto si avventò su di lei, ma inciampò rovinosamente sul
pavimento di vecchia quercia, imprecando, mentre Sarie si sforzava di rialzarsi.
Il divano era lontano solo pochi metri; tentò di raggiungerlo, tuffandosi in
avanti quando l’uomo riuscì ad afferrarle un piede. Non cercò di mantenersi in
equilibrio, ma si lasciò cadere a terra mettendo davanti una mano per attutire
l’impatto.
C’era una fondina avvitata al telaio del divano, e dentro una delle tante armi
nascoste in tutta la casa. Non avrebbe commesso lo stesso errore di suo padre.
Le dita sfiorarono il metallo freddo, senza riuscire però ad aprire la fibbia di
sicurezza, mentre una mano le si avvinghiava con forza alla caviglia.
Sarie si girò di scatto sulla schiena e scalciò con violenza, cercando di colpire
l’altro all’inguine. Quasi per miracolo il piede nudo centrò l’obiettivo e l’uomo la
lasciò andare, sbraitando in un dialetto tribale a lei sconosciuto.
Il cuore le martellava furiosamente nel petto mentre si dirigeva a un tavolino.
Nel cassetto avrebbe trovato una minuscola calibro .22.
Non era l’arma ideale, ma poteva comunque fare effetto, se fosse riuscita a
colpirlo in faccia.
Ancora una volta, non fu abbastanza veloce e la mano l’abbrancò alla coscia.
Un attimo dopo si ritrovò sollevata a mezz’aria. Il ventilatore a soffitto era acceso
e lo sfiorò con la spalla mentre veniva scagliata oltre il divano. Atterrò su una
poltrona, che slittò all’indietro con un rumore di legno spaccato.
L’uomo, solo un’ombra nella stanza buia, le era quasi addosso, ma scivolò
sulle vecchie tavole di legno del pavimento, lucide e consunte da oltre un secolo
di viavai.
Isolata dal resto della casa, Sarie scattò verso l’isola al centro della cucina, su
cui teneva il ceppo portacoltelli, e ne prese uno al volo.
Girò su se stessa nel momento in cui l’aggressore le fu alle spalle, vibrando il
coltello e sentendolo penetrare nella carne. Ma un secondo dopo un avambraccio
muscoloso la bloccò alla gola, facendole battere la testa sul bancone rivestito in
piastrelle di ceramica. Si divincolò e cadde a terra, lottando per non perdere i
sensi mentre lui barcollava all’indietro, lo sguardo fisso sul manico del coltello
che gli spuntava dal fianco. Lei rimase a guardare quando lui lo estrasse,
stringendo i denti per il dolore. Era solo un coltellino per le verdure. Nella
concitazione, aveva preso la lama più piccola del set.
L’intruso l’assalì, lei cercò di non perdere l’equilibrio, ma non aveva neppure
la forza di alzare una mano per proteggersi dal coltello puntato contro di sé.
42
Lui gridava, schizzandole in faccia la saliva, la scuoteva e le premeva la lama
sul collo.
La vista dei suoi cani morti sul vialetto d’ingresso la svuotò delle ultime forze
residue e non fece più resistenza quando lui la gettò sull’asfalto e la girò di
schiena. Non era quasi più in sé e percepì solo vagamente il rumore e la
sensazione del nastro adesivo avvolto attorno ai polsi.
Forse non avrebbe dovuto sopravvivere quella volta, tanti anni fa.
Forse, alla fine, il destino era tornato a prenderla.
43
Capitolo 12
Il dottor Ronald Blankenship spinse l’anta di una porta metallica e Jon Smith
lo seguì su un pianerottolo deserto dell’ospedale della Marina di Camp Lejeune.
«Allora, come mai Fort Detrick s’interessa a un SEAL convalescente?»
Non avendo ricevuto risposta, Blankenship si appoggiò al corrimano.
«Voglio dire, ho esaminato la cartella del ragazzo e, al di là dell’aspetto
malridotto, come se fosse stato centrifugato in una lavatrice assieme a delle palle
da bowling, non potrebbe stare meglio.
Neppure uno starnuto. Dunque perché mai i vostri cacciatori di virus
dovrebbero scomodarsi?»
Smith si limitò a un sorrisetto.
«Non guardarmi in quel modo, Jon. Sono qui per darti una mano, giusto?» Si
conoscevano da anni, avevano fatto insieme parte della specializzazione e
lavorato fianco a fianco nelle unità MASH, gli ospedali militari da campo, in tutto
il mondo. Smith lo aveva chiamato dall’aeroporto e gli aveva chiesto di fare in
modo che sul suo colloquio con il marine ricoverato fosse mantenuto il massimo
riserbo. Nessuno doveva saperne assolutamente nulla.
Per ironia della sorte, questa volta il problema non era il suo legame segreto
con Covert-One, bensì il suo lavoro ufficiale nell’USAMRIID, l’Istituto di ricerca
per le malattie infettive dell’Esercito degli Stati Uniti. Anche se i particolari
dell’operazione del SEAL erano classificati come top secret, era impossibile
nascondere allo staff medico che fosse stato in Africa. L’improvvisa comparsa di
un microbiologo militare, esperto di gravi epidemie e armi biologiche, poteva
destare qualche sospetto.
«Sì, mi stai dando una mano» rispose Smith. «Ma non c’è molto da dire, in
realtà. Secondo me è soltanto uno spreco di soldi pubblici.» Blankenship si
accigliò e si avviò su per le scale. «Sei di nuovo nei servizi segreti, non è così?»
«No.»
«Andiamo, Jon. Sono passato dai MASH a tre figli e una piscina che perde, per
quanto io continui a farla riparare. Sai qual è stata la cosa più eccitante che mi è
successa nell’ultimo mese? Mia moglie mi ha annunciato di avere intenzione di
lasciare il suo lavoro per fare l’artista a tempo pieno. E non intendo “eccitante”
nel senso buono del termine, capisci? Dammi almeno un piccolo indizio.
Raccontami come vive l’altra metà del mondo.» Smith scandì con calma la sua
44
risposta. «Non sto lavorando per i servizi segreti militari, te lo giuro.»
45
«Una ragazza è arrivata di corsa lungo la strada, inseguita da altre persone.
Sembrava sapere della nostra presenza. Voleva essere aiutata. Portata in salvo.»
«Quelli però non erano soldati regolari…»
«Non come li intendiamo noi, signore. Avevano l’aria di essere stati presi a
casaccio in un villaggio, in un mercato o qualcosa del genere.»
«Erano armati?»
Rivera scosse la testa, pieno di vergogna. «Forse alcuni avevano dei bastoni,
non ne sono sicuro. Molti di loro non avevano neppure i vestiti. Erano coperti di
qualcosa che sembrava sangue…» La voce gli si spezzò e il suo sguardo si fece
assente.
«E lei ha fatto fuoco contro di loro» lo incalzò Smith.
46
capire se avrebbe potuto agire in modo diverso. Ma le operazioni a cui aveva
preso parte erano coperte da un tale livello di riservatezza che, tecnicamente,
neppure lui era autorizzato a saperne di più.
47
Capitolo 13
Teneva la mano sinistra premuta sul profondo taglio sul fianco e sentiva il
sangue gocciolargli tra le dita. Non era grave, ma gli faceva male ed era sempre
più furioso.
48
certo lui non era entrato per rubare. Non aveva preso nulla, se non il Land
Cruiser, un mezzo decisamente comodo per trasportare un ostaggio.
Riusciva a toccare la pistola nascosta solo con la punta delle dita: la fondina
era posizionata in modo da poter essere raggiunta dal posto di guida, non con le
mani bloccate dietro la schiena dal nastro adesivo.
Facendo leva sulle ginocchia, strinse i denti e provò ad allungare ancora un
po’ le braccia. Aveva la sensazione che le spalle fossero sul punto di uscire dalle
articolazioni, ma ancora non era sufficiente.
49
incastrato nelle molle del sedile.
Era stato colpito. Grandioso. Però non era morto, e questo non era grandioso
affatto. Anzi. In ogni caso, doveva muoversi da lì.
Aprire la portiera con un dito risultò più semplice di quanto pensasse, uscire
da sotto il sedile lo fu molto meno. Si divincolò con forza, sentendo la brezza
fresca sulla pelle mentre avanzava, centimetro dopo centimetro, verso l’agognata
libertà.
Sul sedile di guida il dolore si era trasformato in collera cieca. Nel momento
in cui posò un piede sul terriccio, Sarie udì armeggiare sulla maniglia sopra la sua
testa, e subito dopo un grugnito di frustrazione quando l’uomo scoprì che la
portiera era bloccata.
Non gli venne in mente di passare da quella aperta e fracassò il vetro con il
gomito, mentre Sarie cercava con tutte le sue forze di tirarsi fuori dall’auto,
puntando i talloni contro il predellino.
Troppo tardi. Di nuovo quella mano che la tirava per i capelli, e un attimo
dopo le schegge acuminate del finestrino le si stavano conficcando nella schiena.
Con uno strattone riuscì a liberarsi e a spingere l’uomo verso la strada.
Il suo aguzzino cadde rovinosamente sull’asfalto, ma riuscì comunque a
rimettersi in piedi. Alla luce della luna si guardò la gamba destra: il tessuto jeans
era diventato di un nero lucido, impregnato di sangue.
Era impossibile capire se il proiettile l’avesse colpito alla coscia o nella natica,
ma in entrambi i casi sarebbe stato molto più lento rispetto a prima.
50
Anche lui era giunto alla stessa conclusione, e mise la mano alla cintura, alla
ricerca di qualcosa: Sarie decise che era meglio non aspettare per vedere cosa
fosse. Corse oltre un rosaio fiorito, sul limitare di un filare di viti, sforzandosi di
non cadere, con le mani ancora legate dietro la schiena e a piedi nudi.
Il primo proiettile attraversò il fogliame alla sua destra e lei lo schivò,
spostandosi a sinistra. Il secondo le passò abbastanza vicino da sfiorarle la testa,
ma si era già addentrata parecchio nel vigneto e la mira dell’uomo diventò più
incerta.
Infine cadde a terra in un piccolo avvallamento, respirando forte mentre
ascoltava l’uomo svuotare il caricatore nella sua direzione.
51
Capitolo 14
Smith era più vecchio di lui e forse aveva più esperienza, ma non sapeva se
avrebbe reagito in modo diverso al suo posto. Aveva visto persone morire per le
ferite mentre lui cercava con tutte le sue forze di salvarle, non aveva potuto fare
niente quando la donna che amava era stata uccisa da un virus creato da un pazzo
criminale. E aveva deliberatamente mandato uomini e donne in battaglie che già
si presagivano impossibili da vincere.
52
Non si era mai del tutto preparati ad affrontare quel genere di situazioni. Al
massimo si poteva cercare di scacciare il pensiero la sera, prima di dormire, in
modo da potersi ritagliare qualche ora di sonno senza gli onnipresenti fantasmi.
Aprì la porta della sala riunioni, tenendo le birre davanti a sé come un bottino
di guerra. «Guardi cosa ho…»
Le parole gli morirono in gola quando Rivera alzò lo sguardo dalla pistola
posata sul tavolo davanti a sé.
Smith lasciò cadere le bottiglie, e si era già avventato sul tavolo quando
andarono in frantumi. Aveva dei riflessi prontissimi in confronto alla maggior
parte degli uomini della sua età. Ma quelli di Rivera erano ancora più allenati.
Il SEAL afferrò la pistola e se la puntò sotto il mento, premendo il grilletto
nell’istante stesso in cui Smith lo raggiungeva.
Il proiettile gli sfondò il cranio e i due uomini caddero sul pavimento, fra
schizzi di sangue e di materia cerebrale.
La reazione immediata di Smith fu di controllare se c’era polso.
Ovviamente era inutile. Si lasciò scivolare con la schiena contro la parete e
cominciò a sbatterci la testa.
Aveva sbagliato tutto. Era talmente concentrato sulla missione che gli era
stata assegnata, barricato dietro i suoi preconcetti, da ignorare i segnali, ora così
evidenti.
Il sangue usciva copioso dal corpo del giovane, scorrendo sul pavimento fino a
formare una chiazza attorno a un piede di Smith. In situazioni del genere un
dettaglio si fissa nella mente con più forza degli altri, un ricordo che non ci si
riesce a staccare di dosso, nemmeno dopo molti anni. Stavolta sarebbe stato
l’odore di quella maledetta birra.
53
Capitolo 15
Quando Drake entrò, Brandon Gazenga era intento a scorrere i fogli che aveva
in grembo.
«Buongiorno, signore.» Drake annuì e si sedette, rompendo il sigillo su una
cartellina con scritto STRETTAMENTE CONFIDENZIALE ed esaminandone con
rapidità il contenuto. «È già terminata?»
«Sì, signore. La considererei una versione definitiva. Manca soltanto la sua
firma e quella di Dave.» I genitori di Gazenga erano arrivati dal Congo quando lui
aveva solo sei anni, trasformandosi ben presto nella perfetta incarnazione del
sogno americano. Il padre si era dedicato al ramo della ristorazione, iniziando
come lavapiatti fino a diventare proprietario di una catena di locali specializzati
in cucina tipica africana.
Nonostante vita e lavoro radicati nella nuova patria, i genitori di Brandon non
gli avevano mai permesso di dimenticare le sue origini.
Drake, tuttavia, non l’avrebbe mai cooptato nelle operazioni clandestine solo
sulla base di tali qualifiche. Era la personalità di Gazenga a fare la differenza.
54
«Quindi il presidente e i suoi collaboratori la troveranno soddisfacente?»
Gazenga si asciugò di sfuggita un velo di sudore all’attaccatura dei capelli.
«Penso di aver esposto le migliori argomentazioni possibili, signore.
Al di là dei video, sui raid di Bahame ci sono solo i resoconti dei sopravvissuti,
inaffidabili e ammantati di leggenda. Li ho analizzati nei primi paragrafi,
ponendo l’accento sull’alto livello di superstizione e sulle discrepanze nei
racconti dei testimoni oculari. Il resto è costituito per lo più dalle opinioni degli
psicologi e da descrizioni di fenomeni analoghi occorsi nella storia, con un
approfondimento su Pol Pot e la brutalità con cui ha sottoposto dei bambini al
lavaggio del cervello perché organizzassero il genocidio in Cambogia. Concludo
con una descrizione dei rituali africani che in qualche modo richiamano
l’accaduto, come la scarificazione e l’usanza dei guerrieri di cospargersi di sangue
di vacca prima di andare in battaglia.»
«E gli iraniani?» «Come può immaginare, non ne parlo nella relazione da
consegnare al presidente, ma ho inserito il materiale nell’ultima pagina della sua
copia, sotto forma di domande e risposte. Ho vagliato ogni singola informazione
in possesso dell’intelligence che possa collegare gli iraniani a Bahame e ho
segnalato delle possibili risposte nel caso il presidente ipotizzi il legame e le
ponga delle domande. Non è stato molto difficile. È uno dei punti deboli dei
servizi segreti.»
Drake esaminò rapidamente la parte dedicata all’Iran e lanciò il dossier sulla
scrivania. «Hai fatto come sempre un lavoro eccellente, Brandon. D’altronde
ormai me lo aspetto da te.» Gazenga sorrise, un po’ a disagio, e si asciugò di
nuovo la fronte.
«Grazie, signore.» Drake lo guardò accigliato sopra le lenti da presbite,
consapevole della necessità di mantenere il suo ruolo di sostituto del padre
perduto. «C’è qualche problema?»
Negli occhi del giovane balenò un vago timore. «No, signore. Perché dovrebbe
esserci un problema?» «Perché si tratta di un incarico difficile. Ma questo è il
nostro lavoro.
Castilla è un uomo intelligente, però è un politico. Io lavoravo nei servizi
segreti già da quindici anni quando lui decise di lasciare il suo studio legale ed
entrare in politica. Siamo noi gli esperti e abbiamo il dovere di proteggere il Paese
– entro certi limiti, si capisce – dagli influssi e dalle lobby del Congresso e della
Casa Bianca.»
«Sì, signore, lo so.» C’era qualcosa che il suo tono sicuro non riusciva a celare
alla perfezione. Il dubbio.
«Tu hai visto le stesse cose che ho visto io, Brandon: le forze militari e i
servizi d’intelligence stanno diventando sempre più politicizzati e burocratici.
Quelli che dovrebbero guidare il Paese preferiscono dedicarsi a questioni ben più
frivole, solo per assecondare le loro smanie di protagonismo. Questa situazione ci
55
sta spingendo al collasso un’altra volta. L’America viene mantenuta in vita
artificialmente e, per quanto detesti ammetterlo, è l’energia proveniente dal
Medio Oriente a infonderci nuova linfa. Senza quella, il nostro Paese muore.»
«Sono d’accordo, signore» commentò Gazenga, ma Drake non era convinto e
decise di arrivare al punto.
«Riesci a immaginare cosa succederà se permettiamo all’Iran di
modernizzarsi e di produrre armi nucleari? Non saremmo in grado di contrastare
la sua influenza in Medio Oriente e finiremmo per competere con il resto del
mondo in una gara umiliante a chi è più bravo a baciare il culo ai persiani. Ci si è
presentata un’opportunità, Brandon, ma dobbiamo agire in fretta. Dobbiamo far
capire ai politici che anche se l’esercito americano non è in grado di riformare
una nazione, resta comunque il nostro strumento punitivo per eccellenza.»
Gazenga annuì e sembrò riacquistare la sua consueta risolutezza. Ma quanto
sarebbe durata? Drake stava cominciando ad avvertire i limiti della sua influenza
sul giovane e la cosa lo preoccupava molto.
«Bene. Per ora è tutto, Brandon. Esaminerò la tua relazione stasera e ti
chiamerò se dovessi riscontrare qualche problema.»
Gazenga era visibilmente sollevato per essere stato congedato e si allontanò
dall’ufficio. Un momento dopo si aprì una porta laterale ed entrò Dave Collen.
«Hai già avuto modo di leggerla?» esordì Drake, battendo l’indice sulla
cartellina posata sulla scrivania.
56
Capitolo 16
57
villaggi circostanti; sapevano come fare affari senza attirare l’attenzione della
polizia sudafricana. Appoggiate ai paraurti c’erano armi di diverso tipo e alcuni
machete insanguinati.
Quando fece per scendere dalla macchina gli si annebbiò la vista e quasi cadde
a terra. Riuscì ad aggrapparsi alla portiera, con il sangue che gli scorreva lungo la
gamba. I nigeriani risero mentre Haidaar si avvicinava e Kaikara cercava di
trovare il coraggio di guardarlo in faccia.
«Cosa ti è successo?» «La donna aveva una pistola. Mi ha sparato.»
I nigeriani risero di nuovo. Probabilmente pensarono che quella disgrazia
andasse celebrata con dell’alcol, perché cominciarono a passarsi una bottiglia di
liquore.
«L’hai persa?» urlò. «Hai permesso a una donna di farti questo e poi te la sei
lasciata scappare?» Kaikara cercò di rimettersi in piedi, ma era troppo debole.
Ebbe la forza soltanto di alzare le mani, nel patetico tentativo di difendersi.
«Aveva una pistola. È riuscita a fuggire. Io…»
Haidaar gli assestò un calcio nel fianco, facendolo rotolare prono, e poi
schiacciò il piede sulla ferita nella coscia. «Non è molto lontano dal tuo culo, eh,
Kaikara? Magari eri tu, quello che scappava.» I nigeriani avevano smesso di
ridere e di bere e li avevano circondati, le armi in pugno. Uno di loro si fece avanti
col machete e Kaikara implorò, in preda al panico: «No! Stavo guidando! Quella
puttana aveva nascosto la pistola sotto il sedile. Lei…».
58
«Basta così!» sentì gridare Haidaar. «Trovategli un dottore.» «Cosa?» fece
uno degli uomini. «Perché vorresti lasciare in vita questo inutile pezzo di merda
un minuto di più?» «Perché non intendo essere io a dire a Bahame che non
abbiamo la donna.»
Kaikara comprese all’improvviso la gravità del suo fallimento. «No!
Non è stata colpa mia. Non ho mai deluso Bahame.» «Chiudi la bocca!» urlò
Haidaar, colpendolo con un altro calcio, anche se meno violento. A quel punto la
sua stessa sopravvivenza era in pericolo, ma se non portava a Bahame qualcuno
su cui potesse sfogare la sua furia, la sua fine sarebbe stata inevitabile.
«Benissimo» rispose Haidaar. «Allora chiamerò Caleb e gli dirò che non siete
in grado di eseguire un semplice ordine. Vi ha pagato per niente!» Ci fu un breve
silenzio, quindi scoppiò una disputa tra i nigeriani, ma Kaikara non riuscì a capire
cosa dicessero. La sua mano cadde su un pezzo di filo spinato. Non provò dolore,
solo esultanza. Lo tirò per liberarlo dal paletto mezzo marcio attorno al quale era
avvolto e se lo avvicinò alla giugulare. Uno squarcio profondo, e nessuno avrebbe
più potuto salvarlo. Sarebbe stato libero.
Il metallo arrugginito gli aveva appena sfiorato la pelle quando qualcuno
glielo strappò di mano e lo trascinò verso le automobili.
59
Capitolo 17
«In nome di Dio, cosa sta succedendo qui?» esclamò Fred Klein bloccandosi
sulla soglia. Il massiccio schieramento di computer e megaschermi a parete di
Covert-One era spento e buio, le spine staccate dalle prese di corrente.
Jon Smith terminò di fissare con il nastro adesivo un sacco della spazzatura
sull’obiettivo della videocamera di controllo sopra alla sua testa e saltò giù dalla
sedia su cui era salito. «Marty è l’informatico migliore del mondo. Però soffre di
curiosità ipertrofica.
Meglio non averlo collegato.» «È solo una videoconferenza, Jon. Il nostro
sistema è completamente isolato e protetto da avanzati mezzi di sicurezza. Siamo
inattaccabili.»
«Fidati, nel suo caso è come sventolare il drappo rosso di fronte al toro.
L’unico modo per garantire la segretezza dell’attività tua e di Covert-One è
rinunciare alla tecnologia.»
Klein alzò le spalle ed entrò, scrutando Smith in volto con una strana
intensità. «Tu come stai, Jon? Quello che è successo a Rivera è stato orribile. Ma
non è stata colpa tua, lo sai, vero?»
Smith fece un sorriso tirato. In realtà non ne era così sicuro. Sarebbe stato
meglio concedere al giovane SEAL un po’ di tempo, anziché precipitarsi da lui con
tutte quelle domande. O forse lui sarebbe dovuto arrivare un attimo prima. Forse,
a quel punto, Rivera sarebbe stato ancora vivo.
«Sì, sto bene, Fred. Grazie per avermelo chiesto.» «Okay. Siamo pronti,
allora?» «Ci siamo quasi.»
Smith si sedette di fronte a una piccola scrivania e aprì un computer portatile
nuovo di zecca, coprendo con il nastro adesivo la videocamera integrata e
collegandolo a uno dei megaschermi della sala. Inserì una pendrive da tre giga
per collegarsi a Internet senza usare la rete di Covert-One e diede l’avvio.
60
incorporeo di Marty Zellerbach. Come aveva fatto?
«Hai scoperto qualcosa?» «Ma per chi mi hai preso? Certo che sì. Allora…
adesso vivi nella Contea di Prince George’s?» Klein sollevò le sopracciglia e gettò
un’occhiata nervosa alle videocamere interne coperte dai sacchi della spazzatura.
Smith si rivolse a Zellerbach: «No, mi trattengo solo oggi pomeriggio. Ma
torniamo al video…».
61
«Già, Marty. Difficile non notarlo. Magari era ferito, o forse solo stanco per
l’inseguimento e la corsa.» «Au contraire, mon frère. Quel tipo correva come un
indemoniato.
Sapevi che era tra i migliori ricevitori della nazione, quand’era al liceo?
Avrebbe potuto frequentare qualunque università e probabilmente sarebbe finito
tra i professionisti. Cheerleader. Super modelle. Lamborghini. Ma, per qualche
imperscrutabile motivo, lui voleva fare il soldato.»
«Dio solo sa perché una persona dovrebbe essere tanto stupida da voler
entrare nell’esercito» commentò Smith con voce stanca.
«Secondo me neppure Dio poteva immaginarsi una cosa del genere.
In sostanza, è la donna a essere troppo veloce.» «Cosa intendi con “troppo
veloce”?»
«Ho fatto delle simulazioni e quella velocità è incredibile.» «Le simulazioni
non sono mai precise al cento per cento.» «Non sai quanto ti sbagli. Ma sapevo
che avresti obiettato, quindi ho creato una mappa in 3D e l’ho inviata ad alcuni
miei collaboratori.
Loro l’hanno riprodotta sotto forma di percorso a ostacoli su un terreno di
mia proprietà, nella West Virginia.» «Cos’hai fatto?»
«Ho ricostruito quel pezzo di foresta.» «Ma se hai avuto il video solo tre
giorni fa…» «Lo dicono anche nel mondo delle corse automobilistiche. La
velocità costa cara. Quanto forte vuoi andare? Comunque. Dove mando la
fattura? Direttamente a te?»
«Non può essere vero, Marty.» «Sono d’accordo, non può essere. Ma è così.
Quella donna, sovrappeso, correndo su un terreno sconnesso, sembra avere
appena stabilito il record mondiale dei cinquanta metri.»
Smith si mordicchiò l’unghia del pollice. Non era quello che avrebbe voluto
sentire. «E cosa mi dici del sangue?» «Non è spalmato sui corpi, se è questo che
mi stai chiedendo.» Lo schermo si oscurò per un attimo e comparve l’immagine
di un nero a torso nudo che correva verso la videocamera.
«Guarda: il sangue parte dalla testa, gli scorre uniformemente sul torace e si
raccoglie attorno alla cinta dei pantaloni. Allora ho pensato di fare un’altra
simulazione: ho alzato il riscaldamento nel soggiorno di casa mia, ho acceso un
62
umidificatore per ricreare le presunte condizioni atmosferiche di quel giorno, in
Uganda, mi sono ricoperto di sangue e mi sono messo a correre.»
«No, non c’è nessun impatto. Adesso guarda questi fermo immagine e l’ora.»
Comparve una serie di fotogrammi dell’uomo steso a terra: messi insieme
coprivano quasi l’intera durata dell’attacco.
«Ho confrontato tutti i fotogrammi al millimetro e quel tipo non si muove.
Quasi sicuramente è morto. La cosa interessante è che questo è solo uno dei
video. Ho riscontrato lo stesso fenomeno in altri tre casi.» «Se non è stato un
proiettile, allora cosa?»
«Niente a noi noto. È questa la vera stranezza. È come se cadessero morti,
così, senza motivo.» Smith tamburellò piano le dita sul tavolo. Il cervello inibiva
imprese fisiche straordinarie per impedire danni catastrofici e un’eccessiva
spossatezza. Quella valvola di sicurezza poteva essere neutralizzata, ma non era
così facile: per esempio, una donna era in grado di sollevare l’auto che aveva
investito suo figlio, oppure un uomo poteva compiere imprese titaniche sotto
l’effetto di certi narcotici, o quando era davvero terrorizzato.
«Okay, grazie, Marty.» «Nessun problema. Se ti capita ancora tra le mani una
cosa del genere, mandamela subito, mi ci metto all’istante. Incredibile.
Pazzesco…» «Lo farò. Adesso però devi cancellare il video e tutte le tue
63
analisi.» «Va bene.»
«Intendo che devi proprio eliminare qualunque traccia. Non deve essere in
alcun modo recuperabile dal tuo computer.» Zellerbach sembrava un po’ deluso.
«Come vuoi.»
Lo schermo si oscurò e Smith spense il computer.
«Cosa…» esordì Klein, fermandosi subito quando l’altro fece il gesto di
tagliarsi la gola con la mano.
«Il computer è spento, Jon.» Smith lo sollevò per sbatterlo con forza contro lo
spigolo del tavolo, mandandolo in pezzi.
«Mai sottovalutare Marty Zellerbach.»
64
Capitolo 18
«Quindi non hai trovato niente, Barry?» Jon Smith si incastrò il telefono tra
la spalla e il collo e ispezionò con lo sguardo l’ufficio in cui Klein l’aveva
sistemato. Era completamente vuoto, a eccezione di una sedia, una scrivania e un
blocco di fogli. Rispecchiava il senso pratico dell’uomo a capo di Covert-One.
«Grazie a Dio. Sapevo che ce l’avresti fatta.» «Già… ma quando dico “tutto”,
intendo questo.» Gli porse due fogli di carta.
«Nient’altro?»
«Spiacente, Jon.» Fece scivolare una delle carte sulla scrivania. «Il signor
Klein ti aveva parlato del medico tedesco che sessant’anni fa, in Africa, aveva
riscontrato attacchi di questo tipo?» «Sì, ma senza approfondire.»
65
Lei picchiettò un dito sul documento. «Questo è un appunto di un professore
di Stanford, un collaboratore del dottor Duernberg in Uganda. Leggi la parte
evidenziata, il resto sono solo chiacchiere.»
Poche righe in cui si menzionava l’ipotesi di un’infezione parassitaria come
possibile causa di squilibrio mentale negli esseri umani. Il medico ebreo
trapiantato in Africa stava studiando il fenomeno. Fine.
Sul retro c’era la foto del cadavere di un uomo africano, con indosso abiti
tradizionali. Aveva i capelli incrostati di sangue secco e il torso rigato da strisce
nerastre.
66
rintracciato una breve menzione di un parassita che potrebbe causare squilibrio
mentale, ma nessun altro dettaglio. Inoltre abbiamo questa foto del secolo
scorso, un guerriero in condizioni simili a quelle degli assalitori della nostra
squadra operativa. Non prova niente, comunque. Magari è solo un vecchio rituale
riesumato da Bahame.»
«E le persone che crollano a terra morte senza alcuna ragione? Le donne che
fanno i record di velocità? Mi sembra qualcosa di più di un rituale.»
Smith annuì. «È tutto molto strano, lo ammetto. Ma non è un fatto
completamente nuovo. Pensa ai berserkir, per esempio.» «I cosa?» «Erano i
guerrieri vichinghi più temuti. Esistono numerose teorie sulla loro provenienza,
ma pare che venissero selezionati in base ai loro tratti di personalità – forse
anche lo squilibrio mentale era uno dei criteri – e addestrati con elaborati rituali
e alcol o droghe. In sintesi, manifestavano caratteristiche molto simili a quelle
degli ugandesi: forza e velocità sovrumane, insensibilità al dolore, audacia e così
via.» «Allora secondo te Bahame inebetisce quella gente con cocaina e credenze
religiose per poi sguinzagliarla sul territorio?»
67
parato sotto il naso senza dubbio era in grado di riconoscerlo. Ma potrebbe anche
aver trovato qualche sostanza allucinogena naturale nella foresta, soprattutto
considerata la sua esperienza nel campo della droga. Comunque, le mie sono solo
congetture. I comportamenti di cui stiamo parlando sono piuttosto sofisticati.»
«Sofisticati?» domandò Klein, incredulo. «Agivano come un branco di
animali.» «Forse, ma erano come bestie feroci lanciate tutte nella stessa
direzione, non si attaccavano l’un l’altro. Pensa al comportamento sconnesso
osservabile in un gruppo di animali affetti da rabbia o trattati con LSD. Al
contrario, il modo di agire di quelle persone è bene organizzato e prevedibile. Se
dovessi tentare un azzardo, punterei tutto su isteria religiosa di massa potenziata
con qualche narcotico di origine locale.»
Klein lanciò sul tavolo la cartellina che aveva in mano. «Sarai felice di sapere
che gli analisti dell’Agenzia la pensano come te. Questa è una copia della
relazione inviata da Larry Drake alla Casa Bianca.» Smith spinse da parte la
documentazione su Bahame e aprì il rapporto della CIA, sfogliando un’analisi
dettagliata che spaziava dai rituali africani a Pol Pot e alla Germania nazista.
«Qui non c’è molto su cui essere in disaccordo, Fred. Il presidente ha fatto
domande sul possibile collegamento con l’Iran?»
«Sì.» «E…?» «Larry era preparato a questa eventualità e gli ha fornito delle
spiegazioni assolutamente plausibili sulle nostre intercettazioni.
Castilla ne è rimasto soddisfatto e ha lasciato un messaggio per autorizzarci a
sospendere.»
«Questa è una buona notizia, giusto? Non è quello che volevi?» «Prima di
ascoltare l’analisi del video del tuo amico informatico, sì.
Adesso non ne sono più così sicuro. Per come la penso io, se c’è anche una
sola possibilità su un milione che esista qualcosa su cui gli iraniani possono
mettere le mani per servirsene per scopi poco chiari, noi siamo obbligati ad
andare a fondo.»
«E il presidente?» «Lo vedrò oggi nel tardo pomeriggio per parlargli delle
conclusioni di Zellerbach e ho intenzione di chiedergli di concederci libertà di
movimento.»
Smith chiuse il rapporto e alzò lo sguardo sul suo capo. «Deduco che mi
aspetti un viaggio in Africa. Però ti avverto, Fred: le mie conoscenze in fatto di
parassiti non riempirebbero una cartolina.
Avrò bisogno di qualche collaboratore.» «Comunica i nomi a Maggie. Si
occuperà lei di organizzare le cose.» «E voglio portare con me anche Peter.»
Klein fece una smorfia. «Posso metterti in contatto con gente molto valida, in
Africa.» «Lo so, e sono sicuro si tratti di professionisti eccellenti. Ma Peter ha
qualcosa che loro non hanno.» «Cosa?» «È il migliore in assoluto quando si
68
tratta di tenermi in vita.»
69
Capitolo 19
Teheran, Iran
Mehrak Omidi sedeva silenzioso nel retro del furgone, intento a guardare una
serie di piccoli monitor sui quali scorrevano le immagini della manifestazione nel
centro di Teheran.
La folla era molto più numerosa rispetto alle previsioni dei servizi segreti, e
ora riempiva non soltanto piazza Azadi, ma anche le strade circostanti, bloccando
il traffico diretto verso il cuore della città. Era impossibile sapere se l’errore sulla
stima dei manifestanti fosse dovuto a una raccolta di informazioni poco accurata,
o se al corteo si fossero uniti all’ultimo momento dei passanti, estranei alla
pianificazione della protesta. L’organizzazione meticolosa faceva pensare,
purtroppo, alla prima ipotesi.
Sul lato occidentale della piazza, dove il numero di agenti di sicurezza era più
esiguo, la folla si era fatta man mano più audace.
Una pietra disegnò una parabola nell’aria e rimbalzò su uno scudo di
plexiglas. In mancanza di reazioni, qualcuno lanciò una bottiglia.
La stampa internazionale non era stata autorizzata, ma tutti potevano
trasformarsi in reporter, grazie a cellulari e videocamere. Come ministro
dell’Intelligence, Omidi aveva tentato di tutto per creare un sistema per
interrompere parzialmente le comunicazioni nazionali, ma la tecnologia era
troppo complessa e diffusa perché qualsiasi governo potesse tenerla sotto
controllo. E in realtà il suo staff non maneggiava quei mezzi con la stessa
dimestichezza dei membri della resistenza. I giovani iraniani, come quelli di tutto
il mondo, riuscivano a sfruttare appieno tutti gli ultimi ritrovati tecnologici non
appena erano disponibili online.
La folla ondeggiò verso la barriera dei poliziotti e osservò la scia silenziosa dei
gas lacrimogeni lanciati in aria. Nei punti di impatto si creavano dei vuoti, ma il
corteo non si stava disperdendo nel caos, come sarebbe accaduto solo pochi mesi
prima. Un gruppo di uomini trasportava una donna ferita tenendo un chador
disteso sulle proprie teste, mentre altre persone facevano largo al loro passaggio.
C’era qualcosa di diverso nelle recenti proteste come questa, una conquista: la
loro sobria determinazione faceva pensare a un’adeguata preparazione.
Tutto era iniziato circa un anno prima, quando piccoli gruppi tra la folla
70
avevano cominciato a restare fermi sulle loro posizioni, subito imitati dagli altri,
neutralizzando in questo modo la paura sulla quale contava la polizia, molto
meno numerosa dei manifestanti. Ora quei gruppi costituivano oltre la metà
della folla, e si erano dati una struttura organizzativa, una mano invisibile che
guidava quei criminali comuni come fossero soldati.
Ma il mistero era stato presto svelato: a guidarli era Farrokh. E, con l’aiuto di
Allah onnipotente, quella mano stava per essere troncata di netto.
La folla si sollevò di nuovo, spingendosi contro la parte meno difesa della
barriera. Omidi teneva il dito pronto su un pulsante con il quale avrebbe
autorizzato la polizia a usare le armi, sostituendo i manganelli con i fucili
mitragliatori. La marea umana si ricompattò, gridando slogan inneggianti alla
libertà e alla democrazia, attenta però a non lasciarsi andare a provocazioni
fisiche.
Come previsto, il cellulare gli squillò nel taschino e trasse un profondo respiro
prima di rispondere.
«Sì, Eccellenza?»
Sentire la voce della Guida Suprema dell’Iran, l’ayatollah Amjad Khamenei,
venata di panico scatenò in Omidi un forte malessere dovuto alla collera.
Khamenei era un grande uomo, scelto da Dio come guida della Repubblica
Islamica. Eppure, questa gente, i suoi figli, gli sputava addosso.
Il caos – a suo parere, del tutto evitabile – che ne era scaturito aveva favorito
l’ascesa di Farrokh: un giovane indemoniato, capace di servirsi della tecnologia
più avanzata per portare dalla sua parte i coetanei e diffondere idee sovversive.
71
esistenza. Un mese prima, però, avevano avuto un colpo di fortuna ed erano
riusciti a individuarlo. L’intercettazione casuale di una e-mail non criptata aveva
consentito di catturare uno dei più stretti collaboratori di Farrokh, una donna che
conosceva personalmente lui e la sua rete.
Non era stato facile convincerla – avevano dovuto ammazzarle alcuni membri
della sua famiglia davanti agli occhi –, ma alla fine aveva confessato tutto.
«Devi dare l’ordine di sparare sulla folla» insistette Khamenei.
«Sarei felice di veder morire quei vigliacchi» ammise Omidi in tono sincero.
«La loro sfida è un affronto a Dio. Ma rispondere alla violenza con altra violenza,
a questo punto, sarebbe controproducente.» «Perché? Non starai per dirmi che
siamo sotto gli occhi del mondo, vero? Quale mondo? L’America? Gli ebrei? Farai
come dico io.»
Era nascosto tra gli alberi a qualche metro dal ciglio della strada e ascoltava
attraverso l’auricolare le voci degli uomini che prendevano posizione intorno
all’edificio. Sarebbe stato meglio se Farrokh si fosse trovato in centro città: lì
sarebbe stato più semplice far arrivare le forze d’assalto senza dare troppo
nell’occhio. Ma, se da una parte l’operazione era più complessa, dall’altra offriva
alla preda minori possibilità di fuga. Il traffico era stato deviato, tutte le strade
erano bloccate, e gli elicotteri sorvegliavano la zona dal cielo. A Teheran, Farrokh
avrebbe potuto confondersi tra la folla nel costante viavai della città; qui invece
sarebbe stato solo e molto più esposto.
Quando i trenta agenti che partecipavano all’azione diedero il segnale, Omidi
si avviò di corsa lungo la collina, aggrappandosi ai rami degli alberi per darsi più
spinta. Sentiva dietro di sé gli altri uomini, molto più giovani di lui, ansimare
72
mentre cercavano di tenere il passo. Alla loro età lui faceva parte di un’unità di
élite annessa alla Guardia Rivoluzionaria e, anche ora, continuava a vivere come
se il tempo non fosse passato, mantenendosi in ottima forma fisica e mentale,
pronto a servire Dio e il suo rappresentante sulla terra, l’ayatollah Amjad
Khamenei.
Giunto al limitare del prato ben curato che circondava la casa, Omidi si fermò
e avvicinò la ricetrasmittente alla bocca. «Ora!» Si udì il rombo del motore di
un’auto lanciata a tutta velocità sul lungo viale di accesso e Omidi balzò sul prato
nel momento in cui la macchina si fermava sgommando a pochi metri
dall’ingresso principale. Prese la pistola e avanzò a braccia tese tenendola puntata
con le due mani, correndo dietro agli uomini che trasportavano un ariete preso
dal veicolo.
Arrivato all’altra estremità del corridoio, Omidi fece segno ai suoi uomini di
coprirlo mentre irrompeva in una delle stanze, ispezionandola al di sopra del
mirino della pistola.
«Chi siete?» domandò un giovane uomo, cercando di liberarsi dalla stretta dei
due bambini aggrappati alle sue gambe. «Cosa state facendo?» Aveva poco più di
trent’anni, era un po’ sovrappeso e indossava abiti più vistosi che alla moda. I
suoi tratti erano piuttosto ordinari e gli si leggeva in volto la paura, nonostante
gli sforzi per dissimularla. Il grande Farrokh sembrava incredibilmente piccolo,
spogliato dei miraggi elettronici dietro ai quali amava tanto rifugiarsi.
73
«Non muoverti!» gridò Omidi.
«Chi siete?» chiese di nuovo l’altro. «Avete…» «Silenzio!» Omidi si avvicinò,
afferrando uno dei bambini piagnucolanti, senza spostare la canna della pistola
dal volto dell’uomo.
74
Capitolo 20
Non aveva mai visto la Sierra innevata e rimpianse di non esserci venuto
prima. Lo scenario era spettacolare, al pari di altre meraviglie della natura
incontrate nei suoi tanti viaggi: imponenti pareti di granito, cascate di ghiaccio,
foreste inviolate.
D’altro canto, quel luogo era davvero difficile da raggiungere. Per avere una
tazza di caffè occorreva calcolare un giorno di viaggio, se il tempo era buono. Con
la neve, poi, si rischiava di rimanere sepolti, per sempre.
La piccola capanna di legno, da cui saliva la colonna di fumo, si stagliò
finalmente di fronte a lui e Smith si tolse cappuccio e occhiali da sole per farsi
riconoscere: laggiù c’era un uomo che lo stava osservando.
Costeggiò l’orlo del burrone e procedette verso ovest, finché non scorse uno
stretto ponte pedonale. Nessuna traccia umana era visibile, mentre numerose
erano quelle dei puma. Peter Howell aveva stretto da qualche tempo una curiosa
amicizia con i felini: due creature pericolose, che non disdegnavano un po’ di
compagnia, ma solo quando ne avevano voglia.
Smith superò un cumulo di neve dalla vaga forma del pickup di Howell e
attraversò con cautela il ponticello scivoloso: un solo passo falso e sarebbe
precipitato, con un salto abbastanza alto da vedersi passare tutta la vita davanti
75
agli occhi almeno due volte.
Di recente la regione era stata investita da una delle peggiori bufere di neve
mai registrate e tutto il lato nord della capanna era sepolto.
Da quella valanga in miniatura spuntavano i resti contorti di una parabola
satellitare; ecco perché Smith non era riuscito a mettersi in contatto con il suo
vecchio amico.
«Guarda guarda, l’impavido Jon Smith» disse una voce dal marcato accento
britannico alla sua sinistra. «È difficile trovarmi, eh?» Smith si girò in tempo per
vedere un uomo magro con il volto segnato dal tempo sbucare da dietro un
albero. Sembrava non sentire il freddo: indossava solo un paio di jeans, una
maglietta bianca e un vecchio cappello da cowboy. In una mano teneva un fucile,
il calcio appoggiato su un fianco.
76
delle fiamme.
«La tua non è una visita di cortesia, giusto?» esordì Howell, tendendogli un
bicchiere e versandogli del whiskey americano.
«Perché, non posso venire qui per passare la giornata con un vecchio amico?»
«Se non ricordo male, l’ultima volta che abbiamo trascorso del tempo insieme mi
hanno sparato, e stavamo quasi per precipitare con l’elicottero.»
«Ehi, non puoi ritenermi responsabile per l’elicottero. C’eri tu ai comandi.»
«Vero, hai ragione.» Smith si appoggiò allo schienale, si tolse i doposci e sentì
che il sangue riprendeva a circolare nelle dita dei piedi. «C’è un problema in
Africa di cui non riesco a venire a capo. Forse potrebbe farti bene allontanarti da
tutta questa neve per un paio di settimane.» «Sabbia e sole?» domandò l’inglese,
con leggero sarcasmo. «Cosa può esserci che non va?»
Smith sorrise e sollevò da terra il suo giaccone, prese dalla tasca una pendrive
e la porse a Howell. «La password è Ares.» L’ex soldato inserì la chiavetta in un
computer portatile e osservò con attenzione il video girato in Uganda, mentre
Smith centellinava il suo whiskey.
77
Bahame, è completamente diverso.» Howell si agitò sulla poltrona, guardandolo
negli occhi per la prima volta dall’inizio della conversazione. «Bahame?»
«Ne hai sentito parlare?» L’inglese spostò di nuovo lo sguardo sul fuoco del
camino. «Ho letto qualcosa.» «Be’, non so cosa hai letto, ma non può rendere
l’idea di ciò che sta accadendo laggiù, te l’assicuro. Sei mai stato in Uganda?»
Howell non sembrava avere intenzione di rispondere, quindi Smith riprese a
parlare. «Sta’ a sentire: noi andiamo là, facciamo un po’ di indagini e poi te ne
torni a casa con i cinquantamila più facili della tua vita.» «Stai parlando di
sterline inglesi, immagino.» Smith sorrise. «Non è facile convincerti, eh?»
Howell si passò una mano tra gli incolti capelli grigi e riprese ad assaporare il
suo whiskey.
78
Capitolo 21
Teheran, Iran
Mehrak Omidi esitò di fronte alla porta chiusa, con un vago senso di nausea
dovuto a un eccesso di adrenalina. Solo l’ayatollah Amjad Khamenei riusciva a
farlo sentire così.
Si conoscevano da quando Omidi era un giovane miliziano della Guardia
Rivoluzionaria e Khamenei un imam dell’estrema regione nord-orientale del
Paese. Il religioso aveva intravisto le potenzialità di Omidi e l’aveva preso sotto la
sua ala protettiva, offrendogli consigli spirituali e vegliando sulla sua carriera; gli
aveva persino finanziato gli studi all’estero.
L’uomo seduto su un cuscino accanto a lui fece per alzarsi in piedi – sul viso
glabro un’espressione indurita dall’odio –, ma si rimise subito al suo posto
quando l’anziano religioso gli posò una mano sul braccio.
«Mehrak. Sono felice di vederti. Ti prego, vieni qui vicino a me.»
79
Omidi obbedì, chinando la testa con atteggiamento contrito per evitare di
incontrare lo sguardo furente dell’uomo seduto di fronte a lui.
Si chiamava Rahim Nikahd ed era un influente esponente dell’ala moderata
del parlamento, un uomo scaltro e ambizioso, con un piede nell’Iran del passato e
uno in quello del futuro invocato dalla folla.
Omidi non sopportava il fatto che una personalità del calibro di Khamenei
dovesse strisciare ai piedi di uno come Nikahd, ma quella era la complessa realtà
della politica. Nessun leader, per quanto grande o potente, poteva dimenticare le
vere origini del proprio potere.
«La moglie di mio figlio, la madre dei miei nipoti, è in coma per essere stata
colpita alla testa con il calcio di un fucile. È competenza, questa? Non poteva fare
una telefonata e verificare di chi fosse la casa, prima di fare irruzione?»
«Non c’era tempo, Rahim. Farrokh ci è sfuggito dalle mani troppe volte ormai.
E, per rispondere alla tua domanda, Mehrak è qui perché ha insistito per venire
di persona a chiedere il tuo perdono.» Non era esattamente la verità, anzi non lo
era affatto, ma Omidi chinò ancora di più il capo, assumendo una postura di
assoluta remissione.
«Fallo per me» continuò Khamenei. «Perdona entrambi per aver causato
tanto dolore alla tua famiglia.» Omidi continuò a tenere gli occhi bassi, grato
perché la collera del suo sguardo era celata al grasso parlamentare seduto di
fronte a lui.
Nel mondo della politica si era spesso costretti a scendere a compromessi. Un
giorno Khamenei avrebbe dovuto ripianare il debito creato da Omidi. Si era
80
lasciato fregare da Farrokh, ancora una volta.
Khamenei gli tese una mano e Nikahd la baciò. «Ringrazio di avere vicino
uomini come te, Rahim. Uomini ancora leali nei confronti dell’Islam.»
Nikahd si alzò per congedarsi, ma non prima di aver scoccato a Omidi
un’occhiata piuttosto eloquente. Se in quella estenuante lotta per il potere fosse
risultato vincitore, avrebbe cancellato Omidi e la sua famiglia dalla faccia della
terra.
Lo guardarono andare via e Khamenei attese che la porta fosse chiusa prima
di parlare.
81
noi, non mi azzarderei ad affidare un simile incarico a qualcuno che potrebbe
essere sul libro paga della CIA. No, non possiamo contrastare Farrokh con le sue
stesse armi. Non siamo in grado di costruire barriere che possano impedire alle
idee e ai valori occidentali di sommergerci.»
«Cosa intendi dire, Mehrak? Dovremmo rinunciare? Credi che Dio non possa
nulla contro la seduzione dell’America? Avresti dovuto fare fuoco sui
manifestanti. Avresti dovuto mostrare loro la risolutezza della nostra fede.»
«Sparare sulla folla era impossibile, Eccellenza.» «Impossibile? Perché?»
«Perché non posso garantire sulla lealtà della polizia e dell’esercito.» «Se sospetti
la presenza di traditori, incastrali e arrestali.»
«Non si tratta di semplici traditori. Questi uomini amano il loro Paese, ma
molti fanno parte di una generazione più recente: non ricordano lo scià, non
erano ancora nati ai tempi della rivoluzione.
Non capiscono cosa rappresenti la Repubblica Islamica. Vedono solo
l’inflazione al trenta per cento, l’isolamento dal resto del mondo e un tasso di
disoccupazione a due cifre. Se alcuni di loro dovessero unirsi alla protesta,
potremmo essere i primi ad aprire il fuoco in una guerra civile.» «È Farrokh. Se
noi…»
82
rimasto sul vago.
«L’ugandese.»
Omidi annuì, estraendo dalla tasca una busta e disponendo sul pavimento le
foto che conteneva. «Gli americani sono stati trucidati dai seguaci di Bahame nei
pressi del suo accampamento. Le altre foto sono tratte da un articolo di giornale
statunitense: un incidente in cui è rimasto ucciso un gruppo di operativi delle
forze speciali durante un addestramento.»
Khamenei socchiuse gli occhi dietro le lenti per mettere a fuoco le immagini.
«Sono gli stessi uomini.» «Esatto, Eccellenza. Gli americani li hanno mandati là
per catturare o ammazzare Bahame e, non essendoci riusciti, hanno mentito sulle
circostanze della loro morte.»
«Allora sanno qualcosa. Ma cosa?» «Non possiamo dirlo con certezza.
Comunque credo che non abbiano ancora capito il potenziale della scoperta di
Bahame, ma ci arriveranno presto. Dobbiamo agire ora, altrimenti non saremo
più in grado di…»
«… togliere di mezzo gli americani e gli ebrei» lo interruppe Khamenei,
terminando la frase.
«Non solo, Eccellenza, ma scatenare contro di loro l’inferno perché il mondo
intero ne sia testimone. Perché ricordi quanto è terribile il potere di Dio.»
L’ayatollah rifletté qualche istante. «Devi andarci tu di persona.»
83
Capitolo 22
Dopo alcuni giri a vuoto, trovò la porta che cercava ed entrò, esplorando il
laboratorio con lo sguardo. Sul sito web dell’università aveva visto la foto di una
donna seriosa e con i capelli in perfetto ordine.
Stava per uscire, quando un giovanotto massiccio con indosso una maglia da
rugby si spostò, lasciandogli intravedere la donna alle sue spalle.
84
il motivo del ritardo.» Le tese la mano. Aveva una stretta energica e un corpo
atletico, come rivelava il camice da laboratorio leggermente aperto.
«Allora mi permetta di darle il benvenuto nel nostro magnifico Paese.»
«Grazie. Anche per aver accettato di incontrarmi con così poco preavviso.
Ogni volta che cerco informazioni sui parassiti, salta fuori il suo nome.»
Lei ignorò il complimento. «Non è mai una buona idea rifiutare una richiesta
dell’organismo militare più potente del mondo. Lei è dell’USAMRIID, giusto? Un
cacciatore di virus del Maryland. Mi piacerebbe tornare negli Stati Uniti. Sono
stata solo a New York e a Chicago. La prossima volta però vorrei andare nel
Montana.»
«Da buona africana, potrebbe trovarlo un po’ freddo in questo periodo.» «Ma
ci sono le foreste, no? Big sky Country. Se non sbaglio lo chiamano così. Mi
piace.» Agitò le mani come un direttore d’orchestra scandendo le parole. «Il
Paese dal grande cielo. Secondo me dice tutto.»
Aveva un modo di parlare particolare, appena un po’ troppo rapido, come se
temesse di non avere il tempo per dire tutto ciò che aveva in mente.
«Non ci ho mai pensato. Ma forse ha ragione.»
«Comunque, non sarà certo venuto fin qui per sentire le mie chiacchiere.
Voleva parlarmi di parassiti, giusto? Ha qualcosa di interessante per me?» Smith
si guardò intorno, per accertarsi che non ci fossero studenti a portata d’orecchio.
«Dunque, il problema è questo… veramente non ne sono sicuro, non è la mia
area di specializzazione.»
85
dentice californiano. Avanti, picchietti sul vetro per attirare la sua attenzione.»
«Colonnello Smith, tutto bene? Mi dispiace, forse Hardy l’ha sconvolta. Sa,
può fare quell’effetto.» Gli ritornò il sorriso e fece del suo meglio perché non
apparisse forzato. «No, Hardy non c’entra. Senta, se c’è un posto dove possiamo
parlare in privato, potrei raccontarle qualcosa di più sconvolgente.»
Sarie fece un po’ di spazio sulla scrivania e indicò la borsa che Smith portava a
tracolla. «Ce l’ha lì il campione? Viene dal Maryland?» «No, e… no.» Smith si
fermò a guardare una fotografia in cui Sarie posava insieme a un uomo molto
anziano accanto alla carcassa di qualche specie di antilope. Lei aveva in mano un
fucile e sorrideva sotto la tesa di un ampio cappello di paglia.
86
«Jon. I segreti sono tossici per l’anima. Perché non mi mostra l’oggetto
misterioso? Vedrà, si sentirà subito meglio.» «Devo avvertirla che il mio governo
considera questa faccenda assolutamente top secret.»
«Lei mi sta uccidendo, Jon. Sono troppo curiosa, adesso.» Il suo tono era
allegro. «Se parlo, dovrà farmi fuori, giusto?» «Forse non ci sarà bisogno di
arrivare a questo, ma di sicuro dovremmo discuterne.»
Sarie rise, anche se non era più sicura che lui stesse scherzando. Ci fu una
breve pausa, quindi annuì. «Va bene. Giuro sulla tomba di mio padre. Coraggio,
mi faccia vedere.» Sembrò perplessa quando Smith prese un laptop dalla borsa e
lo appoggiò sulla scrivania, ma si affrettò ad abbassare le veneziane alle finestre e
si protese verso il computer per guardare il video appena iniziato.
Smith sgombrò una sedia dai libri e vi si lasciò cadere, sollevando una nuvola
di polvere. Lei era impallidita.
«Pazzesco» mormorò alla fine del filmato. Passarono alcuni istanti, poi
riprese a parlare. «Chi erano le persone uccise?» «Non ha importanza.» «Per loro
sì.» Lui non disse niente.
«Sono aggiornate le vostre ricerche, eh?» Jon fece un mezzo sorriso. «Allora,
cosa ne pensa, dottoressa?» «Sarie. E diamoci del tu.» «Okay, Sarie. Quel tipo di
comportamento potrebbe essere ingenerato da un parassita?»
«Certo, è possibile. Non è così difficile incitare le persone alla violenza.»
«Però in questo caso si tratta di un modo di agire più sofisticato.» «Ti riferisci al
fatto che non si attaccano fra loro?» Era molto colpito dalla sua perspicacia.
«Esattamente. Per questo propendiamo per un mix di narcotici e carisma. Ma
vogliamo esserne sicuri.»
87
nasconderle sotto i capelli? Perché non praticarsi un grande taglio sul petto che
avrebbe senz’altro fatto più impressione? E che non si attacchino fra loro non mi
sorprende. Se davvero hanno un parassita nel cervello, è una mutazione molto
vantaggiosa quella che permette di riconoscere altri soggetti infetti e lasciarli
indenni. Sarebbe un progresso evolutivo enorme rispetto ad altre infezioni simili,
in cui le vittime finiscono per ammazzarsi l’un l’altra in una mischia infernale.
Per un parassita equivale a un suicidio.»
«Però…» commentò Smith, in tono scettico «nello specifico la mutazione di
cui parli mi sembra un po’ inverosimile.» «Oh, no, non sono d’accordo. Pensa al
Toxoplasma gondii. È un protozoo che normalmente infesta i gatti, ma può
propagarsi a molte altre specie, compreso l’uomo. Ti faccio un esempio. I topi
sono terrorizzati dall’odore dell’urina di gatto, il che non è così sorprendente ai
fini della loro sopravvivenza. Al contrario, i topi infestati dal toxoplasma non solo
non hanno paura dell’urina di gatto, ne sono addirittura attratti. Il topo fa una
brutta fine, ma è un vantaggio per il toxoplasma, che ritorna al suo ospite
preferito quando il topo viene mangiato.» «Quindi stai dicendo…» cominciò
Smith, ma lei continuava a parlare, non era chiaro se con lui o con se stessa.
«Proprio così. Lo scopo è mescolare il sangue con quello della vittima, quindi
quale miglior modo se non attaccarla, ferirla e contaminarla? È un po’ come con i
tuoi virus. Sono loro a farti starnutire, tossire, o a provocare la diarrea. Tutte
strategie molto semplici per propagarsi da un ospite a molti altri.» «Quindi cosa
ne pensi?»
«Molto probabilmente vi trovate di fronte a qualche tipo di agente patogeno.
In base alla documentazione che mi hai mostrato e alla complessità del
comportamento dei soggetti, un parassita è l’ipotesi più verosimile, direi. Però è
davvero incredibile! Non si è mai vista una cosa del genere nell’uomo. Cioè, il
toxoplasma è alquanto comune nella nostra specie, ma l’unico effetto psicologico
noto è che ci rende automobilisti tremendi.»
88
«Hai detto “automobilisti”?» Sarie annuì. «Potrebbe avere a che fare con la
nostra attitudine per il rischio, ma non è accertato. Allora, hai intenzione di
andare in Uganda?»
«In base a quello che mi stai dicendo, mi pare di non avere altra scelta.»
«Abbiamo il tempo di passare da casa mia?» «Scusa?» «Devo prendere alcune
cose, prima di partire.»
Smith aprì la bocca per protestare, ma rinunciò. Sarie era un’esperta di Africa,
era la parassitologa migliore del mondo e, a giudicare dalla foto sulla parete,
sapeva usare un fucile. Valeva la pena aspettarla.
Jim Clayborn sedeva sul prato del campus dell’Università di Città del Capo,
tenendo d’occhio lo studente iraniano che si stava interessando troppo, e in modo
alquanto sospetto, alla dottoressa Sarie van Keuren.
89
Capitolo 23
L’oscurità fu rischiarata da una slide che mostrava una fila di eleganti edifici
in pietra con una montagna sullo sfondo. Brandon Gazenga zoomò sulle tre
persone in piedi in cima a una scalinata.
«Partendo da destra, si vede il colonnello Jon Smith, microbiologo, in servizio
all’USAMRIID. Lui…»
«Brandon» lo interruppe Lawrence Drake, senza curarsi di nascondere la
propria impazienza. «Ho una riunione con Dave tra dieci minuti. Non poteva
aspettare, questa cosa? Che c’è di tanto importante?»
«Sì, signore, capisco. Ma ci hanno riferito che una settimana prima che fosse
scattata questa foto, il dottor Smith si trovava a Camp Lejeune per un colloquio
con il SEAL unico superstite dell’operazione in Uganda. Era presente quando il
marine si è suicidato, sembra.» Drake si chinò in avanti, preoccupato. «Okay,
Brandon. Ti ascolto.
Chi è la donna?»
90
«Anch’io la penso così» concordò Gazenga. «Ricorderete che Smith è stato
coinvolto nel disastro Hades in quanto medico dell’USAMRIID. Dopo
quell’episodio, è apparso in un mucchio di posti senza una ragione apparente.»
«Qualcuno gli ha offerto un lavoro dopo che ha smascherato Tremont» arguì
Drake.
«Potrebbe essere un’ipotesi plausibile, signore.» «Sì, ma chi?»
«Non saprei, non riesco a trovare nulla, neppure un indizio da cui partire. Se
sta lavorando per un’agenzia clandestina, sarà difficile scoprire qualcosa: sono
incredibilmente bravi a restare nell’ombra e a non farsi scoprire.» Drake si
appoggiò allo schienale, allungò le gambe e scrutò gli occhi azzurri di Smith. Chi
era così potente da reclutare una risorsa come Smith? E chi nutriva tutto
quell’interesse per Caleb Bahame?
Conoscere la risposta a quelle domande poteva rivelarsi molto pericoloso.
«Dove si trovano adesso?» «In viaggio per l’Uganda.» Collen si voltò verso il
direttore della CIA e gli si rivolse in un sussurro. «Gesù, Larry…»
Drake annuì senza dire niente. Poi: «Falli seguire, Brandon. Voglio sapere
dove vanno, con chi parlano e tutto ciò che vengono a sapere.
E in tempo reale. Sono stato chiaro?».
«Sì, signore.» «E scopri per chi diavolo stanno lavorando.» Gazenga assentì
con un cenno obbediente del capo, ma sembrava sempre più a disagio.
«Devi dirci qualcos’altro, Brandon?» «No, signore.» «Sì, invece. Parla.»
Brandon esitava, oscillando avanti e indietro sulla sedia nella luce del proiettore.
«Signore, finora abbiamo agito in modo…» «Legale?» «Con tutto il rispetto,
stavo per dire plausibile. Riguardo ai metodi di Bahame e agli interessi dell’Iran
abbiamo detto solo cose del tutto ragionevoli e fondate, dal punto di vista
dell’analisi.» «Ma…?» «È vero, non sappiamo di preciso per chi lavori Smith,
tuttavia è possibile che si tratti di qualcuno dalla nostra parte…»
«In un certo senso, potrebbe rivelarsi un fatto non del tutto negativo per noi,
signore. Gli iraniani finora sono stati prudenti. Un cacciatore di virus americano
che va a ficcare il naso in giro potrebbe costringerli a darci indizi più chiari su
quali siano i piani di Khamenei.»
«Quindi secondo te dovremmo calpestare un intero anno di attenta
pianificazione e affidarci a due cittadini stranieri e a un medico militare che
obbedisce agli ordini di chissà chi?» Brandon non arretrò. «Dovremmo
91
considerare l’op…»
«Gli iraniani portano avanti il loro programma di armamento nucleare» lo
incalzò Drake. «E noi come reagiamo? Con una tiratina d’orecchie. Adesso il
Paese si sta destabilizzando e potrebbe cadere con estrema facilità nelle mani di
Farrokh, con il benestare della comunità scientifica iraniana. E noi? Continuiamo
a stare a guardare.
Ed è quello che faremo anche quando quelli avranno testate nucleari in grado
di raggiungere le nostre coste, e l’OPEC finirà nelle grinfie di Teheran.»
La risolutezza di Gazenga cominciava a vacillare. Si spostò dal raggio del
proiettore nell’ovvio tentativo di nasconderlo. «Se noi…» «È tutto, Brandon»
concluse Dave Collen.
«Ma… Sì, signore. Grazie.»
92
perfetto. Anche secondo gli standard delle armi biologiche, era un agente
tremendamente feroce, e tutti i governi del pianeta avrebbero voltato le spalle a
un Paese che ne facesse uso.
No. Perché gli Stati Uniti potessero rispondere con una forza schiacciante, la
minaccia non poteva esistere solo nelle parole dei commentatori televisivi e dei
portavoce del governo. Agli iraniani si doveva permettere di usare il parassita di
Bahame. Gli americani, deboli e sempre più concentrati su se stessi, avrebbero
dovuto sperimentare sulla propria pelle le conseguenze della loro apatia.
«Larry?» interloquì Collen, rompendo il silenzio nell’ufficio, ancora in
penombra. «Cosa facciamo adesso? Non avevamo previsto nessuna di queste
complicazioni. E Brandon lo vedo titubante.»
93
Come aveva fatto a cacciarsi in una situazione del genere?
La risposta era fin troppo semplice. Era stato Drake in persona a chiamarlo e
lui era stato lusingato dall’attenzione del direttore della CIA. Quando gli era stata
data l’opportunità di un avanzamento di carriera e di fare sul serio, aveva
semplicemente chiuso gli occhi e si era buttato.
Ma lui avrebbe saputo la verità. Non essersi sporcato le mani di sangue non lo
sollevava dalla sua responsabilità.
Tutta l’operazione si svolgeva in un equilibrio incredibilmente delicato: gli
iraniani dovevano dare loro una prova inconfutabile dell’esistenza del parassita,
ma senza spingersi a utilizzarlo davvero.
94
diventando troppo grande per lui. Aveva bisogno di parlare con qualcuno che
sapesse cosa diavolo avevano intenzione di fare i suoi capi. Qualcuno di cui
potesse fidarsi.
95
Capitolo 24
Entebbe, Uganda
Sarie van Keuren lanciò una corda elastica sopra la cassa dell’attrezzatura da
campo e Smith l’afferrò al volo, agganciandola a un foro arrugginito sul tetto del
veicolo.
«Così dovrebbe reggere fino a Kampala» commentò, e l’autista si sporse dal
finestrino aperto, annuendo con energia.
«No problem.»
Sapeva solo quelle due parole d’inglese, ma con l’accento e l’espressione
adeguati riuscivano a comunicare su qualsiasi cosa.
Smith salì sul sedile anteriore, accanto al posto di guida, tirandosi sulle
ginocchia lo zaino prima di sbattere più volte la portiera, nel tentativo di farla
stare chiusa. «Peter! Partiamo.»
Howell era sul marciapiede davanti all’aeroporto ugandese di Entebbe, girato
di spalle, con le mani affondate nelle tasche dei jeans scoloriti, nonostante il
caldo e l’umidità. Il vecchio edificio del terminal non c’era più, ma l’aeroporto
rappresentava tuttora una sorta di santuario per gli uomini che avevano fatto
parte delle forze speciali di tutto il mondo.
Nel 1976, ai tempi del presidente Idi Amin, un gruppo di terroristi palestinesi
aveva dirottato un aereo dell’Air France con a bordo duecentocinquanta
passeggeri, partito da Tel Aviv e diretto a Parigi, obbligando il pilota ad atterrare
in Uganda. Dopo aver rilasciato qualche passeggero, i terroristi minacciarono di
uccidere gli ostaggi rimasti a bordo se non fossero stati liberati alcuni loro
compatrioti, detenuti in Israele.
96
«Peter!» lo chiamò Sarie, caricando a forza il suo zaino sul sedile posteriore e
infilandosi accanto al bagaglio. «Cosa stai guardando? Il tassametro corre!» La
sua voce lo risvegliò da una sorta di trance e salì in macchina di fianco a lei.
«Tutto bene?» gli domandò Sarie.
«Ma certo, mia cara. Perché non dovrei stare bene?» Smith lanciò una rapida
occhiata alle sue spalle, per poi sistemarsi meglio sul sedile di plastica, rattoppato
con abbondante nastro adesivo, mentre il taxi s’immetteva nel traffico. Per
qualche minuto guardò dal finestrino le colline verdeggianti punteggiate di case,
ma faceva sempre più fatica a tenere gli occhi aperti. Il tragitto fino in città e poi
all’hotel non sarebbe durato più di mezz’ora, ma forse poteva approfittarne per
riposarsi un po’. Se aveva fatto bene i calcoli, nelle prossime due settimane
avrebbe avuto ben poche occasioni per dormire.
Affermare che la situazione al momento non era ottimale era l’eufemismo del
secolo. Tutto l’equipaggiamento protettivo di cui disponevano erano guanti
chirurgici e qualche mascherina recuperati al volo nella cantina di Sarie.
Praticamente non sapeva nulla di quel parassita misterioso e neppure se
esistesse davvero. C’erano solo delle ipotesi sulla sua modalità di propagazione e
nessuna idea su come attaccasse le vittime. E i pazienti, anziché offrirgli in dono
degli animali, come era accaduto l’ultima volta che aveva lavorato in Africa, con
tutta probabilità per sdebitarsi avrebbero cercato di farlo a pezzi.
E poi c’era Caleb Bahame, un soggetto che aveva introdotto la jeep come
97
innovazione tecnologica alla pratica di tortura barbarica del drawing and
quartering, quella in cui le vittime venivano trascinate da un cavallo, prima di
essere squartate. Non sarebbe certo stato contento di ritrovarsi tre bianchi che
ficcavano il naso e facevano domande nel suo territorio…
Smith sobbalzò sul sedile per l’improvviso colpo di clacson. Strizzò gli occhi
nel sole abbagliante, senza capire per un attimo dove si trovasse. Davanti a loro,
alti palazzi moderni interrompevano il profilo delle verdi colline, creando uno
skyline vagamente sovietico che sovrastava i tetti rossi e le strutture bianche di
epoca coloniale.
«Ti ho detto di girare qui!» esclamò Howell, alzandosi dal sedile e afferrando
il volante. Il taxi sobbalzò malamente su una strada sterrata, tanto da mandare
Smith a sbattere contro la portiera malferma. Si afferrò al cruscotto e per un pelo
riuscì a non essere sbalzato fuori.
«Cosa diavolo fai, Peter?» chiese, provando a richiudere lo sportello.
«Pensavo di fare un giro panoramico.»
Howell allungò tre banconote da cento dollari all’autista, il quale ormai non
sapeva se avere più paura dell’uomo seduto dietro di sé o di ciò che stava davanti
al muso della macchina. Il denaro sciolse il dilemma.
98
Smith riuscì a richiudere la portiera e si girò per quanto gli consentiva lo
zaino posato sulle ginocchia. Non era stupito del fatto che Howell non gli avesse
detto del suo passato in Uganda, del resto il loro rapporto era basato
essenzialmente sui segreti. Tuttavia, era seccato per il suo cambiamento di
umore, poiché l’ex SAS, in genere posato e calmo, era diventato imprevedibile.
Non aveva mai avuto motivo di mettere in dubbio il giudizio di Howell prima
di allora, ma percepiva qualcosa di strano. Fino a che punto poteva lasciarlo
andare a briglia sciolta prima di tirarla di colpo?
«Okay, adesso basta, Peter» proruppe Smith afferrando la leva del cambio e
mettendola in folle. «O ci dici cos’hai in mente, oppure facciamo marcia indietro
e ce ne andiamo di qui il più in fretta possibile.»
L’inglese lanciò un’occhiata al sedile posteriore, dove Sarie, in ginocchio,
osservava la folla avvicinarsi alla macchina. A differenza del mitragliere, quelle
persone avevano avuto il tempo di riflettere sulla presenza di quegli stranieri e
99
avevano già preso una decisione.
Che non avrebbe accontentato tutti.
100
Capitolo 25
Lei si girò appena. I suoi occhi neri, scrutandogli il profilo della mandibola, gli
causarono all’improvviso un intollerabile senso di claustrofobia. All’ultimo
101
momento si fece largo tra le persone di fronte alla porta e si precipitò fuori.
L’atrio era quasi deserto e si fermò sotto una ventola di aerazione,
concentrandosi per controllare la respirazione e asciugandosi il sudore sotto il
getto di aria fresca.
Non si era lasciato prendere dal panico. L’aveva fatto. Ma per qualche motivo,
non aveva provato il sollievo che si era aspettato.
Continuava ad avere quell’orribile sensazione di essere in trappola.
Con quel foglietto si era, per così dire, lanciato dal trampolino e non poteva
più tornare indietro. Poteva solo sperare che la piscina non fosse vuota.
102
Capitolo 26
Furono obbligati a scendere dal veicolo e Smith afferrò Sarie per un braccio
per impedire agli uomini di trascinarla via e cercando di mettersi davanti a lei in
modo da farle scudo.
«Hai un piano?» gridò Smith da sopra il tetto dell’auto, incerto se essere più
in collera con Howell o con se stesso. «Oppure hai scelto proprio oggi per
suicidarti?» «Andiamo a fare un po’ di shopping» rispose l’inglese in tono
enigmatico.
Un giovane con una T-shirt sbrindellata dei Puffi diede a Smith uno spintone
e questi reagì allo stesso modo, facendo cadere l’altro a terra. «Sta’ indietro!» Il
ragazzo si rialzò rapido, afferrando il mitra che aveva a tracolla, e Smith gli si
scagliò contro. Qualcuno alla sua sinistra gli tirò una gomitata e Jon si piegò per
evitarla, senza staccare gli occhi dalla Heckler & Koch compatta puntata su di sé.
Poi tutto si fermò. Dall’arco nel muro si levò un secco comando e il giovane
con il mitra fece un passo indietro, lasciando la presa sull’arma.
«Peter, amico mio!» disse una voce dal forte accento straniero. Gli ultimi
astanti si allontanarono all’arrivo di un uomo alto e dalla pelle scura.
103
«Mi scalda il cuore rivederti» aggiunse, continuando a stringere la mano
dell’inglese. «Non avrei mai osato nemmeno sognarlo.» «Anch’io sono felice di
vederti, Janani. Ti presento i miei amici, Sarie e Jon.» L’uomo fece ai tre un
cenno con la mano. «Venite. Togliamoci da questo sole.» Smith lanciò
un’occhiata a Sarie e si strinse nelle spalle, prendendola per il gomito prima di
seguire i due uomini oltre l’arco di pietra.
Passando da una porta sul retro uscirono su un patio coperto, dove era
esposto uno stupefacente assortimento di armi, allineate su rastrelliere. Ai loro
piedi s’inerpicava una collina lussureggiante e dalla sommità piatta. Sul fianco
erano installati numerosi bersagli a distanze regolari.
«Jon» disse Janani, girandosi verso Smith. «Cosa usi, di solito?» «Sig Sauer.
O Beretta, qualche volta.» L’africano si accigliò, poco convinto. Si voltò a
prendere una pistola da un espositore in gommapiuma.
Smith l’accettò, ma dopo pochi secondi Janani gliela tolse di mano con una
smorfia di disgusto.
«Assolutamente inadatta» borbottò, scegliendone una dal calcio un po’ più
massiccio. «Dimmi come ti trovi con questa.»
Smith dovette ammettere che non era niente male: aveva la stessa
apprezzabile solidità della Sig Sauer, ma era meno pesante.
«Ti dispiace?» domandò Smith, indicando i bersagli.
«Prego.» Sparò un colpo alla sagoma posta a cinquanta metri, centrandola in
104
pieno.
«Vedi, è perfetta» commentò Janani, con l’orgoglio del bravo artigiano nella
voce.
105
Tutti e tre si chinarono all’unisono quando un’esplosione fece vibrare il
traballante tetto di paglia sopra le loro teste. Si udirono delle grida all’interno
dell’edificio e arrivarono di corsa diversi uomini armati, mentre Sarie batteva le
mani, tutta allegra. «Ma dietro c’era della dinamite? Fantastico!»
106
Capitolo 27
Kampala, Uganda
«No» ripeté Smith per la quinta volta. «Hospital. Prima vogliamo andare
all’ospedale.» La deviazione di Howell, per quanto proficua, non aveva lasciato
loro il tempo di passare dall’albergo prima dell’appuntamento con il direttore del
principale ospedale di Kampala.
«No problem. Hotel.» Smith emise un gemito e si abbandonò sul sedile.
107
«Salve, sono il dottor Jon Smith, e la signora è la dottoressa Sarie van Keuren.
Abbiamo appuntamento con il dottor Lwanga.»
La donna si alzò con sorprendente agilità da dietro una piccola scrivania.
L’iniziale cipiglio si trasformò in un largo sorriso. «Certo» disse con un leggero
accento africano. «Vi stavo aspettando. Se volete seguirmi, prego, da questa
parte.»
Li guidò a pochi metri di distanza, fino alla porta aperta di un ufficio, e si
scostò di lato per farli entrare.
«Il dottor Lwanga?» esordì Smith, rivolto a un uomo con gli occhiali, fermo in
una postura strana, forse eredità di una poliomielite infantile. Chiuse di scatto il
libro che aveva in mano e venne loro incontro zoppicando. «Dottor Smith,
dottoressa van Keuren. È un grande onore per me.»
«Anche per noi» rispose Sarie. «Avete una bella struttura, qui.» «Non
disponiamo di molti mezzi economici» ammise il medico. «Ma si fa quel che si
può.» «Di certo lei è molto impegnato, dottore, e non abbiamo intenzione di
portarle via molto tempo…» iniziò Smith.
«Ma figuratevi. Cosa posso fare per voi?» Smith lasciò la parola a Sarie, come
convenuto. Era una piccola celebrità nel continente per i suoi studi sulla malaria,
e sapeva meglio di lui quali fossero le domande giuste da porre. Lui avrebbe solo
controllato che Sarie non si facesse prendere dalla foga e rivelasse troppo.
«Siamo venuti da lei perché da alcuni rapporti è emerso che può colpire anche
gli esseri umani, causando sintomi simili a quelli della rabbia, squilibrio mentale
e forse un sanguinamento dei follicoli piliferi. Inoltre sembra confinato al nord
del Paese, dove è nato lei, giusto?»
Lwanga si era irrigidito. Sarie continuò: «Non siamo riusciti a trovare
informazioni su quali potrebbero essere gli organismi ospite del parassita, né in
realtà alcuna conferma della sua esistenza. Questo le dice qualcosa?».
108
contatti.» Alzò la mano in un palese gesto di congedo. «Mi dispiace, non posso
aiutarvi. Adesso scusatemi, devo fare il mio giro di visite.»
«Sapeva di cosa stavi parlando, Sarie. Hai notato il servizio da tè vicino alla
scrivania?» «Ja.» «Quante tazze hai contato?» «Quante tazze? Non saprei.»
«Ah» disse Smith. «Tu vedi, ma non osservi.»
«Ha parlato Sherlock Holmes» ribatté lei sorridendo. «Allora io dovrei fare
Watson?» «Non ancora. Ma potresti arrivarci. C’erano tre tazze e dalla teiera
usciva del vapore. Gli africani sono educatissimi, lo sai meglio di me.»
Lei annuì piano. «Pensava di offrirci il tè.» «Fino a quando tu non ti sei
messa a parlare di pazzoidi che sanguinano dai capelli.»
«Anche quella storia di aver perso i contatti con il suo villaggio è una
menzogna, Jon. L’educazione degli africani non è nulla, rispetto alla loro
devozione e al loro attaccamento alla famiglia.»
Attraversarono la strada e Smith aprì la portiera del taxi. «E così, il mistero
s’infittisce.» Il dottor Oume Lwanga era in piedi davanti alla finestra e guardava
la strada, in basso. Stringeva forte tra le dita il telefono umido di sudore per non
farlo scivolare a terra.
«Forse c’è una persona sul sedile posteriore, ma da dove mi trovo è difficile
capirlo. Devo…» La comunicazione venne interrotta all’altro capo del filo e
109
Lwanga rimase a guardare il taxi mentre si staccava dal marciapiede, con un
improvviso senso di colpa. Ora il loro destino era nelle mani di Dio.
110
Capitolo 28
Uganda settentrionale
Omidi era atterrato in Uganda nove ore prima ed era stato subito condotto al
luogo del rendez-vous stabilito da Caleb Bahame. Si era aspettato di essere
prelevato da qualcuno in auto per andare poi all’accampamento. Invece aveva
fatto un tragitto di tre ore, bendato, nel retro di uno sgangherato mezzo militare.
E non era ancora finita.
L’uomo davanti a lui si girò a guardarlo con aria truce e gli disse qualcosa
nella sua lingua, quindi riprese il cammino.
111
sarebbero ritirati con la coda tra le gambe, come cani bastonati.
Il sole era basso sull’orizzonte, e ciò non fece che aumentare in lui rabbia e
frustrazione. Presto avrebbero dovuto fermarsi. Mentre le guide erano ben
equipaggiate di alcolici e materiale pornografico, nessuno sembrava aver pensato
di portare una torcia o dei visori notturni.
Accelerò il passo e affiancò l’uomo davanti a lui, ma in quel momento udì un
richiamo riecheggiare nella foresta. Anche gli altri lo sentirono e lo accolsero con
grida eccitate di giubilo e sparando in aria con i fucili d’assalto.
Bahame.
Visto da vicino, Caleb Bahame era una figura regale, dai lineamenti decisi, la
pelle scurissima e priva di imperfezioni, nonostante vivesse da anni in
accampamenti simili a quello. I suoi movimenti erano plateali, quasi
coreografati, ad accentuare ogni sua parola. Vedere Bahame là in alto, sentire la
sua presenza carismatica faceva capire molto bene come quell’uomo avesse
accumulato un così grande potere, e in così poco tempo.
112
dopo aveva armato un gruppo di seguaci abbastanza numeroso da iniziare a
convertire i contadini locali, non importava se convinti dei suoi dogmi o meno.
Bruciava i villaggi, stuprava le donne e rapiva i bambini, imparando man mano a
manipolare le loro giovani menti per trasformarli in una forza di combattimento
priva di limiti morali o religiosi che non fossero dettati da lui.
Con il passare del tempo, il suo culto religioso divenne più politicizzato e
maggiormente incentrato su se stesso. Si era presentato come l’incarnazione
suprema di Maometto, di Gesù, di Karl Marx, soffiando sul fuoco dell’animosità
tribale e promettendo una società utopica dove latte e miele sarebbero scorsi in
abbondanza per tutti, senza necessità di lavorare o fare fatica. Ora Bahame
contava migliaia di seguaci e non era più in grado di individuare il confine tra sé e
Dio.
Omidi salì sul palco e Bahame lasciò il megafono per accoglierlo. La loro
stretta di mano fu salutata da alte grida.
«Mehrak, amico mio» esordì Bahame in un ottimo inglese. «Dio me l’aveva
detto che ti avrebbero condotto sano e salvo da me.» «Sia lodato il suo nome.»
Bahame sorrise e si voltò per aprire con la penna di un martello una cassa di
whiskey. I suoi seguaci accolsero esaltati il dono delle bottiglie lanciate loro da
Bahame, il quale ne tenne una per sé.
«Grazie alla mia magia abbiamo ottenuto numerose vittorie, e questa gente
mi ama» commentò, spezzando il collo della bottiglia. Dal suo sguardo, chiaro e
diretto, era impossibile capire cosa pensasse. Era un uomo da affrontare con
estrema cautela.
«Sei un grande capo.» «Sì, ma l’Uganda è un Paese vasto, dove c’è tanto male.
La mia magia non basterà per sconfiggerlo. Nemmeno la mia magia.»
Omidi annuì con aria grave. «Tutti i grandi capi, e in generale tutti i grandi
uomini, devono affrontare lo stesso problema. Non puoi contare solo sulle tue
forze. E affidarsi agli altri è… un azzardo.» «Dici bene, Mehrak.» «Vorrei vedere
la tua magia in azione, per capire se possiamo imparare a maneggiarla senza
l’ausilio del tuo potere.»
Sembrò lusingato da quella frase e prese un lungo sorso dalla bottiglia, prima
di porgerla al suo ospite.
«Il mio Dio non me lo permette» disse l’iraniano.
«E invece sì.» Omidi sorrise educatamente, sforzandosi di mantenere uno
sguardo mite e sereno. Bahame stava dicendo di aver parlato con Dio in suo
favore? O forse credeva di essere Dio?
113
Un brusio serpeggiò tra la gente di Bahame e Omidi ne approfittò per girarsi a
vedere cosa li avesse distratti dai loro litigi per impossessarsi del liquore.
Un gruppo di miliziani simile a quello che l’aveva scortato fin lì irruppe nella
radura, trascinando un africano che si dibatteva, ferito.
Dietro di loro comparve un bianco sulla settantina, terrorizzato ed esausto.
Bahame saltò giù dal palco e Omidi lo seguì, tenendosi a una distanza
sufficiente per osservare la scena senza rischiare di esserne coinvolto.
«Dov’è la donna?» chiese Bahame con voce dura.
Uno degli uomini spinse il ragazzo ferito ai suoi piedi. «Dembe se l’è lasciata
scappare.» La gamba destra dei pantaloni del giovane era stata tagliata e intorno
alla coscia aveva una fasciatura sporca di sangue. Cercò di strisciare via, ma fu
bloccato dall’anello impenetrabile di uomini armati che si era formato attorno ai
nuovi arrivati.
Bahame indicò il bianco. «Chi è quello?» «Un dottore. L’abbiamo preso per
non far morire questo maiale e portartelo vivo.» Bahame spalancò gli occhi e
fissò il suo sguardo sul giovane implorante ai suoi piedi.
114
L’iraniano esitò un momento, guardando il ragazzo scosso da deboli spasmi
sul terreno intriso di sangue. Poi fece un passo avanti e accettò il liquore, facendo
un brindisi al suo ospite prima di portare la bottiglia alle labbra.
115
Capitolo 29
Kampala, Uganda
Jon Smith rivolse il viso verso il getto di acqua tiepida della doccia, lasciando
scorrere via la polvere e il sudore. L’hotel si era rivelato perfetto: molto
tranquillo, quasi deserto e abbastanza fuori mano da non attirare l’attenzione.
«Posso farvi compagnia?» «Jon!» esclamò Sarie. «Ma guardati! Come sei
bello, tutto pulito!» «Stavo per dire lo stesso di te.» Portava un’ampia gonna a
fiori e un top aderente, che metteva in evidenza il suo fisico atletico. I capelli
erano sciolti sulle spalle.
Mentre si sedeva arrivò il cameriere. Servì alcune bibite in una mezza noce di
cocco e aggiunse un coperto nel quale spiccava un coltello così grosso da poterci
squartare un rinoceronte.
116
zebra» osservò in tono scherzoso, guardandosi attorno. Erano quasi le dieci di
sera e la maggior parte degli ospiti si era ritirata in camera. C’era ancora qualcuno
al bar e una giovane coppia scandinava seduta sul bordo della piscina a bere birra,
ma nessuno a portata di orecchio.
«Quali sono i programmi per domattina?» domandò Sarie.
«Ce ne andiamo senza dare nell’occhio, cercando di portare via da qui
l’insegna al neon che lampeggia sulle nostre teste.»
«Cosa intendi dire?» «Forse la deviazione dall’amico di Peter e il nostro
incontro con il dottor Lwanga non sono stati esattamente il modo più anonimo
per iniziare il nostro viaggio.» Sarie si protese verso di lui sopra il tavolo. «Tutta
questa clandestinità è piuttosto elettrizzante, devo dire. Mi sento quasi un agente
segreto.» Howell si trattenne a stento dallo sputare la misteriosa bevanda che
aveva portato alle labbra.
117
Prima che Smith potesse reagire, si era già seduto sulla sedia vuota tra lui e
Sarie.
Dapprima Jon pensò che fosse il direttore dell’hotel, ma poi intravide il
luccichio di una pistola nascosta sotto il piano del tavolo.
«Peter!» esordì l’uomo, con un marcato accento olandese. «Sei qui in città e
non ti sei nemmeno fatto sentire. Voi inglesi non eravate quelli educati?»
Howell conservava un’espressione tranquilla, mentre Sarie era piuttosto
agitata. Era impossibile capire se era perché aveva visto la pistola o solo perché
nei suoi viaggi aveva già conosciuto uomini di quel genere. Visto da vicino aveva
tutto l’aspetto di un mercenario, uno dei tanti che si erano fatti le ossa nella
guerra in Angola e poi avevano passato il resto della vita a combattere battaglie
sanguinose nel resto del continente.
118
«Guardami bene, Sabastiaan. Mi credi sul serio un professore?»
Il sorriso sul volto del mercenario si spense. Essere in grado di soppesare con
cura un avversario era tra le qualità più importanti, per un uomo nella sua
posizione, e stava iniziando a capire quanto si fosse sbagliato.
«Ho una pistola puntata sul tuo amico» replicò, con qualche esitazione. «Mi
basta solo premere il grilletto.» «Sarebbe una seccatura. Dovrei trovare un’altra
guida, e poiché intendo ficcarti questo coltello nel collo fino a sfondarti il cranio,
tu saresti fuori gioco.»
Smith sentì spalancarsi la porta d’ingresso dell’hotel, ma non osò staccare gli
occhi da Sabastiaan, anche quando alle sue spalle sentì il tonfo di passi pesanti.
«Metta giù il coltello!» ordinò una voce con forte accento straniero.
«Ha una pistola» si giustificò Smith. «Sta…» «Lo metta giù subito!» «Fallo»
intervenne Sarie. «Ma lentamente.» Howell annuì in segno di intesa e Smith
appoggiò il coltello sul tavolo. Subito dopo si sentì sollevare dalla sedia e i quattro
furono circondati da militari armati.
«Lasciatemi spiegare» protestò Smith, mentre gli legavano le braccia dietro la
schiena con una fascetta di plastica. «Noi siamo…»
«Chiudi il becco!» lo zittì qualcuno alle sue spalle, colpendolo alla nuca con
tanta violenza da fargli annebbiare la vista. Le persone sedute al tavolo erano
diventate una massa indistinta.
119
Capitolo 30
«Cosa c’è di tanto importante, Dave? Non potevi proprio aspettare?» Collen
chiuse la porta alle sue spalle, con un’energica spinta.
«Abbiamo un problema con Brandon, Larry.» «Di che genere?» Collen
appoggiò il suo computer portatile sulla scrivania di Drake e fece partire un video
della sorveglianza, in cui si vedeva un ascensore pieno di persone. «Guarda qui.»
«C’è stato un lieve sobbalzo, lui ha urtato la donna al suo fianco e poi è uscito.
Dove vuoi arrivare, Dave?» «Le ha infilato qualcosa in tasca. Guarda di nuovo.»
Drake guardò per la terza volta il video, aggrottando la fronte. In effetti era
possibile interpretare quel movimento del braccio come se avesse portato la
mano alla tasca della giacca di lei, ma poteva anche non significare nulla.
«Apprezzo la tua pignoleria, Dave, e forse a questo punto c’è un pizzico di
paranoia, ma…»
«Sai chi è quella donna?» «No.» «Randi Russell.» Drake ne aveva sentito
parlare, come tutti all’Agenzia, ma non l’aveva mai conosciuta di persona.
«Secondo le voci più recenti pare stesse dando la caccia a qualche dinamitardo
talebano nell’Hindu Kush.» «Già. Però poi c’è stato un incidente.» «Quale
incidente?» «Il terrorista si è scontrato con uno dei proiettili di Randi ed è
120
precipitato da un dirupo alto duecento metri. Lei è tornata al quartier generale e
ci resterà per un paio di mesi, fino a quando le acque in Afghanistan non si
saranno calmate.»
«Okay, ma lei e Brandon non avrebbero avuto modo di conoscersi perché, per
quanto ne so, lei ha lavorato in tutti i continenti del pianeta, tranne l’Africa.
Anche se tu avessi ragione e lui fosse in difficoltà, perché dovrebbe rivolgersi a
lei?» Collen si lasciò cadere su una delle poltroncine di fronte alla scrivania di
Drake. «Tempo fa Smith aveva una fidanzata. È morta per un’infezione del virus
Hades.»
«E allora?» «Si chiamava Sophia Russell.» Drake sentì un nodo allo stomaco,
lo stesso che lo perseguitava dall’inizio di quell’operazione. «Sono parenti?»
«Erano sorelle. E non escludo che lei e Smith si frequentino.» Drake tornò a
guardare il fermo immagine sul monitor per un attimo.
«Potrebbe sempre trattarsi di una coincidenza.»
«Ci sono altre riprese della sicurezza sui movimenti di Brandon dopo essere
uscito dall’ascensore. Non aveva nulla da fare a quel piano, ha imboccato
direttamente le scale ed è andato nel suo ufficio.» Drake sentì il nodo allo
stomaco afferrargli il petto. «Lei l’abbiamo controllata?»
«Non appena ho ricevuto il video, l’ho fatta chiamare per una riunione.
Abbiamo alzato il riscaldamento e lei si è tolta la giacca.
Alla pausa caffè ho frugato nelle sue tasche. Niente.» «Allora, o non c’era
nulla fin dall’inizio…» «Oppure ha ricevuto il messaggio.»
Drake aprì un cassetto e prese due aspirine, buttandole giù senz’acqua nella
speranza di bloccare sul nascere il mal di testa imminente. «Se le ha passato
qualcosa, poteva essere qualunque cosa, un invito per una chat room privata o un
indirizzo e-mail per scaricare una dissertazione completa su tutte le nostre
operazioni.»
«Ho passato al setaccio tutta l’attività del suo computer» continuò Collen. «È
furbo, quel piccolo bastardo, ma ha lasciato una traccia: stava cercando qualcuno
da contattare. Sono abbastanza sicuro di essere riuscito a ricostruire tutte le sue
mosse.» «Allora ci sarà un luogo, una data. Un appuntamento.» Collen annuì.
«Se ti sbagli e lei ha informazioni su di noi…»
121
fermandosi su un tappeto con il logo della CIA.
«Siamo pronti a muoverci contro Gazenga?» «Lo siamo sin dal suo primo
giorno all’Agenzia. Procediamo?» «Possiamo permettercelo?»
«Non in questo momento» replicò Collen. «Omidi dovrebbe essere in Uganda
e Brandon sta usando i suoi contatti per avere conferma di questa ipotesi,
contatti con i quali io non ho alcun rapporto. Ma d’altra parte, possiamo
permetterci di non procedere?»
«Accidenti a Castilla e alla sua squadra di operativi! Le cose non avrebbero
mai dovuto complicarsi fino a questo punto. Procedi.
Liberati di lui. E porta a termine il lavoro, Dave. Niente scuse.»
«E la Russell?» «Vale lo stesso discorso, no? Farla fuori è pericoloso. Ma
tenerla in vita è un atto potenzialmente suicida.» «Abbiamo considerato
l’eventualità di trattare con lei?»
Drake annuì.
«Inizierò a gettare le basi, ma ci vorrà del tempo. Se si tratta di rialzarsi
quando la si è data per morta, Randi Russell è una maga. È necessario pianificare
tutto nei minimi particolari.» «Non abbiamo tempo da perdere, Dave. Voglio
vedere un elenco completo delle opzioni possibili entro domani pomeriggio.»
122
Capitolo 31
123
Howell incrociò le braccia sul torace, quasi noncurante dei tre fucili puntati
contro di lui.
Fece il suo ingresso un altro uomo, dall’aspetto familiare. Era altissimo, con
due gambe esili, all’apparenza inadeguate a sostenere il torace massiccio e le
innumerevoli medaglie appuntate sull’uniforme.
I soldati trasportarono nella stanza una poltrona in pelle e una scrivania con il
logo presidenziale. Sembutu si sedette, aprendo i loro passaporti. «Dottoressa
van Keuren, la sua reputazione la precede» esordì, scrutando freddamente Smith.
«E nonostante questo passaporto falso, purtroppo lo stesso vale per il signor
Howell. Ma lei… lei è un’incognita.»
«Mi chiamo Jon Smith e sono un medico microbiologo, lavoro con…» «Lei fa
parte dell’Esercito degli Stati Uniti» lo interruppe Sembutu.
«E ha un passato piuttosto movimentato, giusto? Forze speciali, servizi
segreti militari. E a quanto mi dicono, sarebbe anche un esperto di coltelli.» «È
stato…» «Lei parli solo quando le faccio una domanda diretta» esclamò Sembutu,
battendo una mano robusta sul piano del tavolo. «Cosa sta facendo nel mio
Paese?»
124
dall’Uganda da quando lei è diventato presidente. Ma so anche quanto sia difficile
portare le riforme nelle aree rurali più lontane, e quindi ho deciso di muovermi
con prudenza.»
Un sorriso duro si aprì sul volto di Sembutu. «Io non sono un sempliciotto,
dottore. Non è facile manipolarmi, e lei se ne accorgerà presto.» «Non era mia
intenzione, signore. Io…» «Perché siete andati all’ospedale?» Smith aveva
passato buona parte delle ore di prigionia a immaginare il motivo del loro arresto
ma non era stato semplice. Era trascorso troppo poco tempo tra la visita
all’ospedale e la loro puntatina dal mercante d’armi di Peter.
«Volevamo parlare con il dottor Lwanga di alcune ricerche su un parassita
umano che stiamo studiando. Noi…»
«E poi avete fatto riferimento a qualcosa di molto simile agli attacchi di Caleb
Bahame ai villaggi del nord.» Smith fece una faccia smarrita. «Caleb Bahame? Il
terrorista? Non capisco, signore. Questo parassita provoca squilibrio mentale ed
emorragie. Cosa c’entra con Bahame?» Sembutu lo studiò attentamente, senza
lasciar intendere se credeva alla sua bugia, tutto sommato plausibile. Di solito gli
americani non si occupavano delle tante guerriglie in atto in varie zone
dell’Africa.
Perché un medico militare avrebbe dovuto essere al corrente della dinamica
dei raid di Bahame?
125
per la dottoressa van Keuren, avreste rischiato di diventare ospiti delle nostre
carceri. Ma i suoi studi sulla malaria sono stati di grande aiuto per tutti gli
africani e sono al corrente della sua attività sugli insetti.» Tese loro i passaporti
oltre il piano della scrivania. «Ho inserito un biglietto da visita con il mio numero
telefonico personale. Se doveste avere problemi, vi autorizzo a usarlo. E se nel
corso delle vostre ricerche doveste venire a conoscenza di informazioni su
Bahame e il suo esercito, vi sarei grato se me le comunicaste. Il vostro e molti
altri governi criticano i miei metodi e la mia legittimità, lo so. Però mi sembrate
persone concrete, in grado di comprendere come va il mondo. E dunque capirete
anche che, pur non essendo ben visto dall’Occidente, in questa situazione io
rappresento il male minore.» Smith rimase immobile, un po’ stupito per quel
cambiamento di umore tanto repentino da sembrare quasi schizofrenico.
Sembutu stava concedendo loro l’opportunità di andarsene, in cambio solo della
remota possibilità di ottenere da loro qualche informazione?
Smith lavorava a Fort Detrick ed era stato tra gli artefici della lotta al virus
Hades, causa di un’epidemia che aveva mietuto numerose vittime in Occidente.
Solo un idiota poteva credere che uno dei più famosi esperti americani di armi
biologiche si fosse messo in aspettativa per venire a studiare gli insetti in
Uganda. E Sembutu non era di certo un idiota, se era diventato uno degli uomini
più potenti d’Africa.
Era una situazione molto pericolosa e sembrava essere fuori controllo ogni
giorno di più. Di norma gli americani avevano un approccio distaccato nei
confronti delle questioni africane, purché non minacciassero i loro interessi. In
quel caso, invece, la loro apatia si sarebbe radicalmente trasformata. Non era
davvero il caso di andare a svegliare il can che dorme.
126
parassita delle formiche.» «Formiche!» ripeté Omidi con un tono sprezzante.
«Hanno di lei una considerazione così bassa da pensare che possa credere a una
fandonia del genere?»
Sembutu sentì crescere l’irritazione. Era ancora più sgradevole trattare con gli
iraniani che con gli americani. Nonostante tutte le loro chiacchiere sull’arroganza
dell’Occidente, l’incrollabile convinzione degli iraniani di essere il popolo eletto
da Dio era allo stesso tempo insopportabile e pericolosa. In quel momento, però,
loro erano nella posizione di dargli ciò di cui aveva più bisogno. A differenza degli
americani.
«Questa cosa va sistemata» continuò Omidi.
«Cosa intendi per “sistemata”?»
127
Capitolo 32
Se l’era già riproposto diverse volte, ma ora intendeva farlo sul serio: quel fine
settimana avrebbe noleggiato un furgone per portare in discarica tutta quella
roba. Inoltre aveva intenzione di assumere un consulente organizzativo,
preferibilmente un’arcigna signora inglese un po’ in là con gli anni, con tanto di
frustino. Era arrivato il momento di riprendere il controllo della sua vita.
La casa non era in condizioni migliori, ma almeno era calda. Accese le luci e si
guardò attorno prima di dirigersi in cucina. L’operazione in Uganda era per lui
una spina nel fianco da mesi, ma ora stava cominciando a tormentarlo sul serio.
Smith e la sua squadra erano stati arrestati e le prime notizie, secondo cui si
attribuiva la causa dell’arresto a una rissa in hotel, si erano subito rivelate
inattendibili quando aveva saputo che erano stati condotti in una base militare ad
alta sicurezza.
Inoltre gli era giunta voce della presenza di Mehrak Omidi in Uganda
settentrionale. Per concludere, e forse questa era la cosa peggiore, c’era Randi
Russell e quel biglietto che le aveva fatto scivolare in tasca.
L’aveva già trovato? Cosa avrebbe pensato della richiesta di incontrarsi con
uno sconosciuto? Avrebbe fatto rapporto?
In realtà non aveva alcun modo di saperlo. Era solo un analista con manie di
grandezza. Tutte le sue conoscenze sugli incontri clandestini derivavano dai film
di James Bond, come per chiunque altro.
Questo però non era un film d’azione e lui non era Sean Connery.
Drake e Collen avevano rischiato la carriera, e forse anche la vita, per questa
operazione e non sarebbero stati felici di scoprire che un signor Nessuno stava
lavorando alle loro spalle da un seminterrato di Langley. No, non avrebbero
gradito affatto.
128
Aprì il frigorifero e passò in rassegna alcuni contenitori da asporto finché
trovò qualcosa dall’aspetto ancora commestibile.
Si spostò nel soggiorno senza accendere la luce, lasciandosi cadere su una
poltrona di cuoio e pescando un pezzetto di carne dal cartone del pollo tailandese
con una forchetta già usata. Da tempo aveva abbandonato le fantasie romantiche
sul lavoro operativo. Qui non c’erano panama a tesa larga o ventilatori a soffitto.
Niente super modelle né fuoriserie. C’era solo la costante e sgradevole
sensazione di aver commesso a un certo punto un errore madornale, e della
presenza di qualcuno dietro di te pronto a fartela pagare.
Adesso però non poteva più tornare indietro. Randi Russell aveva il suo
biglietto e se non si fosse presentato all’appuntamento, difficilmente lei avrebbe
digerito la cosa. Era ritenuta una persona molto tenace, e questa era una delle
ragioni per cui l’aveva scelta.
Aveva lasciato il cellulare nella tasca dei pantaloni e nello scendere dal letto si
bloccò. Le tende oscuranti acquistate di recente per dormire meglio erano chiuse,
ma alla debole luce della sveglia colse una forma indistinta accanto alla porta.
Aveva forse messo una sedia per maggiore sicurezza? No, era una bottiglia di
birra. La sedia avrebbe dovuto essere… «Come ti senti, Brandon?»
129
Fu attraversato da un’intensa scarica di adrenalina e mise fulmineo la mano
sotto il cuscino. Niente. La pistola era sparita.
«Mi dispiace, ho dovuto prendertela. Non vorrei mai che ti facessi male.» Gli
sembrava di conoscere la voce, ma gli ci volle qualche istante per identificarla
fuori dal suo contesto usuale.
«Dave? Cosa diavolo ci fai qui?» disse Gazenga, mentre lo shock iniziale
lasciava il posto a un profondo senso di terrore.
Era per la Russell. Doveva essere per quello. In qualche modo l’avevano
scoperto.
130
Certo, c’erano tecniche più affidabili, ma erano molto più lente e lasciavano delle
tracce, cosa assolutamente da evitare. Le cause della morte del giovane dovevano
essere al di sopra di ogni sospetto.
«Ho qui l’antidoto, Brandon. Non siamo arrabbiati con te. Ti sei spaventato e
hai fatto un errore. Può capitare a tutti. Tu dimmi quello che voglio sapere, e
sistemeremo tutto.»
131
Capitolo 33
Questa volta la gente si fece da parte quando il taxi si avvicinò all’arco nel
muro. Si attirarono comunque gli sguardi di tutti, ma quasi nessuno mise mano
alle armi.
«Qui va bene» indicò Peter Howell allungandosi dal sedile posteriore per dare
all’autista i duecento dollari pattuiti. «Non aspettarci, puoi andare.» Scesero tutti
e tre dalla macchina e gettarono gli zaini sullo sterrato, prima di prendere dal
tetto della vettura l’attrezzatura scientifica di Sarie. Portarono dentro il materiale
aiutati da alcuni uomini di Janani. L’africano era seduto su un basso sgabello a
bere tè in loro attesa.
«Peter!» esordì, alzandosi per stringere la mano all’inglese. «Sei tornato sano
e salvo da me un’altra volta.» «Per un pelo. Sapevi che Sabastiaan era in città?»
«Me l’hanno riferito. Ma secondo me non è più un problema. E non è una grave
perdita per il resto del mondo, oserei dire.»
Seguirono Janani nel cortile esterno, dove erano schierati in bella mostra su
un tavolo due pistole fatte su misura e due fucili d’assalto di fabbricazione belga.
Sembravano armi ordinarie, anche se probabilmente non lo erano.
132
Janani porse l’arma a Sarie tenendola con due mani, ma si accigliò quando lei
rimase perplessa a fissare i fiori gialli e rosa. «Ho raccontato di lei alla più
giovane delle mie mogli e lei ha insistito per abbellirla con questi ornamenti. Ha
solo sedici anni e, mi imbarazza dirlo, non riesco a negarle nulla. Ma se preferisce
posso chiedere a uno dei miei uomini di sostituire il calcio prima della vostra
partenza.»
Uscì da sotto la macchina e s’infilò dal finestrino aperto del lato guida per
aprire il cofano e dare un’occhiata al motore. Le sue gambe si sollevarono da
terra per qualche secondo, sospese sopra la griglia del radiatore mentre esplorava
il vano motore. «Motore V8 small block dotato di snorkel: semplice, classico,
facile da riparare, pezzi di ricambio reperibili ovunque. Non c’è che dire, è
l’ideale.»
Janani si chinò per parlare all’orecchio di Smith. «È una donna
incredibilmente utile. Hai mai pensato di separarti da lei?» «Scusa?» «Magari
potremmo fare uno scambio alla pari. La macchina e le armi in cambio di lei.»
«Non credo proprio.» «No, certo. Ti chiedo scusa se ti ho offeso. La macchina, le
armi e cinquantamila dollari.» Smith sorrise. «La tua è un’offerta generosa,
Janani. Però c’è un problema: non è mia.» «Peccato.» Sarie saltò sul sedile e
133
cominciò a premere pulsanti sul quadro.
«Allora, cosa ne dici?» le gridò Smith. «Dobbiamo prenderla?» «Stai
scherzando? Ha i sedili in pelle e perfino l’entrata per l’iPod!»
134
Capitolo 34
Randi Russell uscì dal bosco e si fermò di fronte a una parete verticale alta
una decina di metri. Più in basso, il fiume Susquehanna scorreva nero e lucente
sotto la luna; alcune chiazze di neve spiccavano sulla ferrovia parallela, ora
abbandonata.
Non c’era modo di scendere, quindi si mosse verso est, costeggiando gli alberi
senza fare rumore. Le ci erano volute due ore per arrivare fin lì, e aveva
impiegato la maggior parte del tempo ad attraversare il labirinto di strade rurali
della Pennsylvania agricola. A eccezione di due automobili e un carretto Amish
trainato da un cavallo, non aveva incrociato nessuno. Erano le undici e mezza di
sera e in quella parte del mondo evidentemente tutti prendevano alla lettera il
proverbio «Il mattino ha l’oro in bocca».
Aveva evitato con cura l’ingresso più ovvio alla ferrovia, parcheggiando invece
sul bordo di una stradina sterrata appena visibile e addentrandosi nella boscaglia
in direzione del fiume. Di solito per questo tipo di appuntamenti preferiva i
luoghi affollati e quell’orario notturno le pareva un po’ insolito, ma la curiosità le
aveva impedito di lasciar perdere.
135
secondo, verificando di non essersi slogata una caviglia.
Jon Smith.
Gazenga non avrebbe potuto fare una scelta migliore, per il nome da scrivere
su quell’appunto. Per molto tempo aveva accusato Smith della morte di sua
sorella. Forse era ingiusto, ma lui incarnava quello di cui aveva bisogno in quel
momento: un bersaglio per la sua rabbia, la disperazione e il senso di
frustrazione. Stranamente, però, alla fine si era sentita vicina a lui più di ogni
altra persona al mondo.
Nonostante il loro strano rapporto, tuttavia, c’erano molte cose che non
136
sapeva di lui. Jon aveva sempre ribadito di essere solo un medico ricercatore, ma
poi continuava a farsi vedere in luoghi lontanissimi dal suo lavoro a Fort Detrick.
Al loro primo incontro, si era lasciata conquistare dal suo modo di fare da
«semplice medico di campagna». E non si era preoccupata troppo, la seconda
volta in cui le loro vite si erano incrociate: le coincidenze potevano accadere, di
tanto in tanto.
In seguito, però, le cose erano degenerate. Era un operativo, non c’era alcun
dubbio, e non lavorava per nessuna delle sigle note.
Il suo contatto aveva cinque minuti buoni di ritardo, come le rivelò una rapida
occhiata al telefono.
Il freddo stava iniziando a penetrarle nelle ossa. Era diventata più sensibile
dopo un intervento chirurgico andato male, subito su un’isola nei pressi del
circolo polare artico. Dove avrebbe potuto essere sepolta, se non fosse stato per
Smith.
Si alzò in piedi, stringendosi con le braccia, senza muoversi troppo per restare
mimetizzata tra gli alberi.
Forse anche Gazenga era in attesa da qualche parte, ma certo lei non sarebbe
rimasta lì a lungo, con in tasca solo il biglietto di uno sconosciuto. Nel corso degli
anni si era fatta troppi nemici per stare ferma lì, a fare da facile bersaglio.
«Sì?» rispose una voce assonnata. «Pronto?» «Trip, sono Randi.» «Randi?
Cosa… Ma lo sai che ore sono negli States?» Non aveva l’abitudine di raccontare
a tutti dove si trovasse e non vedeva il motivo di dire la verità al suo amico. «Le
137
due del pomeriggio, giusto?» «No, sono le due del mattino.» Conosceva Jeff
Tripper da oltre cinque anni, da quando avevano collaborato alla cattura di un
terrorista afghano che era riuscito ad attraversare il confine con il Messico. Da
allora, la sua carriera nell’FBI aveva fatto un balzo in avanti e negli ultimi tempi
era diventato il direttore dell’ufficio di Baltimora.
«Del mattino?» domandò in tono innocente. «Mi spiace, ma non c’è poi tanta
differenza, sai?» «Per quanto mi riguarda, sì» replicò lui, ormai abbastanza
sveglio da essere diventato sospettoso. «Allora, questa non è una chiamata di
cortesia, presumo.»
«Mi sento offesa.» «E io ho sonno.» «Okay, hai ragione: non è del tutto una
chiamata di cortesia. Hai contatti con la polizia della Virginia?» «Sì. Perché?»
«Vedi se possono mandare un’auto a casa di un certo Brandon Gazenga.»
«Perché?» «Trova una scusa. Non so, un vicino si è lamentato per la musica
troppo alta.» «Intendo dire… Cosa dobbiamo cercare?» «Voglio solo essere sicura
che stia bene.»
«E vuoi saperlo adesso o va bene anche alle nove del mattino?» «Mi devi un
favore, ricordi?» Tripper imprecò tra i denti. «Ti richiamo io.» Randi aveva
appena passato il confine con il Maryland quando il telefono satellitare squillò.
S’infilò l’auricolare e rispose.
«Allora, cosa mi dici?» «Non sono un uomo felice, Randi.» «Hai mai pensato
alla meditazione?»
«Hanno trovato il corpo di Brandon Gazenga, questa mattina.» Randi guardò
meditabonda nello specchietto retrovisore, registrando la presenza di tre coppie
di fari dietro a sé e valutando le distanze.
«Come?» «Stamattina non si è presentato al lavoro, un collega è andato a
casa sua e l’ha trovato sul pavimento della camera da letto. Pensano a
un’intossicazione alimentare.»
«Intossicazione alimentare? Stai scherzando.» «Ma ti pare? Secondo la
polizia, non è così raro come si pensa.» «Nelle circostanze del ritrovamento c’era
qualche elemento sospetto?»
«Oltre a ricevere una chiamata da un’operativa della CIA alle due del mattino,
vuoi dire?» «Ma tu non hai mai ricevuto una chiamata da un’operativa alle due
del mattino… Giusto?» «Giusto. Ah, ho parlato con l’inquirente, davvero
felicissimo di essere svegliato in piena notte, tra parentesi, e mi ha detto che quel
tipo viveva in una specie di porcile, con il frigo zeppo di take-away andati a male.
Secondo lui è sopravvissuto fino adesso solo per miracolo.»
Alle sue spalle comparve una nuova coppia di fari, in rapido avvicinamento.
Randi attese fino all’ultimo momento, poi imboccò uno svincolo senza
segnalarlo. L’altra macchina rimase sulla sua corsia e procedette tranquilla.
138
«Okay. Grazie, Trip.» «No, aspetta un attimo. Secondo il poliziotto, Gazenga
lavorava per una certa Agenzia governativa, e tu dovresti conoscerla piuttosto
bene. Di cosa stiamo parlando, qui?» «Noi non stiamo parlando affatto, ricordi?»
139
Capitolo 35
Uganda settentrionale
Bahame svoltò oltre una curva cieca e frenò di colpo, per fermarsi
sgommando dietro a un camion con rimorchio intento a fare un’inversione a U in
uno spiazzo.
140
certo senso pratico.
Seguì l’africano sul retro, dove una lunga catena inchiodata al portellone
venne fissata al collo del ragazzo, che cercava di sottrarsi con tutte le sue forze. Il
meccanismo di aggancio del rimorchio sembrava troppo complesso per questa
parte di mondo, ma Omidi non aveva intenzione di avvicinarsi per studiarlo
meglio.
Il prigioniero cercò di liberarsi, lanciando grida ancora più acute delle urla
disumane provenienti dall’interno del camion, finché non vide Bahame venire
verso di lui e ammutolì.
Nella sua veste di leader religioso, Bahame s’inginocchiò e pregò sottovoce,
immergendo il pollice in un barattolo di polvere rossastra e tracciando delle
strisce sulle guance del giovane. I soldati guardavano rapiti mentre il loro capo
invocava divinità e demoni, benediva il ragazzo e rivendicava la vittoria. L’uomo
aveva un carisma impressionante, quasi quanto la sfacciataggine con cui ne
faceva sfoggio.
141
Passarono altri dieci minuti, poi Bahame rimosse la custodia protettiva del
radiocomando e glielo porse. «A te l’onore.» Omidi esitò per un istante, quindi
premette il pulsante. Non ci fu alcun suono, ma dalla sua posizione riuscì a
vedere che il perno attaccato al rimorchio cominciava ad allentarsi. La catena
cadde a terra e il ragazzo si diede alla fuga, trascinandosela dietro mentre correva
verso il suo villaggio, poco distante dalla strada. I prigionieri infetti si misero a
gridare, frustrati, guardando scappare la loro preda.
142
Capitolo 36
Uganda centrale
«Sì, è una camionetta blindata. Due uomini davanti, altri sei nel retro.
Tutti armati.» «Ed essendo l’unico veicolo a motore incontrato in quattordici
ore, possiamo dire con certezza che ci stanno seguendo.» «Il presidente Sembutu
ci aveva detto di chiamarlo se avessimo avuto dei problemi» intervenne Sarie.
«Forse quelli sono suoi uomini, inviati da lui per la nostra sicurezza.» Entrambi
si voltarono a guardarla.
«Era solo un’idea.»
143
«Dipende da chi ci troveremo di fronte» commentò Howell, sedendosi di
nuovo al volante e chiudendo la portiera.
«Non mi sembra tanto contento» osservò Sarie, caricandosi il fucile in spalla.
«No, in effetti.»
«Gli è successo qualcosa, qui» continuò Sarie. «Qualcosa di tremendo.» Era
un’ipotesi sensata, e ci aveva pensato anche lui. Ma cosa potesse essergli
accaduto rimaneva un dilemma. Conosceva Howell e gli uomini di quel tipo.
Dopo un’intera carriera con il SAS e l’MI6, cosa poteva averlo impressionato
tanto?
144
alla fine non sarà più in grado di controllarlo. Più lo utilizza, più diventa difficile
gestirlo.» Howell parve riscuotersi dalla sua trance, nel sentire quella apparente
contraddizione. «Però, se diventa sempre più esperto nell’utilizzo di quest’arma,
come potrebbe sfuggirgli di mano?»
Sarie si allungò sul sedile, appoggiando il fucile accanto a sé e facendosi
ombra con il cappello. «Le cose non stanno proprio così.
Mi preoccupa il fatto che, usandolo in questo modo, possa indebolire il
parassita.» Howell rifletté su quelle parole. «Continuo a non seguirti. Se è più
debole, non è meglio?»
«Il termine “debole” non va inteso nel suo significato comune» intervenne
Smith. «In questo momento il parassita, sempre che esista davvero, è in una
forma piuttosto primitiva. Per quanto riguarda gli esseri umani, direi poco
sviluppato. Compare a intervalli di alcuni decenni, le persone infettate ne
contagiano altre e tutti muoiono in un arco di tempo piuttosto breve, e infatti
non si verifica mai una diffusione su larga scala.»
Sarie proseguì nella spiegazione. «Però, questo genere di infezione può
diventare più efficace se il parassita s’indebolisce. Uccidere l’organismo ospite
troppo in fretta non è una buona strategia di sopravvivenza, soprattutto se le
concentrazioni di popolazione sono distanti tra loro nello spazio.»
«Esatto. Più a lungo vive l’ospite, più aumentano le possibilità del parassita di
riprodursi, sia nella vittima originaria sia in altre, attraverso il contagio.»
«E non è tutto» riprese Sarie. «Anche altre mutazioni potrebbero essere
vantaggiose. Se l’infezione si diffondesse al punto da permettere alla selezione
naturale di fare il suo corso sul parassita, forse potremmo assistere a una sua
manifestazione meno violenta.»
«Assolutamente» concordò Smith. «In fondo, all’ospite il parassita chiede
solo di praticare qualche taglio su una persona non infetta, in modo da
procurargli una nuova vittima. È meglio attaccare e ferire, anziché uccidere. Un
cadavere non gli serve a niente.»
«Inoltre non mi meraviglierei se la comparsa dei sintomi dovesse rallentare»
continuò Sarie. «Questo consentirebbe al parassita di spostarsi ancora, alla
ricerca di un nuovo ospite. In questo momento, mi sembra che l’insorgenza
rapida dei sintomi sia in realtà un vantaggio perché le ferite di molte vittime sono
così gravi da non consentirne la sopravvivenza. La forza e la velocità che
manifestano potrebbero anche non essere un espediente per infettare un numero
sempre maggiore di persone, considerato che spesso si rivelano anzi
controproducenti. Potrebbe invece essere un effetto secondario del parassita per
cercare di tenere in vita persone che, con simili ferite, probabilmente non si
reggerebbero nemmeno in piedi.»
«Interessante. Non ci avevo pensato» disse Smith. «Ma cosa succederebbe
se…» «Voi scienziati passate un mucchio di tempo a farvi seghe mentali, vero?»
145
ironizzò Howell.
«Be’, è più proficuo dell’altro tipo» rispose Sarie con una risatina.
«Quindi, secondo voi, se ci limitiamo a non fare niente e a starcene seduti con
le mani in mano, alla fine il parassita potrebbe diventare innocuo.» «Non è così
raro» osservò Smith. «Alcuni microrganismi, un tempo micidiali, oggi non
causano più danni di un semplice raffreddore. Il problema sono i milioni di
persone che potrebbero morire mentre noi aspettiamo che Madre Natura si
decida a intervenire.»
146
Capitolo 37
Uganda settentrionale
Mehrak Omidi cercava di stare al passo con Bahame, ma era costretto di tanto
in tanto a fermarsi per schivare alberi e altri ostacoli. Circondati da guardie
armate, si muovevano rapidi, senza far rumore, costeggiando la strada a una
distanza tale da riuscire a scorgerla soltanto a tratti.
La maggior parte degli infetti li aveva superati, ma due erano rimasti indietro,
tra il fogliame. Il primo era un bambino di forse quattro anni, troppo piccolo per
comprendere la propria furia e sapere su chi scaricarla. L’altro era ancora più
inquietante a vedersi: era un vecchio con un’orribile frattura esposta nella parte
inferiore della gamba, della quale sembrava non accorgersi minimamente.
Cadeva e si rialzava di continuo, slanciandosi in avanti di qualche metro per
ricadere subito dopo, in uno spruzzo di sangue arterioso. Omidi rallentò. Non
riusciva a staccare gli occhi da quell’uomo, alla fine rassegnato a trascinarsi per
terra sui gomiti.
Giunsero al villaggio dopo altri cinque minuti. Bahame lo afferrò per un
braccio, spingendolo in un punto in cui fosse al sicuro, ma che gli consentisse di
osservare la scena in svolgimento davanti ai loro occhi.
Ancora una volta, Omidi rimase di sasso. Gli uomini del villaggio
combattevano con tutte le loro forze, armati di bastoni, machete, attrezzi agricoli.
Uno di loro aveva un fucile, ma fu abbattuto ancora prima di riuscire a
imbracciarlo. Gli assalitori infetti correvano ovunque: forti e veloci com’erano,
sembravano più numerosi di quanti fossero in realtà.
Una donna in fuga si lanciò tra i cespugli proprio di fronte a loro, tanto che
Bahame e Omidi dovettero indietreggiare per ripararsi tra il fogliame. La donna
percorse appena dieci metri, inseguita da un ragazzino coperto di sangue, il quale
riuscì ad atterrarla e a girarla sulla schiena. Iniziò a picchiarla selvaggiamente: in
pochi attimi era già morta, ma lui non si fermava. Il suono sordo dei pugni
continuò a mescolarsi alle grida e ai richiami di aiuto provenienti dall’abitato,
finché cadde esanime a sua volta. Era impossibile stabilire se fosse privo di sensi
o morto.
147
Una delle capanne era stata incendiata e Omidi lanciò un’occhiata a Bahame:
nei suoi occhi vitrei, avidi di potere, si rispecchiava il riflesso delle fiamme. In
quel momento capì che quell’uomo non stava recitando una parte, né cercava di
compiacere i suoi seguaci.
L’africano era davvero convinto di essere una divinità.
Dalla capanna proveniva il pianto di un neonato e uno degli assalitori corse
verso di essa come se volesse essere d’aiuto. Un attimo dopo il pianto era cessato.
Quando riapparve, la lunga veste chiazzata di sangue stava bruciando.
Nonostante le fiamme crepitanti e sempre più alte, si riunì alla mischia,
avventandosi su una donna che cercava riparo in un recinto dove scorrazzavano
delle capre terrorizzate. Non riuscì a raggiungerla per un soffio, e crollò
aggrappandosi con le mani alla staccionata traballante, arso dal fuoco.
Omidi scivolò da sotto il cespuglio mentre gli ultimi abitanti del villaggio
venivano abbattuti uno a uno. Ma lui adesso non vedeva più l’Uganda rurale.
Vedeva New York, Chicago, Los Angeles. Era uno spettacolo esaltante.
148
Capitolo 38
Uganda settentrionale
Alla guida della jeep, Caleb Bahame rallentò, aumentando la distanza tra il
veicolo e il camion sgangherato che svoltava una ventina di metri più avanti. Gli
abitanti del villaggio catturati guardavano Omidi, con occhi pieni di terrore, dai
buchi nella lamiera, alla disperata ricerca d’aria, senza riuscire a capire cosa fosse
successo a loro e alle loro famiglie.
Erano tutti feriti, anche se solo superficialmente. I più gravi erano stati finiti
sul posto e i loro corpi bruciati. Ai pochi che erano riusciti a evitare il contatto
con gli infetti era stato concesso di fuggire: in questo modo avrebbero diffuso le
voci sul potere e le arti magiche di Bahame.
Gli sfortunati erano senz’altro quelli che avevano riportato solo qualche
lesione. Erano stati caricati sul camion al posto degli assalitori, scomparsi e
disorientati nella giungla, dove sarebbero morti per le emorragie.
Bahame aveva calcolato con precisione la distanza che ognuno degli infetti
poteva coprire a piedi prima che sopraggiungesse la morte; faceva sempre in
modo di attaccare insediamenti abbastanza isolati per evitare una propagazione a
catena dell’infezione.
Non si era però preoccupato dei dettagli. Per esempio, gli animali erano in
grado di diffondere il parassita? C’erano differenze nelle modalità con cui il
patogeno infettava il cervello? Poteva subire delle mutazioni? Cosa sarebbe
successo se uno dei contagiati avesse attaccato un pastore o un viandante, che poi
sarebbero tornati al proprio villaggio?
149
nel camion dalla lamiera arroventata.
Omidi smontò dalla jeep e si fece largo tra i soldati ipnotizzati dalla vista e
dalle parole di Bahame. Una rapida occhiata alle sue spalle gli confermò che non
erano solo quei ragazzi cenciosi a essere ammaliati: Bahame stesso sembrava
completamente perso nei suoi deliri. Era il momento perfetto per curiosare un
po’ in giro.
L’iraniano si diresse verso una caverna illuminata a giorno da lampade
elettriche. L’ingresso era sorvegliato da due guardie armate, una delle quali non
poteva avere più di dodici anni, mentre l’altra sembrava intontita dalla nuvola di
fumo nero proveniente dal generatore lì vicino.
Passò loro davanti con studiata indifferenza, liquidandoli con un gesto
spazientito della mano quando gli si rivolsero nella loro lingua.
Di certo erano a conoscenza del suo rapporto privilegiato con Bahame, e
restarono a guardarlo con gli occhi sgranati, senza sapere se dovessero fermarlo o
meno.
Quando Omidi si decise a entrare nel locale, l’uomo nella gabbia levò un grido
150
acuto e protese un braccio tra le sbarre con una forza tale che si udì lo schiocco
dell’osso spezzato.
Il medico sollevò lo sguardo e fece qualche passo indietro, esitante, afferrando
il bisturi e tenendo il braccio teso davanti a sé.
«Calma» disse Omidi in inglese. «Sono un amico.» «Un amico?» balbettò
l’uomo. «Mi chiamo Thomas De Vries. Sono stato rapito da casa mia, a Città del
Capo. Mi hanno portato…» L’iraniano lo fermò con un gesto della mano e
ispezionò le attrezzature del laboratorio. Era piuttosto malconcio e disordinato,
ma sembrava funzionale; c’era anche un moderno microscopio e un piccolo
frigorifero.
«Cos’ha scoperto?»
«Mi riporterà a Città del Capo? A casa mia?» «La farò salire su un volo
commerciale, a Entebbe» promise Omidi, nascondendo a fatica il suo disprezzo
per quel discendente dei conquistatori cristiani, assoggettatori dell’Africa e del
mondo.
De Vries annuì. «È difficile rispondere alla sua domanda. L’unica vittima che
ho avuto occasione di osservare ha iniziato a manifestare agitazione e confusione
mentale dopo circa dieci ore. Forse varia da soggetto a soggetto. Io direi tra le
sette e le quindici ore perché insorga un evidente disorientamento. In seguito la
malattia ha un decorso rapido e prevedibile. L’agitazione cresce finché inizia il
sanguinamento, circa tre ore dopo i primi sintomi, seguito quasi subito dal
comportamento violento.» «E la morte?»
151
«Circa quarantott’ore dopo il picco della sintomatologia, anche se i malati
muoiono per lo più per le ferite o per un probabile attacco di cuore.» La donna
nella gabbia balzò in piedi di scatto e cominciò a parlare in modo sconnesso,
aggrappandosi con le mani alle sbarre, senza badare alla sua nudità.
Il dottore la guardò con compassione, nonostante anche lui non fosse in una
situazione migliore. «Bahame tiene sempre un ammalato rinchiuso qui dentro,
così non c’è il rischio di estinzione per il parassita. Quando quest’uomo starà per
morire, verrà infettata la donna per conservare la riserva di microrganismi.»
Omidi annuì. Anche questo poteva funzionare in Africa, ma era del tutto
inadeguato per il contagio in un Paese moderno. Si guardò alle spalle per
accertarsi che fossero soli e indicò il frigorifero.
«È possibile congelare un campione da portare via?»
«No. Non sopravvive fuori dal corpo umano per più di qualche minuto ed è
estremamente sensibile alla temperatura: ho provato a conservare dei campioni,
ma sono morti quasi subito.» Dal corridoio giunse un suono di passi e smisero di
parlare. Un momento dopo Bahame comparve sulla soglia del locale.
Omidi s’irrigidì, incerto sul da farsi. Era meglio cercare di spiegare o non dire
niente? L’africano era una mina vagante. Avrebbe potuto cambiare umore da un
momento all’altro.
Per sua fortuna, fu Bahame a prendere la decisione al suo posto.
«Fuori di qui.»
Omidi annuì, rispettoso, e si avviò rapido lungo lo stretto passaggio, inseguito
dall’eco delle grida del medico e dal rumore delle attrezzature scagliate a terra.
Sperava che Bahame uccidesse il vecchio. Avrebbe potuto rivelarsi una fonte di
complicazioni indesiderate, anziché di informazioni utili.
Marcisse pure all’inferno.
152
Capitolo 39
«Brandon non avrebbe voluto una cerimonia in grande, ma come suo amico
sono molto felice di vederla» esordì l’uomo, spostandosi a disagio dietro il leggio.
Dave Collen non lo ascoltava. Del resto non si ricordava il suo nome e non era
interessato alle sue parole.
«Di certo tutti qui conoscevano Brandon come un abile analista, anche se, per
come è strutturata l’Agenzia, forse molti di voi non hanno avuto il tempo di
scoprire che splendido ragazzo fosse» continuò l’uomo, in tono triste. «Io ho
avuto il privilegio di lavorare fianco a fianco con lui negli ultimi anni e…» Collen
riprese a scrutare la folla, senza però riuscire a individuare l’oggetto del suo
interesse.
153
organizzare un’altra imboscata.
Collen ritornò in sé quando la porta in fondo alla sala si aprì per lasciar
entrare Randi Russell. Toccò col gomito Larry Drake e la indicò con un cenno
della testa pressoché impercettibile. Lei forse non sapeva che era stato Gazenga a
infilarle in tasca quel bigliettino, ma la sua presenza era un indizio importante.
Non era certo il tipo da farsi vedere a una commemorazione, specie di una
persona sconosciuta.
«Quando porteremo a termine l’operazione?» bisbigliò il direttore della CIA,
riferendosi al nuovo piano per far fuori la Russell.
Ma qualcosa doveva pur esserci, anche se gli sfuggiva. Era molto probabile
che Gazenga avesse detto la verità quando aveva parlato solo di un’ora e un luogo
per incontrare la Russell. Tuttavia non poteva esserne sicuro.
Per concludere, la perdita dei loro informatori in Uganda era stata una bella
sfortuna. Adesso stavano seguendo Smith tramite immagini parziali dal satellite
e un solo uomo sul campo, e per di più inaffidabile. Solo un’ora prima erano
riusciti a localizzare la posizione della squadra con un’approssimazione di
cinquanta chilometri.
154
Ciambelle.
Ne prese una e le diede un morso, dirigendosi verso un angolo della sala un
po’ meno affollato. La quantità di persone presenti la spinse a domandarsi quante
di loro sarebbero venute a commemorarla il giorno in cui la fortuna, com’era
inevitabile, l’avesse abbandonata.
Vivere facendo cose di cui non si poteva neppure parlare, in Paesi quasi
introvabili su una carta geografica, non le permetteva di coltivare troppe amicizie.
E le poche che aveva tendevano a essere un po’ reticenti a farsi vedere con lei, o
anche solo ad ammettere di conoscerla.
No, per lei non ci sarebbero stati discorsi celebrativi della sua vita e dei servizi
resi al Paese, e neppure sale illuminate e pasticcini.
Avrebbe dovuto accontentarsi di qualche brindisi alla sua memoria da parte di
donne e uomini senza nome in qualche bar polveroso del terzo mondo, in un
punto imprecisato del globo. E a dire la verità, non voleva niente di diverso.
L’oratore terminò l’aneddoto e indicò un punto alla sua destra. «Il direttore
Drake ha avuto l’onore di conoscere di persona Brandon e vorrebbe dire qualche
parola, quindi gli cederei il microfono. È pronto, signore?» Randi osservò Drake
avvicinarsi al leggio, mentre dai presenti si levava un applauso rispettoso. Questo
sembrava confermare la voce secondo cui Gazenga stava lavorando a qualcosa di
molto importante e di alto livello. Lei, però, continuava a non avere idea di cosa si
trattasse. Brandon si occupava di questioni dell’Africa centrale e non le veniva in
mente nulla che non potesse rientrare nel normale stato di caos, a stento
controllato, del continente.
155
156
Capitolo 40
Uganda settentrionale
Il nugolo di insetti pareva fumo nero alla luce dei fari, mentre Peter Howell
attraversava con il fuoristrada una buca fangosa. Oltre il piccolo cerchio
illuminato l’oscurità era assoluta e ininterrotta, come il fondo dell’oceano.
Smith diede un’occhiata al sedile posteriore, dove Sarie era distesa con un
braccio abbandonato sul fucile. Sotto molti aspetti gli ricordava Sophia: lo stesso
entusiasmo inesauribile nel lavoro, il sorriso aperto, lo spirito dell’avventura.
Come sarebbe stata la sua vita se lei non fosse morta? Dove sarebbe stato in
quel momento? A tosare il prato di casa? In giro con i loro figli a bordo di una
monovolume? Non riusciva a immaginare nessuno di quegli scenari.
Quando tornò a guardare davanti a sé, il nugolo si era diradato abbastanza da
consentirgli di aprire il finestrino per far entrare una zaffata di aria calda e
umida.
«Ti chiedi mai cosa farai non appena tutto questo sarà finito, Peter?»
«Tutto questo cosa?» «Lo sai… Quando saremo troppo vecchi per inseguire
qualcuno o qualcosa nella giungla.» Howell, visibile solo in controluce, scosse la
testa. «Quelli come noi non vanno in pensione, Jon. Un giorno non saremo più
veloci come un tempo, oppure commetteremo un errore, e sarà la fine.»
Smith emise un lungo respiro e sprofondò nel sedile di pelle. «Una
prospettiva allegra.» Peter allungò un braccio e gli diede una pacca sulla coscia,
mentre sulle labbra gli fioriva uno dei suoi rari sorrisi. «Non è ancora arrivato il
momento, amico. Scommetto che ci resta da combattere ancora qualche bella
battaglia.» Davanti a loro si stendeva una staccionata malconcia, costruita con
legname locale. Smith la indicò: «Potrebbe essere quella?».
«Siamo arrivati?» chiese Sarie con la voce impastata dal sonno, mettendosi a
sedere e affacciandosi tra i due sedili anteriori.
«Non ne sono sicuro.» Howell costeggiò la recinzione, fermandosi infine di
fronte a un cancello. Sarie saltò giù senza aspettare il completo arresto dell’auto,
stiracchiando la schiena intorpidita. Chiavistello e cardini si aprirono docilmente
sulla strada di accesso alla proprietà, non invasa dalla vegetazione. Forse la
fortuna stava girando dalla loro parte.
157
Dopo altri dieci minuti di tragitto comparve una casa, una vecchia costruzione
irregolare con piante rampicanti fiorite sui muri sbiaditi.
Sarie fece per aprire la portiera, ma Smith allungò un braccio verso di lei per
fermarla. «Si muove qualcosa, sulla destra.»
«Li vedo» rispose Howell, controllando nello specchietto retrovisore.
«Proprio dietro di noi. Almeno tre. Un machete e due fucili. Neppure un’arma
automatica.» «Cosa? Che sta succedendo?» domandò Sarie.
«Aspetta in macchina» le raccomandò Smith aprendo la portiera dal suo lato e
scendendo. Sotto il portico si accese una luce di sicurezza e alzò lentamente una
mano per schermarla. Un attimo dopo dalla porta si affacciò un uomo bianco, a
piedi nudi, con un paio di jeans e una maglietta. Era armato di fucile.
«Chi siete?» «Mi chiamo Jon Smith, sono un medico americano.» «E i suoi
amici?»
Smith gettò un’occhiata nel buio che lo circondava, cogliendo con la coda
dell’occhio la presenza degli africani individuati da Howell nel chiarore delle luci
posteriori dell’auto. Con quelli nascosti ai lati della casa, avevano almeno cinque
fucili puntati su di loro. Howell e Sarie avrebbero potuto cavarsela se le cose si
mettevano male, ma Smith sapeva di essere in trappola.
«Il mio amico Peter Howell e la dottoressa Sarie van Keuren, dell’Università
di Città del Capo.»
L’uomo soppesò per un attimo le sue parole, quindi appoggiò il fucile a una
delle colonne del portico.
«Scusate l’accoglienza» si giustificò, scendendo i gradini e facendosi loro
incontro con la mano tesa. «Non siamo abituati alle visite a sorpresa, e questa
parte dell’Africa non è più così tranquilla come un tempo. Mi chiamo Noah
Duernberg.»
«Piacere di conoscerla» replicò Smith, mentre le portiere del veicolo alle sue
spalle si aprivano e si richiudevano. Quando si guardò indietro, gli uomini che li
tenevano sotto tiro si erano già dispersi.
158
«Proprio qui» rispose Smith.
«Qui? Intende quest’area? Cosa…» «Intendo questa fattoria.» L’uomo era
chiaramente confuso, quindi Smith continuò la sua spiegazione.
«È corretto presumere che il dottor Lukas Duernberg sia suo padre?» Noah
annuì. «Era. È morto da anni.» «Mi dispiace.» «In realtà pensavamo non ci
vivesse nessuno, qui» intervenne Sarie.
«Non siamo riusciti a trovare alcuna informazione su di lei e speravamo di
ricavare dalla popolazione locale notizie sull’ultimo indirizzo della sua famiglia.»
«Mio padre ha salvato la vita a uno dei figli di Idi Amin. È stato lui a donarci
questi terreni. Poi devono essersi dimenticati di noi, forse dei bianchi in una
fattoria sperduta non sono il primo pensiero del governo, di questi tempi.»
«Dev’essere dura, con Bahame che spadroneggia nella zona» osservò Howell.
L’uomo annuì con aria triste. «Questa casa la costruì mio padre.
Abbiamo la nostra vita qui, amici, persone che contano su di noi per il loro
pane quotidiano. Ma in questo momento mia moglie e mio figlio si trovano a
Kampala, alla ricerca di un Paese disposto ad accoglierci. Qui è diventato troppo
pericoloso.» «Comprendo quello che state passando» commentò Sarie. «Anch’io
sono cresciuta in una fattoria in Namibia e ho dovuto lasciarla. Ci penso ancora,
tutti i giorni.»
Duernberg prese una lunga sorsata di birra. «Basta parlare di queste cose,
tanto è tutto nelle mani di Dio. Perché vi interessa tanto la mia famiglia?» Smith
tirò fuori il documento trovato da Star, in cui si menzionava il sospetto di suo
padre sull’infezione parassitaria. Duernberg lo scorse rapidamente, quindi si alzò
e andò a prendersi un’altra birra.
159
annessi alla fattoria e a barricarci all’interno.
Circondarono la casa, rimanendo in attesa là, seduti. Dopo poco tempo, Leyna
cominciò a sentirsi confusa e a comportarsi in modo strano. Poi divenne una
furia. Alla fine dovetti sparare anche a lei.» Smith si incrociò le braccia al petto e
si appoggiò alla parete dietro di sé. Non era ancora una prova concreta, ma poteva
bastare. Questa non era ipnosi di massa, e neppure l’effetto di una droga. Era un
agente biologico ed era quanto mai pericoloso.
160
Capitolo 41
Uganda settentrionale
Jon Smith frugò nel baule e ne tirò fuori una vecchia bambola, ancora con il
suo abitino a fiori e la cuffietta di merletto ingiallito.
L’appoggiò delicatamente accanto a una pila di foto in bianco e nero, capi di
abbigliamento lisi e libri con il dorso in cuoio.
Gli dispiaceva per Noah Duernberg. Quella parte dell’Uganda era magnifica e
lui non riusciva nemmeno a immaginare quanto dovesse essere difficile
abbandonare tutto, per ricostruirsi una vita in un luogo sconosciuto.
E una simile scelta risultava ancora più drammatica perché del tutto
immotivata. La terra era fertile, il Paese ricco di risorse naturali e tutti avevano
voglia di lavorare. Non c’era alcuna ragione per cui non si potesse condurre
161
un’esistenza tranquilla e gratificante, in Uganda.
Nessuna ragione concreta, almeno, ma il lato oscuro della natura umana. Era
quasi impossibile non avvertirne la presenza in un Paese, come quello di
Bahame, pervaso dalla memoria del nazismo… «Aspetta un attimo…»
162
«Jon. Tutto a posto?» «Sto bene. Abbiamo trovato qualcosa.» «Parla.»
«Siamo alla fattoria dei Duernberg. Abbiamo sfogliato i diari del padre: lui
riteneva che l’infezione avesse avuto inizio in una serie di grotte, in una zona a
circa trenta chilometri da qui, in direzione nord est. Appena fa giorno intendiamo
andare là per cercare dei campioni.» «È una zona tranquilla?» Smith ridacchiò
piano, per non svegliare le persone che dormivano poco lontano. «A parte i
guerriglieri di Bahame, un complesso di grotte inesplorate e probabilmente
instabili, leoni, ippopotami e l’agente infettivo stesso, dovrebbe essere una
passeggiata.»
Klein ignorò il suo sarcasmo. «Allora forse Duernberg aveva ragione?»
«Forse, in base alle nostre scarse informazioni. Possono passare anni senza
alcuna manifestazione, poi qualcuno s’introduce per un qualunque motivo in una
di quelle grotte ed entra in contatto con un portatore. Devi chiamare Billy
Rendell al CDC e informarlo. Se l’infezione valica i confini del Paese, sarà
necessario un piano di contenimento, e lui è il migliore in questo campo.»
«Rendell» ripeté Klein. «Possiamo fidarci di lui?» «Billy sa come mantenere
la massima discrezione. Non devi preoccuparti di questo.» «Devo preoccuparmi
solo di te.»
«Già. Ascoltami, Fred. Se non hai nostre notizie entro un paio di giorni, vorrà
dire che avremo avuto dei problemi e dovrai pensare al modo migliore di gestire
l’emergenza. Inoltre dovrai inviare qui un contingente militare per perimetrare la
zona e una squadra super equipaggiata per entrare in quelle grotte.»
«Capisco, Jon. Ma ci troviamo in una posizione delicata, non soltanto con gli
iraniani e gli africani, ma con la stessa Covert-One.
Sicuramente la CIA sospetta qualcosa e dobbiamo stare molto attenti a come
ci muoviamo.»
«Se questa cosa si viene a sapere, Fred, quello sarà l’ultimo dei nostri
problemi.» «Ho un incontro con il presidente, domani. Lo ragguaglierò sui vostri
progressi e gli riferirò le tue raccomandazioni. Ma in questo momento la
credibilità dell’America non è ai massimi livelli per quanto riguarda le operazioni
di intelligence in Medio Oriente, sia qui sia all’estero. Se vogliamo piombare
addosso agli iraniani o inviare un contingente significativo in Africa ci serve
qualcosa di concreto. E poi non bisogna sottovalutare la questione tempo, lo sai
quanto ci vuole per organizzare una missione del genere…» «Lo so, Fred. Ma non
riesco a smettere di pensare a quel video e all’ipotesi che simili scene possano
ripetersi altrove, a New York o a Londra, per esempio.» «Già» rispose Fred in
tono sommesso. «Neanch’io.»
163
Capitolo 42
Teheran, Iran
Gli uomini presenti nella stanza erano stati scelti uno a uno da lui
personalmente, ma non si fidava di loro. In quei momenti di pericolo poteva
essere sicuro solo dei familiari più stretti e di Omidi, che considerava come un
figlio.
164
tentativo dell’esercito americano di controllare quei Paesi e di fronte all’incerto
futuro finanziario del governo degli Stati Uniti, in Iran molti ritenevano
improbabile un’invasione militare. A meno che non vi fossero state delle
provocazioni reali.
Khamenei sapeva di aver aspettato anche troppo, e il suo potere si era ridotto
a tal punto che non aveva certezze. L’unica cosa che gli restava da fare era scavare
direttamente alla radice del male che gettava la sua ombra minacciosa sulla
repubblica.
Diede un’occhiata all’orologio. Mancava meno di un minuto.
Rispose al primo squillo. «Dio sia con te, Mehrak.» «E con lei, Eccellenza.»
«È bello sentire la tua voce. Ho pochi amici, qui. Ancora meno, penso, di quanto
tu possa immaginare.»
«Ho saputo della riunione tra Nikahd e gli altri. Ce ne occuperemo al mio
ritorno, ma dovremo muoverci con molta cautela.» «È troppo tardi, amico mio.
Avrei dovuto dare ascolto ai tuoi avvertimenti. A volte ho l’impressione di essere
diventato vecchio e stupido.» «Lei vede devozione in uomini che ne sono privi,
Eccellenza. Ciò non significa essere stupidi. Vuol dire essere un uomo di Dio.»
«Tu sai sempre come darmi conforto, Mehrak. E di questo ti ringrazio. Adesso
dimmi cos’hai scoperto.» «L’arma di Bahame è quasi perfetta. L’ho vista in
azione e corrisponde in pieno alla descrizione. È davvero l’ira dell’Onnipotente.»
Khamenei chiuse di nuovo gli occhi, immaginando un’America in preda al
caos, con le strade ingombre di corpi massacrati e i sopravvissuti accovacciati e
nascosti, a pregare invano il loro falso Dio.
165
«Hai detto quasi perfetta. Perché quasi?» «È difficile da gestire e deve ancora
essere trasformata in una vera e propria arma.» «L’anniversario della vittoria
della rivoluzione è tra undici settimane.
La diffonderemo in America in quella data.» «Eccellenza, è impossibile. Non
disponiamo di persone con la necessaria esperienza. Io farò…»
«Abbi fede, Omidi. Dio provvederà.» «Certo, Eccellenza. Ma dobbiamo essere
realistici. Le difficoltà legate a…» «Quanto richiesto da Bahame è in attesa al
confine con il Sudan.
Darò immediata autorizzazione al trasferimento.»
166
Capitolo 43
Uganda settentrionale
167
spianate.
168
prima di offrirgliela.
«Oh, normale amministrazione.» Agli angoli degli occhi, dietro le lenti scure,
le si formarono dei ventagli di piccole rughe mentre osservava le forme ondulate
disegnate dal vento sull’erba. «Ma sto cominciando a chiedermi se siamo nel
posto giusto. A questo punto avremmo già dovuto trovare qualcosa.»
Erano stati costretti ad accettare l’aiuto dei soldati di Sembutu e questi,
assieme a Peter Howell, stavano perlustrando il terreno circostante, alla ricerca
dell’ingresso di una grotta.
«O almeno così si evince dalla mappa.» «Per il bene dei suoi pazienti, voglio
sperare che Duernberg sia stato migliore come medico. Come cartografo non era
un granché.»
Smith tirò fuori il suo cappello di paglia da cowboy, tenendolo alto per
schermare i raggi del sole mentre osservava quella distesa sconfinata.
«Le condizioni qui sono dure» osservò Sarie. «Stai andando molto meglio di
quanto mi sarei aspettata.»
Smith sorrise. «Non riesco a capire se è un complimento o un insulto.» «È
un’osservazione» rispose lei, facendosi seria e indagatrice. «Tu e Peter non
sembrate preoccuparvi molto delle buche nella strada, o del sole cocente, o se la
gente vi punta addosso delle armi. Lui era nel SAS, ma tu, invece?» «Non sarò del
SAS, Sarie, ma ho lavorato in prima linea nelle unità MASH aggregate alle forze
speciali.»
169
buca fino all’altezza del petto. Solo le braccia, appiattite al suolo, gli impedivano
di precipitare al di sotto.
Smith e Sarie lo afferrarono dalle spalle e lo tirarono fuori, mentre gli altri
facevano capannello intorno a loro.
«Tutto bene?»
Il militare sembrava non capire e Smith gli indicò la gamba destra della
mimetica, intrisa di sangue. «Mettiti giù e cerca di rilassarti.
Sono un medico.» Qualcuno tradusse e Smith prese un coltello per tagliare il
tessuto ed esaminare la ferita provocata da qualche pietra sporgente nella buca.
«Ho con me un kit di pronto soccorso» disse Howell, frugando nello zaino e
allungandogli una cassettina di plastica ben fornita, che doveva aver preparato da
solo. Smith pulì e disinfettò la ferita, quindi prese ago e filo chirurgico.
«Questo gli darà un po’ fastidio.»
L’uomo si distese a terra, senza muovere un muscolo né emettere un lamento
mentre Smith ricuciva la ferita.
«Ecco la rivincita del dottor Duernberg» annunciò Sarie, distesa a terra per
sbirciare nella buca. «Qui sotto c’è una caverna, a circa quindici metri. Non riesco
a vedere come si estende nelle varie direzioni, ma sembra piuttosto grande.»
«Cosa mi dici della pietra contro cui ha urtato?» domandò Smith.
«Pulita e asciutta.» Smith annuì. C’erano buone probabilità che avessero
trovato il nascondiglio del parassita. L’ingresso della grotta era occultato da un
intrico di erba e rovi, e chiunque stesse camminando nella zona avrebbe potuto
facilmente cadervi dentro. Se il soldato fosse precipitato fino in fondo e la ferita
fosse venuta in contatto con acqua o escrementi di pipistrello, le cose avrebbero
potuto complicarsi.
Erano stati fortunati.
Smith bendò la gamba del militare mentre Sarie sistemava la sua attrezzatura
e Howell dava istruzioni agli altri soldati perché liberassero la buca dal tappeto di
vegetazione.
Quando ebbe finito, Smith prese una torcia e si distese a terra per fare luce
all’interno della caverna. Non c’era modo di scendere: il foro si apriva al centro di
una volta della quale non riusciva a vedere i contorni. Il suolo era sommerso da
pietre, venute giù in millenni di minuscoli cedimenti, e si sentiva l’eco di una
goccia che cadeva incessante da qualche parte, al di là del tenue anello di luce.
«Cosa ne pensi?» chiese a Sarie rialzandosi in piedi.
«Andiamo a dare un’occhiata» rispose lei, svolgendo una fune accanto a una
scatola di guanti di lattice.
Aggrottò le sopracciglia e si guardò intorno. Oltre ai guanti e a qualche
170
semplice mascherina chirurgica, non avevano altro per proteggersi dal rischio
biologico. E a eccezione della fune non avevano attrezzature da arrampicata. Non
era certo l’ideale. Ma, ancora una volta, questa era una situazione assolutamente
fuori dalla norma.
«Sei sicuro che ce la fate?» Non c’erano appigli a cui ancorare la corda, e
l’unica soluzione trovata da Howell era di mettere un gruppo di soldati a fare da
contrappeso, come nel tiro alla fune. Le premesse non ispiravano molta fiducia.
«Sarai il primo a scoprirlo, amico.» «Grandioso» borbottò Smith,
appendendosi alla fune con tutto il peso per testarne la tenuta e lasciandosi
scivolare nel buco. La corda cedette di qualche spanna e presto si trovò nella
stessa posizione del soldato caduto, e non molto desideroso di abbandonare la
terraferma.
«Allora vai» disse Howell, puntando gli scarponi nel terreno per fare maggior
presa.
Smith chiuse gli occhi, cercando di non pensare al vuoto sotto ai piedi e agli
effetti del parassita che stavano andando a stuzzicare nella tana.
«Se scendi più veloce è meglio» gli consigliò Howell, la voce strozzata per lo
sforzo.
Smith si affrettò, ma quando toccò terra ebbe una sensazione sgradevole. Si
assicurò un’altra volta di avere l’orlo dei calzoni infilato negli scarponi e i polsini
della camicia chiusi dai guanti di lattice. «Ci sono, Sarie. Vieni giù.»
171
«Paura?» chiese lui, spostandole con garbo la mano e aprendo da solo le clip a
scatto.
«Un pochino. In realtà gli spazi chiusi mi danno un senso di ansia. E la
maggior parte dei parassiti con cui lavoro non…» La voce le si affievolì per un
istante. «E tu?» «Paura? Sì. Ansia nei posti chiusi? No. Mi piacciono. Anche se al
momento mi piacerebbe di più una bella tuta anticontaminazione.» Sarie sorrise,
illuminata dall’alto da un raggio di sole. «Anche secondo me non ci starebbe
male, in questa situazione.»
Un’ombra si frappose tra i due e Smith guardò in su, per vedere Howell chino
sulla buca.
«Tutto bene laggiù?» «Non possiamo lamentarci, qui abbiamo l’aria
condizionata.» L’inglese scosse la testa. «Quasi quasi preferisco stare quassù, al
sole.»
Smith sapeva che Peter Howell non avrebbe esitato ad affrontare venti uomini
armati equipaggiato soltanto di una biro e di una bustina di tè usata, ma non
andava pazzo per le creature minuscole e striscianti. Forse nella sua mente si
trattava di una lotta impari.
«Vado a vedere se trovo qualche appiglio per appendere una rete» disse Sarie.
«Mi piacerebbe prendere un campione di sterco di pipistr…» Furono sorpresi
dallo schiocco inconfondibile di uno sparo, seguito dall’altrettanto inconfondibile
tonfo sordo e dal gemito di un uomo colpito da una pallottola. Un attimo dopo la
fune cadde sul fondo della grotta.
«Peter!» gridò Smith, ma Howell non si vedeva e per tutta risposta
echeggiarono altri spari di mitragliatrici, provenienti da almeno tre armi diverse.
«Peter!» chiamò Sarie. «Cosa succede? Va tutto bene?»
Si udì un altro colpo e per un attimo tutto piombò nell’oscurità. Con uno
scatto, Smith afferrò Sarie e la spostò appena in tempo per evitare che le
precipitasse addosso un soldato ferito a morte.
Smith s’inginocchiò accanto all’uomo e gli controllò il polso.
«È mor…» balbettò Sarie.
«È stato colpito al torace. È morto ancora prima di toccare terra.» Smith diede
a Sarie l’arma del soldato e gli frugò nelle tasche, alla ricerca di qualunque
oggetto utile. Non trovò niente, se non qualche monetina ugandese e una zampa
di coniglio di colore rosa acceso, apparentemente deforme.
172
nell’oscurità. «Sarie, mi stai ascoltando?» Lei aveva il respiro corto e sembrava
incapace di staccare gli occhi dal cadavere illuminato dal sole, a pochi metri di
distanza. Smith si spostò in modo da impedirle la vista e le appoggiò le mani sulle
spalle. «Sarie, ci sei?»
«Dammi solo un secondo, okay?» Il suo respiro si fece più lento e chiuse gli
occhi per un istante.
Quando li riaprì sembrava più tranquilla. «E Peter?» «Adesso non possiamo
fare niente per lui. Dobbiamo pensare a noi stessi e trovare un modo per uscire di
qui.»
«Come pensi di fare? Non sono mai rimasta bloccata in una caverna con degli
uomini armati all’uscita. E tu?» «A me è già successo.» «Stai scherzando.»
«Niente affatto. La senti l’aria fresca?» Sarie annuì.
173
Il tempo smise di esistere, in quell’angusto passaggio, e Smith continuava a
guardare le lancette fosforescenti del suo orologio per convincersi che fossero
passati pochi minuti e non delle ore. Sarie si fermò di tanto in tanto per
riprendere fiato, ma teneva duro, senza emettere neppure un lamento.
Procedettero per circa un quarto d’ora, poi lei si bloccò all’improvviso. «Jon,
forse abbiamo un problema.» «Tranquilla. Sono qui con te. Stai bene?» «Ja. Ma
sono sull’orlo di qualcosa e il fascio luminoso della torcia non arriva fino in
fondo.»
«C’è un sasso? Lancialo giù e conta finché non si sente il tonfo.» «Okay.
Aspetta.» La risposta non fu rapida come Smith sperava.
«Sei secondi.» «Sarà un po’ più alto della nostra fune. Il cornicione dove
porta?» «Va verso destra.» «Quant’è largo?» «Mezzo metro.» «Riesci a
percorrerlo?» «Senza cadere, intendi?» «Sarebbe meglio.» La sentì sospirare, e
poi percepì il raschio del fucile sulla pietra, mentre lo usava come sonda per
saggiare il terreno.
«Cazzo!» esclamò lei, mentre il grido riecheggiava tra le pareti di roccia.
Smith stava per chiederle cosa fosse successo, ma un attimo dopo udì il clangore
metallico del fucile che si schiantava sul fondo.
Magnifico.
174
«Brava, così. Stai andando benissimo.» Fece scivolare una mano sul suo
fondoschiena, afferrando saldamente la cintura dei pantaloni cargo di cotone
pesante.
«Anche a me piacerebbe approfondire la nostra conoscenza, Jon. Ma ti
sembra il momento giusto?»
Risero entrambi, forse più di quanto richiedesse la battuta, ma almeno servì
ad allentare un po’ la tensione.
«Okay, Sarie. Adesso sono incuneato qui come una zecca. Non mi posso
muovere e non ti lascerò andare. Alzati e non preoccuparti, non cadrai.» «È facile
a dirsi, per te.» «In effetti è stato abbastanza semplice.» Risero di nuovo, poi Jon
si puntellò con forza alla parete di roccia mentre lei sollevava il bacino. Quando
fu con le spalle al livello del buco, Smith cominciò a tirare, facendole grattare la
schiena contro la parete mentre si alzava.
«Spostati sulla destra e cerca qualcosa di solido a cui appigliarti.» «Sì… okay,
ho trovato. Mi sembra abbastanza solido.» «Adesso girati e aiutami.»
Meno di un minuto dopo Jon era in piedi, con il dorso premuto contro la
parete e la punta dei piedi in un vuoto nero come lo spazio cosmico.
Camminarono verso destra e lui le prese la mano, facendole da appoggio mentre
lei superava lo spazio vuoto.
175
Capitolo 44
Uganda settentrionale
La fortuna non li abbandonò e non si sentirono altri spari nell’ora e mezza che
impiegarono a percorrere non più di quattrocento metri.
La vegetazione si faceva più rada in prossimità dell’ingresso della caverna, e
Smith fu costretto a fare segno a Sarie di fermarsi e a continuare da solo. Si
appiattì al suolo, coordinando la sua avanzata con l’ondulazione dell’erba mossa
dal vento. Dopo altri quindici minuti non c’erano quasi più ciuffi d’erba e
continuare avrebbe significato esporsi per forza. Per fortuna era già molto avanti.
Vide Peter Howell seduto per terra, con la schiena appoggiata a un grosso masso,
176
accanto all’uomo che saggiamente aveva cercato di convincerli a fare ritorno a
Kampala.
Il breve lampo di orgoglio provato da Smith per essere riuscito ad arrivare non
visto alle spalle dell’amico durò ben poco. Howell voltò di scatto la testa nella sua
direzione, serio e preoccupato in volto, con la mano già sul fucile.
Magari un’altra volta.
«Non sparare» bisbigliò Smith. «Sono io.» Howell si girò verso di lui quanto
poté senza dare nell’occhio. Alle sue spalle, l’africano alzò una mano in segno di
saluto e fece subito una chiamata dal suo telefono satellitare, senza dubbio per
informare Sembutu.
«Sarie sta bene?» chiese Howell.
177
Capitolo 45
Randi Russell rallentò dietro a una Honda che aveva sbandato leggermente e
attese il momento giusto per superarla, mentre la sintonia della stazione radio
cominciava a perdersi. Quando di fronte a lei si aprì un rettilineo, premette a
tavoletta sull’acceleratore della Chevrolet Aveo, tamburellando con impazienza
sul volante mentre sorpassava l’auto a oltre cento chilometri orari.
Aveva venduto la sua Porsche assieme alla casa, alcuni anni prima, stanca di
gestire le sue proprietà da un punto sempre diverso del globo. Adesso, le rare
volte in cui tornava negli Stati Uniti, abitava nella minuscola casa di campagna
della sua ex compagna di stanza all’università, la quale dopo averla ristrutturata
non trovava mai il tempo di andarci. Era perfetta: a due ore di macchina dalla
città, tranquilla e costruita intorno a un caminetto enorme, il luogo ideale per
rilassarsi tra un incarico e l’altro.
Il brano musicale ormai non si sentiva quasi più e spense la radio,
concentrandosi su Jon Smith. Non aveva ancora risposto al suo messaggio, e da
un’insistente chiamata all’USAMRIID aveva ottenuto solo la risposta ufficiale: il
colonnello era in aspettativa per motivi personali e al momento non era
raggiungibile.
Il suo amico alla TSA si era fatto vivo e aveva rintracciato Jon in Sudafrica, a
Città del Capo. Interessante, proprio il continente di cui era esperto il povero
Brandon Gazenga.
Aveva prenotato un volo per il giorno successivo, utilizzando uno pseudonimo
ignoto alla CIA. La prudenza non era mai troppa.
178
La loro relazione era una delle poche cose nella sua vita che non riusciva a
capire fino in fondo. Il destino continuava a farli incontrare, in genere in
situazioni estreme, in cui avevano rischiato persino la morte, e in occasione di
alcune devastanti disgrazie personali. Al punto in cui erano, non era certa di
sapere a quanti incontri ancora sarebbero potuti sopravvivere.
Giunta in cima alla salita, il motore dapprima perse potenza, facendo
sbandare leggermente l’auto, quindi si spense. Randi riuscì a fatica ad accostare
la piccola Chevrolet sul ciglio della strada. Provò a girare più volte la chiave
d’accensione, senza risultato. Non si illuminavano neppure le spie sul quadro.
In quella zona il cellulare non aveva campo. Randi scese e, dopo aver dato
un’occhiata nel vano motore, andò ad aprire il bagagliaio per prendere la sacca
della palestra. C’erano quasi sette chilometri fino a casa, la temperatura era scesa
sottozero e il cielo era coperto. Una bella camminata, una tazza di tè bollente e
una chiamata al soccorso stradale, o un’ora con le mani gelate nel motore, alla
ricerca di un probabile guasto alla centralina elettronica? Non era una decisione
così difficile da prendere.
Stava cercando le scarpe quando sentì un’auto fermarsi alle sue spalle. Era la
Honda superata poco prima.
«Problemi con la macchina?» l’apostrofò un uomo sulla trentina, aprendo la
portiera e saltando fuori con l’entusiasmo tipico di un ex boyscout.
«Già, ma è tutto a posto. Abito poco lontano da qui.» «Saremmo felici di darle
un passaggio.» «La ringrazio, ma preferisco fare un po’ di moto.» La donna,
visibilmente incinta, seduta sul sedile del passeggero scese a fatica dall’auto.
«Non possiamo lasciarla qui da sola, al freddo.»
179
e allineati; in quel modo potevano tenere lei sotto tiro senza rischiare di colpirsi a
vicenda. La donna era nella postura leggermente accovacciata del tiratore scelto,
per niente impedita dalla falsa gravidanza.
Chiunque fossero quei due, erano bravi, anche per i suoi standard.
Inoltre erano bene informati. Non soltanto conoscevano la marca della sua
arma da fuoco, ma probabilmente avevano utilizzato il sistema OnStar per
bloccare la Chevy. A quei codici non aveva accesso qualunque ladro di automobili
fornito di indirizzo e-mail.
180
Capitolo 46
Uganda settentrionale
Mehrak Omidi si svegliò al suono delle grida di giubilo e uscì dalla tenda di
comando, dove si era rifugiato per sfuggire agli insetti molesti della giungla. I
miliziani più giovani avevano circondato un vecchio pickup e fu obbligato a
raggiungere Bahame sul podio per vedere i due bianchi semisvenuti caricati sul
cassone.
La folla li accolse con calci e sputi mentre venivano trascinati giù dal veicolo
per essere rinchiusi e, presto, uccisi. Charles Sembutu, nonostante la reputazione
di duro, si era dimostrato una donnicciola con quegli americani. Non aveva
sfruttato le varie occasioni per eliminare la squadra di Smith e quando poi ne
avevano avuto la possibilità, si era rifiutato di agire: aveva passato a Omidi le
informazioni sulla loro posizione, per poi lavarsene le mani.
I fari del pickup si spensero, rivelando un debole chiarore in avvicinamento
tra gli alberi. Subito dopo, un curioso fuoristrada entrò nell’accampamento,
sgommando. Caleb Bahame balzò a terra, senza badare alle grida di adulazione
dei miliziani mentre afferrava la donna seduta sul sedile del passeggero per farla
scendere, strattonandola.
Omidi fece un passo avanti, per osservare da vicino i capelli biondi e arruffati
e il volto della donna, che tentava di mostrarsi coraggiosa, senza successo. La
reiterata pretesa dell’ayatollah di diffondere il parassita nell’anniversario della
vittoria rivoluzionaria gli era sembrata inattuabile, anche con il lavoro febbrile
dei migliori biologi del Paese. E aveva giudicato pericolosamente ingenua la sua
incrollabile fiducia nella provvidenza divina. Ma Omidi si era ritrovato ancora
una volta umiliato dalla saggezza e dalla fede dell’anziano religioso.
Saltò giù dal podio e andò a mettersi in una posizione defilata, al limitare
della foresta, senza riuscire a staccare gli occhi dalla prigioniera. I dubbi sui loro
piani e i timori riguardo alle agenzie di intelligence americane erano scomparsi
all’improvviso. Dio aveva manifestato la sua presenza e ora il successo del
progetto sembrava quasi predestinato. Sarie van Keuren, la persona più
qualificata al mondo per stabilizzare e trasformare il parassita in una vera arma
biologica, era stata consegnata nelle sue mani.
181
Jon Smith aprì gli occhi, osservando le ombre vaghe intorno a lui diradarsi
rivelando una volta di roccia, sbarre arrugginite e, più in là, un rudimentale
laboratorio. Non aveva ancora la forza di alzarsi e lasciò ciondolare la testa verso
Peter Howell, disteso e immobile accanto a lui.
«Peter. Stai bene?» La botta alla nuca del vecchio soldato era stata forte e
Smith temeva che avrebbe potuto non svegliarsi più.
«Peter. Riesci a…»
A circa tre metri da loro c’era una donna, anche lei rinchiusa in una gabbia
scavata nella parete opposta della caverna. Tra le pieghe di un tendone di plastica
pesante e sporco di sangue, Smith la vide tendere un braccio verso di loro
attraverso le sbarre, quasi fosse disposta a spaccarsi tutte le ossa pur di
raggiungerli.
«Vi siete ripresi.»
Smith si voltò verso la voce, cercando di mettere a fuoco: nel locale con loro
c’era un uomo anziano, con un grembiule di tela che pareva aver passato gli
ultimi cinquant’anni in un macello.
«Dov’è Sarie?» «Chi?» chiese di rimando l’uomo.
Smith si aggrappò a quelle solide sbarre per alzarsi in piedi, mentre Howell
cercava di valutare il danno subito alla nuca.
«Sarie van Keuren. Era con noi.» «Non so rispondervi.» Quell’uomo non era
tra i seguaci di Bahame, si capiva subito: era bianco, troppo vecchio e, a giudicare
dal suo modo di parlare, di grande cultura.
«Chi è lei?»
«Io?» replicò, piuttosto allarmato dalla domanda. «Mi chiamo Thomas De
Vries. Sono un medico in pensione e sono stato rapito dalla mia casa per curare
un uomo che doveva essere consegnato vivo a Bahame. Poi mi hanno rinchiuso
qui, con l’incarico di trovare il sistema per mantenere in vita un parassita
cerebrale al di fuori dell’organismo, e renderne dunque possibile il trasporto.» «E
ci è riuscito?»
Scosse la testa. «Non sono uno scienziato. E anche se lo fossi, non lo farei.»
182
Indicò con un gesto la donna ammalata. Sembrava affaticata, ma non così tanto
da rinunciare a lottare per liberarsi. «Bahame tiene in vita il parassita attraverso
un contagio a catena mirato. Voi adesso siete nella gabbia di attesa. Quando
inizierà l’agonia della donna, sarai messo nella gabbia con lei. E quando tu starai
per morire, sarà la volta del tuo amico. Mi dispiace.» «Geniale» commentò
Howell alzandosi in piedi, sorretto da Jon.
«Dimmi un po’, dottore. C’è un modo per…»
Pochi attimi dopo entrò un uomo, ma non quello che si aspettava Smith. Era
un arabo e, nonostante i vestiti sporchi e chiazzati di sudore, sembrava curato.
Quando Smith cercò di immaginarselo in un’altra situazione e con abiti puliti, vi
trovò qualcosa di familiare.
Aveva già visto la sua faccia da qualche parte.
Si udì di nuovo l’eco dei passi e Smith li contò, cercando di valutare quanto
distassero le gabbie dall’ingresso della grotta, aggiungendo un nuovo elemento
alle osservazioni sull’ambiente in cui si trovavano: le sbarre erano solide,
nonostante la ruggine superficiale, e il lucchetto era nuovo. Buona parte
dell’attrezzatura del laboratorio poteva essere usata per tagliare tessuti umani,
ma non vedeva nessuno strumento adatto a segare l’acciaio. L’anziano medico
era di certo una risorsa, ma non aveva né l’indole, né la prestanza fisica di
compiere atti di eroismo. In fin dei conti forse Omidi aveva ragione.
Non avevano più tempo.
183
Aveva una manica intrisa di sangue e gli occhi gonfi e rossi, ma per il resto
sembrava illesa.
Dietro di lei entrò Caleb Bahame, il quale, a eccezione delle tempie brizzolate,
aveva lo stesso aspetto delle foto, risalenti a venticinque anni prima, allegate da
Star al suo dossier.
Howell scattò in avanti verso le sbarre, stringendole forte e fissando l’africano
mentre si avvicinava a lui.
184
stato il mio contatto in America…»
«Dio mi ha messo sulle loro tracce. Tu eri solo un comodo intermediario.»
Afferrò Sarie per i capelli e l’attirò a sé. Lei fu abbastanza intelligente da non
ribellarsi, ma faceva fatica a tenere a bada la sua furia.
«E poi adesso ho la donna. Forse non mi servi più, eh, Mehrak?»
Omidi comprendeva di essere in una posizione di debolezza. Bahame era un
mistico psicopatico, ma di biologia ne sapeva abbastanza per capire quanto Sarie
poteva essere preziosa per manipolare il parassita e trasformarlo in arma
biologica.
«Magari su di lei potremmo trattare» propose Omidi.
Bahame fece una faccia vagamente risentita. «Lei non fa parte dell’accordo e
posso servirmene a mio piacimento.»
185
Capitolo 47
L’uomo fece il giro della penisola e appoggiò un piatto con formaggio e frutta
sul tavolino, quindi si accomodò su uno dei divani. «Prego, si sieda.»
Non sembrava per nulla atletico, ma dietro le lenti degli occhiali lo sguardo
era penetrante, forse un po’ troppo per i gusti di Randi. Era un uomo intelligente,
186
erano i suoi stessi occhi a rivelarlo.
Non avendo scelta, la Russell si sedette di fronte a lui e versò da bere. Lui
prese un bicchiere e assaporò un sorso di vino, annuendo in segno di
approvazione. «Temevo fosse un po’ troppo invecchiato, ma per fortuna mi
sbagliavo. La prego, non sprechi questa occasione, lo assaggi. Se l’avessi voluta
morta o priva di sensi, non l’avrei fatta venire fin qui.» Era difficile controbattere
la sua logica e bevve il vino. Doveva ammetterlo, quell’uomo era un vero
intenditore.
«Prima di tutto, deve perdonarmi per tutta questa messinscena. Lei viene
controllata da un numero di persone davvero notevole, e non tutti fanno parte
della mia organizzazione. Abbiamo dovuto fare lo scambio molto in fretta, perché
nessuno se ne accorgesse.»
«La sua organizzazione?» ripeté Randi.
L’uomo si fece serio. «Mi scusi, non mi sono ancora presentato. Mi chiamo
Fred Klein.» Randi bevve un altro sorso di vino, restando impassibile mentre
cercava di elaborare il nome.
«Forse ha già sentito parlare di me.» «Alla CIA c’è stato per un po’ di tempo
un Fred Klein, ma poi è passato alla NSA dove ha lavorato per anni. Dopo, però,
non so cosa ne sia stato di lui.»
«Oh, ha fatto diverse cose, e ora è seduto qui di fronte a lei.» «Capisco»
commentò lei, senza nascondere il suo scetticismo. Non aveva mai conosciuto di
persona Fred Klein e non aveva modo di sapere se fosse davvero lui. Ma era
incuriosita. Nel mondo dei servizi segreti aveva un’ottima reputazione e le sue
improvvise dimissioni dalle attività governative avevano ispirato numerose tesi
sulle sue nuove frequentazioni.
«Qualche giorno fa lei ha lasciato un messaggio a Jon Smith» continuò lui.
«Quando gliel’ho riferito si è preoccupato.» Smith. Continuava a saltare fuori
nelle situazioni più impensate.
«È stato gentile da parte sua, ma era solo una telefonata personale, si tratta di
mia sorella. Lei sa dove si trova? Vorrei parlargli.» «Purtroppo abbiamo perso i
contatti.» «Peccato. Be’, cercherò di sentirlo al suo ritorno. Grazie per il vino.
Forse qualcuno potrebbe darmi un passaggio fino a casa?»
Klein sorrise e infilzò un cubetto di formaggio con uno stecchino.
«Lei sa dov’è Jon?» «Non ne ho idea.» «Quindi la sua prenotazione di un volo
per Città del Capo è una semplice coincidenza?» «Complimenti, lei è proprio
bene informato.» «In questo caso ho avuto fortuna, devo ammetterlo. Ho avuto
modo di trattare con lo stesso falsario ceco al quale si è rivolta lei per il suo
passaporto. Ma purtroppo Jon non si trova più in Sudafrica.» «No?» chiese
Randi, cercando di non far trapelare le sue emozioni.
Preferiva lasciar parlare Klein, o chiunque lui fosse.
187
«Ha preso un volo interno per l’Uganda quattro giorni fa.» «Davvero?»
commentò lei in tono neutro. «Molto interessante.» Klein si appoggiò allo
schienale.
«Forse dovremmo cambiare argomento per un attimo. Io sapevo del
messaggio lasciato a Jon non perché stiamo controllando lui, ma perché stiamo
controllando lei, Randi.» «Me? E perché?» «Perché da qualche tempo alcune
persone molto influenti del governo sono interessate a lei, e vorrebbero che
entrasse a far parte della nostra famigliola.»
«Quali persone di preciso? E di quale famigliola sta parlando?» Klein ignorò
volutamente la prima parte della domanda. «Lavoro per un’organizzazione
chiamata Covert-One.» «Mai sentita nominare.» «Nessun altro è al corrente
della sua esistenza. Abbiamo iniziato come squadra d’emergenza: compatta, agile
e non soggetta alla normale burocrazia. Forse lei conosce bene uno dei nostri
migliori agenti operativi…» «Jon.» Klein annuì.
«Questo spiega molte cose…» osservò lei, per poi tacere di nuovo.
«Le sto rivelando informazioni molto più che top secret.» Su questo non
c’erano dubbi. Se si fosse saputo che alcuni esponenti del governo degli Stati
Uniti erano collusi con agenzie di servizi segreti clandestine, la cui attività si
poneva al di fuori di qualsiasi controllo, sarebbero stati guai seri. Detto questo,
aveva lavorato nel mondo dei servizi convenzionali abbastanza a lungo da poter
comprendere la necessità di un gruppo di quel tipo.
188
sono state riprese nell’Uganda settentrionale due settimane fa. Quelli sono nostri
uomini, i nostri migliori operativi sul campo. Nessuno di loro è sopravvissuto,
temo.»
189
Capitolo 48
Uganda settentrionale
Non era necessario conoscere la lingua locale per capire cosa fosse successo.
La spedizione era in arrivo.
Il primo camion apparve dopo circa un quarto d’ora, avanzando
rumorosamente sulla strada dissestata utilizzata per trasportare le vittime
dell’infezione nei villaggi invasi da Bahame. La fiancata recava il logo di una delle
tante agenzie umanitarie attive nel Paese e, quando le prime casse furono
scaricate dal rimorchio, ne uscirono dei pacchi sigillati di razioni d’emergenza.
190
prima cassa di mortai.
Bahame balzò sul cassone mentre Omidi chiamava in aiuto due ragazzi perché
portassero le rampe per lo scarico. La parte anteriore della cassa fu scardinata e
Bahame scomparve all’interno per abbattere a calci le altre pareti.
Alla fine, in mezzo ai resti distrutti apparve un veicolo simile a un piccolo
carro armato. Era tozzo e squadrato, dotato di spessi finestrini in plexiglas e un
unico sedile.
«I primi due camion sono arrivati.» Bahame intanto era riuscito a scendere
con il mezzo dalle rampe e stava inseguendo gli uomini terrorizzati sullo spiazzo.
«Allora dovremmo passare ai preparativi finali?» «Quanto prima.»
«Aspettiamo solo il tuo segnale.» Bahame sterzò di centottanta gradi e si diresse
rombando verso di lui, ma Omidi non si diede la pena di spostarsi. Quell’uomo
191
non avrebbe mai rischiato di danneggiare il palco sul quale amava tanto ostentare
la sua natura divina.
192
Capitolo 49
Dave Collen si lasciò cadere su una delle sedie di fronte alla scrivania di
Drake, tirato in volto. Aveva gli occhi arrossati, non avendo dormito per oltre
ventiquattro ore, e l’espressione delusa faceva capire che la veglia non era servita
a molto.
«Non abbiamo ancora notizie sull’arresto di Smith e degli altri, se non che
sono stati portati in una vecchia base militare e rilasciati dopo otto ore. Forse li
hanno arrestati solo perché Smith è stato visto da alcuni soldati mentre
minacciava con un coltello Sabastiaan Bastock…»
«Sarebbe una coincidenza un po’ strana» osservò Drake. «E comunque non
spiega perché alla fine Bastock sia morto.» «Non ci credo neppure io, ma i nostri
informatori non hanno accesso a quella base. Non abbiamo modo di sapere cos’è
successo là dentro.» «E dopo il loro rilascio?»
«Si sono procurati un veicolo al mercato nero e si sono diretti a nord, seguiti
dagli uomini di Sembutu. Niente da segnalare, finché non si sono fermati in una
fattoria di proprietà di Noah Duernberg. Hanno passato lì la notte, per poi
addentrarsi nel territorio di Bahame. A quel punto abbiamo perso le loro tracce.»
193
Kampala, per organizzare il trasferimento della famiglia. Abbiamo mandato
qualcuno a vedere…» «E…?» «Li hanno trovati nella vasca da bagno, con la gola
tagliata.» Drake si passò una mano sulla bocca e la ritrasse umida di sudore.
Duernberg sapeva qualcosa e qualcuno voleva metterlo a tacere. Ma chi?
Bahame era la risposta più ovvia, ma se si fossero sbagliati? Il fatto che Smith e i
suoi fossero stati condotti in una base militare e poi seguiti faceva pensare
all’ingerenza di Charles Sembutu. Poteva esserci un collegamento tra lui e gli
iraniani?
Collen sembrò avergli letto nel pensiero. «Larry, la cosa ci sta sfuggendo di
mano. Tutto questo è iniziato come un semplice esercizio di raccolta di dati.
Adesso abbiamo una squadra di americani dispersa da qualche parte nella
giungla, la famiglia di un vecchio medico uccisa e una delle nostre agenti più
pericolose che sta subodorando qualcosa, e della quale dobbiamo sbarazzarci.
Secondo me dovremmo considerare la possibilità di andare dal presidente con
quello che abbiamo scoperto finora.»
«Te la stai facendo sotto?» esclamò Drake alzando la voce nella stanza
insonorizzata. «Visto che questa operazione potrebbe comportare dei rischi
personali tu cosa proponi di fare? Di lavarcene le mani, eh? Solo finché…»
«Stronzate, Larry!» lo interruppe Collen. «Sono stato al tuo fianco fin dall’inizio
e sono anche l’unico che si è esposto in prima persona.
Non sei tu a doverti occupare di trovare gente affidabile per seguire Smith in
quella dannata giungla. E sicuramente non c’eri tu nella stanza di Brandon
quando è morto. Ma abbiamo perso le tracce di uno dei nostri microbiologi e di
un’autorità mondiale nel campo delle infezioni parassitarie. E se sono caduti
nelle mani di Bahame? O li ha catturati Omidi? Cristo! In questo caso potremmo
non trovarci di fronte a un semplice agente patogeno, tutto sommato facile da
controllare, ma a un microrganismo trasformato in arma biologica.» Drake aprì
la bocca per replicare, ma si limitò a trarre un profondo respiro. «Ti chiedo scusa,
Dave. Non intendevo mettere in discussione il tuo impegno.» «Forse siamo
entrambi un po’ nervosi» rispose, con un sorriso forzato.
Drake annuì. «È vero, i rischi – sia per noi sia per il Paese – sono più alti di
quanto ci aspettavamo. Ma non cambierebbe niente, anche se a questo punto
rinunciassimo. Cosa potrebbe fare Castilla? Mettersi sulle tracce di Bahame? Ha
già inviato sul posto la nostra squadra migliore. Dovrebbe rendere pubblici i
nostri sospetti? Otterrebbe soltanto l’ennesimo inconcludente dibattito politico e
questo darebbe agli iraniani altro tempo per lavorare al loro progetto stando
attenti a non lasciare tracce. Khamenei sta perdendo mordente, e lui lo sa meglio
di noi. Non si darà per vinto stavolta. Del resto, non ha altra scelta.»
Drake fece una pausa per consentire a Collen di replicare, ma questi si limitò
a tenere gli occhi fissi sul pavimento.
«Ecco la mia proposta, Dave. Innanzitutto, dobbiamo modificare il nostro
194
sistema di risposta al bioterrorismo; valutare nuovi possibili scenari, compreso
quello più pessimistico in caso di effettivo impiego di questo agente patogeno
come arma biologica. Così potremmo reagire prontamente se gli iraniani
riuscissero a perfezionare il parassita prima di utilizzarlo. Forse ci sarebbero più
vittime rispetto alle nostre stime iniziali, ma non dovrebbero superare le
750.000, il massimo che possiamo accettare. Comunque, secondo me non ci
riusciranno. Ho la sensazione che Smith e i suoi siano morti.» L’assistente annuì
senza una parola.
«Sei d’accordo?» lo incalzò Drake.
Collen alzò gli occhi dopo qualche istante. «Già. Scusa, Larry. Hai ragione.
Abbiamo sempre saputo che non sarebbe stato facile annientare gli iraniani,
ma…» «Speravamo che sarebbe stato più facile di così» lo interruppe Drake,
terminando la frase al suo posto.
«Già.»
«Okay, allora. Passiamo a Randi Russell. A che punto siamo con lei?» «Su
questo versante abbiamo notizie migliori. Teniamo sotto controllo lei e la sua
auto, e non sembra avere fatto nulla dopo aver contattato la TSA.» «Non ha
cercato di indagare sulla morte di Brandon tramite il suo amico dell’FBI?»
«Negativo.»
«Ha fatto altri tentativi di rintracciare Smith?» «Non più, dopo la seconda
chiamata a Fort Detrick.» «Quindi non dovrebbe essere approdata a nulla.»
«Sono abbastanza sicuro che non abbia scoperto niente, se non le poche note sul
biglietto consegnatole da Brandon.»
«Si è arresa, secondo te? Dovremmo fare marcia indietro con lei?» Collen
scosse il capo. «Se si trattasse di qualcun altro, probabilmente sì. Ma Randi
Russell non si arrende, mai. Quando mette le mani su qualcosa non la molla,
finché non ne viene a capo. Forse in questo momento si trova in un vicolo cieco,
e questa è solo una pausa fino a quando non avrà studiato la sua prossima
mossa.»
«Sono d’accordo. Allora è il momento di farla finita, prima che scopra qualche
dettaglio trascurato da noi. Ti sei già messo in contatto con Gohlam?»
«È tutto sistemato. Gli abbiamo fornito i suoi dati e sta solo aspettando
l’autorizzazione a procedere.» Drake tamburellò le dita sulla scrivania, con lo
sguardo fisso sulla porta dell’ufficio, chiusa. Padshah Gohlam era una «talpa»
afghana, al momento si trovava nel Maryland con un visto studentesco. La CIA lo
teneva d’occhio sin dall’inizio e lo aveva lasciato circolare negli Stati Uniti per
cercare di scoprire i suoi contatti. Erano riusciti a entrare nel suo sistema di
comunicazione e Collen si fingeva il suo responsabile in Afghanistan, bypassando
la sorveglianza dell’Agenzia. L’ultimo compito affidatogli era scovare
un’americana che aveva provocato la morte di innumerevoli jihadisti in tutto il
195
mondo.
Era un piano apparentemente perfetto. Non soltanto nessuno alla CIA
avrebbe avuto motivo di sospettare del movente di Gohlam; anzi, sarebbero stati
molto ansiosi di pararsi il culo nascondendo sotto il tappeto, per così dire, la loro
incapacità di controllarlo. Randi Russell sarebbe scomparsa dalla circolazione e i
particolari della sua morte sarebbero stati risucchiati da un buco nero.
196
Capitolo 50
Uganda settentrionale
Il dottor De Vries faceva da palo all’ingresso della grotta. Era troppo anziano e
malridotto per chiedergli di fare qualcos’altro. La donna nella gabbia accanto alla
loro stava perdendo le forze e ora era distesa in una pozza di sangue. Si sentì
osservata e allungò debolmente le mani maciullate e ferite verso le sbarre. Tra
pochissimo tempo non sarebbe stata in grado di fare neppure quello.
E in quel momento Bahame sarebbe tornato da loro.
Smith appoggiò la schiena alla parete di roccia e si lasciò cadere esausto nella
polvere, sforzandosi di capire se gli fosse sfuggito qualcosa. Nella fattispecie, un
modo per uscire di lì.
«Come fai a conoscere Bahame?» domandò Sarie.
Il suo viso e quello di Howell erano vicinissimi e lei cercò il suo sguardo per
avere la risposta.
«Non è un po’ tardi per fare i misteriosi? Siamo destinati a morire qui
dentro.» Howell si fermò per un momento. «Morto vuol dire morto, quasi morto
vuol dire ancora vivo. Sono due cose molto diverse.» Si rimise all’opera e Smith
rivolse l’attenzione all’attrezzatura da laboratorio. Doveva esserci qualcosa, là in
mezzo. Qualcosa di cui potersi servire.
Stava scrutando forse per la ventesima volta il generatore rotto appoggiato
alla parete quando Howell ricominciò a parlare.
197
«Anni fa ho svolto un incarico in Angola. Quando finì, decisi di visitare il
continente. Un viaggio di piacere. Sono capitato in un villaggio non lontano da
qui, dove un’agenzia di aiuti internazionali stava allestendo un progetto di
irrigazione. Gli mancava un uomo e io un po’ me ne intendevo, essendo cresciuto
in un’area agricola, così sono entrato nel gruppo… Tienilo più in alto, tesoro.»
Bahame era accompagnato dallo stesso ragazzo e dalle tre guardie presenti
quando era arrivata Sarie. Il sistema adottato per l’apertura della gabbia era
semplice, ma certo non infallibile: il giovane miliziano, disarmato e troppo
mingherlino per essere usato come copertura, apriva il lucchetto mentre le
guardie si mettevano a distanza, con le armi spianate. Di certo c’erano altri
uomini in posizioni strategiche nel corridoio, trasformato così in un tiro a segno
198
senza speranza di uscita.
199
infilare dei guanti di lattice e a controllare il tremito delle mani mentre suturava
la lacerazione.
Bahame fece un verso e indicò la loro gabbia al ragazzo, il quale si avvicinò
con la chiave del lucchetto.
Howell teneva la punta del seghetto tra le dita e scostò la mano per mostrarlo
a Jon. Smith fu travolto da una scarica di adrenalina, seguita da un’improvvisa
debolezza. L’inglese non gli stava suggerendo un tentativo di fuga, chiaramente
impraticabile. Gli stava proponendo di concedere una fine rapida e indolore a
Sarie van Keuren.
«No…» balbettò Smith. D’un tratto quella ragazza era Sophia. Nella sua mente
il momento attuale andava a sovrapporsi a quello in cui aveva visto morire la
donna della sua vita.
L’iraniano salì al posto di guida e avviò il motore, salutando dal finestrino con
la mano alzata mentre si allontanava.
200
Bahame si stagliava nella luce rossastra dei fanali posteriori e Omidi attese
fino a quando la sua immagine non fu scomparsa dallo specchietto laterale,
quindi prese un piccolo dispositivo GPS e lo accese. Il segnale avrebbe trasmesso
le coordinate dell’accampamento di Bahame a un gruppo di soldati ugandesi già
dislocati a circa duecento chilometri a sud-est.
In un certo senso gli dispiaceva. Smith e Howell non meritavano quella rapida
morte. No, meritavano la stessa fine che presto avrebbero fatto i loro
connazionali: folle e sanguinosa.
201
Capitolo 51
Uganda settentrionale
Jon Smith reggeva il lucchetto mentre Howell cercava di segarlo, pur sapendo
entrambi di essere ormai senza via di scampo. La donna nella gabbia accanto non
si muoveva quasi più, neanche quando i loro sguardi si incrociavano oltre il
tendone di plastica macchiato di sangue. Presto sarebbe morta e a quel punto il
parassita avrebbe avuto bisogno di un nuovo ospite.
Nel tunnel di accesso si udirono dei passi e Howell s’infilò la lama dietro la
schiena, nella cintura dei pantaloni, mentre tutti e due si allontanavano dalle
sbarre. Subito dopo comparve Bahame insieme alla squadra addetta al trasporto
dei prigionieri dentro e fuori dalle celle.
«Le concederò di scegliere chi dovrà entrare per primo nella gabbia con la
donna, dottore. Lei o il suo amico?» Howell si limitò ad alzare le spalle. Non
aveva alcuna intenzione di passare le ultime ore della sua vita fuori di testa, in
una gabbia dal fondo viscido. Di sicuro avrebbe preferito lottare fino all’ultimo.
Smith si chiedeva se anche lui avrebbe fatto lo stesso. La prospettiva di una
scarica di proiettili in pieno petto, rapida ed efficace, era diventata quasi
allettante durante quelle ore di prigionia, ma per carattere e addestramento lui
era un osso duro. Forse avrebbe potuto andare volontariamente incontro a un
AK-47 carico.
«Mi dispiace» mormorò, dando una pacca sulla spalla di Howell.
«Forse questa è davvero la nostra ultima avventura.»
L’inglese sorrise. «Te l’avevo detto, gli uomini come noi non invecchiano.
Noi…» L’inconfondibile boato della detonazione di una bomba, cui ne seguirono
altri tre in rapida successione, scosse con violenza il sottosuolo, tanto che Smith
dovette reggersi con una mano alla parete di roccia per mantenere l’equilibrio.
Subito dopo si sentì il crepitio attutito di fucili automatici, e una serie di ordini
gridati da Bahame mentre cercava di abbandonare la grotta seguito dai suoi.
202
in fondo all’antro, per evitare di entrare in contatto con il sangue che scorreva dal
braccio teso della donna.
Impiegò solo pochi secondi a capire che non sarebbe riuscita a raggiungerli e
si voltò, pronta ad aggredire gli altri uomini ancora presenti. Bahame era caduto e
si stava rialzando in piedi quando la vide arrivare. Una delle guardie e il ragazzo si
erano già allontanati e l’ultimo dei suoi stava per entrare nel tunnel di passaggio,
quando Bahame lo afferrò per un braccio e lo frappose tra sé e la donna.
Quando se lo trovò davanti le uscì di bocca uno stridulo urlo di gioia, lo sfogo
di una frustrazione divenuta ormai intollerabile.
Il giovane miliziano gridò per chiedere aiuto a Bahame mentre lei lo stringeva
tra le mani grondanti di sangue, ma l’oggetto della sua devozione si stava già
dileguando verso l’uscita.
La colluttazione dei due fu coperta dal suono assordante della scarica dei
proiettili di un fucile automatico e dei bossoli che rimbalzavano contro la roccia.
Smith e Howell si gettarono a terra mentre la guardia riusciva finalmente a
imbracciare l’arma e a puntare la canna contro il torace della donna. Lei fu scossa
da movimenti convulsi quando l’uomo premette il grilletto, poi si accasciò e
scivolò a terra.
Smith balzò in piedi e si scagliò contro le sbarre con tutta la sua forza.
Nonostante i crolli e le lesioni nella caverna-prigione, non si mossero di un
millimetro.
«Bahame è scappato come una femminuccia. Hai visto anche tu quanta paura
aveva. Lui non ha alcun potere su questo male, mentre io sì.» La maggior parte
203
degli africani nutriva un grande rispetto per la medicina occidentale, e per
fortuna quel giovane non faceva eccezione.
«Spostati» disse, mirando con il fucile al lucchetto e sparando un solo colpo.
Smith spalancò la gabbia con un calcio, respirando a fondo l’aria viziata della
grotta. Erano liberi. Probabilmente sarebbero morti nella battaglia che infuriava
all’esterno, ma almeno sarebbero caduti all’aria aperta.
La guardia gli puntò contro il fucile e indicò con un cenno della testa
l’attrezzatura medica sparsa a terra. «Adesso fallo. Curami.»
«Mi serve…» «Basta parlare!» gridò l’altro, piantandogli la canna dell’arma in
mezzo agli occhi. «Adesso tu mi guarisci. Io voglio tornare a casa.
Nel mio villaggio. Dalla mia famiglia.»
La sua fine fu molto rapida. Il soldato, di certo rapito da Bahame quando era
ancora un bambino, non avrebbe più fatto ritorno al suo villaggio. Non avrebbe
rivisto la sua famiglia.
Smith prese il fucile del miliziano e seguì Howell nel tunnel. Dopo pochi
secondi erano all’uscita e si appiattirono ai lati opposti dell’imboccatura,
cercando di capire cosa stava succedendo.
Smith si avvicinò a Howell e gli si rivolse gridando, per farsi sentire nel
204
frastuono assordante. «Dobbiamo trovare la nostra auto. Omidi ha parecchio
vantaggio e quello è il solo mezzo abbastanza veloce da raggiungerlo.» L’inglese
sembrò non averlo sentito, intento a osservare la distruzione davanti ai loro
occhi.
Il caricatore non era vuoto e Smith sparò una raffica appena sopra le loro
teste.
«Via! Via!» gridò, agitando l’arma.
I soldati non abbandonarono la posizione, continuando a esplodere colpi su
Howell. Nessun proiettile finì a meno di un metro e mezzo da lui, ma qualcuno
dei tiratori avrebbe anche potuto avere un colpo di fortuna.
205
partito in retromarcia.
«Peter! Stai bene?» Quando Smith lo raggiunse, l’ex SAS si stava rialzando in
piedi. Non era stato colpito per miracolo, ma aveva aloni di bruciature da polvere
da sparo in faccia e gli occhi gli lacrimavano.
«Mi dispiace, Jon.» «Ti dispiace? Non ti ho portato qui per le tue vendette
personali.
Omidi ha il parassita e anche qualcuno in grado di trasformarlo in arma…»
«Non venire a farmi la morale, Jon. Avrei detestato farlo, ma avresti dovuto
permettermi di occuparmi di Sarie in quella gabbia, lo sai bene anche tu. Adesso
sei da solo, amico.»
206
Capitolo 52
Uganda settentrionale
Peter Howell superò con un salto un ceppo mezzo marcio, per rallentare
quando si trovò di fronte un gruppo di miliziani di Bahame. Nessuno sparò, ma si
dispersero e scomparvero in un coro di grida terrorizzate.
La loro struttura di comando, guidata da una sedicente divinità, era crollata e
non erano stati attaccati dai soliti contadini disarmati ai quali erano abituati. Da
quanto aveva visto, sulle loro teste stava sorvolando la forza aerea ugandese al
gran completo, intenta a scaricare l’intera scorta di missili del Paese e
incalzandoli con incessanti raffiche di mitragliatrice. Alle sue spalle la foresta era
in fiamme, un muro di fuoco impenetrabile alto una trentina di metri nel cielo
velato e odoroso di sostanze chimiche.
La maggior parte dei seguaci di Bahame era in fuga verso il fiume, a est. Lì il
terreno era più agevole e l’acqua avrebbe arrestato l’avanzata del fuoco, ma
prendere quella direzione era un errore fatale. Ormai erano stati localizzati e
c’erano soldati ugandesi appostati sulla riva opposta; purtroppo però quei
ragazzini in preda al panico l’avrebbero scoperto troppo tardi.
207
finestrino doveva essere piuttosto profonda. Eppure, più si allontanava dalla luce
dei fuochi, più diventava difficile capire quale direzione avesse preso. Entro pochi
minuti le tracce si sarebbero dissolte in un’oscurità sempre più fitta e Howell lo
sapeva bene.
Stava procedendo in salita adesso, e si era ritrovato a correre in una gola buia,
con le pareti ricoperte di rovi. Poteva essere una trappola, ma non si fermò, in
una sorta di trance, esaltato dal bruciore dei polpacci, dall’odore del campo di
battaglia, dal luccichio intermittente del sangue di Bahame. Poi si fermò.
Desiderava che quella inebriante sensazione procuratagli dalla caccia a Bahame
non avesse mai fine. Ma non aveva alcuna intenzione di morire. Non ancora.
Howell afferrò un robusto rampicante e si tirò su lungo il pendio.
Arrivato in cima, riprese a camminare a piccoli passi. Poi percepì un
movimento.
Invece uscì allo scoperto, slanciandosi a tutta velocità nella direzione da cui
era stato esploso il colpo. Ne arrivò subito un altro, ma evidentemente chi gli
puntava addosso l’arma stava correndo, e lo mancò. Subito dopo intravide la
sagoma dell’aggressore. Stavolta non era un ragazzino, ma un adulto in tuta
mimetica. Bahame.
Howell notò appena i proiettili che gli passavano di fianco, mentre lo invadeva
una pericolosa sensazione di invulnerabilità. Tutto intorno a lui scomparve: la
giungla, le esplosioni, gli elicotteri. Rimase solo Bahame, e in quel momento
sembrava davvero un dio. L’ultima cosa rimasta sulla terra.
208
Per fortuna, pensò Howell, i suoi addestratori militari non potevano assistere
a quella scena patetica: l’africano che cercava febbrilmente di salire sulle liane,
scivolando a terra di continuo, e lui riverso al suolo boccheggiante, come un
pesce in agonia.
A ogni respiro inalava un po’ più di ossigeno, tuttavia dopo poco tornò
abbastanza lucido da riuscire a strisciare verso il machete.
209
Capitolo 53
Washington, USA
«Raderei al suolo qualunque cosa in quel Paese, purché più alta di un idrante
antincendio» replicò Castilla, rallentando e fermandosi.
«Dunque Drake starebbe cercando di manipolarmi perché io autorizzi un
210
attacco militare?» «Se penso alle sue idee riguardo alla minaccia rappresentata
dall’Iran, mi sembra plausibile.» Troppo nervoso per tornare a sedersi, Castilla
riprese a misurare la stanza a grandi passi, borbottando tra sé.
«Sam?»
«Okay» riprese il presidente. «Se fosse vero, e non ne sono convinto neanche
un po’, cosa proponi di fare? Drake ha un mucchio di alleati e io sono tra questi,
accidenti. Destituire un uomo che conosce tutti gli scheletri nell’armadio degli
Stati Uniti non è certo una cosa semplice.»
Klein annuì e prese la tazza di tè fumante dal tavolino di fronte a sé.
«No, non lo è. Ma lì dentro abbiamo una persona di fiducia…» «Randi Russell
ha accettato la tua offerta.» «A essere sincero non ne sono del tutto sicuro. Ma lei
non crede alla storia dell’intossicazione alimentare di Gazenga e non volterà mai
e poi mai le spalle a Jon Smith.»
«A proposito, abbiamo sue notizie?»
Klein scosse la testa. «E non sono molto fiducioso. La fattoria dove hanno
trascorso la notte è stata distrutta da un incendio e le forze governative ugandesi
stanno bombardando l’area in cui ci è stata segnalata la sua ultima posizione.
L’accampamento di Caleb Bahame è stato localizzato, sembra.» «Se Bahame è
morto…»
«Allora potrebbe essere scomparsa anche la minaccia del parassita» continuò
Klein. «Ma non ci conterei troppo. Dopo averlo cercato per decenni, gli ugandesi
sono riusciti a rintracciarlo proprio questa settimana, strano, non trovi? Per me,
gli iraniani hanno ottenuto quello che volevano e l’hanno tradito, rivelando il suo
nascondiglio.»
D’un tratto Castilla si sentì debole e si lasciò cadere su una sedia.
«Cosa mi suggerisci di fare?» «Se Randi acconsente a darci una mano,
potremmo avere una possibilità di tenere sotto controllo Drake.» «Ma se sei
convinto della sua colpevolezza, perché non sollevarlo dall’incarico?»
«Perché, in tutta onestà, non ne sono convinto al cento per cento. E perché i
nostri problemi con Drake, sempre che esistano, in questo momento sono in
secondo piano.» «Gli iraniani» indovinò Castilla, e Klein annuì.
211
non poteva permettersi di soffermarsi a pensare a loro. Il momento di piangerli
sarebbe venuto dopo. «Ecco, hai toccato un nervo scoperto, Sam. Covert-One ha
risorse limitate, mentre le tue non lo sono. Mi serve la tua autorizzazione per far
convergere su queste indagini altro personale: qualcuno del CDC,
dell’USAMRIID e dell’università. Inoltre dovresti iniziare a studiare un piano B
se, come non mi sento di escludere, questi esperti dovessero fallire
nell’impresa.»
«Un’opzione militare, intendi.» Klein annuì di nuovo. «Non possiamo farci
cogliere impreparati a questa eventualità, e tu devi decidere quale livello di
intelligence potrebbe servirti.»
212
Capitolo 54
Uganda settentrionale
Jon Smith sollevò il piede dal pedale del freno per un momento e poi
premette forte sull’acceleratore mentre si avvicinava a una zona allagata della
pista. Era larga almeno tre metri, ma il Land Cruiser si alzò docilmente in aria e
atterrò sulle sospensioni rinforzate senza neppure un cigolio.
Era impossibile sapere con certezza in quale direzione fosse andato Omidi, ma
con ogni probabilità stava guidando verso Kampala, dove avrebbe trovato le piste
adatte per fare atterrare un aereo. Uno dei vantaggi del dirigersi verso la capitale
era di avere il vento a favore; il fumo infatti avrebbe celato il fuoristrada dall’alto
per i primi trenta chilometri. Quando Smith fosse uscito dalla foschia sarebbe
ormai stato ben lontano dall’area sulla quale si stavano concentrando le forze di
Sembutu.
Superò una curva e sul rettilineo successivo accelerò, approfittando della luce
intensa dei fari alogeni montati sul tetto. Dov’era quel bastardo iraniano? E se si
era sbagliato? C’era davvero una pista di atterraggio, a nord? Se invece Omidi
avesse usato altri mezzi di fuga?
Scosse energicamente la testa. Come diavolo gli venivano in mente certe idee?
Doveva restare concentrato.
Svoltò di nuovo e si aggrappò al volante, strizzando gli occhi per mettere a
fuoco due aloni di luce rossastra, appena visibili in lontananza. Quando fu a
meno di duecento metri dal malandato veicolo militare, questo accelerò
bruscamente e Smith ebbe la certezza di aver trovato quello che cercava. Omidi
aveva capito di essere seguito e ora tentava di seminarlo.
213
possibilità. Tamponare il mezzo pesante era inutile, sarebbe servito solo a
distruggere la griglia anteriore del Land Cruiser.
Sparare dal finestrino con una mano sola sembrava ugualmente poco fattibile.
Gli restava solo un’ultima opzione, non tanto migliore delle altre.
Scelse l’AK-47 in migliori condizioni tra quelli trovati lungo la strada, impostò
il cruise control e si alzò in piedi, sporgendosi dal tettuccio panoramico.
Stava per mirare alla ruota posteriore sinistra, quando la sponda sul retro del
camion si aprì. Smith spostò la canna del fucile in direzione del movimento.
Riconobbe una sagoma femminile: era Sarie van Keuren, scarmigliata, il volto
tumefatto. Era in ginocchio e alle sue spalle c’era Dahab, con un braccio fasciato
stretto attorno al collo di lei e una mitragliatrice appoggiata a una cassa lì vicino.
Finché i veicoli avessero continuato la loro folle corsa, gli restava un’unica
possibilità. Puntare al baricentro di Sarie, nella speranza che il proiettile colpisse
l’uomo alle sue spalle.
Smith esitò solo per una frazione di secondo prima di appoggiare il dito sul
grilletto, ma al jihadista bastò. Esplose una raffica di colpi contro la griglia del
radiatore del Land Cruiser, e di rimbalzo sul parabrezza.
Smith tornò a sedersi, lasciando scivolare l’AK-47 sul tettuccio e dunque sulla
strada. I proiettili continuavano a fischiargli intorno mentre si rimetteva al
volante, cercando di recuperare il controllo dell’auto. Gli pneumatici dalla parte
del passeggero finirono in un fossato e il veicolo si ribaltò, mentre Smith veniva
sballottato su e giù nell’abitacolo.
Alla fine il fuoristrada si fermò contro un albero, con le ruote in aria, mentre
Dahab continuava a sparare alla parte inferiore nel tentativo di far esplodere il
serbatoio. Per fortuna i proiettili rimbalzarono sulla carrozzeria blindata che
tanto aveva impressionato Sarie, e presto le raffiche s’interruppero.
Stordito, Smith strisciò lentamente fuori dal finestrino rotto del lato del
passeggero e tornò barcollando sulla strada con uno degli AK-47 rimasti, ma il
camion era già scomparso nell’oscurità.
214
Capitolo 55
Randi Russell lasciò cadere un sandwich mangiato a metà nel cestino accanto
alla scrivania e si guardò intorno. Le era stato assegnato un ufficio provvisorio, il
cui arredo era costituito solo da un computer, la scrivania con una sedia e un
poster incorniciato vicino alla porta.
Era la foto di una canoa con quattro rematori, e la didascalia recitava «Lavoro
di squadra». Voleva essere ironica, nessun dubbio.
In quel momento avrebbe voluto più di ogni altra cosa essere di nuovo in
Afghanistan. Sentire il vento ululare tra le cime montuose, vedere i magnifici
colori dei campi di papaveri, sperimentare di nuovo la sensazione di vuoto totale.
Le mancava poter avere almeno una certezza: sapere che i talebani avrebbero
fatto di tutto per eliminarla e che i suoi uomini avrebbero fatto di tutto per
impedirlo.
Sotto diversi punti di vista, aveva passato la vita a cercare di prolungare il più
possibile il gioco di guardie e ladri per il quale aveva abbandonato le bambole fin
da piccola. Gli uni contro gli altri, e armi a volontà.
Ma quello era il passato. Adesso erano gli adulti a giocare.
Negli ultimi due giorni aveva usato tutti i metodi, legali e illegali, per scavare
a fondo nella vita di Nathaniel Frederick Klein. Le sue credenziali erano
immacolate, godeva di un rispetto pressoché universale e persino i suoi detrattori
usavano termini come «persona brillante» e «autentico patriota» per descriverlo.
Ancora più interessante era la conferma di un suo vago ricordo circa il rapporto
personale tra Klein e il presidente Castilla: erano amici sin dai tempi
dell’università.
Ovviamente a quel punto era Castilla la persona «molto influente» del
governo cui alludeva Klein, dunque dietro Covert-One c’erano i finanziamenti e il
potere della Casa Bianca. Ma di questo non aveva prove.
Si era messa in contatto con Marty Zellerbach, essendo lui il primo a cui si
sarebbe rivolta se qualcuno le avesse dato una copia di quel video girato in
Uganda. La sua sensazione si era rivelata esatta ed era riuscita a farsi mostrare le
sue analisi, dopo aver dovuto giurare di non rivelare a nessuno che ne aveva
215
tenuto una copia.
Randi rimase seduta in silenzio per qualche altro minuto, poi alzò il telefono e
chiamò Charles Mayfield, vicedirettore della CIA.
«Non dirmi che non puoi venire a pranzo con me domani» le rispose.
Erano amici di lunga data e Mayfield le aveva sempre guardato le spalle,
anche quando questo poteva mettere a rischio la sua carriera.
Ma fin dove era disposto a spingersi per lei?
«Ho bisogno di parlarti, Chuck. Subito.» «Non mi piace il tono della tua voce.
Di cosa?» Randi puntò un gomito sulla scrivania e appoggiò il mento sulla mano.
Bella domanda.
216
Capitolo 56
Uganda settentrionale
Peter Howell frenò di colpo facendo sgommare la jeep rubata, correndo nella
polvere fino al Land Cruiser rovesciato sul tetto. La fiancata e il muso, alla debole
luce dell’unico faro funzionante della jeep, erano crivellati di fori di proiettili ed
ebbe un attimo di esitazione prima di guardare all’interno.
Non c’era sangue e, grazie a Dio, nessun corpo. Solo un paio di AK47
arrugginiti, senza i caricatori.
Aveva già perso degli amici in operazioni sul campo e, in effetti, Jon Smith era
tra gli ultimi suoi commilitoni ancora in vita. Ma le circostanze della morte degli
altri erano state molto diverse.
Ragionando a mente lucida, non più ossessionato dall’idea di vendetta, vedeva
chiaramente cosa aveva fatto. Aveva messo a rischio una missione della quale
faceva parte, si era disinteressato dei milioni di potenziali vittime dell’infezione e,
cosa peggiore di tutte, aveva abbandonato un uomo che non avrebbe mai fatto lo
stesso con lui.
Howell si rialzò e si mise a studiare le impronte nella polvere, sul ciglio della
strada. Le seguì per alcuni metri e notò l’allungarsi delle falcate. Smith non
soltanto era vivo, ma stava anche abbastanza bene da poter correre. Non per
merito suo, comunque.
Passò quasi mezz’ora, senza guasti alla jeep, ma anche senza alcuna traccia di
Smith. Si fermava spesso per controllare la presenza delle impronte, ma le falcate
adesso sembravano più corte e lente.
Nonostante l’ora notturna, c’erano circa trentotto gradi. Neppure Jon Smith
217
avrebbe potuto correre a lungo con quel caldo. Non era possibile.
La luce del faro superstite della jeep era sempre più fioca e Howell si
concentrò sul piccolo cono illuminato davanti al muso, tenendosi pronto a
frenare di fronte a un eventuale ostacolo inaspettato.
La sua trovata era geniale per evitare di rompere un assale, ma gli permise di
accorgersi dell’uomo con l’AK-47 spianato solo all’ultimo momento.
Howell pestò sul freno e girò il volante, perdendo per qualche istante il
controllo del veicolo, mentre la figura si gettava tra gli alberi per non essere
investita. Non appena l’auto si fermò l’inglese balzò fuori, senza pensare a
prendere una delle armi nel retro. «Janani non sarà contento di come hai
conciato la sua macchina.» Al contrario di lui, Smith non aveva voglia di
scherzare mentre si toglieva di dosso un po’ di polvere e si sistemava il fucile in
spalla.
Aveva gli abiti inzuppati di sudore e la faccia sporca di nero, a causa degli
incendi innescati dai bombardamenti di Sembutu.
«Jon, io…» Quando Howell fu abbastanza vicino, Smith gli assestò un pugno
in pieno diaframma, così forte da sollevarlo da terra. L’inglese crollò in ginocchio
e poi rotolò su un fianco, cercando disperatamente di non vomitare.
«Okay» borbottò, appena fu in grado di respirare di nuovo. «Me lo sono
meritato. Ma adesso è tutto a posto, eh, amico? Sarebbe stata un po’ lunga, a
piedi fino a Kampala.»
«E questa è l’unica ragione per cui non ti ho sparato nel sedere» rispose
Smith, tendendogli una mano per aiutarlo a rialzarsi.
«C’è dell’acqua, nell’auto» disse Howell. Smith si avvicinò zoppicando, e
allungò un braccio per prendere una borraccia. Ma qualcosa lo bloccò, facendogli
ritrarre il braccio di scatto e indietreggiare di un passo.
«Cosa diavolo è?» Howell andò verso la jeep e sollevò la testa mozzata di
Caleb Bahame, fissando gli occhi semichiusi mentre Smith puliva con la manica
il sangue da una borraccia.
«Solo un piccolo souvenir.» «Sarà difficile non dare nell’occhio, con quella a
bordo» commentò Smith, versandosi l’acqua sulla faccia e in bocca.
Howell aggrottò la fronte. «Forse hai ragione. Ma devi ammettere che avrei
potuto farne un magnifico posacenere.»
218
Capitolo 57
Il sole si era levato sopra l’orizzonte e già picchiava forte sul caos del traffico
mattiniero alla periferia di Entebbe. Mehrak Omidi sterzò bruscamente per
impedire a un tizio su un pickup anni Settanta di tagliargli la strada, ma subito si
rimproverò tra sé e sé. Non era il momento di farsi sopraffare dalla frustrazione.
Una rapida occhiata attraverso il vetro rotto del lunotto posteriore gli
confermò che la situazione era sotto controllo. La van Keuren e De Vries erano
legati e imbavagliati nel cassone telonato e Dahab sorvegliava la strada seduto
accanto alla sponda. Tuttavia, il sudanese non aveva più l’aria altera e fiera
ostentata quando si trovavano all’accampamento di Bahame. Era sballottato
nell’autocarro ondeggiante e la veste, prima immacolata, era fradicia di sudore.
Doveva aspettarselo. Presto essere l’ospite del parassita l’avrebbe condotto
alla morte, un destino di cui era consapevole fin dall’inizio.
Sarebbe stato consegnato nelle mani di Dio come un martire.
«Eccoli là!» esclamò Dahab all’improvviso.
«Di cosa stai parlando?» chiese Omidi, guardando le auto alle sue spalle dallo
specchietto.
L’uomo parlava appena un po’ di inglese e puntò il dito contro il lembo del
telone, ora chiuso. «Ho visto i bianchi!»
Omidi continuò a guardare nello specchietto, ma appoggiò una mano sulla
pistola al suo fianco. Fino a quel momento Dahab non aveva dato segnali di
confusione mentale. Forse era lui a non aver notato i sintomi? E se il sudanese
stesse iniziando ad avere le allucinazioni?
Poi li vide. Una jeep decappottata dell’esercito, circa dieci auto dietro di loro,
avanzava nel traffico cercando di superare gli altri veicoli. Omidi pulì lo
specchietto dalla polvere e si concentrò sull’immagine riflessa dei due uomini.
Era impossibile distinguere i loro lineamenti, ma sentì una scarica di adrenalina
quando la corporatura, l’abbigliamento e il colore di capelli dei due confermarono
i suoi sospetti. Pareva impossibile, ma era proprio vero. Jon Smith e Peter
Howell.
219
Omidi trasse un profondo respiro e buttò fuori l’aria lentamente, cercando di
dominare il panico che si sentiva crescere dentro. Non poteva fallire adesso. Non
quando era così vicino.
«Signor presidente. Sono sulla strada per Entebbe, nei pressi di Kisubi. Smith
e Howell sono dietro di me. Io…» «Perché il tuo problema dovrebbe riguardarmi,
Mehrak?» Omidi cercò di mantenere un tono di voce calmo e rispettoso. «Ho
bisogno di un suo intervento. Sono su una jeep decappottata e hanno una guida
pericolosa. Li faccia fermare dalla polizia. Mi servono solo quindici minuti.» «Ho
già fatto arrestare e interrogare Smith e Howell, ma non ti è bastato. Li ho
consegnati nelle tue mani, su al nord, e te li sei fatti scappare. Se tu non sei
riuscito a tenerli a bada è…»
«E io le ho consegnato Bahame e i suoi seguaci, permettendole di porre fine a
un’insurrezione che avrebbe spazzato via il suo governo.» «Quindi abbiamo
onorato entrambi il nostro accordo. Ti auguro buona fortuna.» La comunicazione
venne interrotta e Omidi sbatté il telefono sul sedile. Vigliacco.
Da una rapida occhiata allo specchietto vide che la jeep non era ancora
riuscita a superare e dal cofano usciva uno sbuffo di vapore.
Ma continuavano a stargli dietro e il suo mezzo era facilmente individuabile.
«Dahab!»
L’africano si avvicinò al finestrino posteriore.
«C’è stato un cambio di programma» lo informò Omidi, scandendo le parole
in modo da farsi capire. «Devi farlo adesso.» Dahab afferrò De Vries e lo girò di
spalle, ignorando le sue grida soffocate mentre gli praticava un taglio profondo
sulla schiena. La van Keuren cercò di allontanarlo scalciando quando il sudanese
si fece un taglio a sua volta sul pollice, per poi premerlo nella ferita dell’anziano
medico.
De Vries non impiegò molto tempo a capire cosa fosse accaduto e che non
c’era più nulla contro cui lottare. Cominciò a piangere in silenzio attraverso il
bavaglio, scosso da lievi tremiti.
220
Soddisfatto, Omidi si concentrò di nuovo sulla strada. «Dahab, tu scendi
all’aeroporto di Entebbe. Hai capito?» «Ho capito. Quali sono le istruzioni?»
221
Capitolo 58
Entebbe, Uganda
222
un’emergenza, dato che oggi quasi tutti hanno un cellulare.» Si sforzò di
sorridere con educazione. «Ho urgente bisogno di mettermi in contatto con la
mia famiglia. Ci sono dei telefoni funzionanti?»
«Temo di no.» «Lei ne ha forse uno da prestarmi? Le pagherei la chiamata.»
«Ce l’ho, ma non è abilitato per le chiamate internazionali. Forse le conviene
acquistare un telefono cellulare e…» «Comprare un cellulare» la interruppe. «E
dove posso trovarlo?» «Qui c’è un negozio. Segua il corridoio fino in fondo e giri
a sinistra.
Non può sbagliare.»
Il negozio era dove aveva detto la hostess, ma c’era un solo commesso e
cinque clienti in coda. A giudicare dal tono impaziente dell’uomo di fronte al
banco e dall’espressione seccata della donna dietro di lui, l’attesa avrebbe potuto
protrarsi per ore.
«Jon?»
Si girò e vide Howell sulla porta del negozio che lo invitava a uscire.
Trovarono un posto tranquillo in fondo al terminal, lontani da orecchie
indiscrete.
«Abbiamo un problema, amico.»
«Quale? Ci sono altre piste qui intorno?» «No. Ma ho incontrato il tizio alto,
quello della grotta.» «Quello che è stato infettato dalla donna?» Howell annuì.
«Dove?»
«Era ai controlli di sicurezza. Sta per salire su un volo diretto a Bruxelles e
non ha un bell’aspetto.» Smith si accigliò. Calcolò mentalmente da quanto tempo
l’uomo aveva contratto l’infezione e ci aggiunse le ore di volo necessarie per
atterrare in Belgio.
223
erano vicine allo zero.
224
Capitolo 59
Alla fine, dopo diverse ore, avvistò la luce dei fari e alzò il fucile, seguendo con
il mirino l’auto mentre svoltava sul vialetto. La portiera si aprì e ne uscì una
donna dai capelli biondi, a passi un po’ incerti.
Sarà ubriaca, pensò. Chissà cosa poteva aver combinato nella vita senza la
supervisione di un padre o di un marito. Gli americani volevano fare esattamente
questo alla sua gente, privarli della loro identità e trasformare in puttane le loro
figlie. Come poteva un Paese incapace di controllare le proprie donne sperare di
225
avere la meglio sull’Afghanistan?
Il suo bersaglio si avviò a passi lenti sul terreno insidioso, tirando su il collo
del cappotto mentre andava alla porta. E questa era la grande Randi Russell? La
donna responsabile della morte di tanti suoi fratelli talebani? Non riusciva quasi
a crederci, trovandosela davanti.
All’inizio la vedeva solo di profilo e attese che arrivasse davanti alla porta,
mirando alla schiena. Gohlam inspirò e trattenne il fiato, cercando di contenere
l’eccitazione e concentrandosi per non anticipare inconsciamente il rinculo del
fucile.
Lo sparo risuonò fortissimo tra i fiocchi di neve, echeggiando per un
momento tra gli alberi prima di lasciargli solo un ronzio nelle orecchie. La
Russell cadde in avanti, sbatté contro la porta e crollò nella neve accumulata sul
bordo del vialetto.
Capì subito cosa stava succedendo e si gettò sulla destra, evitando per un
soffio un secondo proiettile che andò a conficcarsi nel tronco al quale era
appoggiato. I rami attutirono la sua caduta e quando fu a terra riuscì a rotolare su
un fianco, dandosi la spinta per rialzarsi e cominciare a correre. Risuonò un altro
sparo. Credeva di essere sul punto di morire, invece il proiettile gli passò accanto
fischiando, lasciandolo indenne.
D’istinto Randi Russell cercò di muoversi per mettersi al riparo. Non poteva
fare altro. Udiva delle grida e gli spari, ma non sentiva più le braccia e le gambe.
L’intenso dolore alla schiena era scomparso, lasciandole un’insensibilità diffusa,
e non riusciva a capire se stesse respirando. La neve era diventata rossa e si
chiese perché.
«Randi!» Si sentiva del tutto senza peso mentre veniva trascinata via dalla
porta di casa.
«Tieni duro, Randi!» Non ci riusciva. Questa volta, no. Chiuse gli occhi ed
ebbe l’impressione di essere ancora più leggera. Avevano pianificato tutto.
Come diavolo aveva fatto a ritrovarsi a faccia in giù nella neve?
Eric Ivers teneva il collo del cappotto di Randi con una mano e il fucile con
226
l’altra, sparando in direzione del bosco mentre un secondo uomo sul tetto mirava
con precisione.
«Ci siamo quasi, Randi! Resisti!» la incoraggiò, lasciando una scia vermiglia
nella neve mentre la portava al riparo dell’auto. La sua partner attraversò la
strada di corsa per sparire nel bosco, mentre alla radio arrivava una
comunicazione del tiratore scelto. «Non ce l’ho più nel mirino. L’aggressore è
illeso.»
Ivers imprecò tra i denti e adagiò Randi sul vialetto carrabile, incerto sul da
farsi. Era un militare, non un medico. Si limitò a girarla di lato in modo che
potesse respirare anche se avesse vomitato, e si mise in contatto con la sua
partner.
«Karen, hai qualcosa?» chiese nel laringofono.
227
Klein. Non so se basterà la neve a spegnere le fiamme.» «Ho capito. Un elicottero
di estrazione è in arrivo tra pochi minuti.
Brucia il cottage e la macchina di Randi, poi allontanatevi. Più a lungo
riusciamo a tenere nascosto l’accaduto, più guadagniamo tempo.»
228
Capitolo 60
229
La donna lo studiò in volto per qualche istante e, persuadendosi che non era
pazzo né uno in vena di scherzi, si girò verso la cabina di comando. «Parlerò con
il pilota.»
Quando guardò di nuovo oltre la tenda, Dahab stava discutendo in modo
animato con il passeggero seduto accanto a lui. Smith s’irrigidì, preparandosi a
segnalare a Howell di intervenire, ma il sudanese sembrò d’un tratto perdere il
filo del discorso, ponendo fine al diverbio.
«Signore?» lo chiamò la hostess, ferma alle sue spalle. «Vuole seguirmi, per
favore?» Lo condusse alla cucina di bordo, dove lo aspettava un uomo basso in
uniforme, dall’espressione stizzita.
«Sono Christof Maes, comandante di questo volo» si presentò, tendendo la
mano con qualche esitazione. «Dunque, lei ritiene che ci sia un problema
sull’aereo.»
«Temo di sì, capitano. Sono da tempo sulle tracce di un terrorista sudanese,
che in questo momento si trova a bordo…» «È armato? È riuscito a far passare
un’arma attraverso i controlli di sicurezza?» «Non nel senso classico» rispose
Smith, pronto a riferire la storia che si era inventato durante il decollo. «Tuttavia
ha una forma estremamente grave di tubercolosi resistente ai farmaci. Intende
arrivare in Europa e diffondere la malattia.»
«Il telefono andrà benissimo» replicò Smith, lottando per reprimere l’impulso
di strapparglielo di mano. «Ma per il momento le chiederei di non contattare
nessuno. È consigliabile lasciare che siano i nostri rispettivi governi a gestire la
situazione.»
230
Maes aggrottò la fronte mentre Smith faceva la sua chiamata. «Le concederò
un po’ di tempo, colonnello. Ma poi esigo di sapere chi è lei.» Smith annuì e si
allontanò. Maggie Templeton rispose quasi subito.
Non era mai stato tanto felice di sentire la sua voce.
«Creative Party Supplies. Con chi desidera parlare?»
«Ciao, sono Jon, chiamo da un telefono non criptato. Fred è lì?» «Era ansioso
di avere tue notizie» replicò lei in tono disinvolto.
«Resta in linea.» Klein arrivò un momento dopo. «Ciao, Jon. È bello sentire la
tua voce. Ci hai fatto preoccupare, quando abbiamo perso i contatti.»
«Mi dispiace, Fred. Non sono più riuscito a trovare un telefono.
Adesso Peter e io siamo su un volo della Brussels Airlines diretto in Europa.»
«Devo mandare uno dei nostri rappresentanti a prendervi all’aeroporto?» «Non
penso sia necessario. C’è un uomo infetto a bordo dell’aereo e Mehrak e Sarie
hanno deciso di non prendere lo stesso volo. Non so bene come faranno a
tornare.» Ci fu una breve pausa, poi Klein rispose. «Ho capito. Quanto è grave
l’uomo contagiato?» «Potrebbe essere necessario intervenire nel giro di due
ore.»
231
«Speriamo che il tuo superiore sia molto veloce e soprattutto persuasivo» si
augurò indicando lo spiraglio tra le tende. «Da’ un’occhiata.» Un assistente di
volo stava offrendo a Dahab qualcosa da bere, ma lui non ebbe alcuna reazione.
Stava lì seduto e batteva le nocche sul finestrino a intervalli di sei secondi precisi.
232
con una sacca di tela, del tipo usato per la posta, contenente una pesante chiave
inglese e un rotolo di nastro adesivo, l’arma più sofisticata e l’attrezzatura più
pericolosa trovata sull’aereo. Si fermò all’altezza della toilette in coda al velivolo,
guardando un’assistente di volo percorrere agitata il corridoio e appoggiare il suo
notevole décolleté alla fila di sedili dietro al sudanese.
Mentre Dahab si agitava con gesti convulsi per slacciarla, Howell aveva
scansato i passeggeri delle file davanti che fuggivano in preda al panico,
fiondandosi ad afferrare il meccanismo di chiusura per impedirgli di farlo
scattare. Smith strinse il cordoncino di chiusura della sacca attorno al collo di
Dahab con una mano e con l’altra alzò la chiave inglese per colpirlo, senza tener
conto del rollio dell’aereo causato dallo spostamento in massa delle persone.
Mancavano pochi centimetri all’impatto quando il sudanese scattò in avanti.
La potenza del suo movimento aveva qualcosa di disumano e sollevò Smith
contro la fila dei sedili, impedendogli di mandare a segno il colpo.
Con tre uomini adulti che colluttavano nello spazio ridotto di due sedili di
classe economica, Smith non riusciva a dare alla chiave inglese lo slancio
sufficiente ad abbatterla sull’africano. Abbandonò l’utensile, concentrandosi per
233
evitare che la sacca cadesse. Dahab riuscì a voltarsi e gli afferrò la gola. La sua
stretta poderosa sembrava una morsa dotata di cinque dita invece che la mano di
un uomo. Con la circolazione del sangue e le vie respiratorie bloccate, Smith
riuscì soltanto ad aggrapparsi debolmente al polso dell’uomo. Cercò di fare leva
in qualche modo, ma aveva la vista annebbiata e non riusciva a capire da quale
lato fosse la parete. Il rumore di un osso spezzato, che all’inizio temette essere la
propria spina dorsale, allentò la pressione soffocante. Al secondo schiocco la vista
gli si schiarì abbastanza da fargli capire cosa stesse accadendo: Howell stava
spezzando le dita di Dahab, una alla volta.
Alla terza frattura Smith si spinse all’indietro con tutte le sue forze e cadde
sulla schiena nel corridoio, ansimante. Era libero.
Ma anche il sudanese si era liberato. La cintura di sicurezza si era slacciata e
stava barcollando nel corridoio, con Howell appeso come un pupazzo alla sua
spalla. Smith rimase a terra e afferrò le gambe di Dahab con le braccia, facendolo
cadere senza volere sopra Howell.
La sacca scivolò via, ma l’inglese riuscì a rimettergliela in testa, anche se stava
incassando una serie di pugni che facevano risuonare nell’aria lo stesso tonfo
nauseante di una bistecca battuta dal macellaio. Smith lasciò andare le gambe
dell’africano e riprese la chiave inglese, assestandogli un colpo fortissimo alla
nuca. Ma Dahab non crollava, e anzi continuava a picchiare Howell, sempre più
inerme. Non aveva provato alcun dolore, perché era protetto dalla sacca, dal
turbante e dall’infezione stessa.
Smith lo colpì più volte con il pesante attrezzo, sbuffando e ansimando come
un invasato. Sentiva il cranio dell’africano molle sul lato sinistro e si concentrò
su quel punto, stringendo i denti e assestando i colpi con tutte le sue forze.
Alla fine l’uomo si accasciò e Smith si lasciò cadere contro lo schienale dietro
di sé, cercando di riprendere fiato. Gli occhiali da sole erano ancora fissati alla
testa e se li tolse, controllando poi che il taglio sulla guancia fosse ancora sigillato
con la colla. Sembrava tutto a posto.
Howell riuscì a fatica a liberarsi del peso morto di Dahab e cercò di rimettersi
in piedi, come avrebbe fatto qualsiasi ufficiale del SAS degno di questo nome. Le
gambe non lo reggevano, però, e dopo qualche coraggioso tentativo ricadde a
terra, scosso da incontrollabili colpi di tosse.
234
Capitolo 61
Jon Smith scavalcò il corpo di Dahab, avvolto nei sacchi neri della spazzatura,
e si avvicinò alla porta socchiusa. «Tutto bene, Peter?» Howell era chino sul
lavabo e si reggeva con i palmi delle mani sui due lati. Quando parlò, dalla bocca
gli uscì un filo di saliva rossastra.
«Sì, grazie per l’interessamento.» «Pensi che il suo sangue ti sia entrato da
qualche taglio?» «Come diavolo faccio a saperlo, Jon? Non ho più un centimetro
quadrato di pelle senza tagli o abrasioni.» «Vedo…» «E tu?» «Lo stesso.» «Be’,
allora lo sapremo presto.»
Il pilota aveva fatto del suo meglio per calmare i passeggeri, spiegando loro
che Dahab era un corriere della droga ricercato per omicidio e che i due erano
dell’Interpol, ma senza riuscire a convincerli del tutto. I cauti sussurri si erano
trasformati in discussioni ad alta voce e in lingue diverse, e dopo ancora in un
brusio di fondo, costante e venato di panico. Dieci file più avanti, due uomini si
erano alzati in piedi e sbraitavano l’uno contro l’altro. La situazione stava
andando fuori controllo. Quando uno dei due fu spinto dall’altro sulle ginocchia
della signora alle proprie spalle, Smith uscì da dietro la tenda e batté forte la
mano sulla parete.
«L’uomo che è stato ucciso era un terrorista.» Si alzò un coro di voci con una
raffica di domande: Aveva dei complici a bordo? C’era una bomba? Com’era
riuscito a imbarcarsi?
Smith attese qualche istante prima di iniziare a rimpolpare la storia imbastita
per l’equipaggio.
235
«Non era armato e non ci sono esplosivi sull’aereo. Era affetto da una forma
di tubercolosi farmacoresistente e intendeva diffondere il batterio in tutta
Europa.» Un’altra salva di domande, mentre il livello di agitazione saliva alle
stelle.
«Per favore! Lasciatemi finire. Voglio sottolineare che questo ceppo di batteri
della TBC può essere curato con antibiotici specifici. Si tratta però di medicine
costose, di cui sono disponibili solo poche migliaia di dosi. Come di certo
capirete, questa situazione si rivelerebbe disastrosa in caso di pandemia, mentre
non rappresenta un problema per le persone a bordo di questo aereo. Siamo stati
dirottati su una base militare, dove saremo tutti visitati da medici americani
specializzati. Nel caso altamente improbabile che qualcuno di voi abbia contratto
la malattia, sarà curato con appositi farmaci e terapie.»
Jon Smith rimase in piedi in fondo all’abitacolo, guardando dal finestrino lo
scenario sotto i loro piedi. A terra c’erano tre aerei da trasporto C-5 e alcuni
soldati stavano montando delle tende mediche.
Lungo la pista erano allineati numerosi veicoli militari e diverse figure in
uniforme verde correvano indaffarate alla luce delle torce elettriche. Non era
certo un’immagine tranquillizzante per i passeggeri, ma non c’era tempo di
preoccuparsi di questo.
Atterrarono e il velivolo avanzò sobbalzando per qualche metro, prima di
fermarsi di fronte a una barricata in lamiera d’acciaio. Fu subito circondato da
uomini armati ed equipaggiati contro il rischio biologico. Attorno alle ruote del
carrello furono posizionati dei blocchi per fare in modo che l’aereo non si
staccasse da terra. Le grida dei passeggeri spaventati quasi coprirono gli squilli
del telefono satellitare del pilota.
Rispose Smith. «Parla pure.» «Qual è la situazione?» domandò Fred Klein.
«Purtroppo il paziente non ce l’ha fatta. Abbiamo avvolto il corpo in sacchi di
plastica e l’abbiamo sistemato in coda.» «Possibilità di contagio?»
«Per i passeggeri e il personale di bordo, direi minima. Per me e Peter, da
media ad alta.» «Adesso vi faccio scendere. Nessun altro deve muoversi finché
non è tutto organizzato. Andate all’uscita più vicina alla cabina di pilotaggio.
Troverete una scala.» «Dammi due minuti» rispose Smith. «Devo informare i
passeggeri.»
«Due minuti, allora.» Tornò nel corridoio e individuò Peter mentre cercava di
farsi largo fino alla prua dell’aereo, assediato da persone concitate che gli
indicavano i soldati a terra.
«Ehi! Posso avere di nuovo la vostra attenzione, per favore?» Tutti lo
guardarono e Howell si servì del diversivo per raggiungere zoppicando la parte
anteriore del velivolo.
236
«Il mio collega e io stiamo per scendere» esordì Smith, prima di essere
sommerso da nuove domande.
«Calmatevi tutti e statemi a sentire! Siamo stati a diretto contatto con il
portatore del virus, dunque potremmo essere stati infettati. Ci metteranno in
quarantena, così non potremo contagiarvi in alcun modo. Sta arrivando altro
personale medico e altro equipaggiamento.
Vi faranno scendere non appena sarà tutto pronto.» «Quando ci verranno
somministrati gli antibiotici?» gridò una voce.
«Forse non ne avrete bisogno, poiché dubito che qualcuno di voi si ammalerà:
questo ceppo batterico non è particolarmente contagioso.
Ma voglio rassicurarvi: conosco molti dei medici presenti, sono i migliori al
mondo. Siete in ottime mani.» Da fuori una mano batté sul portellone e Smith
girò la maniglia dall’interno.
Quando lo aprì, il soldato era già sceso a terra e si era posizionato dietro a una
mitragliatrice protetta da sacchi di sabbia. Alcuni dei passeggeri fecero per
avvicinarsi all’uscita, ma Howell li fermò.
«Restate dove siete, per favore» li esortò, indietreggiando verso la scala.
«Potrei essere infetto.» A queste parole la gente si fermò e Smith scese rapido
dalla scala, cercando di non pensare alla batteria di armi puntate sulla sua
schiena.
237
Capitolo 62
238
«Meglio, adesso, generale» rispose Howell, sollevando la bottiglia di scotch in
un improbabile saluto rispettoso.
Klein si sedette al di là del tendone di plastica, di fronte a loro. «Ho pensato
che potesse farvi piacere bere qualcosa, da quanto ho letto.» «Grazie, signore»
disse Smith, stando al gioco.
Klein annuì e continuò. «Se voi due avete contratto l’infezione, dovreste
cominciare a manifestare i primi sintomi tra le sette e le quindici ore dal
contagio.»
«Sì, signore.» Smith calcolò nella sua mente per l’ennesima volta quanto era
passato dalla colluttazione con Dahab: sette ore e trentanove minuti. «Sembra
cominciare con una sensazione di generale disorientamento, seguita da
un’emorragia e poi da una furia violenta.» L’aereo iniziò il rullaggio sulla pista e
Klein fece un gesto verso di loro.
«Allacciate le cinture.» L’implicazione era chiara, e dopo averlo fatto ognuno
dei due si assicurò un polso al sedile con le manette fornite.
239
nostri alleati, e inoltre russi e cinesi non staranno a guardare mentre noi
andiamo avanti con le armi spianate. Certo, abbiamo uomini e mezzi disponibili.
Un attacco mirato sarebbe auspicabile, ma non abbiamo idea di dove si trovi
Omidi né dove abbia portato il parassita.» «Sono stato io a mandare tutto a
puttane, lo so benissimo» scattò Smith. «Dobbiamo per forza insistere su questo
punto?»
«Già, le buone notizie. La CIA dispone di diversi piani di emergenza per gli
attacchi bioterroristici, e uno in particolare risulta facilmente applicabile a questo
scenario. Abbiamo riunito una squadra di esperti per mettere a punto il piano e in
questo momento stiamo reperendo equipaggiamento e procedure in tutti gli Stati
Uniti. Inoltre stiamo richiamando dall’estero dei militari per gestire le
operazioni.» «Ci sono stime sulle possibili vittime?» domandò Smith.
«Un piano di contenimento? Tutto qui? Gli iraniani sono sul punto di
utilizzare un’arma in grado di far rimpiangere la bomba atomica e noi pensiamo a
un piano di contenimento?» «No, c’è dell’altro. Stiamo trattando con la
resistenza iraniana.» «La resistenza? Siete in contatto con Farrokh?»
«Contatto è una parola grossa. Abbiamo avviato comunicazioni con persone
che dicono di essere in collegamento con lui. Certo, si tratta di un canale
secondario, per usare un eufemismo, colonnello. Riesce a immaginare cosa
succederebbe se si venisse a sapere che siamo vicini al leader della resistenza in
Iran?»
Howell aveva lasciato perdere il bicchiere e stava bevendo direttamente dalla
bottiglia. «Con il dovuto rispetto, signore, mi sembra che lei non sia così sicuro di
240
questi contatti.» «Non del tutto. Sentite, noi abbiamo deciso di essere più o meno
onesti con gli uomini di Farrokh riguardo alla situazione, e abbiamo chiesto loro
di aiutarci a introdurre nel Paese le nostre forze speciali per localizzare la
struttura in cui Omidi sta lavorando con il parassita.»
«E cosa hanno detto?» «Hanno opposto un netto rifiuto. Tuttavia hanno
acconsentito a una visita da parte del medico inquirente e del suo
accompagnatore inglese.» «Una visita?»
«Di più non posso fare. È gente molto sospettosa.» «Quindi, sempre che non
moriamo durante il viaggio, ci sta mandando in Iran?» «Temo di sì. Entrerete nel
Paese passando dalla Turchia e vi unirete alle forze della resistenza. Fate in modo
di conquistare la loro fiducia perché vi aiutino a trovare la van Keuren. Poi ci
riferirete quello che avete scoperto e resterete in attesa.»
Smith guardava fisso il suo capo. «Tutto qui?» «Vi sto chiedendo molto,
colonnello, lo so. E, per essere sincero, non mi aspetto un risultato positivo
dell’operazione. Anche se riusciste davvero a raggiungere Farrokh, con tutta
probabilità lui capirà che siete delle spie e vi ucciderà.» «E poi, un milione di
persone morirà» commentò Smith.
Klein scosse la testa. «Un milione di americani. Abbiamo messo a punto dei
piani di rappresaglia, e non andremo per il sottile, questo posso assicurarvelo.»
«Quante vittime pensa ci saranno in Iran?»
«Dopo aver azzerato le loro forze armate, puntiamo a distruggere tutte le città
più importanti, la rete elettrica e gli acquedotti. Non è possibile fare una stima
precisa delle vittime, perché in tutta onestà non esiste un precedente nella storia.
Posso comunque affermare che il numero di morti per malattia, fame e sete nel
periodo immediatamente successivo potrebbe essere di oltre dieci volte superiore
a quello delle vittime dell’assalto iniziale. Se non possiamo usare lo scalpello,
allora useremo il martello.»
241
Capitolo 63
Nonostante la sua lunga esperienza nella ricerca sui parassiti, tutto ciò le
sembrava impossibile. Da un punto di vista razionale, sapeva bene che gli esseri
umani appartengono a tutti gli effetti al regno animale, ma nel profondo aveva
sempre creduto nell’esistenza dell’anima. Vedere con i suoi occhi quanto fosse
facile sottrarla a qualcuno, essere costretta ad assistere allo spettacolo di una
persona gentile trasformarsi in un mostro era una cosa terrificante.
«Thomas…»
Aveva lo sguardo vacuo e fisso sul sedile di fronte, e lei si vergognò per la
paura che la assalì quando lui voltò la testa a guardarla.
Pareva non riconoscere più nulla, non si rendeva neppure conto della
presenza di un altro essere umano.
Come faceva sempre quando si sentiva sola, depressa o spaventata, Sarie si
rifugiò con la mente nella scienza. Come agiva il parassita?
Quali aree del cervello prendeva di mira? Con quale velocità si moltiplicava?
Quel distacco che ora leggeva negli occhi del medico era il primo passo nella
creazione di un essere incapace di provare compassione o pietà?
«Stiamo per atterrare» la avvertì Omidi. «Si sieda.» Sarie si girò a guardarlo:
il suo volto, privo di espressione, sembrava una maschera. Non era molto diverso
da quello del povero Thomas.
A certi uomini non serve un parassita. Si trasformano in mostri da soli.
La pista di atterraggio era ben camuffata, e solo a meno di cento metri da terra
apparvero due strisce di deboli luci a segnalarne i confini. Per il resto riuscì a
distinguere solo alcuni affioramenti rocciosi e il profilo delle montagne
illuminate dalla luce della luna.
242
«La sua nuova casa» annunciò Omidi. «Il luogo dove lei renderà questo
parassita trasportabile e più virulento.» «Cosa? Perché, in nome di Dio, vuole
obbligarmi a fare questo?
Bahame è pazzo, ma lei non lo è affatto. Chiunque abbia visto gli effetti di
questa malattia nelle vittime, persone innocenti, non potrebbe nemmeno pensare
di usarla come arma.» L’iraniano sorrise, compiaciuto. «L’Occidente ha imposto
al mondo una struttura morale che riesce sempre e comunque a manipolare a
proprio favore, dottoressa van Keuren. Se gli americani colpiscono con un missile
una scuola elementare o un mercato allo scopo di uccidere un solo uomo del
quale non condividono l’ideologia, le vittime sono considerate un danno
collaterale, ossia una conseguenza accidentale e secondaria di una guerra che
neppure esiste. Se invece un aereo si scaglia contro un grattacielo americano,
allora è uno sconvolgente atto di terrorismo. Perché?»
«Non so neppure di cosa diavolo stia parlando.» «Secondo l’Occidente è
giusto uccidere solo se si usano armi considerate onorevoli. Ma poi fa tutto il
possibile per impedire agli altri di procurarsi quelle armi. Loro, gli occidentali,
possono accumulare migliaia di testate nucleari con cui minacciare il mio Paese,
ma noi non possiamo fare altrettanto. Loro possono uccidere quante donne e
bambini vogliono con bombe sofisticate prodotte dalla Lockheed Martin e dalla
General Dynamics, ma se un musulmano facesse la stessa cosa con un esplosivo
autoprodotto nella sua cantina sarebbe inaccettabile. Gli americani hanno fatto il
lavaggio del cervello al resto del mondo, cambiando di continuo le regole del
gioco, e sempre a loro vantaggio. Ma adesso il tempo è scaduto. Il loro tempo è
scaduto. L’ordine delle cose sta per cambiare.»
243
Capitolo 64
Turchia orientale
Howell saltò giù dopo il turco, cingendogli le spalle mentre facevano il giro
della macchina. Era bello vederlo di nuovo normale. Bahame era morto e loro
avevano superato di gran lunga il lasso di tempo in cui avrebbero dovuto
manifestarsi i primi sintomi, se fossero stati contagiati. Considerato il tipo di vita
che conducevano, le cose erano rientrate più o meno nella loro routine.
Sci e zaini erano già pronti sulla neve, accanto alla macchina, quando Smith li
raggiunse. Faceva molto freddo e aveva la sensazione di essere stato investito da
un tir. Le ferite non erano gravi, ma lividi, dolori e abrasioni sarebbero potuti
bastare per due vite. Questo, unito al fatto di aver passato la maggior parte delle
ore di volo per la Turchia a cercare di interpretare con ansia ogni minimo
244
impulso di rabbia e ogni momento di confusione, mentre Howell russava
stringendo la sua bottiglia di scotch, l’aveva reso stanco e privo di energie.
«Questo è il meglio che ho potuto procurarvi senza farvi sembrare in tenuta
mimetica» disse Nazim, porgendo loro una pila di capi di abbigliamento usati, nei
toni del bianco e del grigio chiaro. Smith si spogliò, esponendo per qualche
istante al freddo sferzante gli ematomi nella parte bassa della schiena e sul
gomito prima di cambiarsi.
«Ho controllato gli sci personalmente e sono in condizioni perfette» continuò
Nazim. «Una delle due paia di scarponi non è messa tanto bene, ma mi hanno
detto di non preoccuparmi.»
Quando li vide, Smith sorrise per l’efficienza prodigiosa di Klein, o più
probabilmente di Maggie Templeton. Gli scarponi erano del suo capo. Recuperati
dal garage e spediti in Turchia, in tempo per il loro arrivo.
«Voi andate da quella parte» disse il turco, indicando una stretta gola fra due
pendici montuose sferzate dal vento. Smith cercò di studiare il percorso, ma con
la neve e le nuvole grigie sospese al limitare delle pareti rocciose, era impossibile
vedere oltre quattrocento metri.
«Il confine iraniano è a circa dieci chilometri. Non ci sono strutture difensive
fisse, ma lì intorno girano le pattuglie di sorveglianza.
Passaporti e documenti sono nei vostri zaini. Racconterete che siete due
escursionisti e che vi siete persi. È una storia poco originale, ma plausibile. La
cosa migliore è evitare ogni contatto.» «E gli uomini di Farrokh?» chiese Smith,
appoggiandosi al paraurti per infilare gli scarponi. Nonostante i pugni terrificanti
presi solo poche ore prima, Howell stava già fissando le pelli di foca agli sci
perché avessero la trazione necessaria a superare la gola tra i monti.
«Sanno del vostro arrivo e da quale parte entrerete.» «Come faremo a
riconoscerli?»
245
si avviò lungo la strada del ritorno. Dopo pochi metri inchiodò la macchina e
abbassò di nuovo il finestrino. «Peter!
382 a.C., battaglia di Gaugamela. Chi aveva l’esercito più grande?» «Dario. Ed
era il 331.»
Nazim salutò i due con il pollice alzato e scomparve nella nebbia, imboccando
la discesa con una leggera sbandata.
Smith sistemò gli scarponi negli appositi attacchi, poi controllò se le batterie
nel segnalatore antivalanga erano cariche. «Sei pronto?» «Sì.» Smith fece segno
con la testa in direzione della gola. «Prima gli anziani.»
246
Capitolo 65
Iran centrale
Sarie van Keuren fece quanto le veniva chiesto senza ribellarsi. Non aveva
altra scelta. Aveva passato le ultime undici ore chiusa in una stanza, forse in una
residenza per studenti, senza riuscire a chiudere occhio. Il pensiero di De Vries,
gli iraniani, Smith e il parassita sarebbe bastato a tenerla sveglia per il resto della
vita.
Mehrak Omidi aprì una pesante porta d’acciaio, simile a tutte le altre che
avevano superato, e con un cenno la invitò a entrare. Quando Sarie fece per
indietreggiare, lui la spinse all’interno.
Era una semplice sala conferenze. Non c’erano sedie a sufficienza attorno al
grande tavolo e alcuni erano rimasti in piedi, appoggiati al muro. Le espressioni
dei presenti variavano dalla dura risolutezza al panico mal celato.
247
osservare in Africa riguardo l’infezione, e conoscono già il suo curriculum e la
sua fama.»
«Il mio curriculum e la mia fama?» gli fece eco, incredula, con una voce che
non sembrava quasi più la sua. «Ma di cosa sta parlando?
Cosa state facendo, qui?» Indicò De Vries, ormai esausto, in ginocchio di
fronte allo schermo trasparente. «Vedete quell’uomo?
Vogliono farvi trasformare tutto questo in un’arma. Per poi usarla contro altri
esseri umani!» «La sua indignazione morale è encomiabile» osservò Omidi. «Ma
lei non era forse in missione insieme a un medico americano del Centro militare
di ricerca per le armi biologiche e un ex agente dei servizi segreti britannici?»
«Gli Stati Uniti non hanno un programma di armamento biologico» replicò
lei.
«Lei mi sembra un po’ ingenua, dottoressa. Da soli, gli americani sostengono
spese militari più alte di tutto il resto del mondo. Sono l’unico Paese ad aver
utilizzato un ordigno nucleare durante la guerra, e in particolare contro obiettivi
civili.» Parlando guardava i presenti, rivolto più a loro che a lei. «Invadono e
bombardano qualsiasi Paese non cristiano alla minima provocazione, a volte
anche senza alcun pretesto. Lei crede davvero che esista qualcosa in grado di
porre fine a questo tipo di ricerca?»
«Anche se ciò che sostiene fosse vero, perché dovreste fare lo stesso anche
voi?» «Non abbiamo intenzione di sferrare un attacco biologico contro gli Stati
Uniti, dottoressa. Utilizzeremo il parassita come deterrente, per impedire che
l’America provi ancora a privarci della libertà.» «Cosa vi fa pensare di riuscire a
controllarlo? E se cadesse nelle mani di qualcun altro? Se uscisse da questa
struttura per caso? No, dobbiamo distruggerlo, invece. Dobbiamo farlo
scomparire.» «Questo non potrà accadere un’altra volta. Lo sa bene.»
Subito dopo si aprì una porta scorrevole in fondo al locale dov’era rinchiuso
De Vries, rivelando un minuscolo ascensore e il suo unico occupante. Era un
uomo alto e dalla pelle olivastra, con la barba, di corporatura massiccia. Aveva un
atteggiamento di sfida, senza alcuna traccia di timore.
248
potendo indietreggiare, si fece avanti con i pugni alzati.
L’anziano medico però non perse l’equilibrio e si avventò ancora contro il suo
avversario, atterrandolo senza alcuna fatica.
A quel punto divenne impossibile seguire la colluttazione: De Vries mulinava
le braccia velocissimo, riuscendo presto ad avere la meglio sui patetici tentativi di
difesa dell’uomo. Rimasero avvinghiati a lungo, poi la porta dell’ascensore si aprì
di nuovo, per far uscire un uomo armato e in tuta anticontaminazione.
De Vries perse interesse per la sua prima vittima, ormai quasi esanime; fece
per slanciarsi contro il nuovo arrivato, ma fu fermato da uno sparo. Cadde a terra
pesantemente, lottando con tutte le sue forze per rialzarsi. Nella stanza tutti
rimasero senza fiato quando risuonarono altri colpi, una raffica di proiettili, tutti
al petto. Era impossibile capire se fossero più impressionati dal veder sparare
sotto ai loro occhi a un anziano inerme, o dal fatto che De Vries continuò a
cercare di rimettersi in piedi fino all’ultimo.
Nel fumo provocato dai proiettili esplosi, il corpo del dottore venne trascinato
nell’ascensore, mentre l’altro uomo alto strisciava verso la parete trasparente.
Aveva sulla guancia destra un taglio dall’angolo della bocca fino quasi
all’orecchio, e alla radice del naso era visibile la cartilagine sotto la carne lacerata.
Gli occhi sembravano intatti, ma uno dei due non era più in asse. Rivolgeva il suo
sguardo implorante alle persone sedute al sicuro, nella sala conferenze.
Sarie deglutì più volte, cercando di reprimere il senso di nausea sotto il freddo
sguardo di Omidi.
«Lo abbiamo prelevato da una prigione periferica, dove era in attesa di essere
giustiziato per violenza carnale e omicidio. Avere pietà di lui sarebbe una perdita
di tempo, e le consiglierei di usare il suo in maniera più produttiva.» Era abituata
a situazioni di pericolo, ci conviveva da sempre: nel Paese in cui era nata erano
all’ordine del giorno. Era cresciuta in mezzo a quel genere di rischi, ed erano
diventati parte di lei.
249
Ma lì era diverso. Non aveva il cielo sopra la testa né un fucile in mano, per
quanto rudimentale; non c’era nulla di familiare. Non sarebbe morta per la
malaria o il morso di un serpente, o per mano di una gang di uomini violenti. No,
sarebbe uscita di senno in quel locale sottoterra, prima di morire dissanguata
mentre gli uomini di Omidi prendevano appunti.
Fece dei respiri lenti e regolari, come le aveva insegnato lo psicologo quando
era bambina, e riuscì a calmarsi un poco. Non avrebbe permesso a Omidi di
servirsi della paura e delle sue vane promesse per piegarla al suo volere. Non ci
sarebbe stato nessun premio per lei, anche se avesse collaborato: non vedeva
alcuna salvezza possibile, non sarebbe più tornata a casa e non aveva nessuno a
cui chiedere aiuto. La sua vita stava per finire. Si chiese cosa avrebbe dovuto fare
con il poco tempo che le rimaneva.
250
altra scelta che praticare eutanasie di massa per contenere la pandemia. E con
tutte le armi esistenti in America, cosa sarebbe accaduto? Molti non avrebbero
avuto il coraggio di sparare ad amici e familiari, mentre altri si sarebbero fatti
prendere dal panico e avrebbero cominciato a fare fuoco all’impazzata.
251
Capitolo 66
«Quindi non ne siamo ancora del tutto certi» commentò Lawrence Drake,
sfogliando la pila dei rapporti della polizia e dei vigili del fuoco.
Dave Collen fece scivolare sul tavolo un’altra cartellina. «Non abbiamo un
cadavere, in effetti. Ma le indagini della polizia locale sono ancora in corso e, a
questo punto, non so se troveranno qualcosa. Sappiamo solo che la macchina
della Russell era lì, e da allora nessuno l’ha più vista. Secondo la polizia era in
casa quando è scoppiato l’incendio.»
«E tu cosa ne pensi?» «Non lo so. Era troppo rischioso ispezionare la scena
subito dopo il fatto. Non abbiamo idea di cosa abbia provocato l’incendio né di
cosa sia successo a Gohlam. Magari, anziché un fucile, ha deciso di usare qualche
tipo di esplosivo ed è saltato in aria nel tentativo di far fuori la Russell,
accidentalmente o intenzionalmente.» «È un’ipotesi fantasiosa, Dave.»
«Lo so, ma a questo punto non possiamo fare molto per scoprirlo.
Forse la Russell è riuscita a fuggire e a nascondersi, ma ne dubito.
Con un afghano alle costole, avrebbe provato ad avvalersi delle nostre risorse
per scoprire da dove sono partiti gli ordini.» «A meno che il messaggio di
Brandon non l’abbia spaventata.» Collen annuì. «Purtroppo ci sono notizie anche
peggiori. Riteniamo che la van Keuren sia nelle mani degli iraniani.»
«Abbiamo la stima aggiornata delle vittime?» «Certo, anche alla luce del
piano di reazione messo a punto con il pretesto di perfezionare i nostri protocolli
di emergenza in caso di attacco biologico. E se gli iraniani possono contare sul
decisivo contributo della dottoressa potremmo superare il milione.»
Drake emise un lungo sospiro e indicò la cartellina ancora chiusa sulla sua
scrivania. «Smith e Howell?» Il suo assistente fece un cenno con il capo. «Erano
sull’aereo per Bruxelles che è stato dirottato sulla base militare di Diego Garcia.
Secondo la versione ufficiale, il velivolo ha avuto un guasto al sistema di
navigazione e si è reso necessario un atterraggio di emergenza. Da quel poco che
sono riuscito a sapere dai servizi di intelligence dell’esercito, in realtà a bordo
c’era un sudanese con una malattia infettiva sconosciuta ed è stato ucciso. I
passeggeri sembrano tutti sani e saranno rilasciati presto.» «E di quei due cosa
mi dici?»
252
«Sono saliti su un jet privato del quale non sappiamo niente.
Ovunque mi sia rivolto per ottenere informazioni, mi sono ritrovato in un
vicolo cieco.» Qui c’entra Castilla, pensò Drake. Doveva essere così per forza.
«Conosciamo almeno la destinazione?»
Collen aprì il dossier e ne estrasse una foto satellitare di un piccolo aereo in
fase di atterraggio su una pista isolata. «Turchia. Sono saliti subito su un’auto e
sono partiti verso il confine con l’Iran. Il satellite li ha persi sulle montagne, a
causa di una copertura nuvolosa.
Quando sono riuscito a mandare lassù uno dei miei contatti, le loro tracce
erano già state cancellate dalla neve. Secondo lui la macchina si è fermata almeno
dieci o dodici chilometri prima del confine, poi la neve era troppo alta per
proseguire.»
«E poi dove sono andati?» Collen picchiettò con un dito su una mappa
topografica della Turchia orientale.
«Con ogni probabilità, Smith e Howell si sono addentrati in questa gola a
piedi.» «Quindi abbiamo il misterioso dottor Smith e un ex agente operativo
dell’MI6 diretti in territorio iraniano su ordine della Casa Bianca, niente meno.
La van Keuren potrebbe essere nelle mani degli iraniani e nessuno ha visto Randi
Russell, né viva né morta. Cristo, Dave. C’è qualcos’altro che potrebbe esploderci
tra le mani?» «Non ci sono soltanto cattive notizie. Anche se l’ordine fosse
partito da Castilla in persona, secondo me due uomini soli senza alcuna
assistenza non hanno nessuna chance di riuscire ad attraversare il confine. Come
faranno a trovare la struttura dove Omidi custodisce il parassita? E anche se la
trovassero, come pensano di fermarlo?» Erano due domande interessanti, ma
certo non le più urgenti per Drake. Ormai era chiaro, la CIA era stata tenuta fuori
di proposito.
Non era sorpreso: di sicuro Castilla non avrebbe mai rivelato l’esistenza di
un’organizzazione extralegale. Era però quanto mai preoccupante.
253
Ma i musulmani erano diversi. Si stavano impadronendo di una tecnologia di
attacco a sorpresa preventivo del tutto impensabile per Hitler e, a differenza dei
sovietici, non parevano farsi troppi scrupoli riguardo all’eventualità della loro
autodistruzione. Sotto molti punti di vista, anzi, quasi la agognavano.
Drake alzò lo sguardo su Collen. «Dagli quello che chiede e facciamoli fuori.»
254
Capitolo 67
Iran occidentale
Jon Smith aprì la cerniera lampo della tenda e strisciò fuori, lasciando a
Howell l’incombenza di arrotolare i sacchi a pelo.
Il sole, basso sull’orizzonte, era ancora velato dalle nuvole, ma il vento
sembrava essersi calmato. Per quasi tutta la notte raffiche violente provenienti da
nord avevano investito con furia impressionante il loro fragile rifugio di nylon.
Howell infilò gli sci e percorse la piccola salita per raggiungere il ciglio del
pendio, aggrottando la fronte davanti ai cornicioni di neve sporgenti sopra la gola,
ancora in ombra. Indicò con il pollice le teste di pietra silenziose davanti a loro.
255
«Una granata ben piazzata e raggiungeremo gli amici, qui, come ospiti fissi.»
Smith cacciò la tenda nello zaino e raggiunse l’inglese. «Dimentichi una cosa: il
nostro scopo è proprio cercare di cadere in un’imboscata.»
Il cornicione sul quale si trovava era alto circa un metro e mezzo e saltò giù,
affondando fino alle anche nella neve alta prima di slanciarsi verso l’alto e
gettarsi lungo la discesa. In circostanze diverse sarebbe stata una giornata
stupenda e cercò di illudersi di essere lì per divertimento, mentre si tuffava nella
neve fresca e polverosa, guardandosi ogni tanto alle spalle per controllare la
situazione.
Quando arrivò in fondo, Howell stava sorridendo attraverso i cristalli di
ghiaccio che gli punteggiavano la barba ispida. «Non abbiamo il tempo di farne
un’altra, immagino.»
Smith scoppiò in una risata, riuscendo per un breve istante a dimenticare
perché si trovassero lì.
«Magari la rifaremo al ritorno» rispose, togliendosi gli sci e cominciando ad
applicare le pelli di foca. Ma Howell non lo stava ascoltando. Era intento a
osservare la parete della gola davanti a loro.
256
«Non c’è nessuno dietro di noi?» domandò Howell.
Smith cercò di sembrare credibile mentre scrutava il crinale. «Io non vedo
niente. Ma quel…» A circa tre metri sulla destra si alzò una nuvola di neve e si
gettarono di lato. Dall’alto giungeva il suono ovattato degli spari.
Smith si rialzò subito e fece per riprendere gli sci, ma dall’alto piovvero altre
raffiche, investendolo con lapilli di neve e ghiaccio.
«Siamo nel mezzo di un fuoco incrociato!» gridò Howell, cercando d’istinto la
pistola nella giacca a vento, senza trovarla. Due uomini sugli sci, persi in una
zona remota e disarmati.
L’intensità del fuoco aumentò, e i proiettili cadevano sempre più vicini a loro
mentre i tiratori scelti calcolavano la traiettoria. Howell cominciò ad avanzare
nella neve alta con una lentezza quasi comica verso una piccola roccia alla base
della parete della gola.
«State fermi! Non muovetevi!» Una voce dal forte accento straniero
riecheggiò nella gola, ma non si riusciva ancora a capire da dove provenisse.
Subito dopo, dall’alto vennero calate delle funi, lungo le quali scivolarono alcuni
uomini, rapidissimi, mentre altri proiettili finivano nella neve tra Smith e
Howell. Era un chiaro monito: meglio per loro non tentare alcuna azione
aggressiva.
257
Capitolo 68
Iran occidentale
Furono liberati dagli zaini e intuirono subito che, se fossero rimasti indietro,
sarebbero stati abbandonati al loro destino. Sarebbe stato un rischio inutile. Il
vento stava aumentando e l’alta pressione faceva scendere vertiginosamente la
temperatura; non sarebbero sopravvissuti a lungo, solo con gli sci e gli abiti che
avevano indosso.
Per il momento Smith ritenne comunque di essere al sicuro. I nove uomini
dell’agguato erano sparpagliati sul terreno pianeggiante. Si guardò alle spalle per
vedere cosa facesse il ragazzo incaricato di sorvegliarli. Si era fermato a oltre
cento metri di distanza e si era appoggiato, esausto, ai bastoncini mentre
qualcuno gli sfilava l’enorme zaino e se lo caricava in spalla. Smith sorrise
quando riconobbe Peter Howell come il benefattore del giovane soldato.
Oltre agli ordini e alle minacce iniziali, nessuno degli iraniani aveva più
parlato. In realtà Smith ancora non sapeva con certezza chi fossero quegli
uomini. Erano stati mandati da Farrokh? Si trattava di una pattuglia dell’esercito
iraniano che li aveva arrestati per essere entrati in maniera illegale nel Paese?
Erano banditi o corrieri della droga, magari intenzionati a chiedere un riscatto?
Fino a quel momento non aveva trovato una risposta.
Una cosa era certa però, era una banda di cialtroni. Non erano sciatori molto
abili e l’equipaggiamento era malandato.
Smith accelerò l’andatura, inalando l’aria gelida nei polmoni mentre si
avvicinava al disgraziato che avanzava a fatica sotto il peso del suo zaino da trenta
chili. Il soldato teneva una mano sotto la giacca a vento, reggendo con l’altra
entrambi i bastoncini, e camminava in maniera goffa, era sfinito.
Si allarmò quando Smith lo raggiunse e aprì una delle cerniere laterali dello
zaino, ma era troppo stanco per reagire all’eventualità che l’americano stesse
prendendo un’arma.
258
sorpreso di essere stato raggiunto dal prigioniero così in fretta e senza farsi
sentire. «O forse è lei che ha bisogno di una pausa?»
Per tutta risposta, Smith indicò con il pollice gli uomini alle loro spalle.
L’uomo si voltò a guardare chi era rimasto indietro, con un’espressione tra
l’irritazione e il disgusto quando si accorse che Howell oltre allo zaino si era
caricato anche un fucile, dando prova di riuscire ad avanzare meglio dei suoi
uomini nella neve.
«Accademici e intellettuali» commentò il capo con un lieve accento nel suo
inglese. «Si esercitano fino allo sfinimento, ma anche dopo l’addestramento tanti
di loro continuano… come si dice?»
«A non avere il fisico?» suggerì Smith.
L’uomo scosse la testa, mentre una piccola cascata di neve dal berretto gli
ricopriva la barba curata. «Delle femminucce. Ecco cosa sono. Non come voi
americani o come gli inglesi. Due occidentali riescono ad addentrarsi nelle
foreste dell’Uganda, sfuggire a uno dei peggiori terroristi del mondo ed entrare in
Iran a piedi superando le montagne innevate e percorrendo oltre sessanta
chilometri. Siete dei combattenti. Nati e cresciuti per questo.»
Si allontanò sugli sci e Smith lo lasciò andare.
«Stai facendo amicizia?» domandò Howell, arrivando alle sue spalle.
L’uomo più vicino era oltre cinquanta metri indietro e si sforzava di applicare
i consigli dell’inglese alla sua tecnica di sci.
«Non gli siamo molto simpatici, mi è parso di capire. Però, da quanto ha
appena detto il capo, dovremmo aver trovato le persone giuste.»
«E quindi possiamo fidarci di loro?» «Non abbiamo molta scelta.»
259
permesso di guidare la macchina.»
260
Capitolo 69
Iran centrale
Sarie van Keuren si muoveva con cautela nella sua tuta anticontaminazione,
controllandone di continuo gli erogatori dell’aria, a dir poco usurati. Il laboratorio
sembrava essere stato messo assieme nel giro di poche settimane e i protocolli di
isolamento erano ben al di sotto degli standard di funzionalità. Era come non
essere protetti affatto.
261
Erano lesioni molto specifiche, e la causa era incerta. Un’ipotesi affascinante
poteva essere che, in seguito ai traumi riportati, le vittime perdessero la capacità
di identificarsi con altri esseri umani non infetti; questo avrebbe spiegato perché
non si attaccassero gli uni con gli altri.
262
Capitolo 70
Iran centrale
L’unica sedia libera rimasta era a capotavola, accanto a Omidi. Ai lati erano
seduti gli esperti chiamati ad affiancare Sarie, i capireparto, per così dire, i
migliori scienziati specializzati in diversi campi.
Nessuno di loro era un parassitologo e anche se alcuni erano più dimessi di
altri, ciascuno era molto competente nel suo settore. Era questo a renderli
pericolosi.
«Dottoressa van Keuren» esordì Omidi mentre lei si accomodava.
«Ha avuto l’opportunità di eseguire i primi rilievi autoptici su Thomas De
Vries. Cosa ha scoperto?»
Non era mai stata brava a mentire, ma adesso era questione di vita o di morte.
Non ci sarebbe stato nessun prode cavaliere o salvataggio in extremis: era
completamente sola.
«Il patogeno ha un ciclo riproduttivo molto rapido ed è molto versatile, ma
non più di altri. Perciò dovrebbe essere abbastanza semplice manipolarlo. Per
ottenere un’insorgenza più rapida della piena sintomatologia, dovrebbe essere
sufficiente servirsi di animali da laboratorio per riuscire a isolare i parassiti che
agiscono più in fretta nel corso di generazioni successive.»
Non stava dicendo a Omidi niente di più complesso rispetto alle conoscenze di
uno studente al secondo anno di biologia, ma lui non sembrava essersene reso
conto. Forse poteva essere più semplice di quanto pensasse.
263
sanguinamento è solo un effetto secondario.»
«È sicura che la morte sopraggiunga per emorragia?» A quella domanda si
sentì attraversare da una scarica di adrenalina e fece del suo meglio per
nascondere l’agitazione. Cosa sapeva Omidi?
«Le cause principali del decesso parrebbero essere le ferite e l’esaurimento
delle energie» rispose in modo vago.
La seconda categoria era quella dei «credenti». Erano maschi imponenti, con
la barba, intellettualmente meno dotati dei primi.
Anche loro sembravano temere Omidi, ma ne avevano soprattutto soggezione.
Quando questi parlava dell’ascesa del potere iraniano e del declino
dell’Occidente, assumevano un’espressione rapita simile a quella dei contadini
nei dipinti sovietici.
E poi c’era Zarin. Era robusto, con una folta barba, e poteva perciò rientrare
nella categoria dei credenti. D’altra parte era una mente brillante e, quando
pensava di non essere osservato, assumeva un’aria preoccupata: tipico dei
rammolliti. La prova finale, ossia la sua reazione di fronte a Omidi, era
indecifrabile. Sembrava quasi sprezzante nei suoi confronti.
«Sarei interessata a sentire l’opinione del dottor Zarin» si limitò a replicare
Sarie.
264
Sarie stava sfoggiando un sorriso educato da troppo tempo, se ne rese conto
da sola. Cercò di rilassarsi, ma dentro di sé imprecava come faceva suo padre
quando una delle vacche abbatteva una staccionata nella loro proprietà. Se Zarin
ci era arrivato senza l’ausilio di nessuno, cos’altro poteva sapere? E cosa poteva
aver rivelato a Omidi?
265
Capitolo 71
Iran occidentale
L’altro era più magro, di pelle chiara, arrossata dal sole, e portava degli
occhiali da sci.
266
successione.
Tutto durò pochi istanti.
I suoi uomini uscirono allo scoperto e sul crinale di fronte a lui si
materializzarono i cecchini. Alcuni dei seguaci di Farrokh tentarono di prendere
le armi con movimenti goffi, ma erano quasi tutte fissate agli zaini, fuori portata,
oppure erano ingestibili con quei grossi guanti. In meno di cinque secondi,
ciascun componente della colonna era in ginocchio, con le mani legate sopra la
testa.
Mouradipour era appena riuscito a prendere il fucile con una mano quando si
sentì mancare la terra sotto i piedi. Prima ancora di capire cosa stesse accadendo,
già un cavetto d’acciaio gli stringeva il collo nonostante il tessuto pesante della
tuta. A ogni minimo movimento il metallo freddo gli tagliava la pelle.
In fondo alla gola apparve una persona sugli sci, schivando i miliziani morti o
moribondi. Aveva una sagoma particolare, stranamente morbida e flessuosa,
sebbene l’abbigliamento fosse ingombrante. Mouradipour batté le palpebre,
sempre più confuso. La figura si fermò davanti a lui e scostò il cappuccio della
giacca a vento, scoprendo i corti capelli biondi e la pelle di porcellana di una
giovane donna.
«Fa’ quella telefonata» disse Randi Russell, stringendo i denti e cercando di
appoggiare il fucile sulle spalle in una posizione più confortevole.
267
diciannove ore sugli sci, sulle tracce di quei bastardi, non era certo di buonumore.
Fred Klein era stato più che soddisfatto, quasi estasiato dalla seta
geneticamente modificata con la quale era tessuto il dispositivo antiproiettile che
le aveva fornito: quattro volte più resistente del Kevlar e del peso di soli
quarantacinque chili, comprese le sacche di sangue finto fissate con il nastro
adesivo.
Alla fine, comunque, la sua riluttanza a trovarsi di fronte al proiettile di un
assassino afghano con la sola protezione di un congegno fatto dello stesso
materiale della sua biancheria intima si era rivelata giustificata. Sulla schiena le
era rimasta un’escoriazione del diametro di trenta centimetri, che le tingeva la
schiena dei colori del tramonto.
«Quali assicurazioni ho?» «Ti assicuro che se non ti attacchi a quel dannato
telefono entro cinque secondi, chiederò al mio amico qui di tagliarti la testa. Cosa
te ne pare?» Il cavetto si strinse un po’ di più e, dopo una breve esitazione,
Mouradipour fece scivolare una mano nella tasca.
Randi fece un passo indietro e strinse gli occhi per fissare l’orizzonte. Tutte le
mappe, le foto satellitari e le coordinate sulle quali aveva lavorato Mouradipour
erano dei falsi, congegnati con l’unico scopo di sviarlo dalla effettiva posizione di
Jon e Peter, centosessanta chilometri più a nord. Sempre che non fossero morti
congelati, incappati in una pattuglia sul confine iraniano o si fossero beccati una
pallottola in testa per mano di Farrokh.
Randi si girò e si avviò sugli sci, mentre sentiva la collera montarle dentro
268
assieme a uno strano senso di disperazione, difficile da decifrare. Si fermò solo
quando le voci dei suoi uomini furono coperte dall’urlo del vento. Aveva sperato
di non trovare nulla laggiù, a parte la neve. Desiderava che Klein si fosse
sbagliato.
Ma ora non poteva più cullarsi nell’illusione. Sapeva chi era il destinatario di
quella chiamata: un uomo per il quale lei aveva prestato servizio mettendo a
rischio la sua stessa vita innumerevoli volte. Un uomo che rispettava e
ammirava.
Lawrence Drake.
269
Capitolo 72
Iran occidentale
Sentì picchiettare alla base della sua schiena e si voltò, riconoscendo il capo di
quella estenuante spedizione tra le montagne.
Si fermarono accanto a dei gradini di pietra e si tolsero gli sci, per poi
raggiungere una porta che si apriva nella parete rocciosa. La sua guida bussò
utilizzando un complicato codice di colpi e un momento dopo scomparve
nell’abbraccio di un uomo grosso quanto un orso, munito di un AK-47.
La sensazione del calore sulla pelle lo attirava in modo irresistibile e Smith
entrò, calpestando diversi strati di tappeti tradizionali fino a trovarsi davanti al
focolare.
«Si trova qui Farrokh?» chiese, sfilandosi i guanti e tenendo le mani tese
verso il fuoco. Il loro viaggio era durato tre giorni, più di quanto avesse calcolato,
e non aveva idea se Omidi avesse fatto dei progressi nel trattamento del parassita
per trasformarlo in arma biologica. Né, in effetti, se lo stesse facendo davvero. A
quel punto poteva anche essere riuscito a infiltrare una vittima infetta oltre il
confine americano e magari il contagio aveva già spazzato via metà della
popolazione.
270
L’iraniano si tolse la pesante tuta da sci e si lasciò cadere su una pila di
cuscini colorati, accanto al fuoco. «Farrokh è un uomo molto occupato.» Senza
berretto e occhiali scuri, sembrava più giovane. Lo sguardo rifletteva
un’intelligenza fuori dal comune e un grande senso di calma e fiducia in se
stesso. Non era certo un uomo da sprecare in una missione come quella appena
portata a termine.
Farrokh rise e prese una delle due tazze di tè, offrendola a Smith.
«Potrei contare le persone di cui mi fido sulle dita di una mano, e forse non
mi servirà un altro dito solo perché adesso l’ho conosciuta.» «Ma crede
all’esistenza del parassita e al fatto che è in mano al suo governo.»
«Sì, anche se non riesco a capire perché dovrebbe essere un problema mio.»
Nonostante l’apparente indifferenza, sapeva esattamente perché la questione lo
riguardasse.
«Lei non ha molta simpatia per gli Stati Uniti e lo capisco, ma ammetterà che
vi stiamo lasciando in pace. Pensi alle possibili conseguenze, se Omidi riuscisse a
lanciare un’arma biologica entro i nostri confini.»
Farrokh si strinse nelle spalle. «L’America è, in maniera diretta o indiretta,
responsabile della morte di milioni di iraniani, del regno di un brutale dittatore e,
a dirla tutta, anche del sistema islamico repressivo e retrogrado sotto il quale
viviamo. Forse questo rimetterebbe le cose in pari.» «No» riprese Smith. «Lei è
troppo intelligente per parlare in questo modo. Non ha importanza quanti
271
americani verranno uccisi; ne basterebbe uno solo per premere un bottone. E
allora non avrete più un Iran da liberalizzare.» Farrokh annuì, pensoso.
«L’ayatollah ormai ragiona come un vecchio e Omidi è pazzo. Pensano di aver
ricevuto quest’arma da Dio e che sarà lui a guidare la loro mano quando si
accingeranno a distruggere i nemici dell’Islam.» «Non sono certo che andrà in
questo modo.» «No. In queste questioni Dio non prende quasi mai posizione,
l’ho imparato a mie spese. I giusti e gli innocenti soffriranno quanto i malvagi, se
non di più. Affidarsi unicamente al suo intervento è sintomo di arroganza e
stupidità. L’America ha sia il potere sia la volontà di massacrare chiunque non
mostri anche il minimo segno di deferenza.»
Smith cercò di escludere dal suo udito l’inesorabile ticchettio dell’antico
orologio appeso alla parete. Sembrava sempre più forte, mentre loro
continuavano a trascinarsi in quella sterile discussione geopolitica.
«L’America è un’enorme forza stabilizzatrice per il mondo, lo sappiamo
entrambi. Quanti Paesi con la stessa forza militare ed economica avrebbero
dimostrato la stessa moderazione? Cosa farebbe il suo Paese con un arsenale del
genere? O cosa farebbero i tedeschi?» Farrokh sorseggiò il suo tè per qualche
istante prima di passare a un argomento più concreto. «Lei sa dov’è stata portata
la dottoressa van Keuren?» «No. In territorio iraniano non disponiamo di
un’intelligence degna di questo nome.» «Ah, e quindi lascia a me anche questo
compito?»
272
L’iraniano alzò una mano per interromperlo e un momento dopo sulla porta
comparve l’uomo che li aveva accolti in casa. Sembrava meno gioviale ora e
teneva l’arma imbracciata, non più in spalla.
«Teymore l’accompagnerà nelle sue stanze. Avremo l’opportunità di parlare
presto di nuovo, spero.»
273
Capitolo 73
Iran centrale
Sarie van Keuren teneva con estrema cautela il bisturi mentre incideva una
sezione trasversale del cervello sul tavolo davanti a sé.
Le piccole dimensioni rendevano difficile l’esecuzione, ma era felice di essere
riuscita a convincere Omidi che lavorare con gli animali sarebbe stato più
produttivo. La stanza con la parete trasparente confinante con il suo laboratorio
adesso era piena di gabbie, ognuna delle quali teneva imprigionata una scimmia:
alcune erano cavie da laboratorio, altre sembravano state sottratte agli zoo o ai
loro proprietari.
Ogni gabbia era coperta con un telo, una misura da lei ritenuta necessaria per
evitare che gli animali morissero dopo essersi feriti cercando di raggiungere le
persone oltre il vetro. La vera ragione, però, non era di impedire loro di vedere i
suoi nuovi colleghi, bensì di vedersi tra di loro, una sottile distinzione sfuggita a
Omidi e ai suoi scienziati tirapiedi.
Sarie notò le macchie di sangue sui teli che ricoprivano diverse gabbie al
centro della stanza. Annotò l’ora su un blocco e tornò a lavorare sul tessuto
cerebrale.
274
troppo diffuse per poterle colpire in maniera mirata. Il parassita aveva lavorato
su quell’aspetto per milioni di anni. Lei non aveva tutto quel tempo a
disposizione.
La risposta, a sorpresa, era già presente nei neuroni specchio. Era facile
modificare lo schema del danno, e lei era riuscita a influenzare il modo in cui le
vittime del parassita si identificavano l’una nell’altra, creando le basi per una
reciproca inimicizia. Il piano aveva diversi punti deboli, ma se avesse fatto in
modo di indurre i soggetti infetti ad aggredirsi a vicenda, stimava di poter ridurre
il tasso di diffusione anche del quaranta per cento.
E poi aveva fatto un’altra eccezionale scoperta sulla relazione tra l’esposizione
e la risposta: più alta era la quantità iniziale di parassiti somministrati alla
vittima, prima comparivano i sintomi. Aveva usato questo assunto per
convincere Omidi dei suoi progressi nel ridurre il tempo di sviluppo della
sintomatologia mentre, in realtà, stava solo somministrando dosi sempre più alte
di sangue infetto alle cavie.
A Omidi però non era sfuggito l’effetto collaterale della sua intuizione: le
vittime morivano molto più in fretta, e la cosa, ovviamente, limitava le occasioni
di contagiare altre persone. I credenti, aveva notato Sarie, stavano iniziando pian
piano a sparire: forse Omidi stava formando un gruppo alternativo da qualche
altra parte all’interno della struttura, per controllare la sua ricerca e lavorare sul
problema della morte precoce. Inoltre, Sarie doveva tener conto di una cosa:
avrebbero di sicuro eseguito dei test sulle «modifiche» negli esseri umani e
dunque molto presto ne avrebbero scoperto l’inefficacia.
Ecco perché era così importante per lei mettere in atto la fase due del suo
piano, il prima possibile. Purtroppo, però, fino a quel momento non aveva ancora
elaborato una fase due.
Sarie terminò con la sezione del tessuto cerebrale e passò alle procedure di
decontaminazione, alquanto grossolane, prima di entrare nella grande stanza
adiacente al laboratorio. Cinque rammolliti seduti davanti a computer abbastanza
datati la osservarono mentre si sedeva di fronte all’unico terminale con sistema
operativo in inglese.
Aveva appena iniziato a inserire le nuove informazioni quando Yousef Zarin
accostò una sedia alla sua.
«So cosa sta facendo» le sussurrò all’orecchio.
275
dalla paura.
Lo scienziato continuò: «Il danno ai neuroni specchio evolve molto in fretta».
276
porti da nessuna parte.»
Aveva ragione, certo. Era stato il suo tentativo disperato. Nel caso improbabile
in cui avesse avuto il tempo di perfezionare le mutazioni genetiche, non
sarebbero state durature. Il parassita era dotato di grande adattabilità: se fosse
stato diffuso in un’area geografica non isolata come l’Africa, si sarebbe evoluto
con velocità devastante, nascondendo i sintomi, modificando le sue modalità di
trasmissione ed estendendo i tempi della finestra di contagio nelle persone
infette.
277
saputo cosa lei e Yousef avevano in serbo per loro.
278
Capitolo 74
279
prove di tiro al bersaglio. Un istruttore andava avanti e indietro alle loro spalle,
fermandosi ogni tanto per correggere una posizione errata o per dare consigli.
Aveva il volto nascosto da un ampio cappello di paglia, ma i movimenti fluidi e
atletici e l’energia straripante erano inconfondibili.
«Si va in battaglia con l’esercito che si ha, non con quello che si vorrebbe
avere.» «Appunto. Ma vedi di non trovarti davanti a loro, quando inizieranno a
sparare.»
280
Capitolo 75
Iran centrale
Jon Smith cercò di sistemarsi in una posizione meno scomoda sul terreno
roccioso. Erano quasi trecento chilometri a nord-est del campo di addestramento
di Farrokh, e avevano fatto l’ultima parte del viaggio a cavallo. Mezzo di trasporto
tranquillo ed efficiente su quel percorso accidentato, certo, ma lui non saliva in
sella dal giorno del suo quinto compleanno.
Erano distesi sul terreno duro e sabbioso, circa a un chilometro e mezzo dal
perimetro esterno. Arrivare più vicino avrebbe richiesto doti militari che il suo
compagno non aveva.
«Purtroppo no» rispose Farrokh.
281
Peter Howell e un veterano delle forze speciali anche più vecchio di lui
avevano passato le ultime cinque ore nascosti sotto un telone sporco,
avvicinandosi pian piano alle difese esterne della struttura.
Erano giunti sopra il basso muretto che costituiva il loro obiettivo e Smith
avvertì la vibrazione del cellulare sul fianco di Farrokh.
L’iraniano abbassò gli occhi per controllare e poi alzò il telefono per far
leggere a Smith l’SMS sul display.
Fossa prof. 2 m. e larg. 4 m. ponte pericoloso.
Smith annuì nel buio, ma non poté fare a meno di pensare che «niente»
sarebbe stata l’opzione più semplice.
Non c’era modo di provare a entrare senza essere visibili a chilometri di
distanza e non era possibile evitare il ponte di accesso, predisposto per saltare in
aria al primo transito non autorizzato.
Farrokh digitò una breve risposta e poi tornò al punto di osservazione, mentre
Smith rotolava sulla schiena guardando in su, verso un cielo pieno di stelle. Si
chiese se Sarie fosse ancora viva. Se fosse dentro a quel bunker.
282
abbiamo già informazioni sufficienti per convincerli a entrare nello spazio aereo
iraniano. Abbiamo uomini specializzati e…» «È fuori discussione. Non intendo
usare forze armate americane contro il mio Paese.» «Io sono dell’Esercito degli
Stati Uniti.» «Non è la stessa cosa, non ti sembra?» «C’è in gioco la vita di
milioni di persone, Farrokh. Questo non è…»
«Come sarebbe andata se aveste avuto la certezza che in Iraq non c’erano
armi di distruzione di massa? Avreste aiutato le forze aeree irachene ad
attraversare il confine e distruggere le vostre basi militari, per fermare
un’invasione che ha portato morte e miseria in tutta la regione? Abbiamo
cinquanta uomini pronti a morire ai miei ordini, colonnello. Niente di più.»
Smith rotolò di nuovo sulla pancia, immaginando di fracassargli la nuca con
una pietra e prendergli il cellulare. Purtroppo aveva notato che inseriva un PIN a
ogni utilizzo e non era riuscito a decifrarlo.
«Sei tu il capo, Farrokh. Chiama Howell e il tuo uomo. Voglio andare via di
qui prima dell’alba.» L’iraniano compose un altro SMS e pochi attimi dopo il
telefono vibrò con una risposta.
Non ancora. ho un’idea. divertim garantito x tutti.
283
Capitolo 76
Iran centrale
Sarie entrò nella stanza delle cavie, pervasa da strida assordanti e dal clangore
delle gabbie scosse con forza dalle scimmie. Lottò contro l’istinto di togliersi la
tuta anticontaminazione e correre via, mentre sistemava con calma il suo blocco
e faceva scivolare il pollice dentro l’anello di una grossa siringa.
Era piena del sangue di un animale allo stadio finale dell’infezione, e i
sensibili parassiti al suo interno avrebbero iniziato presto a morire.
Non c’era più tempo per riflettere. Non aveva il tempo di formulare una
seconda ipotesi o di pensare a un finale meno drammatico. Non c’era più tempo
per niente.
Mentre superava la prima delle gabbie coperte dai teli, sentiva le scimmie
reagire ai suoi passi attaccandosi con tutte le forze alle sbarre per cercare di
raggiungerla. Più avanti c’erano animali infettati solo qualche ora prima, e non si
mossero affatto, chiusi nel loro silenzioso, allucinato stupore. Ma era la terza
sezione che le interessava, quella con le scimmie sane.
Ogni animale aveva una sonda collegata al sistema centrale per introdurre
medicinali e patogeni. Sarie vi attaccò la siringa e inserì un dato in un portatile
protetto da una custodia di plastica. Il numero di parassiti iniettato era molto
superiore rispetto a quanti ne sarebbero stati introdotti in seguito a un eventuale
attacco. In base alla sua ipotesi, il gruppo due e il gruppo tre avrebbero sviluppato
tutti i sintomi più o meno nello stesso momento. A quel punto, le scimmie del
gruppo uno sarebbero state moribonde, ma ancora in possesso del trenta per
cento di forza e mobilità. Quanto bastava a renderle letali.
284
era preoccupato di cancellare le vecchie password. Zarin aveva accesso completo
al sistema e sufficienti nozioni di programmazione per mettere in atto il loro
piano.
«È tutto pronto?» Lui annuì. «Quando viene segnalata un’emergenza, tutte le
porte di uscita verso l’esterno si sigillano in maniera automatica, come era stato
programmato. A ogni modo, ho apportato due piccole modifiche. La prima alle
porte interne: il sistema originale le faceva chiudere ermeticamente, in modo da
isolare le varie zone dell’edificio e contenere ogni perdita in un’area più piccola
possibile.
Ho lasciato intatto il programma di blocco delle porte, ma ho introdotto un
errore nel dispositivo che ne provoca la chiusura.»
«Quindi saranno ancora aperte quando scatterà la serratura di sicurezza»
commentò Sarie. «E questa ne impedirà la chiusura.» «Proprio così. L’altra
modifica è stata più difficile perché ho dovuto programmare un nuovo codice, ma
ho tentato una simulazione e funziona.»
«Le gabbie delle scimmie?» «Esatto. I lucchetti delle gabbie si apriranno e poi
saranno fuori uso.» Sarie annuì, cercando di imporre ai battiti impazziti del suo
cuore di rallentare. Sotto tutti i punti di vista, stavano trasformando quel centro
in una tomba. Una trappola che sarebbe stata travolta da un’inaudita violenza e
dal caos più assoluto prima di piombare nel silenzio per sempre.
Nella macchina del caffè c’era ancora un fondo rimasto dalla sera precedente
285
e doveva accontentarsi di quello. Le sembrò quasi surreale pensare che forse non
avrebbe mai più bevuto una tazza di caffè appena preparato.
Si chiese cosa avrebbe immaginato chi li avesse ritrovati: il sangue, i resti di
barricate improvvisate, i corpi di persone e animali ancora avvinghiati nella lotta
mortale.
La cosa più importante, comunque, era una sola: nemmeno il parassita
sarebbe sopravvissuto all’ecatombe.
286
Capitolo 77
Iran centrale
287
«Pensava di non essere controllata?» urlò Omidi. «Si illudeva che non avessi
letto il rapporto di Zarin?» «Io…» balbettò Sarie. «La serratura di una delle
gabbie mi sembrava rotta… credevo…» L’iraniano le si avventò contro, dandole
uno schiaffo in faccia tanto forte da farla cadere a terra. «I computer sono tutti
monitorati! Lui stava manipolando i dispositivi di sicurezza, questo lo sappiamo.
Adesso mi dica cosa ha fatto lei!» Sarie scosse la testa, sforzandosi di pensare.
Zarin non aveva parlato.
Era riuscito a resistere, nonostante la tortura.
Sarie fissò il corpo dello scienziato. Non aveva più paura. Non sentiva più
niente. Poi, con un gesto lento, alzò la mano e gli mostrò il dito medio.
288
Capitolo 78
Iran centrale
L’autocarro slittò in una distesa di sabbia profonda, e il telone sul retro si aprì.
Peter Howell scorse attraverso la fessura un veicolo simile subito dietro al loro.
Avanzava a fatica. Sarebbe stato un miracolo se ce l’avesse fatta. In realtà sarebbe
stato un miracolo se anche uno solo di loro ce l’avesse fatta.
Richiuse il telone e osservò le facce degli uomini ammassati tra i pesanti
sacchi usati per zavorrare il veicolo. Lo stoicismo e la concentrazione che aveva
trovato così confortanti nel SAS erano del tutto assenti. Ogni espressione
raccontava una storia diversa: odio per lui, per gli inglesi in genere, per il governo
iraniano. Paura.
Scarsa fiducia in se stessi.
Fuori il militare stava aprendo il telone e Howell sollevò con calma la pistola.
289
Non c’era bisogno di affrettarsi, il soldato per un momento avrebbe visto solo
buio e, se Hakim era stato convincente come sembrava, nessuno sospettava
alcunché.
Howell attese ancora un attimo, quindi sparò con precisione nell’occhio
dell’uomo.
La pistola silenziata di piccolo calibro non produsse quasi alcun suono, quindi
Howell scivolò giù dall’autocarro, mentre due dei suoi uomini trascinarono
all’interno il corpo senza vita del militare.
Howell pulì una striscia di sangue dal cancello e aiutò uno dei suoi uomini a
scendere dal camion. Avevano scattato delle foto ai soldati di guardia e avevano
trovato due sosia abbastanza somiglianti per entrambi, che ora indossavano
uniformi cucite a mano dalle donne nel campo di addestramento di Farrokh.
Il giovane sosia si spostò con nonchalance verso il finestrino dell’autista del
secondo veicolo, mentre Howell faceva uscire altri uomini. Smith avrebbe fatto lo
stesso con i suoi, che si sarebbero messi in posizione al riparo delle ruote
posteriori.
Howell alzò il pollice verso i soldati impauriti, poi con calma uscì allo scoperto
e iniziò a sparare contro la postazione della mitragliatrice nella torretta ovest. La
guardia rimasta impugnò il suo coltello, ma Hakim lo freddò con un colpo di
pistola prima di premere l’acceleratore a tavoletta, lasciando Howell e i suoi
uomini completamente allo scoperto.
Come previsto, la prima sventagliata dalle torrette non andò a segno: i
mitraglieri erano stati colti di sorpresa. Non era la prima volta che si trovavano a
fare fuoco, comunque, e non impiegarono molto a capire quello che Howell già
sapeva: le torri erano fatte in modo da essere del tutto impenetrabili alle armi
leggere del neonato esercito di Farrokh.
Con la coda dell’occhio vide Smith e il suo team concentrare il fuoco sulla
torretta est, mentre Hakim abbatteva il cancello. Il camion riuscì a passare, ma
poi si sbilanciò su due ruote e si rovesciò su un fianco. L’autista cercò di uscire
dal finestrino, ma era fuori solo per metà quando un tiratore scelto gli sparò da
una torretta perimetrale sul lato ovest, tranciandogli parte del collo.
Il giovane a pochi metri da Howell fu colpito a un fianco da una raffica di
290
mitragliatrice e l’inglese si buttò a sinistra, rotolando verso il secondo autocarro,
ancora fermo sul ponte, mentre l’autista cercava di inserire la marcia, facendo
stridere forte gli ingranaggi.
291
«Le torrette a ore nove e a ore tre sono attive» gli urlò di rimando Smith.
«Uomini in arrivo da nord, stanno cercando di sorprendere alle spalle i nostri
uomini rimasti nel camion rovesciato.» Howell guardò nel binocolo e riuscì a
scorgere un po’ di movimento lungo il perimetro a ovest. Sparò alcuni colpi in
rapida successione e abbatté il primo di una fila di sei uomini diretti al riparo di
un masso, a circa centotrenta metri di distanza.
«Sai, Peter, volevo dirti…» sentì dire a Smith mentre cercava un altro
possibile obiettivo. «È bello vederti ancora respirare.»
292
Capitolo 79
Iran centrale
Sarie van Keuren si scagliò senza successo contro l’uomo che la trascinava
lungo il corridoio, finendo per sbilanciarsi e quasi cadere mentre l’allarme
assordante finalmente taceva.
Non aveva idea di cosa stesse accadendo, ma era impossibile non cogliere il
cambiamento nel comportamento degli iraniani quando anche nel sottosuolo era
riecheggiato l’inconfondibile rumore di un’esplosione, qualche minuto prima.
Omidi aveva subito abbandonato il suo atteggiamento di rilassata superiorità e il
freddo sorriso, e si era messo a correre, urlando ordini alle persone impaurite
dentro gli uffici e nei laboratori vicini all’ingresso.
Sferrò un altro pugno inefficace al fianco dell’uomo che la teneva stretta per
un braccio mentre superavano una serie di porte ora spalancate. Dentro, gli
scienziati spariti uno a uno dopo il suo arrivo, i seguaci di Omidi, ora
camminavano frenetici avanti e indietro con le braccia cariche di fascicoli,
campioni e hard disk portatili.
La guardia la lasciò andare, puntandole un dito contro e intimandole di non
muoversi.
Poi corse ad aiutare gli altri a infilare tutto ciò che non era inchiodato al
pavimento dentro uno scivolo collegato all’inceneritore, mentre l’attenzione di
Sarie veniva attirata dalla scena al di là della parete trasparente alla sua sinistra.
Dentro il locale erano imprigionati tre uomini infetti. Battevano le mani ferite e
insanguinate contro la barriera mentre nel laboratorio imperversava il caos. Non
mostravano alcuna aggressività tra loro, e non sembravano nemmeno consci
della presenza degli altri. Erano stati infettati con la versione più recente del
parassita? Le sue modifiche funzionavano sugli esseri umani? O forse le
alterazioni non erano ancora abbastanza potenti? Magari i malati continuavano a
prediligere le persone non infette, e non si sarebbero attaccati a vicenda, almeno
non finché avessero avuto a disposizione sempre nuovi organismi da contagiare.
293
Sentì un’ondata di conforto alla vista di uomini armati che affrontavano le
guardie, per scoraggiarsi subito dopo quando vide che non erano americani.
Dall’aspetto sembravano iraniani, e persino lei ne notava la mancanza di
coesione. Alcuni davano addirittura l’impressione di sparare a casaccio, voltati
dalla parte sbagliata.
Omidi si era spostato di corsa davanti a una cella frigorifera e stava digitando
un lunghissimo codice sulla tastiera. La porta si aprì con una nuvola di aria gelida
e lui ne estrasse una serie di fiale di vetro, trasferendole poi con delicatezza in
una valigetta rivestita di gommapiuma.
Badavano sempre meno a lei e quindi si mosse piano verso un tavolo, qualche
metro più in là. Tastò con le mani dietro la schiena, cercando le forbici appoggiate
sul ripiano; mentre se le infilava nella cintura dei pantaloni Omidi chiuse la
valigetta e corse verso di lei seguito da tre uomini armati.
La afferrò per un braccio e la trascinò verso l’ingresso, fermandosi nell’atrio
per gridare gli ultimi ordini alle due guardie della sicurezza rimaste nella stanza.
Imbracciarono i fucili e lei le guardò terrorizzata mentre aprivano il fuoco sugli
scienziati ancora al lavoro per distruggere le prove del loro operato.
Finì tutto in pochi brevi istanti. Nel locale si levarono delle nuvolette di fumo,
e l’odore della polvere da sparo le riempì le narici mentre osservava annichilita i
cadaveri, gli uomini armati e le tre vittime infette che cercavano senza posa di
abbattere la barriera trasparente.
Quando Omidi la strattonò per condurla via, non aveva più la forza di opporre
resistenza.
Arrivarono alla fine del corridoio, mentre altri spari riecheggiavano alle loro
spalle. Una delle guardie di Omidi inserì un codice in una tastiera sul muro e una
porta di acciaio si aprì, rivelando una vasta grotta illuminata da lampade e
sorretta da pilastri di cemento. La spinsero nel retro di un veicolo militare seguita
da Omidi, che stringeva tra le braccia la sua valigetta come se contenesse la cura
per il cancro.
La sorprese a fissarla e sorrise senza espressione. «I miei uomini sono riusciti
a mantenere in vita l’agente patogeno fuori dal corpo umano per quasi
quarantotto ore. Il tempo sufficiente per portarlo in Messico e fargli attraversare
il confine americano.»
Una delle guardie scivolò sul sedile di guida tenendo in mano un laptop,
quello di Yousef Zarin. Omidi lo accese, mentre un altro dei suoi uomini saltava
294
nel retro del veicolo per mettersi dietro alla mitragliatrice montata sul cassone.
«È paradossale, no?» disse Omidi. «Il piano con cui lei voleva distruggerci
sarà invece quello che ci salverà.» Il motore venne avviato e un momento dopo
stavano già facendo marcia indietro per uscire. Non c’era più tempo. Doveva fare
qualcosa.
Aveva ancora le forbici infilate nella cintura dei pantaloni e le prese,
conficcando la punta nelle costole dell’autista con una mano, mentre con l’altra
afferrava il volante. Lui urlò per la sorpresa e per il dolore, ma le forbici
penetrarono solo qualche millimetro e gli lasciarono la forza di schiacciare il
pedale del freno.
Furono tutti sbalzati in avanti dal contraccolpo e Sarie d’istinto allungò una
mano verso l’apertura della portiera di Omidi. Si aprì di scatto e lei la spinse,
rotolando a terra assieme a lui. L’iraniano batté forte la schiena, mentre Sarie
riuscì ad atterrare su un fianco.
Con la caduta la valigetta gli era sfuggita di mano, scivolando sulla terra
battuta. Sarie l’afferrò per il manico, rialzandosi di slancio.
Era inutile guardarsi indietro e quindi corse verso la porta dalla quale erano
arrivati. Alle sue spalle qualcuno gridò e dalla mitragliatrice della camionetta
partì una scarica di proiettili. La mancarono.
Il mitragliere riposizionò l’arma in un istante e Sarie fu obbligata a rifugiarsi
dietro a un pilone mentre veniva esplosa un’altra serie di colpi. Per qualche
secondo le potenti raffiche sgretolarono il cemento fino a esporre i tondini di
ferro dell’armatura. Poi, a un tratto, tutto tacque.
«Dottoressa van Keuren» risuonò la voce di Omidi, «mi ascolti. Non può
andare da nessuna parte. Venga fuori e le garantisco che uscirà di qui sana e
salva. Mi sente?»
Sarie fece capolino da dietro la colonna, e si ritirò subito.
L’autista ferito si dirigeva verso destra, con una pistola in mano e una
macchia di sangue che gli si allargava sulla camicia. Omidi era a terra e digitava
qualcosa sul laptop: a quanto sembrava, non si era rotto nella caduta.
Sarie non credeva alle parole di Omidi; aveva fermato il mitragliere solo
perché temeva danni alla sua preziosa valigetta. L’iraniano l’avrebbe ammazzata
per poi diffondere il parassita in America, oppure l’avrebbe fatta prigioniera di
nuovo per obbligarla a trasformare il patogeno in arma biologica. Nessuna delle
due era una prospettiva allettante.
Sentì un rumore dietro di sé e vide la porta che iniziava a chiudersi.
Omidi stava usando il programma di Zarin, cercando di bloccare al di fuori
della struttura gli assalitori e liberare al contempo le scimmie.
Senza altra alternativa, Sarie corse verso la porta semichiusa, uscendo allo
295
scoperto con la valigetta stretta al petto. Ignorò il suono degli spari,
concentrandosi solo nel raggiungere la porta prima che si richiudesse del tutto.
La porta la colpì alla spalla e lei cercò di opporre un’inutile resistenza contro il
motore che la stava chiudendo. L’autista ferito stava arrivando di corsa e la
mitragliatrice era puntata contro di lei.
Non poteva fare niente. Stavano venendo a riprendersi la valigetta.
Ma di certo non avrebbero preso lei.
Si trascinò oltre la porta, riuscendo appena a ritirare i piedi prima che si
sigillasse, e poi rimase immobile sul pavimento freddo, cercando di riprendere
fiato.
La ferita alla gamba era superficiale e si strappò una manica per usarla come
benda. Non sapeva ancora chi stesse attaccando il centro, ma chiunque fossero,
erano la sua unica speranza.
Sarie si mise in ginocchio e provò a rialzarsi in piedi, poi si fermò, tentando di
decifrare un sordo brusio, appena percepibile al di sopra del fischio dentro le sue
orecchie.
Erano le scimmie, libere.
296
Capitolo 80
Iran centrale
Jon Smith guardò oltre il bordo del fossato in secca e studiò la torretta sul lato
nord-est del perimetro, alla ricerca del cecchino che vi era nascosto. Il camion
rovesciato di Hakim aveva creato un grosso problema, bloccando gli uomini di
Farrokh e rischiando di trasformare l’intera operazione in una invincibile guerra
di logoramento.
Howell era steso sul ponte poco più in alto, e con la sua stupefacente
precisione di tiro copriva i soldati al riparo del mezzo rovesciato.
Farrokh andava su e giù in mezzo a loro per incoraggiarli con pacche sulle
spalle, ma ormai sembravano quasi tutti sul punto di cedere.
Essendosi ormai avvicinati alle torrette ancora in piedi, avevano neutralizzato
il vantaggio delle mitragliatrici in posizione sopraelevata e le guardie di Omidi
erano passate ai fucili. Erano brave ma non molto precise, tranne una. Nella torre
di nord-est c’era un tiratore scelto eccezionale. Aveva già eliminato tre dei loro
uomini e stava distruggendo ciò che era rimasto della loro mitragliatrice.
La sua faccia barbuta apparve oltre il bordo della torretta e Smith non riuscì a
prendere la mira prima della fiammata del suo fucile. La raffica rimbalzò sul
ponte e lui si girò in tempo per vedere che aveva staccato un blocco di cemento
vicino alla spalla di Howell. L’inglese era rimasto del tutto immobile, con gli
occhi fissi sul suo obiettivo.
«Ti sarei davvero grato se tu potessi far fuori quel figlio di puttana, Jon.» «Ci
sto lavorando.»
Una pallottola fece alzare della sabbia a pochi centimetri dalla testa di Smith e
Howell sparò alcuni colpi nella direzione da cui era arrivata. Non era consigliabile
stare fermi mentre gli iraniani aggiustavano il tiro e magari chiamavano i
rinforzi. Se fossero usciti allo scoperto, però, per il cecchino a nord-est sarebbe
stata una passeggiata.
Dovevano tirare a indovinare. Da quale parte della torre sarebbe apparso la
prossima volta? Per prendere la mira con cura, Smith avrebbe dovuto prevedere
la sua posizione con uno scarto di circa trenta centimetri.
«Mi sto arrostendo al sole» commentò Howell, alludendo al fatto che non era
andato fin là per rimanere coinvolto in un letale gioco al massacro.
«Sud, est o ovest?» «Cosa?» chiese Howell.
297
«Scegline uno.»
«Sud.» «Dimmi un numero da uno a dieci.» «Due.» Smith mirò al lato sud
della torretta, spostandosi di circa due metri sulla sinistra, e attese. Cinque
secondi, dieci, quindici. Quando la faccia scura comparve di nuovo era quasi
esattamente dove Howell aveva predetto, senza saperlo.
«Sei fortunato, amico! Vai!» Gli uomini di Farrokh si sdraiarono, pronti a far
fuoco contro la linea che Howell aveva tenuto sotto controllo, ma data la loro
posizione era impossibile contrastare i tiratori scelti delle altre torrette.
Smith sentì le pallottole passargli accanto fischiando mentre cercava di
avanzare il più in fretta possibile nella sabbia pesante. «Vai a destra!»
Peter eseguì, tuffandosi dietro i sacchi fuoriusciti dal retro del camion quando
si era rovesciato. Esplose alcuni colpi mirati verso le torrette, mentre Smith
scavalcava uno degli uomini per raggiungere Farrokh, che cercava di convincere i
suoi nove superstiti a non dare fondo alle munizioni sparando a casaccio tutto il
caricatore.
«Siamo salvi! Venite via!» Farrokh urlò ai suoi di ritirarsi di nuovo dietro al
camion. Smith afferrò il più giovane di loro, strappandogli il cellulare con il quale
stava inspiegabilmente filmando la battaglia, e trascinandolo vicino a Howell.
«La torre a ore tre!» ordinò Smith, scaraventandolo a terra accanto all’inglese.
«Hai capito? Devi coprire la torre a ore tre!» Il ragazzo urlò mentre una scarica di
colpi finiva a pochi metri da loro, ma poi si distese e appoggiò il fucile su un sacco
di sabbia. Era la sua prima battaglia, ma era cresciuto andando a caccia con suo
padre ed era più bravo dei suoi commilitoni a sparare.
Howell lo raggiunse e gli diede una pacca sulla spalla. «Sei in gamba, ragazzo.
Andrà tutto bene.» Farrokh e gli altri si erano ammucchiati dentro il cassone del
camion mentre gli uomini di Omidi miravano alla base del mezzo, senza dubbio
per cercare di perforare la piastra blindata a protezione del serbatoio di benzina.
298
punto in cui mancavano le lastre di acciaio. Era abbastanza, comunque. Sempre
che fossero riusciti ad arrivarci. L’autocarro era l’unica barriera a proteggerli da
un micidiale fuoco incrociato. E poiché non potevano abbandonarlo, la loro unica
possibilità era portarselo dietro.
299
facendo tutto il possibile, ma prima o poi i cecchini li avrebbero colpiti.
Anche se avrebbe preferito non entrare alla cieca, gli si era offerta
un’opportunità ed era impossibile sapere se ce ne sarebbe stata un’altra.
«Peter!» urlò. «Noi andiamo!» Howell salutò con una pacca sulla spalla il
giovane vicino a lui e poi corse verso Smith, che stava impartendo ordini mentre
Farrokh traduceva.
«Tu, vai al posto di Peter e cercate di coprire quelle torrette. Voi tre, prendete
il camion e qualsiasi altra cosa troviate per bloccare l’ingresso dopo che siamo
entrati. Nessuno deve uscire. È chiaro?» Annuirono tutti. «Okay. Tenete duro, i
300
rinforzi arriveranno tra poco.
Tutti gli altri, con noi.» Smith spianò il fucile d’assalto e respirò a fondo prima
di varcare lo squarcio. Si gettò subito a terra, rimanendo aderente al muro e
gridando a tutti gli altri di fare lo stesso.
Nel locale c’erano effettivamente tre uomini, ma in realtà non avevano
nemmeno notato il suo ingresso. Stavano sparando all’impazzata su due piccole
scimmie coperte di sangue che saltavano dal pavimento al soffitto così in fretta
da sembrare quasi dotate di ali. I proiettili rimbalzavano ovunque sulle superfici
di pietra e acciaio, senza trovare qualcosa in cui affondare.
Farrokh entrò dopo di lui e Smith lo fece abbassare mentre i suoi uomini lo
seguivano.
L’altra scimmia era più piccola e veloce, ma era confusa dai giochi d’ombra
creati dall’oscillazione dell’ultima lampadina rimasta.
Farrokh e i suoi uomini la tenevano sotto tiro, controllando la paura ma,
purtroppo, non il fuoco.
301
L’animale saltò verso il muro ma mancò la nicchia scavata nel cemento in cui
voleva rifugiarsi, e questo lo fece rotolare a terra.
L’impatto lo lasciò tramortito, rendendolo un facile obiettivo. Il primo colpo
di Howell lo fece rivoltare su se stesso, il secondo gli fece saltare gran parte del
torace.
A metà del corridoio trovarono tre cadaveri con addosso camici da laboratorio,
ognuno con una pallottola conficcata con precisione nella nuca.
«Non toccate niente.»
Non udì nessuna risposta, quindi si voltò verso Farrokh. «Hai intenzione di
tradurre?» L’iraniano gli lanciò uno sguardo interrogativo indicando gli uomini.
«Non credo ce ne sia bisogno.» Aveva ragione. Erano pietrificati. Non avrebbero
toccato quei corpi per nessuna ragione al mondo.
Proseguirono, controllando in ogni stanza; alcune erano vuote, altre
disseminate di corpi. Nessuno di questi era però stato attaccato dalle scimmie che
avevano incontrato all’ingresso. Erano stati uccisi da colpi di pistola.
Smith sbirciò in un locale dove due persone erano riverse sulle scrivanie,
sollevato nel vedere che Sarie non c’era. In realtà forse avrebbe dovuto sentirsi
meglio se l’avesse trovata. Aveva già abbastanza problemi senza saperla ancora
nelle mani dei servizi segreti iraniani.
Un lamento soffocato si levò in lontananza e Smith si fermò ad ascoltarlo,
mentre si componeva piano in un coro di strida.
«Hai sentito?» disse Howell. «Non sono soltanto due, questa volta.» Era vero.
Se la squadra fosse rimasta intrappolata nell’angusto spazio dell’ingresso, non
avrebbe resistito più di trenta secondi.
302
«Dentro!» ordinò Smith, rientrando nella stanza seguito dagli altri. Si sbatté
la porta alle spalle, notando subito che il chiavistello era posizionato in modo da
impedirne la chiusura.
«Farrokh. La serratura. Riesci a sistemarla?» L’iraniano si abbassò per
esaminarla.
303
Capitolo 81
Iran centrale
304
stipite di metallo, mentre non sapeva come interpretare nella sua testa le urla
soffocate e gli spari provenienti dall’altra parte.
Qualche minuto dopo, delle dita afferrarono il bordo della porta, cercando di
riaprirla.
«Sta’ lontano da me!» gridò, agguantando il manico di scopa e mancando di
poco la mano che si ritraeva all’ultimo momento.
«Sarie? Sei tu?» La mano riapparve e lei provò a colpirla di nuovo.
«Apri la porta, Sarie. E, per l’amor del cielo, molla quell’affare, mi fai male!»
L’accento non era iraniano, ma americano. E c’era qualcosa di familiare nella
voce.
«Sarie, ascoltami. Lascia la porta, okay?» La cintura le scivolò dalle mani e
socchiuse gli occhi, abbagliata dalla luce, mentre Jon Smith la tirava fuori dal suo
nascondiglio.
«Stai bene?» le chiese, controllando l’assenza di tagli in cui poteva essere
penetrato il parassita; poi lo sguardo gli cadde sulla sua gamba. «Cos’hai lì? Sei
stata attaccata? È…»
Lei scosse la testa e gli gettò le braccia al collo, cominciando a singhiozzare
come una bambina. L’uomo con cui aveva lottato fino a un minuto prima era
steso a terra a quindici metri da loro, privo di metà della testa. Peter Howell era
in piedi accanto al corpo e teneva d’occhio il corridoio deserto assieme a tre
iraniani armati.
305
Capitolo 82
Iran centrale
«Sono stati gli americani?» «No, gli iraniani. Membri della resistenza, credo.
Ma di certo sono stati aiutati dagli americani.» «Quindi sanno molte cose.»
«Troppe, Eccellenza.» Una sensazione di paura finora sconosciuta gli stava a
poco a poco torcendo lo stomaco. Non c’era modo di tornare indietro, si erano
bruciati tutti i ponti alle spalle. Bahame doveva essere morto, e secondo la
stampa internazionale la sua armata di guerriglieri era stata spazzata via.
Qualunque fosse stato il destino di Jon Smith, aveva di sicuro riferito tutto
quanto ai suoi superiori, e in base a quelle informazioni gli americani avrebbero
agito, se possibile con alleati, ma all’occorrenza anche da soli.
«Eccellenza, mi dispiace. Io…» «Non hai niente di cui scusarti, Mehrak. Sei
stato solo un soldato leale e instancabile al servizio di Dio.» In quel momento la
voce di Khamenei non sembrava più quella di un anziano, ma il suo tono era di
nuovo quello che a Omidi ricordava la risolutezza e la fiducia di molti decenni
prima.
«Prosegui per Avass» lo esortò l’ayatollah. «Ho contattato la polizia locale,
stanno radunando altri fedeli a Dio e alla rivoluzione. Vi offriranno protezione
fino a quando non arriveranno i militari a soccorrervi.»
306
«Tra quanto?» «Il primo aereo da trasporto dovrebbe arrivare tra meno di
quattro ore.» «Quattro ore» ripeté Omidi. Sembrava un’eternità. Le forze che
avevano piegato le loro difese a quel punto dovevano essersi accorte della sua
fuga e forse erano già sulle sue tracce.
«Eccellenza, io…» Il finestrino del lato passeggero esplose e si ritrovò coperto
di frammenti di vetro mentre la camionetta sbandava con violenza. Il telefono gli
scivolò via e lui si abbassò in avanti, proteggendo la valigetta con il corpo mentre
la portiera veniva crivellata di proiettili.
L’auto sbandò prima a sinistra e poi a destra. Ormai l’autista aveva la testa
quasi staccata dal collo. L’estremità destra del parafango del camion attutì l’urto,
mandando a sbattere la macchina impazzita contro la parete rocciosa.
Il mitragliere si appoggiò di nuovo con la schiena contro la cabina di guida,
poi si sdraiò per rispondere al fuoco, seguendo con la canna dell’arma i lampi
intermittenti degli spari, sempre più lontani.
«Mehrak! Ci sei? Mehrak!»
Da sotto il sedile della camionetta proveniva la voce metallica di Khamenei.
Omidi rimase chino sul fondo dell’automezzo, tastando alla cieca con la mano
fino a trovare il telefono.
«Sì, Eccellenza, sono qui.» «Cos’è successo?» «Siamo stati attaccati. La
resistenza sa che questa è l’unica strada per allontanarsi dal centro di ricerca.»
«Sei ferito?» «No, sto bene.»
307
avvertirli. Vi staranno aspettando.» «Grazie, Eccellenza.» «Mehrak, so di non
doverti ripetere quanto sia importante che quelle fiale giungano intatte a
Teheran. Abbiamo sette uomini pronti a partire con un visto per gli Stati Uniti.
Dobbiamo essere determinati e colpire in fretta, prima che gli americani possano
arrivare a noi.»
308
Capitolo 83
Iran centrale
309
«Sarie, Omidi è uscito proprio da questa porta, sei sicura?» domandò Smith.
«Sì, certo. È chiusa, dunque conduce all’esterno» rispose lei. E indicando una
striscia di sangue a terra, aggiunse: «E quello è mio».
«Allora dobbiamo aprirla.» «L’acciaio è troppo spesso» osservò Farrokh. «La
granata non lo sfonderà.»
Non aveva tutti i torti. Mettere l’esplosivo a diretto contatto con la porta
avrebbe con tutta probabilità solo piegato il metallo, rendendo anche più difficile
provare a forzarla.
«Forse…» proseguì esitante Farrokh.
«Cosa? Se hai un’idea, parla!» «Non ho mai avuto a che fare con questo tipo
di meccanismo in particolare, ma prima facevo l’ingegnere. Se dovessi progettarla
tu, come la faresti chiudere?»
«Giusto…» fece Smith, concentrandosi sulla parete a destra della porta.
«Perché complicarsi la vita? Basta trovare l’attuatore che agisce sul sistema di
bloccaggio.» Lavorarono in fretta, smontando la barricata e usando i vari pezzi
per creare una struttura che pilotasse l’esplosione contro la parete adiacente alla
porta. Erano rimasti senza protezione, ma a quel punto dovevano tentare il tutto
per tutto.
«Eccolo qui» disse indicando una semplice barra di acciaio posta accanto
all’ingranaggio principale.
Smith raccolse un blocco di cemento e lo sbatté più volte sulla barra, cercando
di piegarla, intanto Farrokh e i suoi uomini tiravano la porta con tutte le loro
forze. Si mosse di un paio di centimetri, e poi si fermò.
«Più forte! Avanti!» li esortò Smith.
Nonostante l’impegno, non fecero progressi.
«Di nuovo, coraggio!» «Jon!» intervenne Sarie alle sue spalle. «Cos’è quella
cosa lassù, nel foro dell’esplosione?»
Non sapeva come avesse fatto a non vederla: c’era una matassa di cavi
anneriti incastrata nello stipite superiore e bloccava il movimento della porta.
L’afferrò e la rimosse mentre Farrokh e i suoi uomini si davano da fare attorno al
310
piccolo spiraglio.
Fecero una fatica immane a spostarla, mezzo centimetro per volta, ma la porta
iniziò a cedere. Quando l’ebbero aperta di circa trenta centimetri, il giovane che
gli aveva portato la granata si avvicinò alla fessura. «Basta così, ci passo!»
esclamò.
«Fermo!» gridò Smith, ma era troppo tardi.
Il ragazzo si era appena fatto largo nell’apertura quando risuonò uno sparo e
si accasciò, il corpo incastrato tra la porta e lo stipite, vittima della stessa trappola
preparata per le scimmie.
«Peter! Con me!» L’inglese lo seguì mentre Smith teneva il cadavere davanti a
sé, usandolo come scudo umano per addentrarsi in un parcheggio sotterraneo
cavernoso e poco illuminato.
Gli spari continuarono, assorbiti dal peso morto del corpo del giovane, ormai
sempre più difficile da trasportare. Sentiva Howell che gli stava attaccato mentre
si spostavano in blocco sulla destra, cercando riparo dietro a un pilastro di
cemento sgretolato.
311
grado di controllare se le loro ferite sono infette.»
Annuirono e lui corse verso la fila di veicoli parcheggiati all’altro lato della
caverna, con Farrokh al seguito. Dopo un breve giro di ricognizione, Smith puntò
un dito contro l’iraniano. «Hai detto di essere un ingegnere, giusto? Sai far
partire un’auto senza la chiave?» «Ingegnere e ladro sono due cose diverse,
colonnello.» «Perfetto» mormorò Smith mentre Howell stava di guardia, nel caso
in cui il fuggiasco di poco prima avesse ritrovato il coraggio di attaccarli. Ma Sarie
nel frattempo era sparita.
Stava per chiamarla quando nel vasto locale riecheggiò il rombo di un motore.
Un minuto dopo, un pickup pieno di attrezzi si fermò davanti a lui.
«Vi serve un passaggio?» chiese Sarie, sporgendosi dal finestrino.
«Peter, ce ne andiamo!»
Lei si spostò per lasciar guidare Smith, mentre Farrokh saliva dalla parte del
passeggero. Si stavano già muovendo quando Howell si lanciò nel retro,
scaraventando a terra cassette di attrezzi e pale per fare spazio mentre Smith
accelerava verso quella che sperava fosse un’uscita.
La caverna era molto più ampia e articolata di quanto si aspettassero, ma
seguirono le tracce degli pneumatici di un autocarro fino a trovare l’imboccatura,
camuffata con estrema cura.
312
«Quante persone sono state esposte all’infezione?» «Molte più di quante
credessimo. Ma non mi preoccuperei, con le procedure che avete messo in atto.
Tutti erano al corrente dei rischi, quando si sono offerti volontari. E delle
possibili conseguenze.»
Sarie si chinò in avanti e si coprì la faccia con le mani. «È colpa mia.
Sono stata io a infettarli, volevamo isolare la struttura e liberarli. Se solo non
avessi fatto niente… adesso avremmo soltanto qualche animale mezzo morto da
gestire, e quei ragazzi starebbero bene.» «Non potevi saperlo» la rassicurò
Farrokh, «hai solo provato a renderti utile. Sono io lo stupido, a non aver
immaginato che Omidi potesse liberare le scimmie infette per coprire la sua
fuga.»
313
Capitolo 84
314
istante prima di essere tamponati dall’auto dietro alla camionetta. Il rumore
dell’impatto, però, fu coperto completamente dal boato di un’esplosione.
La bomba nella cassa era stata rivestita di chiodi e il pickup davanti a loro era
avvolto in una nuvola mortale di fuoco e schegge. L’auto della polizia sbandò
sulla destra e investì un gruppo di persone terrorizzate prima di andare a
fermarsi contro gli archi di pietra di una farmacia.
Un attimo dopo si innescò una terrificante sparatoria. I proiettili sembravano
arrivare da ogni angolo, dai vicoli stretti che si snodavano dalla via principale, dai
tetti delle case, dalle vetrine aperte dei negozi e dalle finestre delle case private.
La portiera venne aperta di scatto, e lui cercò di farsi più piccolo, cercando di
nascondere la valigetta dietro di sé.
Invece di sparare, però, l’uomo gli tese una mano. «Andiamo!
Veloce!» Omidi lo seguì, correndo piegato verso l’edificio della farmacia
mentre altri fedeli alla Repubblica Islamica si stringevano attorno a lui, sparando
all’impazzata in ogni direzione. l’uomo davanti a lui e quello alla sua destra
caddero in rapida successione, creando dei buchi nel suo scudo umano. Omidi si
staccò dal gruppo, dirigendosi verso gli archi del negozio. Mancavano solo pochi
metri quando qualcosa lo colpì alla schiena e lo fece rotolare sopra un banco
pieno di lampade a olio. Subito dopo si sentì afferrare da una mano robusta e
trascinare verso le porte della farmacia.
315
persone nascoste sotto una fila di tavoli. Quando era a pochi metri, arrivarono
due uomini e lo trassero in salvo.
«Sta bene?» disse uno. «Le hanno sparato!» Cercò di esaminare la ferita, ma
Omidi gli allontanò la mano con fare brusco. Non aveva quasi più sensibilità
nelle gambe, e a tratti sembrava perdere conoscenza. Farrokh aveva troppi
seguaci e troppa potenza di fuoco in quel villaggio, per gli uomini reclutati da
Khamenei. Avrebbero raggiunto la farmacia prima dell’arrivo dei militari.
«Lei lavora qui?» chiese alla donna vicino a lui, cercando di parlare in tono
autoritario, per quanto possibile.
Lei scosse la testa e indicò un uomo con i capelli bianchi, rifugiato in un
angolo.
«È lei il farmacista?» «Sì» rispose sgranando gli occhi mentre guardava
schegge volare da un mobile in legno che due poliziotti stavano spingendo contro
una delle vetrine rotte. «Mi chiamo Muhammad Vahdat.» «Sono Mehrak Omidi,
il capo del ministero dell’Intelligence.»
316
degli ultimi dati disponibili, in meno di due ore sarebbero insorti tutti i sintomi.
Era l’unica via. Il destino del parassita e quello dell’Iran in quel momento
erano legati in maniera indissolubile. Non poteva permettere che fossero distrutti
o cadessero nelle mani dei traditori.
Dovevano sopravvivere.
317
Capitolo 85
Avass, Iran
«Avete previsioni sul tempo di arrivo delle forze iraniane?» «Un’ora circa»
rispose Farrokh. «Due C-130 delle forze speciali Takavar. Altri sette sono in
arrivo, ma i miei non sono riusciti a stabilire quando.» «Sappiamo quanti stanno
puntando su Avass e quanti sono diretti al laboratorio?»
«No, ma i miei uomini hanno sigillato il centro e sono in una buona posizione
difensiva. Terranno duro finché il parassita non morirà.» Smith non era tanto
sicuro, nove aeroplani potevano portare fino a seicento uomini e le truppe
Takavar erano il fiore all’occhiello dell’esercito iraniano.
I colpi di arma da fuoco ora erano più vicini e Jon seguì Howell su un pendio
fangoso con in cima un basso muro. Da quella posizione elevata si resero conto di
quanto fosse complesso lo scenario.
C’erano uomini ovunque, dietro le auto, sui tetti, nei vicoli, ma era
impossibile distinguere a quale fazione appartenessero. I resti di un pickup
stavano bruciando ancora davanti a quello che pareva l’edificio di un mercato e il
fumo rendeva meno nitida la visuale. La farmacia di cui parlavano gli uomini di
Farrokh aveva degli archi davanti, in grado di resistere anche a un carro armato, e
c’era almeno un uomo appostato dietro a ogni vetrina semibarricata.
«Forse, se potessimo raggiungere il camion in mezzo al…» iniziò Howell, ma
318
poi tacque quando un uomo uscì allo scoperto e corse fino a un rimorchio
rovesciato per poter avere una vista migliore sulle finestre della farmacia. Il
silenzio venne subito rotto da una scarica di pallottole e l’uomo fu falciato prima
di riuscire a fare due metri.
«Meglio di no» commentò Howell.
Smith si lasciò scivolare con la schiena contro il muro, imprecando sottovoce.
I Takavar sarebbero piombati su di loro come l’ira di Dio in meno di un’ora.
Non avrebbero impiegato molto a eliminare le forze di Farrokh e caricare Omidi
su un aereo per Teheran.
«Avete niente di più pesante dei fucili d’assalto?» «Un lanciarazzi.» Indicò un
tetto a nord. «È lassù.» Smith diede un rapido sguardo e scorse un RPG sulle
spalle di un uomo con in mano un videofonino appostato dietro un comignolo.
L’angolazione non era ideale, ma con un po’ di fortuna si poteva tentare di
superare le arcate e far entrare la granata dalla vetrina.
«Non accetterà mai» obiettò Sarie. «Lo conosco meglio di tutti voi.
Se vuoi quella valigetta, dovrai strappargliela dalle mani, e potrai farlo solo
dopo averlo ucciso.» «Sono d’accordo» commentò Farrokh. «Omidi non scende a
compromessi.» Smith rimase seduto in silenzio per un istante, cercando di
concentrarsi sulla situazione tattica e di non pensare alle facce terrorizzate delle
persone dentro la farmacia.
319
Dopo pochi istanti apparve la faccia insanguinata di una donna. Si avventò
sull’uomo senza vita aggredendolo in modo selvaggio, la bocca contorta dalla
furia mentre il suo esile corpo veniva scosso da un proiettile dopo l’altro.
«Li ha infettati!» urlò Smith. «Spara! Ora!» Farrokh era ancora al telefono e
iniziò a gridare ordini concitati. Un attimo dopo dal tetto si levò una scia di
condensazione e la granata fu deviata da uno degli archi della farmacia,
esplodendo di fronte alle pesanti porte e producendo moltissimo fumo e rumore,
ma pochi danni.
Smith si passò il fucile oltre la testa e lo diede a Sarie, poi estrasse dalla
fondina la sua .45. «Spara a tutto quello che si muove! Capito?
Li voglio morti, tutti!» Gli ostaggi di Omidi uscirono di corsa dalla nuvola di
fumo, mentre Farrokh continuava a impartire istruzioni al telefono. Howell
sparava con calma, colpendo con precisione tutto quello a cui mirava. Per Sarie,
malgrado fosse molto abile, uccidere delle persone non era come sparare ad
animali o bersagli. Gli uomini sui tetti e nelle strade esitarono, e quando
capirono cosa stava accadendo, era troppo tardi.
320
Capitolo 86
Iran centrale
Il generale Asadi Daei era in piedi sul portellone dell’abitacolo del C-130 e
guardava dal grande vetro anteriore mentre l’aereo si alzava dalla base militare e
virava a destra. Stando all’ultimo rapporto, non meno di cinquanta affiliati alla
resistenza si erano trincerati nel centro di ricerca e altri venticinque stavano
combattendo per le strade di Avass. Per fortuna, la polizia era riuscita a scortare
Mehrak Omidi in un edificio protetto, dove attendeva i soccorsi del primo
scaglione di militari.
Nonostante fosse stato ferito in tre occasioni nella guerra con l’Iraq, Daei
provò un brivido di paura. «Fanno acqua» significava che la malattia di cui era
stato informato era sfuggita al controllo; «hanno ceduto del tutto» era come dire
«le persone infette ora si trovano in strada».
«Capisco, Eccellenza.» «Che Dio sia con lei.» Subito dopo Daei si mise in
contatto con i comandanti degli altri aerei da trasporto. «Passiamo al piano
Theta. Ripeto. Piano Theta.»
Dopo aver ottenuto conferma da tutto lo stormo, riappese la cuffia al suo
gancio e rimase immobile per un istante, in preda a un leggero capogiro. Negli
altri aerei, in quel momento, i suoi ufficiali stavano spiegando alle rispettive
squadre quale resistenza ci si poteva aspettare: persone con la forza di tre
uomini, coperte di sangue, pronte ad attaccare ogni obiettivo in movimento come
un branco di cani rabbiosi. Sembrava impossibile, uno scenario assolutamente
folle. Ma era Omidi in persona ad aver fornito dati e stime, e lui in genere non
indulgeva a facili isterismi.
Daei tornò in coda all’aere