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STORIA DEL DIRITTO II

Prof.ssa Stolzi
Lo scopo di questo corso è quello di fare una lunga camminata lungo la storia del diritto europea dalla
fine del medioevo al 900’. Cercheremo di organizzare questo percorso in tre macro tappe:
1) La prima tappa è vedere come si costruisce quello che gli storici chiamano il modello
individualistico di convivenza.
2) La seconda tappa è vedere come, quando e perché si incrina questo modello individualistico
di convivenza. Questo modello comincia a manifestare delle crepe ma non cede.
3) La terza tappa è vedere quando entra in crisi questo modello cioè quando inizia a sfaldarsi e
perdere terreno.
In questa ricognizione cercheremo di tenere costantemente legato il piano del diritto privato, pubblico
e costituzionale, e vedremo che questi due universi non sono mai separati, ma sono in qualche modo
universi che si costruiscono insieme e definiscono la propria identità insieme. La storia non serve a
chiarire le idee ma serve a complicarle e ci fornisce degli occhiali per vedere le cose in maniera più
complessa. La classica espressione “La storia è maestra di vita” non significa che la storia si ripete,
ma vuol dire che la conoscenza storica arricchisce il cervello e ci dà degli strumenti, in virtù del
presente, più sofisticati di quelli che avremmo senza conoscenza storica. Questo corso serve per capire
che il diritto non è solo un insieme di norme, ma è un qualcosa di infinitamente più complesso. Per
sapere qual è il diritto vigente in Italia non bisogna limitarsi a leggere la legge e il codice, occorre
un’attività più complessa. La modernità giuridica continentale europea si è costruita identificando il
diritto con la legge, cioè con un insieme di regole formalmente poste. Il diritto non è solo un insieme
di regola formalmente poste, ma allo stesso tempo siamo figli di un’idea della modernità giuridica
che il diritto sia uguale a legge o alla regola formalmente posta. Cercheremo di confrontarci con
epoche storiche in cui questa equazione in cui l’identità tra diritto e legge era sconosciuta, cercheremo
di vedere che volto aveva il diritto in epoche lontane da questa identità tra diritto e legge. Cercheremo
di vedere poi in virtù di quali processi si è affermata questa identità tra diritto e legge e poi come si è
diluita fino al presente. Il prefisso “de” che entra nel lessico giuridico ci fa capire che alcuni strumenti
che erano stati decisivi e che avevano avuto una funzione regolativa decisiva, ora non ce l’hanno più.
Decodificazione vuol dire che il diritto sta uscendo dal codice, denazionalizzazione,
decostituzionalizzazione ecc. Sono tutti sintomi di una crisi che riguarda che riguarda quegli strumenti
regolativi come la legge, il codice, lo stato che invece hanno ricoperto un ruolo centrale fino a non
molti decenni fa.

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1. PRIMA TAPPA, come si costruisce il modello individualistico di convivenza. Il modello
individualistico di convivenza è quel modello o quell’idea di convivenza imperniato su due sole
presenze, l’individuo da un lato e lo stato dall’altro. L’idea che lo spazio giuridico, politico e sociale
sia popolato da due uniche presenze e cioè l’individuo concepito in quanto tale e lo stato concepito
come individualità sovrana di potere. Arrivare a questa idea che sia possibile raffigurare così la realtà
giuspolitica, non è un processo che si consuma in poco tempo, ma è il frutto e l’esito di un processo
secolare che inizia a mostrare qualche segno nel 300’ e che trova la sua consacrazione anche in testi
costituzionali nella seconda metà del 700’. Per capire come il moderno si distingue dal medioevo
bisogna stilizzare la raffigurazione del medioevo e con una semplificazione contrapponiamo delle
caratteristiche dell’esperienza giuridica medievale a quella moderna.
Il medioevo dal punto di vista giuspolitico è una realtà che non conosce né l’individuo né lo stato, gli
attori protagonisti sono due sconosciuti nella realtà giuridica medievale. Quando gli storici parlano
del medioevo fanno riferimento a quella che viene chiamata “antropologia comunitaria”. Questa
affermazione vuol dire che il medioevo considera l’individuo in quanto tale come una astrazione e
non esiste la possibilità di pensare all’uomo singolo in quanto tale ma esistono delle comunità. Quindi
la dimensione giuridica più corposa della realtà giuridica medioevale non è la dimensione individuale
ma è la dimensione comunitaria. La realtà medievale è strutturata in micro e macro comunità dalla
famiglia, la corte, la città, la corporazione, il feudo e sono queste comunità a costituire le realtà
giuridicamente rilevanti. Questo non vuol dire che nel medioevo gli individui non esistono e che sono
giuridicamente invisibili, ma vuol dire che la consistenza giuridica dell’individuo ed il suo corredo di
diritti, facoltà e doveri deriva loro dall’appartenenza. È l’appartenenza ad una comunità, ad un ceto,
ad una corporazione, ad una città ad un feudo ciò che identifica cos’è giuridicamente un individuo.
Per l’immaginario medievale quindi l’individuo in quanto singolo è una realtà inconsistente.
L’individuo è pensabile solo attraverso la sua appartenenza che definisce il corredo giuridico
dell’individuo e la posizione giuridica dell’individuo si descrive a partire dalla sua appartenenza a
micro o macro comunità. Non c’è lo stato, il medioevo conosce il potere politico, esistono re e principi
e un potere politico anche a volte afflittivo nei confronti dei singoli ma non esiste quello che gli storici
designano con il nome di stato. Stato e potere politico non sono due sinonimi, oggi li usiamo a volte
come sinonimi ma ai fini del nostro percorso dobbiamo fondare questa distinzione perché non ogni
potere politico può essere qualificato come stato.
Per definire i tratti salienti dello stato, un illustro storico di nome Paolo Grossi, per definire lo stato
ha parlato di una certa “psicologia del potere”. Si è difronte ad un potere politico definibile come
stato quando si è difronte ad una certa psicologia del potere politico e ad una certa idea del potere
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politico. Questa psicologia del potere politico è l’idea che lo stato sia un soggetto potenzialmente
interessato a disciplinare e governare ogni aspetto della vita sociale che si svolge nel suo territorio.
Paolo Grossi ha utilizzato l’immagine del grande burattinaio cioè questo potere è interessato a tirare
tutti i fili della convivenza. Nulla di tutto ciò esiste nel medioevo. Il potere politico medievale che
molte volte è aspro e fa sentire la sua presenza, non sente di poter o dover disciplinare tutti gli aspetti
della vita sociale che si svolgono al suo interno. Ciò che manca al potere politico medievale è l’idea
di dover governare tutti i lati della vita sociale che si svolgono nel proprio territorio. Il potere politico
medievale è più interessato a disciplinare quei lati del vivere associato più direttamente legati alla
conservazione del potere politico stesso. Il potere politico medievale non butta gli occhi su tutto ciò
che avviene nel territorio ma è interessato soprattutto a disciplinare quegli aspetti della convivenza
direttamente legati alla conservazione del potere, come al diritto penale e a quello che noi con
terminologia moderna chiameremo diritto pubblico. Il diritto politico medievale è molto attivo su quei
fronti che direttamente riguardano la propria conservazione mentre il grande territorio dei rapporti del
diritto privato non interessa il principe ed il potere politico medievale. La gran parte del diritto privato
oggi la troviamo nel codice e dal punto di vista delle fonti è una legge dello stato, quindi questo è il
segno di un potere politico che si interessa ai rapporti di diritto privato. Nulla di tutto ciò avviene nel
medioevo perché il principe non è interessato a disciplinare pervasivamente i rapporti di diritto privato
e sono lasciate alle spontanee elaborazioni del sociale. Il diritto privato regola i rapporti tra privati e
la società autonomamente elabora. In questo contesto quale sarà la fonte del diritto preminente? La
consuetudine e questo la porta al centro infatti è la tipica fonte di origine sociale. In una realtà di
questo tipico la fonte principale è la consuetudine che promana dalla società per regolare i rapporti
sociale. Si distinguono qui due grandi zone di elaborazione del diritto che corrispondono alle due zone
in cui si divide l’esperienza medievale:
 Alto medioevo: prima parte del medioevo che va dalla caduta dell’impero romano d’occidente
avvenuta nel 476 a.C. all’anno mille.
 Basso medioevo: dall’anno mille alla scoperta dell’America.
Quindi in base alla produzione del diritto si distinguono due grandi aree del medioevo.
L’alto medioevo è un periodo è un periodo duro, è una realtà che deve fare i conti con la fame, le
epidemie, le eucarestie, le guerre. È una realtà rudimentale anche dal punto di vista delle relazioni
sociali. La vita si svolge nelle campagne, in piccoli centri abitati. L’anno mille si caratterizza con la
nascita delle città, questo atto di fiducia nello stare insieme, il paesaggio è rurale fatto di insediamenti
sparsi in cui le relazioni intersoggettive sono limitate al minimo. In questo paesaggio anche giuridico
elementare sono sufficienti le tante consuetudini dei tanti diversi luoghi. Quindi in un paesaggio
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giuridico così scarno è sufficiente la funzione regolativa svolta dalle consuetudini e da alcuni operatori
del diritto elementari e poco apprezzati culturalmente, sono pratici del diritto e soggetti che non hanno
grandi strumenti politici culturali. Il notaio medievale è un soggetto che spesso è alfabetizzato quando
gran parte della popolazione non lo era e rudimentalmente inventa figure giuridiche per questo tessuto
di transazioni scarno e semplice, questo pratico del diritto era uno strumento necessario e sufficiente
a regolare questo tipo di realtà quindi consuetudini e notaio. La poca cultura che circola nell’alto
medioevo è monastica, è la cultura dei monasteri. La cultura è un lusso per una realtà affamata. I
pochi centri di vita culturale sono i monaci ma questa non è cultura circolante perché i monasteri sono
celle chiuse, le cose cambiano con il basso medioevo. La situazione si vivacizza e uno dei veicoli di
questa rinascita del basso medioevo è rappresentato dalla evoluzione della figura del mercante. Una
realtà più ricca che ha merci da scambiare che si agglomera in centri abitati più grandi come le città,
nascono le prime università, la prima è quella di Bologna. Sono tutti segnali di una realtà che riprende
quota e questa è una realtà che ha bisogno di una strumentazione giuridica più elevata. Questa realtà
più mobile in cui gli uomini vivono in agglomerati più vasti e scambiano merci e in cui si muovono,
ha bisogno di strumenti giuridici più raffinati e sofisticati. C’è una data che gli storici prendono da
spartiacque che è il 1076, data del cosiddetto Placito di Marturi. Questo è un atto giuridico in cui
per la prima volta per gli storici, viene citato il Digesto. In questo atto che era una transazione di
terreni viene citato una parte del Corpus Iuris Civilis compilato da Giustiniano. Questo vuol dire che
si è avuto bisogno di munirsi di strumenti giuridici più sofisticati e più complessi di quelli ricavabili
dalla mera consuetudine o dall’opera del notaio e questo qualcosa di più complesso è il diritto romano
che è uno straordinario polmone di tecnica e linguaggio di suggerimenti. Il diritto romano che era
stato completamente dimenticato nell’alto medioevo perché era una struttura troppo sofisticata e
aulica per la realtà alto medievale, viene ripescato nel basso medioevo. Era stata proprio la realtà
monastica a rendere possibile la conservazione dei testi romani perché erano stati copiati e conservati
quindi escono dalla parte dei monasteri questi testi e diventano strumenti di cui la realtà medievale si
serve per amministrare il proprio diritto. Questa realtà si serve del diritto romano tramandato in
Corpus Iuris Civilis attraverso l’indispensabile mediazione dei giuristi. Dal 1076 il diritto romano il
diritto romano torna ad essere uno strumento utilizzato nella realtà giuridica medievale, utilizzato
attraverso la mediazione dei giuristi che è un soggetto nuovo e colto del basso medioevo, è un soggetto
che ha frequentato le scuole di diritto ed è un soggetto formato nelle università, è l’intellettuale per
eccellenza della realtà medievale. Il giurista medievale del basso medioevo è un uomo colto che ha
gli strumenti per leggere il diritto romano. Il grande problema del diritto romano racchiuso nel Corpus
Iuris Civilis è che quel diritto è stato collazionato cioè messo insieme da Giustiniano diversi secoli
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prima, non solo ma racchiudeva frammenti ancora anteriori rispetto all’epoca di Giustiniano. Quindi
era un patrimonio giuridico pensato per una società radicalmente diversa da quella medievale. I
giuristi medievali non possono limitarsi a trapiantare la regola romana nella realtà medievale perché
sarebbe impossibile appiccicare su una realtà diversa delle regole che non le corrispondono e non la
sanno regolare, il diritto è un prodotto storico e non esistono regole valide e universali ma esistono
regole adeguate ad una certa realtà storica e sarebbe stato un innesto innaturale. I giuristi medievali
fanno un lavoro creativo con il diritto romano, vuol dire che utilizzano il diritto romano come
serbatoio e luogo da cui accingere tecnica, linguaggio e terminologia e attraverso l’interpretazione
stravolgono quasi sistematicamente la portata originaria di quelle norme, regole e principi. Loro
fingono di appoggiarsi al testo romano e dichiarano di appoggiarsi al testo romano e di rispettarlo ma
in realtà la riscrivono per adeguarla alle esigenze diversissime della realtà medievale. C’è Accursio,
che è l’ultimo dei glossatori, che scrive l’opera Glossa Magna nel 1240 e da una definizione di
interpretatio che a noi moderni sembra incredibile e ci stupisce. Lui dice: “Io interpreto cioè
correggo, aggiungo, modifico.” Per noi contemporanei l’interpretazione è quella attività che ci
consente di mettere in luce il significato autentico di un testo. Interpretare un testo o un fatto significa
ricostruire la realtà. Il giurista medievale invece vive l’interpretazione come attività creativa sul testo.
Perché fanno tutto questo, non era più facile dire che si inventavano regole per la verità medievale?
Invece di dire la regola è questa perché lo dice Gaio, Gaio diceva il contrario ma loro attraverso la
manipolazione del testo fanno dire a Gaio ciò che andava contro il suo pensiero. Perché c’è bisogno
di un percorso così tortuoso? Questo è tipico della psicologia dell’uomo medievale, l’immaginario
medievale non sconnette e non crede nell’uomo come soggetto capace di creare qualcosa ex novo,
l’uomo medievale ha sempre bisogna di una auctoritas cioè di una autorità per legittimare e per
convalidare il proprio punto di vista. L’auctoritas del diritto romano e in particolare del Corpus Iuris
Civilis, era agli occhi dell’uomo medievale indiscutibile non solo per le ragioni dette cioè per il fatto
che rappresentava un grande serbatoio di regole e linguaggio ma anche perché è un testo antico. La
modernità nasce con una idea antistoricista e mira ad abbattere la tradizione e ha bisogno di rifondare
con le rivoluzioni, il medioevo ha invece bisogno della storia per legittimare sé stesso. Quindi è un
testo antico ed ha un posto speciale e promulgato da un imperatore cattolico. Il Corpus Iuris Civilis
era il testo che più di altri di altri si candidava a svolgere questo ruolo di autorevolezza che
convalidava le costruzioni del giurista medievale e che l’uomo medievale non si riconosce la facoltà
di creare il mondo. Questa idea che il diritto non sia creazione dell’uomo e che il diritto non sia
prodotto della volontà umana, è un tratto tipico dell’intera esperienza giuridica medievale e non
riguarda solo il lato dei rapporti tra privati. La norma del principe è frutto della sua volontà, non ci
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muoviamo noi sul piano dei rapporti storici effettivi e questo non vuol dire che l’uomo medievale è
privo di volontà ma vuol dire che il medioevo rappresenta sé stesso in un certo modo. Tutto il
medioevo ritiene che il diritto non possa essere raffigurato come frutto di una volontà umana, si parla
di antivolontarismo o ius involontarium per esprimere questo concetto, cioè l’idea che il diritto è
una dimensione oggettiva già scritta cioè esiste un ordine delle relazioni già scritto che l’uomo deve
solo limitarsi a leggere. L’ordine tra comunità e le relazioni rilevanti all’interno di una convivenza
non sono scritte all’interno di una volontà degli uomini ma c’è un ordine naturale oggettivo (le cose
sono così e non possono che essere così). L’uomo può leggere e decifrare quest’ordine, l’uomo si
distingue dagli animali perché munito di ragione ma questa ragione non ha una potenza creativa,
questo lo diranno i moderni, la ragione serve agli uomini a decifrare e leggere il mondo. C’è un ordine
già scritto e l’uomo utilizza bene la propria ragione e attraverso essa legge, decifra e interpreta
quest’ordine già scritto. Nel 643 Rotari promulga l’Editto di Rotari e nel preambolo dice: “Ho inteso
soltanto sistemare per iscritto le consuetudini del mio popolo.” Qui abbiamo il capo di una comunità
politica che nel promulgare un editto non dice che quelle norme le ha create ma che le lette e registrate,
le ha solo messe per iscritto quindi è un diritto che preesiste alla volontà del potere politico. Il potere
politico non crea un ordine di norme ma lo rispetta e al limite lo trascrive. L’idea che la creazione del
diritto non sia una prerogativa specifica del potere politico.

Per modello individualistico si può intendere quell’idea che immagina la convivenza, lo spazio gius-
politico, come abitato da due sole grandezze: l’individuo da un lato e lo stato dall’altro. Questa idea
di convivenza ha le sue prime forti consacrazioni ufficiali nella seconda metà del 700’. Si tratta di un
esito che è frutto di un processo storico plurisecolare.
Per capire da dove si origina questo processo storico abbiamo stilizzato le caratteristiche salienti
dell’esperienza giuridica medievale. Il medioevo è una realtà caratterizzata dall’assenza
dell’individuo e dall’assenza dello stato. Questo però non vuol dire che non esistono gli individui nel
medioevo, ma vuol dire che l’individuo in quanto tale è considerato un’astrazione: l’individuo è
definito dall’appartenenza, cioè è la sua appartenenza ad una comunità, a un ceto, a una
corporazione, a una città, ciò che ne determina la posizione giuridica. I diritti, le facoltà e i poteri
dell’individuo, non gli spettano in quanto individuo, ma in quanto appartenente ad una comunità.
Abbiamo sottolineato questa distinzione tra stato e potere politico, dicendo che non ogni potere
politico può essere definito Stato. Tecnicamente si definisce Stato solo quel potere politico
potenzialmente interessato a governare, a disciplinare ogni lato della convivenza che si svolge nel suo
seno. Il principe medievale di solito non è interessato a governare quei lati del diritto che con
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terminologia moderna chiameremmo diritto privato. Questo diritto nasce e si evolve nella società e
attraverso la società: la società è il grembo che alleva il diritto privato, che lo disciplina e lo
amministra.
L’alto medioevo è una realtà estremamente sofferente ed è una realtà in cui le relazioni umane e le
relazioni economiche sono ridotte al minimo. Questo si traduce dal punto di vista giuridico
nell’estrema rarefazione anche degli incontri giuridici delle relazioni giuridiche e per questa realtà
sono sufficienti la consuetudine ed è sufficiente un operatore giuridico, il lavoro dei pratici (i notai)
che sono artigiani del diritto, che si inventano soluzioni rudimentali e che rispondono alle richieste
regolative di una realtà estremamente elementare.
Il paesaggio cambia nel secondo medioevo (Basso medioevo): è una realtà di ripresa, le città, le
università, e tutti questi lieviti ambientali di maggior floridezza rendono necessario anche dal punto
di vista giuridico il ricorso a strumenti più sofisticati. Nascono i giuristi e si scopre il Corpus iuris
civilis. Il fascino del corpus iuris non è dato solo dal fatto che nel corpus iuris c’è una miniera di
linguaggio, di tecnica, di diritto, ma anche dal fatto che si tratta di un testo antico ed è un testo
promulgato da un imperatore cattolico. Quindi è un testo venerabile perché il medioevo ha bisogno
costantemente della storia per legittimare le proprie costruzioni.
Come lavorano i giuristi sul corpus iuris civilis: i giuristi lo interpretano al modo medievale, cioè
correggono, aggiungono ecc, e inventano soluzioni adeguate alla realtà medievale. Quindi i giuristi
appoggiano le loro costruzioni, che sono pensate per la realtà medievale, a questo momento di
autorevolezza, cioè al corpus iuris civilis.
Questa idea di diritto involontario, cioè che non è frutto della volontà umana, ma che è già scritto in
un ordine cosmico, non coinvolge solo il lato dei rapporti privati, ma riguarda in generale la
concezione del diritto e la concezione dell’ordine.
Premessa dell’Editto di Rotari: Rotari, che è un fuhrer (capo, guida) longobardo, dice nel preambolo
di questo editto “ho inteso sistemare solo per iscritto le consuetudini del mio popolo”: quindi l’idea
che il diritto non è il frutto della volontà degli uomini, neanche della volontà del più eminente tra gli
uomini della comunità, neanche la volontà del principe. Esiste un ordine dato, un ordine che quindi si
nutre anche di regole giuridiche, il diritto appunto serve ad ordinare una convivenza. Al di là di tutte
le versioni che gli uomini hanno inventato del diritto, c’è un significato elementare fondativo del
diritto: il diritto è lo strumento che serve a ordinare una convivenza piccola o grandissima che sia,
sono le regole che presiedono al governo di una convivenza. Possono essere regole elementari
provenienti da diverse fonti, ma questo è il diritto.

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Quindi l’immaginario medievale crede nell’esistenza di un ordine cosmico che quindi è tale anche
grazie a un corredo di regole giuridiche, ma queste regole sono viste come il prodotto spontaneo di
quell’ordine e non come il prodotto della volontà normativa del principe o in generale del potere
politico. Dunque il potere politico “buono” per l’immaginario medievale non è un soggetto che crea
un ordine, o lo impone o lo progetta, ma è il soggetto che lo rispetta. Dunque è il potere politico che
non pretende di creare e di imporre un ordine, ma che lo legge e lo rispetta.

Intorno al 1100 un prelato inglese di nome Giovanni da Salisbury, scrive un’operetta che si intitola il
Policratico (o Policraticus) e ci indica qual è a suo dire la distinzione tra il principe e il tiranno,
dunque tra la fisiologia e la patologia del potere. Il principe, e quindi il potere buono, è il potere che
trova nell’equitas il suo tratto distintivo, quindi è l’equitas ciò che contraddistingue il potere del
principe. L’equitas è una virtù di equilibrio, cioè il principe buono è il principe che rispetta e consolida
l’equilibrio tra le tante sfere di cui si compone una convivenza. Tra le tante realtà (i feudi, le città, le
corporazioni) il principe, non è un soggetto che sta su queste realtà con un piglio dominativo, ma tiene
in equilibrio queste realtà, rispetta e preserva questo equilibrio compositivo tra le diverse realtà di cui
si compone una convivenza. Il tiranno è colui che viola che tradisce e non rispetta questo ordine che
la storia ha progressivamente e insensibilmente prodotto. Dunque il tiranno per opposizione è il potere
politico che non rispetta l’equilibrio, lo viola, e che impone la propria volontà su questa dimensione
compositiva che è il frutto di un’evoluzione storica.

Un altro riferimento risale alla metà del 1200 con Tommaso d’Aquino che da una definizione di lex:
rationis, ordinatio, ad bonum commune. È un ordinamento della ragione finalizzato al bene comune.
In tutte le epoche il diritto è stato definito come un ordinamento razionale per il bene comune, anche
i più feroci dittatori hanno ritenuto che certe loro pratiche rispondessero all’interesse generale. La
cosa che ci deve far riflettere è la parola rationis, cioè bisogna capire quale idea di ragione e di
razionalità avessero gli uomini del medioevo. Il medioevo coltiva una concezione oggettiva della
razionalità-ragione. Questo vuol dire che la ragione è considerata dall’immaginario medievale come
quella facoltà che distingue gli uomini dagli animali e che consente agli uomini di decifrare un
determinato ordine. Dunque concezione oggettiva vuol dire che la ragione non è uno strumento che
serve a creare un mondo diverso, ma è uno strumento che serve a leggerlo, a decifrarlo. Quindi la lex
(il diritto) è l’atto attraverso il quale il principe decifra l’ordine giuridico esistente e ne certifica
l’esistenza.

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In questo solco si muove la stessa idea di costituzione nel medioevo. Noi moderni siamo abituati a
concepire la costituzione come il momento fondativo di un’epoca nuova, cioè la costituzione apre un
capitolo di storia nuovo. Il medioevo detesta le fratture, non ama le svolte repentine, quindi anche
l’idea di costituzione, che non è un’idea solo moderna ma è un’idea che circola nel medioevo,
risponde però all’idea che la costituzione sia l’ossatura fondamentale di una vita associata della
convivenza, ma questa ossatura profonda non nasce mai da una volontà costituente: anche la
costituzione registra un mondo che già c’è, non lo crea. La costituzione del medioevo per eccellenza
è la Magna Carta del 1215 e anche questo atto del costituzionalismo medievale si limita a certificare
e consolidare attraverso la scrittura una certa relazione esistente tra il Re (che in quel caso era
Giovanni senza terra) e i notabili del regno (gli altri poteri pubblici).

Se questi sono schematicamente i tratti dell’esperienza giuridica medievale, adesso cominciamo ad


avventurarci in direzione del MODERNO. Emerge qui una espressione coniata dalla storiografia che
è quella di liberazione. È la parola chiave che ci consente di avvicinare l’universo moderno. Questo
è il modo con cui il moderno vive sé stesso, cioè il moderno si vive come liberazione dal medioevo,
il moderno si vive come opposizione alla realtà medievale. Il moderno ambisce cioè ad incarnare un
importante momento di discontinuità/di frattura con i secoli del medioevo. La stessa locuzione
medioevo è coniata dai moderni, che vuol dire età di mezzo, un’età senza grandi connotati positivi e
non degna di essere ricordata, un’età buia incastonata tra due grandi zone di civiltà: la civiltà classica
e la civiltà moderna. Quindi il moderno vive sé stesso come una liberazione rispetto a quest’epoca
che lo precede che è il medioevo.

PRIMA LIBERAZIONE - LA LIBERAZIONE ANTROPOLOGICA


Per entrare in contatto con la galassia moderna bisogna capire che l’uomo concepisce sé stesso in
modo diverso, cioè liberazione antropologica vuol dire che cambia il modo con cui l’uomo concepisce
il proprio posto nel mondo. Sul terreno dell’antropologia, delle immagini che l’uomo coltiva di sé
stesso, che va collocata la novità rappresentata dal moderno, cioè l’uomo comincia a vivere sé stesso
in un proprio posto nel mondo in termini diversi rispetto a quanto facesse l’immaginario medievale.
Alla base dell’antropologia moderna c’è l’idea che l’uomo sia una creatura identificata soprattutto da
una facoltà, da una prerogativa, cioè dalla sua volontà. Dunque è la volontà ciò che vale a identificare
la posizione dell’uomo nel mondo. Dall’investimento sulla volontà, dal vedere nella volontà la
caratteristica tipica dell’uomo si arriverà a dire che si può anche volere un certo ordine anche

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giuridico, cioè serve a staccarsi da quell’idea che l’ordine sia un prodotto indiscutibile dell’evoluzione
storica e possa essere invece apprezzato anche come frutto della volontà umana.
Citazione Pico della Mirandola, un uomo intellettuale che vive nella seconda metà del 400’, subì
un’accusa di eresia dalla quale fu poi assolto e in una sua opera attribuisce a Dio queste parole: l’uomo
si distingue dalle altre creature perché all’uomo non è stato assegnato un posto determinato nel
cosmo, ma è lasciato libero di scegliere il posto da occupare nel mondo. Dunque puntare sulla volontà
significa puntare sull’autonomia dell’individuo, “l’io voglio” è segno della imposizione dell’uomo su
qualcosa.
Un altro segno di questo cambiamento nel modo di percepire l’uomo: prohibitum quia malum,
malum quia prohibitum. Questa inversione delle parole costituisce un passaggio frequente nel
discorso teologico trecentesco.
 Prohibitum quia malum vuol dire che una certa cosa è proibita perché è male. Questo significa
che si ritiene che il male sia una dimensione oggettiva, oggettivamente rilevabile, abbia una
sua oggettiva rilevanza. Il male dunque precede la proibizione: dato che una cosa è
oggettivamente male, quindi è proibita. Il male è un’identità propria che precede e giustifica la
proibizione.
 Malum quia prohibitum è una rivoluzione copernicana: una cosa non è male in sé, non è
oggettivamente male, ma è male perché proibita cioè perché c’è un atto soggettivo di
proibizione che rende quella cosa male. Dunque quella cosa è male in virtù di un atto di
proibizione e non in quanto tale. Questo giuridicamente porterà a dire che il diritto è quello
che vuole il principe e non quello che è oggettivamente giusto.

SECONDA LIBERAZIONE – LA LIBERAZIONE RELIGIOSA


Il medioevo ha un’antropologia di tipo comunitario, dunque la comunità ha un ruolo centrale nella
realtà medievale e che l’individuo stesso non è pensabile se non in quanto appartenente ad una
comunità. Questa è anche l’antropologia tipica della Chiesa Cattolica. C’è una frase tipica del diritto
canonico che è extra ecclesiam nulla salus: questo vuol dire che al di fuori della chiesa non vi è
speranza di salvezza. Per la chiesa cattolica la salvezza del fedele si consegue attraverso una
intermediazione necessaria della chiesa. C’è un sacramento emblematico di questa concezione della
chiesa cattolica sul rapporto tra individuo e divinità ed è un sacramento che nasce proprio nel
medioevo. Questo sacramento è la confessione che indica proprio la necessità della mediazione della
chiesa. La confessione consiste nell’andare da un esponente del clero, gli si raccontano tutta una serie
di cose di dubbia interpretazione, il rappresentante dell’esponente del clero indica al fedele cosa deve
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fare per rimettere a posto la coscienza. Questo vuol dire che il membro del clero si accredita come
tramite necessario tra l’uomo e Dio (la salvezza dell’animo).

La prima modernità conosce una rottura di questa impostazione rappresentata dalla riforma
protestante. Nel 1520 Lutero (primo protestante) brucia di fronte alla Cattedrale di Wittenberg due
testi che ritiene emblematici della corruzione, della degenerazione della chiesa cattolica. Il primo di
questi testi è il Corpus iuris canonici che è una raccolta di regole di diritto canonico (il diritto
canonico è il diritto proprio della chiesa cattolica, il diritto ecclesiastico è il diritto che regola i rapporti
tra stato e chiesa), in particolare di quelle regole che appartengono a quella branca del diritto canonico
che si chiama ius humanum. Lo ius humanum sono quelle regole di diritto canonico poste dagli
uomini, poste dalle gerarchie ecclesiastiche e si tratta di regole che possono essere modificate nel
tempo proprio perché hanno origine umane, cioè sono state create dagli uomini, e nella visione
canonistica queste regole sono considerati strumenti utili di salvezza dell’animo. Queste regole dello
ius humanum si distinguono da quell’altro novero di regole che il diritto canonico chiama ius
divinum. In sintesi il diritto canonico sostanzialmente si divide in due grande aree: lo ius humanum
e lo ius divinum. Lo ius divinum è quell’insieme di regole che sono dettate direttamente da Dio e che
proprio in ragione di questa loro origine divina non sono modificabili e sono strumenti necessari (non
utili) di salvezza.
Lutero dunque brucia il monumento canonistico dello ius humanum perché le ritiene espressione della
corruzione della chiesa cattolica, cioè le ritiene espressione di una chiesa cattolica che ha diluito la
propria vocazione spirituale e che si è mischiata troppo con gli affari temporali che ha voluto imitare
troppo gli ordinamenti laici, con ciò smarrendo la propria purezza pastorale.
Inoltre Lutero brucia un altro testo che si chiama Summa angelica: è un manuale per confessori, cioè
un libricino che spiega al clero come confessare i fedeli. La ragione per cui Lutero brucia questo testo
è quella per cui la confessione è il sacramento che più di altri stabilisce la necessità di una mediazione
tra l’individuo e Dio. Uno degli assunti fondamentali della riforma protestante fu proprio quello di
rivendicare la possibilità per il singolo di dialogare direttamente con la divinità. Il singolo può
rapportarsi direttamente a Dio, senza la necessità di una intermediazione.

Interpretazione che della riforma protestante ha dato un importantissimo intellettuale


novecentesco, Max Weber: Max Weber è un grande giurista, sociologo novecentesco che tra il 1904
e il 1905 pubblica una serie di saggi e articoli che poi riunisce in un libro il cui titolo tradotto in
italiano è “Etica protestante e spirito del capitalismo”. Weber pone in rilievo il problema della
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proprietà. La suggestiva tesi Weberiana: la chiesa cattolica è una struttura certo opprimente, faticosa
per il fedele, che ha molto spesso peccato di oscurantismo, però era anche una struttura protettiva
perché assumeva su di sé un fondamentale compito che era quello di guidare il fedele verso la
salvezza. È la chiesa che si assume il compito di interpretare comportamenti del fedele, di valutarli e
di indirizzarlo verso la salvezza. Dunque può essere una struttura opprimente, ma è anche una struttura
che indica al fedele cosa e come deve fare per salvarsi l’anima.
La riforma protestante, secondo Weber, lascia gli individui soli. L’individuo della riforma protestante
è un individuo che non ha più di fronte una chiesa che si incarica di interpretare i suoi comportamenti,
quindi è un individuo che resta solo, che appunto perde il legame con questa struttura che gli indica
la strada per recuperare rispetto ai peccati commessi. Weber allora individua due modalità attraverso
le quali l’individuo può dialogare con Dio:
1. Ascesi mistica: l’uomo dialoga con Dio attraverso la preghiera, la meditazione, il
raccoglimento. Questo però non è sufficiente, l’uomo attraverso queste sole attività non è
sicuro di essere in grazia di Dio, in questo caso subentra l’altra forma di ascesi.
2. Ascesi infra mondana: è l’ascesi nel mondo terreno, cioè il successo che ha l’individuo nel
mondo, la sua fortuna terrena. Quindi questo uomo lasciato solo interpreta come segno che
Dio è dalla sua parte il suo successo nel mondo, la sua ricchezza nel mondo. Quindi l’uomo
che accumula beni, che aumenta la sua ricchezza materiale è un uomo che ha su di sé lo sguardo
benevolo di Dio, è una sorta di segnale che si sta comportando conformemente ai precetti del
buon fedele.
Secondo Weber la riforma protestante è uno di quei fatti storici che ha consentito una
sovrapposizione tra il piano dell’essere e il piano dell’avere. Questo vuol dire che il piano
dell’avere (il quanto si accumula) tende a diventare anche un valore eticamente positivo, cioè tende a
diventare un indice del come è una persona (quanto più ho tanto meglio sono). Dunque secondo Weber
lo spirito del capitalismo, della competizione individuale, è avallato anche dalla riforma protestante.
La riforma protestante lascia gli individui soli e questi individui soli tendono a vedere nell’accumulo
di ricchezza anche un valore eticamente positivo. L’uomo ricco è un uomo in grazia di Dio, cioè un
uomo che si sta comportando bene; il povero è un soggetto sospetto. La diffidenza di questa povertà
viene spesso vissuta come un vizio, la povertà è di chi non ha voglia di lavorare, è degli oziosi, dei
folli, degli ubriaconi. Questa immagine della povertà come perversione della volontà regnerà più o
meno incontrastata fino alla fine dell’800 quando ci si accorgerà che i più poveri dei poveri non sono
gli oziosi, ma sono i lavoratori. Dunque non è vero che il povero è sempre un ozioso, il povero a volte
è anche chi lavora in un sistema che però non gli garantisce condizioni minime di esistenza.
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Secondo Weber questo germe della santificazione della ricchezza e criminalizzazione della povertà
si fa strada nel panorama europeo a partire dal 500’ e la riforma protestante è uno dei capitoli che
autorizza questa sovrapposizione tra essere e avere.

TERZA LIBERAZIONE - LA LIBERAZIONE POLITICA


Con le prime due liberazioni si vede come l’individuo si fa strada in quanto tale, si comincia a puntare
sull’individuo in quanto volontà, in quanto fedele, svincolato dall’appartenenza ad una comunità
religiosa ecc. Quando si parla di liberazione politica si fa riferimento ai primi segni che fanno
intravedere un potere politico con caratteristiche diverse rispetto a quello tipico del medioevo. Dunque
se si parla di liberazione politica ci si riferisce al progressivo mutare di aspetto del potere politico,
cioè di quello che diventerà stato.
Questo è un processo cronologicamente frastagliatissimo, cioè l’emersione di un potere politico che
ambisce a diventare stato è un processo che si svolge in tempi diversi nelle diverse aree europee.
Abbiamo la Francia in cui questo processo inizia a farsi strada fin dal 300, e abbiamo altre aree come
quella tedesca in cui bisognerà aspettare la metà del 700’. Quindi ci muoviamo su un territorio non
uniforme.
Questo processo di liberazione politica è un processo che mira a fare del potere politico un momento
decisivo per la vita pubblica, per l’organizzazione dei poteri pubblici nel territorio delle diverse
monarchie, e a rendere lo stesso monarca un soggetto sempre più decisivo nei processi di produzione
del diritto. Si vede che il principe tende a diventare qualcosa di più di un semplice decifratore
dell’ordine già dato e quindi tende a proiettare la propria ombra anche sui processi di produzione del
diritto.

La liberazione politica è un processo cronologicamente frastagliato nel senso che segue un ritmo
diverso nelle diverse aree europee ed è questo il processo che tende a rendere rilevanti le date dei
manuali di storia che segnano la cesura tra medievale e moderno, è un processo frastagliato che non
ha nella scoperta dell’America un cippo confinario rilevante. In Francia questo processo inizia sin
dagli inizi del 300’, in altre zone come nell’area tedesca, di liberazione politica si può parlare solo
dalla metà del 700’ con la Prussia di Federico II il Grande. Cosa si intende per librazione politica? Si
intende che sullo scenario storico inizia a fare capolinea un potere politico che ambisce a diventare
stato. Stato e potere politico non devono essere considerati sinonimi quindi un potere politico che
mira ad accreditarsi come un potere di qualità diversa rispetto agli altri poteri pubblici che vivono nel
territorio dello stato, un potere che vede anche nel diritto un importante strumento di governo. Questo
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potere politico si rende conto che puntare un occhio sul diritto e sui modi di produzione del diritto,
sulle fonti del diritto e su come vive il diritto in un determinato territorio, costituisce un cemento per
il proprio potere e un buono strumento per consolidare la posizione del potere.

Cosa succede in Francia: la data simbolica in questo caso è il 1302, anno nel quale il Papa Bonifacio
VIII promulga una bolla papale detta UNAM SANCTAM. Alcuni storici hanno definito questa bolla
come “Il Canto del Cigno” cioè come l’estremo atto della concezione medievale nel modo, era vista
come ultimo atto della visione del mondo. In questa bolla Bonifacio VIII parla della “tunica
inconsutile del cristo” cioè non lacerabile ma unitaria. Si serve di questa immagine di un mantello
non lacerabile per ribadire che il potere temporale deriva dal potere spirituale quindi che il potere dei
principi deriva dalla chiesa. Bonifacio VIII dice che c’è una tunica inconsutile non lacerabile che è
quella della chiesa da cui derivano tutti i poteri che esistano sulla terra cioè tutti i poteri temporali.
Questa è la tipica visione medievale dei rapporti tra potere sacro e temporale. Nello stesso anno, il Re
di Francia Filippo IV detto il Bello, convoca una assemblea dei maggiorenti del regno cioè delle
persone più importanti come prelati, baroni, rappresentanti delle diverse regioni e città di Francia.
Filippo IV convoca tutti i poteri pubblici ed in queste assemblee solenni chiede a questi personaggi
di riconoscere come il loro potere derivi dal monarca e non da Dio. Nei fatti non cambia nulla ma il
titolo di legittimazione di una situazione giuridica è importante, cioè nei fatti hanno gli stessi poteri
che avevano una settimana prima ma cambia il titolo che legittima quei poteri, cioè la fonte di quei
poteri che non derivano più da Dio ma dal Re. Cambia la fonte che li legittima nella veste di titolari
di quei poteri. Il titolo di una situazione giuridica è un momento rilevante di un’indagine giuridica.
Nel 1312 sempre Filippo IV si trova a riorganizzare gli studi giuridici a Orlèans, riorganizza il piano
degli studi e stabilisce che il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano debba considerarsi diritto applicabile
in Francia in quanto consuetudine vigente grazie all’approvazione del Re. Anche in questo caso nei
fatti non cambia nulla ed il Corpus Iuris Civilis si applica prima e anche dopo questo intervento ma
in questo caso anche cambia il titolo che legittima la vigenza di questo monumento giuridico del
diritto romano. I materiali giuridici possono dirsi vigenti solo se in quanto approvati dal monarca, qui
abbiamo il volto di un potere politico che accredita sé stesso nella veste di selettore obbligato di
materiali giuridici, ciò che viene applicato dal re è diritto vigente. Non si è ancora difronte che il
diritto è frutto della volontà del sovrano, non si è ancora ad una affermazione netta di volontarismo
giuridico ma si è compiuto un enorme passo avanti rispetto all’idea medievale perché comunque il
principe si accredita nella veste di finto obbligato. È il principe che filtra i materiali giuridici e decide
quali sono i materiali che vigono in un determinato ordinamento.
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Nel 1454 il re è Carlo VII che promulga una ordinanza detta di “Mountils les tours” che ordina la
redazione per iscritto delle consuetudini del Nord della Francia. Si parla di diritto scritto e
consuetudinario, nel sud della Francia c’era prevalenza del diritto romano quindi prevalenza del diritto
scritto ed il nord della Francia maggiore prevalenza del diritto germanico quindi più diritto
consuetudinario. Questa redazione per iscritto ci mette in contatto di nuovo con il volto di un potere
politico che comincia a guardare con interesse al mondo del diritto perché la redazione per iscritto è
voluta dal Principe mentre le raccolte di consuetudini venivano fatte da privati cioè da singoli giuristi
che per ragioni di organizzazione e ordine si prendevano la briga di raccogliere i materiali
consuetudinari mentre adesso è il monarca che ritiene di dover procedere in questa direzione cioè di
redigere per iscritto le consuetudini. Il processo di scrittura del diritto consuetudinario non è mai
neutrale e asettico perché implicano sempre una scelta su cosa e come si trascrive. Carlo VII invia
nelle province del nord dei funzionari regi, del potere politico centrale diremmo oggi, che vengono
inviati per raccogliere questo tessuto di diritto consuetudinario e metterlo per iscritto. In questa opera
di redazione si tende a privilegiare quelle consuetudini che hanno un raggio territoriale ampio che
vigono e sono vigenti in vaste parti della Francia del Nord e hanno un raggio di territorialità di vigenza
ampio e si tende a scartare dalla redazione per iscritto quelle consuetudini che hanno una proiezione
territoriale molto limitata. Il ceto alleato del monarca in questa opera di selezione sono i mercanti, il
ceto mercantile che poi diventa la borghesia secentesca. Il mercante è un soggetto mobile,
intraprendete che vende e compra e che tende a espandersi territorialmente ed espandere i propri
commerci oltre il luogo in cui iniziano. Il mercante per far sì che questi suoi spostamenti funzionino
ha bisogno di un diritto più possibile uniforme. Se in ogni provincia cambiano le regole sulla
compravendita, la sua attività diventa più faticosa quindi il mercante diventa un formidabile alleato
del monarca perché la sua vita giuridica è più agevole se il diritto su cui può contare è uniforme. I
funzionari regi sono in contatto con il ceto mercantile e la redazione per iscritto si avvale della loro
collaborazione. Vi è un’altra ordinanza detta Villeurs Coperèts, siamo sempre in Francia nel 1539,
emanata e promulgata dal re Francesco I. In questa ordinanza si dispone la redazione in lingua
francese cioè in volgare delle consuetudini. Anche qui si tenta di rompere quell’universalismo tipico
del medioevo che elevava il latino e ne vedeva la lingua giuridica ufficiale. Si comincia a rompere
l’idea che il latino sia l’unica lingua possibile per il diritto. Questo è un primo embrione di
nazionalizzazione del diritto che tende a legarsi ad una certa nazione.

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QUARTA LIBERAZIONE – LA LIBERAZIONE GIURIDICA
L’umanesimo giuridico è uno dei tasselli di questa rivoluzione culturale che si consuma in Europa
dalla metà del 400’ e la fine del 500’. Umanesimo significa riconoscere un valore forte all’uomo e
riconoscergli la capacità di immaginare un certo ordine. Ad esempio i progetti di città. Si comincia
ad immaginare anche l’universo giuridico come un universo nel quale il contributo progettuale e
creativo dell’uomo può essere rilevante.
Giovanni da Salisbury nella metà del 1100 redige il Policraticus, dove dice che il buon potere
politico è quello che tiene in equilibrio la convivenza mentre il tiranno è quello che sovverte questo
ordine già dato. San Tommaso siamo nel pieno 200’ e ci dà una definizione di lex che dice che il
principe è colui che deve leggere un certo ordine e il medioevo ha una idea oggettiva della ragione,
l’uomo è un essere razionale e questa facoltà che lo distingue dagli animali gli consente di decifrare
un ordine. Qui tra la seconda del 400’ e del 500’ si verifica un mutamento rilevante nel modo di
concepire il diritto e la stessa razionalità. Cioè la ragione dell’uomo inizia ad essere vista come
strumento necessario che non gli consente tanto di decifrare un ordine ma capace di creare
quell’ordine. Diventa strumento creativo e non decifrativo. Siamo difronte agli inizi di un processo
che comincia a concepire così l’uomo come strumento capace di inventare un ordine. Il diritto cos’è?
Comincia anch’esso ad essere visto come dimensione volontaristica cioè legata all’espressione di una
volontà normativa umana, una volontà che intende disciplinare in un certo modo determinate cose. Si
cominciano ad avvicinare questi due termini che sempre si erano respinti, diritto e volontà. Anche il
diritto inizia ad essere visto come espressione di una volontà normativa umana forte. Il diritto non è
più già scritto dall’ordine cosmico e frutto di una evoluzione lenta ma è anche frutto di una volontà
normativa.
Diritto e volontà cominciano ad essere due termini che iniziano ad apparire comunicanti tra loro.
Vediamo adesso due citazioni: la prima citazione è di Poggio Bracciolini che nel 1450 in un’opera
intitolata “Convilialis disceptatio” dice con chiarezza che leggi sono il frutto della volontà degli
uomini. Questa che sembrava una eresia, viene dichiarato che leggi sono frutto della volontà degli
uomini e possono anche essere “Ab Omni Ratione Alienae” cioè estranee ad ogni forma di
ragionevolezza. La volontà è una dimensione tipica della soggettività che si impone ma non è detto
che sia per sé stessa razionale o ragionevole. Non è necessario che la volontà si leghi ad una istanza
di razionalità e ragionevolezza. Un’altra citazione è di Montaigne, intellettuale francese del 500’, che
dice alle leggi si obbedisce perché sono leggi e non perché sono buone. La legge è tale ed è cogente
perché è frutto della volontà del sovrano e non perché è buona, il contenuto della legge può essere
non condivisibile però si obbedisce ad esse per la loro origine autoritaria della volontà del sovrano.
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C’è un ribaltamento integrale della visione medievale. All’interno dell’umanesimo giuridico gli
storici distinguono due filoni, l’anima storicistica e quella razionalistica.

Il filone storicistico
Secondo questo modo di vedere non esiste un diritto valido in eterno per tutti i tempi e luoghi. Anima
storicista perché il diritto è un frutto della storia e varia con il variare dei tempi e dei luoghi storici. Il
diritto è un prodotto satiricamente mutevole che varia inevitabilmente. Ogni epoca e periodo storico
dovrà avere un diritto confacente con le proprie esigenze regolative. Ogni epoca storica dovrà avere
un diritto adeguato alle proprie richieste. A partire da questo assunto, si identificano e prendono dorma
i due bersagli polemici della riflessione umanistica. A finire sotto la critica dei giuristi umanisti sono
i giuristi medievali, loro contestano in modo vivace il modo di lavorare i giuristi medievali e parlano
di “Asinina giurisprudentia” quindi di una scienza giuridica asina. Questi giuristi lavoravano sul
Corpus Iuris di Giustiniano, estraevano dei frammenti e spesso li manipolavano con l’idea di
commentarli e glossarli ma in realtà facevano dire al testo romano cose diverse da quelle che
originariamente erano comprese nel testo. Il giurista medievale ha originariamente bisogno di questo
appiglio perché nella mentalità medievale l’uomo non ha capacità creative ma è un lettore/interprete
quindi ha bisogno di appoggiare la propria costruzione a questo momento autorevole rappresentato
dal Corpus Iuris Civilis. Gli umanisti non capiscono questo tratto della mentalità medievale cioè non
capiscono perché il giurista medievale faceva queste acrobazie perché nella sua mentalità era
necessario avere un appiglio autorevole e parlano di asini perché i giuristi medievali non hanno
ricostruito il senso autentico del testo romano ma lo hanno mal interpretato. Durante l’umanesimo del
400’ nasce la filologia che è una tecnica di analisi del testo che mira a ricostruire la portata originaria.
Non è casuale che nasca in questo periodo questa tecnica di indagine dei testi scritti che mira a
riportarli al loro significato autentico. Il primo bersaglio della riflessione umanistica sono i glossatori
medievali, l’altro grande bersaglio è rappresentato dal Corpus Giustinianeo. Il Corpus Iuris Civilis
era stato assemblato da Giustiniano nel 500’ d.c. Il rimprovero che i giuristi umanisti muovono a
Giustiniano era che aveva riunito in questo testo frammenti di diritto romano appartenenti a diverse
epoche. Quindi anche Giustiniano ha violato la sostanza storica del diritto per gli umanisti, perché in
unico testo ha messo insieme frammenti e opinioni di giuristi romani appartenenti a diverse epoche
della romanità. Lorenzo Valla, altro giurista umanista, nel 1444 in una sua opera utilizza il metodo
filologico per valutare gli stessi giuristi romani classici, denuncia ad esempio false etimologie in
proprietà linguistiche, incertezze tecniche quindi studia giuristi romani con metodo filologico e porta
a galla alcune imprecisioni esistenti nei loro scritti. Questo ci fa capire che si è rotto un altro tratto
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tipico della visione medievale, passare al vaglio di giuristi romani vuol dire che non esistono più
auctoritates infallibili cioè dimensioni mitologiche e intoccabili, cioè non esiste più l’idea che il
passato e le glorie del passato come il diritto romano siano entità quasi sacrali. Poter denunciare il
potere dei classici vuol dire che l’uomo ha fiducia nella sua capacità di critica e lettura che può
denunciare anche errori, imprecisioni, sbagli. Questa idea che il diritto è il prodotto necessario del suo
tempo, produce un esito rilevantissimo che porta a valorizzare al massimo i nascenti diritti nazionali.
Se ogni epoca ha il suo diritto, dovranno essere valorizzati a sua volta i nascenti diritti nazionali in
quanto espressioni di quel tempo storico. Più che a questa idea di diritto a protezione universale, si
dovranno valorizzare i diritti nazionali quali prodotto specifico delle realtà storiche presenti.
L’anima razionalistica
Questa anima si lega all’idea di razionalità che comincia a comparire ora nel terreno storico e poi avrà
la sua massima espansione nel 600’-700’ cioè l’idea che la ragione sia una facoltà che permette
all’uomo non solo di decifrare un ordine ma che consente anche di creare il diritto e progettarlo. Lo
stesso diritto non è più visto come frutto di una evoluzione storica ma come prodotto di una volontà
umana del principe. Gli umanisti dicono “Ius In Artem Redigere” cioè confezionare il diritto in
maniera razionale, il diritto non è più il prodotto alluvionale dei secoli ma è progetto di un uomo
capace di costruire il proprio universo giuridico. Le epoche di transizione come l’umanesimo, siano
un impasto tra vecchio e nuovo dove elementi di novità convivono anche con elementi di
conservazione (mix tra innovazione e tradizione).

Un personaggio emblematico in questa commistione tra vecchio e nuovo è JEAN BODIN, giurista e
avvocato francese ricordato per aver scritto nel 1576 “I sei libri della Repubblica” ed è il giurista
che fa il balzo più grande in avanti e fa propri i fermenti di rinnovamento del panorama
cinquecentesco. Bodin vive in quel territorio dell’Europa che sperimenta precocemente la presenza
di un potere politico con aspirazioni nuove, non è un caso che viva in un contesto più sensibile a
queste istanze di rinnovamento.
Alcuni frammenti del testo di Bodin: “Chi è sovrano non deve essere in alcun modo soggetto al
comando altrui e deve poter dare la legge ai sudditi”. Per questo anche in latino la parola legge
significa il comando di chi ha il potere sovrano. “Le leggi del principe sovrano, possono pure essere
fondate su motivi validi e concreti, ciò non di meno, dipendono solo dalla sua pura e libera volontà.”
Il primo grande salto in avanti che Bodin fa è rappresentato dalla nozione di sovranità. Bodin è
riconosciuto dagli storici il primo giurista che inserisce nel lessico giuridico l’idea di potere sovrano,
la sovranità quindi è un termine nel lessico giuspolitico nella metà del 500’ grazie a Bodin. Per Bodin
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il potere sovrano è un potere qualitativamente diverso rispetto agli altri poteri pubblici che esistono
in un determinato contesto territoriale pubblico. Ciò che distingue la sovranità dagli altri poteri è
questo stacco qualitativo, il principe nella visione medievale è visto come l’ultimo anello dei poteri
ma questi hanno tutti la stessa qualità ma si organizzano solo in senso piramidale con un vertice.
Viceversa il sovrano è un soggetto diverso qualitativamente dai poteri che gli stanno sotto e questo
stacco qualitativo è data anche e soprattutto dal fatto che il sovrano crea il diritto.
Il diritto è frutto della volontà del sovrano (concezione volontaristica del diritto) e questo nella
seconda citazione del testo è scritto con una chiarezza netta, dice che ciò che interessa è che le leggi
sono frutto della volontà libera del sovrano, è la sua volontà che rende qualcosa legge e non è il fatto
che quella legge abbia contenuti giusti o validi. Quindi la legge può anche non essere buona o giusta
o può esserlo ma è irrilevante, ciò che invece gli dà rilevanza imperativa è che è espressione della
volontà del sovrano. Si dice legge uguale volontà e principe uguale sovrano.
Bodin è uomo del suo tempo, vive in un periodo di transizione quindi se tutto questo ci porta al cuore
della modernità vi sono degli aspetti della riflessione di Bodin che invece sono legati alle visioni
medievali precedenti. Bodin è il personaggio emblematico che vive a cavallo tra vecchio e nuovo, è
il giurista che dà la visione più possibile del nuovo quindi legge come frutto del potere sovrano ma
tuttavia ci sono alcuni tratti che lo legano all’immaginario medievale.
 Primo tratto: Bodin ritiene che le convivenze socio-politiche abbiano come cellula generativa
in una struttura comunitaria: la famiglia, che è una comunità minima che c’è ma è pur sempre
una comunità. All’origine della convivenza politica non c’è l’individuo in quanto tale ma una
micro-comunità che è la famiglia, è un insieme di famiglie a dar vita alla società e poi ai poteri
pubblici. Questo vuol dire che l’individuo come singolo è ancora considerato un’astrazione e
questo è un tratto tipico dell’idea medievale. L’individuo in quanto tale è una astrazione, sotto
la famiglia non si può andare. Questo lega Bodin alla visione medievale e non riesce ad
emanciparsi dall’epoca precedente in questo.
 Secondo tratto: Bodin distingue tra due piani, il piano del regime e il piano del governo. Il
piano del regime è il piano sul quale colloca questa novità assoluta rappresentata dalla
sovranità, si muove questo potere nuovo qualitativamente diverso dagli altri poteri pubblici.
Poi c’è il piano del governo tipicamente medievale in cui i poteri pubblici e il sovrano entra in
contatto con gli altri poteri pubblici. È il piano sul quale il sovrano tratta con gli altri poteri
pubblici e questa è la tipica raffigurazione del medioevo dove il sovrano tiene in equilibrio i
vari poteri. Bodin identifica questi due piani perché è figlio del suo tempo, da una parte dice
che la sovranità è propria del potere del principe, ma dall’altro se un principe vuole sovvertire
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quella rete di relazioni con gli altri poteri pubblici, il principe si condannerebbe al suicidio.
Esiste si questo potere nuovo della sovranità e del potere di fare le leggi ma è vero anche che
il sovrano sopravvive se non chiude quei processi di composizione e mediazione con gli altri
poteri. Lui identifica una teoria della sovranità sul piano del regime e una vita medievale del
potere sovrano. Questo potere vive se rimane all’interno e mantiene quelle relazioni tipiche
della realtà medievale.
 Terzo tratto: un altro elemento che ci fa capire che Bodin è ancorato ad una visione tradizionale
è dato dal fatto che Bodin ritiene che comunque il sovrano (questo potere che è nuovo perché
può creare il diritto per la prima volta) è tuttavia vincolato al rispetto delle leggi divine e
naturali. Quindi esiste una normatività superiore che al cui rispetto è tenuto lo stesso sovrano.

GIUSNATURALISMO MODERNO
Qui si entra trionfalmente nella modernità, cioè il giusnaturalismo è un frutto moderno che rappresenta
la prima chiara e forte consacrazione teorica di un modello individualistico di convivenza. Bisogna
vedere come si arriva a immaginare la convivenza come abitata da due soli soggetti: il micro
individuo (il singolo) e il macro individuo (lo stato). Con il giusnaturalismo moderno si ha la prima
consacrazione a livello teorico di questa idea della convivenza. Noi analizzeremo i tratti di questo
movimento culturale - filosofico e poi ci soffermiamo sulla visione di due autori.
Il giusnaturalismo è un movimento culturale e filosofico estremamente variegato al proprio interno.
Gli autori che sono riportabili a questa corrente di pensiero hanno idee diverse, spesso antitetiche, su
come dovrebbe essere il mondo. Dunque il giusnaturalismo è un contenitore che racchiude al proprio
interno riflessioni molto diverse. Tuttavia si possono identificare alcuni tratti distintivi di questa
variegata corrente di pensiero.
Il primo aspetto fa riferimento al fatto che il diritto naturale cui fa riferimento il giusnaturalismo
moderno è un diritto naturale compiutamente secolarizzato (secolarizzazione non vuol dire il passare
del tempo dei secoli, ma vuol dire progressiva laicizzazione dei riferimenti usati per definire cos’è
diritto naturale). Secolarizzazione del diritto naturale vuol dire che si ha una compiuta laicizzazione
dei concetti usati per dire che cos’è questo diritto naturale. I riferimenti al diritto naturale non sono
proprio tipici soltanto di questo periodo storico, che coincide con il 1600/1700, di diritto naturale si
parla da sempre: dai filosofi greci in poi i riferimenti al diritto naturale sono costanti. Quando si parla
di diritto naturale lo si fa per identificare un insieme di regole, di verità, di precetti tendenzialmente
insuscettibili di modificazione, dunque un insieme di regole che non possono essere modificate e
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contestate. Molte volte nel dibattito pubblico politico odierno si invoca l’idea di natura, di ciò che è
secondo natura o contro natura, per identificare ad esempio i limiti regolativi del legislatore. Dunque
l’idea di gius natura rimanda sempre all’idea che ci sia un nucleo di regole insuscettibili di
modificazione. Ciò che contraddistingue il giusnaturalismo moderno sei/settecentesco rispetto a
quello medievale, quindi all’idea di diritto naturale che avevano i medievali, è proprio questa
compiuta secolarizzazione. Per l’uomo medievale infatti il diritto naturale è quello che Dio ha
inscritto nel cuore degli uomini in maniera coerente con la visione teocentrica del medioevo. Quindi
è una matrice divina, una matrice teologica molto forte. Viceversa il giusnaturalismo moderno
recide ogni legame con questa idea divina del diritto naturale. Normalmente il primo pensatore
del giusnaturalismo moderno viene considerato Ugo Grozio, olandese che nel 1625 (il 1625 è
considerato il momento di inizio di questa nuova stagione teorica) dà alle stampe una delle sue opere
più famose intitolata “De iure belli ac pacis” (del diritto di guerra e del diritto di pace). È di Ugo
Grozio la celeberrima espressione che segna questo processo irreversibile di secolarizzazione: “etsi
deus num daretur” (anche se dio non ci fosse). Dunque Ugo Grozio dice che i precetti del diritto di
natura che lui espone in questa sua opera sarebbero veri anche se Dio non ci fosse. Questo per dire
che questi precetti possono essere ricavati a prescindere dall’esistenza di Dio. Questi postulati sono
veri anche se Dio non ci fosse perché derivano, secondo gli autori che appartengono a questa corrente,
dall’osservazione della natura dell’uomo. Questi postulati di diritto naturale si ricavano
dall’osservazione della natura dell’uomo, quindi bisogna guardare a qual è la natura dell’uomo per
ricavare questi precetti: Dio resta fuori dal discorso. Questo tipo di emancipazione dai riferimenti alla
divinità, rappresenta un ulteriore allontanamento dalle auctoritas medievali. L’uomo medievale non
muove un passo senza riferirsi a una auctoritas superiore. L’uomo dell’umanesimo comincia a mettere
in discussione il peso di queste auctoritates. L’uomo del giusnaturalismo pensa di poterne fare a meno
e quindi quello che dice è vero anche se il supremo essere non ci fosse.

Roberto Bobbio è stato uno dei più grandi filosofi italiani del 900 scomparso pochi anni fa ed ha
esemplificato con una formula efficace la rivoluzione culturale insita in questo movimento
giusnaturalistico. Quindi Roberto Bobbio ha compendiato con una formula efficace il senso della
rivoluzione culturale portata avanti da questi autori. In particolare ha detto che con giusnaturalismo
si passa da un sapere fondato sulla quaestio a un sapere fondato sulla demonstratio: quindi da un
sapere di tipo interpretativo a un sapere di tipo dimostrativo. Il sapere fondato sulla quaestio è il
tipico sapere dell’uomo medievale: l’uomo medievale è nella posizione di chi interroga il mondo, di
chi mira a decifrare un ordine che c’è già, è nella posizione di chi osserva, decifra, interroga il cosmo
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per ricavarne le regole di funzionamento. È quello che abbiamo chiamato concezione oggettiva della
razionalità, la ragione serve a decifrare la realtà circostante. La demonstratio rappresenta l’opposto,
cioè il sapere dimostrativo è un sapere che mira a dichiarare certe regole, certe verità, come
indiscutibili. Queste regole indiscutibili sono ricavate direttamente dalla natura dell’uomo. È a partire
da come è l’uomo che si possono immaginare tante cose, non c’è più un cosmo da decifrare.
Con l’umanesimo nasce la filologia, e anche la filologia è un processo di emancipazione dalle
auctoritates. La filologia serve anche a dire che a volte i classici hanno sbagliato un’etimologia, un
significato tecnico. Però la filologia richiede comunque un testo da interpretare. Qui invece si pesca
direttamente nella natura dell’uomo e da questa intuizione iniziale si identificano le condizioni di tutta
la convivenza gius politica.
Questo tipo di riflessione, che è estremamente variegata al proprio interno, si appoggia tuttavia a due
concetti condivisi: lo stato di natura e il contratto sociale. Sia lo stato di natura che il contratto sociale
non sono due luoghi esistiti o due realtà, ma sono due risorse teoriche. Lo STATO DI NATURA è il
luogo teorico che consente un’operazione intellettualmente decisiva, cioè che consente di immaginare
l’uomo al di fuori di ogni relazione socio-politica. Dunque serve ad immaginare quello che per molti
secoli è sembrato impossibile, cioè serve ad immaginare l’individuo uti singulus, l’uomo astratto
colto fuori da ogni legame sociale e politico. Questo serve a dire qual è la natura dell’uomo
singolarmente considerato. Quindi il riferimento allo stato di natura serve a dire che all’origine c’è
l’individuo, che la cellula iniziale del mondo e di ogni convivenza è data dall’individuo. Quindi c’è
una verità iniziale e indiscutibile che è data dall’individuo in quanto tale. La società e lo stato sono
evenienze successive. Questi individui, colti al di fuori da ogni legame socio politici, per natura
hanno dei diritti. Questa è una rivoluzione copernicana perché la posizione giuridica dell’individuo
non si definisce più in base ad una appartenenza ad un ceto, ad una comunità, ad una nazione, ad una
corporazione o città, ma l’individuo si presenta come munito di diritti per nascita. Si parla
tecnicamente del principio della pre-statualità dei diritti: questo significa che esistono dei diritti
pre statuali, cioè che spettano all’individuo prima e a prescindere dalla presenza dello stato.
L’art. 2 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 24 agosto 1789 afferma che il fine
di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Quindi
questo lessico giusnaturalistico entra in un documento ufficiale. Non solo, ma lo stato di natura serve
a dire anche un’altra cosa: che questi uomini, identificati come singoli fuori da ogni vincoli socio-
politico, non solo hanno dei diritti ma sono anche uguali. Quindi la gerarchia che era stato un
criterio naturale di distribuzione degli uomini per secoli, qui c’è un principio di uguaglianza originaria
degli uomini.
22
Il CONTRATTO SOCIALE è l’atto mediante il quale gli individui decidono di uscire dallo stato di
natura per creare lo stato. Dunque è l’atto con il quale gli individui creano il potere politico, il sovrano,
uscendo così dallo stato di natura. Il riferimento al contratto sociale serve:
 A dire che l’origine del potere politico è volontaria: cioè il sovrano non è il frutto della storia,
del trascorrere del tempo, ma è frutto di una creazione volontaria degli uomini.
 Serve a identificare le caratteristiche che quel potere deve avere per essere legittimo.
 Il contratto sociale serve anche a dire che la creazione dello stato non solo è uno sbocco
necessario dello stato di natura, ma è l’unico sbocco razionale dello stato di natura. Cioè la
creazione dello stato è una scelta obbligata degli individui, perché è l’unica scelta
autenticamente razionale e sensata.
Lo stato dunque è una creazione volontaria degli individui, ma è anche l’unico sbocco possibile per
lo stato di natura. Allora non c’era bisogno di scomodare tutte queste risorse teoriche per dire che lo
stato non ci può che essere: il modello individualistico, individuo e stato, sono due poli necessari di
uno stesso processo. Individuo e stato si cercano, cioè sono due grandezze complementari che si
definiscono a vicenda. Il modello individualistico è pensabile solo come modello che costruisce
insieme una certa idea di individuo e una certa idea di stato. Dunque questo dispendio di energie
teoriche è necessario proprio per costruire insieme questa nuova idea di convivenza.

THOMAS HOBBES
Thomas Hobbes è un’inglese, nasce nel 1588 e muore nel 1679, il 1651 è un anno cruciale nella sua
vicenda intellettuale perché esce la prima edizione della sua opera principale “Il leviatano”. Il
leviatano è un mostro marino che per Hobbes incarna il sovrano. Hobbes vive in un momento
estremamente travagliato della vita inglese, perché sono anni nei quali una feroce guerra dinastica si
intreccia alle guerre di religione, e quindi la sua visione pessimistica della natura dell’uomo è
influenzata anche dal contesto in cui viveva.
Idea che Hobbes ha dello stato di natura e del contratto sociale: lo stato di natura e il contratto sociale
sono i gradini argomentativi comuni di tutte le riflessioni giusnaturalistiche. L’idea hobbesiana parla
dello stato di natura come uno stato di guerra perenne. Frasi di Hobbes che circolano anche nel
linguaggio comune sono: “homo homini lupus” (l’uomo è lupo verso l’altro uomo) e “bellum omnium
contra omnes” (guerra di tutti contro tutti). Sono frasi che vengono spesso utilizzate come emblema
della riflessione hobbesiana. Motivo di questa concezione pessimistica dello stato di natura, cioè
questa idea che gli uomini lasciati a sé stessi fuori dalla presenza di un potere politico non siano in
grado di vivere pacificamente: per Hobbes la prima e fondamentale legge di natura è rappresentata
23
dalla legge di autoconservazione, quindi l’uomo per natura i suoi comportamenti sono determinati
da questa legge di autoconservazione, cioè l’uomo mira a conservare la propria vita. Questo è un
impulso primordiale insopprimibile che sostiene i comportamenti dell’uomo. L’uomo di natura nella
concezione di Hobbes non è capace di percepire il limite, cioè l’uomo di Hobbes è un uomo
costitutivamente incapace di avere l’idea del limite. Questo istinto di autoconservazione dà vita a
quello che Hobbes chiama un flusso continuo di desiderio, cioè l’uomo è mosso da bisogni che
alimentano desideri e che quindi lo spingono a fare il possibile per soddisfare quei desideri. Quindi si
avverte un bisogno, si prova un desiderio, si fa di tutto per soddisfare quel desiderio. Questo moto
continuo appunto non conosce limite, cioè l’uomo prova sempre nuovi bisogni, sempre nuovi desideri
e usa tutti i mezzi per soddisfarli. In particolare non avverte neppure la vita dell’altro uomo come
limite alla propria azione. Quindi si arriva a una situazione per cui l’istinto di autoconservazione
finisce per negare sé stesso, finisce per convertirsi nel suo opposto perché l’uomo è spinto dal
desiderio di soddisfare sé stesso, ma per la soddisfazione di questo bisogno crea una situazione per
cui la propria vita è continuamente a repentaglio ed è in ogni momento aggressore e aggredito
potenziale. Questo istinto di autoconservazione non frenato, incapace di limitarsi, produce una
situazione di guerra di tutti contro tutti.
Questo postulato originario tipico di tutte le riflessioni giusnaturalistiche, cioè il postulato
dell’uguaglianza originaria degli uomini nella riflessione hobbesiana serve a dire che gli uomini sono
uguali perché ugualmente distruttivi. Questa uguaglianza originaria quindi si connota negativamente
perché appunto gli uomini di Hobbes sono tutti uguali perché tutti ugualmente distruttivi, cioè tutti
propensi ad aggredire e tutti vittime di aggressioni.
In questa situazione di guerra di tutti contro tutti il contratto sociale, cioè la creazione del sovrano, è
l’unica soluzione praticabile per rendere concreta l’autoconservazione. Dunque il sovrano serve per
aver garantita la vita, cioè gli uomini senza la presenza del sovrano non hanno al sicuro neanche la
propria vita. Quindi quella legge di autoconservazione che è una legge di natura incontestabile, può
manifestarsi solo se si crea lo stato. Lo stato ha dunque un ruolo decisivo nella visione hobbesiana
perché è la presenza di un potere sovrano che rende possibile un ordine, fuori dal sovrano non c’è
possibilità di ordine. Un sovrano che nasce per queste necessità ha un potere fortissimo: gli individui
dello stato di natura, attraverso il contratto sociale, affidano al sovrano tutti i loro diritti tranne
uno: il diritto ad aver salva la propria vita.
Quindi questo leviatano (il sovrano) ha un potere assoluto: dice Hobbes che il potere del sovrano è
tanto grande quanto gli uomini possono immaginare di farlo. Sempre Hobbes definisce il leviatano
quel Dio mortale al quale dobbiamo la nostra pace. C’è una completa laicizzazione del riferimento al
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potere, cioè il potere ha un’origine umana. Hobbes dice che il leviatano può essere rappresentato da
un uomo o da un’assemblea di uomini, l’importante però è che l’ordinamento non si ispiri al principio
della separazione di poteri perché per Hobbes tutte le volte in cui si ha un’ipotesi di pluralità al potere,
questo rischia di riportare ad una situazione di conflitto.
Questo modo di concepire la relazione tra gli individui e lo stato produce degli effetti rilevanti:
innanzitutto sul fronte della teoria della rappresentanza e quindi il rapporto che si immagina tra potere
politico e società. Nella concezione hobbesiana l’ordine (la convivenza ordinata) comincia con il
sovrano, in questa concezione è dunque il leviatano che crea la società, cioè è la presenza del sovrano
che rende immaginabile la società come insieme ordinato. Dunque solo se si crea il sovrano si può
parlare della società come di un luogo di convivenza ordinata. Questo costituisce un ribaltamento
integrale della concezione medievale, dove invece si riteneva che la società (corpus sociale)
preesistesse al potere politico, cioè ci sono delle comunità che hanno una sostanza autonoma che è
espressa dal potere politico, il potere politico non crea la società, ma la società gli preesiste ha una
sua autonomia anche rispetto al potere politico. Questo è sintomatico perché per esempio in micro
comunità spesso il rappresentante era tirato a sorte: prima esiste la comunità e uno qualunque la può
rappresentare; cioè il rappresentante non è quello che rende pensabile una società. Qui si ribalta
completamente la logica e la comunità esiste grazie al sovrano, è il potere che rende pensabile la
società.
Un’altra conseguenza: in questa concezione per l’autonomia e i diritti dell’individuo c’è uno spazio
esiguo, ridottissimo. “La libertà del suddito risiede nelle cose che il sovrano ha omesso di regolare”.
Quindi non esiste uno spazio di diritti e libertà individuali che il potere sovrano non possa toccare. La
libertà degli individui comincia laddove il sovrano decide di non entrare. Se il sovrano decide di
astenersi in relazione a certi diritti e libertà, quelli esistono, ma non sono una prerogativa intangibile
degli individui. Hobbes dice che di solito la società funziona meglio quanto il sovrano non si
immischia in fatti e scelte private. Tuttavia di solito funziona così, ma nulla vieta al sovrano di
intervenire anche su questi fronti. Nella visione hobbesiana anche il diritto di proprietà non è un
diritto naturale degli individui, cioè non è un diritto che gli individui portano con sé dopo il contratto
sociale e che lo stato è tenuto a rispettare. Anche la proprietà è un istituto di diritto positivo, cioè
la proprietà è un istituto che esiste perché la prevede una legge del sovrano, cioè si origina in una
legge, in una scelta del sovrano, ma non è istituto di diritto naturale. Anche qui Hobbes afferma che
conviene che il sovrano riconosca la proprietà privata perché di solito i privati sono i miglior
amministratori dei beni, ma non c’è alcuna clausola di intangibilità verso questo diritto.

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Hobbes è considerato il primo teorico del positivismo giuridico perché dal suo punto di vista il
diritto, in quanto fattore di ordine, comincia ed è pensabile solo attraverso il sovrano. Questo vuol
dire che tutto il diritto è diritto positivo, che tutto il diritto è posto dalla volontà del sovrano.

JOHN LOCKE
L’altro pensatore giusnaturalistico è John Locke. È un intellettuale inglese che vive tra il 1632 e il
1704, dunque vive poco dopo Hobbes. Mentre Hobbes vive in un momento molto travagliato della
storia inglese e questa difficoltà della storia che lo circondava condiziona anche la sua visione
dell’uomo pessimistica. Locke vive in una stagione incredibilmente più distesa, più ottimistica.
Il 1688 è la data della glorious revolution, rivoluzione gloriosa perché è senza spargimento di sangue.
L’Inghilterra è il grande mito costituzionale del liberalismo anche italiano perché è riuscita a
realizzare importanti rivoluzioni costituzionali senza cesure violente. Il 1688 è l’anno nel quale
Guglielmo III d’Orange sale al trono ed è l’anno nel quale si inaugura la monarchia costituzionale,
cioè si prevede un ruolo costituzionale forte non meramente decorativo del parlamento. Il parlamento
dunque diventa un organo costituzionale decisivo nell’equilibrio inglese e non più una presenza
esornativa.
Il 1689 è l’anno nel quale viene emanato il Bill of rights (Carta dei diritti) che è un documento che
consacra e formalizza i principi della monarchia costituzionale. Quindi si ha una ufficializzazione
attraverso questo documento dei principi della monarchia costituzionale, cioè della tutela delle
prerogative parlamentari.
Il 1690 è l’anno nel quale escono i due trattati sul governo di John Locke, escono inizialmente
anonimi.
Dunque Locke vive in un contesto che coltiva una visione ottimistica della storia, cioè un contesto
che sembra testimoniare la capacità della storia di evolvere positivamente ed è questo anche un
momento di grande sviluppo economico per l’Inghilterra: è il momento della prima grossa
affermazione delle manifatture, quindi un periodo di espansione economica che vale a confermare
l’idea di un progresso che sembrava non avesse mai fine. Questi due lati della crescita politica
(istituzionalizzazione di un ruolo forte del parlamento) e della crescita economica costituiscono un
po’ gli architravi della visione lockiana. Così come Hobbes è considerato il primo teorico dello stato
assoluto e del positivismo giuridico, Locke è usualmente considerato il primo teorico del governo
moderato e dell’individualismo economico. Weber ci dice che il momento dell’avere, il momento

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proprietario, è il cardine della modernità e della contemporaneità. È la proprietà che definisce anche
il valore spirituale dell’individuo.
Con Locke siamo di fronte alla prima compiuta manifestazione teorica di questo individualismo
proprietario. Il diritto di proprietà individuale è per Locke il perno intorno al quale ruota e deve
ruotare l’intero ordine sociale, politico ed economico. Questo significa che l’ordine giuridico è
pensabile perché esiste il diritto di proprietà. Qui si ha il primo tassello teorico di una storia secolare
che tende ad attribuire alla proprietà privata una valenza ultra patrimoniale. Cioè il diritto di
proprietà non è un diritto solo patrimoniale, solo un diritto che riguarda dei beni, ma è un diritto
intorno al quale ruota l’intero ordine giuspolitico.
Lo stato di natura: in Hobbes l’uguaglianza originaria tra gli uomini significa che gli uomini sono
ugualmente distruttivi, cioè gli uomini lasciati a sé stessi diventano degli animali aggressivi incapaci
di convivere pacificamente. La libertà e l’uguaglianza originaria nel pensiero di Locke significano
invece che gli uomini sono ugualmente liberi di appropriarsi delle cose del mondo esterno
(appropriarsi dei beni) per la soddisfazione dei loro bisogni. Questo istinto dell’uomo ad
appropriarsi delle cose esterne è ugualmente legato alla legge dell’autoconservazione.
Vediamo come Locke attribuisce alla proprietà privata il compito di strutturare l’intera
convivenza: Locke organizza la sua ricostruzione in alcune tappe argomentative:
1. Primo gradino argomentativo: secondo Locke esiste una proprietà prima e originaria che
appartiene all’interiorità di ogni individuo. Questa proprietà originaria è quella che Locke
chiama la proprietà dell’Io sul me. Dice Locke che la proprietà della mia mano è il rimedio
che la natura ha escogitato per evitare che io possa nuocermi. Questo serve a Locke a dire che
l’individuo, che anche la struttura più intima e profonda dell’individuo, è governata da
meccanismi di tipo proprietario. Cioè io mi auto conservo perché sono governato da
meccanismi proprietari, perché sono proprietario dalla mia mano e per questo la mia mano
non mi nuoce.
2. Secondo gradino argomentativo: questa proprietà originaria che l’uomo ha dentro di sé
manifesta però una irresistibile vocazione a estrinsecarsi, cioè ad appropriarsi delle cose del
mondo esterno. Questa attività di appropriazione delle cose del mondo esterno avviene
secondo Locke attraverso le energie lavorative (il lavoro). Nel momento in cui l’uomo
applica la propria energia lavorativa a una cosa del mondo esterno quella cosa diventa
automaticamente sua. Questo perché il lavoro è proprietà incontestabile del lavoratore.
Anche questo è legato all’istinto di autoconservazione: se l’uomo non si procura beni esterni

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non sopravvive. Locke afferma che questa appropriazione non richiede il consenso di altri
individui. Citazione di Locke:
 “L’uomo che coglie il frutto e coltiva il campo, che caccia il cervo, ha commesso un
furto?” “Se fosse stato necessario un consenso del genere, l’uomo sarebbe morto di
fame”.
Quindi l’appropriazione individuale dei beni è legata indissolubilmente all’istinto di
autoconservazione e si realizza a prescindere del consenso degli altri. Nella visione Lockiana
la proprietà è il primo e il principale dei diritti naturali dell’individuo. La proprietà è il
diritto per eccellenza che spetta agli individui per natura perché è legato all’autoconservazione.
3. Terzo gradino argomentativo: L’uomo di Locke a differenza dell’uomo di Hobbes è in
grado di concepire l’idea del limite e il primo e il più importante limite che avverte è proprio
rappresentato dal rispetto della proprietà altrui, cioè i beni in proprietà dell’altro è avvertita
come una sfera non violabile. La società immaginata da Locke non è una società di uguali o
quasi uguali, ma è una società che ammette e legittima importanti diseguaglianze
nell’accumulo delle ricchezze, cioè ammette il fatto che ci sono persone che si appropriano
di molti più beni di quelli strettamente necessari per l’autoconservazione e persone che invece
hanno lo stretto necessario per vivere (legge ferrea dei salari). Locke legittima queste
diseguaglianze nella distribuzione della proprietà attraverso due passaggi argomentativi
ulteriori e rilevantissimi:
 L’invenzione della moneta: l’uomo inventa la moneta perché è uno strumento che gli
consente di scambiare valori economici e di garantire a tutti l’autoconservazione. La
moneta consente di accumulare ricchezza, c’è chi può con la moneta acquistare molti
beni perché è un soggetto particolarmente intraprendete e che lavora molto, quindi di
acquistare più beni di quanto gli servono o gli servirebbero per sopravvivere. Quindi la
moneta, oltre a consentire l’accumulo di ricchezze, consente anche un’altra operazione
fondamentale, cioè consente di pagare il salario. Quindi abbiamo degli uomini che sono
proprietari di molti beni e degli uomini che sono proprietari del solo lavoro e che quindi
avranno soltanto il salario (soltanto il prezzo del loro lavoro). Tutti sopravvivono,
l’istinto di autoconservazione è garantito a tutti, c’è chi sopravvive a condizioni egregie
e chi sopravvive a condizioni minime. Locke dice che i salariati vivono per lavorare e
non per cambiare il mondo e devono avere nulla di più di quanto stretto necessario per
vivere.

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 L’istinto di conservazione della specie: Locke dice che gli uomini lavorano e tendono
ad accumulare proprietà non solo pensando alla propria vita e quindi alla propria
autoconservazione, ma anche pensando alla propria specie (dunque pensando ai propri
successori). Questa proiezione oltre la propria vita legittima per Locke l’istituto della
successione ereditaria. L’eredità è la tipica proprietà acquistata a prescindere dal
lavoro. Questa è una grossa forzatura perché Locke aveva detto che il fondamento della
proprietà privata è il lavoro. Poi avendo bisogno di giustificare una certa idea di società
introduce questa forzatura dell’istinto di conservazione della specie che ammette
l’acquisto della proprietà svincolato dal lavoro. L’erede non ha lavorato per acquisire
le proprietà che gli arrivano.
La situazione complessiva dello stato di natura è una situazione di relativa tranquillità, esiste
infatti per Locke un ordine di natura fondato sull’appropriazione individuale dei beni. Gli uomini
rispettano la proprietà altrui e quei soggetti che invece stanno fuori dal cerchio della proprietà hanno
comunque la possibilità di lavorare e di ricevere un salario.
Perché allora bisogna creare lo stato e dunque uscire dallo stato di natura? è la parola “relativa” la
parola chiave per avere la risposta a questa domanda, nel senso che l’ordine di natura è un ordine, ma
non è un ordine sufficientemente stabile e sicuro. In particolare manca nello stato di natura un
potere che reprima le eventuali violazioni dell’ordine. Dunque se c’è un individuo che per
qualunque ragione non avverte il limite e viola l’ordine proprietario manca nello stato di natura un
potere da tutti riconosciuto come un potere capace di sanzionare quel comportamento deviante.
Dunque si crea lo stato per avere un potere legittimato a reprimere le eventuali violazioni dell’ordine.
Qui la situazione rispetto al pensiero hobbesiano è ribaltato perché lo stato di natura produce ordine,
gli individui colti fuori da ogni legame socio politico sono in grado di convivere ordinatamente perché
c’è l’istituto della proprietà in grado di definire e strutturare quest’ordine. Quindi il potere politico
che creano gli individui non è il potere del sovrano hobbesiano: gli individui hobbesiani creano il
sovrano e gli danno tutti i loro diritti per sopravvivere, perché fuori dallo stato non c’è possibilità di
sopravvivenza. Gli individui di Locke invece creano il sovrano per finalità molto distanti, il sovrano
nasce con un vincolo di mandato molto forte, nel senso che il sovrano non può decidere liberamente
come strutturare la convivenza, il sovrano è creato ed è legittimo se ed in quanto rafforza e
consolida l’ordine di natura. Vincolo di mandato significa che il sovrano è vincolato a questo, il
sovrano è legittimo se e finché spende il suo potere in direzione consolidativa di un ordine che gli
preesiste. Così come lo stato di natura ruotava intorno alla centralità del diritto di proprietà, in modo

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analogo anche lo il sovrano trova la sua ragion d’essere nel garantire più adeguatamente il diritto di
proprietà.
Qualche citazione tratte dal Secondo trattato sul governo:
 “Il grande e principale fine per cui dunque gli uomini si assoggettano a un governo è la
salvaguardia delle loro proprietà.”
 “La conservazione della proprietà è lo scopo di ogni associazione politica (di ogni stato).”
 “Nessuna società politica può esistere o sussistere senza avere in sé il potere di salvaguardare
la proprietà.”
È stato detto da tanti commentatori illustri che lo stato di Locke ha una veste essenzialmente
giurisdizionale, non perché il potere politico immaginato da Locke sia un giudice, ma per indicare
come lo stato serva a preservare un ordine reprimendo le violazioni. Dunque lo stato non nasce per
creare un ordine, ma per preservarlo e difenderlo da eventuali violazioni. Mentre il potere di Hobbes
è un potere assoluto, il potere di Locke è un potere moderato, temperato, proprio perché si tratta di
un potere che nasce con un vincolo di mandato molto forte: deve difendere i diritti naturali
dell’individuo. Inoltre è uno stato che deve fondarsi sul principio della separazione dei poteri.
Dice espressamente Locke che l’organo che fa le leggi non può sovrapporsi a quello che le applica (il
giudice) né a quello che dà loro esecuzione (il potere esecutivo).
Questo tipo di impostazione ammette la rivolta contro il sovrano se viene meno il suo vincolo di
mandato: cioè se il sovrano si pone fuori dal solco che ne legittima la creazione, non solo è legittimo,
ma è doveroso resistere/ribellarsi al sovrano. Locke chiama questa facoltà diritto di resistenza.
Tuttavia questo diritto di resistenza non è un diritto a contenuto libero, cioè la resistenza al sovrano
non è un generico ribellarsi, ma è legittima nella misura in cui mira a ripristinare le coordinate
dell’ordine violato.

ILLUMINISMO
L’illuminismo è un movimento intellettuale e culturale che percorre l’Europa all’incirca dagli anni 20
del 700’ fino alla fine del 700’. Si tratta di un movimento estremamente variegato al proprio interno,
con pensatori anche con inclinazioni e visioni sensibilmente distanti. Anche in questo caso facciamo
una specie di distillato per trovare dei tratti comuni che ci interessano per proseguire il nostro
itinerario. Nell’illuminismo i lumi sono quelli della ragione, quindi anche l’illuminismo giuridico
ritiene che la ragione, questa facoltà tipica dell’uomo, debba illuminare anche il mondo del diritto e

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indicare come questo possa incamminarsi trionfalmente verso un futuro migliore. C’è una parola che
circola nel lessico illuministico che è incivilimento, cioè come si inciviliscono gli ordinamenti e le
nazioni. Esiste una parentela strettissima tra illuminismo e giusnaturalismo, tanto che a volte non
è facile distinguere fra questi due filoni di pensiero perché usano gli stessi riferimenti concettuali,
spesso lo stesso lessico: l’illuminismo è il varco attraverso il quale poi il giusnaturalismo diventa
anche strumento concreto di lotta politica. Che siano filoni intrecciati è dimostrato dal fatto che per
esempio alcuni autori vengono indistintamente trattati come pensatori chiave sia de pensiero
giusnaturalistico che della riflessione illuministica.
Qualche illustre storico ha detto però che forse una differenza fra questi due movimenti intellettuali
può essere trovata, e la differenza è data che il pensiero illuministico usa massicciamente la parola
riforma. Questo perché gli illuministi tentano di utilizzare lo strumentario teorico giusnaturalistico
per vagliare lo stato degli ordinamenti storici concreti, cioè sostanzialmente utilizzano tutto questo
lessico giusnaturalistico per misurare la distanza che intercorre tra lo stato effettivo degli ordinamenti
e una loro configurazione ideale che è quella presentata dai giusnaturalisti. L’idea di riforma è questo
anello di congiunzione tra la teoria e la prassi perché quando anche oggi si pensa ad una riforma si
pensa di avvicinare gli ordinamenti ad uno schema ideale migliore. Dunque la riforma è immaginare
di incidere sulla realtà concreta sperando di realizzare qualcosa di migliore ispirandosi a un ideale.

Caratteristiche tipiche e comuni della riflessione illuministica


 Centralità del diritto: ha detto Adriano Cavanna, storico del diritto, che nell’illuminismo le
classi colte e istruite nel loro complesso guardano con grande attenzione al diritto. Questo
significa che i discorsi relativi al diritto non sono discorsi solo per specialisti o giuristi, ma più
in generale interessano l’opinione pubblica istruita perché si ritiene che il diritto sia lo
strumento principale per riformare in meglio la vita delle nazioni. Insomma si ritiene che se si
lavora meglio nel mondo del diritto complessivamente il panorama socio istituzionale e
politico di una nazione migliorerà. Quindi si ritiene che il diritto sia uno dei principali strumenti
per il progresso delle nazioni, per il loro incivilimento.
 L’illuminismo è un movimento culturale elitario: con questo riferimento non ci si
riferisce all’estrazione sociale degli illuministi perché è intuitivo il fatto che nel 700’ un
intellettuale raramente avesse origini umili; ma quando si parla di movimento elitario ci si
riferisce alla visione del mondo fatta propria, espressa da questi intellettuali. Dunque loro
hanno un’idea elitaria del mondo e della convivenza, nel senso che sono convinti che spetti ad
un élite colta e illuminata con il compito di guidare gli ordinamenti verso il progresso. Quindi
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è un élite di intellettuali che si deve assumere il compito di incivilire le nazioni. In questo caso
emerge un’altra parola chiave dell’illuminismo che è educazione, cioè spetta a questa elite
colta di educare, di migliorare i popoli. Questa attività di educazione non solo presuppone che
ci sia una massa ignorante e bruta che deve essere per quanto possibile incivilita, ma di solito
postula anche l’idea che oltre una certa soglia gli umani non siano educabili. Questo significa
che si possono educare cerchie sempre più vaste di persone, ma mai arrivando a quello che si
chiamava il popolo minuto. Questa attività di educazione ha comunque come bacino di
riferimento le classi sensibili all’istruzione, cioè suscettibili di essere migliorati, il resto è una
folla bruta. Voltaire, che è uno dei massimi illuministi francesi, ha affermato che la gente
pensante si migliora un po’, ma la gente bruta sarà per molto tempo un misto di orsi e di
scimmie e la canaglia sarà sempre cento contro uno. Quindi l’intellettuale illuminista si rivolge
alla gente pensante, il resto resterà sempre un misto di gente insuscettibile di qualunque
miglioramento. Nei confronti di questo misto di orsi e di scimmie il potere deve usare tutte le
strategie possibili per tenerli buoni. Strategie tra cui sfruttare la paura del sacro, sfruttare la
superstizione delle masse popolari, sono tutti motivi su cui il potere può e deve fare leva per
tenere in uno stato di quiete queste masse brute che non possono in alcun modo essere elevate.
Von Sonnenfels, che pure fu uno dei più agguerriti contestatori della pena di morte, dice che
la religione è uno strumento indispensabile per garantire la morale di una società. Quindi è un
ottimo nodo per tenere le società tranquille.
Federico II di Prussia, che è un sovrano illuminato e un grande riformatore, parla della folla
come di un bambino ammalato. Quindi questo discorso di incivilimento tocca quelle classi che
possono essere incivilite, il resto è folla bruta.
 Antistoricismo: come già precedentemente detto, l’ideario medievale riconosca alla storia
una importanza decisiva, la storia è una grande risorsa che consegna al presente alcuni frutti
che tendenzialmente si rispettano. Quindi inizia un rapporto più conflittuale e complesso con
la storia. Quando si parla di antistoricismo del pensiero illuministico non ci si riferisce tanto a
un rifiuto della storia, ma critica in maniera corrosiva quelle parti della tradizione che sono
giunte al presente senza essere state vagliate dalla ragione. Quindi non c’è un rifiuto della storia
in quanto tale, ma un rifiuto di ciò che la tradizione offre al presente e che non è stato
valutato con la ragione. Quindi è questa facoltà dell’uomo (la ragione illuminata) che deve
essere spesa per valutare la tradizione, è per capire ciò che va conservato e ciò che va ripudiato
di quella tradizione. Questa valutazione della tradizione porta a criticare gran parte della
tradizione, è ritenuta l’eredità di epoche da cui bisogna prendere le distanze. Questa
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contrapposizione netta, tra un presente illuminato riformatore e un passato oscurantista e
immobilista, è ben resa anche dai generi letterari tipici dell’illuminismo:
o I dialoghi, cui di solito c’è un protagonista espressione di un vecchio e decrepito mondo
e un altro protagonista che invece è la luce della ragione, delle riforme, e dialogano
insieme per contrapposizione.
o I pamphlet, che sono piccioli iscritti in cui si dichiarano le novità.
o Gli epistolari, che sono spesso il confronto tra vecchio e nuovo.
Il motto con il quale Kant valutò l’illuminismo: per Kant il valore storico positivo
dell’illuminismo poteva essere racchiusa nel motto “sapere aude”, che letteralmente significa
abbi il coraggio di sapere, di conoscere, di criticare, imboccare le strade dell’uomo. Dice Kant
che l’illuminismo rappresenta l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare
a sé stesso. Minorità è l’incapacità dell’uomo di valersi del proprio intelletto senza la guida di
un altro. Quindi la minorità intellettuale è quella dell’uomo che ha bisogno di auctoritates, cioè
che ha bisogno di un appoggio autoritativo; mentre l’uomo nuovo e illuminista è l’uomo che
ha il coraggio di conoscere, di sapere e di svincolarsi dalla guida degli altri.
 Utilitarismo: nella riflessione illuministica si tende a reputare giusto ciò che permette di
realizzare l’utilità del maggior numero possibili di consociati. Si tende a considerare giusto ciò
che è utile ai più. In questo senso si colloca anche la riflessione di Cesare Beccaria che è uno
dei massimi esponenti dell’illuminismo non solo italiano, ed è ricordato soprattutto per il
celeberrimo libretto “Dei delitti e delle pene” pubblicato nel 1764. Beccaria esprime gran parte
di questi motivi caratteristici che abbiamo attribuito alla riflessione illuministica. È fortissimo
in lui il rifiuto della tradizione che gli appare come un accumulo di negatività che aspetta ai
lumi della ragione di rinnegare. In questa polemica verso il passato è forte la polemica verso il
diritto romano. Il diritto romano è stato l’origine di tutti i mali della realtà settecentesca e
delle società contemporanee, perché su quel diritto pensato per un’altra epoca, altri uomini e
civiltà, si erano accumulate in modo disordinato dal medioevo in poi interpretazioni di giudici
e di giuristi, di pareri dottrinali e di sentenze. Queste caratteristiche del diritto rendevano
irrealistico il valore della certezza del diritto, che è la possibilità per il cittadino di sapere con
certezza quali sono le azioni permesse e quali vietate in modo da poter tarare la propria
condotta su ciò che è permesso. Queste caratteristiche dell’ordinamento rendevano impossibile
al cittadino di capire come muoversi perché le stesse azioni potevano essere diversamente
valutate dai giudici, una stessa azione poteva essere valutato dal giudice come reato di una
stessa città e non dal giudice di un’altra perché in questa selva di interpretazioni era possibile
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trovare soluzioni sia a favore di una condanna che a favore di una assoluzione. È nell’ambito
di questa critica corrosiva nei confronti dell’ordinamento giuridico vigente che prende forma
la stessa critica di Beccaria contro la pena di morte. Beccaria auspica non l’abolizione totale
della pena di morte, ma viene ritenuta necessaria per alcuni reati gravissimi contro lo stato che
dal punto di vista dei beni giuridici tutelati sta in cima alla gerarchia. È interessante vedere
l’ordine degli argomenti utilizzati da Beccaria per condannare la pena di morte.
Argomenti spesi da Beccaria a favore della abolizione della pena di morte:
 Argomento di tipo contrattualistico: lo riprende dallo strumentario del giusnaturalismo.
Argomento contrattualistico vuol dire che gli uomini hanno creato lo stato mediante il
contratto sociale che è quell’atto originario che serve a spiegare l’origine del potere politico.
Il potere politico non è una cosa ineluttabile, ma è frutto della volontà degli individui
espressa nel contratto sociale. Se lo stato nasce da un contratto sociale voluto dagli
individui, è chiaro che questi non possono avere affidato allo stato anche il potere di
disporre della loro vita. Gli individui creano lo stato mediante contratto ma tra le clausole
non potrà figurare quella che autorizza lo stato a uccidere gli individui stessi.
 Argomento di tipo utilitaristico: secondo Beccaria il ricorso alla pena di morte non è infatti
particolarmente utile, cioè non svolge la pena di morte un efficace funzione deterrente, cioè
non scoraggia a sufficienza i consociati dal commettere i reati. Dice Beccaria:
“L’esperienza di tutti i secoli prova che l’ultimo supplicio (la pena di morte) non ha mai
distolto gli uomini dall’offendere la società.” Quindi per Beccaria non era tanto l’intensità
della pena a essere utile, ma erano più utili altre due caratteristiche, cioè che la pena fosse
certa e certamente comminata con certezza, cioè che ci fosse un catalogo chiaro di reati
a cui corrisponde una certezza che il reo verrà scovato e punito. Un numero identificato con
chiarezza di reati accompagnato dal fatto che il reo coltivasse la certezza di essere
perseguire e punito se ritenuto colpevole. Certezza nella enunciazione di reati e certezza
nella comminazione della pena. Dall’altro lato dice Beccaria, più che una pena intensa, è
utile una pena lunga, cioè la lunghezza della pena più che la sua intensità. Beccaria si
pronuncia a favore dell’ergastolo, che chiama schiavitù perpetua, piuttosto che la pena di
morte perché per il cittadino aveva una maggiore efficacia deterrente l’idea di passare la
vita in carcere invece che la prospettiva di essere mandato a morte che è una attività
puntuale che si consuma in un lasso di tempo necessariamente breve.
 Argomento della sacralità della vita umana: di solito è il primo degli argomenti che noi
contemporanei tiriamo in ballo per contestare la pena di morte, in questo caso è al terzo
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posto per configurare la visione di Beccaria. Afferma Beccaria “È un assurdo che le leggi
che puniscano l’omicidio ne commettano uno esse medesime e per allontanare i cittadini
dall’assassinio ordinino un pubblico assassinio.” Solo nel 1791 nell’ambito della
commissione istituita da Pietro Leopoldo di Lorena per il progetto di codice penale per il
lombardo-veneto, commissione di cui faceva parte Beccaria, viene utilizzato un ulteriore
argomento della irreparabilità della pena di morte. Nel caso in cui venga comminata per
errore la pena di morte è irreversibile l’errore giudiziale.
 Centralità della legge: una cosa è la centralità del diritto e una cosa è la centralità della
legge, sono nozioni legate ma non sovrapponibili. Per centralità del diritto si intende al fatto
che i discorsi sul diritto interessano tutta l’opinione politica colta perché il diritto viene visto
come uno strumento taumaturgico che consentirà agli ordinamenti di andare verso un futuro
migliore e progredire. La centralità della legge è invece più specifico e riguarda una certa
concezione delle fonti del diritto. Dalla scoperta del Corpus iuris civilis al settecento inoltrato,
il problema della certezza del diritto è il problema capitale degli ordinamenti, perché il diritto
vigente, se si escludono alcuni atti normativi dei principi, è composto dall’insieme di
interpretazioni sorte sulla base del diritto romano quindi questo marasma di norme si è
stratificato senza ordine dal 1700’ inoltrato. Questo polmone del diritto sapienziale risultante
da interpretazioni di giudici è quello che gli storici chiamano il diritto comune. Lo ius comune
è questo maestoso edificio di interpretazioni giudiziali e dottrinali costruito sulla base del
diritto romano e del diritto canonico. Lo ius proprio o iura propria (diritto particolare) è
costituito da quei diritti che hanno una proiezione cetuale o locale più circoscritta. Sono i
provvedimenti normativi del principe, sono gli statuti cittadini, sono alcuni statuti di comunità
minori, sono il patrimonio di consuetudini di un certo territorio. Sono tutti quei diritti che non
hanno una origine sapienziale e riguardano realtà locali o cetuali più circoscritte. Il rapporto
tra iura propria e ius comune è complesso e per semplificare in prima battuta trovano
applicazione lo iura propria, ove però non vi sia una norma di ius proprio trova applicazione
una regola dello ius comune. La situazione era caotica, da una parte vi erano precetti particolari
(statuti, consuetudini…), dall’altra un insieme alluvionale di pareri sentenze opinioni e tutto
questo si era stratificato senza un ordine dal finire dell’anno 1000 fino alla fine del 700’ ed
oltre in alcune zone. Per secoli vi era questa duplice produzione di norme senza il principio
della gerarchia delle fonti o il principio di non contraddizione. Il problema della certezza del
diritto è il problema per eccellenza della realtà settecentesca che si trova a fare i conti con tutte
queste fonti di diversa provenienza che rendono impossibile capire quali sono i comportamenti
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concessi e quali i vietati. La centralità della legge si colloca all’interno di questa visione. C’è
una visione drammatica della certezza del diritto che è un problema reale e non teorico e quindi
si cerca una modalità di pensare al diritto in un modo diverso per garantire la certezza ed è la
legge la fonte su cui si scommette. Quella che a noi oggi sembra una idea un po’ antiquata di
diritto, viceversa nel 700 questa idea di ridurre tutto il diritto nella forma legislativa, è una
ambizione rivoluzionaria cioè profondamente innovativa. Uno degli ideali della riforma
illuministica è quella di poche leggi chiare e certe. La legge è vista come un polo assolutamente
positivo per un futuro migliore perché essa era uniforme per tutto il territorio nazionale, è un
unico comando che si rivolge a tutti i sudditi di una nazione. Non ci sono più sovrapposizioni
di fonti a proiezione territoriale limitata, è un quadro generale, è redatto in maniera chiara
quindi sembrava capace di rispondere immediatamente al problema della certezza del diritto.
La legge è una enunciazione chiara, limpida che si contrappone a quell’accumulo di quei pareri
disordinati. La legge segna un punto di rottura perché chiude immediatamente un certo modo
di vedere il diritto e ne inaugura uno nuovo. Questo ideale di vedere il diritto scritto solo nelle
leggi è anche un ideale dilatato, alla legge si attribuiscono anche capacità miracolose come
quella di realizzare la felicità dei popoli, che rappresenta uno dei concetti più usati
dall’intelligenza illuministica. Il diritto alla felicità nella costituzione americana è
costituzionalmente garantito. Da questa aspirazione del diritto identificato dalla legge, porta
anche a screditare e a comprimere in modo molto forte, il ruolo di giuristi e giudici. Questi
ultimi sono considerati gli emblemi negativi del vecchio mondo che si voleva abbattere, sono
la casta potentissima che era una carica ereditaria o venale, erano i padroni incontrastati dei
processi perché gli unici capaci di destreggiare quell’arruffo di norme che si erano affermate.
L’ambizione del pensiero illuministico è di dare massimo risalto alle leggi e di mettere fuori
combattimento giudici e giuristi. Montesquieu afferma: “Il giudice è la bocca della legge”, il
potere giudiziario come potere nullo. Anche qui c’è molta ingenuità, ma si immagina che
davanti ad una legge scritta bene non vi siano margini di interpretazione e letture diverse ma
una legge può solo essere applicata e può essere solo letta e non ci può essere nessun autonomo
apprezzamento né del giurista né del giudice. Basta che la legge sia chiara e poi deve essere
solo applicata. Beccaria parla del giudice come l’autore di un sillogismo perfetto. Il
sillogismo è quella modalità di argomentazione per la quale data una premessa maggiore e una
premessa minore la conclusione è obbligata. È un procedimento per cui la logica, una volta
che vengono date le premesse, obbliga una certa conclusione cioè non c’è possibilità di una
conclusione alternativa. La premessa maggiore è la legge, il giudice è un’automa che non ha
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margini di apprezzamento perché esiste una premessa maggiore cioè la legge poi vi è una
premessa minore data dalla fattispecie concreta che il giudice ha difronte ed infine la
conclusione che è la pena o l’assoluzione.
Beccaria ritiene che il giudice debba essere l’autore di un sillogismo perfetto che è un canale di
ragionamento obbligato che non lascia spazio a due conclusioni. L’ambizione di Beccaria e della gran
parte del pensiero illuministico è quello di eliminare ogni possibilità di interpretazione: l’idea
stessa di interpretare la legge è una idea che va bandita dagli ordinamenti perché era stato grazie
all’accumularsi di interpretazione che gli ordinamenti erano diventati un caos.
Da qui comincia a radicarsi in modo forte quella mentalità tipica dell’Europa continentale che tende
a contrapporre in maniera netta il giudice al legislatore, laddove quest’ultimo è considerato il polo
necessariamente positivo di questa dialettica. La modernità continentale si inventa tantissimi modi
per dire che la legge è necessariamente buona della volontà generale, dell’espressione di un principe
che ha a cuore la felicità dei propri sudditi. Il legislatore comincia ad incarnare il soggetto
storicamente positivo e razionale da cui promana un diritto a forma di legge, quindi un diritto dotato
di un tasso di razionalità infinitamente superiore rispetto a quello che aveva il diritto precedente. Il
polo negativo di questa dialettica è incarnato dal giudice che è vissuto uno degli emblemi di quel
mondo giuridico che si voleva rinnegare e il giudice viene dipinto come un soggetto in balia delle
passioni e come trascinato dalle proprie simpatie e antipatie. Così come il legislatore è la voce buona
dell’interesse generale e del bene comune, il giudice è invece la voce perversa del particolarismo,
delle passioni e dell’inaffidabilità. Il mondo americano si fida dei giudici, il mondo continentale
diffida dai giudici.
Beccaria nel suo testo “Dei delitti e delle pene” in un paragrafo intitolato “l’interpretazione delle
leggi” afferma che in ogni delitto si deve far da giudice un sillogismo perfetto, la premessa
maggiore deve essere la legge generale ed astratta, la premessa minore l’azione conforme o no alla
legge, la conseguenza la libertà o la pena. Non vi è cosa più pericolosa di quell’assioma comune che
bisogna consultare lo spirito della legge. Ciascun uomo ha il suo punto di vista; ciascun uomo in
differenti tempi ne ha uno diverso. Lo spirito della legge sarebbe dunque il risultato di una buona o
cattiva logica di un giudice, di una facile o malsana gestione; dipenderebbe dalla violenza delle sue
passioni ecc.
Tra interpretare una norma e l’argine rotto al torrente delle opinioni, cioè tra la possibilità di
interpretare una norma e l’apertura delle porte a un torrente indomabile di opinioni, vuol dire che se
si ammette l’interpretazione si mette l’ordinamento nella condizione di essere sopraffatto da un
torrente di opinioni, salta l’argine e quindi non c’è nessuna alternativa tra vietare ogni forma di
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interpretazione e aprire gli ordinamenti ad un torrente di opinioni. L’idea di Beccaria è che se c’è una
legge chiara e certa, questa la si può applicare al caso concreto senza bisogno di essere interpretata.
La legge è una specie di calco che si può appoggiare sul caso concreto senza che questa applicazione
comporti una qualunque forma di attività interpretativa del giudice. Il sillogismo è questo, è una
attività governata unicamente dalla logica che non ammette due soluzioni, è la logica che governa il
sillogismo e un’unica soluzione è possibile. Scostarsi da questo tipo di visione, significa riaprire un
argine cioè riammettere negli ordinamenti un torrente di opinioni diverse e giudici diversi. Il giudice
per Beccaria è un automa della sussunzione, il giudice deve collegare in maniera assolutamente
meccanica la previsione della legge alla fattispecie concreta, questo passaggio deve avvenire senza
alcuna attività interpretativa del giudice. Interpretare la legge, significherebbe rimettere il cittadino in
balia delle passioni del giudice. Non solo delle passioni ma della buona o cattiva gestione del giudice
cioè l’esisto della sentenza dipenderebbe anche da fatti contingenti e non tanto nobili come la buona
o cattiva gestione.

Abbiamo visto come dal punto di vista teorico si sia registrato uno scivolo importante dal
giusnaturalismo al gius positivismo. Tutto questo armamentario teorico e concettuale che gira intorno
all’idea di diritto naturale, tutto molto astratto messo in campo dal pensiero giusnaturalistico, cioè
qual è il diritto dell’uomo, qual è il diritto nello stato di natura.
Questo armamentario teorico viene metabolizzato dalla riflessione illuministica per immaginare dei
completi processi riformatori. Riforma è una delle parole chiave dell’illuminismo che consente di
misurare la distanza tra un’ideale ordinamento e gli ordinamenti storici concreti. Lo strumentario
giusnaturalistico viene utilizzato per identificare quale dovrebbe essere il diritto, l’ordinamento e lo
stato reale e si cominciano ad escogitare soluzioni proposte per tradurre per quanto possibile questo
diritto ideale in concrete proposte di riforma. Al centro di questi processi riformatori sul continente
europeo ci sta la legge e questa visione ottimistica della legge e delle sue virtù taumaturgiche di cura.
La legge del principe, dell’assemblea, diventa la fonte centrale attorno alla quale si rinchiudono le
speranze riformatrici del pensiero illuministico. Questa legge sognata dagli illuministi è una legge che
deve rispondere ad un ideale di diritto, deve essere chiara, certa. Si è realizzato un transito importante,
non si sta parlando più di diritto naturale o di diritto dell’uomo ma di diritto positivo, cioè di diritto
posto dal sovrano/dallo stato/dal potere politico.
Le teorie vengono vissute e recepite diversamente a seconda della condizione dei diversi contesti
storici, le stesse idee vengono assorbite in modo diverso. Per esempio, uno delle grandi idee
dell’illuminismo è quello della chiarezza e semplicità della legge contro il caos del diritto vigente si
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invoca la scultorea chiarezza della legge. Solo che questo ideale condiviso della chiarezza della legge,
viene interpretato diversamente nei diversi contesti storici.
Esempio di interpretazione difforme in area germanica: l’idea illuministica della chiarezza della legge
viene recepita come un’idea che attiene e coinvolge le caratteristiche relazionali delle norme, cioè il
modo in cui queste sono redatte, scritte, organizzate. È un principio che deve spiegare le modalità
formali di redazione e di organizzazione del testo normativo, riguarda un dato estrinseco di redazione
cioè la chiarezza di espressione del linguaggio, nella organizzazione dei contenuti nella loro
consequenzialità.
Esempio di interpretazione difforme in Francia: lo stesso ideale illuministico della chiarezza della
legge viene legato ad una conquista ulteriore più sostanziale che è quella della unificazione del
soggetto di diritto che vuol dire abbattimento dell’ordine cetuale e corporativo. Il soggetto di diritto è
il chiunque. Non esistono più regimi giuridici differenziati in ragione dell’appartenenza ad un certo
ceto o ad una certa corporazione. Ordine giuridico cetuale vuol dire che esistono regimi giuridici
differenziati sulla base dell’appartenenza al ceto. Unificazione del soggetto di diritto vuol dire che il
soggetto dell’ordinamento giuridico è uno cioè il cittadino, il suddito, il chiunque e non più il nobile,
il borghese e il contadino quindi in area francese la chiarezza della legge si lega a questa conquista
ulteriore della unificazione del soggetto di diritto.

L’illuminismo considera il diritto un ideale racchiuso nella fonte legislativa e si ha una cesura
rivoluzionaria nel cammino della storia d’Europa. L’idea è che la legge sia una sorta di falce che il
principe ha in mano e gli consente di sradicare il vecchio ordine giuridico e di avviare un ordine
giuridico nuovo. Le stesse parole d’ordine ricevevano una declinazione diversa nelle stesse aree
d’Europa e questo dimostra che la circolazione delle idee si modella sempre anche sulla base delle
caratteristiche dei diversi contesti storici. La chiarezza è un ideale illuministico per un diritto
finalmente chiaro e certo. Nell’area germanica il requisito della chiarezza viene identificato con le
caratteristiche con cui viene presentata la norma; in area francese invece questo ideale illuministico
della chiarezza della legge, tende ad identificarsi con una conquista diversa rappresentata dalla
unificazione del soggetto di diritto ovvero dall’abbattimento dell’ordine cetuale corporativo del
vecchio regime.
L’AREA GERMANICA è la tipica area dell’assolutismo illuminato, cioè ci sono dei sovrani detti
“illuminati” perché si rivelano sensibili alle idee propugnate dagli intellettuali illuministi. Questi sono
interessati alle concezioni giuridiche dell’illuminismo e possono rappresentare se interpretate in un
certo modo, un importante strumento per consolidare il loro potere. Questo ideale scritto nelle leggi
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significa attribuire al sovrano il potere di fare il diritto, questo ideale di diritto redatto in leggi
serve a consolidare il ruolo del sovrano che fa le leggi o dello stato quale produttore di diritto. Serve
anche a ridimensionare in maniera sensibile il ruolo di giudici e giuristi che sono i possibili
concorrenti del sovrano nel gestire il fenomeno giuridico. Tra questi sovrani illuminati c’è Maria
Teresa D’Austria, Federico Guglielmo di Prussia e il figlio Federico il Grande che sono considerati i
massimi esponenti dei sovrani illuminati. A questi sovrani piace l’idea di un diritto che si esprime
attraverso un comando dello stato, ma sono anche attratti da quelle idee illuministiche che parlavano
di semplificazione e razionalizzazione nella organizzazione dei poteri pubblici. Noi pensiamo ai
poterei pubblici come una derivazione dello stato, ci si immagina un centro irradiatore da cui si
sprigionano con diversi gradi di autonomia, l’intera catena delle funzioni pubbliche. Questa immagine
del rapporto tra centro e poteri pubblici, ormai scontata per noi, si costruisce faticosamente a partire
dal 700’. Fino a quel momento, il rapporto tra centro statuale e altri poteri pubblici non è raffigurabile
in questo modo perché spesso questa relazione è tra due dimensioni autonomamente fondate che
hanno un’origine autonoma e hanno variamente contrattato le condizioni della loro coesistenza. Io
sono giudice nel 600’ non perché ho ricevuto dallo stato una forma di mandato a svolgere questa
funzione, ma perché sono espressione di un potere pubblico autonomo che in varie forme dialoga con
quello che ambisce ad essere il centro statuale. C’è una originaria sostanza pubblicistica di certe
funzioni che non deriva dallo stato, quindi pensiamo ad uno spazio abitato da tanti poteri pubblici che
non derivano necessariamente i loro poteri da un unico centro. Nell’agenda politica di questi sovrani
illuminati ci sono tre processi riformatori:
 Un processo che ha ad oggetto la riforma del diritto sostanziale (processuale) in questo
tentativo di rendere lo stato l’unico centro di produzione di diritto
 La riforma processuale, le istanze per una compiuta pubblicizzazione del momento
processuale attraverso il tentativo di rendere il giudice un funzionario pubblico e non un potere
autonomamente fondato.
 La riforma amministrativa degli apparati pubblici nel tentativo di rendere tutte (o quasi) le
funzioni pubbliche come derivanti da una investitura sovrana proveniente dal centro statuale.
Dunque vi era il tentativo di rendere il centro statuale il centro sovrano da cui si irradiano e legittimano
l’esercizio di funzioni pubbliche. Questo è un processo faticoso ma trova un suo punto specifico di
complessità nel rapporto che lega il monarca con la classe aristocratica. I ceti in tedesco si
chiamano Stande, anche la realtà germanica settecentesca è di tipo cetuale. L’ordine giuridico cetuale
vuol dire che esistono regimi giuridici differenziati in base all’appartenenza al ceto. Non c’è un unico
soggetto del mondo giuridico ma esistono diverse discipline sulla base dell’appartenenza cetuale, ma
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questi ceti, non hanno solo un rilievo dal punto di vista del diritto privato, ma hanno anche rilevanza
pubblicistica. Questi ceti, soprattutto l’aristocrazia, nascono come parti costitutive dello spazio
pubblico. Lo spazio del potere pubblico non è uno spazio che ruota intorno unicamente alla figura del
centro statuale, ma queste funzioni pubbliche sono esercitate dal ceto aristocratico come segno di una
originaria rilevanza pubblicistica di questo ceto, cioè questo ceto per virtù originaria non derivata dal
sovrano è parte integrante della gestione del potere pubblico. I grandi feudatari diventati grandi
proprietari terrieri riscuotevano le imposte nei loro possedimenti, l’esazione dei tributi, il dire
giustizia, amministravano la giustizia sempre meno perché lo stato cerca di avocare a sé questo
compito, quindi svolgevano dei compiti non perché il sovrano le aveva concesse loro ma le svolgono
in quanto parte costitutiva di una certa trama di organizzazione del potere pubblico. Le possono anche
aver ricevute dal sovrano ad esempio come premio per l’aiuto decisivo in una guerra, ma una volta
ottenute le detengono come parte costitutiva di questa geografia del potere pubblico che non deriva
tutta da un unico centro statuale. Il loro essere parte di questa geografia deriva loro da ragioni storiche
complesse, da una trattativa o ricompensa del monarca, ma non sono mai poteri pubblici raffigurabili
come mera derivazione da un unico centro statuale. Un monarca che ambisce a sovvertire questa
logica della distribuzione dei poteri e che ambisce ad accreditarsi come centro tendenzialmente unico
nella produzione del diritto, nella amministrazione e nella amministrazione della giustizia, inizia a
rapportarsi in maniera complicata con questi poteri pubblici perché, da un lato ne vorrebbe
comprimere la rilevanza, ma oltre una certa soglia non si può spingere a debellare completamente il
potere, perché il monarca sta lì in quanto aristocratico e in quanto quello stato si fonda sul
riconoscimento del valore pubblico dell’aristocrazia, il re è il vertice dell’aristocrazia del suo paese.
Dunque il monarca ambisce a rivoluzionare il potere pubblico dell’aristocrazia ma allo stesso tempo
non può spingersi fino a comprimerne totalmente la rilevanza perché lo stesso monarca è il frutto più
alto della aristocrazia.
A questo punto la strategia dei sovrani illuminati è quella di tentare di ridurre sensibilmente la
rilevanza pubblicistica dei ceti e della aristocrazia in specie e di lasciarla invece intatta sul fronte
privatistico, dunque si lascia intatto l’ordine cetuale sul fronte delle relazioni private come
successioni, contratti, matrimonio ecc.
In Germania il regime speciale per i possedimenti nobiliari viene abrogato solo nel 1919, quindi la
rilevanza privatistica scavalca il 900’. Questo contesto di area tedesca non recepisce e non può
recepire il principio della unificazione del soggetto di diritto che vuol dire abbattimento dell’ordine
cetuale, cioè che il diritto ha come soggetto il chiunque, esiste una disciplina giuridica uniforme
destinata a tutti i sudditi e a tutti i cittadini. Queste sono le ragioni storiche profonde per cui la
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chiarezza della legge coincide con la tecnica di redazione della legge, ma questo ideale illuministico
della chiarezza della legge non significa mai abbattimento dell’ordine cetuale perché questa è una
realtà che non è pronta e non può recepire un’istanza di uguaglianza giuridica formale.

Nell’AREA FRANCESE la situazione è molto diversa perché c’è un aspetto sociale potentissimo,
ignoto all’area tedesca, che è data dallo sviluppo e dalla rilevanza assunta dal ceto borghese, il
mercante cioè l’alleato del re. Questo ceto mercantile ha acquisito un crescente potere economico
nella società francese e vive con ostilità quell’ordine giuridico cetuale che spesso si traduceva in
posizioni di vantaggio e di privilegio per l’aristocrazia. La rivoluzione francese è innanzitutto anti-
aristocratica, la prima mira della rivoluzione è l’abbattimento del potere aristocratico, mentre il re va
alla ghigliottina nel 1793 dopo quattro anni dalla rivoluzione francese. Le idee dell’illuminismo
vengono prodotte in Francia nel senso di promuovere una unificazione del soggetto del diritto,
l’illuminismo in Francia diventa anche fenomeno ulteriore rappresentato dall’abbattimento
dell’ordine cetuale. La massima aspirazione della borghesia è quella di ottenere l’uguaglianza davanti
alla legge, cioè che tutti i cittadini siano considerati uguali davanti alla legge senza alcuna distinzione
di ceto e questo ideale illuministico della legge chiara e limpida diventa l’ideale per una legge che
non conosce più le divisioni cetuali.

RIVOLUZIONE AMERICANA
L’iter che conduce le 13 colonie nel 1776 a dichiarare l’indipendenza dalla madre patria:
Il malcontento nelle colonie crebbe fino a diventare esplosivo per effetto di alcuni provvedimenti
fiscali che la madre patria impose alle colonie e inasprirono la tassazione di queste ultime aumentando
il loro malcontento. Questo incremento di tassazione portò nel 1765 l’assemblea della Virginia a
dichiarare il principio dell’illegittimità di ogni forma di tassazione imposta senza una
consultazione dei rappresentanti delle persone su cui le tasse avrebbero gravato. Nel 1765 i
rappresentati delle 13 colonie si riuniscono a New York e stendono una petizione che inviano al Re
inglese. In questa richiesta che inviano non si fa alcun riferimento all’indipendenza delle colonie, ma
anzi ci si proclama fedeli sudditi del monarca inglese, i coloni si dichiarano orgogliosamente
Britishman. Nella petizione si chiede però, l’istituzione del Commonwelt cioè di un edificio politico
comune che abbia al proprio vertice il monarca inglese e alla base tante assemblee rappresentative
quante sono le realtà politiche comprese in questo edificio comune. In questo modo i coloni chiedono
una equiparazione delle loro assemblee rappresentative al parlamento inglese. Il re dà una risposta
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negativa, nel senso che non accetta questa proposta di riconosce le assemblee delle colonie come
parlamenti, motivando tale risposta con due argomentazioni prevalenti.
 Prima argomentazione: dice il re che “la realtà delle assemblee rappresentative coloniali non
possa essere equiparata a quella del parlamento inglese per la mancanza di un ramo decisivo
che è quello della camera alta di astrazione prevalentemente aristocratica con una camera
non elettiva.”
 Seconda argomentazione: “La stessa camera bassa cioè elettiva dei comuni, in Inghilterra,
non è eletta a suffragio universale, non per questo i sudditi inglesi esclusi dal suffragio non si
sentono rappresentanti dal parlamento.” Questo vuol dire che anche la camera elettiva non è
eletta a suffragio universale, quindi ci sono tanti sudditi inglesi che non eleggono i loro
rappresentanti ma non per questo non si sentono rappresentati dal parlamento.
Alla base di questa risposta negativa del re c’è un’incomprensione, nel senso che il monarca inglese
non capisce come nel corso del tempo le realtà coloniali si fossero trasformate da realtà
prevalentemente economico-commerciali a realtà anche politicamente sensibili che vivevano sé stesse
e pretendevano di essere rappresentate. Il 4 luglio del 1776, vista l’impossibilità di trovare una
soluzione condivisa con la madre patria, si ha la Dichiarazione di indipendenza dove le colonie si
dichiarano indipendenti dall’Inghilterra. Dal tenore di questa dichiarazione e dal tenore della
costituzione federale, siamo di fronte ad un caso singolare di rivoluzione che concepisce sé stessa in
termini restaurativi. Noi vedremo come i coloni in questa dichiarazione sottolineano ripetutamente
termini come “necessità”, “obbligo”, “dovere”, cioè nel senso che si sono dovuti arrendere alla
necessità dell’indipendenza. La rivoluzione era presentata non come una scelta libera nata dalle più
varie motivazioni, ma come una scelta imposta da quello che venne vissuto dai coloni come un
tradimento della madre patria nei confronti del suo modello costituzione. L’Inghilterra è stata la patria
di un nobile modello costituzionale, quello rappresentativo, ma lo ha tradito nei confronti delle colonie
americane. I coloni vivono la loro dichiarazione d’indipendenza non come l’occasione storica per
creare un ordine radicalmente nuovo, ma come l’occasione per restaurare i contorni di un modello
costituzionale violato dalla madre patria. Questa dichiarazione potrebbe averla scritta John Lock, cioè
l’idea che si resista e ci si ribella ad un potere quando viene meno il proprio vincolo di mandato, cioè
vengono meno le ragioni che ne giustificavano l’esistenza. Per Lock il diritto di resistenza non è il
diritto che consente di far ciò che si vuole, ma deve essere esercitato solo per ripristinare un ordine
violato, la forma mentis dei coloni americani è questa.
Passo tratto da “La Dichiarazione d’indipendenza”: “Quando nel corso degli umani eventi, si
rende necessario (qui c’è un contegno imposto dalla madre patria) ad un popolo sciogliere dei vincoli
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politici che lo avevano legato ad un altro ed assumere tra le altre potenze della terra quel posto
distinto ed uguale cui aderito per legge naturale e divina, un giusto rispetto per le opinioni
dell’umanità richiede che esso renda note le cause che lo costringono a tale secessione. Noi riteniamo
che le seguenti verità siano di per sé evidenti. (Questo è un distillato di giusnaturalismo ed è l’atto
ufficiale di nascita degli Stati Uniti d’America), che tutti gli uomini sono stati creati uguali e sono
dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili (naturali, pre-statualità dei diritti) vi sono la vita,
la libertà e la felicità. Allo scopo di garantire questi diritti, sono creati tra gli uomini i governi,
(origine volontaria del potere politico). I governi non sono una realtà ineluttabile ma sono creati per
garantire i diritti naturali degli individui e questi governi derivano i loro poteri dal consenso dei
governati, cioè una origine volontaria contrattualistica del potere politico. “Ogni volta che una forma
di governo tende a negare tali fini, è diritto del popolo modificarlo o distruggerlo.” Il popolo non
può fare quello che vuole, crea i governi per tutelare certi diritti e li può abbattere solo quando la
tutela di questi diritti non è più garantita, è quello il varco che legittima la resistenza al potere, il fatto
che certi diritti non siano più garantiti e creare un nuovo governo. “La prudenza anzi imporrà che i
governi fondati da lungo tempo non andrebbero cambiati per motivi futili e transitori. Non si cambia
governo per questi motivi ma si cambia quando le violazioni imputabili ad un governo sono tanto
gravi e ripetute che non si può far altro che resistergli e di conseguenza ogni esperienza ha dimostrato
che l’umanità è più disposta a soffrire finché i mali sono sopportabili che a cercare giustizia abolendo
le forme alle quali sono abituati ma quando una lunga serie di abusi e di usurpazioni che perseguono
invariabilmente lo stesso obbiettivo e da esse si evince il disegno ridurre il popolo a sottomettersi ad
un dispotismo assoluto, è il suo diritto ed è il suo dovere rovesciare tale governo.” La rivoluzione
non è solo un diritto del popolo ma è un dovere del popolo di fronte ad una catena lunga di usurpazioni.
“Tale è stata la paziente sopportazione di queste colonie e tale è oggi la necessità che le costringe
ad alterare i loro precedenti sistemi di governo.”
Dal 1776 si aprono negli Stati Uniti due processi paralleli:
1) Processo che porta all’adozione delle costituzioni dei singoli stati di cui si compongono gli
Stati Uniti;
2) Processo complesso che porta all’adozione nel 1787 della costituzione federale americana
ispirata al principio dei pesi e contrappesi. In Inghilterra c’era stata una fuoriuscita dal
modello costituzionale, si era avuto un contegno negativo del parlamento che aveva imposto
in maniera non condivisibile, una serie di tasse. Il sistema dei pesi e contrappesi era un valido
antidoto in vista di questo straripamento dei poteri dal loro alveo. Pesi e contrappesi vuol dire

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che si identificano con chiarezza le prerogative dei diversi poteri e ad esse si contrappone un
contrappeso che possa validamente controbilanciare queste prerogative.

Caratteristiche della costituzione federale


La costituzione federale è composta di 7 articoli divisi in sezioni, a partire dal 1791 a questi articoli
sono stati aggiunti gli emendamenti. Gli emendamenti sono degli articoli aggiunti alla costituzione
e che costituiscono parte integrante della costituzione medesima e che sostanzialmente arricchiscono
la costituzione del riferimento ai diritti e alle libertà individuali (libertà di culto, libertà di domicilio,
libertà di movimento ecc). Quindi questi diritti e libertà divengono costituzionalmente garantiti e
rendono la costituzione un qualcosa di più che la semplice indicazione dei poteri dello stato e delle
loro relazioni. Il primo blocco di emendamenti del 1791 si chiama Bill of right che è questo
documento che costituisce il primo scaglione di emendamenti annessi alla costituzione, è una carta
dei diritti. Nel corso del tempo sono stati poi ulteriori emendamenti.

La prima caratteristica della costituzione federale è rappresentata dalla scelta del bicameralismo. A
differenza del bicameralismo italiano, che è perfetto, negli Stati Uniti abbiamo una camera legislativa
che è il Congresso eletto direttamente dal popolo e che ha una legislatura breve di 2 anni. Questo è
un articolo della costituzione federale che non è mai stato emendato dal 1787. L’altra camera è il
Senato che è eletto dalle assemblee legislative dei singoli stati, quindi è un’elezione di secondo grado
perché non eletto direttamente dal popolo ed ha una legislatura più lunga di 6 anni. È un
bicameralismo che tende a bilanciare la componente popolare e la componente dei singoli stati, quindi
è un corpo elettorale già selezionato. L’approvazione di una legge richiede il consenso congiunto di
congresso e senato ed è previsto che il presidente può porre il proprio veto su una legge. Dunque vi è
un potere legislativo incarnato da camera e senato, questo potere può essere controbilanciato dal veto
presidenziale che a suo volta può essere scavalcato solo dal voto contrario dei 2/3 del congresso,
quindi è un veto superabile e si tende a bilanciare il potere legislativo.

Un’altra caratteristica è che l’America si dota di una costituzione scritta. Il modello costituzionale
inglese è più composito, cioè che la costituzione è qualcosa che in Inghilterra risulta dalla unione di
testi emanati dal 1200 in poi e dall’interpretazione di questi testi. Quindi è un luogo composito,
popolato da diversi testi e da materiali non scritti. Viceversa, la scelta dei coloni americani è quella
di dare una costituzione agli Stati Uniti d’America: prima confederazione e poi stato federale. Questa
costituzione promulgata nel 1787 tutt’ora in vigore, è congegnata in modo tale da evitare per quanto
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possibile le usurpazioni di un potere sull’altro, in particolar modo, le usurpazioni del potere
legislativo. La rivoluzione nasce per ribellarsi contro quella che i coloni ritengono una usurpazione
del parlamento inglese, cioè l’imposizione di tributi non sostenuta da una preventiva consultazione
delle colonie.

Un’altra caratteristica fondamentale della costituzione americana riconducibile a questa idea di


bilanciamento dei poteri, riguarda il fatto che questa è una costituzione rigida. La rigidità
costituzionale è un concetto che entra nel parlamento europeo solo nel secondo dopo guerra come
esito delle esperienze totalitarie, con la parentesi sfortunata rappresentata da Weimar che è considerata
la prima costituzione democratica del 900’, ma dura poco dal 1919 al 1933 anno nel quale Hitler
prende potere in Germania. Il costituzionalismo americano è indissolubilmente legato fin dal suo
esordio all’idea di rigidità costituzionale e vedremo che questa idea di costituzione rigida porti ad
investire sul potere giudiziario gli autentici custodi della costituzione. La modernità continentale
nasce all’ombra di una sfiducia totale verso i giudici, abbiamo visto Beccaria che vede il giudice un
soggetto in balia delle sue passioni in preda della sua buona o cattiva digestione, invece sul continente
americano nascono all’ombra di una diversa idea di potere giudiziario. La rigidità costituzionale si
estrinseca su due fronti:
1) Il primo è quello che richiede procedure aggravate per la revisione della costituzione, cioè
la revisione della costituzione può avvenire solo per effetto di maggioranze qualificate.
Dunque la costituzione non può essere modificata attraverso l’ordinaria procedura legislativa,
ma serve una procedura aggravata e qualificata.
2) L’altro fronte sul quale si esprime la rigidità costituzionale ha natura contenutistica, cioè si
identifica un nucleo contenutistico della costituzione che non può essere soggetto a revisione.
Nella costituzione è l’art. 139 cioè che la forma repubblicana non è soggetta a revisione, se
venisse cambiato vuol dire che si è aperta una fase costituente nuova e non una revisione
costituzionale perché si è già fuori dalla costituzione.
La costituzione americana racchiude all’articolo 5 della costituzione federale entrambi questi due
aspetti nei quali si racchiude l’idea di rigidità costituzionale, si prevede sia un procedimento aggravato
cioè la speciale procedura che deve essere eseguita per la revisione della costituzione e sia un nucleo
contenutistico insuscettibile di revisione costituzionale. Di questo nucleo contenutistico una parte è
condizionata al tempo cioè dice “Resta stabilito che nessun emendamento prima dell’anno 1808
potrà modificare i capoversi primo e quarto della sezione nove dell’articolo 1 che riguardano la
tratta degli schiavi e l’altro l’impossibilità di imporre tributi se non sulla base del censimento del
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reddito dei singoli cittadini cioè i tributi devono essere proporzionati al reddito.” Dunque si dice che
fino al 1808 queste due disposizioni non possono essere toccate e poi si dice che: “Non può essere
toccato se non con il consenso dei singoli stati, (qui non si mette una scadenza) il principio della pari
rappresentanza degli stati al senato. Ogni stato manda al senato lo stesso numero di rappresentanti
senza che conti la sua grandezza, espansione, popolazione. Il fatto che ogni stato abbia pari
rappresentanza è una forma di bilanciamento e anche questa disposizione non è mai stata emendata,
ogni stato manda due rappresentanti al senato.
La rigidità costituzionale è un concetto che non è cartaceo, cioè non si limita ad essere un concetto
formale solo dichiarato se esiste un giudice della costituzione, cioè se esiste un giudice che può
verificare la conformità delle leggi al disposto costituzionale. Se le leggi sono difformi dalla
costituzione vuol dire che una legge può modificare la costituzione e quindi la costituzione non è più
rigida. Quindi la rigidità della costituzione è un concetto che diventa operativo ed effettivo se si può
verificare che le leggi ordinarie sono corrispondenti e conformi a costituzione.
Questo problema è stato risolto negli ordinamenti continentali. Nel nostro ordinamento ad esempio
il giudice costituzionale è la Corte Costituzionale. Quindi nei sistemi continentali ha prevalso un
sistema, un sistema che si chiama sindacato di costituzionalità accentrato. Questo vuol dire che
esiste un organo espressamente dedicato a verificare la conformità della legislazione alla costituzione.
Nell’ipotesi in cui una norma venga ritenuta incostituzionale, cioè non conforme a costituzione, quella
norma viene abrogata, cioè viene eliminata dall’ordinamento.
Negli Stati Uniti prende piega invece quello che si chiama sindacato di costituzionalità diffuso.
L’art. 6 della costituzione federale americana contiene quella che usualmente viene chiamata la
clausola di supremazia, cioè una clausola che definisce la costituzione come legge suprema del paese
e prevede correlativamente l’obbligo dei giudici a rispettare le disposizioni della costituzione. Ma
nulla dice la costituzione su come rendere effettiva questa previsione, cioè come si fa a far sì che
davvero la costituzione sia la legge suprema del paese e che appunto il giudice deve conformarsi ad
essa. La soluzione nasce, come tipico degli ordinamenti di common law, sul terreno giurisprudenziale
e nasce nel 1803: il caso Marshall. Marshall è il presidente della corte suprema.
Citazioni della pronuncia del 1803: “In nome della costituzione, ogni giudice americano, federale o
statale, quando sente in sua coscienza che applicando la norma viola il Bill of right ha il dovere di
disattivarla.” “O la costituzione è una legge superiore prevalente non modificabile con gli strumenti
ordinari, oppure è posta allo stesso livello della legislazione ordinaria e come le altre leggi è
alterabile quando il legislatore ha il piacere di alterarla.” “Se la prima parte dell’alternativa è vera,
cioè che la costituzione è una legge superiore, allora una legge contraria alla costituzione non è
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legge; se la seconda parte è vera allora le costituzioni scritte sono un tentativo assurdo da parte del
popolo di limitare un potere per sua stessa natura illimitabile.”
Da questa sentenza si origina quello che viene chiamato il sindacato di costituzionalità diffuso, cioè
nel contesto statunitense qualsiasi giudice, statale o federale, deve disapplicare una norma se ritenuta
in contrasto con la costituzione. Quindi non c’è un organo specifico, ma tutti i giudici americani di
qualunque ordine e grado sono investiti del dovere di sindacare, di valutare la costituzionalità delle
leggi. Se una norma viene ritenuta incostituzionale negli Stati Uniti viene disapplicata, cioè non viene
abrogata, ma viene disapplicata nell’ambito di quello specifico processo che ha difronte il giudice.
Quindi la norma non scompare dall’ordinamento, o non entra negli ordinamenti in quei sistemi in cui
è preventivo il sindacato di costituzionalità, ma la norma viene semplicemente disapplicata dal giudice
che se la trova di fronte nell’ambito di quello specifico processo. I sistemi di common law riconoscono
un valore importante al precedente, quindi il caso 0, cioè il primo caso in cui una norma viene
disapplicata, può rappresentare la prima tappa di una giurisprudenza che si consolida, fino a creare un
precedente molto seguito. Questo però non è detto, perché quella pronuncia in cui viene disapplicata
una norma può anche rimanere un caso isolato, così come nulla vieta che dinnanzi anche a un
precedente che sembrava molto ben consolidato, un giudice ripeschi quella norma ritenendola invece
costituzionalmente conforme, perché quella norma non scompare ma entra in uno stato di letargia che
può preludere a un sonno definitivo ma che può anche essere un letargo più o meno provvisorio.
Questo tipo di soluzione ci interessa per capire come si è di fronte a una mentalità che è quella tipica
dei paesi di common law, una mentalità che tendenzialmente si fida e si affida ai giudici. Quindi si è
di fronte ad una mentalità molto lontana da quella degli ordinamenti continentali, una mentalità che
vede nei giudici i custodi ideali della costituzione. La comunità si affida ai giudici e affida ai giudici
stessi il testo normativo più prezioso che ha anche per la tutela dei propri diritti che è la costituzione.
Gli ordinamenti continentali invece, per ragioni storiche molto forti, tendono a diffidare dall’operato
dei giudici e a celebrare invece il legislatore.

RIVOLUZIONE FRANCESE
Ogni rivoluzione sottende una cultura dei diritti e delle libertà di tipo individualistico. Questo vuol
dire che alla base di ogni fenomeno rivoluzionario, quale che sia la sua connotazione storica specifica,
ci sia una cultura dei diritti e delle libertà che presuppone l’esistenza di una società di individui
reputati capaci di decidere sul futuro del proprio ordine socio-politico-giuridico. L’idea stessa di
rivoluzione presuppone l’esistenza di un insieme di individui (la società di individui politicamente
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attivi) che si reputano capaci a scegliere il proprio ordine socio politico futuro. Secondo Fioravanti,
la rivoluzione americana combina questo elemento individualistico (tipico di ogni fenomeno
rivoluzionario) con un elemento storicistico, cioè i coloni non vogliono chiudere radicalmente con
la tradizione costituzionale che sta loro alle spalle, ma anzi vivono la rivoluzione come una sorta di
interpretazione autentica di un modello costituzionale già esistente e che l’Inghilterra aveva violato.
Quindi non vogliono chiudere con la tradizione costituzionale di provenienza, ma vorrebbero
consolidarla. Quindi si combina questa anima individualistica con l’anima storicistica, cioè con l’idea
che non tutto ciò che è stato prodotto sia da eliminare.

Viceversa la rivoluzione francese combina questa anima individualistica con un’anima statualistica,
cioè con un certo modo di intendere lo stato e la legge dello stato. Stato e legge sono le due parole
chiave che agli occhi dei rivoluzionari francesi riusciranno a compiere un’operazione fondamentale,
cioè quella di azzerare completamente l’ordine gius politico precedente. Il rapporto tra presente
rivoluzionario e passato è immaginato in Francia in termini di opposizione drastica irrimediabile, cioè
la rivoluzione è chiamata a scavare un fossato netto tra passato e presente. La parte prima della
rivoluzione si chiama convenzionalmente antico regime (ancien regime). Di solito ci si riferisce alla
rivoluzione francese come alla rivoluzione borghese per eccellenza: il terzo stato (la borghesia) è il
ceto che fa la rivoluzione perché mira a consacrare in forza di supremazia sul terreno politico il potere
che aveva maturato sul terreno economico. Il mercante e il borghese sono storicamente nel corso dei
secoli dei formidabili alleati del potere politico, del potere monarchico, perché la monarchia e la
borghesia coltivano obiettivi in parte convergenti in parte analoghi. In particolare c’è un aspetto che
unisce queste due forze ed è l’aspirazione ad avere un diritto più uniforme possibile dal punto di vista
territoriale. Voltaire diceva che nella Francia del 700’ si cambiava più spesso diritto che cavallo, cioè
attraversando la Francia c’era un tale localismo giuridico che appunto si cambiavano più spesso regole
giuridiche che mezzo di trasporto.
C’è un’aspirazione convergente del potere monarchico e dei mercanti e dei borghesi ad avere un
diritto per quanto possibile uniforme a livello territoriale perché il monarca ha tutto l’interesse a
diventare il centro tendenzialmente unico di produzione del diritto. Se lo stato diventa il
produttore pressoché unico del diritto, la sua posizione politica si consolida enormemente e si deprime
correlativamente la posizione delle realtà locali e anche quella di giudici e giuristi. Ma questo processo
di uniformazione interessa anche il ceto mercantile e borghese perché è un ceto economicamente
intraprendente, che vende, compra, scambia, ed ha interesse a poter contare su una regolazione
giuridica per quanto possibile uniforme. Se per ogni transazione si deve conoscere qual è la regola
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che presiede a quella transazione in quel territorio, è chiaro che questa attività di scambio è più
faticosa e rischiosa.
Questa alleanza procede abbastanza concordemente fino agli inizi della seconda metà del 700’,
quando poi subentra una maggiore sordità del potere monarchico rispetto alle istanze riformatrici e di
rinnovamento avanzate dal ceto borghese. Ciò non toglie che la rivoluzione francese ha una forte
vocazione anti-aristocratica, ma non necessariamente anti-monarchica, cioè il vero obiettivo della
rivoluzione è quello di chiudere con il vecchio ordine cetuale, ma non necessariamente di abbattere il
Re. Luigi XVI e Consorti finiscono sulla ghigliottina solo nel 1793, quindi non immediatamente con
lo scoppio della rivoluzione. C’è questa forte vocazione anti-aristocratica perché l’aristocrazia gode
di un regime di privilegio a livello giuridico che risulta sempre meno tollerabile per il ceto borghese.
In questo senso è assolutamente emblematico il testo del preambolo alla costituzione francese del 3
settembre 1791. Questa è la prima delle costituzioni che produce il periodo rivoluzionario. Il decennio
rivoluzionario dall’89 al 99, prima della salita al potere di Napoleone, si consumano vertiginosamente
costituzioni e progetti di codificazione.
Preambolo: “L’assemblea nazionale (…) abolisce irrevocabilmente le istituzioni che ferivano la
libertà e l’uguaglianza dei diritti. Non vi è più nobiltà, né distinzioni ereditarie, né distinzioni di
ordini, né regime feudale, né giustizie patrimoniali, (…), né alcun ordine cavalleresco, né alcuna
delle corporazioni o decorazioni, per le quali si esigevano delle prove di nobiltà o che supponevano
delle distinzioni di nascita, né alcun’altra superiorità all’infuori di quella di funzionari pubblici
nell’esercizio delle loro funzioni. Non vi è più né venalità né ereditarietà di alcun ufficio pubblico.
Non vi è più alcun privilegio o eccezione al diritto comune di tutti i francesi. Non vi sono più
corporazioni di professioni, arti e mestieri.” C’è in questo testo la dichiarazione di morte di tutto
l’ordine gius politico dell’ancien regime e c’è tra le tante parole chiave un’espressione rilevantissima:
il diritto comune di tutti i francesi. Rivoluzione vuol dire che da quel momento in poi esiste un solo
diritto per tutti, ed è il diritto comune di tutti i francesi. Quindi non esistono regimi giuridici
differenziati sulla base dell’appartenenza cetuale e corporativa, ma esiste un unico diritto e quindi
esisterà anche un unico soggetto di diritto: la chiarezza del comando legislativo si lega in Francia a
questa idea dell’unificazione del soggetto di diritto. L’unica superiorità ammessa è quella che deriva
dall’esercizio di funzioni pubbliche, cioè dall’esercizio di funzioni derivanti dallo stato. La superiorità
si guadagna sul campo, sulla base dell’importanza delle funzioni esercitate e non sulla base delle
condizioni di nascita, cioè non si acquisisce per nascita e per ereditarietà, ma l’importanza del servizio
reso alla nazione è l’unica possibile superiorità per i cittadini.

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Allora il principio dell’unificazione del soggetto di diritto (che si chiama anche principio
dell’uguaglianza giuridica formale = uguaglianza di tutti di fronte alla legge) costituisce l’obiettivo
centrale della vicenda rivoluzionaria. Questo principio dell’uguaglianza giuridica formale andava
argomentato, c’erano secoli di storia precedente che andavano in senso diametralmente opposto: c’era
stata una stratificazione storica secolare di un ordine cetuale. Questo principio nuovo dirompente
dell’uguaglianza degli uomini di fronte alla legge andava fondato su qualcosa perché era un qualcosa
di rivoluzionario che metteva in liquidazione tutta l’esperienza precedente. L’ausilio dei rivoluzionari
è il giusnaturalismo, cioè sarà l’idea di uguaglianza originaria degli uomini, la pre-statualità dei
diritti e cioè l’esistenza di diritti naturali prima della creazione dello stato, e l’idea che lo stato nasce
con un vincolo di mandato, cioè lo stato nasce per tutelare certi diritti degli individui. Saranno queste
le tre idee principali che i rivoluzionari mutuano dal giusnaturalismo e utilizzano per la costruzione
dell’ordine che segue alla rivoluzione.
Sintesi: se il principio dell’uguaglianza giuridica formale dell’unificazione del soggetto di diritto è il
principio che consente di sbaragliare l’ordine cetuale, che è quello che stava a cuore alla borghesia, è
chiaro che questo principio dirompente e rivoluzionario deve essere fondato su qualcosa, e la
fondazione teorica per questo principio è offerta dalle dottrine del giusnaturalismo.

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – 16 agosto 1789


Art. 1: Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono
essere fondate che sull’utilità comune.
È il giusnaturalismo che attraverso lo stato di natura aveva detto che gli uomini non nascono diversi,
ma gli uomini nascono liberi e uguali. Lo stato di natura serve a dire che gli uomini nascono liberi,
uguali e muniti di diritti. Questa è la grande innovazione. Questo art. 1 traduce letteralmente questa
acquisizione attribuibile al giusnaturalismo.

Art. 2: Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili
dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione.
Lo stato non è un ente politico qualunque, ma è un ente politico che nasce con fine ben preciso, cioè
la conservazione dei diritti individuali (vincolo di mandato). Quindi lo stato è legittimo nella misura
in cui conserva i diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Fra i diritti naturali imprescrittibili fa
capolinea la proprietà.

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Art. 3: Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun
individuo può esercitare un’autorità che da essa non emani espressamente.
Molti storici hanno notato come qui il concetto di Nazione entri in un significato peculiare e nuovo,
cioè qui la Nazione serve ad indicare la totalità dei cittadini francesi, serve a indicare questa entità
che comprende tutti i cittadini francesi e proprio per questo suo carattere comprensivo e per il fatto
che la nazione è un concetto che serve a equiparare i cittadini e non a dividerli, la nazione è l’unica
depositaria della sovranità (altra parola chiave della modernità giuridica). C’è un unico momento che
legittima l’esistenza di ogni funzione e potere pubblico. Quindi ogni funzione-potere pubblico si
legittimo ed è legittimo solo in quanto deriva il proprio potere e la propria autorità dalla nazione, da
questo centro unificante. Non ci sono più poteri pubblici che hanno un fondamento autonomo, ma
esiste un unico grembo legittimato a riconoscere e a creare poteri pubblici.

Fin qui siamo nell’ambito di una visione che avrebbero potuto sottoscrivere anche i coloni americani.
Esiste una libertà originaria degli uomini, esiste un’autorità politica che si legittima in quanto capace
di conservare i diritti degli individui. Ma è dall’art. 4 in poi che si registra una virata peculiare della
rivoluzione francese. Dalla lettura degli articoli successivi al terzo si registra uno scivolo verso la
legge, cioè si registra un enorme investimento sulla fonte legislativa. Gli storici parlano comunemente
di legicentrismo a proposito della rivoluzione francese e poi di tutti gli ordinamenti continentali.
Questo vuol dire che la rivoluzione francese affida alla legge (al legislatore) il compito di costruire
un ordine nuovo e diverso da quello di ancien regime. Alla legge si affidano quindi gli stessi diritti e
libertà degli individui, cioè la legge è la fonte giuridica su cui scommette la rivoluzione perché la
legge è veramente una fonte rivoluzionaria, è una fonte che appare capace di sbaragliare l’intero
ordine giuridico precedente. La legge è un comando generale e astratto che ha difronte a sé la
generalità dei cittadini francesi, non distinti sulla base di appartenenze cetuali, corporative o locali.
Inoltre è una fonte che comprime il ruolo di giudici e giuristi, visto come le incarnazioni peggiori del
vecchio ordine giuridico. Quindi la legge corrobora anche questa illusione di poter escludere il
problema dell’interpretazione. Si suppone che la legge sia necessariamente buona, abbia contenuti
necessariamente validi in quanto espressione della volontà generale.

Art. 6: La legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere,
personalmente o per mezzo dei loro rappresentanti, alla sua formazione. Essa deve essere la
medesima per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi

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sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo le loro capacità e
senz’altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti.
Volontà generale è un’altra delle parole “inventate” dalla rivoluzione francese, cioè se la legge è
espressione della volontà della generalità dei cittadini francesi, non può che essere giusta ed avere
contenuti positivi apprezzabili. Questo sarà il dramma con cui si dovrà fare i conti nel secondo 900’
quando si capirà che questa legge potrà avere contenuti insopportabili e odiosi, come ad esempio la
legislazione raziale. Calamandrei dirà che ci siamo accorti troppo tardi che la legge è un calco nel
quale si può colare l’oro o il piombo, cioè il fatto che la legge sia espressione di un organo
rappresentativo non garantisce necessariamente sulla bontà dei suoi contenuti.
Questo è il nodo irrisolto della rivoluzione francese, ma anche di tutti gli ordinamenti continentali, il
fatto che non c’è nessuno che fa la “guardia al legislatore” e non c’è nessuno proprio perché gli
ordinamenti continentali nascono all’ombra di questa sfiducia forte nei confronti del giudice. Il
giudice, espressione di una casta potentissima, è depositario di un sapere esoterico, non è visto come
il custode degli interessi della generalità, ma è visto come espressione di interessi parziali, sezionari.
Nel momento in cui si dice che la legge è espressione della volontà generale, la grande virtù
riconosciuta alla legge è quella di rendere tutti uguali ai suoi occhi. La legge è genericamente un
comando del parlamento, una norma promulgata secondo certe procedure, ma nulla vieta che questa
norma si rivolga a una categoria di cittadini o contenga un regime differenziato per una categoria di
cittadini. Ma quello che agli occhi dei rivoluzionari costituiva il valore aggiunto della legge era la
capacità della legge di livellare tutti i cittadini, cioè la legge ha di fronte a sé una società di cittadini
uguali, non ha una rete di corpi, di ceti e di realtà locali. La legge serve a dire, ed è una fonte veramente
decisiva nella misura in cui rende tutti uguali ai suoi occhi e seleziona i cittadini non sulla base della
nascita o del ceto, ma sulla base della loro capacità.
Qui prende corpo un altro dei grandi temi della modernità, cioè l’idea che è libero il soggetto che è
tenuto ad obbedire solo alla legge. Dunque l’idea che la libertà consiste nell’essere sottoposti solo
alla legge e non alla volontà di altri uomini, cioè la legge ha questa carica positiva agli occhi dei
moderni perché libera l’individuo dai legami che lo legavano ai vecchi ceti e ai vecchi poteri, spezza
i legami di dipendenza personale, cetuale e corporativa e lascia di fronte all’individuo solo l’autorità
dello stato. Dunque libertà nell’obbedire alla legge perché se un sistema si regge sulla legge vuol dire
che è stata fatta tabula rasa di tutti quei vincoli di natura cetuale, corporativa e personale che legavano
l’individuo di ancien regime.
Investire sulla legge per i rivoluzionari serve a sgombrare lo spazio mediano da tutte quelle presenze
che si frapponevano fra lo stato e l’individuo. Non è un caso che una delle prime preoccupazioni della
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rivoluzione sia stata quella di abolire tutti gli enti intermedi fra l’individuo e lo stato, scioglierli e
vietarne la costituzione nel futuro. Questo avviene con una legge famosissima, Le Chapelier, dal
nome del deputato che la promosse. Questa legge sarà in vigore fino al 1864 e solo in questo anno si
riammetterà la costituzione di formazioni intermedie, in questo caso saranno soprattutto le
associazioni operaie.

Diritti individuali, stato e legge non sono vissuti dai rivoluzionari come dimensioni potenzialmente
in conflitto. La rivoluzione americana tendeva a proteggere i diritti degli individui dalle dipendenze
del legislatore, ma li affida al giudice perché temeva le istituzioni statali nei confronti delle
prerogative individuali. In questo caso, invece, la legge non può essere qualcosa di potenzialmente
afflittivo nei confronti dei diritti individuali ma questa triade sono i tre capitoli necessari di un unico
processo liberatorio. I diritti degli individui esistono e sono tutelati se e in quanto esiste uno stato,
cioè un potere politico che parla attraverso legge. Il fianco scoperto della rivoluzione francese riguarda
la possibilità di controllare il legislatore, se la legge viene ritenuta una realtà necessariamente positiva,
non sono previsti neanche meccanismi per controllare il legislatore, questo problema si risolve con la
rigidità costituzionale e con il sindacato di costituzionalità. Il sindacato di costituzionalità è un
sindacato di un giudice delle leggi chiamato a valutare la loro conformità alla costituzione. Questo
passaggio non poteva essere fatto proprio dagli uomini della rivoluzione francese. La rivoluzione
francese nasce anche come rivoluzione che vuole stabilire una cesura netta con il vecchio sistema
delle fonti, la legge è la fonte capace di falciare l’ordine giuridico precedente e se la rivoluzione vuole
chiudere con il vecchio sistema delle fonti non può creare un giudice e i rivoluzionari detestavano i
giudici perché era una carica venale. I giudici sono nel mirino dei rivoluzionari e non si può ammettere
anche un giudice chiamato a vigilare sulle leggi. Gli ordinamenti continentali a partire da quello
francese, fanno costantemente i conti con questa sfiducia nei confronti del potere giudiziario,
estranea invece ai i paesi di common law.
Una delle prime preoccupazioni della rivoluzione francese è stato quello di dichiarare nel 1789
vacanti i Parlements e questi non erano veri e propri parlamenti, ma erano gli organi giudiziari della
Francia rivoluzionaria che vengono sciolti e dichiarati vacanti.
Nel 1790 viene stabilito l’obbligo di motivazione delle sentenze che era un modo di controllo del
procedimento argomentativo del giudice e per i processi più complessi viene istituita la giuria
popolare. Nel 1790 viene istituito il Tribunal de Cassation che è un giudice incaricato di vigilare
la corretta applicazione della legge.

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Il rèfèré legislatif è l’ennesima prova di questa mentalità di sfiducia verso il potere giudiziario perché
è un istituto in virtù del quale la corte di cassazione, in caso di dubbio sull’interpretazione della legge,
può o deve interpellare il legislatore su quale sia l’interpretazione corretta. Questo è l’istituto che ci
mette a contatto con l’idea che il giudice non può interpretare le leggi, l’interpretazione delle norme
non è una prerogativa del giudice, ma il giudice è soltanto la bocca della legge cioè è una specie di
logico chiamato a collegare in maniera esclusivamente formale la norma alla fattispecie concreta
sottoposta alla sua decisione. Il giudice si limita ad applicare la legge e questa applicazione è concepita
come attività meramente logico-meccanica (il sillogismo perfetto di Beccaria), non c’è apporto
dell’intelligenza del giudice nell’applicazione della norma perché se una norma è scritta bene il
giudice tira questo ponte logico tra la norma e la fattispecie concreta e questo non richiede una attività
interpretativa. Se c’è un dubbio sul significato delle norme entra in gioco il potere legislativo che è
l’unico potere legittimato chiarire il senso di una norma (diremmo oggi che vale solo
l’interpretazione autentica, cioè solo quell’interpretazione dello stesso potere che ha prodotto la
norma). Il rèfèré legislatif viene abolito nel 1804 perché l’organo legislativo era stato affogato di
richieste da parte della corte. Una frase di Robespierre ci fa capire il modo di concepire il rapporto tra
legge e interpretazione e dice: “La parola giurisprudenza dei tribunali deve essere ignorata dalla
nostra lingua. In uno stato che ha una costituzione e una legislazione, la giurisprudenza dei tribunali
non è altro che la legge e allora c’è sempre perfetta identità di giurisprudenza.” Cioè l’idea di
interpretazione giudiziale difforme dei tribunali del diritto, è una parola che deve sparire dalla lingua
francese. perché se c’è una legge ed ha certe caratteristiche, il giudice non fa che ribaltare e applicare
sul caso concreto il calco della legge e perché ci sarà sempre identità di giurisprudenza. Se la legge
ha queste caratteristiche e il giudice si limita ad applicare la legge non si potrà che avere identità di
giurisprudenza perché il giudice è il ponte logico tra la norma e il caso della vita che deve giudicare.
In queste parole c’è ingenuità perché ogni caso concreto ha caratteristiche specifiche che rendono
impossibile questa opera di sutura meccanica tra norma e fatto ma nell’entusiasmo di questi uomini
questa affermazione è possibile.

Le consolidazioni
Il 700’ viene qualificato come il secolo delle rivoluzioni e delle consolidazioni. Le consolidazioni
ci portano in contatto non col il 700’ rivoluzionario riformatore, cioè con quella parte del secolo
che realizza importanti cambiamenti attraverso le riforme. La consolidazione è una raccolta di
materiale normativo pregresso, cioè di solito già esistente effettuata allo scopo di garantire una
maggiore certezza del diritto. Le consolidazioni nascono come strumento per mettere ordine in
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quell’ammasso confuso di norme della diversa provenienza che si erano accumulate nei secoli senza
alcun principio che determinasse quale norma dovesse considerarsi vigente e quale no. Nascono come
risposta per avere una mappatura più certa del diritto vigente in un determinato ordinamento. Molto
spesso delle consolidazioni si parla come se fossero l’antecedente incolore rispetto alla grande cesura
rappresentata dalla codificazione.
Questa lettura, però, non è convincente, perché, è vero che il codice rappresenta un grande momento
di cesura, ma è vero anche che il ruolo e la funzione delle consolidazioni non va sottovalutato. Le
consolidazioni esprimono comunque l’esigenza e il tentativo di ridisegnare l’equilibrio tra i poteri
e le diverse forze che agiscono in un determinato ordinamento giuridico. Anche le consolidazioni
hanno aspetti diversi nei diversi luoghi in cui vengono promulgate ma è anche vero che sono
identificabili alcune caratteristiche comune in tutte le consolidazioni.
Caratteristiche comuni tra le consolidazioni:
o La prima caratteristica comune più estrinseca è caratterizzata dal fatto che le consolidazioni
non conoscono una nitida spartizione per materie. Mentre nel nostro ordinamento abbiamo
il codice civile, il codice penale, il codice di procedura penale, e quindi una codificazione come
sorta di circolo confinario tra le diverse materie, questo non avviene per le consolidazioni che
invece radunano all’interno di un unico testo disposizioni che appartengono alle diverse
branche del diritto. In sintesi sono testi che abbracciano una latitudine di materie e non
conoscono quella netta partizione disciplinare tipica dei codici.
o Le consolidazioni non prevedono il divieto di etero integrazioni. Le consolidazioni sono
etero integrabili, nel senso che nell’ipotesi di disciplina lacunosa, le consolidazioni sono
integrabili attraverso il ricorso a materiali normativi esterni alle consolidazioni stesse. La
consolidazione non ha effetto abrogativo di ciò che sta fuori di essa.
Esempio: all’entrata in vigore del codice civile francese del 1804 si accompagna una legge che
dichiara abrogato tutto il diritto civile vigente in Francia, quindi il codice si insedia
nell’ordinamento e contemporaneamente viene fuori tutto il diritto civile che sta dentro e fuori
dal codice. Quindi se il codice ha una lacuna non si potrà fare ricorso a queste fonti fuori dal
codice. L’insediamento della codificazione si accompagna sempre alla contestuale
abrogazione delle norme previgente della stessa materia. Quindi l’ipotesi delle lacune non può
essere affrontata a questa fonte esterna al codice. Viceversa la consolidazione non ha questa
pretesa di esclusività rispetto ad una disciplina di una certa materia e non solo si ammette la
possibilità di lacune e che la consolidazione non copra tutte le fattispecie e casi possibili e si

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ammette che le lacune possono essere colmate ricorrendo a materiali normativi esterni alla
consolidazione.
o L’istanza consolidatoria di riordinare le fonti non è tipica del solo settecento perché anche con
il Corpus Iuris Canonis si consolida lo ius umanum, ma una delle caratteristiche tipiche delle
consolidazioni settecentesche lo mostra il terzo tratto e cioè che questi processi consolidatori
sono promossi da monarchi, ovvero dal potere pubblico perché le monarchie vedono nelle
consolidazioni un importante strumento per consolidare il proprio potere.
Nel 400’ il principe faceva redigere per iscritto le consuetudini del nord della Francia ed anche questo
processo non è neutrale perché implica una selezione dei materiali da trascrivere, si darà la preferenza
a consolidazioni che hanno un raggio territoriale più esteso ecc. Con la consolidazione avviene lo
stesso, con la riorganizzazione di materiali giuridici pur già esistenti, serve a filtrare quei materiali e
ad organizzarli e selezionarli in modo anche corrispondente alle ambizioni del sovrano di consolidare
il proprio potere. Vedremo che sono due le direzioni in cui si esplica questa istanza di revisione interna
tra poteri in direzione dell’aristocrazia, perché il monarca tenderà a temperare il rilievo pubblicistico
di questa componente e in direzione dei giudici e dei giuristi che sono i protagonisti indiscussi del
vecchio ordine giuridico. Le consolidazioni mirano a colpire questi due poteri.
Il primo esempio è del 1723, siamo nel Regno di Sardegna e il monarca si chiama Vittorio Amedeo
II di Savoia. In questo anno egli promulga una consolidazione che si intitola “Leggi e costituzioni di
sua maestà il re di Sardegna”. Di queste leggi se ne parla come costituzioni piemontesi e nel 1729
c’è una redazione aggiornata di queste. Nello spiegare il perché di questa consolidazione, Vittorio
Amedeo II dice: “I saggi editti dei nostri predecessori hanno cambiato sorte per il mutare dei tempi
e le sottigliezze dei litiganti; così ci siamo proposti di spiegare il loro senso intrinseco riducendoli in
un limpido e breve compendio che stabilisca una legge facile e chiara. Lo scopo di questa opera è la
felicità dei popoli.”
La prima frase di questa citazione definisce l’attività normativa dei predecessori come “saggia”,
quindi non c’è nessuna furia demolitiva nei confronti del passato. C’è una saggezza del passato, come
lo era invece per i rivoluzionari francesi, che arriva al presente che non deve essere dismessa. Allo
stesso tempo Vittorio Amedeo fa capire come questi saggi abbiamo cambiato sorte e vivevano una
vita diversa da quella che era stata prospettata per loro a causa di due ragioni:
o Una ragione fisiologica, cioè il mutare dei tempi;
o Un dato patologico, cioè le sottigliezze/astuzie dei litiganti. Qui l’astuzia non è attribuita al
cittadino comune in causa, ma a chi lo supporta, cioè al giurista che si muove in questa selva
di norme e attraverso le sue astuzie supporta la causa del proprio assistito. Il dato patologico è
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che questo marasma del dato normativo favorisce le sottigliezze del consulente giuridico più
disinvolto.
Davanti a questa manipolazione del diritto dei giuristi, arriva la mano confortante del Re che mette
chiarezza e riduce questa massa di norme in un limpido e breve compendio che stabilisce una legge
facile e chiara. Le costituzioni piemontesi sono divise in 5 libri e come tutte le consolidazioni tendono
ad abbracciare l’esperienza giuridica nella sua interezza, ci sono norme di diritto penale, pubblico
ecc.
Sul fronte dell’aristocrazia, con le costituzioni piemontesi si riesuma un editto del 1445 per avocare
al demanio, cioè per attribuire alla proprietà pubblica, alcuni feudi che sulla base di quell’editto
risultavano legittimamente costituite. Si introducono anche norme orientate a limitare sia le
sostituzioni fedecommissarie e sia i diritti di primogenitura (il patrimonio viene lasciato al
primogenito maschio) istituto utilizzato dall’aristocrazia per non frazionare i propri patrimoni e
consentiva di mantenerlo integro in un unico erede. Delle sostituzioni fedecommissarie si avvalevano
gli aristocratici ed avevano la stessa finalità ovvero di non frammentare i patrimoni terrieri. Si ha
sostituzione fedecommissaria quando io dispongo per testamento che tizio entri in possesso del mio
patrimonio con l’impegno di ritrasferire quel patrimonio nella sua interezza con l’erede vero e proprio.
Sia la primogenitura che la sostituzione fedecommissaria erano due istituti cardine che avevano
consentito alla aristocrazia di mantenere integro il proprio potere economico e di sottrarre alla libera
circolazione dei beni patrimoni rilevanti, questi sono strumenti che impediscono la libera circolazione
dei patrimoni. Comprimere questi due istituti significa disturbare due pilastri della gestione dei
patrimoni aristocratici.
Le costituzioni piemontesi colpiscono anche il potere dei giudici perché stabiliscono un principio di
gerarchia tra le fonti, questa è uno dei capisaldi del diritto avvenire. Esse indicano al giudice un ordine
di priorità per la decisione delle controversie. Le costituzioni stabiliscono che le controversie devono
essere decise in primo luogo ricorrendo alle norme contenute nelle costituzioni, in secondo luogo
deve guardare cosa dicono gli statuti locali, purché approvati dal sovrano. Se anche guardando agli
statuti locali la controversia resta senza soluzione, si potrà attingere al diritto comune. I primi due
gradini di questa gerarchia si riferiscono a fonti dello ius proprio, cioè le norme consolidate nelle
costituzioni e gli statuti locali. Il terzo gradino in via residuale richiama lo ius comune. In secondo
luogo le costituzioni vietano espressamente agli avvocati di citare nei giudizi le opinioni dei
giuristi e vietano ai giudici di citare le medesime opinioni per argomentare le proprie decisioni.
Le opinioni dei giuristi che costituivano il principale tessuto di appoggio per le decisioni dei giudici

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e le tesi degli avvocati, vengono spazzate fuori dal novero delle fonti del diritto. Dopo 5-6 secoli di
cittadinanza negli ordinamenti giuridici, queste fonti spariscono dall’orizzonte.

AREA PRUSSIANA
L’area germanica è l’area del sacro romano impero il cui inizio, a seconda delle interpretazioni
storiche, si fa risalire o all’incoronazione di Carlo Magno (notte di natale dell’800 d.C.) oppure, forse
più correttamente, all’incoronazione di Ottone I nel 962 e formalmente si dissolve solo nel 1806. Il
sacro romano impero è costituito da una miriade di principati, laici ed ecclesiastici: lo scontro tra
sostenitori del papa e sostenitori dell’impero ha il proprio nucleo originario in Germania. Quindi l’area
germanica è composta da una molteplicità di stati laici ed ecclesiastici che designano l’imperatore ed
è un’area nella quale si manifesta più tardi che in Francia, quella tendenza del potere politico a farsi
stato. In Francia fin dal 300 possono essere registrati i primi segni di un potere politico che ambisce
a diventare stato. Mentre in area tedesca questa esigenza di visibilità autonoma dei singoli stati che
compongono l’impero, comincia a manifestarsi solo nel 700. Quindi non solo passa tutto il medioevo,
ma anche una buona parte della modernità trascorre senza che venga violata questa tessitura
universalistica tipica della realtà imperiale. Quindi l’imperatore è il vertice di un insieme di realtà
politiche che vivono sotto questo manto universale dell’impero. Il sacro romano impero è terra di
rezeption (recezione): la recezione è un processo che ha inizio nel 1495 ed è l’anno nel quale viene
fondato il Tribunale camerale dell’impero che è una sorta di suprema corte che indica ai giudici di
rango inferiore qual è il diritto comune applicabile. Il diritto comune è un diritto risultante dalle
elaborazioni dei giuristi e opinioni di giuristi appoggiati sul diritto romano e sul diritto canonico.
Quindi è un diritto di matrice sapienziale che si era stratificato anche in questo caso nei secoli e quindi
questo tribunale camerale svolge quello che in altre realtà, come la Francia, cominciava a fare la legge
(o il diritto del principe), cioè mette ordine nell’ambito di questa montagna di opinioni dottrinali che
si erano accumunate nei tre secoli precedenti. Dunque il tribunale camerale svolge un ruolo
semplificante e unificante che in altre realtà cominciava a svolgere il principe, il potere politico.
La Prussia settecentesca è il primo stato dell’area germanica nell’ambito del sacro romano impero e
forse la prima realtà politica che ambisce a rivedere il ruolo e i fondamenti del proprio potere. Quindi
tende ad emanciparsi dalla realtà imperiale, cioè tende ad acquisire un’autonoma fisionomia
politica nell’ambito di questa tessitura universalistica che è l’impero e all’interno del principato della
Prussia il principe tende a consolidare la propria posizione attraverso importanti processi
riformatori. Sono due i principi prussiani a cui si deve questa politica riformatrice:
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Il primo di questi monarchi si chiama Federico Guglielmo I, che nasce nel 1688 e muore nel 1740 e
sale al trono nel 1713 regnando fino alla morte.
Il secondo sovrano è Federico II (detto Federico il Grande di Prussia), che è figlio di Federico
Guglielmo, nasce nel 1712, muore nel 1786 e regna dall’anno in cui muore il padre (1740) fino al
1786. Federico il Grande si impegna per tanti anni per avere una consolidazione, ma purtroppo non
fa in tempo a vederla nascere perché muore prima che venga promulgata. Federico II è il tipico
sovrano illuminato, cioè un sovrano che si identifica nelle idee dell’illuminismo, per esempio c’è un
fitto scambio epistolare con Voltaire e lui stesso si cimenta nella scrittura di un’operetta dai contenuti
tipicamente illuministici.
Se Federico II è il tipico sovrano illuminato, Federico Guglielmo I è comunque un sovrano riformatore
e impegna le sue energie politiche soprattutto in una riforma costituzionale. C’è un rapporto
complesso fra monarchia e ceti, soprattutto il ceto aristocratico: perché da un lato il monarca aspira a
comprimere la rilevanza pubblicistica dei ceti e dell’aristocrazia, cioè il fatto che quei ceti avessero
un rilievo costituzionale non meramente privatistico (ordine cetuale vuol dire che c’è una disciplina
giuridica differenziata non solo sul fronte privato, ma anche perché i ceti hanno una rilevanza
pubblicistica, cioè fanno parte dell’orditura costituzionale dello stato); dall’altro il monarca non può
premere troppo su questo pedale perché lo stesso principe è frutto di una concezione cetuale del
mondo, cioè il principe non sta lì perché democraticamente eletto, ma in quanto esponente di un casato
aristocratico, quindi è il gradino più alto dell’aristocrazia di un determinato regno. Federico
Guglielmo I come per comprimerne il potere dell’aristocrazia senza però smentire l’ordine cetuale
lavora soprattutto sulle competenze del geheimer rat (pronuncia: ghehaimer rat). Il geheimer rat
era l’organo costituzionale in cui venivano rappresentati i ceti, una sorta di rappresentanza permanente
dei ceti in cui era assolutamente prevalente la componente aristocratica. È una specie di organo che
affianca il sovrano nella gestione della vita dello stato e si tratta di un consesso che ha moltissime
competenze: ha competenza sulle scelte di politica estera, di politica fiscale, di politica militare,
politiche del culto (le guerre di religione sono una costante nella storia europea e l’illuminismo porta
avanti delle battaglie per la tolleranza religiosa). Federico Guglielmo I crea delle figure nuove che
sono degli organi concorrenti e che progressivamente svuotano di competenze il geheimer rat.
Il colpo di genio sta nel fatto che spesso vengono chiamate a far parte di questi organi concorrenti le
stesse persone che stavano prima nel geheimer rat. In questo modo il re ottiene un riconoscimento
esplicito che è cambiata la fonte di legittimazione del loro potere. Attraverso questo transito di
personale, Federico Guglielmo I scongiura anche resistenze molto forti rispetto alla propria opera
riformatrice. Alcuni di questi organi concorrenti:
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 Nel 1723 crea il direttorio generale che ha competenza in materia fiscale e di amministrazione
del demanio.
 Nel 1728 crea il ministero del gabinetto con competenze in politica estera.
 Nel 1731 istituisce una figura decisiva per la storia tedesca che è il cancellierato. Il cancelliere
è il capo delle strutture amministrative del regno e dipende direttamente dal sovrano.
L’istituzione del cancellierato si accompagna alla nomina del primo cancelliere, che è un
signore che si chiamava Cocceius.
Dopo Federico Guglielmo I muore e sale al trono il figlio, Federico II, che invece concentra i propri
sforzi sulla riforma legislativa e giudiziaria.
Il 9 maggio del 1746 promulga un’ordinanza nella quale affida a Cocceius il compito di riordinare il
diritto. Citazione di una frase tratta dal testo di questa ordinanza: “Principalmente deve essere
ripudiato il diritto romano latino ed essere approntato su base prussiana un diritto territoriale
tedesco che deve fondarsi direttamente sulla ragione naturale e sulle costituzioni del paese.” In meno
di tre righe è insistito il riferimento alla necessità di un diritto specifico per la Prussia e deve essere
ripudiato il diritto romano latino, quindi quel diritto comune che aveva una proiezione universalistica
imperiale che non rispetta i confini dei singoli stati deve essere ripudiato perché quel diritto non
garantisce alla Prussia un’autonoma identità nel quadro dell’impero. Quindi serve un diritto specifico
nazionale prussiano. Ancora questa ordinanza dice: “Nel territorio prussiano si verificano troppe liti
perché non vi è un diritto certo. I tribunali devono giudicare secondo il vecchio diritto romano che
consiste in brani giustapposti senza ordine di cui la metà è inapplicabile a questa terra.” Il vecchio
diritto romano, dice Federico II, non va bene perché è stato interpretato, sono brani giustapposti
(affiancati senza ordine) e non sono adatti alle caratteristiche di questa terra.
Nel 1750 Federico II scrive un’operetta intitolata Dissertazione sulle ragioni di porre e di abrogare
le leggi ed è un vero e proprio distillato di cultura illuministica. Secondo Federico II appunto, la legge
deve essere ragionevole e mirare alla pubblica felicità. Perché questo avvenga la legge deve avere
le caratteristiche tipiche della riflessione illuministica:
 Devono essere leggi formulate in modo chiaro e preciso in modo in modo da essere
interpretate secondo la lettera senza attivare quei meccanismi di interpretazione che rischiano
di tradursi in arbitrio giudiziale.
 Le leggi devono essere poche.
 Devono essere riunite in un corpus unitario perché non si contraddicano a vicenda. Quindi
comincia a trasparire l’idea che se queste norme sono anche nella stessa sede materiale è più
difficile che si contraddicano.
61
 Le leggi dovrebbero prevedere ogni caso futuro e dovrebbero essere benevole soprattutto in
materia penale. Per esempio Federico II è contrario alla tortura. Il processo inquisitorio è un
processo che attribuisce un diverso peso alle diverse prove, la regina delle prove era la
confessione che veniva favorita dalle torture perché solitamente uno confessava. Quindi la
tortura era funzionale a ottenere la confessione, quindi la prova legale più pesante.
In questa operetta vengono elencate tutte le idee tipiche dell’illuminismo, tranne una: l’unificazione
del soggetto di diritto. Quindi l’uguaglianza degli individui non è contemplata proprio perché la realtà
prussiana è una realtà ancora fortemente incardinata sulla struttura sociale cetuale e in cui ancora
manca quel lievito mercantile-borghese che invece in Francia premeva per l’unificazione del soggetto
di diritto.
Cocceius si mette all’opera e propone al monarca Federico II sia una riforma processuale che una
riforma sostanziale. La riforma processuale viene alla luce nel 1748, va in porto abbastanza
speditamente e ha delle caratteristiche tipiche del diritto processuale moderno che si sta emancipando
dalle categorie medievali. Innanzitutto questa riforma esprime l’opzione a favore di una più netta e
chiara professionalizzazione del giudice, anzitutto rendendo il giudice un funzionario dello stato, cioè
un funzionario dipendente dalla macchina statuale e non qualcuno che esercita quella funzione per
ragioni ereditarie o di appartenenza cetuale. Poi per esempio questa riforma indica i criteri sulla base
dei quali debbono essere scelti i giudici. A questo tipo di istanza di professionalizzazione del giudice,
si accompagna la previsione dell’obbligo di motivare le sentenze (questa è stata una delle prime
acquisizioni del processo rivoluzionario francese) e viene poi sensibilmente ridotta la segretezza del
procedimento giudiziale. Quindi c’è una scelta che per il tempo era dirompente e innovativa a favore
di una maggior pubblicità del procedimento.
Mentre la riforma processuale va in porto pienamente, la riforma del diritto sostanziale stenta a
decollare. Con il senno di poi si può dire che l’opera di Cocceius sul fronte della riforma del diritto
sostanziale era destinata al fallimento perché era destinata a non sposarsi con la visione di Federico
II, cioè da ciò che lui si aspettava dalla riforma del diritto sostanziale. Cocceius era un cultore del
diritto romano, cioè di quel diritto che voleva essere ripudiato e accantonato in previsione della
revisione del diritto sostanziale. Cocceius in questa sua veste di cultore del diritto romano aveva
scritto un’operetta intitolato Elementi di giustizia naturale romana in cui mirava a dimostrare la
perfetta identità tra diritto romano e diritto naturale, cosa che non poteva non andar bene a Federico
II. Nel 1749 Cocceius presenta a Federico II un progetto di consolidazione e riforma che aveva
alcuni limiti insuperabili: innanzitutto era formulato come un insieme di norme completamente
svincolate dalla considerazione della realtà prussiana. Per esempio vengono completamente ignorati
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i diritti locali, come le consuetudini e gli statuti locali, si prescinde completamente da questo serbatoio
normativo essenziale per la vita prussiana a favore di enunciazioni più astratte e depurate. Questo
progetto inoltre ha una formulazione poco chiara e scorrevole. Questa proposta normativa è scandita
secondo la partizione romanistica di Gaio tra persone, res (diritti sulle cose), actiones (diritti
processuali). Ancora, questo progetto ha un difetto insuperabile agli occhi di Federico II perché questo
progetto prevede l’unificazione del soggetto di diritto. Con questo Cocceius dimostra di essere
scollato dalla concreta realtà sociale e istituzionale prussiana, conferma questa vocazione astratta,
infatti la realtà prussiana non era pronta a recepire una novità radicale come quella rappresentata
dall’unificazione del soggetto di diritto.
Poi c’è un lungo periodo di stasi in questa opera riformatrice, finché nel 1780 Federico II incarica un
nuovo giurista che si chiama Von Carmer che, insieme a una commissione, elabora un primo
progetto che non viene pubblicato e tra il 1784 e il 1788 viene pubblicato il secondo progetto che
poi in seguito a modifiche diventa il testo che viene promulgato nel febbraio ed entra in vigore il
primo giugno del 1794 (Federico è già morto). Questo testo si chiama ALR ed è considerata dagli
storici come la più importante delle consolidazioni del 700 europeo.
Caratteristiche di questa consolidazione:
 Non c’è una nitida distinzione in materie: si tratta di un’opera che coniuga aspetti privatistici,
pubblicistici, penalistici.
 È particolarmente rilevante e innovativo perché la ALR si pone come norma che sostituisce il
diritto comune, cioè quel diritto di matrice sapienziale assai poco sensibile ai confini politici
degli stati, quel diritto a vocazione universale. Quindi siamo di fronte a un sovrano che ritiene
di poter sostituire il frutto del proprio lavoro a tutto quello che dal punto di vista simbolico e
reale rappresentava il diritto romano.
 Ha una formulazione molto chiara, concisa e illuministica.
 Il paragrafo 6 (in area tedesca le leggi non sono divise in articoli ma in paragrafi) della ALR
stabilisce il divieto per il giudice di decidere le controversie tenendo conto delle sentenze di
altri giudici o delle opinioni dei giuristi. Le controversie si decidono innanzitutto attraverso il
ricorso a un tessuto normativo, limpido, chiaro, nuovo.
Il primo progetto di ALR prevedeva addirittura un divieto assoluto per il giudice di interpretare le
norme, il diritto e anche in questo caso era previsto che il giudice dovesse rivolgersi alla commissione
legislativa, cioè all’organo che faceva le leggi. Nella redazione definitiva dell’ALR, dando segno di
maggiore buon senso, si prevede per la prima volta il riferimento all’interpretazione analogica, cioè
in caso di lacune o in caso di dubbio sul significato di una norma il giudice può ricorrere alla analogia.
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Questo riferimento secondo il giurista Giovanni Tarello era estremamente rilevante perché questa
possibilità di ricorrere all’analogia legis iuris presuppone una concezione del diritto profondamente
diversa da quelle tramandate dal medioevo in poi. In particolare presuppone l’idea che il diritto sia
una realtà organizzata in maniera sistematica, non contraddittoria, non alluvionale perché la ricerca
di regole simili o principi analoghi può venire nell’ambito di un territorio giuridico ispirato a criteri
essenzialmente uniformi e non contraddittori. L’interpretazione analogica presuppone un
ordinamento giuridico organizzato intorno ad alcuni principi riconoscibili, intorno a una non
contraddizione che quindi consente all’interprete di ricavare la regola simile o il principio analogo. Il
ruolo dell’organo legislativo non scompare dal testo definitivo dell’ALR, ma la commissione
legislativa deve essere interpellata solo per i casi ritenuti non risolvibili dal giudice sulla base del
ricorso all’interpretazione analogica e la pronuncia della commissione legislativa vale erga omnes
(vale per tutti i giudici).
Queste sono delle importanti novità introdotte nel tessuto della ALR. Poi vi sono alcune disposizioni
che ci segnalano come la ALR risulti da un impasto di vecchio e di nuovo che è tipico della Prussia e
più in generale di altri paesi dell’area germanica. Il paragrafo 70 prevede che lo stato possa revocare
i privilegi di singoli o comunità solo se viene ritenuto prevalente il bene comune. Tecnicamente i
privilegi sono regimi di diritto eccezionale, sono un tipico retaggio della realtà medievale, cioè si
parla di privilegio quando un singolo o una comunità è esonerato dal rispetto di una norma generale
e può contare su un trattamento giuridico peculiare (speciale). Di solito i privilegi venivano concessi
come premio dal principe per esempio per l’aiuto prestato in guerra. Questa norma sta a metà tra
vecchio e nuovo perché, da un lato, è vero che prevede la possibilità per lo stato di spazzare via i
privilegi, quindi di abolire regimi giuridici speciali, ma allo stesso tempo certifica anche l’esistenza
di regimi di privilegio e dice poi che il sovrano può intervenire su di essi se il bene comune risulta
preponderante. Quindi questa è una norma che può portare l’ago della bilancia più verso l’abolizione
dei privilegi e più verso la loro conservazione a seconda dei concreti equilibri storici. Quindi si
prevede un potere abolitivo ma anche l’esistenza dei privilegi: vincerà l’uno o l’altro polo a seconda
di come si assesteranno gli equilibri storici.

La stessa cosa si può dire per il paragrafo 72 il quale dice che nel caso di abrogazione di statuti, leggi
provinciali e privilegi debbono essere sentiti i pareri e le richieste degli interessati. Si prevede il potere
del sovrano di abrogare queste diversità tipiche della realtà normativa precedente, ma contestualmente
si prevede un’interlocuzione necessaria con gli interessati. Quindi dipenderà dai concreti rapporti di
forza tra questi due poli capire in quale direzione andrà l’ordinamento.
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Il paragrafo 82 indica le fonti dalle quali gli individui traggono i loro diritti e indica tre gradini:
1. Gli individui traggono i loro diritti dalla nascita: l’uomo nasce munito di certi diritti. Dunque
la corrente giusnaturalistica non è passata in vano sulla storia, perché un altro atto ufficiale
pone la nascita come zona capace di conferire diritti agli individui.
2. Gli individui traggono i loro diritti dalla legge: qui c’è il riferimento al giuspositivismo, cioè
è la legge che incarna il diritto naturale. Quindi dal diritto naturale si passa alla legge.
3. Gli individui traggono i loro diritti dal ceto: qui c’è l’ancoraggio dell’ALR al mondo
tradizionale. Quindi l’ordine cetuale (nobili, borghesi, contadini) viene mantenuto e
consacrato dalla ALR. Gioele Solari, grandissimo filosofo del diritto, dice che la ALR non
vuole cambiare il mondo, vuole solo descriverlo da una diversa prospettiva, che è quella della
maggiore centralità del principe, dello stato e del diritto positivo promanante dal sovrano. In
questa espressione si descrive perfettamente il senso della politica riformatrice.

Il 1800
L’800’ è qualificato come il secolo dei codici e degli statuti, che sono le carte costituzionali degli
stati europei ottocenteschi. Ci soffermiamo sulla codificazione e più precisamente sul Code Napoleon
del 1804, sul codice civile austriaco del 1811, il codice civile italiano del 1865 e il BeGheBè
tedesco. Esamineremo queste vicende codificatorie nel senso di vedere come questi codici affrontano
due questioni capitali per il diritto europeo moderno:
 Questione del diritto di proprietà;
 Questione del rapporto tra legge ed interprete.
Vedremo come queste istanze tipiche della modernità, cioè l’individualismo proprietario e la tendenza
a comprimere del giudice, ovvero l’individualismo proprietario e la tendenza a comprimere il ruolo
dell’interprete, entrino in questa esperienza codificatorie diverse tra loro.

Caratteristiche generali della codificazione:


Un primo tratto caratteristico delle codificazioni è rappresentato dalla esclusività, cioè il codice
pretende di essere la fonte esclusiva per la disciplina di una certa materia. Molti di questi caratteri
servono a contrapporre le codificazioni alle consolidazioni. La promulgazione di un codice, non a
caso, si accompagna sempre alla contestuale abrogazione delle fonti concorrenti che fino a quel
momento disciplinavano quella stessa materia. È considerata emblematica la legge del Trenta
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ventoso del 21 marzo 1804 che accompagnava la promulgazione del Code Napoleon, essa stabilisce
l’abrogazione di tutto il diritto civile fino a quel momento vigente compreso il diritto comune.

Un altro tratto caratteristico della codificazione è che essa conosce una nitida partizione per
materie. Il codice nasce anche come strumento di confinazione per distinguere le varie branche del
giure. Quindi c’è un codice civile, un codice penale, di procedura civile e penale e del commercio.
Questa opera di confinazione implica anche una scelta di attribuzione di certi istituti ad una certa
materia. Ad esempio, il diritto di famiglia è estremamente labile e può essere tra il privato e il
pubblico. Quindi questa partizione tra materie non è una operazione neutrale e innocua, ma serve a
definire l’identità delle diverse materie, contribuisce a scandire il mondo del diritto in altrettante
partizioni.

Un’altra caratteristica è la completezza. Il codice, proprio perché aspira a fornire la disciplina


esclusiva di una certa materia, vuole anche essere un testo completo capace di comprendere per intero
ogni caso presente e futuro. Qui c’è stata una evoluzione storiografica da segnalare, perché per molti
anni se si apriva un manuale di storia del diritto, si trovava questo requisito della completezza come
verità indiscutibile dei codici, in realtà, più che di completezza è più corretto parlare di
completabilità. Non tutti i codici nascono con questa pretesa, che non si sa se è più arrogante o
ingenua, di istituire una disciplina completa quindi di poter disciplinare ogni caso presente e futuro,
ma possiamo affermare invece che tutti i codici nascono come testi completabili, cioè che tendono a
stabilire quali sono le condizioni per far espandere la propria capacità regolativa. Il codice è il
testo che detta le condizioni che l’interprete deve seguire per trovare la soluzione al caso concreto. È
comunque il codice che stabilisce quali sono le condizioni di cittadinanza nell’ordinamento
dell’interprete e delle altre fonti. È il codice che dice che tipo di iter interpretativo deve seguire il
giudice o giurista. È il codice che indica l’interpretazione letterale, quella analogica ecc. Non solo è
anche il codice che indica quando, come e a quali condizioni l’interprete può guardare a fonti esterne
per esempio alla consuetudine. Questo vuol dire che è dal codice che partono indicazioni su cosa si
deve fare in caso di lacune, il codice prevede esso stesso i meccanismi per il suo completamento.

Un'altra caratteristica è il rapporto con il passato. Vittorio Amedeo II nel promulgare le costituzioni
piemontesi dice “I saggi editti dei nostri predecessori”. La consolidazione non coltiva un rapporto
polemico con il passato, punta a demolire molto ma senza demolire il passato. La codificazione, al
contrario, tende a vivere sé stessa come importante momento di rottura. Al riguardo, la storiografia
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ha sottolineato quello che è stato chiamato il potere trasfigurante del codice, che vuol dire che alcuni
materiali vecchi della tradizione cambiavano significato per effetto della loro inserzione in un
contesto normativo ed ideale nuovo. Gli storici hanno sottolineato che anche nel caso in cui si registri
la permanenza di materiali normativi tradizionali di solito questi materiali normativi vengono
trasfigurati, cioè acquistano significato nuovo per il fatto di essere inseriti in una struttura normativa
nuova, ossia il codice. Anche materiali vecchi infilati in un contesto nuovo tendono ad acquistare un
significato nuovo, allo stesso tempo si sono sottolineati due diversi livelli di conservazione dei
diversi materiali, cioè due modalità che hanno portato i codificatori a conservare nel codice materiali
tradizionali:
1) Si è parlato da un lato di conservazione volontaria o consapevole, cioè in questo caso i
codificatori hanno consapevolmente mantenuto alcuni materiali normativi di stampo
tradizionali. Dunque c’è stata una scelta consapevole e volontaria dove una parte della
tradizione è stata ritenuta compatibile con il nuovo corso aperto dalla codificazione. Ad
esempio la famiglia patriarcale che riconosce prerogative al padre. Questo è un istituto
tradizionale che però viene consapevolmente mantenuto nel Code Napoleon, perché i
codificatori ritengono che questa strutturazione dei rapporti familiari inpermeata sulla
supremazia del Pather, sia perfettamente funzionale alle esigenze della famiglia borghese che
il codice celebrava. Il Code Napoleon considera la famiglia come entità patrimoniale, il
matrimonio è un’unione di patrimoni prima che di sentimenti e la famiglia è vista come entità
patrimoniale da preservare nella sua consistenza, è una concezione materialistica della
famiglia. I codificatori ritennero che questa struttura patrimoniale della famiglia fosse meglio
garantita dall’amministrazione unica cioè dal fatto di riconoscere questa posizione preminente
nel Pather come amministratore delegato del patrimonio familiare.
2) Del tutto diverso è il caso della conservazione involontaria. In questo caso i codificatori,
conservano a loro malgrado alcuni istituti tradizionali. Si vorrebbe innovare radicalmente e
chiudere con il passato su quei fronti, ma non ci si riesce perché i giuristi devono affrontare
una difficoltà insita nel loro mestiere che è quella di essere consapevoli che c’è una distanza
tra l’enunciazione di un’idea nuova e la capacità di tradurre in norme quella idea. Dunque di
dare a quella idea una adeguata traduzione tecnico-dogmatica e passare da una enunciazione
di una idea alla trasformazione di quella idea in prescrizione in norme. Qui vi è l’esempio del
diritto di proprietà che è l’istituto sul quale gravita l’intera struttura del codice civile francese,
è il suo perno e la proprietà a cui pensano i codificatori è una realtà radicalmente distante da
quella dell’antico regime. È un caso clamoroso perché gli sforzi innovatori sono concentrati
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ossessivamente sul problema della proprietà, questo diritto definito come più che assoluto
quindi c’è bisogno di maggiorare un superlativo e su questo fronte che doveva essere il più
innovatore, i codificatori scontano il loro legame con la visione tradizionale. Da un lato
declamano questa idea di proprietà nuova anche nel codice, e nell’altro lato nella disciplina dei
singoli diritti reali scrivono e dicono cose che potrebbe dire un glossatore medievale. Da un
lato declamano la novità della proprietà codificata ma dall’altro scontano il peso degli schemi
tradizionali e affrontano il problema dei diritti medievali limitati come potrebbe affrontarli un
giurista medievale.

Un’altra caratteristica è che il codice segna la consacrazione compiuta di una idea individualista
di un ordine giuridico. Come già visto, occorrono due poli per il modello individualistico:
l’individuo e lo stato ed i codici accolgono il principio della unicità del soggetto di diritto (uguaglianza
giuridica formale), scompare l’ordine cetuale e corporativo e scompaiono i regimi giuridici
differenziati e tutti i soggetti sono uguali davanti alla legge. Il legislatore non considera più i soggetti
in quanto appartenenti ad un ceto, ad una città o corporazione ma in quanto tali. Abbiamo gli individui
in quanto singoli come soggetti del diritto codificato e questo rappresenta il primo ingresso del
principio di uguaglianza nel mondo del diritto, senza questo passo non si poteva arrivare nemmeno
all’uguaglianza sostanziale. Il codice dal punto di vista delle fonti del diritto è una legge dello stato
avente ad oggetto i rapporti tra privati, il codice segnala la totale appropriazione da parte dello stato
dei rapporti di diritto privato. Per la prima volta il diritto privato finisce in una legge dello stato, si ha
compiuta appropriazione statuale del diritto privato che non se lo scrivono più i privati, non sta più
scritto nelle consuetudini ma è compiutamente statualizzato. Il diritto privato consacrato nei codici
è il diritto che celebra la libertà e l’autonomia individuale, è un diritto che confida nelle capacità
della società di muoversi liberamente. La società del codice è borghese, che compra, vende, contratta,
è una società di formalmente eguali che compie scambi economicamente rilevanti. Questo diritto
privato, che ormai si esprime in una fonte statuale, è un diritto che riconosce la massima agilità di
movimento alla nuova società borghese che celebra le nuove virtù della nuova società borghese. Lo
stato si limita solo a reprimere alcuni atteggiamenti e comportamenti ritenuti antisociali da
stigmatizzare, punisce le violazioni delle relazioni contrattuali come la mancata esecuzione. Lo stato
interviene davanti alla patologia del traffico giuridico, sanziona gli inadempienti, protegge contraenti
virtuosi, si assicura che non venga violato attraverso il diritto privato l’ordine pubblico e il buon
costume. È il volto dello stato minimo che lascia molta libertà alla società ed interviene solo su alcuni
aspetti patologici.
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Il codice rappresenta la compiuta rappresentazione di un modello individualistico di convivenza e per
dire questo abbiamo bisogno di due polarità nettamente qualificate: gli individui in quanto tale da un
lato e lo stato dall’altro. Entrambe queste realtà sembrano essere rintracciabili nel codice civile; esso
rappresenta storicamente un momento grosso di rottura e cioè il momento in cui lo stato si appropria
del diritto privato per la prima volta. Questa appropriazione statuale del diritto privato non ci rimanda
ad una immagine dello stato che sta molto addosso agli affari della società ma ci rimanda al contrario
all’idea di uno stato che consacra e celebra l’autonomia della società. La società dei codici è la società
borghese, cioè è una società immaginata come luogo di scambio contrattuale tra privati. Se questo è
vero capiamo anche perché i codici civili siano stati considerati le autentiche carte costituzionali delle
società ottocentesche. Lo statuto Albertino è invece una carta costituzionale e vedremo come questo,
e tutti gli statuti liberali ottocenteschi, sono prevalentemente disposizioni relative al rapporto tra i
poteri dello stato. Le carte costituzionali formali disciplinano i rapporti tra i poteri dello stato e
omaggiano certe idee costituzionali. Sono poche le disposizioni relative ai diritti individuali e alle
relazioni tra stato e società. Se leggiamo uno statuto ottocentesco non riusciamo a farci una idea del
tipo di società che presuppongono quegli statuti e del tipo di relazione che si immagina tra lo stato e
la società. Nella nostra costituzione repubblicana ci facciamo un’idea sul rapporto tra stato e società
del costituente, progetto non largamente attuato ma dalla lettura della costituzione ricaviamo una
immagine forte. Viceversa non avviene a leggere una carta ottocentesca mentre il codice ci dà una
immagine molto chiara di come si immaginasse la società fatta di liberi e contrattanti, è una società
economicamente vivace rispettata nella sua libertà economica. Leggendo il codice abbiamo un’idea
molto chiara di come sia la società immaginata dai codificatori e anche una immagine chiara di quale
sia il ruolo immaginato per lo stato.
Entra in gioco il “laissez-farire”, cioè vi era l’idea che la società una volta liberata dalle griglie dei
vincoli cetuali e corporativi di polizia, si compone armonicamente in equilibrio e aumenta la ricchezza
delle nazioni quindi questa società di liberi è una società anche economicamente funzionale al
benessere complessivo dei singoli o dei ricchi.

Codice civile francese: Code Napoleon


Questo codice è del 1804. Dal momento dello scoppio della rivoluzione francese dal 1789 alla salita
al potere di Napoleone del 1799, in questo decennio rivoluzionario (chiamato anche di diritto
intermedio) si lavora per confezionare dei codici sia in materia civile che penale. Il codice è una
aspirazione precoce della rivoluzione francese, è una meta perseguita anche se non raggiunta. Il codice
si ha solo con la salita al potere di Napoleone che partecipò direttamente ai lavori della codificazione.
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È vero che il codice francese è frutto anche del periodo napoleonico, ma è anche figlio di una
aspirazione rivoluzionaria. Il codice francese è scritto con un linguaggio particolarmente chiaro e oltre
a questa lingua particolarmente bella ha anche una sistematica molto rigorosa e armonica.
È diviso in tre libri:
1) Il primo libro si intitola “Delle persone”;
2) Il secondo libro si intitola “Della proprietà e delle sue differenti modificazioni”;
3) Il terzo libro si intitola “Dei diversi modi di acquisto della proprietà”.
Questo codice viene definito dalla storiografia come codice materialista e borghese o come codice
dell’avere. Weber dice la modernità deve fare i conti con questo problema di scambiare l’avere per
l’essere. Solo 515 articoli del codice civile francese riguardano le persone, gli altri 1766 riguardano i
beni. Le stesse persone, sono spesso guadate come soggetti matrimonialmente rilevanti e vissute come
proprietari o non proprietari. Basta leggere i titoli del codice per capire come questo graviti
integralmente intorno ad un istituto cardine che è il diritto di proprietà. Il tipo di proprietà che si vuole
mettere al centro del tessuto normativo è una proprietà individuale, unica e liberamente circolante
svincolata da tutti i lacci e gli impacci dell’antico regime. La proprietà come complemento e
proiezione immediata della volontà libera imprenditoriale del ceto borghese uscito vittorioso dalla
rivoluzione. Merlin, deputato dell’assemblea rivoluzionaria francese, nel 1791 pronuncia questa frase
celebre: “Deputati ricordatevi che voi avete cambiato la natura giuridica dei beni.” Quindi la
rivoluzione rivendica per sé di aver rappresentato una cesura rispetto a prima.
Prima dello scoppio della rivoluzione, il regime proprietario era il regime del dominio diviso che
è quella concezione della proprietà inventata dai glossatori medievali intorno al 1200 in virtù della
quale era possibile che sullo stesso bene (di solito la terra) esistessero due tipi di proprietà: una
proprietà diretta, che era la proprietà che noi chiameremo l’intestatario formale del bene, e l’altro
era un dominio utile ed era la proprietà che faceva capo a colui che stava a contatto col il bene e noi
chiameremo oggi il possessore. Questo tipo di costruzione, non condivisa dal diritto romano che
invece vedeva la proprietà monolitica (dominio unico), viene inventata dai giuristi medievali per
rafforzare giuridicamente la posizione del soggetto che fa produrre il bene, che coltiva il campo, che
sfama la comunità.
Il secondo medioevo invece fa i conti con eucarestie e chi sfama la comunità è un soggetto che deve
poter contare su una tutela giuridica forte e la proprietà era una realtà che dava una tutela reale
all’utilizzatore del bene. I medievali si inventano questo tipo di proprietà per fortificare la posizione
di quello che per i romani sarebbe stato il mero possessore. Il dominio diretto non è un’ipotesi di
comproprietà, ma nella comproprietà i due comproprietari sono in una situazione analoga cioè hanno
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gli stessi diritti e facoltà, stanno rispetto al bene nella stessa posizione giuridica, hanno lo stesso
pacchetto di diritto e facoltà. Mentre nel dominio diviso siamo davanti a due proprietà di natura
diversa che prevedono, facoltà, diritti e doveri diversi quindi sono due proprietà diverse che possono
insistere sullo stesso bene. Tra le prime preoccupazioni della rivoluzione c’è l’idea di abolire il
dominio diviso perché con il passare dei secoli la situazione che si creava era che il proprietario diretto
era di solito il nobile o membro dell’aristocrazia e il proprietario utile era il borghese, cioè questo
istituto con il passare dei secoli aveva portato al consolidarsi di questa situazione. Il proprietario
diretto doveva pagare di solito canoni importanti all’aristocratico per poter utilizzare il bene e
sfruttarlo economicamente. La proprietà in capo alla borghesia era onerata e faticosa da gestire e non
poteva circolare. La rivoluzione francese fatta dalla borghesia dichiara abolito il dominio diviso e
dichiara che l’unico proprietario sarà il dominus utilis che si appropria definitivamente di buona parte
delle terre nazionali. Questo è un passaggio epocale, come concepisce il codice questa novità
proprietaria? All’art. 544 c.c. la proprietà è definita come il diritto di godere e di disporre delle
cose nella maniera più assoluta purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi e dai
regolamenti. Il codice recepisce l’idea che esista un solo tipo di proprietà e che consista in un potere
più che assoluto conferito al proprietario. I giuristi davanti a questa definizione, parlano di una
concezione massimamente potestativa del diritto di proprietà. Il diritto di proprietà è l’ombra del
soggetto liberato dai lacci corporativi dell’antico regime e visto come portatore di una volontà piena.
Vi è la celebrazione della volontà individuale, la proprietà è il regno della libera volontà
dell’individuo, i beni sono miei perché posso farci ciò che voglio. Il tessuto normativo coevo
contemporaneo all’emanazione del codice, tendeva a limitare la proprietà per garantire rapporti di
buon vicinato e una pacifica coesistenza tra sfere individuali. Esula dalla mentalità dell’800’ di una
funzione sociale della proprietà o l’idea che la proprietà possa essere uno strumento anche utile a
realizzare finalità ultra individuali. Queste leggi o regolamenti non contengono norme per la tutela di
interessi collettivi o sociali, ma solitamente si limitano a garantire che le diverse sfere proprietarie
convivono pacificamente, sono i rapporti di vicinato che interessano il legislatore. La mia libertà
finisce dove comincia la libertà dell’altro, questa è una massima del pensiero individualistico.

IL CONTRATTO
L’altro istituto cardine intorno al quale gravita il Cod Napoleon è il contratto. Dunque la proprietà e
il contratto sono i due poli intorno al quale è organizzato il Cod Napoleon. Questo non stupisce perché
una certa idea del contratto è considerata parte integrante di quel processo di liberazione degli
individui dagli impacci della società dell’ancien regime. Il contratto infatti è lo strumento principe
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per la circolazione del diritto di proprietà. Gran parte delle fattispecie contrattuali del diritto privato
sono infatti immediatamente o mediatamente legate alla circolazione della proprietà.
La concezione del contratto che traspare dal Cod Napoleon è una concezione individualistica del
contratto, cioè è una concezione che vede nel contratto lo strumento incaricato di consacrare la libera
volontà individuale. L’individuo che contratto del Cod Napoleon è l’individuo liberato dalle
appartenenze, dai vincoli cetuali e corporativi, ed è celebrato come soggetto libero di volere e di
costruirsi la propria sorte.
Definizione che del contratto da il Cod Napoleon:
 Art. 1101: “Il contratto è una convenzione mediante la quale una o più persone si obbligano
verso una o più persone a dare, fare o non fare qualcosa.”
Dal punto di vista storico giuridico questa definizione è un trionfo di astrattezza perché
consacra una concezione massimamente astratta del contratto. Trionfo di astrattezza
significa che la volontà negoziale individuale è lasciata libera di esplicarsi nelle più svariate
direzioni, cioè non c’è riferimento ai contenuti dell’attività negoziale, questi contenuti sono
indicati in maniera estremamente generica. I limiti sono radunabili nella categoria dell’ordine
pubblico e del buon costume. Tecnicamente si dice che questa definizione consacra il
principio dell’atipicità delle figure contrattuali. Anche questa è una novità storica
importantissima. I contratti atipici sono contratti non espressamente disciplinati da un codice,
ma tuttavia reputati possibili e leciti. Sono la manifestazione tipica dell’autonomia contrattuale
individuale: nulla vieta agli individui di convenire intorno a fattispecie contrattuali anche non
espressamente previste dalla normativa, purché siano conformi a regole di fondo
dell’ordinamento. È una novità dirompente perché il diritto romano precedente era viceversa
informato all’opposto principio della tipicità delle figure contrattuali: non vuol dire che i
privati non potessero concludere contratti al di fuori delle fattispecie tipiche, ma voleva dire
che questi contratti atipici eventualmente stipulati dai privati non potevano essere azionati,
cioè non si poteva adire il giudice per patologie legate a quei contratti (per difetti nella stipula,
nell’esecuzione). Qualunque evenienza patologica legata a quei contratti atipici non si poteva
adire il giudice, cioè non si poteva far valere di fronte al giudice le proprie ragioni. Viceversa
il principio dell’atipicità dei contratti, consacrato così solennemente dal Cod Napoleon, mette
sullo stesso piano tutte le fattispecie contrattuali tipiche e atipiche. Questo perché il Cod
Napoleon vuole certificare questo principio nuovo tipico delle società individualistiche, cioè il
principio in virtù del quale la volontà individuale è libera. Tutte le manifestazioni contrattuali
vanno reputate parimenti degne di considerazione da parte dell’ordinamento.
72
 Art. 1134: “Le convenzioni hanno forza di legge per coloro che le hanno stipulate.”
Valore simbolico che viene attribuito alla legge dalla modernità continentale, in particolare
dalla Francia rivoluzionaria e post rivoluzionaria. Vedere nel contratto un atto che ha forza di
legge tra i privati significa chiarire come l’espressione della volontà contrattuale privata
costituisce un lato fondativo del nuovo ordine giuridico.

Rapporto tra legge e giudice/interprete: a riguardo c’è una norma fondamentale che è l’art. 4 del
Cod Napoleon: “Il giudice che rifiuterà di giudicare sotto pretesto di silenzio, oscurità o
insufficienza della legge, potrà essere perseguito come colpevole di denegata giustizia.” Il giudice
che si rifiuta di giudicare è passibile di un’azione per denegata giustizia, cioè gli si può rimproverare
di aver negato la giustizia nel caso concreto. Il giudice non può rifiutarsi di giudicare adducendo
alcune motivazioni, che sono quelle indicate dall’articolo, cioè non può addurre l’insufficienza,
l’oscurità o il silenzio della legge. Questo articolo nel progetto originario del legislatore (Portalis
artefice massimo del Cod Napoleon) era legato a un altro articolo, cioè l’art. 9 del libro preliminare
al codice che prevedeva la possibilità di ricorrere a una valutazione equitativa (una pronuncia secondo
equità) o a i principi del diritto naturale in caso di oscurità o incompletezza del codice. Quindi
nell’intenzione originaria del legislatore si ammette l’evenienza che il codice possa avere delle lacune
e si indica anche al giudice che cosa deve fare per superare queste lacune e oscurità e andare a
sentenza. Il problema parte da qui, perché il libro preliminare, che era stato previsto dai codificatori,
in realtà le sue disposizioni spariscono, non viene promulgato insieme al resto del codice. Quindi il
Cod Napoleon resta munito di questa unica disposizione, cioè l’art. 4 e dunque quale che fosse l’idea
originaria del legislatore il dato di fatto è che l’unico riferimento al rapporto tra codice e giudice è
rappresentato dal testo dell’art. 4. L’art. 4 è stato interpretato dai contemporanei (Scuola dell’esegesi)
nel senso che si trattava di una norma che sancisce la completezza del codice: il codice è un testo
assolutamente completo, cioè è un testo in grado di prevedere qualunque soluzione per qualunque
caso presente e futuro. Quindi questo obbligo del giudice di andare a sentenza sancito dall’art. 4, che
in sé non costituisce niente di anomalo, è stato però concretamente interpretato nel senso che il giudice
doveva trovare solo nel codice la soluzione per ogni caso che si presentava al suo giudizio. Il giudice
doveva fare questo perché poteva farlo, cioè perché il codice era un testo completo che offriva la
possibilità di risolvere ogni caso presente e futuro. Questa norma è diventata, anche a livello
storiografico, l’emblema della completezza del codice: è chiaro che si tratta di un ottimismo di
un’ingenuità importante, ma è l’ottimismo che appartiene agli uomini del primo ottocento. Questa è
una norma che rende il codice un testo blindato e autosufficiente che al suo interno deve e può fornire
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la soluzione per ogni caso concreto. Questa interpretazione così claustrofobica del codice produce nei
decenni successivi un esito solo apparentemente paradossale. L’esito solo apparentemente
paradossale è che in Francia si realizza una imponente creazione giurisprudenziale del diritto, cioè
un diritto che procede per virtù di interpretazioni giudiziali, perché il giudice è costretto a trovare una
soluzione nel codice. Il codice, come qualunque legge, non è onnisciente, cioè non può prevedere
qualunque caso presente e futuro, inevitabilmente ha delle lacune e delle oscurità perché questo è
fisiologico. Però il giudice non può fare a meno di trovare un appiglio all’interno del codice, quindi
di fronte a un caso non chiaro o rispetto al quale non è chiaro quale sia la norma applicabile, il giudice
prenderà un tot di articoli del codice e motiverà la sua decisione appoggiandola a quel certo numero
di articoli del codice. Quando più è forte la distanza tra il disposto codicistico e il caso concreto che
il giudice ha di fronte, tanto più il richiamo al codice sarà formale. Sostanzialmente si avrà una
decisione che fa essenzialmente capo alle capacità argomentative del giudice, alla sua specifica
visione del rapporto che ha di fronte. Quindi si avrà un apporto giudiziale del giudice particolarmente
significativo che entrerà in dialogo con sentenze su casi analoghi di giudici successivi, cioè si avvierà
un dialogo interno alla giurisprudenza che porterà progressivamente al consolidarsi di giudizi
giurisprudenziali spesso anche molto distanti dal tenore testuale del codice. Quindi c’è una specie di
vendetta perché quello che si voleva evitare era proprio l’interpretazione del giudice. Questa ossessiva
ricerca del modo per imbrigliare il giudice, per renderlo servo della legge, per inscatolarne l’operato
all’interno di un processo logico, produce un esito opposto: cioè favorisce la creazione di un diritto a
base giurisprudenziale.

Soluzione data da altri codici diverso da quello francese


Secondo codice che compare sulla scena europea è l’A-BeGheBe, il codice civile austriaco del 1811.
Anche l’Austria è terra di assolutismo illuminato. A partire dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria
si avvia anche nel territorio asburgico un importante processo riformatore che deve molto alle teorie
illuministiche. Il monarca austriaco era anche il sacro romano imperatore, cioè era anche l’imperatore
del sacro romano impero e dunque era garante della tessitura universalistica dell’impero. Quindi non
era facile guadagnare un ruolo diverso per il monarca in Austria proprio perché era così fortemente
legato a questa struttura di origine medievale come il sacro romano impero. Anche in Austria vanno
di pari passo la riforma amministrativa, la riforma giudiziale e la riforma legislativa. Questo A-
BeGheBe non ha alle spalle un processo rivoluzionario, ma un processo riformatore che inizia dalla
metà del settecento e che approda al codice. Quindi il codice ha una gestazione lunga alle spalle, cioè
è frutto di questo processo riformatore che poi “partorisce” il codice. Siccome qualunque norma è
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sempre legata al contesto storico che la produce e che deve disciplinare, l’A-BeGheBe risulta da un
impasto mirabile tra persistenze e novità (tra vecchio e nuovo), perché questa è la cifra di lettura
dell’Austria prima ottocentesca, cioè un paese nel quale convivono elementi fortemente tradizionali
ed elementi più innovatori. La capacità di realizzare questo impasto tra vecchio e nuovo e dunque la
capacità di amalgamare anche cose molto distanti si deve alla sapienza e al buon senso del codificatore
di questo codice che si chiama Von Zeiller (si pronuncia Fon Zailler). Zeiller è un giurista che si
ispira alla lezione di Kant (filosofo dell’individualismo moderno che guarda con favore alle idee
dell’illuminismo), ma allo stesso tempo è fortemente convinto che questo individualismo debba essere
mediato e adattato alle peculiarità delle diverse realtà storiche. Secondo lui questa opera di aderenza
tra storia e idee è fondamentale per il diritto: cioè condizione fondamentale della cittadinanza del
diritto di ogni norma è che questa norma non sia troppo distante dalla realtà che la circonda.

Sistematica dell’A-BeGheBe: è diviso in tre libri:


1. Primo libro si intitola “delle persone”;
2. Secondo libro si intitola “delle cose”;
3. Terzo libro si intitola “disposizioni comuni alle persone e alle cose”.
Non c’è quella centralità assorbente della proprietà che caratterizzava il Cod Napoleon.

Rapporto tra giudice e legge (paragrafo 7): “Qualora un caso non si possa decidere né secondo le
parole, né secondo il senso naturale della legge, si avrà riguardo ai casi consimili, precisamente
decisi dalle leggi, e ai motivi di altre leggi analoghe. Rimanendo non di meno dubbioso il caso, dovrà
decidersi secondo i principi del diritto naturale avuto riguardo delle circostanze raccolte con
diligenza e maturamente ponderate.” (va saputo a memoria per l’esame). Rispetto all’art. 4 del Cod
Napoleon c’è una distanza che si apprezza anche a una prima lettura di questa disposizione.
Innanzitutto si ammette l’evenienza di lacune del codice e questa possibilità è ammessa come
fisiologica, cioè una cosa che può normalmente accadere di non trovare la norma per il caso concreto.
Quindi non solo si ammette l’esistenza di lacune, ma si ritiene che questa evenienza sia fisiologica,
cioè faccia parte dell’ordinaria vita del diritto. Questo porta ad un'altra acquisizione centrale che
distingue la mentalità con cui è stato scritto l’A-BeGheBe, da quella con cui è stato scritto il Cod
Napoleon: che il giudice ha uno spazio interpretativo. L’illuminismo nasce con l’idea che
l’interpretazione in quanto tale sia un’attività diabolica perché buona solo a riportare incertezza, a
favorire arbitrio. Invece qui si riconosce, e si riconosce ugualmente come esigenza fisiologica, uno
spazio interpretativo per il giudice. Questo spazio interpretativo viene però delimitato dal codice
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perché è il codice che indica all’interprete cosa deve fare per cercare la norma, è il codice che detta le
condizioni e le regole che l’interprete deve seguire. Questo avviene con il paragrafo 7, che appunto è
una norma del codice che indica al giudice cosa deve fare e in che ordine deve farlo. I gradini indicati
al giudice sono tre:
1. Il primo gradino è dato da un’interpretazione letterale, cioè un’interpretazione aderente al
significato testuale della norma.
2. Il secondo gradino è dato dall’interpretazione analogica, dove l’analogia presuppone un testo
organizzato sistematicamente, cioè un testo all’interno del quale l’interprete possa trovare
regole simili e principi analoghi.
3. Il terzo gradino è dato dai principi del diritto naturale avuto riguardo delle circostanze
raccolte con diligenza e maturamente ponderate. Questo terzo gradino rappresenta una
fusione incredibile tra istanze diverse: da un lato il diritto naturale, dall’altro il riferimento alle
circostanze raccolte e valutate, cioè alla raccolta e alla valutazione delle circostanze concrete
del fatto che il giudice ha di fronte. Questa raccolta e valutazione ponderata era lo spazio di
apprezzamento tipico che aveva il giudice tradizionale perché il diritto pre-codice è un diritto
che ha un tasso di generalità e astrattezza ridotto rispetto a quello del codice, è un diritto più
casistico. Quindi la ricerca della norma impone una ricostruzione e una raccolta delle
circostanze minuziosa della fattispecie concreta che si giudica perché il raffronto dovrà essere
fatto con norme che hanno ugualmente un’impronta casistica. Quindi questa attenzione alle
circostanze, alla loro ponderazione, è un atteggiamento tipico dell’avvocato e del giudice di
ancien regime proprio perché avevano dinnanzi a loro una normazione da taglio casistico. È
stato detto autorevolmente che la fusione di questi due riferimenti, cioè la raccolta e la
ponderazione delle circostanze tipico dell’ancien regime e il riferimento al diritto naturale che
sembrerebbe invece molto sbilanciato verso la cultura più innovativa del tempo, comunicano
proprio perché il diritto naturale vale a far entrare nel codice regole generali e astratte da un
lato, e dall’altro la necessaria congruenza di quelle regole con il tessuto storico concreto.
Quindi questi due blocchi interpretativi apparentemente così distanti la loro fusione ha un senso
se si ritiene che il codificatore che abbia voluto dirci che vanno bene le regole generali e
astratte, ma sempre vagliate/controllate alla luce della fattualità, quindi di una loro aderenza
necessaria alla fattispecie concreta.
Qui vediamo già una risposta sensibilmente distante al problema dell’interpretazione rispetto a quella
data dai codificatori francesi.

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CODICE CIVILE ITALIANO sul fronte del rapporto fra giudice e legge
Il primo codice civile unitario è del 1865 ed è un codice che ha una chiara ispirazione napoleonica,
nel senso che alcune disposizioni del codice civile italiano rappresentano una traduzione del
corrispondente codice francese. Non a caso è identica anche la sistematica, e identici sono anche i
titoli dei tre libri in cui si divide il codice. Se è indubbia la derivazione napoleonica del codice italiano,
il codice italiano si distanzia su alcuni snodi nevralgici dal modello francese. Queste distanze si
devono in gran parte al buon senso e alla sapienza giuridica dell’artefice del codice civile unitario:
Giuseppe Pisanelli, che è il giurista del codice civile italiano.
Punti che vanno a distanziare il codice italiano dal codice francese:
 Il primo punto importantissimo di distanza dal codice francese riguarda il riferimento alle
persone giuridiche. L’art. 2 c.c. italiano dispone infatti che le persone giuridiche (che all’epoca
si chiamavano corpi morali) godano dei diritti civili secondo le norme e gli usi osservati come
diritto pubblico. La posizione del codice francese in tema di persone giuridiche è una posizione
drastica perché non c’è alcuna menzione delle persone giuridiche, cioè di qualunque forma
intermedia di aggregazione, associazione o ente, che stia tra l’individuo e lo stato. Scoppia la
rivoluzione e si aboliscono tutti i corpi intermedi tra l’individuo e lo stato, quindi la rivoluzione
traduce questa sua pretesa di sbaragliare ogni forma di convivenza mediana tra l’individuo e lo
stato non dando alcun rilievo nel codice, non possono esistere né formalmente né
informalmente. Pisanelli, il quale si rende conto che questa esclusione totale dal tessuto del
codice è irrealistica, decide di menzionare le persone giuridiche/corpi morali nel tessuto del
codice civile. Tuttavia anche il codice civile italiano è ispirato agli stessi principi
individualistici tipici del codice francese (e in genere dei codici ottocenteschi), per esempio
Pisanelli si scusò di aver inserito le disposizioni sulla cittadinanza nel libro relativo alle persone
perché secondo lui il codice doveva essere la legge dell’individuo proprietario, mentre le
disposizioni della cittadinanza alteravano un po’ questa purezza del codice erano disposizioni
a cavallo tra privato e pubblico che non si addicevano perfettamente al codice. Il codice civile
del 1865 riconosceva i diritti civili agli stranieri a prescindere dalle condizioni di
reciprocità: dunque uno straniero in Italia godeva degli stessi diritti degli italiani anche se
l’italiano nel paese da cui proveniva lo straniero non aveva lo stesso trattamento. In sintesi il
codice civile italiano non guarda con distensione alle persone giuridiche, le guarda comunque
con circospezione, sono creature guardate con sospetto, le menziona nel codice, tuttavia,
essendo il codice intriso dei principi dell’individualismo, le persone giuridiche sono comunque
creature non facili da ammettere nel tessuto del codice. Quindi il legislatore non ci dice che le
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persone giuridiche sono soggetto di diritto civile al pari delle persone fisiche, cioè le persone
giuridiche non sono viste come soggetti di diritto civile, in realtà le menziona, ma le attribuisce
al diritto pubblico: cioè dice che godono dei diritti civili secondo le norme e gli usi osservati
come diritto pubblico, il che non vuol dire che sono persone giuridiche pubbliche, ma vuol dire
che i diritti civili spettanti alle persone giuridiche, non sono previste dal codice civile, ma dal
diritto pubblico. Dunque le persone giuridiche vengono ammesse nel tessuto codicistico, ma le
guarda con sospetto, cioè le pone sotto la tutela del diritto pubblico.
 La seconda differenza è che il codice civile italiano disciplina il contratto di enfiteusi.
L’enfiteusi è un contratto agrario che si chiama miglioratizio, ciò vuol dire che c’è un
concedente (proprietario del fondo) che concede appunto a un altro soggetto che si chiama
enfiteuta il godimento di un certo appezzamento di terreno. L’enfiteuta si impegna a migliorare
il fondo (renderlo coltivato, se era incolto, o più produttivo) e può essere previsto anche il
pagamento di un canone in prodotti in natura o in denaro. La posizione del codice francese
anche in questo caso è quella di non menzionare l’enfiteusi perché l’enfiteusi nella società di
ancien regime era stato uno dei contratti tipici con cui si era arrivati alla divisione del dominio,
laddove il proprietario era il dominus directus (proprietario diretto) e l’enfiteuta il dominus
utilis. Una delle prime cose che fa la rivoluzione è quella di abolire il dominio diviso, quindi si
riteneva indissolubilmente legato a questo passato con cui si voleva chiudere. Nella situazione
italiana anche qui rileva il buon senso di Giuseppe Pisanelli che è un giurista Pugliese e in
questo caso l’origine meridionale è rilevante perché Pisanelli conosce molto bene una realtà
come quella dell’Italia meridionale caratterizzata dal latifondo, cioè una proprietà terriera in
gran parte organizzata intorno al latifondo: grandissime estensioni di proprietà in mano a un
proprietario. Pisanelli si rende conto che questo contratto di enfiteusi in realtà aveva svolto una
funziona economica importante soprattutto nel sud Italia, cioè aveva consentito la coltivazione
o la migliore coltivazione di terre che altrimenti sarebbero rimaste incolte o mal coltivate.
Quindi non è che il codice civile italiano riconosce il dominio diviso, la proprietà di cui parla il
codice italiano è una proprietà unica, liberamente circolante, è dunque la proprietà del Cod
Napoleon, questo contratto resta con le caratteristiche che ha anche oggi nell’ordinamento
odierno, cioè resta un contratto tra l’unico proprietario del bene e l’enfiteuta che è il coltivatore.
Quindi questa inserzione si deve al buon senso di Pisanelli.

Rapporto tra legge ed interprete nel nostro codice: l’articolo 3 delle disposizioni preliminari o
preleggi: “Nell’applicare la legge non si può attribuirle altro senso che quello fatto palese dal proprio
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significato delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Qualora
una controversia non si possa decidere con una precisa disposizione di legge si avrà riguardo alle
disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe: ove il caso rimanga tuttavia dubbio si
deciderà secondo i principi generali del diritto.”
Sul significato da attribuire a questo articolo sono state spese molte parole, vediamo in maniera
sintetica di farci un’idea del suo significato. Un primo dato è che non si ha quella chiusura del
codice verso l’esterno che è tipica del codice francese all’articolo 4. Anche in questo caso, come
nel caso del codice austriaco, si ammette la possibilità di lacune o di oscurità del codice che sono
considerate anche in questo caso eventi fisiologici nella vita del diritto. È dunque possibile che il
codice non contenga con chiarezza la soluzione per tutti i casi che si presentano all’esame del giudice
e dell’interprete. Anche in questo caso, se l’interpretazione letterale non da esito, cioè se non si trova
una norma che fa al caso che il giudice ha difronte, il giudice può risolvere la controversia ricorrendo
all’analogia. Quindi primo gradino, interpretazione letterale (come per il codice austriaco), secondo
gradino l’interpretazione analogica e terzo gradino i principi generali del diritto. Se il caso rimane
non di meno dubbio si decide secondo i principi generali del diritto. L’articolo 12 delle nostre preleggi
attuale contenuto nel codice, che ha una formulazione testuale quasi identica a questo articolo,
contiene una aggiunta perché dice “Principi generali dell’ordinamento giuridico dello stato”.
L’articolo 12 del nostro codice vigente circoscrive la nozione di principi generali a quelle
dell’ordinamento giuridico dello stato, quindi c’è una chiusura statualistica. Alcuni storici hanno
scritto che questa è una delle poche norme fasciste del nostro codice civile del 42’ proprio perché
trasuda di questo nazionalismo giuridico che ha costituito un tratto caratteristico del fascismo
giuridico. Si fa questo parallelismo tra l’articolo 12 e l’articolo 3 per dire che forse il legislatore del
65’ ammetteva la possibilità di ricavare questi fantomatici principi generali del diritto anche attraverso
una comparazione con sistemi giuridici considerati affini a quello italiano. L’800’ e il secondo 800’
rappresenta il periodo in cui inizia la fase coloniale, quindi la distinzione tra popoli civilizzati e popoli
ritenuti selvaggi è forte e la comparazione potrà avvenire solo con ordinamenti reputati affini per
principi ispiratori e per grado di sviluppo ed evoluzione. Questa è una possibile interpretazione.
Un’altra possibile interpretazione mette in relazione il disposto dell’articolo 3 del codice italiano, con
il paragrafo 7 del codice civile austriaco. Un primo paragone può essere fatto con il testo del codice
successivo tutt’ora vigente, un’altra interpretazione invece tende a mettere in relazione il codice
italiano con il codice austriaco. Nel caso del codice italiano non si ha un riferimento al diritto naturale
il che potrebbe far supporre che il legislatore italiano ha voluto fare riferimento solo a quei principi
di diritto ricavabili dal tessuto del diritto positivo, cioè dal tessuto delle norme esistenti. Tutte
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queste interpretazioni possono essere più o meno valide, è più utile tenere in mente due altre
considerazioni:
Una prima considerazione riguarda la genesi peculiare che il codice ha avuto in Italia: la genesi del
codice italiano è peculiare dal punto di vista storico perché il codice è come se avesse sulle sue spalle
una sorta di peccato di origine perché la codificazione viene introdotta in Italia non per scelta
spontanea e consapevole dei governi e delle popolazioni italiane, ma perché imposta dallo straniero.
Nel 1805 inizia la dominazione napoleonica anche sugli stati che compongono la penisola italiana e
quale effetto della dominazione napoleonica si ha anche l’imposizione dei codici. Napoleone oltre a
cacciare i vecchi sovrani impone anche la codificazione e questa codificazione viene
progressivamente estesa a tutta la penisola italiana, ad eccezione dell’isola di Sardegna, l’isola della
Sicilia e il lombardo-veneto perché nel 1816 viene ceduto all’Austria e da quella data in poi troverà
applicazione il codice civile austriaco. Si può dire che l’unificazione normativa e l’uniformazione dei
sistemi giuridici del diritto sulla penisola italiana, avviene grazie ad una dominazione straniera. Il
primo esperimento di unità giuridica nazionale si ha per effetto della dominazione straniera.
Napoleone poi verrà sconfitto, ci sarà il Congresso di Vienna e si apre il periodo della Restaurazione
dove vengono restaurati i vecchi sovrani sui troni che erano stati portati via da Napoleone. Gli stati
restaurati in Italia, confermano per la stragrande maggioranza la scelta per la codificazione. Quasi
tutti conservano i codici e questi che di solito si chiamano pre-unitari adottati dai sovrani restaurati,
prevedono rispetto alla codificazione napoleonica un regime più tradizionalista in materia di rapporti
familiari e di diritto penale. Fanno eccezione rispetto a questo panorama e dismettono la scelta di
diritto codificato, la Toscana che ripristina per intero il sistema giuridico previgente e conserva
soltanto il codice di commercio e questo è un dato significativo perché il diritto commerciale è quello
che più di altri ha bisogno di uniformità territoriale perché il commerciante vende e compra ed ha
bisogno di regole uniformi e la Toscana per non condannarsi all’isolamento commerciale nel quadro
della penisola conserva il codice di commercio ma smantella la restante parte di diritto codificato.
L’altra eccezione illustre è rappresentata dal Piemonte sabaudo, si parla di terra di ultra reazione che
sbaraglia integralmente il sistema giuridico napoleonico per ripristinare il sistema giuridico
previgente. Bisogna aspettare il 1831, anno nel quale sale al trono Carlo Alberto, per avviare una
stagione codificatoria. Nel Piemonte sabaudo abbiamo due stagioni codificatorie, una va dal 1837 al
1842 e l’altra del 1859 e queste due stagioni portano il Piemonte sabaudo a dotarsi di una
codificazione esemplata sul modello napoleonico. Quindi risiamo più o meno al punto di partenza,
con l’eccezione della Toscana tutti gli stati della penisola italiana e quindi anche dopo la restaurazione
e venuta meno l’eccezione del Piemonte sabaudo, si ha solo l’eccezione della Toscana e tutti gli altri
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stati italiani preunitari hanno sistemi normativi di modello napoleonico e poi inizia il risorgimento e
si comincia a pensare all’Italia come ad uno stato unitario. Questo processo normativo si accompagna
ad un processo politico importante che porta a coagulare un numero crescente di forze intorno all’idea
di una Italia unita. Non si può ammettere unificazione politica senza unificazione giuridica, anzi il
fatto che tutti gli stati hanno adottato soluzioni analoghe cioè codici sul modello napoleonico, fa dire
che questo è un segno lampante del fatto che l’Italia è pronta per essere unita quindi c’è già una
sostanziale uniformità normativa, l’unità politica dovrebbe in qualche modo consacrare questo spirito
unitario che la retorica risorgimentale ha bisogno di dire che c’è questo sentire unitario che è già
proprio dell’Italia e degli Italiani però anche qui per quanto gli sforzi retorici fossero possenti nulla
toglieva al fatto che quei sistemi normativi e quei codici erano un frutto della politica francese
napoleonica. Qui i giuristi italiani danno prova di una di quelle capacità di acrobazie argomentative
che spesso i giuristi hanno, quindi davanti a questa situazione dove questi prodotti normativi sono
riportabili allo straniero. I giuristi italiani impegnati nella battaglia risorgimentale fanno un
capolavoro di argomentazione acrobatico e dicono che il codice come tutte le manifestazioni del
giuridico non nasce dal nulla ma è il frutto di concrete circostanze storiche, economiche, sociali e non
solo, il codice è anche il prodotto ultimo dell’evoluzione del diritto in Europa cioè la millenaria
evoluzione del diritto in Europa ha portato quale suo frutto più recente e glorioso il codice. Quindi il
fatto che questi codici li abbia scritti per la prima volta Napoleone è una mera coincidenza geografica
cioè sono stati scritti in Francia ma è una mera coincidenza geografica perché il fatto che la scelta per
i codici sia stata confermata anche dai sovrani restaurati in Italia cioè anche dalla vecchia guardia
restauratrice, dimostra che i codici sono una richiesta del tempo storico che prescinde dal volto del
sovrano. Il ragionamento è che è vero che li ha portati Napoleone però anche quando Napoleone è
caduto, i vecchi sovrani hanno confermato i codici quindi vuol dire che era proprio la storia a
richiederli. Non basta, l’ultima acrobazia è questa che se i codici sono il frutto ultimo e glorioso di
una evoluzione giuridica millenaria non bisogna dimenticare che la scienza giuridica che il diritto
europeo ha avuto le più nobili radici proprio in Italia. È stata in particolar modo l’Italia la culla di una
sapienza giuridica, dalla scuola bolognese del 1200, a contribuire in maniera decisiva a quella gloriosa
stagione di pensiero che ha nel codice uno dei suoi frutti. In qualche modo il codice in Italia torna a
casa, il fatto che in Italia ci siano dei codici significa che quel processo glorioso torna in patria. In
Italia non si afferma quella totale sudditanza del giurista rispetto al legislatore che invece è tipica della
Francia ottocentesca.
I giuristi italiani accompagnano il percorso codificatorio con certe argomentazioni che tengono
strumentalmente chiaro a presentare la codificazione come esito di una vicenda secolare forse
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millenaria che ha avuto la propria origine in Italia. Questa strategia argomentativa dei giuristi produce
un esito importante e positivo che è quello di mantenere uno spazio, per l’interprete e per il giurista,
di non far scomparire del tutto questi due dietro il legislatore. Uno degli esiti prodotti da questa
strategia retorica è quello di impedire che la scienza giuridica sparisca del tutto dietro al legislatore.
Anche l’atteggiamento dei giuristi in italiani tende a celebrare le virtù della legge, ad ammirare l’idea
di un diritto scritto in forma legislativa quindi ad ammirare il codice ma non si ha mai un tributo
acritico al legislatore in quanto tale. Il culto della legge che c’è anche in Italia nel secondo 800’, non
è mai il culto della nuda volontà del legislatore ma è il culto di una fonte della legge se e in quanto
ritenuta espressione di quella gloriosa tradizione giuridica custodita dai giuristi e quindi espressione
dell’esigenze vere della realtà italiana. Vuol dire che questo modo di argomentare non stritola gli
spazi di apprezzamento per il giurista e l’interprete, questo modo di argomentare ritiene che il lavoro
interpretativo sulla norma sia ineliminabile e necessario ed è probabile che dietro la formulazione del
nostro articolo 3 che autorizza il ricorso ai principi dell’ordinamento giuridico, può darsi che quel
richiamo sia il frutto anche di questo retroterra culturale che non stritola il ruolo dell’interprete.
Mentre il codice civile austriaco ha anche un retroterra politico-culturale, diverso da quello italiano,
frutto di un processo riformatore, di una realtà in cui è molto presente la realtà aristocratica, il
problema forte del codice austriaco è quello di combinare vecchio e nuovo e il paragrafo 7 costituisce
l’esempio di questa combinazione. Il codice civile italiano invece è esemplato sul modello
napoleonico, molte sue disposizioni costituiscono la traduzione letterale del modello napoleonico ma
vi sono anche punti di distanza che possiamo ricondurli a delle caratteristiche come: l’enfiteusi, le
persone giuridiche, il buon senso di Pisanelli ecc… Vi è poi una norma nevralgica sulla
interpretazione perché la modernità continentale tende a celebrare la legge e a deprimere il ruolo
dell’interprete. Un diritto scritto in legge garantisce la certezza del diritto e la garantisce anche perché
ridimensiona il ruolo di giudici e giuristi. Noi abbiamo l’articolo 3 che si iscrive perfettamente nella
logica codificatoria perché ancora una volta è il codice che detta le condizioni che l’interprete deve
seguire per trovare una soluzione e stabilisce il codice tra gradini: l’interpretazione letterale,
l’interpretazione analogica ed infine il ricorso ai principi generali del diritto. Il riferimento ad una
espressione così ampia come i principi generali del diritto è una attribuzione di uno spazio molto
ampio all’interprete quindi vuol dire che in Italia ci deve essere un qualcosa che ci fa capire che il
codice vive in un contesto ideale che non vuole tagliare del tutto le gambe a giuristi e giudici. Una
delle possibili spie del fatto che in Italia c’è qualcosa di diverso è possibile rintracciarla proprio nella
genesi del processo codificatorio perché i giuristi attraverso i passaggi che abbiamo detto,
accompagnano la vicenda codificatoria facendola passare come il frutto di una tradizione gloriosa che
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la scienza giuridica ha contribuito in prima persona a realizzare. La scienza giuridica vigila sul
processo codificatorio e lo valuta aderente alla realtà storica italiana. Questo vuol dire che in Italia
non si ama il codice in quanto codice cioè frutto della nuda volontà del legislatore ma lo si apprezza
come frutto di qualcosa di più articolato e cioè come frutto di quella volontà se e in quanto
corrispondente a ciò che dicono i giuristi come alla tradizione, all’esistenza del tempo presente ecc...
Quindi il giurista non scompare sotto il mantello del legislatore ma rivendica per sé questa capacità
di vigilare sul moto della storia, di decidere cosa sta nella storia e cosa non ci sta. Se tutto questo è
plausibile, si può anche immaginare che quell’articolo 3 non sbuca dal nulla e non sia un dato
eccentrico anomalo ma affondi le proprie radici in questa concezione che non stronca e non fa sparire
il giurista e il giudice dietro il legislatore.
All’inizio su questo discorso dell’articolo 3, nell’ambito delle supposizioni consideriamo due aspetti:
il primo è detto “Processo genetico del codice” (tutto quello che abbiamo detto fin ora), mentre l’altro
è rappresentato da ciò che stava avvenendo in Germania intorno agli anni 10 dell’800’. In quegli anni
prende forma in Germania un movimento culturale importante che si chiama “Scuola storica del
diritto” che ha come esponente di spicco il giurista Savigny. La scuola storica valorizza al massimo
grado l’opera della scienza giuridica, quindi una forza che si contrappone alla visione francese e i
giuristi italiani leggono e conoscono questa corrente di pensiero tedesca a forse anche questo
contribuisce a non far proprie le soluzioni in materia di interpretazione fatte proprie dal codice
francese. Attraversiamo tre codici guardando al problema del rapporto tra interprete e legge e al
problema della proprietà.

Il problema della proprietà in generale


Abbiamo cominciato a prendere confidenza sulla centralità che il diritto di proprietà riveste nella
modernità attraverso l’interpretazione che Weber dà della riforma protestante, interpretazione
discutibilissima che però a noi interessa perché Weber punta il fuoco su un aspetto su cui è difficile
non essere d’accordo, cioè sul fatto che la modernità anche giuridica, tende a sovrapporre il piano
dell’essere a quello dell’avere. Tende a dire quanto più sono quanto più ho, quindi l’avere (il lato
patrimoniale) tende a diventare anche un valore eticamente positivo e questa concezione ha una lunga
storia tutt’ora non esaurita che si nutre anche di una retorica molto forte per cui il ricco è il soggetto
intraprendente, volenteroso, capace di resistere ai vizi e alle tentazioni mentre il povero è il folle, il
vizioso, il pigro e c’è tutta una iconografia della povertà e del disagio che tende a vedervi dei difetti
della volontà dell’individuo. L’individuo marginale è il povero e non ha una volontà abbastanza forte.
Il diritto, che non una entità che galleggia fuori dalla storia, registra puntualmente questa visione che
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la proprietà sia il sinonimo più affidabile della libertà dell’individuo. La libertà è chiaramente un
valore spirituale, la proprietà dovrebbe essere solo un valore patrimoniale invece se la proprietà è
sinonimo di libertà, la proprietà è traghettata già in una dimensione ultra patrimoniale. La modernità
giuridica tende a collocare il diritto di proprietà individuale, in una dimensione ultra patrimoniale cioè
collega alla proprietà privata anche valori diversi da quelli strettamente attinenti alla mera sfera
economica o patrimoniale dell’individuo. Locke diceva che l’ordine è pensabile tra gli uomini perché
c’è la proprietà, quindi non solo la proprietà è un diritto naturale ma è l’unico diritto naturale che
rende possibile una convivenza ordinata. I sistemi elettorali censitari sono tipici del 700’ e 800’, il
censo vuol dire ciò che si ha per cui i proprietari sono per molto tempo gli unici soggetti ammessi
all’esercizio del diritto di voto, quindi la proprietà diventa anche condizione per l’esercizio della più
importante delle libertà politiche. Anche qui la proprietà non è l’insieme delle cose che ho ma è
l’insieme delle cose che ho e che mi consente di fare una cosa diversa. La definizione di proprietà del
codice civile italiano del 1865 è la traduzione letterale di quella del codice di Napoleone, l’articolo
del codice italiano che se ne occupa è il 436 che è la traduzione letterale dell’articolo 544 del codice
di Napoleone. Questi codici, che sono espressione di una mentalità individualistica, danno della
proprietà una concezione potestativa. Vuol dire che la proprietà è concepito come il regno della
volontà individuale libera. La res, cioè il bene oggetto di proprietà, sparisce dietro il soggetto perché
la res è solo oggetto della volontà del proprietario perché è quest’ultimo che conta e può fare della
sua cosa ciò ritiene meglio, la può usare in un certo modo, la può non usare, la può distruggere. Quindi
la cosa oggetto del diritto rileva solo perché è il campo su cui si applica la volontà individuale e così
si ribalta totalmente la concezione medievale della proprietà. Per descrivere infatti la concezione
medievale, si fa spesso riferimento alla nozione di “reicentrismo” che significa centralità della res.
Il bene non rappresenta il lato insignificante del rapporto proprietario, come nella concezione
moderna, ma la cosa è protagonista del rapporto proprietario e non scompare dietro la volontà del
soggetto. La stessa teoria del dominio diviso esprime questa impostazione reicentrica. Il medioevo ha
fame, ha bisogno di coltivare per sfamare una collettività, il dominio diviso è un modo con cui si
riconosce anche il possessore come proprietario quindi si valorizza la sua posizione rispetto alla res.
Questo atteggiamento che fa ribrezzo ai moderni nasce dalla considerazione del valore economico
della res, non ci si può permettere di lasciare campi incolti o mal coltivati. Quindi c’è un valore
economico-sociale della res che si ha bisogno di tutelare e sul quale si inventa la teoria del dominio
diviso. La modernità ribalta questa prospettiva e vede solo nella volontà del soggetto il tratto
qualificante della proprietà.

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Visione della proprietà a confronto
Bartolo da Sassoferrato è il più importante dei glossatori medievali, vive nel 1300 ed è l’inventore
della teoria del dominio diviso. Per lui la proprietà è il diritto di disporre perfettamente di una cosa
corporale dove il diritto non lo proibisca. Due sono le proprietà: la proprietà diretta e la proprietà utile.
Il dominio utile o unico o plurale? Più di uno. Egli spiega che le proprietà sono due e che il dominio
diviso è uno dei modi di organizzazione della proprietà. Parlando del giusnaturalismo abbiamo detto
che si passa da un sapere di tipo argomentativo ad un sapere di tipo dimostrativo, dalla questio alla
demonstratio. Vi è l’idea del giurista, come ogni sapiente, che interroga e risponde, non dimostra ma
intrattiene un rapporto dialogico con il mondo.
Mercièr de la Rivière è un economista francese, 1767, che appartiene alla scuola fisiocratica, è una
scuola economica che prende piede in Francia nella metà del 700’ e che trasporta sul terreno
economico alcuni dei postulati del giusnaturalismo. Ritiene che esista un ordine economico naturale
sorretto da leggi universali di natura che l’ordine giuridico e politico non può rispettare e si tratta di
un ordine che gravità intorno alla centralità della proprietà, sono cose non distanti dal pensiero di
Locke. È questo ordine economico naturale che è incardinato sulla centralità del diritto di proprietà.
Mercièr dice: “Noi procuriamo sempre di consolidare il diritto di proprietà e non di affievolirlo, le
nostre mire ed i nostri comuni interessi sono di garantire il godimento di questo diritto in tutta la sua
pienezza. Lo scopo è quello di garantire il diritto di proprietà i tutta la sua pienezza… Notate qui,
come la libertà sociale trovasi naturalmente contenuta nel diritto di proprietà. La proprietà altro non
è se non il diritto di godere, ora è evidentemente impossibile di concepire il diritto di godere
separatamente dalla libertà di godere. È impossibile del pari che possa esistere quella libertà senza
questo diritto perciò attaccare la proprietà è lo stesso che attaccare la libertà.” Si nota il cortocircuito
tra economico ed etico, la libertà è un valore morale oltre che giuridico e la proprietà è una dimensione
economica. “È dal diritto di proprietà considerato in tutta la sua estensione naturale primitiva, che
risulteranno necessariamente tutte le istituzioni che costituiscono la forma essenziale della società.”
Ciò che di artificiale l’uomo crea sull’ordine naturale, non possono che garantire al massimo la
proprietà. “La prima di queste istituzioni è la legislazione positiva, esse (le leggi) non possono essere
se non atti dichiaratori dei doveri e dei diritti naturali reciproci che sono tutti compresi nella
proprietà.” Quindi la legge deve dichiarare l’ordine naturale e questo ordine naturale è tutto racchiuso
nel diritto di proprietà. “Tutto ciò che esse possono aggiungervi, è lo stabilimento delle pene.” Questo
potrebbe averlo scritto Locke, cioè lo stato nasce per reprimere le eventuali violazioni dell’ordine
naturale e allora si crea la società politica. “Le nostre leggi positive non possono dunque aver nulla

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di arbitrario.” Quindi dunque il criterio per giudicare se una legge è arbitraria o no è vedere se tutela
la proprietà perché è il sinonimo della libertà individuale.
L’articolo 17 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino definisce la proprietà come un
diritto inviolabile e sacro. Sacro è di solito un aggettivo che si riserva ad ambiti diversi dal giuridico,
la sfera del sacro è una sfera di solito distanziata dal lato patrimoniale del giuridico e invece qui si usa
questo aggettivo sacro per il diritto di proprietà.
Articolo 17 della dichiarazione dei diritti del 1793: questa è la dichiarazione dei diritti del periodo
giacobino che viene considerato il periodo più socialmente orientato della rivoluzione francese. In
questa carta si fa riferimento ad un iniziale diritto all’istruzione dei cittadini, è il periodo della
rivoluzione francese che fa fuori il monarca, che prevede il suffragio universale. Quindi questa è
reputata la fase radicale-democratica della rivoluzione francese con qualche ambizione sociale ma
anche in questa fase della rivoluzione francese non si dubita della assoluta centralità del diritto di
proprietà. È chiara la definizione, perché si dice che: “Il diritto di proprietà consiste in ciò che ognuno
è padrone di disporre a suo piacere dei suoi beni.” Quindi in maniera molto spiccia è dichiarato
questo carattere potestativo del diritto di proprietà.

Portalis è il massimo artefice del Cod Napoleon e le sue idee si sostiene abbiano sostenuto e ispirato
la redazione del codice. Si trova in tutti i tempi dappertutto tracce del diritto individuale di proprietà:
l’esercizio di questo diritto, come di tutti i nostri diritti naturali, si è esteso e si è perfezionato con la
ragione, con l’esperienza e con le nostre scoperte di ogni genere. Ma il principio del diritto è in noi,
non è il risultato di una convenzione umana e di una legge positiva, è nella costituzione stessa del
nostro essere e nelle nostre varie relazioni con gli oggetti che ci circondano. Gli uomini non nascono
uguali, né in taglia, né in forza, né in zelo, né in talenti. Il caso e gli avvenimenti mettono tra essi
delle differenze, queste diseguaglianze prime, che sono l’opera stessa della natura, comportano
necessariamente quelle diseguaglianze che si riscontrano nella società. In queste dieci righe c’è
riassunta una certa idea dell’individuo e della società civile.
Innanzitutto il diritto di proprietà è un diritto naturale, quindi è un diritto che per natura appartiene
all’uomo e non è il frutto di una convenzione o di una scelta, ma è parte stessa della natura dell’uomo.
Attaccare il diritto di proprietà è attaccare la natura stessa dell’uomo, per Hobbes il diritto di proprietà
è un diritto positivo e riconosciuto dallo stato, dunque non è un diritto naturale. Mentre da Locke in
poi la proprietà diventa il fulcro dei diritti naturali. Portalis dice che questo diritto si è esteso e
perfezionato, ma il principio del diritto è in noi, cioè la proprietà è una dimensione che appartiene
all’essenza dell’uomo. Poi un passaggio rilevante: uno dei punti di rottura rappresentato dal
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giusnaturalismo è stata l’affermazione dell’uguaglianza originaria degli uomini, cioè gli uomini
nascono liberi e uguali nei diritti. Il prosieguo di questa argomentazione sembra invece smentire
questa idea dell’uguaglianza originaria degli uomini. Portalis infatti dice che gli uomini non nascono
uguali, né in taglia, né in forze, né in zelo, né in talenti. Quindi ci sono uomini più grandi, più piccoli,
più forti, più o meno talentuosi. Il caso e gli avvenimenti mettono tra essi delle differenze, cioè è
casuale nascere più forti, più o meno ingegnosi. Queste diseguaglianze prime, che sono l’opera stessa
della natura, comportano necessariamente quelle diseguaglianze che si riscontrano nella società.
Quindi siccome non nasciamo tutti uguali è chiaro che poi la società è percorsa da alcune
diseguaglianze. In realtà questo modo di argomentare, che potrebbe sembrare lontano dall’idea
giusnaturalistica dell’uguaglianza degli uomini, non lo è come sembra. Innazitutto perché lo stesso
Locke ammetteva diseguaglianze economiche tra gli uomini come una conseguenza perfettamente
compatibile con l’uguaglianza originaria, cioè differenze tra chi accumulava ricchezza e chi invece
aveva lo stretto necessario per vivere attraverso la moneta e la legge di conservazione della specie.
Qui il discorso non è molto diverso, semplicemente si attribuisce al caso, alla natura, una diversa
distribuzione di forze e di talenti. Anche in Locke il soggetto che accumula è quello più talentuoso,
più intraprendente e più dotato. Quindi ci sono queste diseguaglianze casuali, imputabili sono alla
natura che poi determinano le diseguaglianze successive. Resta però indiscusso il principio di
uguaglianza giuridica, cioè il fatto che tutti gli individui siano uguali di fronte alla legge. Questa
logica in seguito verrà considerata una logica spietata innanzitutto perché le diseguaglianze esistenti
nella società, che Portalis dice essere inevitabili, sono attribuite al casuale operare della natura. quindi
non si possono imputare a scelte politiche di governo e soprattutto non si possono sovvertire, perché
sono un dato di natura che va accettato. Il diritto risponde di fronte a questa inevitabilità delle
diseguaglianze trattando tutti allo stesso modo. È qui che è stato colto un profilo specifico di
spietatezza, però con una premessa: facciamo bene ad essere critici verso il principio di uguaglianza
giuridica formale, ma non possiamo chiedere a un uomo dell’800 di pensare come un uomo del
secondo 900, nel senso che comunque l’uguaglianza giuridica formale è stata una tappa importante
nel cammino storico. Qui c’è un profilo di spietatezza, nel trattamento uguale, perché trattare allo
stesso modo situazioni profondamente diverse è un modo per discriminare i lati più deboli della
catena. Quindi non solo è un modo per non toccare il sistema delle diseguaglianze, ma è un modo per
legittimarlo fino in fondo, perché consente di perpetuare la discriminazione verso i lati più deboli
della catena. Il principio di uguaglianza giuridica formale costringe tutti, forti e deboli, a giocare al
gioco della concorrenza, che è un gioco che tende a privilegiare chi parte da posizioni più forti.

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Il contratto è immaginato da tutti i codici ottocenteschi come incontro paritario tra soggetti, come
incontro di volontà libere ed uguali anche quando nei fatti c’era una enorme disparità di forza
contrattuale tra le parti. In sostanza il codificatore ottocentesco non considera le asimmetrie di forza
contrattuale esistente tra i contraenti. Nel caso del contratto di lavoro, raffigurare l’incontro tra
lavoratore e datore di lavoro nei termini di un incontro paritario significa non vedere la posizione di
debolezza in cui di solito si trova il lavoratore. Siamo all’inizio della rivoluzione industriale, nasce la
grande industria nel secondo 800, quindi il lavoro non è tutelato, non esistono le assicurazioni sociali,
non esiste legislazione sociale, quindi sono due soggetti isolati che contrattano. È evidente che c’è
una grossa disparità di forza contrattuale che però il codice non vede.

Testo tratto dai lavori preparatori al Cod Napoleon: il proprietario di una cosa ha il diritto di
usarne come stima meglio, che la conservi o che la distrugga, che la servi o che la doni, egli ne è il
padrone assoluto. Queste due righe restituiscono l’idea dell’assolutezza del dominio, cioè il fatto
che il proprietario è il padrone assoluto della cosa oggetto del suo diritto, può fare ciò che vuole, non
c’è alcun rilievo autonomo della res, la res è solo oggetto della volontà dominativa del proprietario.
Proudhon, (Trattato sulla proprietà – 1839): «E’ grazie alla proprietà che l’uomo dotato dalla
natura di felici disposizioni può coltivare i suoi talenti con maggior successo, dedicarsi meglio allo
studio delle scienze e diventar capace di rendere eminenti servizi alla patria […] Il diritto di proprietà
ispira al proprietario un sentimento di sicurezza nel suo avvenire, lo rende più tranquillo e meno
turbolento, lo incoraggia al lavoro per accumulare nuove proprietà […] ora, gli uomini laboriosi
sono sempre i migliori cittadini […] dà ai padri il mezzo di procurare una buona educazione ai figli
e diviene così una delle molle più potenti di amore paterno e di pietà filiale». Anche qui sono state
selezionate queste poche righe perché da esse risulta con chiarezza l’attribuzione al diritto di proprietà
di una valenza ultra economica, ultra patrimoniale, cioè la proprietà diventa il sinonimo di ultra
cittadinanza. Il buon cittadino è il proprietario. Proudhon cita l’elenco delle cose che solo il
proprietario sa fare: può coltivare i suoi talenti, può dedicarsi meglio allo studio delle scienze, può
rendere eminenti servizi alla patria. Siccome il proprietario è più sicuro della sua situazione
patrimoniale, e quindi anche spirituale, è il soggetto definito il più tranquillo e meno turbolento.
Quindi è un soggetto totalmente affidabile, è un soggetto sereno che non protesta. Inoltre il
proprietario è indotto a lavorare, ad accumulare nuove proprietà. Quindi la proprietà diventa una delle
mole più potenti di amore paterno e di pietà filiale, quindi la proprietà è una delle sorgenti più sicure
dell’amore paterno e del riconoscimento dei figli verso i padri. Quindi a questo diritto vengono
attribuiti tutta una costellazione di significati che travalicano la sfera economico-patrimoniale.
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Un carattere fondamentale del codice è quello che riguarda il rapporto con il passato. Abbiamo parlato
di una conservazione volontaria, consapevole, e di una conservazione involontaria, cioè si è detto che
a volte il codificatore vorrebbe innovare radicalmente rispetto al passato, ma non ce la fa perché gli
manca lo strumentario tecnico-dogmatico che gli consente di tradurre un’idea nuova in norma. Il caso
più clamoroso di questa conservazione involontaria ha riguardato proprio il diritto di proprietà.
Abbiamo visto come la rivoluzione francese, e poi Napoleone, scommettono sul diritto di proprietà.
Il diritto di proprietà è il perno della codificazione, è il perno dell’ordine nuovo, quindi non è uno dei
tanti diritti scritti nel codice, ma è il diritto per eccellenza intorno al quale gravita la codificazione
civile. Tuttavia dalla rivoluzione in poi si osanna questa nuova proprietà liberata, unica, liberamente
circolante; ma poi quando si tratta di travasare queste idee nel tessuto normativo viene fuori che i
giuristi sono ancora impregnati della vecchia mentalità di diritto comune. Nono sono riusciti ancora
a superare quell’idea secolare di proprietà che da Bartolo in poi ha tenuto campo in Europa fino alle
soglie dell’800. Quindi da un lato si vuole rendere quest’idea di proprietà come potere assoluto, come
sintesi di poteri, come pienezza di poteri del soggetto sulla cosa, dall’altro lato però si ricava dal
tessuto del codice e dalle parole dei giuristi chiari segni del permanere di una vecchia mentalità. Paolo
Grossi pensa alla res soprattutto come realtà scomponibile in cui c’è una parte che si chiama sub
stantian e una parte che si chiama utilitas. La relazione con queste due parti della res dà luogo a due
diverse forme di proprietà: il dominio diretto e il dominio utile. Diceva questo perché da Bartolo in
poi la proprietà è stata immaginata come somma di singole facoltà, proprio perché la res si
immaginava come realtà scomponibile, frazionabile. La proprietà è una realtà ugualmente
scomponibile. Quindi manca nella mentalità di questi giuristi l’idea della sintesi: se la proprietà è in
capo a un unico soggetto, cioè se un soggetto ha sia il dominio utile che il dominio diretto, avrà una
somma di facoltà e non una sintesi di poteri rispetto alla cosa. Quindi il diritto di proprietà non è
immaginato come sintesi di potere, ma è immaginato come somma di facoltà. Il titolo del secondo
libro del Cod Napoleon è della proprietà e delle sue differenti modificazioni e quel “modificazioni”
indica i diritti reali limitati. Qui abbiamo una spia verbale rilevantissima perché se i diritti reali limitati
sono visti come modificazioni del diritto di proprietà vuol dire che la proprietà è una somma di poteri
che se ne viene tolto qualcuno si modifica. I giuristi di diritto comune da Bartolo in poi pensano che
la proprietà sia un insieme di componenti (l’uso, il frutto, l’abuso…), cioè pensano che sia dato da
una somma di poteri, se viene tolta una parte di questi poteri la proprietà cambia natura.

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L’art. 544 del Cod Napoleon definisce la proprietà come il diritto di godere e di disporre (questo
vale anche per il nostro codice), cioè indica espressamente due facoltà, ma non ce ne sarebbe stato
bisogno perché se è vero che il proprietario ha un potere più che assoluto sulla cosa non c’è bisogno
di indicare le facoltà, perché può tutto. Invece il fatto che il legislatore debba comunque indicare due
facoltà del proprietario vuol dire che non si è svincolato dall’idea di una proprietà concepita come
una somma di facoltà, come elenco delle cose che il proprietario può fare. Quindi da un lato
l’ambizione di disegnare la proprietà come pienezza di poteri, dall’altro il permanere di una mentalità
che continua a vedere nella proprietà una somma di facoltà. Abbiamo una spia nel titolo del libro II e
nella stessa definizione del diritto di proprietà.

Dehlombe (Corso di Codice civile, 1854): «Il diritto di proprietà racchiude tre attributi, tre
elementi, cioè l’usus, il fructus e l’abusus; tali sono i diritti elementari la cui riunione forma il diritto
complesso di proprietà».
Dehlombe scrive un libro che si chiama “Corso di Codice civile” che è un titolo adottata da molti
giuristi francesi coevi a Dehlombe e appartenenti alla scuola dell’esegesi. La scuola dell’esegesi è una
corrente maggioritaria di pensiero giuridico che prende forma in Francia all’indomani della
codificazione napoleonica. Esegesi vuol dire spiegazione: era l’entusiasmo per il codice in particolare
si era così’ convinti che il codice contenesse tutto il diritto, cioè che il codice fosse il sinonimo del
diritto civile, e che dunque fosse un testo completo ed esaustivo che si riteneva che il compito della
scienza del diritto fosse solo quello di spiegarne le norme. In particolare la scienza giuridica perdeva
spazi interpretativi, spazi di apprezzamento, proprio perché il codice costituiva una tappa esaustiva
nel cammino del diritto che avrebbe reso inutile qualsiasi lavoro della scienza giuridica che non fosse
quello della spiegazione delle sue norme. Tutto il diritto civile stava nel codice, quindi uno studioso
del diritto civile non poteva che scrivere un corso di codice civile in cui spiegasse chiaramente le
norme del codice. Si è parlato di castrazione della scienza giuridica, cioè una scienza giuridica che
accetta di vivere all’ombra del codice senza nessuna autonomia. Questi studiosi si dichiaravano
orgogliosamente professori di codice civile.
Dehlombe ha l’idea che la proprietà è un diritto che risulta dalla somma di tre facoltà, quindi se si
toglie una di queste facoltà si modifica il diritto di proprietà.

Toullier (Il diritto civile francese secondo l’ordine del Codice, 1837): «I diritti reali non essendo
altro che una parte concessa a un terzo dei diritti la cui riunione forma la proprietà perfetta, è

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evidente che questi diritti possono riferirsi al diritto di proprietà, di cui non sono che uno
smembramento».
Toullier è un appartenente alla scuola dell’esegesi e dice che le facoltà di cui consta la proprietà se
attribuiti a terzi producono uno smembramento del diritto di proprietà. Si immagina la proprietà come
un insieme fatto da più facoltà, se ne viene tolta una viene smembrato questo diritto di proprietà.

Marcadè (Spiegazione teorica e pratica del Codice Napoleone, 1855): «ius in re e smembramento
della proprietà sono due espressioni sinonime».
Marcadè afferma che i diritti reali limitati e lo smembramento della proprietà sono uguali.

Francesco De Filippis (Corso completo di diritto civile italiano comparato): «I diritti reali
rappresentano le frazioni, perché sono elementi della proprietà ovvero certi poteri dominicali
staccati dall’intero ed attribuiti a persona diversa dal proprietario … Le frazioni per quanto minime
in proporzioni sono della stessa natura dell’intero. Quindi nei diritti reali si rattrovano quei medesimi
caratteri che sono nella proprietà. È questa la ragione per la quale anche i diritti reali sono chiamati
proprietà con l’aggiunta di semipiena per distinguerla dalla proprietà intera che è detta proprietà
piena».

Nicola Germano (Trattato delle servitù): «Quando si verifica il frazionamento di proprietà,


chiunque abbia una frazione della stessa, ha i poteri del proprietario, sebbene limitatamente a tale
frazione non ha la piena proprietà, perché questa comprende tutti e tre gli elementi che la proprietà
compongono, sostanza, uso o frutto, ed egli non ha che un elemento solo, ma relativamente a questo
è domino assoluto, irrevocabile ed esclusivo».

Francesco De Filippis e Nicola Germano sono due giuristi italiani che vivono all’indomani
dell’emanazione del codice civile perché in materia di proprietà le stesse cose previste per il Cod
Napoleon valgono anche per il codice civile italiano. Il primo degli italiani delle nostre glorie patrie
si chiama Francesco De Filippis il quale afferma che i diritti reali rappresentano le frazioni, sono
certi poteri staccati dall’intero ed attribuiti a persona diversa dal proprietario. Quindi la proprietà viene
considerata come una costruzione lego dal quale viene staccato qualche pezzo che viene attribuito a
un terzo. Poi afferma che le frazioni per quanto minime, sono della stessa natura dell’intero. Sostenere
che le frazioni, cioè l’ultimo dei diritti reali limitati, ha la stessa qualità dell’intero (della proprietà),
significa che tutti questi sforzi fatti per rendere la proprietà un diritto qualitativamente superiore a
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tutti gli altri diritti reali fallisce, si sgretola. Si è tanto detto che la proprietà è il perno dell’ordine
socio-politico, è segno di buona cittadinanza, si è caricata di tanti significati, se poi alla fine è uguale
alla servitù come qualità, si capisce che tutta questa grande enfasi si sbriciola.
L’altra gloria patria si chiama Nicola Gemano, il quale afferma che la proprietà è composta dalla
sostanza, dall’uso e dal frutto. Il soggetto terzo che ha una di queste facoltà (ad es. l’usufruttuario) è
domino assoluto. Quindi di nuovo si smembra questa proprietà e ognuno rispetto al suo pezzetto di
facoltà è domino assoluto. Dunque si disperde la qualità superiore che dovrebbe avere la proprietà
rispetto agli altri diritti.
Il grande salto teorico si ha con la Pandettistica tedesca, cioè bisogna aspettare la Germania del
secondo 800 per avere una visione autenticamente nuova della proprietà, cioè per avere una traduzione
tecnico-dogmatica di questa idea della pienezza, dell’assolutezza del dominio. Una delle
caratteristiche distintive della proprietà è data dall’elasticità. Questa idea dell’elasticità è stata coniata
dalla Pandettistica. Il diritto reale limitato è un qualcosa che comprime il diritto di proprietà, ma non
ne altera la natura, dunque la qualità non muta per effetto della compressione ad opera di altri diritti
reali limitati. Quindi non si ha più una proprietà che si smembra, ma che si comprime e che appena
viene liberata dai pesi riacquista la sua pienezza originaria. Questa idea dell’elasticità è l’idea
risolutiva per conciliare l’idea di una pienezza assoluta della proprietà con la presenza di diritti che
possono comprimerne l’estensione.

Un altro punto di fragilità e di conservazione involontaria della proprietà nel Cod Napoleon: il
Cod Napoleon da pochissimo spazio alla proprietà mobiliare, cioè alle varie forme di proprietà dei
beni mobili. A riguardo ci fu un intervento molto duro e provocatorio di un grande personaggio
dell’800 che si chiama Pellegrino Rossi (intellettuale, giurista, economista, ministro di Pio IX) che
nel 1840 in un discorso di fronte all’accademia di Francia, quindi al cuore della Francia, dichiara che
le concezioni della ricchezza del Cod Napoleon sono paleolitiche. Quindi contesta la concezione della
ricchezza che trapela dal Cod Napoleon. Sono paleolitiche appunto perché è dato poco spazio alla
ricchezza mobiliare e non vi è ancora alcuna menzione dei beni immateriali (res incorporales). Quindi
poche disposizioni sulla proprietà mobiliare e nessun riferimento alla proprietà immobiliare. Secondo
Pellegrino Rossi questo era avvenuto essenzialmente perché la borghesia trionfante, che scrive un
codice confacente ai propri interessi, aveva patito così tanto la supremazia dell’aristocrazia che si era
preoccupata soprattutto della proprietà immobiliare (della terra) che era la tipica proprietà
dell’aristocratico. Si era dunque così immedesimata nella volontà di abbattere i segni del potere
aristocratico che aveva concentrato la disciplina giuridica della proprietà sulla proprietà immobiliare.
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E non si intuisce che invece il futuro della ricchezza sarebbe gravitato in gran parte intorno alla
ricchezza mobiliare e immateriale.

Come affronta il tema della proprietà l’A-BeGheBe


La cifra distintiva di questo codice austriaco è che risulta da un impasto tra vecchio e nuovo. Vediamo
se a questa caratteristica si riscontra anche in tema di diritto di proprietà.
Paragrafo 353: «Dicesi proprietà di alcuno tutto ciò che gli appartiene, tutte le sue cose corporali e
incorporali».
Si ammette la proprietà su beni incorporali, questo è un balzo straordinariamente precoce per l’Europa
ottocentesca. Siamo nel 1811, in una realtà che non ha neanche un ceto borghese così forte. Qui Von
Zeiller è davvero l’unico nel panorama giuridico europeo. Anche il BeGheBe, che è il codice civile
tedesco del 900, che pure è un codice sofisticatissimo dal punto di vista tecnico, non prevede la
proprietà di beni immateriali. Quindi è il primo ingresso dei riferimenti alle res incorporales nella
codificazione europea, è un ingresso solitario perché ancora nel 900 il codice civile tedesco non lo
prevede. Qui si supera l’idea che la proprietà sia l’incontro tra due fisicità: la persona e una cosa
tangibile.

Paragrafo 354: “La proprietà, considerata come diritto, è la facoltà di disporre a piacimento con
esclusione di ogni altro della sostanza e degli utili di una cosa.”
Il codice civile austriaco invece continua a prevedere il dominio diviso. Quindi si fa il più grande
balzo in avanti del diritto europeo, ma si fa anche la scelta più forte di conservazione rispetto agli altri
codici. Il codice civile austriaco è l’unico codice che sanziona il dominio diviso.

Paragrafo 357: «Il diritto sulla sostanza della cosa congiunto in una sola persona col diritto sugli
utili è proprietà piena ed indivisa. Quindi se io ho il dominio sia della sostanza che dell’utilitas sono
proprietario pieno ed indiviso. Se ad uno compete soltanto un diritto sulla sostanza della cosa, e ad
un altro il diritto esclusivo sugli utili di essa, il diritto della proprietà si ritiene diviso e non pieno sì
per l’uno che per l’altro. Il primo si chiama proprietario diretto, il secondo proprietario utile».
Quindi si ha dominio diviso a seconda di che tipo di proprietà si abbia.

Paragrafo 359: «La separazione del diritto sulla sostanza da quello sugli utili nasce o dalla
disposizione del proprietario, o dalla determinazione della legge. Quindi la proprietà si può dividere
o per volontà del proprietario o per disposizione di legge.
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A seconda dei diversi rapporti esistenti fra il proprietario diretto e l’utile, i beni, la cui proprietà è
divisa, possono chiamarsi beni feudali, locazioni ereditarie, ed enfiteusi. Quanto ai feudi se ne tratta
nel diritto particolare feudale. Delle locazioni ereditaria e dell’enfiteusi si parla nel capitolo dei
contratti di locazione». Le intelaiature del mondo feudale tradizionale vengono consacrate insieme al
dominio diviso. Quindi si ha la singolare faccia di un codice che va molto più avanti dei suoi
contemporanei e allo stesso tempo resta molto più indietro degli altri.

BEGHEBE – Codice civile tedesco


Quello che succede nell’area tedesca nell’800 condiziona ancora in gran parte la mentalità dei giuristi.
Il problema del codice si pone anche in area tedesca, in particolar modo in questa disputa che si svolge
nel 1814 tra due giuristi. Il primo si chiama Tibò che nel 1814 pubblica un libricino intitolato
“Intorno alla necessità di una legge civile generale”. Tibò è un liberale, respira a pieni polmoni
queste nuove idee che circolano in Europa e di cui il codice è considerata l’espressione più importante.
Gli piace molto l’idea di una legge chiara, certa, racchiusa in un unico testo. Quindi si dichiara del
tutto favorevole all’idea di una codificazione anche per l’area germanica, ma vede nella codificazione
un formidabile strumento per favorire anche l’unificazione politica tedesca. Proprio per questo, Tibò
non aspira a un codice che sia la copia di quello francese o di quello austriaco, cioè non ritiene che la
codificazione germanica debba avvenire per imitazione per modelli esistenti, ma ritiene che debba
essere scritto un codice nazionale, cioè un codice capace di rispecchiare i caratteri tipici e specifici
del popolo tedesco.
A questa operetta segue una replica durissima di Savigny, che scrive in risposta un’operetta intitolata
“Della vocazione del nostro tempo per la giurisprudenza e la legislazione”. Savigny ha una
formazione personale e culturale profondamente distante da quella di Tibò. È un aristocratico
conservatore, non guarda con grande simpatia alle idee dell’illuminismo ed è invece più vicino alle
idee del nascente romanticismo. C’è molta attenzione anche alle tradizioni, a ciò che viene reputato
tipico della Germania. Questo è il contesto culturale che Savigny sente più vicino e che lo porta a
essere l’esponente più importante della scuola storica del diritto. La scuola storica del diritto reagisce
e contesta l’iper razionalismo illuminista, cioè contesta l’idea che sia possibile scrivere e immaginare
un diritto di ragione universale, un diritto fermato nel testo fisso di una legge, un diritto capace di
svolgere il proprio ruolo ordinante nella realtà prescindendo dell’opera di giudici e giuristi. Scuola
storica del diritto perché si sostiene che il diritto sia un frutto dell’evoluzione necessaria della storia,

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una realtà in continuo movimento come la storia. Quindi non è possibile imbrigliarlo nelle mura di un
codice o di una legge. Savigny fa due paragoni:
1. Nel primo paragona il codice/la legge a una sorta di diga: così come la diga è un’opera
architettonica ingegneristica che blocca il flusso naturale delle acque, allo stesso modo la
legge/il codice bloccano in modo innaturale lo svolgimento necessario del diritto, il fatto che
il diritto sia una realtà in costante evoluzione.
2. L’altro paragone è quello con il linguaggio: secondo Savigny diritto e linguaggio sono due
dimensioni affini perché caratterizzate da una necessaria socialità, perché ci sia linguaggio è
necessario che ci siano due persone e così per il diritto, cioè perché ci sia una regola è
necessario che ci sia una convivenza da regolare. Quindi diritto e linguaggio sono affini perché
connotati da un’intrinseca socialità, ma sono affini anche perché sono realtà in costante
evoluzione, realtà storicamente connotate che risentono dell’evoluzione storica. Dice Savigny
che è impossibile scrivere un dizionario che valga da qui ai prossimi secoli, così come non si
può scrivere un dizionario valido per sempre perché la lingua cambia, muta, si arricchisce di
nuovi vocaboli, ne perde altri, così non si può fare lo stesso col diritto. Il codice è l’equivalente
di un vocabolario che pensa di essere eterno, che pensa di racchiudere una volta per tutte il
diritto e questa è una pretesa fallimentare.
Se il codice è una specie di corpo artificiale che frena arbitrariamente lo sviluppo del diritto, il diritto
è soprattutto nella consuetudine perché la consuetudine è la fonte che più di altre registra fedelmente
le evoluzioni del diritto. Quindi la natura autentica del diritto sta nelle consuetudini. La consuetudine
è una fonte che nasce come fonte del diritto proprio grazie all’evoluzione. Inoltre la consuetudine è
una fonte che nell’ottica di Savigny ha una natura sociale, comunitaria, cioè la consuetudine è quella
fonte del diritto che si produce se e in quanto una comunità, piccola o grande che sia, la osserva.
Quindi la consuetudine non è mai il frutto isolato di una volontà individuale, ma ha un’origine
comunitaria sociale. L’area tedesca, anche con perversioni drammatiche, sente molto forte questa idea
della comunità-società: questi termini in Germania hanno tantissimi sinonimi anche linguistici proprio
perché è un termine rilevantissimo per la cultura giuridica tedesca. Quindi secondo Savigny è la
consuetudine la fonte che garantisce un adeguamento costante del diritto all’evoluzione storica
ed è anche la fonte che è beh agganciata alla sottostante visione comunitaria. Per Savigny il diritto
deve essere espressione dello spirito del popolo (volksgeist) concepito come spirito in costante
evoluzione.
Savigny è il capostipite della scuola storica del diritto, quindi ha l’idea di un diritto che cambia con
la storia. Savigny è un conservatore aristocratico, non è un cantore della spontaneità creativa del
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popolo/comunità. Questa è una precisazione importante. Savigny contesta l’idea di un diritto chiuso
nel codice a favore di un diritto capace di assecondare più plasticamente l’evoluzione storica e di
avere un’origine comunitaria. Tutto questo per Savigny si compendia nell’espressione del diritto
frutto ed espressione del volksgeist. Però questo diritto a matrice comunitaria potrebbe autorizzare
legittimamente l’idea che Savigny è una specie di celebratore di una società che crea il suo diritto,
una sorta di autogestione sociale del diritto. Savigny non celebra la spontaneità inventiva del sociale,
lui è uno scienziato del diritto, un giurista teorico, e quindi ritiene che un ruolo decisivo debba essere
giocato dai giuristi, dagli scienziati del diritto. Nella visione di Savigny gli scienziati del diritto sono
gli autentici custodi dell’evoluzione storica del diritto. Savigny è convinto che questa origine
comunitaria del diritto debba essere vigilato dalla scienza del diritto, sono gli scienziati del diritto la
forza colta che vigila sull’evoluzione del diritto, che organizza questa evoluzione in modo che il diritto
sia un prodotto dello spirito dei tempi. Sono i giuristi gli interpreti più affidabili del moto della storia.
Il custode del diritto non è il legislatore, i custodi autentici del diritto sono gli scienziati, i teorici del
diritto perché è solo questo ceto di giuristi quello capace di garantire che il diritto risponda davvero
allo spirito del tempo.

Gli storici normalmente distinguono tra un primo e un secondo Savigny, cioè tra una prima fase del
pensiero di Savigny e una seconda fase del suo pensiero. Il primo Savigny va approssimativamente
dal 1814, che è l’anno in cui esce il libro “Dell’avocazione del nostro secolo”, al 1840, che è l’anno
in cui Savigny inizia a scrivere un’opera monumentale che resta però incompiuta. Il secondo Savigny
invece va dal 1840, che è l’anno in cui Savigny scrive un’altra opera monumentale intitolata “Il
sistema del diritto romano attuale”, fino alla morte. Il primo Savigny è considerato l’esponente di
spicco della scuola storica del diritto; mentre il secondo Savigny è considerato il primo esponente
della pandettistica. La storiografia più recente è per lo più concorde nel ritenere che queste due
stagioni di pensiero di Savigny non siano in contrasto tra loro, ma siano il logico sviluppo l’una
dell’altra: sono solo apparentemente in contrasto. Nell’idea che i giuristi siano i migliori custodi del
diritto è racchiusa l’idea che i giuristi siano anche i migliori interpreti delle evoluzioni storiche. La
storia si evolve e l’800 tedesco mostra un moto di evoluzione particolarmente impetuoso. Ci sono
periodi che sembrano di stasi e periodi in cui in poco cambia molto. L’800 tedesco è un secolo
impetuoso perché si passa da una realtà prevalentemente agricola a uno sviluppo industriale fortissimo
a partire dagli anni 40-50 dell’800 (nel momento in cui Savigny cambia un po’ posizione). La
Germania è una terra in cui si sviluppa soprattutto l’industria pesante: quindi si passa da una società
agricola (sono società prevalentemente statiche) a una società a sviluppo capitalistico industriale
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fortissimo. In una società come questa che ha conosciuto un rapidissimo sviluppo industriale è
difficile e antistorico continuare a sostenere la centralità della fonte consuetudinaria. Perché si
abbia una norma consuetudinaria servono tempi lunghi di maturazione, quindi è una fonte tipica e
adatta delle società tendenzialmente statiche, cioè società che hanno ritmi lenti di evoluzione. La
consuetudine ha poi un altro vizio intrinseco che è quello del particolarismo: la consuetudine tende
ad avere una vigenza in comunità di piccole e medie dimensioni. Quindi la consuetudine ha due
caratteristiche che la rendono inadatta a una società in forte sviluppo capitalistico:
1. Il fatto che si attaglia alle società tendenzialmente statiche, si produce per evoluzioni lente.
Mentre le società capitalistiche sono società veloci, frenetiche.
2. Il fatto che di solito ha una portata normativa che copre comunità di piccole-medie dimensioni.
Si parla di un progetto culturale che riconosceva la consuetudine quale fonte quasi esclusiva del diritto
vigilata, custodita e interpretata dai giuristi. Questo modello giuridico non tiene di fronte a una società
a capitalismo maturo.
Risposta di Savigny: si rinuncia al ruolo centrale della scienza e si ci affida al legislatore? Era stata
questa la risposta in Francia e in Austria. Non è questa però la risposta di Savigny. La risposta di
Savigny non sta nel senso della abdicazione di fronte al legislatore, ma nell’idea che si deve ripensare
il ruolo della scienza giuridica. Un punto di sutura tra le due fasi di pensiero di Savigny è
rappresentato dalla teoria dell’istituto giuridico che serve a Savigny per ripensare al ruolo della
scienza giuridica. Questa teoria serve a valorizzare al massimo le capacità sistematiche della scienza
giuridica e ad allentare il legame immediato tra le costruzioni della scienza giuridica e il mondo dei
fatti. Alla base di questa teoria dell’istituto giuridico sta l’esigenza di ripensare il ruolo della scienza
del diritto. Si ripensa al ruolo della scienza giuridica affidando ai giuristi il compito di costruire schemi
generali e astratti. Quello che nei paesi a diritto codificato ha fatto il legislatore (fornire schemi
generali e astratti) in Germania lo fa la scienza del diritto: è la scienza del diritto che identifica degli
schemi ordinanti, delle fattispecie generali, capaci di regolare una realtà complessa e in rapida
evoluzione come la realtà tedesca di metà ottocento. Quindi non ci si affiderà più al carattere
puntiforme, instabile delle consuetudini, non si potrà più cercare la regola nella consuetudine perché
è un tessuto troppo variegato. Le regole idonee a regolare la realtà complessa e in rapida evoluzione
non le scrive il legislatore, le scrive la scienza. La teoria dell’istituto giuridico indica il mondo con
cui la scienza giuridica deve lavorare. Il punto di partenza di un buon lavoro di teoria giuridica è
l’osservazione della realtà: osservando la realtà il giurista vedrà che ci sono tanti modi con cui si
realizza a livella consuetudinario un qualsiasi istituto. Quindi il giurista osserva la realtà e scopre
questi tanti modi per regolare determinate vicende giuridiche. Una volta che abbia effettuato una
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ricognizione di questa varietà entrano in gioco le sue capacità sistematiche perché attraverso uno
sforzo di astrazione il giurista deve confezionare l’istituto giuridico. Il giurista depura i dati giuridici
grezzi osservati nella realtà locali e consuetudinarie per ricavare la regola generale. Quindi il rapporto
con la realtà è fortemente mediato dall’opera del giurista, non c’è una impresa diretta, ma viene
mediata dall’opera del giurista, cioè c’è un procedimento astrattivo che consente al giurista di
identificare la fattispecie generale. È come se ci fosse un processo di metabolizzazione dei dati della
realtà e della loro sintesi in una figura astratta. Quindi il ruolo del giurista è diventato qualcosa di più
e di diverso dall’interpretare lo spirito del popolo: si attenua questa vena iniziale di giurista come
lettore dello spirito del popolo e si arriva al giurista costruttore, cioè il giurista che distilla la realtà
e costruisce la casella a portata generale. L’ultimo Savigny è il Savigny che già immagina il giurista
costruttore che crea schemi generali ordinanti. Questo ultimo Savigny è considerato il primo dei
pandettisti.

PANDETTISTICA
La Pandettistica può essere definita come una scuola giuridica di grandissima levatura intellettuale e
culturale che prende piede in Germania nella seconda metà dell’800. Il nome di questa scuola
giuridica deriva dalle pandette, che è l’altro nome con cui si poteva designare il Digesto, è quella
parte del corpus iuris civilis (giustinianeo) in cui erano contenuti i frammenti delle opere dei giuristi
romani. Questi giuristi ottocenteschi si richiamano alle pandette che conteneva frammenti di scienziati
giuristi come loro. Chiaramente non si riproducono nel XIX secolo le soluzioni vecchie di quasi
duemila anni, ma si usa questo riferimento al diritto romano per valorizzare l’apporto decisivo
della cultura giuridica, degli scienziati del diritto. Inoltre il diritto romano fornisce a questi giuristi
un importante serbatoio di tecnica e di linguaggio giuridico.
Caratteristiche di questo movimento di pensiero: l’aspirazione dei giuristi pandettisti è quella di
costruire schemi astratti ispirati al criterio della logica, cioè la costruzione di un insieme di
proposizioni giuridiche legate l’una all’altra da criteri logici. Quindi si è parlato di un pensiero
costruito in laboratorio proprio per indicare questo sforzo incredibile di astrazione e di progressivo
distanziamento degli schemi giuridici dalla realtà fattuale. In sostanza il giurista costruisce schemi
astratti prescindendo dall’osservazione dei fatti, i fatti sono considerati materiale grezzo perché non
filtrato dalla logica, dal ragionamento astratto. Abbiamo anche una cifra verbale molto rilevante di
questo nuovo modo di concepire il giurista come costruttore di schemi astratti e forse la spia più
rilevante è rappresentato dall’ingresso nel lessico giuridico di parole come “dogma” e “dogmatica”.
Se ancora oggi viene utilizzata questa espressione lo dobbiamo alla pandettistica tedesca, cioè
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diventano parole tipiche di giuristi nella seconda metà dell’800 grazie a questa scuola di pensiero.
Questi anzi erano parole che fino a quel momento erano state disprezzate dai giuristi perché erano
tipiche del linguaggio teologico religioso ed erano termini utilizzati per indicare verità assolute che
per i giuristi sembravano verità indimostrate e indimostrabili. Sembravano parole lontane dal tessuto
scientifico giuridico. Il fatto che queste parole siano importate e utilizzate anche dai giuristi segnala
proprio questa nuova vocazione all’assoluto tipica della pandettistica. L’ambizione specifica della
pandettistica è proprio quella di formulare schemi astratti sostenuti da un ragionamento
ferreamente logico, cioè schemi astratti fondati su un’utilizzazione rigorosa della logica e proprio
per questo universalmente validi. La logica è una tecnica argomentativa rigorosa che viene reputata
rigorosamente valida in eterno. Quindi l’idea che si dica dogma o dogmatica nel diritto segnala questa
aspirazione a formulare concetti e schemi universalmente validi.
Jhering (si pronuncia Iering) fonda una rivista (che sarà poi decisiva per la Pandettistica) che si intitola
“Annali per la dogmatica giuridica”. Fin dal titolo della rivista si assume il riferimento alla dogmatica.
Nell’ambito di questa aspirazione a costruire schemi astratti, generali e universalmente validi, viene
riconosciuto un ruolo di assoluta preminenza al diritto civile. Il diritto civile è considerato l’unico
e vero diritto perché sembra l’unico diritto capace di prestarsi a una formulazione autenticamente
astratta, cioè le categorie del diritto civile sembrano categorie eterne astoriche perché è il diritto civile
quello che fa riferimento al soggetto di diritto astrattamente concepito e questo soggetto di diritto è
circondato da fattispecie che si ritengono ugualmente eterne (la compravendita, la locazione, le
successioni). Il diritto civile viene vissuto come una realtà astorica che si nutre di categorie eterne,
quindi è un diritto che si può formulare in maniera completamente astratta, cioè prescindendo dalla
storia. Il diritto per eccellenza è il diritto civile, tutto il resto viene messo dai pandettisti in un unico
contenitore di qualità inferiore in cui sta quello che i pandettisti chiamano il diritto politico: in questo
contenitore informe ci stanno il diritto pubblico, il diritto costituzionale, il diritto penale. Questi diritti
sono impuri, sono diritti meno nobili di qualità inferiore rispetto al diritto civile proprio perché si
prestano meno a essere formulati in termini astratti. Sono legati alle contingenze, quindi non possono
avere un'unica e perfetta formulazione proprio perché risentiranno della situazione storica, dei diversi
regimi giuridici che si succedono ecc.
Citazioni:
 Windscheid (si pronuncia Vinciaid): è considerato il più illustre dei pandettisti e nel 1862 esce
la prima edizione dell’opera intitolata “Il diritto delle pandette” che è considerata la carta
d’identità della pandettistica. Nel 1891 esce l’edizione definitiva che viene tradotta nel 1902
in Italia. “Considerazioni etiche, politiche o economiche, non sono di competenza del giurista
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come tale.” Il buon giurista dunque è quello capace di astrarsi (prescindersi totalmente)
da considerazioni etiche, politiche o economiche.
 Laband: “Il giurista deve costruire una dogmatica. Per assolvere questo compito non c’è
altro mezzo che la logica che non può sostituirsi con niente. Le considerazioni storiche,
politiche e filosofiche per la dogmatica sono un materiale concreto privo di importanza e
spesso nascondono la mancanza di un lavoro costruttivo.” Quindi se ancora nel secondo
Savigny, con la teoria dell’istituto giuridico, il rapporto con la realtà era sempre più tenue, ma
c’era, con la pandettistica si rivendica con orgoglio e come tratto imprescindibile di un buon
lavoro giuridico la recisione di ogni legame con la realtà. Quindi il buon giurista è colui che
costruisce schemi astratti senza farsi condizionare da considerazioni di tipo etico, politico
e filosofico. Qui si entra in contatto con un’altra delle caratteristiche della modernità giuridica
che ci condiziona fino ad oggi in maniera sempre più problematica, cioè l’idea che il discorso
dei giuristi sia un discorso logico formale come tale svincolato da ogni forma di legame con
considerazioni economiche, politiche e sociali. Questa idea che se il giurista è un tecnico e se
è un tecnico è un animale neutrale, è un’opinione ancora molto diffusa, cioè l’idea che le
proposizioni giuridiche e i giuristi siano soggetti neutrali cioè soggetti che non riflettono alcuna
convinzione di tipo politico, storico o economico nel loro mestiere. Questo è impossibile
perché i giuristi sarebbero degli animali eccentrici, anomali, cioè sarebbero gli unici esseri
umani che riescono a fare un discorso svincolato dalla realtà in cui vivono, svincolato dalle
convinzioni più generali. Questo non è umanamente possibile, ma è stato uno dei tratti
distintivi della scienza giuridica almeno fino alla metà del 900, ma ancora si dibatte su questo,
cioè l’idea che il giurista è un animale storicamente neutrale perché riesce a lavorare con spazio
distante dalla realtà. Questo non è possibile, ma questa idea si insedia così prepotente a partire
dalla riflessione pandettistica.

Il modello propugnato dalla pandettistica è una scienza giuridica che assume su di sé e rivendica per
sé orgogliosamente la capacità di costruire schemi ordinanti generali capaci di ordinare la realtà a lei
coeva. Siamo davanti al trionfo dell’astrattezza, queste costruzioni giuridiche sono costruite
astraendosi dalla realtà fattuale. Alcuni degli esponenti della pandettistica rifiutavano la rilevanza per
il giurista di considerazioni etiche, politiche, economiche, questo è considerato un materiale grezzo
che il giurista degno di questo nome non deve tenere in considerazione. Un’altra parola chiave di
questa stagione di pensiero è rappresentata da sistema. Il sistema è dato da quell’insieme di
costruzioni o proposizioni messe a fuoco dalla scienza giuridica dei giuristi, composte armonicamente
100
in una architettura complessa che è il sistema. È una specie di grande edificio che dispone
armonicamente le diverse costruzioni della scienza giuridica. Armonicamente sta a significare che un
edificio tiene quando le singole sue parti sono tenute insieme da rigore logico. Queste disposizioni
sono ben disposte se legate secondo criteri logici rigorosi. È la logica la risorsa che si assume come
rigorosa ed è la risorsa che consente di legare insieme le costruzioni e di ottenere questo maestoso
edificio giuridico.
Prende corpo proprio negli anni della pandettistica, nel secondo 800’ tedesco, l’idea della
completezza sistematica. Se la completezza legislativa appariva un dato impossibile da raggiungere,
viceversa la completezza sistematica è sempre possibile, è la completezza autentica. Se questo edificio
è costruito sulla base di procedimenti logici rigorosi, sarà sempre possibile per via di logica
aggiungere un anello a questo edificio. La logica è una facoltà che non conosce limite, termine quindi
davanti ad ogni esigenza regolativa io potrò sempre trovare una soluzione per via di derivazione logica
(aggiungo una stanza a questo edificio ma questa attività espansiva è sempre possibile perché la logica
è una facoltà che mi dà sempre una soluzione davanti alle esigenze regolative). Questa è una
professione di straordinario ottimismo e in quel momento storico queste sono acquisizioni importanti
che hanno condizionato anche la storia successiva. Nell’ambito di questa concezione del diritto
dobbiamo menzionare Puchta, che è il primo dei pandettisti a parlare di piramide concettuale. Questa
è una piramide di concetti o costruzioni elaborate dalla scienza giuridica che procede da formulazioni
più generiche (vertice della piramide) che via via si articolano fino a proposizioni sempre più
dettagliate (base della piramide). Per far sì che questa piramide sia ben costruita e tenga è necessario
che queste proposizioni siano legate per via logica cioè devono essere logicamente collegate e per
vedere se veramente c’è questa logica rigorosa a legarle dobbiamo fare una prova, andare dai principi
alle regole minute e viceversa. Deve essere possibile scendere e salire e viceversa e deve sempre
tornare la concatenazione delle proposizioni. Ci si deve poter muovere in entrambe le direzioni e se
questo movimento è possibile grazie alla logica vuol dire che la piramide è ben costruita.
Bernard Windscheid scrive “Il diritto delle Pandette” che è una sorta di monumento della scienza
pandettistica, esce in due edizioni e viene tradotto in Italia all’inizio del 900’. Egli è considerato il più
maturo dei pandettisti e il livello di astrazione del pensiero giuridico raggiunge in Windscheid forse i
livelli più elevati. Windscheid oltre ad essere il più grande dei pandettisti è anche il principale autore
del codice civile tedesco, è il codificatore per eccellenza. L’800’ tedesco trascorre all’insegna del
primato della scienza del diritto, da Savigny in poi, e questo primato viene affermato anche in
polemica con le scelte di codificazione. Questo primato della scienza giuridica si alimenta anche di
una carica polemica nei confronti del legislatore, della codificazione. Le voci favorevoli alla
101
codificazione sono perdenti durante l’800’ tedesco, ed è la scienza ad assumersi e a rivendicare per
sé questa capacità di offrire schemi ordinati. Scienza e codice nell’800’ tedesco sono due prospettive
in frizione polemica. Si arriva agli anni 80’-90’ e questa frattura tra scienza e codice si ricompone e
Windscheid è l’uomo simbolo di questa riconciliazione. È emblematico questo profilo perché è il
frutto di quella stagione di pensiero che aveva fortemente affermato il primato della scienza sul
codice, Windscheid non è un giurista qualunque ma è il sommo, il più importante dei pandettisti. Il
diritto, in tutte le sue forme, è sempre espressione di un contesto storico soprattutto quando dichiara
di essere astratto dalla storia. Gli stessi pandettisti sono figli del loro tempo e non poteva essere
diversamente e di quel tempo vogliono essere gli unici soggetti interpreti che offrono il tessuto di
regole e principi che deve regolare quel tempo. L’astrattezza è una dimensione che tende a favorire
lo sviluppo delle società borghesi capitalistiche, l’astrattezza non è una risposta astorica o neutrale
ma è una risposta funzionale al massimo sviluppo economico delle società capitalistiche (qui si
riscontra il superamento del particolarismo giuridico che incontra gli interessi del mercante e del
borghese, l’abbattimento dell’ordine cetuale e corporativo, l’uguaglianza giuridica formale che
impone a tutti di giocare lo stesso gioco e quindi non vede le diseguaglianze di fatto esistenti tra i
consociati). La modernità si sviluppa anche grazie a queste acquisizioni, all’abbattimento dell’ordine
cetuale e corporativo, all’unificazione del soggetto di diritto, all’idea del contratto come incontro
paritario tra le parti. Questo ci serve per dire che i procedimenti astrattivi costituiscono una risposta
alle esigenze delle società ottocentesche quindi non sono una risposta fuori dalla storia ma sono una
risposta funzionale alle risposte di quella storia. Qui è racchiusa anche la ragione per cui si arriva a
codificare. I pandettisti sono uomini consapevoli del loro tempo e si rendono conto che non bastono
più le costruzioni della scienza e questo sforzo costruttivo che fa capo solo alla dottrina giuridica ma
che è necessario un livello di normatività che si incarni in un testo legislativo che sia scritto e
sistematicamente organizzato. Quindi la crescente complessità della realtà tedesca non può essere
governata solo dagli schemi della scienza ma serve una traduzione normativa e però questo codice
tedesco ha delle caratteristiche peculiari perché è figlio della pandettistica, si codifica ma è la scienza
che scrive il codice. Questo BGB è figlio della pandettistica, della raffinatezza delle sue elaborazioni
teoriche, è figlio di una stagione di pensiero altissima, è il codice tecnicamente più raffinato quindi si
codifica ma è la pandettistica che riversa la sua sapienza nel codice stesso. Gestazione del BGB:
1. Primo progetto: 1887;
2. Secondo progetto: 1895;

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3. Secondo progetto modificato: 1896, questo secondo progetto modificato viene approvato nel
96’ ed entra in vigore nel 1900 dopo quattro anni di vacatio legis. Dal primo progetto all’entrata
in vigore passano 13 anni.
PRIMO PROGETTO: l’artefice di questo codice è Windscheid. Questo primo progetto del 1887
viene elaborato in completa solitudine dalla commissione guidata da Windscheid e quello che viene
fuori è una sorta di condensato di cultura pandettistica. È un codice teorico, è una specie di manuale
della pandettistica diviso in articoli ma è un testo che risente di questa elaborazione avvenuta lontano
dalla realtà.
Riceve molte critiche e la prima critica è quella di Otto Von Gierke che è un germanista
intellettuale. I germanisti sono una costola della prima scuola storica che rimangono fedeli a questa
idea del diritto espressione dello spirito del popolo (matrice consuetudinaria) e anche all’idea della
realtà tedesca che abbia matrice comunitaria. Per cui l’individualismo esasperato e le astrattezze della
pandettistica non farebbero parte del corredo genetico della Germania, della sua natura o impostazione
comunitaria. L’opera principale di Otto Von Gierke si chiama “Il diritto comunitario tedesco” in cui
si sostiene come la realtà tedesca non sia individualistica e sia estranea appunto alla mentalità tedesca.
Lo stesso progetto di codice appare un tradimento profondo di questo spirito tedesco, di questa
vocazione consuetudinaria del diritto tedesco. Un progetto dal quale traspare un culto dell’astrattezza
che è lontano anni luce dall’entità profonda della Germania.
La seconda critica è formulata da Anton Menger che nel 1890 scrive un libriccino dal titolo
significativo “Il diritto civile tedesco e le classi lavoratrici nullatenenti”. Questa astrattezza che si
concreta nell’uguaglianza giuridica formale, che è uno dei capisaldi della codificazione tedesca, è
una uguaglianza fittizia formale perché non vede le disuguaglianze di fatto esistenti tra gli individui
quindi si raffigurano gli individui come tutti uguali anche se in realtà uguali non sono e questo
privilegia il soggetto economicamente più forte. Menger parla una lingua nuova, egli è un esponente
del “socialismo della cattedra”. Questo è un movimento di pensiero che prende piede nell’ultimo
ventennio dell’800’ e in Germania e Austria si chiama socialismo della cattedra, in Italia si chiama
socialismo giuridico; sono socialismi non marxisti ma riformatori. Marx voleva la rivoluzione, il
mondo per Marx si salva attraverso una rivoluzione che innovi radicalmente le modalità di produzione
e distruzione del reddito, viceversa questi vari socialismi circolanti nell’ Europa ottocentesca sono
riformatori cioè non ritengono che si debba fare la rivoluzione ma ritengono che si debba aggiustare
alcuni lati dei sistemi giuspolitici delle civiltà borghesi senza tuttavia ribaltare e rinnegarne
completamente le caratteristiche. Lo stesso nome di socialisti della cattedra fu attribuito a questi
intellettuali dai socialisti marxisti, furono chiamati socialisti della cattedra in senso dispregiativo.
103
Erano professori buoni a predicare dalla cattedra qualche correttivi ma non erano socialisti veri
rivoluzionari. La critica di Menger resta inascoltata mentre qualche riscontro avranno nel testo
definitivo del BGB le critiche di Gierke.
Il SECONDO PROGETTO MODIFICATO del 1896 che poi diventerà il testo definitivo del BGB.
La commissione guidata da Windscheid esce dal suo beato isolamento e dialoga durante i suoi lavori
con le categorie, (con il mondo esterno), cerca un dialogo con la società.

Caratteristiche del BGB: Il BGB ha una fortissima impronta pandettistica che si ricava anche dal
linguaggio che è specialistico, tecnico, complesso. È un codice scritto da giuristi, da una cultura
giuridica molto sofisticata e immagina come destinatari altri specialisti, è un codice scritto da giuristi
per altri giuristi, per gli addetti ai lavori. Questo è un tratto indelebile del fatto che sia stato un codice
scritto dalla pandettistica. Il BGB è diviso in 5 libri:
1. Il primo libro si intitola “Parte generale”;
2. Il secondo libro “Il diritto delle obbligazioni”;
3. Il terzo libro “Diritti sui beni”;
4. Il quarto libro “Diritto di famiglia”;
5. Il quinto libro “Diritto delle successioni”.
Se guardiamo alla scansione in libri si può notare un’altra prova forte della origine pandettistica di
questo codice perché c’è questa parte generale che è una sorta di autografo posto dalla pandettistica
in apertura del codice. La parte generale è una sorta di teoria generale del diritto premessa al codice.
È divisa in paragrafi ma è una sorta di premessa scientifica al codice che consta di più di 200 articoli
che trattano delle persone, delle persone fisiche, delle cose, dei negozi giuridici. È una introduzione
al codice che è frutto di un lavoro scientifico di rango elevato, ad un legislatore con caratteristiche
diverse non sarebbe mai venuto in mente una parte generale. La proprietà è un altro dei fronti del
BGB dal quale traspare con chiarezza il flusso decisivo della pandettistica. Abbiamo visto che il
codice francese in generale volesse innovare sul fronte proprietario ma poi infondo non ci riuscì
perché i giuristi erano ancora in crisi della mentalità tradizionale che vedeva nella proprietà una
somma e non una sintesi di facoltà e quindi nei diritti reali limitati delle frazioni dell’intero che
smembravano la proprietà. Il grande salto teorico si fa con la pandettistica, si deve a questa la nozione
anche contemporanea del diritto di proprietà come sintesi di poteri e non come somma di poteri.
Sintesi che non si fraziona per effetto dell’esistenza di diritti reali limitati, non succede che un
usufrutto o una servitù smembra o sottragga facoltà al diritto di proprietà. Si deve alla pandettistica
l’idea della proprietà come sintesi di poteri che non si smembra per effetto dell’esistenza di diritti
104
reali limitati ma si comprime. L’elasticità cioè la proprietà per effetto dei diritti reali limitati non si
spezza ma si comprime perché è un diritto elastico. Non appena il peso viene meno, si riespande e
riacquista tutta la sua pienezza. L’elasticità è considerata il tratto tipico del diritto di proprietà, una
sua qualità distintiva.
Il primo brano è tratto dal “Diritto delle Pandette” di Windscheid, egli dice: “Si possono indicare
singole facoltà che al proprietario competono in forza del concetto di proprietà, per esempio, la
facoltà di usare della cosa e di servirsene ma non si può dire che la proprietà consti di una somma
di singole facoltà che sia una riunione di singole facoltà.” Quindi dice che si possono elencare le
facoltà che spettano al proprietario ma è sbagliato dire che la proprietà è una somma di quelle facoltà,
per esemplificare si possono elencare ma non è dalla loro somma che si ricava l’idea della proprietà
che è una sintesi che precede le singole facoltà. “La proprietà è la pienezza del diritto sulla cosa e le
singole facoltà che in essa vanno distinte non sono che estrinsecazioni e manifestazioni di questa
pienezza.” Quindi in origine c’è una pienezza e totalità, i francesi e gli italiani dicevano che in origine
ci sono le facoltà dalla cui riunione risulta la proprietà, qui invece si ribalta dicendo che in origine c’è
pienezza rappresentata dalla proprietà che si estrinseca in una serie di facoltà ma non è la somma delle
facoltà. “La proprietà come tale è illimitata ma ammette restrizioni, dalla totalità dei rapporti nei
quali in forza della proprietà la cosa è sottoposta al volere del titolare, può essere mediante uno
speciale fatto giuridico tolto l’uno o l’altro rapporto e sottratto alla volontà del proprietario. Egli
non cessa perciò di essere il proprietario poiché è pur sempre vero che egli ha un diritto che come
tale rende la sua volontà decisiva rispetto alla cosa nella totalità dei suoi rapporti e che lo esime da
ogni speciale giustificazione per qualsiasi escogitabile facoltà sulla cosa. Se la restrizione viene
meno, tosto (subito) la proprietà esplica di nuovo tutta la sua pienezza (questa è l’elasticità).” Se la
compressione viene meno non è che la proprietà si ricompone come una costruzione lego che non si
era scomposta ma solo compressa e quindi torna a riespandersi. “Occorre mettere in guardia contro
il malinteso che le facoltà della proprietà siano l’antecedente (prius) e la proprietà il susseguente
(sosperius). Nel determinare il concetto della proprietà non si deve neppur minimante prendere le
mosse dalle singole facoltà in esso contenute. La proprietà non nasce mediante l’accozzamento di
una pluralità di facoltà ma viceversa i singoli rapporti della proprietà esistono solamente in forza
della proprietà.” In origine, il prius è la pienezza, è la proprietà e le singole facoltà esistono perché a
monte esiste la proprietà. Non è che esistono le singole facoltà dalla cui riunione risulta la proprietà
ma c’è la proprietà e proprio perché c’è questo pieno iniziale esistono anche le singole facoltà in cui
si concreta.

105
L’altro brano è di Pagen Stecher che dice: “La proprietà è per quanto concerne il suo contenuto,
indivisibile. Per la indeterminatezza giuridica di quel contenuto, per l’impossibilità di sue partizioni
logiche.” La proprietà è una pienezza indivisibile, questa è la caratteristica tipica che rende la
proprietà diversa dagli altri diritti reali, è questa pienezza originaria della proprietà ciò che vale a
caratterizzarla in maniera decisa. I diritti reali possono al limite comprimere questa pienezza ma non
frazionarla. Puchta dice la stessa cosa, che proprio perché la proprietà è un potere totale è
perfettamente inutile elencare le facoltà di cui sembra composta. I giuristi francesi dicono che la
proprietà consta dell’usufrutto e l’abuso, qui invece no, c’è questa pienezza totale, è inutile dire le
facoltà di cui consta perché vi è questa pienezza di poteri del proprietario sulla cosa.
Arriviamo al paragrafo 903 del BGB. Il codice italiano e francese volevano innovare sul piano del
fronte proprietario, il codice austriaco riconosce ancora il dominio diviso quindi non vuole
rivoluzionare in materia proprietaria ma è il codice civile italiano che invece vuole innovare la materia
proprietaria e diceva che la proprietà è “il diritto di godere e di disporre delle cose” e questo bisogno
di elencare due facoltà comprese nel diritto di proprietà traduceva un residuo di mentalità tradizionale.
Questa difficoltà vedeva nella proprietà qualcosa di diverso da una somma di facoltà. Il BGB fa il
salto di qualità e il paragrafo 903 dice: “Il proprietario di una cosa può, salvo che sia vietato dalla
legge o dai diritti dei terzi, servirsi della cosa a suo piacimento.” Questo “servirsi” significa tipo
condurre, guidare la propria cosa, quindi è questa idea che non si indicano le facoltà ma che si usa la
cosa come meglio si crede, si fa della propria cosa ciò che meglio si crede. Non sono indicate le
singole facoltà ma se la proprietà è pienezza, se la proprietà è questa sintesi originaria, il proprietario
avrà pieni poteri sulla cosa.
Il paragrafo 90 del BGB apre la sezione delle cose nella parte generale, in maniera stupefacente
recita così: “Cose nel senso della legge sono solo oggetti corporali.”
Il codice austriaco fa il balzo avanti che ammette la proprietà su cose immateriali nonostante sia
ancora una realtà feudale, il BGB che invece è il frutto della più sofisticata e astratta scienza giuridica
europea, continua a considerare cose nel senso giuridico per il diritto solo gli oggetti corporali.
Vediamo un altro fronte in cui si apprezza l’apporto pandettistico che è quello sui “Rapporti
obbligatori.” In materia di rapporti obbligatori si ha il trionfo dell’astrattezza, si supera l’idea che il
vincolo giuridico sia legato alla fisicità dei soggetti cioè che sia un rapporto che intercorre tra quel
debitore e creditore (tra quei componenti fisicamente identificati), il BGB infatti prevede la cessione
del debito, del credito, prevede il contratto a favore di terzi, queste sono tutte facoltà tipiche di una
realtà economicamente vivace in fortissimo sviluppo economico che ha bisogno di far circolare la
ricchezza, di cedere debiti e crediti, c’è una nozione forte di rappresentanza, sono tutti strumenti cha
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garantiscono una forte circolazione della ricchezza. Con ciò si conferma il fatto che la pandettistica è
figlia del suo tempo quindi risponde alle esigenze regolative formulate dalla realtà del tempo tedesca.
Con questo la pandettistica si conferma figlia del proprio tempo storico perché dà una risposta forte
alle esigenze regolative di quel tempo storico di grandissima espansione economica. Il BGB è anche
il codice nel quale trovano uno spazio rilevante le clausole generali. Si ha una clausola generale
quando il giudice è autorizzato ad effettuare valutazioni quindi a prendere decisioni valutando alcuni
parametri il cui significato non può essere ricavato dal tessuto del diritto positivo. Le tipiche clausole
generali sono la buona fede, il buon costume, la diligenza del buon padre di famiglia, gli usi del
traffico e del commercio ecc. Le clausole generali non sono una ipotesi di lacuna perché la fattispecie
c’è, esiste la norma ed è scritta ma l’applicazione di quella norma impone al giudice di effettuare una
valutazione che non è ricavabile dal tessuto del diritto positivo inteso in senso stretto. Queste clausole
generali riconoscono uno spazio di apprezzamento all’interprete e servono ad evitare che la norma
invecchi troppo rapidamente perché nella valutazione di questi parametri si potrà tener conto
dell’evoluzioni registrate complessivamente dalla realtà sociale, economica. Pensiamo a come è
mutata l’idea di buona fede, la contrattazione su internet ad esempio, al buon costume rispetto a 30-
40 anni fa. Quindi questi parametri consentono al giudice di evitare l’invecchiamento della norma,
cioè di far servire la norma anche in contesti sociali, culturali, economici mutati. Queste clausole
generali oltre a rappresentare questa apertura del codice verso l’esterno, verso il mutamento, possono
servire anche a dar voce ad interessi e ad istanze di tutela del contraente più fragile, attraverso ad
esempio la buona fede si può riuscire a dare tutela anche al contraente più debole.
Il BGB ha il paragrafo 242 che stabilisce l’obbligo dei contraenti di comportarsi secondo buona fede
avuto riguardo agli usi del commercio. È stata attraverso questa clausola, che la giurisprudenza
tedesca ha messo precocemente a fuoco la clausola che ammette la revisione delle condizioni del
contratto se si è creata una distanza forte tra le condizioni originarie esistenti al momento della
pattuizione e le condizioni sopravvenute. Questa è una clausola di cui si servita la giurisprudenza per
intervenire sui drammatici effetti dell’inflazione che ha colpito la Germania dopo la I guerra mondiale,
è stata una clausola usata dai giudici tedeschi per modificare tanti regolamenti contrattuali in seguito
all’inflazione spaventosa che ha colpito la Germania dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale.
Il BGB ha previsto dei meccanismi che consentono al codice di adeguarsi e rispondere alle mutate
circostanze storiche. C’è chi ha detto che queste clausole generali rappresentano il segno della critica
di Gierke, sono una apertura alla storia del codice, c’è chi invece ha detto che sono frutto della
lungimiranza pandettistica. Le due proposizioni non sono necessariamente in contrasto perché la
pandettistica scrive il codice muovendo dall’idea di una supremazia della scienza convinta che la
107
scienza giuridica sia un mestiere importante nell’economia di un ordinamento. È plausibile che una
scienza di questo rango sia consapevole dei limiti del diritto legislativo, cioè sia consapevole che il
diritto legislativo tenda ad invecchiare, imbrigliare e fermare un testo (diga di Savigny) quindi non è
strano che il codice sia punteggiato di queste clausole generali (organi respiratori cioè sono organi
che consentono al codice di respirare, di vivere e non rinsecchire). Una scienza così consapevole dei
rischi del diritto legislativo immagina un antidoto all’invecchiamento del codice che valorizza il ruolo
dell’interprete (giurista o giudice). Questa è una posizione che poteva condividere Gierke o Savigny
che sono giuristi che ritengono che il diritto debba adattarsi alla storia. Qui si ricompattano questa
anime della scienza giuridica tedesca.

Nel BGB c’è una attenzione organica al problema delle persone giuridiche. Una sezione della parte
generale del BGB è espressamente dedicata alle persone giuridiche che sono considerate soggetti di
diritto civile, quindi sono ammesse nel tessuto del codice civile come parte rilevante della vita sociale
giuridica tedesca. In questa presenza organica delle persone giuridiche si è visto l’esito della critica
formulata da Gierke all’eccesso di individualismo del BGB. Questo nel senso che la persona giuridica
è una struttura tipicamente sociale, comunitaria quindi in questo senso gli autori del BGB avrebbero
prestato attenzione anche a questa veste sociale, comunitaria che può acquistare la soggettività
giuridica. Può essere soggetto di diritto non solo la persona fisica ma anche l’ente giuridico. Il codice
civile italiano conteneva un unico riferimento, cioè l’articolo 2, sulle persone giuridiche che
menzionava le persone giuridiche ma le guardava con sospetto. Il codice civile italiano le menziona
ma stabilisce che se godano di diritti civili secondo le norme e gli usi osservati come diritto pubblico.
Quindi le pone sotto la vigilanza del diritto pubblico e non le riconosce nelle vesti di autentici soggetti
di diritto civile.

Ultima tappa della costruzione del modello individualistico: la scuola del diritto pubblico
Secondo la visione pandettistica, il diritto civile è il diritto per eccellenza perché è quello che meglio
degli altri si presta ad essere formulato in termini compiutamente astratti logico-formale. Il diritto
civile è popolato da categorie mortali, universali: il soggetto, il contratto, l’obbligazione, sembrano
tutte categorie che è possibile formulare in maniera astratta e con una validità tendenzialmente
universale. Tutto ciò che non è diritto civile viene messo in questo calderone che si chiama diritto
politico che indica il diritto di qualità inferiore, in cui ci sta il diritto pubblico, il costituzionale, il
penale, perché si ritiene che siano inevitabilmente condizionati dalle circostanze storiche, politiche,
sociali e male si prestano ad essere formulati in termini compiutamente formali. La scuola del diritto
108
pubblico, nasce sulla scia di questa suggestione della pandettistica. Nasce per tentare di dare anche al
diritto pubblico, una veste completamente scientifica. Questo per dire che anche il diritto pubblico
può essere formulato in categorie universali non eccessivamente compromesse dalla contingenza
storica. Il desiderio è di emancipare il diritto pubblico dal peso di discipline non giuridiche, fino a
quel momento il diritto pubblico era considerato un misto, un insieme di elementi giuridici, politici,
economici, sociologici, l’obbiettivo invece di questi giuristi che appartengono alla scuola del diritto
pubblico è quello di evidenziare la natura prettamente giuridica del diritto pubblico scremandolo da
tutti quegli elementi politologici, sociologici che sembravano inquinarne la natura giuridica per
renderlo una disciplina solo giuridica. Il primo giurista che tenta questa operazione teorica è Gerber,
giurista tedesco che inizia i suoi studi come cultore del diritto privato ed è un pandettista che lavora
sul diritto privato. Da questo suo essere cultore del diritto privato, Gerber tenta di compiere sul diritto
pubblico la stessa operazione culturale che la pandettistica aveva condotto sul terreno del diritto
privato cioè tenta di rendere anche il diritto pubblico un campo di studio esclusivamente giuridico,
compie una giuridicizzazione del diritto pubblico. Nel fare questo Gerber utilizza anche molti concetti
utilizzati dai cultori del diritto privato, travasa nel nascente diritto pubblico molti termini utilizzati dai
colleghi privatisti, primo tra tutti il dogma della personalità giuridica dello stato cioè l’idea che lo
stato sia una persona giuridica (nozione mutuata dal diritto privato).
Il giurista italiano che ha importato questa dottrina tedesca in Italia è Vittorio Emanuele Orlando.
Orlando è il giurista che trapianta, attraverso una originale rielaborazione, in terra italiana queste
acquisizioni tedesche. Orlando è un personaggio longevo ed è curioso perché nella sua biografia
attraversa tra stagioni cruciali della storia italiana che sono la stagione liberale, fascista e vede nascere
la costituzione repubblicana. Di solito gli storici collocano il momento iniziale di questa opera di
giuridicizzazione del diritto pubblico nel 1889 ovvero l’anno in cui Orlando tiene la sua prolusione
(fino agli 60-70’ del 900’ è stata una tradizione accademica forte) cioè i professori o i professori più
illustri tenevano una conferenza davanti a colleghi e studenti per indicare il proprio metodo di
insegnamento, le proprie convinzioni scientifiche, quindi le prolusioni sono discorsi programmatici e
sono le sedi nelle quali un docente indica la concezione che ha nella materia che insegna e in questo
caso cos’è il diritto pubblico, come lo si studia, come lo si ricostruisce ecc, è stata una nobile
tradizione dell’università italiana che si è spenta dopo gli anni 70’. Nel 1889 Orlando tiene la sua
prolusione al corso di diritto amministrativo e costituzionale presso l’università di Palermo. La scuola
del diritto pubblico in Italia nasce nel 1889, anno nel quale Orlando tiene la sua prolusione
palermitana. Il titolo di questa prolusione è estremamente significativo ed è “Criteri tecnici per la
ricostruzione giuridica del diritto pubblico.” Il giurista deve trovare criteri tecnici non mischiati a
109
considerazioni di tipo politico, economico, sociale per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico.
Il diritto pubblico da quel momento in poi deve essere ricostruito con criteri eminentemente giuridici.
Il diritto pubblico diventa una disciplina giuridica per Orlando cambiando metodo cioè identificando
delle nuove categorie interpretative utili a dire che cos’è il diritto pubblico. La prospettiva orlandiana
che sarà quella egemone in Italia per buona parte del 900’, segnala un ribaltamento di alcune delle
categorie studiate fin ora. L’ottica orlandiana è statualistica cioè è volta a garantire la massima
stabilità dello stato ritenendosi che questa stabilità dello stato si possa conseguire solo distanziando il
più possibile lo stato dalla società.
Le tappe salienti dell’argomentazione orlandiana:
Prima tappa è rappresentata dal rifiuto del contrattualismo. Una delle caratteristiche salienti del
pensiero giusnaturalistico è l’idea del contratto sociale, cioè l’idea che il potere politico nasce da
contratto sociale quindi lo stato è una creazione volontaria degli individui che si realizza attraverso il
contratto sociale, Orlando rifiuta l’idea di fondazione dello stato, l’ipotesi contrattualistica per
Orlando segnala una dipendenza dello stato dalla società cioè lo stato è una creazione della società, è
una variabile dipendente dal volere sociale e questa visione per Orlando rende lo stato fragile e non è
buona a consolidare lo stato, se noi creiamo lo stato lo possiamo anche distruggere, ripensare. Origine
contrattuale dello stato vuol dire rimettere lo stato in balia del volere sociale e il secondo ottocento
invece è un secolo che ha voglia di stabilità e chiudere con le tempeste rivoluzionarie. Questo è un
dato distintivo del secondo ottocento cioè l’esigenza di chiudere con le tempeste rivoluzionarie, c’è
bisogno di stabilità e di vedere nello stato una presenza indiscutibile forte nel panorama giuspolitico.
Quindi lo stato non può essere lasciato in mano alla volontà sociale, questo lo rende fragile, non lo
fortifica abbastanza. Qual è l’origine del potere se non è il contratto sociale? Lo stato deriva dalla
storia. Questa grandezza che la modernità giuridica ha spesso disprezzato, rinnegato, criticato viene
riabilitata quindi lo stato non è il frutto di un contratto sociale ma è il portato inevitabile della
evoluzione storica. La storia produce lo stato e stabilisce la necessità dello stato, la storia partorisce
lo stato perché è una creatura necessaria, è un esito necessario inevitabile dell’evoluzione storica. La
storia è una grandezza che viene strumentalmente convocata, non è una storia vissuta, è una categoria
interpretativa, è una risorsa cui si ricorre per dire che lo stato non può essere messo in discussione.
La seconda tappa è rappresentata dal rifiuto della pre-statualità dei diritti. Anche questo era stato
uno dei capisaldi della concezione giusnaturalistica, diritti innati, pre-statuali, l’uomo nasce munito
di certi diritti. Anche questo assunto del giusnaturalismo viene negato perché l’idea dei diritti pre-
statuali vincola l’esistenza dello stato, “Lo scopo di ogni associazione politica è la tutela dei diritti
naturali imprescrittibili dell’uomo”, quindi lo stato nasce con un vincolo di mandato. Questa idea che
110
gli individui non solo esistano prima dello stato ma abbiano dei diritti in qualche modo opponibili
allo stato, rende lo stato una creatura in balia degli individui o comunque rischia di renderla tale. I
diritti non spettano agli individui per nascita o per natura, nella visione orlandiana e di tutta la
giuspubblicistica coeva, i diritti individuali sono frutto di una autolimitazione dello stato. Quindi gli
individui non hanno dei diritti per natura, per nascita ma i diritti che hanno sono frutto di una
autolimitazione dello stato. Autolimitazione vuol dire che lo stato potenzialmente non incontra limiti
alla propria azione eccetto i diritti degli individui non costituiscano un limite per lo stato, lo stato può
teoricamente allagare tutto lo spazio dei diritti e libertà individuali senza limiti. Non esistono limiti
all’espansione del potere dello stato e quindi se gli individui hanno dei diritti o libertà questi sono il
frutto di una autolimitazione dello stato. È lo stato che decide di autolimitarsi e ritrarre un po’ le acque
e di lasciar sussistere diritti e libertà in capo agli individui, con l’immagine dell’allagamento.
Quindi diritti soggettivi, diritti individuali non spettano all’individuo per natura e per nascita ma sono
frutto di una autolimitazione dello stato. Se l’individuo ha uno spazio di diritti e di libertà è perché lo
stato ha scelto di autolimitarsi. Questa teoria ha una caratura autoritaria, se lo stato sceglie quando
limitarsi vuol dire che i diritti degli individui sono in mano alle scelte dello stato e quindi è facile
immaginare che lo stato decida di comprimere lo spazio dei diritti e delle libertà. Orlando viene
ricordato come uno dei massimi esponenti del pensiero liberale italiano, detta così però questa teoria
non ha un gran che di liberale perché si presta a produrre esiti autoritari. In realtà questa possibile
curvatura autoritaria della ricostruzione orlandiana viene scongiurata attraverso quello che è stato
chiamato da uno storico, il temperamento storicistico. Il temperamento storicistico vuol dire che
Orlando ha una visione della storia che è tipica del liberalismo, c’è una concezione della storia che è
stata definita ottimistica cioè la storia viene vista come un territorio che ha progressivamente
aumentato e consolidato i diritti e le libertà individuali. La storia è vista come una linea progredente
e positiva che nel corso del suo svolgimento ha sviluppato i diritti e le libertà in capo agli individui.
Gli individui avevano pochi diritti e poche libertà e progressivamente il catalogo dei diritti e delle
libertà si è ampliato. Questa concezione della storia è un presupposto fondamentale di tutto il pensiero
liberale e anche della ricostruzione orlandiana. Lo stato dal suo punto di vista non può revocare e
smentire ciò che la storia ha prodotto, non può ridurre il catalogo dei diritti e delle libertà individuali
e non può andare contro ciò che la storia ha prodotto perché così facendosi si condannerebbe al
suicidio, a scomparire perché lo stato che rinnega la storia rinnega la sua stessa origine, la sua stessa
forza che lo ha prodotto. Stato e diritti sono frutti dello stesso grembo, sono figli della stessa madre
che è la storia per cui lo stato che attacca i diritti e le libertà dell’individuo che la storia ha nei secoli
consolidato, finisce per attaccare la stessa forza che lo ha generato e si condanna alla debolezza. A
111
sostenere questo accurvare in senso liberale di questa teoria dell’autolimitazione, sta questa idea della
storia come magnifica sorte progressiva cioè come luogo che ha migliorato progressivamente la
posizione dell’individuo arricchendo i diritti e le libertà individuali e lo stato non può rigettare questo
responso della storia perché così facendo rinnegherebbe la stessa forza che lo ha prodotto. Vedremo
invece come la logica totalitaria riuscirà ad affermarsi contestando questa idea della storia come luogo
che ha consolidato diritti e libertà in capo all’individuo. La concezione liberticida dei totalitarismi
passerà anche attraverso una certa tematizzazione della storia.
Il terzo gradino dell’argomentazione orlandiana riguarda l’idea della personalità giuridica dello
stato. Questa è una tipica nozione mutuata dallo strumentario privatistico. Lo stato viene visto come
persona giuridica e si mutua questa nozione dal diritto privato perché questa nozione offre vari servizi
e benefici anche al pubblicista, per prima cosa consente di raffigurare lo stato come unità di volere e
di potere. La persona giuridica è una realtà giuridicamente unitaria, quindi lo stato come dimensione
unitaria, c’è lo stato persona giuridica e lo stato è in questo modo anche un soggetto astratto. La
persona giuridica è una realtà giuridicamente unitaria ma anche una realtà astratta. L’elaborazione
della nozione di persona giuridica richiede uno sforzo di astrazione e questo sforzo serve ad astrarre
e separare lo stato come maestà sovrana di potere senza curarsi troppo dei concreti luoghi in cui il
potere dello stato si esercita, di una camera, di un governo, degli apparati pubblici. Questi apparati si
studiano ma questo è il dopo, il prima è rappresentato da questa maestosa di persona giuridica, lo stato
intanto è questo cioè entità di volere e di potere che si definisce in quanto tale e non si definisce a
partire dalle sue concrete articolazioni terrene. Serve ad avere questa idea maestosa di questa creatura
sovrana che è finalmente pensabile come unità anche a prescindere dalle sue concrete articolazioni di
potere. I primi giuristi che parlano di persona giuridica sono i canonisti nel medioevo perché loro
hanno bisogno di identificare un soggetto astratto diverso dalle concrete persone, per esempio, hanno
bisogno di distinguere la parrocchia dal parroco e ne hanno bisogno per le successioni, spesso
morendo si lasciava in eredità alla chiesa ma come istituzione e non a quel parroco persona fisica e ci
sono spesso testamenti dell’alto medioevo che si lasciavano alle mura della chiesa cioè si cercava un
appiglio fisico tangibile in un mondo che ha difficoltà a ricorrere all’astrazione perché l’eredità non
finisse al parroco ma finisse all’istituzione parrocchia. I canonisti del secondo medioevo riescono a
distinguere tra parrocchia (ente soggetto astratto) e il parroco. I canonisti ne hanno bisogno anche per
un’altra ragione, perché la chiesa come ente deve essere sempre immacolata e non sia toccata dai
peccati degli uomini e del clero e c’era bisogno di distinguere tra la chiesa come ente astratto e gli
uomini che invece sono necessariamente peccatori ma che non devono macchiare con i loro peccati
la purezza della chiesa. I pubblicisti fanno un po’ questo, c’è bisogno di avere questa creatura astratta
112
che è lo stato non direttamente soggetta alle concrete vicende di potere cioè va immaginata una vita
autonoma dello stato rispetto a chi concretamente lo fa. Questa idea di persona giuridica dello stato
serve anche a distanziare lo stato dalla società, dire che la vita e l’essenza dello stato di questa persona
giuridica non dipende dai movimenti sociali sottostanti. Lo stato dirà Orlando ha una genesi autonoma
che non deriva dalla società e non si compromette troppo con i sottostanti movimenti sociali. La
società sta a debita distanza dallo stato.
L’ultima caratteristica è rappresentata dalla teoria della rappresentanza politica. Noi la
rappresentanza la concepiamo come un istituto che apre i varchi tra società e stato, noi abbiamo
formazioni politiche, i partiti, che esprimono una idea sul governo della collettività, noi votiamo il
partito che riteniamo più confacente alla nostra visione del governo ed il partito che vince dovrebbe
trasformare il suo programma politico in programma di governo cioè dovrebbe realizzare le promesse
elettorali e trasformarle in programma di governo, è una attività di governo. Attraverso la
rappresentanza e l’elezione dei rappresentanti, riteniamo che si instauri un canale di comunicazione
tra società e stato in particolar modo un indirizzo sociale, politico e maggioritario che si forma nella
società, determina la vittoria di un partito che determina la vittoria di un governo. Nella mentalità
liberale, questo non esiste. L’idea di funzione di governo è una idea del tutto estranea all’ideale
liberale, vedremo che è un’idea che prede corpo negli anni 20-30 del 900’ con i partiti di massa ma
l’idea di indirizzo politico e di una comunicazione tra società e stato giocata sull’indirizzo politico è
una idea estranea al pensiero liberale ottocentesco. Questo pensiero vede nelle elezioni una mera
designazione di capacità. Questo vuol dire che andando a votare il cittadino non vota un determinato
indirizzo o programma politico ma si limita a designare un capace cioè rende un servizio allo stato
perché lo stato per funzionare ha bisogno dei parlamentari, una classe dirigente cioè di un parlamento
eletto. In età liberale vi è solo la camera dei deputati elettiva, il senato diventa elettivo solo con la
costituzione repubblicana. Attraverso l’elezione il cittadino, nella visione di Orlando, non sceglie un
dettato che ha idee simili alle sue ma designa un capace cioè designa una persona qualificata che
dovrà poi sedere in parlamento e contribuire al funzionamento della macchina statale. Questa
costruzione serve chiaramente e di nuovo a distanziare lo stato dalla società, serve in particolare a
dire che lo stato non si muove secondo le idee della società, lo stato non è una dimensione mossa dalle
idee sociali ma è una realtà neutrale apolitica. Questo è faticoso dirlo anche nell’Italia liberale dove
la letteratura sugli interessi privati in parlamento ma Orlando è un giurista raffinato quindi se si
cimenta in questa ricostruzione barocca da un lato è una risposta a questa crescente generazione del
sistema parlamentare cioè è una risposta verso il fatto che il parlamento appariva sempre più percorso
da interessi particolaristici, localistici. Quindi da un lato è un tentativo di risposta a questi fenomeni
113
degenerativi ma dall’altro lato è una risposta compatibile con quella concezione elitaria della vita che
fu tipica di tutto il liberalismo ottocentesco e non solo quello italiano. Concezione elitaria
puntualmente espressa dai sistemi elettorali censitari, al momento dell’unità italiana prima della
riforma del 1882 che è il primo serio allargamento del suffragio, votavano meno del 2% della
popolazione adulta maschile. I sistemi elitari vogliono dire che la società identifica un nucleo ristretto
di capaci cioè di persone ritenute particolarmente capaci e qualificate che sono in grado di interpretare
per tutti il bene comune. Concezione elitaria vuol dire che c’è un nucleo ridottissimo di capaci e di
persone qualificate identificate di solito sulla base del censo e dei requisiti di istruzione che sono in
grado di interpretare per tutti il bene comune. Nell’ambito di queste elite le divergenze di vedute
tenderanno a non essere così nette, c’è una omogeneità sociale, culturale tra queste elite espressione
delle classi agiate del paese, che in qualche modo le rende equivalenti. Quando Orlando dice che il
cittadino che vota designa un capace dice che dice una cosa strategica che gli serve a portare avanti
una certa idea di stato ma in quel contesto non era così esotico dire una cosa simile perché un certo
grado di somiglianza e fungibilità nelle elite c’era. Orlando non è l’unica voce della giuspubblicistica
italiana post unitaria, il magistero di Orlando è quello che condiziona maggiormente gli sviluppi della
giuspubblicistica, il suo pensiero diventa egemone, maggioritario esiste anche un gruppo di giuristi
chiamati non orlandiani che contestano proprio questa estrema tecnicizzazione del discorso giuridico
cioè contestano questa esigenza di Orlando di separare in maniera così netta e forte il diritto dalla
politica. Tuttavia essi condividono in pieno questa visione elitaria della politica e della società e
saranno tutti molto scettici verso le ipotesi di allargamento del suffragio.

La Scuola di diritto pubblico tenta di identificare lo Stato come dimensione sovrana astratta dalla
società. Il grande sforzo di Orlando, e di tutti gli appartenenti alla scuola di diritto pubblico, è proprio
quello di tenere lo stato a debita distanza dai sottostanti movimenti economico-sociali. Anzi lo
stato è sovrano proprio se e in quanto riesce a tenere le giuste distanze dal momento sociale: tanto più
è sovrano quanto più è distante dalla società. Con questa costruzione il modello individualistico è
confezionato. Abbiamo visto sul lato privatistico come si arriva alla Pandettistica, quindi
l’enucleazione astratta e compiuta di un individuo munito di diritto, di un diritto privato autonomo
dal diritto pubblico, dall’altro lato il diritto pubblico che gravita intorno allo Stato.
Al termine di questo itinerario si può affermare che per un giurista di fine 800 il diritto privato è
quel territorio del diritto abitato dall’individuo, da un individuo concepito uti singulus che viene
identificato soprattutto attraverso il primato della sua volontà. I diritti soggettivi, cioè i diritti che
spettano all’individuo, sono diritti di tipo potestativo, cioè sono diritti che consacrano la volontà
114
individuale libera e autonoma. Correlativamente, si concepisce il diritto pubblico come quel
territorio del diritto popolato solo dallo Stato, cioè da un ente che si voleva sovrano proprio perché
sufficientemente distanziato dalla società. Quindi Stato e società, privato e pubblico, vengono
rappresentati come universi autonomi e tendenzialmente non interferenti: due universi che gravitano
ciascuno nella propria orbita i cui contatti sono limitati al minimo.
Francesco Ferrara, uno dei massimi civilisti italiani del 900’, che, riflettendo a metà 900’ sulle
caratteristiche dell’ordine liberare ottocentesco, dice: “Nella concezione liberale lo Stato aveva la
sovranità, l’uomo la proprietà. Ognuno marciava per la propria strada senza che vi fossero incroci
o interferenza.” Questa citazione è efficace nell’indicare come individuo e stato vengono concepiti
come due sfere autonome, ognuno identificata da una prerogativa: la sovranità, la proprietà.

INCRINATURE DEL MODELLO INDIVIDUALISTICO


Si tratta di vedere quando e come questo modo di concepire la relazione tra privato e pubblico, tra
società e stato, si incrina. Si è di fronte alle prime crepe del modello individualistico, ma ancora non
è di fronte alla crisi di questo modello. Si è solo di fronte a delle voci eterodosse e minoritarie che
iniziano a rilevare i limiti e le insufficienze di questo modo di guardare al giuridico, e in generale alla
convivenza. Tre fronti di incrinatura del modello individualistico:
1) La prima incrinatura riguarda il problema della proprietà con le proprietà collettive;
2) La seconda incrinatura riguarda la questione del ruolo da riconoscere all’interprete;
3) La terza incrinatura attiene alla denuncia dei difetti sociali del codice e in generale del
modello individualistico.
Sono tre snodi nevralgici che mettono in crisi alcune delle più forti certezze alla base del modello
individualistico.

PROPRIETA’ COLLETTIVE (prima incrinatura del modello individualistico)


Le proprietà collettive sono proprietà che fanno capo non a singoli individui, ma a comunità sociali.
Di solito queste comunità risultano da un insieme di famiglie che da generazioni godono
congiuntamente di determinate proprietà che poi si tramandano dai padri ai figli. Sono sempre
proprietà terriere e vengono usate da queste comunità per alcune attività di comune interesse. Ad
esempio sono quasi sempre appezzamenti destinati al pascolo degli animali, oppure appezzamenti che
forniscono la legna a questa comunità familiare.

115
Queste proprietà fanno capo a un soggetto comunitario, quindi non condividono quella logica di
rigido individualismo all’interno della quale la modernità costruisce il proprio modello proprietario.
Il moderno tende a costruire la proprietà come un diritto massimamente potestativo, cioè come il
segno della piena volontà del soggetto sui beni (il proprietario può fare della proprietà ciò che vuole).
Soprattutto la proprietà individuale è il primo e il principale dei diritti individuali dell’individuo, è un
diritto che addirittura viene definito sacro dalla Dichiarazione dei diritti francese.
Citazioni di alcuni giuristi eterodossi: eterodossi perché mettono in dubbio che la proprietà privata
sui beni sia necessariamente la migliore soluzione possibile per il rapporto tra uomo e beni, quindi
mettono in discussione che la proprietà privata sia il primo e il fondamentale tra i diritti naturali
dell’individuo. Inoltre avanzano l’ipotesi che queste forme di godimento collettivo dei beni non siano
solo anticaglie di cui il legislatore si deve liberare, ma possono svolgere anche una funzione
economicamente rilevante, cioè possono rappresentare una soluzione valida anche dal punto di vista
del rendimento economico. Dunque possono essere anche una modalità economicamente efficiente
di sfruttamento di certi bene in certe condizioni.
H. S. Maine è quell’intellettuale inglese che descrive il passaggio dal premoderno al moderno usando
la formula “dallo status al contratto” e scrive nel 1861 un’opera che si intitola Ancient Law. La
posizione di Maine è emblematica perché è un professore di diritto romano, quindi studia la tradizione
romanistica che ha elaborato una nozione potestativa di proprietà (dominium ex iure quiritium). Ad
un certo punto della sua vita viene sottratto agli studi e inviato quale funzionario coloniale in India.
Osservando il paesaggio rurale indiano si rende conto che solo una piccola parte delle terre indiane
sono in proprietà individuale. Dunque si accorge che la proprietà individuale copre solo una minima
parte del territorio indiano e quindi dice che se questo è possibile non è vero che la proprietà è un
diritto innato, naturale dell’individuo, non è vero che l’individualizzazione della proprietà abita dentro
ognuno di noi. Dice inoltre che questa idea della proprietà individuale come diritto naturale non ha
nulla di naturale, ma è il frutto di una costruzione culturale, è il portato specifico di una cultura che
è la cultura europea.
«Quando io cominciai il mio lavoro, alcuni anni prima del 1861, il panorama era reso oscuro e la
ricerca era ostruita da teorie aprioristiche basate sull’ipotesi del diritto e dello stato di natura […]
L’occupazione, ossia il procedimento in base a cui la terra di nessuno è divenuta nel mondo primitivo
la terra privata di un individuo, presuppone psicologia e motivazioni individualistiche estranee a quel
mondo; Quindi l’idea che ci sia un impulso irrefrenabile a che la terra di tutti diventa terra di qualcuno,
cioè l’idea che si passi necessariamente dalle cose in comune alla proprietà individuale è un’idea che
secondo Maine presuppone motivazioni individualistiche estranee al mondo indiano. Non c’è nessuna
116
necessità del transito dalla proprietà di tutti alla proprietà individuale, questo transito avviene se c’è
intorno un territorio popolato da motivazioni di tipo individualistico, ma questa psicologia è
totalmente estranea al mondo indiano. “La psicologia individualistica è piuttosto essa è piuttosto
opera di una scienza giuridica molto raffinata. […] è un apriori del tutto improbabile che noi
dobbiamo pensare la primitiva storia della proprietà come proprietà di individui.” Quindi è una
costruzione culturale, ma è una costruzione aprioristica (un apriori è un’affermazione non dimostrata
e non dimostrabile). Quindi l’idea che si vada necessariamente verso la proprietà individuale è
un’affermazione appunto aprioristica, cioè non è un’affermazione dimostrabile. “È più corretto
parlare per le istituzioni arcaiche di proprietà comune, di proprietà non separata all’interno di
gruppi familiari o sovrafamiliari. La giurisprudenza romana, trasformata dalle dottrine del diritto
naturale, ha plagiato la coscienza dei moderni facendo loro credere che la proprietà individuale è
lo stato normale dell’appartenenza nella storia e che la proprietà comune ai gruppi è una eccezione”.
Quindi questa idea che la proprietà individuale sia naturale è frutto di un plagio secondo Maine, cioè
sono state le dottrine del diritto romano, e le dottrine del diritto naturale dopo, ad aver modellato e
plagiato la coscienza degli occidentali e ad aver fatto loro credere che la proprietà individuale sia
l’unica e la migliore forma di appropriazione possibile. È stato fatto credere che la proprietà
individuale fosse la regola e le proprietà collettive l’eccezione. “Convinzione testimoniata nella
massima, che è universalmente ricevuta nell’Europa continentale, nemo in communione potest invitus
detineri, ma in India questo ordine di idee è ribaltato e si può dire che la proprietà separata tende a
diventare comune». Questa idea che la proprietà individuale sia la migliore forma possibile di
relazione col bene, secondo Maine è testimoniata in questa massima latina che vuol dire che nessuno
può essere mantenuto in un rapporto di comunione se non lo vuole, cioè la comunione dei beni non
può essere mantenuta se uno dei comunisti non lo vuole. Ogni titolare in comunione di un bene può
chiedere lo scioglimento della comunione, quindi può individualizzare la sua proprietà. Invece, dice
Maine, in India si registra proprio il contrario, cioè ci sono proprietà individuali che tendono a
diventare comuni. Così come in occidente si ammette e si ritiene doveroso rompere una comunione
se uno dei contitolari lo chieda, cioè si rende doveroso individualizzare la proprietà; in India avviene
il contrario, cioè le proprietà individuali tendono a diventare comuni.

Emile De Lavelye è un professore belga che vive in pieno il fascino esercitato nella seconda metà
dell’800’ dalle grandi esplorazioni ed è d’accordo sul fatto che il modo europeo di concepire il
rapporto tra diritto e beni rappresenti solo una realtà minuscola in un oceano di realtà profondamente

117
diverse. Quindi la proprietà individuale così come rappresentata dalla cultura giuridica europea, è un
frutto specifico di quella mentalità, non ha nulla di universale o di naturale.
«La proprietà quiritaria come ce l’ha tramandata il duro genio dei romani non è abbastanza
flessibile, abbastanza umana. Generalmente quando si parla della proprietà sembra che non possa
esistere che sotto una forma unica, quella che vediamo in vigore intorno a noi. Sta qui un errore
profondo e perverso, che impedisce di elevarsi a una concezione più alta del diritto. Il dominium
esclusivo, personale ed ereditario, applicato alla terra è un fatto relativamente recentissimo, mentre
per molto tempo gli uomini non hanno conosciuto e praticato che la proprietà comune». Quindi non
c’è nulla di naturale così come concepita dagli europei. Inoltre questo tipo di proprietà è un fatto
relativamente recente, quindi non è un fatto che accompagna l’uomo dalla sua comparsa nel mondo,
cosa che invece si dovrebbe sostenere se fosse ritenuto un diritto naturale.

Relazione parlamentare dell’onorevole Giovanni Zucconi: l’unificazione del Regno d’Italia pone il
legislatore di fronte a tanti problemi e uno di questi riguarda la sorte da riservare a queste forme di
proprietà collettiva. Queste forme di proprietà collettiva vengono di solito spregiativamente qualificati
come servitù e l’atteggiamento del legislatore unitario dinnanzi a queste forme collettive di godimento
è un atteggiamento di tipo liquidatorio, cioè che tende a liquidare queste forme collettive di
godimento. Quindi in omaggio alla concezione prevalente che queste proprietà collettive fossero una
realtà negativa economicamente e giuridicamente disfunzionali, il legislatore tendeva a trasformare
queste proprietà collettive in proprietà individuali, cioè si liquidano le proprietà collettive e si
trasformano in altrettante proprietà individuali. Queste proprietà collettive vengono considerate come
un qualcosa di preistorico che intralcia lo sviluppo economico del neonato stato italiano. Questa
catena liquidatoria inizia all’indomani dell’Unità e ha vari episodi. Uno di questi episodi si svolge nel
1886 in cui si svolge un episodio parlamentare importante. Ministro dell’agricoltura all’epoca è
Grimaldi e predispone un disegno di legge per l’abolizione delle servitù di pascere (pascolo) negli ex
territori pontifici. Il disegno di legge presentato dal ministro alle camere risponde alla logica
liquidatoria, quindi mira a eliminare queste forme di godimento collettivo ritenendole arcaiche,
improduttive, inutili. Se il ministro presenta un disegno di legge alle camere c’è una commissione alle
camere che è incaricata di dare una prima valutazione sul disegno di legge e di redigere una relazione
su di esso. Quindi la commissione identifica un relatore che relaziona alle camere sul disegno di legge.
Il relatore alla camera sul disegno di legge Grimaldi è un signore che si chiama Giovanni Zucconi, un
nobile marchigiano, che decide di andare a fondo su questa questione delle proprietà collettive, studia
approfonditamente Maine, De Lavelye e fa in commissione e poi alla camera una relazione del tutto
118
diversa da quella che il ministro si sarebbe aspettato. In questa relazione Zucconi sostiene che gran
parte delle cose dette sulle proprietà collettive non sono corrette, ma sono il frutto di una mitologia
individualistica che è tipica dell’Europa. Inoltre Zucconi dice che queste forme collettive di
godimento spesso hanno svolto e svolgono una funzione anche economicamente apprezzabile,
cioè non è vero che sono economicamente disfunzionali che zavorrano il progresso economico del
paese.
«Dopo che i reggitori dei vari paesi dell’Italia divisa e gli stessi legislatori italiani emanarono
provvedimenti diretti a distruggere totalmente o in gran parte la promiscuità del godimento e le
servitù civiche gravanti i beni rustici nelle diverse provincie, le opinioni degli economisti e degli
uomini di Stato su questo soggetto si vennero a poco a poco modificando. Dall’assioma ricevuto che
cotesti istituti, caratterizzati come vieti residui del regime feudale, fossero sempre ed in qualunque
condizione di tempo e di luogo dannosi ai progressi dell’agricoltura, e assolutamente indegni di
esistere, si passò al dubbio della bontà di questa dottrina distruggitrice dei diritti popolari così
generale ed assoluta.” Quindi si mette in dubbio il fatto che queste forme di godimento collettivo
siano necessariamente delle scorie negative del regime feudale. “Le dotte e molteplici ricerche
eseguite in questi ultimi tempi sulla origine di questi usi civici, le quali si rannodano con le indagini
sulle forme primitive della proprietà rustica, gli studi sui costumi e lo stato attuale della proprietà di
alcuni popoli dell’Asia e dell’Europa, specialmente dell’India inglese, della Russia, della Serbia e
della Svizzera, portarono gli storici del diritto a concludere che i diritti civici e popolari più che un
portato tramandatoci dai distrutti feudi sono spesso invece i vestigi del regime agrario primitivo, nel
quale il godimento delle terre e l’esercizio del diritto di proprietà su di esse esercitavasi in forma
collettiva dai componenti delle tribù o degli abitanti dei villaggi.” Quindi queste proprietà collettive
non sono solo il prodotto artificioso e negativo della realtà feudale, ma spesso esprimono la
caratteristica che aveva il regime agrario primitivo. “Gli scritti del Summer Maine, del Laveleye, del
Roscher, del Rosa e di altri molti diedero molto lume di fatti prima sconosciuti a questa dottrina.
Come in tutte le forme di evoluzione anche in quella della proprietà fondiaria la individualizzazione
è posteriore alla forma complessa di proprietà comunistica. La proprietà privata succede a questa e
vi si sovrappone lentamente, e la collettiva rimane là dove per circostanze di clima, di suolo, di regime
politico, non è utile né possibile la appropriazione individuale del suolo». Quindi in origine c’è un
diffuso ricorso a queste forme collettive di proprietà. Non c’è una irresistibile naturalità della proprietà
individuale, ma storicamente c’è un esteso ricorso alle proprietà collettive. Il processo di
individualizzazione della proprietà è un fatto più recente, è un portato specifico della modernità,
quindi non ha nulla di universale e di necessario la proprietà individuale. Le proprietà collettive
119
rimangono laddove, per varie ragioni (clima, suolo, regime politico), non è possibile l’appropriazione
individuale dei beni (la proprietà privata). Anche le forme collettive di godimento hanno una
giustificazione profonda.
Il disegno di legge va avanti e la legge si approva, però Zucconi ci prova.
Attraverso questi tre stralci siamo in grado di entrare in contatto con voci minoritarie che però mettono
in dubbio questa idea della naturalità e della ineluttabilità del modello individualistico di proprietà
privata.

RUOLO IMMAGINATO PER L’INTERPRETE (seconda incrinatura del modello


individualistico)
L’800’ è il secolo in cui si codifica e per quanto si tenti di valorizzare il ruolo dell’interprete, si tende
tuttavia a identificare il diritto nel diritto scritto nel codice. Da un certo punto in poi,
approssimativamente dagli anni 80 dell’800’, i codici già esistenti (soprattutto il codice francese del
1804 e italiano del 1865) cominciano ad apparire invecchiati in alcuni loro tratti. Gli anni 80 sono gli
anni di fulgore della Pandettistica in Germania, quindi sono gli anni in cui si sta mettendo a fuoco la
versione più sofisticata del modello individualistico. Negli stessi anni un filone minoritario della
scienza giuridica comincia a riflettere invece sul rischio di invecchiamento del diritto codificato.
Questo non avviene casualmente, gli anni 80 sono anni cruciali nello sviluppo degli ordinamenti, sono
gli anni nei quali si registra un processo di industrializzazione massiccio, gli anni nei quali il quarto
stato (le classi lavoratrici) che comincia ad organizzarsi e a scioperare, sono gli anni delle
organizzazioni dei sindacati.
È passato quasi un secolo ed è chiaro che il codice sembra ormai una norma incapace di sostenere il
peso delle richieste regolative formulate da questa realtà in cosi rapida evoluzione. Questa rilevazione
dell’invecchiamento inevitabile della norma serve a riflettere sul ruolo del giurista. Il giurista inteso
come interprete in generale non deve tanto cimentarsi nella costruzione del sistema, deve riprendere
contatto con i fatti della realtà, deve iniziare a capire cosa succede nel mondo economico e sociale,
deve osservare la realtà, non estrarsi da essa, ma osservarla. Si sottolinea il verbo “osservare” perché
i giuristi (giuristi come Enrico Cimbali, Emanuele Gianturco, Simoncelli, Cesare Vivante) convinti
di dover ripensare al ruolo dell’interprete sentono infatti molto forte la lezione del positivismo
filosofico.
Positivismo giuridico vuol dire ritenere che il diritto si identifica con il diritto positivo, cioè con la
norma formalmente posta. Malgrado l’apparente somiglianza, il positivismo filosofico è una cosa
radicalmente diversa. In particolare per positivismo filosofico si fa riferimento a quel movimento
120
intellettuale molto ramificato che prende piede in Europa nella seconda metà dell’800’ e che ambisce
a trasferire nelle scienze sociali il metodo tipico delle scienze naturali e matematiche che sono scienze
di osservazione. Lo scienziato procede osservando un dato e formula un’ipotesi, poi verifica
quell’ipotesi ed enuncia la legge. L’ambizione è quella di rendere le scienze sociali, quindi anche la
scienza giuridica, una scienza di osservazione che muove dall’osservazione della realtà sociale e che
ricava da questa osservazione alcune regole. Questa infatuazione positivistica è tenace, il secondo
800’ è il periodo in cui si fanno le grandi inchieste: l’inchiesta agraria, l’inchiesta sul mezzogiorno.
Si fanno indagini sul campo per osservare la realtà e c’è un’altra scienza nuova, la statistica, che
nasce in questo periodo come scienza che deve leggere, sistemare e organizzare i dati osservati. Si
spera che così facendo, cioè facendo inchieste e indagini sul capo, si riesca a ottenere una ricognizione
obiettiva della realtà e sulla base di questo materiale raccolto si pensa di confezionare il diritto futuro.
Questo metodo però non è univoco, cioè non porta a una sola possibile interpretazione. C’è una
ventata di ottimismo intellettuale che sembra rendere possibile osservare la realtà sociale con la stessa
precisione e accuratezza con cui lo scienziato porta avanti il suo esperimento. Questi sono gli anni in
cui per esempio nasce la sociologia, che è appunto l’idea di effettuare uno studio scientifico della
società, di fondare un metodo proprio e specifico per lo studio dei fenomeni sociali.
Dunque la percezione della realtà come un dato che muta e come un dato che va osservato porta questi
giuristi a insistere sulla centralità di una forma specifica di interpretazione: l’interpretazione
evolutiva. L’interpretazione evolutiva è uno strumento che consente di non rinnegare l’importanza
del diritto positivo, ma allo stesso tempo di vivificare il diritto positivo, cioè di adattarlo al mutare
della realtà. Interpretazione evolutiva dunque non vuol dire disconoscere il diritto positivo, ma vuol
dire adattare la norma, elasticizzarla, per farla servire anche alle nuove esigenze che la realtà in
continua evoluzione ha offerto agli occhi dell’osservatore. In sostanza l’interpretazione evolutiva
garantisce una “seconda vita” alla norma, più conforme alle esigenze e alle richieste nuove formulate
dalla realtà. È il giurista, l’interprete, questa cerniera necessaria tra la fissità del testo della
norma e la mobilità della vita. Quindi l’interprete non è più solo il soggetto che spiega il diritto
positivo, ma è questo tramite necessario tra la norma e la vita, è colui che trova il modo di estendere
la portata regolativa della norma in modo che quella norma possa regolare anche i fatti nuovi offerti
dalla realtà. Sono dunque due le parole chiave: osservazione e interpretazione evolutiva.
Uno dei giuristi si chiama Enrico Cimbali, un civilista che nel 1881 pronuncia una prolusione
intitolata “Lo studio del diritto civile negli stati moderni.” Enrico Cimbali è imbevuto del positivismo
filosofico e sostiene che l’organismo sociale, al pari di ogni organismo fisico o biologico, è una realtà
in continua evoluzione e non statica. È una realtà ugualmente soggetta a quelle leggi evolutive che le
121
scienze naturali o biologiche studiavano in riferimento ad altri fenomeni. Vi era l’idea che c’è una
legge di evoluzione che determina lo sviluppo degli organismi. Il diritto in quanto strumento chiamato
a regolare la vita dell’organismo sociale non può essere una realtà statica. Questa funzione evolutiva
deve essere riservata all’interprete. L’interprete è una cerniera tra la norma e la evoluzione incessante
della vita. Vi è una frase: “Vi è una evoluzione progressiva della legge e l’ufficio dell’interprete è lo
strumento e il ministro della sua vita e della sua azione in continuo divenire.” Significa che è
l’interprete il ministro della vitalità della norma, cioè è colui che impedisce alla norma di seccarsi e
tiene in vita la norma attraverso la sua attività interpretativa così può regolare la vita. Un altro
riferimento è di Cesare Vivante che nel 1893 esce la prima edizione del suo trattato di diritto
commerciale. Nell’introduzione al trattato Vivante si sofferma a spiegare cosa dovrebbe fare un buon
giurista e non rimane nulla in queste parole di Vivante di quel culto per l’astrattezza e/o per il diritto
positivo che aveva caratterizzato la scienza giuridica fino a quel momento.
Il buon giurista identifica alcune caratteristiche:
1. Deve seguire il filo storico degli istituti quindi la storia torna ad essere una grandezza
rilevante per la scienza giuridica che viene tematizzata e considerata in modo diverso da come
Orlando ne parlava in quegli stessi anni. La storia di Orlando è una risorsa teorica, non è un
luogo esistito, che gli serve a dire certe cose (a spiegare l’origine dello stato, dei diritti
individuali…) quindi è una risorsa argomentativa che gli serve a respingere un certo ideario
giusnaturalistico e a dire certe cose in modo diverso. Nel discorso di Vivante invece la storia
riacquista spessore, è sinonimo di vita vissuta fino in fondo. La storia non è una categoria
interpretativa teorica ma riacquista una sorta di carnalità cioè il giurista che segue il fil storico
degli istituti è colui che deve andare a vedere concretamente come quegli istituti hanno vissuto
e si sono concretamente realizzati nelle epoche precedenti e questo ci viene confermato anche
dal secondo requisito reputato indispensabile per un buon giurista.
2. Il buon giurista, dice Vivante, deve studiare la pratica mercantile cioè per capire cos’è il
diritto commerciale non basta studiare sui libri ma bisogna andare a vedere come funziona la
pratica mercantile. Vedere cosa si fa nel mondo del commercio per poi identificare le regole
per il mondo del commercio. La fama di Vivante si lega anche per lo studio del contratto di
assicurazione che ha uno sviluppo a fine 800’ con la grande industrializzazione.
3. Vivante dice inoltre che il giurista deve scoprire la voce del diritto che viene su dalle cose.
Quindi il diritto non è una costruzione che si identifica sorvolando o astraendosi sulla realtà
ma il diritto è un frutto della organizzazione sociale, è un insieme di regole che una comunità

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si dà per disciplinare sé stessa e quindi la voce del diritto non viene dall’alto ma dalle cose e
bisogna chinarsi a guardare il mondo per ascoltare la voce del diritto.
4. Vivante dice che la natura dei fatti deve essere considerata una fonte del diritto, cioè i fatti
cessano di apparire un materiale grezzo, rozzo per diventare una fonte del diritto.

DIFETTI SOCIALI DEL CODICE E DEL MODELLO INDIVIDUALISTICO IN GENERE


(terza incrinatura del modello individualistico)
I giuristi che denunciano i difetti sociali sono giuristi che appartengono a quelle correnti solidaristico
riformistiche che circolano in Europa a fine 800’. In Germania si parla di socialismo della cattedra
con Menger, Vagner; in Italia si parla di socialismo giuridico, sono orientamenti riformisti e non
rivoluzionari. Sono tutti socialismi e non marxisti che non condividono la prospettiva della lotta di
classe che avrebbe dovuto sfociare per Marx nella rivoluzione del proletariato, ma ritengono che gli
ordinamenti presenti debbano essere riformati e modificati e resi un po’ meno ingiusti. Il primo libro
del Capitale di Marx esce nel 1867 e il secondo e il terzo libro escono rispettivamente nel 1885 e nel
1894 con Marx già defunto e vengono curati da Hengels.
Di seguito si analizzano i difetti del codice che vengono denunciati da questi giuristi come Gianturco,
Salvioli, Fusinato, Tartufari.
Un primo difetto attiene alla considerazione che il codice riserva al lavoro. Il codice civile del
1865 non prevede una fattispecie contrattuale autonoma cioè non prevede il contratto di lavoro
subordinato come fattispecie contrattuale autonoma cioè il contratto di lavoro è una sottospecie della
locazione. L’articolo 1627 del codice civile italiano stabilisce che vi sono tre specie di locazione e
una di queste tre è quella in virtù della quale una persona presta la propria opera all’altrui servizio. Il
rapporto locativo sta nel fatto che il lavoratore (locatore) dà in locazione le prime energie lavorative
e riceve in cambio dal locatario una mercede, cioè un canone o retribuzione. Per cui il lavoratore
affitta le proprie energie lavorative come prezzo e come canone per l’affitto riceve una mercede. Non
è dato alcun rilievo alla peculiarità del rapporto di lavoro cioè si ha una totale mercificazione del
lavoro. Il lavoro è equiparato a una res locabile suscettibile di locazione. Non c’è alcuna indicazione
di tutele per il lavoratore e il contratto di locazione di opere è immaginato e descritto dal legislatore
come tutti gli altri contratti come se risultasse dall’incontro paritario di due volontà libere ed
autonome. Nel 1893 Tartufari scrive un libriccino che si intitola “Del contratto di lavoro
nell’odierno movimento sociale e legislativo.” Non è un’opera dirompente cioè non ci sono contenuti
rivoluzionari ma c’è una indicazione forte e nuova per quel tempo che è l’esigenza che il rapporto di
lavoro abbia il proprio nome e che si chiami contratto di lavoro e diventi una specie contrattuale
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autonoma capace di richiamare su di sé una disciplina specifica adatta alla peculiarità del rapporto
contrattuale. La principale novità di questo libriccino è contenuta nel titolo nel senso che Tartufari
indica la necessità che il rapporto di lavoro risulti da un contratto specifico che si chiami contratto di
lavoro e non locatio operarum e che sia una fattispecie contrattuale autonoma.
Questa novità del libro di Tartufari è contenuta integralmente nel titolo ovvero nella necessità che
anche il lavoro fosse oggetto di un contratto ad hoc e non una sottospecie della locazione. L’unica
altra norma che il codice del 65’ dedicava al lavoro era quella dell’articolo 1628 che vietava di
impiegare la propria opera all’altrui servizio per un tempo indeterminato quindi l’impiego doveva
essere a termine e il contratto di oggi a tempo indeterminato era vietato dal legislatore del 65’ per
ragioni apprezzabili. Nella logica del codificatore questo divieto serviva a scongiurare che si
riproducessero ipotesi di dipendenza personale feudale tra il datore di lavoro e il prestatore di lavoro,
evitare che il lavoratore diventasse un servo a vita del datore di lavoro. Questo tipo di disposizione
nasce da un atteggiamento apprezzabile del legislatore che voleva scongiurare ipotesi di servaggio
del lavoratore. Lo scenario però muta con la crescente industrializzazione che coinvolge anche l’Italia
di fine secolo perché quella norma del 65’ era stata pensata con riferimento a un’economia
prevalentemente agraria, artigianale e manifatturiera. Un tipo cioè di economia in cui era più facile
che si riproducessero vincoli di dipendenza anche personale tra il datore di lavoro e il prestatore di
lavoro. Quindi questa norma aveva un senso, del tutto diverso era lo scenario che si presenta dinanzi
allo sviluppo di realtà industriali di vaste dimensioni. Un lato perché questi grandi complessi
industriali spesso spezzano il legame diretto tra datore e il singolo lavoratore, non solo ma almeno in
questa fase iniziale dell’industrializzazione le competenze richieste al lavoratore semplice sono di
solito ridotte. L’operaio non ha una preparazione tecnica o una preparazione spiccata e quindi quasi
chiunque può svolgere quel lavoro e il lavoratore semplice è una figura fungibile. Si ha una serialità
del rapporto di lavoro che era sconosciuta alla precedente esperienza. Questo pone delle esigenze di
tutela diverse per il nuovo lavoratore dell’industria e la scienza giuridica le recepisce perché questo
lavoratore che può essere sostituito con facilità con altri lavoratori, cui non si richiedono particolari
competenze, ha bisogno di lavorare per sopravvivere e la scienza giuridica comincia a discutere se
siano immaginabili dei temperamenti rispetto all’ipotesi del licenziamento ad nutum, cioè a
piacimento, perché questa ipotesi non era esclusa dal codice civile del 65’ che equiparava il contratto
di lavoro ad un qualsiasi altro tipo di contratto e la rendeva risolubile al pari di qualsiasi altro rapporto
contrattuale. In più c’era la disposizione dell’articolo 1628 che sembrava irrobustire la possibilità del
recesso ad nutum. Solo alcuni giuristi che pur dinanzi a questo tessuto normativo chiaro ispirato a
principi di tipo individualistico, inizia a qualificare il licenziamento ad nutum come una ipotesi di
124
abuso del diritto. Si parla di abuso del diritto quando si è difronte non ad una condotta espressamente
vista come lecita o vietata ma quando si è difronte ad una condotta formalmente possibile sulla base
delle disposizioni di diritto positivo ma che ciò non di meno e nonostante il fatto che sembri lecita, si
ritiene censurabile perché lesiva di altri interessi ritenuti meritevoli di tutela dall’ordinamento. Quindi
si è davanti non ad una condotta qualificata espressamente come vietata ma davanti ad una condotta
formalmente compresa o non esclusa dalle disposizioni del diritto positivo tuttavia che si ritiene lesiva
di interessi meritevoli di tutela dall’ordinamento. Il licenziamento ad nutum non è formalmente
escluso dal codice civile del 65’ ed è la fattispecie su cui si inizia a discutere a fine 800’. Non solo
non è vietato espressamente ma possiamo dire che la ratio di alcune disposizioni del codice lo facciano
ritenere legittimo cioè lo includono nelle facoltà spettanti alle parti del rapporto (datore di lavoro).
Tuttavia alcuni giuristi ritengono che il licenziamento ad nutum integri una ipotesi di abuso del diritto
cioè di esercizio abusivo di una facoltà pur riconosciuta dall’ordinamento perché lesiva di altri
interessi rilevanti tutelati dall’ordinamento. In questo caso l’interesse è aver conservato un posto di
lavoro che consente la sopravvivenza del lavoratore. Questo è il punto zero del dibattito dell’abuso
del diritto in Italia, la giurisprudenza non accoglie questa soluzione minoritaria e si dovrà aspettare
molti anni perché sia previsto un obbligo di preavviso.
Un altro difetto che viene denunciato è un difetto generale che non attiene ad un lato specifico, ma
riguarda l’impianto generale della codificazione e che riguarda uno dei cardini del diritto codificato
che è il principio dell’uguaglianza giuridica formale, cioè il fatto che siano trattati allo stesso modo
anche situazioni profondamente diverse. Questo trattamento uguale di situazioni diverse di solito
serve a consolidare le disuguaglianze esistenti. Vi è una frase di Emanuele Gianturco che è un giurista
eterodosso che nel 1891 scrive un’operetta intitolato “L’individualismo e il socialismo nel diritto
contrattuale.” La frase famosa è: “è una amara irrisione (presa in giro) parlare di libertà del volere e
di uguaglianza di diritto a chi muore di fame nei campi e nelle strade.” Il senso è che non è facile dire
che siamo tutti uguali e tutti liberi di volere e di scegliere la nostra sorte a chi muore di fame nei campi
e strade.
Un altro difetto del codice è rappresentato da un problema importante che devono affrontare tutti i
paesi europei industrializzati di fine 800’. Il problema è quello degli infortuni sul lavoro. A fine 800’
cambiano qualità e quantità di infortuni sul lavoro, in particolar modo, si ha una impennata degli
infortuni sul lavoro nell’industria e soprattutto questi infortuni sono attribuibili nella maggior parte
dei casi alle macchine. Il problema giuridico legato agli infortuni era come immaginare un
risarcimento per il lavoratore infortunato, non c’era nessun tipo di tutela, la tutela per gli infortunati
era un campo vergine. È un problema perché le regole sulla responsabilità esistenti nel nostro
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ordinamento non sanno dare una risposta soddisfacente perché le uniche forme di responsabilità civile
conosciute dall’ordinamento sono le RESPONSABILITA’ PER COLPA, cioè è risarcibile solo quel
danno che sia stato cagionato da un comportamento doloso o colposo del soggetto gente. Un primo
problema riguarda la macchina che non è un soggetto giuridicamente imputabile, la scienza giuridica
cerca di venire a capo di questa difficoltà forzando i margini di alcune figure di responsabilità note.
La prima proposta è quella di collocare questa fattispecie degli infortuni all’interno della
responsabilità contrattuale. Però lo schema della locazione, che era quello nel quale si collocava il
rapporto di lavoro, non offriva grandi risorse. Si tenta quindi di immaginare una estensione delle
regole previste per il contratto di mandato al rapporto di lavoro. Si tenta questo trapianto, in
particolar modo si tenta di trasportare sul contratto di lavoro quella regola del contratto di mandato
che impone al mandante di tenere indenne il mandatario da tutte le conseguenze derivanti dallo
svolgimento dell’attività oggetto di mandato. Il mandante deve tenere indenne il mandatario dalle
conseguenze negative derivanti dallo svolgimento del mandato allora si suppone che il datore di
lavoro sia il mandante e sia tenuto indenne di tenere il lavoratore da tutte le conseguenze negative
derivanti dallo svolgimento dell’attività di lavoro. Questo serve per dire che è responsabile
dell’infortunio il datore di lavoro che viene equiparato ad un mandante.
Questo tipo di soluzione si rivela macchinosa e quindi si prova a utilizzare la casella della
RESPONSABILITA’ EXTRACONTRATTUALE. La responsabilità extracontrattuale nasce dalla
violazione di un dovere generalizzato di non ledere, cioè di danneggiare gli altri. Questa responsabilità
non affonda le proprie radici in un preesistente contratto ma si realizza tutte le volte che viene levato
questo dovere generalizzato di non arrecare danno al prossimo. Il problema legato alla responsabilità
extracontrattuale era che è il danneggiato a dover dimostrare la responsabilità del danneggiante.
Concretamente sarebbe spettato al lavoratore infortunato provare la responsabilità del datore di
lavoro. Questo era non solo improbabile, perché le condizioni socio-economiche del lavoratore non
l’avrebbero consento, ma spesso era anche difficile, perché spesso l’infortunio era imputabile alla
macchina, quindi anche se l’operaio fosse stato adeguatamente assistito, adeguatamente supportato
dal punto di vista legale, restava non di meno difficile spesso imputare l’infortunio alla controparte
contrattuale (cioè al datore di lavoro).
Per superare questo stallo derivante dalla difficoltà di utilizzare le forme di responsabilità previste dal
codice del 65 per affrontare questo fatto nuovo. Qui c’è il diritto che è impari, non contiene una
risposta soddisfacente rispetto a questo problema nuovo. Per superare questo stallo viene messo a
fuoco il terzo ramo di responsabilità, cioè la RESPONSABILITA’ OGGETTIVA (o responsabilità
senza colpa). Si dice che il soggetto, nel momento in cui decide di farsi imprenditore, assume su di
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sé automaticamente un rischio, che è il rischio professionale. Questo rischio porta con sé il fatto che
l’imprenditore debba addossarsi le conseguenze negative delle attività che si svolgono nel suo
stabilimento industriale. Il tipico contratto in cui si parla di rischio è il contratto di assicurazione. Non
è un caso quindi che gli ordinamenti del secondo 800 dell’Europa industrializzata rispondano a molti
dei problemi sollevati dall’industrializzazione frenetica di quegli anni attraverso il sistema delle
assicurazioni obbligatorie (contro gli infortuni, contro la vecchiaia, contro le invalidità), dette anche
assicurazioni sociali, i cui premi, di solito, vengono ripartiti tra datore di lavoro, lavoratore e stato.
Questo tipo di legislazione, che prevede appunto le assicurazioni obbligatorie, si sviluppa nella
Germania di Bismarck nella seconda metà dell’800 e si diffonde poi nel resto dell’Europa. Per
esempio in Italia la prima legge sull’assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro è del 1898.
In generale si può dire che le leggi sulle assicurazioni obbligatorie costituiscono un capitolo rilevante
della legislazione sociale che appunto comincia ad essere emanata in Europa negli ultimi 20-30 anni
dell’800’. Si tratta di una legislazione che per esempio mira a tutelare minimamente il lavoro dei
fanciulli: per esempio nel 1873 c’è una legge in Italia che vieta ai fanciulli i mestieri girovaghi, è del
1886 una legge più organica che disciplina il lavoro dei fanciulli e che vieta loro impiego in attività
particolarmente pericolose e faticose come quelli nelle miniere. Per esempio si dice che questa legge
ha funzionato molto poco perché non accompagnata da adeguati meccanismi di controllo sulla sua
applicazione. Questa legge che doveva disciplinare anche il lavoro delle donne, in realtà si limita al
solo lavoro dei minori proprio perché non si era trovata una convergenza in parlamento sul lavoro
femminile. A riguardo si discuteva delle cose minime: evitare le donne ai lavori più pesanti la
settimana del parto o il mese successivo al parto. Quindi si fa una legge solo dei minori, legge che per
altro non viene attuata con la dovuta attenzione.
Questa legislazione sociale viene promulgata anche con intenti dichiaratamente anti-rivoluzionari, per
esempio Bismarck dice che grazie a questa legislazione anche le classi non abbienti, le classi
lavoratrici, si convinceranno della bontà dello stato. È il segno di uno stato che si occupa dei lavoratori
e dei poveri, è il segno di uno stato benevolo e che quindi allontanerà le masse dalla idea della
rivoluzione. Questa legislazione sociale sarà un formidabile antidoto alla carica rivoluzionaria che le
masse sembravano ormai in grado di sprigionare. In effetti nascono a fine 800 le prime società di
mutuo soccorso, cioè società di aiuto reciproco fra i lavoratori costituite da loro stessi per fare fronte
comune rispetto ad evenienze negative come malattie, licenziamento, infermità. Quindi sono
organizzazioni che svolgono un’importante funzione economico-sociale. Di solito le classi dirigenti
guardano con discreto favore a queste organizzazioni proprio perché reputate segno di una società che
si autogestisce, cioè che si inventa soluzioni per vivere il meglio possibile all’interno di un
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determinato sistema produttivo. Sono viste come il “fior fiore” della classe lavoratrice. La società di
mutuo soccorso è segno di una classe lavoratrice sufficientemente voluta che inventa strumenti per
convivere pacificamente con un certo sistema di produzione e distribuzione della ricchezza.
Viceversa, sono guardate con molto più diffidenza le organizzazioni sindacali che ugualmente
iniziano a nascere in questi anni. Mentre la società di mutuo soccorso incarna l’orizzonte pacifico di
una società che si auto organizza, le organizzazioni sindacali vengono guardate con più diffidenza
perché esprimono una maggiore calca conflittuale, perché vedono nel conflitto e nello sciopero uno
strumento per migliorare le condizioni di vita delle classi più disagiate. Il lavoro di fabbrica è una
modalità di organizzazione del lavoro che tende a favorire l’organizzazione dei lavoratori perché forse
e per la prima volta nella storia il lavoro si svolge in strutture sempre più ampie, le fabbriche, che
fisicamente radunano migliaia di lavoratori. I lavoratori non sono più sparsi nei poderi, nelle
manifatture e nelle botteghe artigiane, ma c’è una concentrazione fisica dei lavoratori che trova
riscontro anche in un altro fenomeno tipico delle società industriali di fine 800 che è l’inurbamento,
cioè enormi masse di lavoratori affluiscono verso le città o comunque verso luoghi vicino alle
fabbriche e nascono i quartieri, i sobborghi operai, che sono ugualmente luoghi dove ci sono nuove
possibilità di vicinanza. Quando tante persone capiscono di condividere la stessa sorte è più facile
organizzarsi.
La scienza giuridica si approccia al problema della scienza sociale con estrema cautela, cioè tenta di
emarginare la legislazione sociale, cioè di isolarla nella zona delle eccezioni. Questo vuol dire che
per la scienza giuridica, l’ordine, la convivenza continua ad essere incardinata intorno ai suoi perni
tradizionali: un diritto privato, concepito come il diritto dell’individuo del codice, e un diritto
pubblico, concepito come quel diritto dello stato, uno stato tendenzialmente lontano dalle dinamiche
socio-economiche. La legislazione sociale è questa sacca di leggi considerate più o meno
eccezionali, sebbene necessarie. Eccezionali perché non alterano le coordinate dell’ordine, non
alterano l’idea che l’ordine graviti intorno a un certo individuo e a un certo stato; ma allo stesso tempo
necessarie perché quell’ordine riusciva ad essere confermato nelle sue strutture portanti solo se si
accettava di disinnescare la carica conflittuale che il quarto stato cominciava ormai a manifestare.
Questa legislazione sociale non si lega nemmeno lontanamente con un qualcosa che noi con
terminologia attuale potremmo chiamare uguaglianza sostanziale, perché lo scopo di questa
legislazione non è quello di ridurre le diseguaglianze esistenti, lo scopo di questa legislazione è quello
di eliminare gli aspetti più impresentabili, più macroscopici, degli squilibri prodotti
dall’industrializzazione in modo da confermare in pieno quel modello di sviluppo economico-sociale.
Mentre l’uguaglianza sostanziale lavora a monte, cioè tende a dare pari opportunità, questa invece è
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una legislazione che opera a valle di un sistema di diseguaglianze, le modera, ne spegne gli aspetti
più inqualificabili, ma non tende a riallineare la posizione dei consociati, non li mette in condizione
di partire da posizioni analoghe.

LA CRISI DEL MODELLO INDIVIDUALISTICO


Se si volesse trovare sinteticamente una parola che ci restituisce lo spirito del 900’ si potrebbe usare
il riferimento alla parola “crisi”. Di crisi si comincia a parlare ai primi del 900’ e ancora non si è
smesso: si parla di crisi della legge, crisi del diritto, crisi dello stato, è tutto un parlare di crisi. Da
questo punto di vista il 900’ non appare tanto un secolo breve, quanto un secolo lunghissimo. Se si
prende come unità di misura il riferimento alla crisi si può dire che siamo in pieno 900’ perché non
c’è un discorso sul diritto che ancora oggi non inizi muovendo da una constatazione di una crisi.
Quando si parla di crisi in ambito giuridico si tende a fare un bilancio, cioè parlare di crisi è sempre
l’occasione per formulare un bilancio per vedere se le risorse interpretative che si sono fino a quel
momento utilizzate siano ancora capienti, cioè siano ancora capaci di rispondere alle richieste
regolative formulate dalla realtà. Dunque quando si parla di crisi si fanno simultaneamente due
attività:
1. Si valuta il passato, cioè si valuta se sia sempre valido il modo in cui si è lavorato fino al
giorno prima;
2. Si punta lo sguardo al futuro.
Di solito quando si parla di crisi ci si trova in una situazione per cui le risorse del passato appaiano
sempre meno spendibili ed efficaci, ma allo stesso tempo non si ha ancora chiaro come e con quali
risorse interpretative affrontare il futuro. Dunque si capisce che qualcosa è diventato forse
irrimediabilmente vecchio, si capisce che tutto un insieme di idee e di strumenti devono essere lasciate
cadere perché non più adeguate alla realtà, ma allo stesso tempo si ha molta difficoltà a immaginare
il futuro.
Per i giuristi liberali c’erano certe coordinate dell’ordine, della convivenza, e poi c’era un disguido
localizzato e localizzabile che si chiamava questione sociale in cui abitano questi nuovi conflitti
sociali ed economici ed a cui si pone rimedio con la legislazione sociale. Questo disturbo localizzato
viene affrontato con leggi nuove, ma che appunto non fanno saltare i perni dell’ordine. Quando invece
si parla di crisi non siamo di fronte a un qualcosa di localizzato e di localizzabile, ma si segnala che
qualcosa di più profondo si è rotto, cioè si segnala una percezione più inquietante che hanno gli stessi
giuristi. La crisi può essere riassunta con la seguente espressione: la crisi indica sia troppa società
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nello stato, troppo stato nella società. Questa espressione segnala che è sempre più difficile
raffigurare privato e pubblico, società e stato, come due universi autonomi e tendenzialmente non
interferenti. Vuol dire cioè che società e stato appaiono sempre più come grandezze variamente
legate/intersecate.
TROPPA SOCIETA’ NELLO STATO: è impossibile capire il 900’ senza considerare il volto della
nuova società di massa. La società di massa è essenzialmente una società organizzata e anche una
società conflittuale. La società novecentesca è una società scandita intorno a grandi blocchi di
interessi organizzati, è una società percorsa da organizzazioni sociali, politiche ed economiche. È
dunque “organizzazione” la parola chiave di questo nuovo tempo storico. Partiti, sindacati, imprese,
concentrazioni di imprese, non sono altro che blocchi di interessi insediati nel bel mezzo della società
e che tendono a rendere irrimediabilmente obsoleta/vecchia ogni idea della società come mera somma
di individualità. È questo il tornante storico, per esempio, in cui nascono i primi partiti di massa.
Nel 1892 nasce a Genova il partito dei lavoratori italiani, che dall’anno successivo (1893) si
chiamerà partito socialista dei lavoratori italiani, e dal 1985 partito socialista.
Nel 1919 nasce il partito popolare italiano, il primo partito di massa dei cattolici italiani, e nasce in
seguito alla revoca del famoso non expedit, cioè dall’interdizione gravanti sui cattolici alla
partecipazione alla vita politica dello stato italiano.
Nel 1921 da una costola del partito socialista nasce il partito comunista italiano. Nel 1912 si ha
il suffragio universale maschile, mentre il suffragio universale femminile sarà solo nel 1945-46. Il
partito di massa ha una forte, estesissima, radicazione extra-parlamentare, cioè è un’organizzazione
che nasce dal sociale e che tenta di radunare intorno alle proprie idee quanti più aderenti possibile.
Inoltre questi partiti ambiscono a vincere le elezioni e a trasformare il loro programma politico nel
programma di governo. Quindi mettono in connessione forte stato e società, cioè la rappresentanza
politica da questo momento storico in poi ha a che fare con una trasmissione di idee di volontà che
dalla società arriva allo stato. Nell’ideologia liberale precedente non è che l’idea de partito manchi,
solo che il partito è visto come una creatura assembleare, cioè i partiti indicano solo le divisioni dei
parlamentari esistenti all’interno del parlamento. I partiti hanno una radicazione esclusivamente
assembleare, non hanno nessun dialogo con la società sottostante. I giuristi liberali insistono molto
nel dire che una camera che funziona bene è nettamente divisa in partiti, ma la divisione in parti serve
solo a far funzionare bene le camere, a evitare pratiche trasformiste, a evitare maggioranze variabili
che indeboliscono l’esecutivo. Quindi i partiti nella logica liberale servono solo a far funzionare
bene un’assemblea e la relazione tra parlamento e governo. Nella concezione novecentesca i
partiti realizzano un legame indispensabile tra società e istituzioni, ed è per questo che hanno una
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fortissima radicazione sociale, extra assembleare. In generale comunque il giurista è turbato da questa
società organizzata perché queste organizzazioni di interessi premono sullo stato e tentano di
conquistare lo stato e di far marciare lo stato in una direzione conforme alle proprie idee. Una delle
immagini più diffuse della pubblicistica novecentesca è quella dello stato assediato dalla società,
cioè non più in grado di difendere le proprie frontiere sovrane. Si parla di società conflittuale perché
queste organizzazioni esprimono visioni diverse, tentano di conquistare lo stato.
Nel 1909 un giurista illustre, Santi Romano, tiene un discorso inaugurale all’Università di Pisa
dell’anno accademico 1909/1910. In questa occasione solenne Santi Romano intitola questo discorso
inaugurale “Lo stato moderno e la sua crisi”. Questo testo ci dà una diagnosi acutissima delle
trasformazioni novecentesche e soprattutto Santi Romano ci dice che dinnanzi a queste trasformazioni
e a questo organizzarsi della società novecentesca, lo stato moderno paga il suo peccato di origine,
cioè quello di essere stato costruito in una forma maestosa, astratta, ma eccessivamente semplice. Il
peccato d’origine è dunque l’eccessiva semplicità dello stato moderno, cioè di una costruzione
che non ha saputo affrontare adeguatamente il problema della relazione con la società.

TROPPO STATO NELLA SOCIETA’: si tratta del fenomeno speculare perché ugualmente ci
segnala la difficoltà a immaginare società e stato come spazi autonomi. Qui il momento di cesura
forte è rappresentato dalla prima guerra mondiale. Lorenzo Mossa, che è un giurista straordinario del
900’ italiano, dice che la guerra segna l’inizio di una nuova storia per gli ordinamenti occidentali.
Nella guerra si ha un forte intervento dello stato sul terreno economico e si tratta di un intervento che
non lascia indenni neppure le roccaforti del diritto privato ottocentesco: la proprietà e il contratto.
Negli anni del conflitto viene emanata una normazione fittissima, provvedimenti normativi
promulgati dall’esecutivo che all’inizio del conflitto, nel 1915, aveva ricevuto dalla camera una
delega molto ampia. In particolar modo l’esecutivo era stato autorizzato dalla camera ad emanare
norme necessarie non solo a far fronte a quelle esigenze di sicurezza nazionale tipiche dei periodi di
guerra, ma il governo era autorizzato ad emanare anche tutte quelle norme che fossero sembrate
necessarie per soddisfare “urgenti e straordinari bisogni dell’economie nazionali” e fu proprio questo
il canale che consentì allo stato di emanare una disciplina che violava in maniera massiccia l’idea
dello spazio del diritto privato come spazio autonomo. Per esempio vengono requisiti impianti
industriali, la requisizione è una forma di espropriazione temporanea. Si interviene in maniera pesante
sull’autonomia privata per esempio imponendo la produzione di certi beni ritenuti utili a sopportare
lo sforzo bellico. Oppure si prevede l’obbligo di denunciare il possesso o la detenzione di certi generi
alimentari perché quei beni potevano servire per un eventuale redistribuzione tra i consociati. Ancora
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per esempio viene prorogata da autorità la scadenza di certi contratti, avviene questo per i contratti di
locazione. Questo per dire che cede in maniera forte l’idea che lo spazio privato sia uno spazio riparato
dallo sguardo statuale.
La legislazione di guerra tendeva a violare lo spazio privato del diritto. Vi è una nuova forma di
intervento dello stato nella realtà economica sociale. È sempre più difficile immaginare il diritto
privato come luogo di esplicazione della libera volontà individuale. Frana l’idea di diritto privato
concepita come quel lato del diritto in cui l’individuo è libero di scegliere come esercitare i propri
diritti. È sempre più difficile immaginare il diritto privato come quel luogo in cui l’individuo si muove
solo sulla scorta della propria volontà. È in questo tornante storico che si comincia a parlare di
funzione sociale dei diritti soggettivi e della proprietà in specie. Questo vuol dire spostare l’attenzione
dal momento dell’attribuzione del diritto al momento dell’esercizio del diritto. Nella logica
tradizionale non si ritiene che la linea di confine tra privato e pubblico sia fissa solo che si ritiene che
quando una certa fattispecie viene attribuita al diritto privato del giure, dentro quell’area l’individuo
sia libero di impiegare il suo diritto come più gli piace con i soliti limiti dell’ordine pubblico.
Nell’ambito degli impieghi leciti l’individuo è libero di scegliere come comportarsi. Se si decide che
una certa fattispecie appartiene al diritto privato, la volontà dell’individuo è tendenzialmente libera.
Quando si comincia a parlare di funzionalizzazione dei diritti ci si interroga se sia possibile valutare
o sindacare l’esercizio che del diritto fa il singolo. In particolar modo ci si chiede se il singolo possa
essere tenuto a esercitare i suoi diritti in modo tale da soddisfare anche interessi extra individuali non
identificati attraverso la volontà individuale. Ci si chiede se si possa imporre al singolo di coltivare
un campo oppure di coltivarlo in un certo modo. La concezione individualistica della proprietà non si
occupa della res ma della pienezza della volontà del soggetto. In questo periodo storico invece i beni
cominciano a diventare in particolar modo viene messa a fuoco la categoria del bene produttivo che
è il bene suscettibile di produrre utilità non solo per il singolo individuo, ad esempio il campo di grano
può nutrire una intera collettività e non solo l’interesse del titolare. La proprietà non può essere più
immaginata come diritto unitario, non basta più solo un calco giuridico a descrivere la proprietà
perché la disciplina della proprietà deve cominciare a modellarsi sulle diverse attitudini dei beni. La
proprietà di una penna non è come la proprietà di un terreno coltivabile, la penna posso anche
distruggerla, se ho un terreno coltivabile ci si chiede se l’ordinamento mi può imporre di far produrre
lo stabilmente. Che un nuovo vento soffiasse nel mondo era testimoniato dalla rivoluzione Russa,
dalla rivoluzione di ottobre che è un evento spaventoso per l’occidente che rappresenta il primo grande
esperimento di collettivizzazione della proprietà. Non meno forti erano alcune sollecitazioni che
arrivavano da terre più vicini, nel cuore dell’Europa in terra di Pandette, nel 1919 viene promulgata
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la costituzione di Weimer considerata la prima costituzione democratica del 900’ all’articolo 153
stabilisce lapidariamente un qualcosa che è rivoluzionario per il diritto europeo. Questo articolo dice:
“La proprietà obbliga il suo esercizio, oltre che al privato, deve essere rivolto al bene comune.” C’è
l’idea che la proprietà non è più quella specie di sovranità privata ma diventa un diritto-funzione cioè
un diritto che risulta dall’impasto di facoltà e doveri e registriamo sempre in questo periodo la
singolare torsione che registra l’istituto della espropriazione. Essa è sempre stata prevista come
strumento atto a spazzar via un diritto privato di proprietà individuale, non è un istituto nuovo ma è
sempre stato previsto che per ragioni di pubblico interesse la proprietà potesse venire espropriata
salvo un indennizzo. Anche la dichiarazione francese del 1789 anche quando dichiara che la proprietà
è un diritto inviolabile e sacro riconosce la possibilità di espropriazione per esigenze di pubblico
interesse. Lo Statuto Albertino dichiara inviolabile la proprietà ma ammette l’espropriazione come
strumento che eccezionalmente può eliminare un diritto di proprietà. In questa visione individualista
di proprietà, l’espropriazione si giustifica sulla base di un presupposto cioè sulla base dell’idea che
l’individuo privato titolare del diritto di proprietà non possa realizzare quell’interesse pubblico che
giustifica l’espropriazione. Esempio: mi espropriano un campo per far passare una strada o una
ferrovia, l’interesse mio e pubblico sono distanti e il mio interesse individuale può realizzare
l’interesse pubblico che giustifica l’espropriazione. Invece a partire dagli anni 20 in Europa, si
cominciare che l’espropriazione possa avere veste sanzionatoria. Ci sono norma che indistintamente
in regimi politici diversi prevedano che l’espropriazione possa essere comminata in veste
sanzionatoria, in Italia per esempio, iniziano i grandi lavori di bonifica durante il fascismo si prevede
che il proprietario che si rifiuti le opere di bonifica a suo carico, possa essere espropriato della sua
terra oppure per esempio si prevede in alcune norme che alcuni appezzamenti di terreno debbano
essere accorpati perché una polverizzazione delle proprietà rende impossibile far produrre
adeguatamente. Quindi i proprietari che si rifiutano di ricomporre i terreni in modo che sia rispettata
l’estensione minima prevista dei terreni, possono essere espropriati. Cambiano i presupposti che
legittimano il ricorso all’espropriazione cioè si può continuare ad espropriare alla vecchia maniera
cioè si espropria il campo per costruire il ponte ma l’espropriazione diventa anche lo strumento con
cui si sanziona il proprietario che rifiuti di esercitare il proprio diritto nei modo indicati
dall’ordinamento sul presupposto che la condotta privata sia idonea a realizzare certi interessi
pubblici. Quindi quelle muraglia alzate tra privato e pubblico immaginate come due realtà non
comunicanti, queste barriere cominciano a sgretolarsi. Tutta la storia successiva fino ad oggi,
rappresenta un tentativo di trovare un equilibrio tra diritti e doveri, tra mercato e regolazione, tra
politica ed economia. Le stesse costituzioni novecentesche cercano di comporre questi termini in
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equilibrio sul presupposto che ormai siano diventati termini comunicanti cioè sono nozioni intersecate
tra loro. Il novecento consoce due grandi risposte a questi due interrogativi:
 La risposta totalitaria
 La risposta democratica

La risposta totalitaria
Vediamo alcune caratteristiche comuni alle logiche comunitarie e ci appoggiamo nel far questo alla
voce di alcuni giuristi che hanno tentato di mettere a fuoco dal punto di vista teorico l’idea di stato
totalitario negli anni del fascismo. Non affrontiamo il problema del se e quanto il fascismo sia stato
effettivamente un regime totalitario ma possiamo affermare con certezza che dal punto di vista teorico
le linee dello stato totalitario sono state lucidamente e chiaramente disegnate. Alcuni di questi giuristi
sono Alfredo Rocco, Giuseppe Bottai, Sergio Panunzio, Arnaldo Volpicelli, Ugo Spirito, Giuseppe
Maggiore. Si tratta di giuristi diversissimi che polemizzano tra loro in maniera molto aspra perché
hanno idee diverse su quella che doveva essere la missione storica del fascismo, il suo volto. Sono
tutti convinti che il fascismo debba rappresentare una cesura importate con la precedente esperienza
liberale ma interpretano in modo diverso le caratteristiche di questa cesura. Tuttavia pur all’interno
di queste importanti diversità noi possiamo tracciare una specie di elenco e caratteristiche comuni che
possiamo dire decisive per dire che cos’è uno stato totalitario. Vittorio Emanuele Orlando dice che
l’essenza dello stato può essere riassunta in una frase “Gli ubeo ergo sum” cioè comando quindi sono.
Orlando è l’esponente di spicco di quella tradizione che il fascismo vuole abbattere. Se noi volessimo
servirci di questa frase orlandiana per invece denotare l’essenza dello stato totalitario dovremmo dire
“organizzo ergo sum”. Lo stato totalitario “organizzo ergo sum”, viene utilizzata questa
semplificazione perché lo stato totalitario mira ad organizzare le masse. Il totalitarismo è figlio
inevitabile del 900’ cioè è una formula politica che non funziona e non è spendibile in tipi di società
diverse. Dice Giuseppe Bottai, uno degli uomini di punta del regime: “Si può non adorare la massa
ma non si può ignorarne l’esistenza.” Sergio Panunzio, altro intellettuale dice che lo stato liberale si
caratterizzava per un’autentica “fobia sociale”. Cos’è che dal punto di vista di questi intellettuali
aveva determinato una crisi irreversibile dei sistemi liberali? Il fatto che lo stato liberale tendesse a
prendere le distanze dalla società, lo stato è tanto più autorevole quanto più riesce a tenere la società
a debita distanza. Lo statualismo liberale non vuole sporcare la sovranità dello stato con la società,
Orlando e tutta la scuola tedesca cercava di trovare dei meccanismi per tenere stato e società a debita
distanza, con l’istituto della rappresentanza, lo stato come persona giuridica ecc. Questo, per i giuristi
fascisti è stato l’errore mortale del liberalismo perché questa società ignorata dal punto di vista teorico
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in realtà si organizzava sul terreno storico concreto e la società di massa è una società organizzata e
conflittuale in cui ci sono questi blocchi di interessi che sembrano “autentici stati nello stato” cioè
sono poteri insediati nel bel mezzo del sociale che assediano lo stato e lo affliggono. Quindi lo stato
doveva cambiare strategia e doveva accettare di relazionarsi con la società, non la poteva più ignorare,
né la poteva continuare a dipingere come somma di individui. Lo stato totalitario non si mette a
controllare la società o a esercitare una sorveglianza poliziesca sulla società, fa anche questo ma non
solo. Da questi autori anche la forma più forte di violenza cioè la violenza squadristica viene
presentata come una forma di violenza necessaria ma transitoria cioè deve servire a consolidare il
potere dello stato fascista ma non ne deve diventare un attributo normale. Una risorsa necessaria ma
transitoria e serve a consolidare il potere. Lo stato nuovo deve organizzare la società e non solo
controllarla. Se la società novecentesca si organizza, se il 900’ produce questi aggregati collettivi, lo
stato deve diventare il soggetto della organizzazione sociale, deve diventare il potere che plasma la
società a lui sottoposta e non la società che si organizza da sola. Tutti i regimi totalitari si
caratterizzano per una proliferazione di enti e organizzazioni sociali persino l’opera nazionale del
dopo lavoro è una creatura degli anni del regime nasce negli anni del fascismo per significare anche
l’organizzazione del tempo libero è qualcosa che rientra nel progetto statuale di organizzazione delle
masse. Sono strumenti che nascono negli anni del regime e che mirano ad un obbiettivo più ambizioso
rispetto al mero controllo poliziesco che è la cattura del consenso. Questo processo di organizzazione
statuale della società non deve servire solo a controllare la società ma a catturarne il consenso e a
trasformare la società in una milizia compattamente devota alla causa del nuovo stato totale ed è per
questo che i riferimenti alla propaganda hanno un ruolo decisivo anche nelle pagine dei giuristi. I
giuristi che di solito sono animali asettici invece parlano anche dalla propaganda che dal loro punto
di vista non è una attività di mera apologetica e mera celebrazione delle virtù del regime ma è uno
strumento di governo delle masse quindi una cosa da prendere molto sul serio. Dice Volpicelli che la
propaganda deve educare l’individuo a sentirsi libero cioè l’individuo è educato dal nuovo potere
statuale ma se è ben ammaestrato non si accorge di esserlo e si sente libero. Questo è un problema
attuale, la società dei consumi, ci sentiamo frustati se non possiamo, noi pensiamo di avvertire un
bisogno che ci viene indotto. L’individuo dello stato totalitario è ammaestrato ma così bene che si
sente libero. Ugo Spirito dice che se altro fosse lo stato, altri sarebbero i gusti dell’individuo. I gusti
vengono condizionati da meccanismi sofisticati di persuasione, quindi l’insidia totalitaria c’è in tutte
le società di massa e poi si dirama in tanti modi. George Mousse dice che noi non possiamo capire i
totalitarismi se non capiamo le ragioni per cui vi ha aderito anche quello che tutti noi potevamo
considerare il migliore vicino di casa perché l’insidia totalitaria è potentissima ma silenziosa, lui parla
135
della persecuzione antisemita. È un potere persuasivo e lo sterminio degli ebrei è preparato da decenni
di persuasione occulta e poi esplode. Lo stato totalitario ambisce ad un potere persuasivo e non solo
repressivo. Queste attività di organizzazione del sociale devono servire a guadagnare l’adesione della
società rispetto al progetto della società interpretato dallo stato perché queste masse devono essere
organizzate per uno scopo. Qui abbiamo un’altra rottura forte rispetto all’ideario liberale cioè lo stato
non è più neutrale, lo stato democratico ma anche quello totalitario non sono più neutrali. Non è questa
creatura asettica ed astratta di cui ci parlava Orlando ma è uno stato progetto cioè è uno stato che
esprime una propria visione del mondo rispetto alla quale tenta di guadagnare l’adesione di tutta la
società e questo è il grande problema di tutti i totalitarismi per chi scrive questo progetto di convivenza
e questi giuristi discutono animatamente perché ognuno di loro è convinto di avere in tasca l’idea più
brillante e convincente sugli scopi dello stato totalitario. Nella storia vissuta, ciò che per fortuna
incrina e rende più fragile la potenza della logica totalitaria è la difficoltà un’unica luogo o un’unica
sede istituzionale con cui con chiarezza si identifica il progetto di convivenza, a volte non si riesce ad
identificare in maniera compatta un certo progetto di convivenza e non resta chela volontà del capo.
I poteri soli sono sempre poteri forti ma anche poteri fragili ed isolati e serve una organizzazione più
robusta. In questa visione un altro punto di distanza forte rispetto alla logica liberale è data dal modo
in cui si immagina lo spazio privato del diritto. Faticosamente, la modernità progressivamente elabora
una serie di categorie concettuali che le consentono lo spazio privato del diritto come uno spazio di
autonomia e libertà individuale. È uno spazio tendenzialmente riparato dallo sguardo statuale. I diritti
innati, i diritti naturali, quel pacchetto che l’individuo porta nel contratto sociale e pretende che siano
rispettati dallo stato ma anche Orlando dice che lo stato non può mettere le mani su quei diritti perché
chiama in causa la storia. L’individuo ottocentesco ha un pacchetto di diritti ritenuti storicamente
consolidati e sia la visione di Orlando che quella dei giusnaturalisti portano alla stessa conclusione
che l’individuo ha un pacchetto di diritti che gli spettano e su cui lo stato non può mettere le mani.
Questa idea viene rinnegata dagli assertori della soluzione totalitaria. Alfredo Rocco dice che l’idea
di diritti e autonomia individuale è una idea vecchia del vecchio mondo individualistico e che ad essa
deve essere sostituito un concetto nuovo che è quello di “organico sviluppo della personalità
individuale.” L’individuo è solo un “elemento infinitesimale transeunt del gioco sociale” cioè è una
molecola minuscola, passeggera e ciò resta non è l’individuo ma l’organismo, lo stato, il tutto.
L’individuo è questa minuscolezza passeggera e ciò che resta è lo stato ed è solo questa la ragione per
cui lo stato deve occuparsi del benessere individuale. La cura del benessere individuale non è il
rispetto dell’individuo e dei suoi diritti ma lo stato deve curarsi del benessere individuale perché solo
se l’organismo le cui cellule sono in buona salute funziona. Solo se curate nel loro benessere,
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l’organismo è sano e forte. Si ha una completa strumentalizzazione dello spazio individuale. Il diritto
privato non è lo spazio dell’autonomia degli individui, l’individuo non p protetto dal suo bagaglio di
diritti ma è visto solo come la cellula di un organismo che lo sovrasta. È lo strumento di un gioco più
grande di lui e la stessa proprietà che è stata il diritto per eccellenza che la modernità ha incaricato di
descrivere la sua libertà e volontà del soggetto, viene diversamente valutata dai giuristi di regime, c’è
chi ne auspica che la proprietà si trasformi e c’è chi la difende la calatura tradizionale come luogo
riservato alla volontà dell’individuo. Queste posizioni hanno una distanza più apparente che reale,
perché anche chi difende la veste tradizionale della proprietà non lo fa per difendere uno spazio di
autonomia e diritti individuale ma lo fa solo perché ritiene che quella concezione della proprietà sia
quella più capace di accrescere la potenza dell’organismo. Se io posso sfruttare il mio bene come
voglio attrarrò più utili possibili e produrrò più utilità economica anche per lo stato, si spezza quel
legame che aveva unito da Locke in poi la libertà individuale, la proprietà torna in terra e diventa un
valore solo economico e non ha più su di se una sua simbologia, se la si rispetta è perché il singolo la
ritiene più utile e di fare del suo bene ciò che vuole e non perché si ritiene che si rispetti una zona
individuale non penetrabile dalla zona dello stato. La proprietà non è più il diritto incaricato di
incarnare la libertà dell’individuo ma torna ad essere un valore economico, se la si rispetta nelle sue
fattezze tradizionali è solo perché si ritiene più utile per lo stato e non perché si rispetta uno spazio di
libertà individuale.

La risposta democratica
Il tempo storico che segna il definitivo insediamento delle costituzioni democratiche è il secondo
dopoguerra e queste costituzioni si spiegano anche perché hanno avuto alle spalle le drammatiche
esperienze dei regimi totalitari, cioè nascono anche come risposta forte rispetto alle dittature che le
hanno precedute come risposta intenzionata a scongiurare per il futuro che nuove dittature siano
possibili.
Caratteristiche delle costituzioni democratiche:
 Sono innanzitutto delle costituzioni rigide, cioè sono costituzioni che non possono essere
modificate dalla legge ordinaria e hanno queste caratteristiche proprio perché i regimi totalitari
avevano dimostrato in maniera lampante come la legge non fosse necessariamente buona. I
totalitarismi dimostrano che la legge non è un atto che ospita sempre contenuti apprezzabili. I
totalitarismi, alcune delle loro peggiori cose, le hanno fatte per legge, cioè le hanno fatte
attraverso atti normativi attivati con le procedure formalmente previste. Quindi il totalitarismo
ha trovato nella legge un suo terreno di affermazione, non solo nell’illegalità. Nel secondo
137
dopoguerra ci si rende conto come la legge sia un calco formale nel quale, dice Calamandrei,
può essere colato sia l’oro che il piombo, quindi sia contenuti eccelsi che contenuti
ignominiosi. Quindi la garanzia per il futuro che certi orrori non si ripeteranno non va affidata
alla legge, ma va affidata a qualcosa che sta più in alto della legge, cioè alla costituzione.
 Queste costituzioni sono chiamate anche dalla storiografia costituzioni politiche o
costituzioni progetto. Si intende qui la politica in un’accezione lata particolare, che non ha
nulla a che vedere con gli uomini politici. In particolare la politica si intende come il luogo in
cui si elabora un certo progetto di convivenza. Attraverso queste costituzioni si progetta nel
suo complesso un ordine nuovo ispirato a certi valori che sono dichiarati in costituzione,
cioè ci si immagina una società futura e la si immagina migliore rispetto a ciò che c’è stato
prima. Uno degli strumenti giuridici che sostiene questa progettualità nuova è per esempio il
principio dell’uguaglianza sostanziale: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di
ordine sociale...”, così si apre il comma 2 dell’art. 3 cost., è una frase di una portata
rivoluzionaria. Questo principio vuol dire che l’uguaglianza perché sia effettiva e un valore
positivo deve tendenzialmente equiparare la posizione da cui partono i diversi cittadini. È
l’aspirazione a realizzare quelle che si chiamano opportunità pari, affini. L’uguaglianza
formale, il trattamento uguale in situazioni diverse, alla fine conferma le diseguaglianze
diverse iniziali. Per il costituzionalismo democratico il diritto uguale rischia di essere un diritto
ingiusto, cioè l’uguaglianza ritiene un intervento normativo selettivo che equipari e azzeri per
quanto possibile le condizioni di partenza.
 È per questo che nelle costituzioni democratiche un ruolo centrale è ricoperto dai diritti sociali
(diritto all’istruzione, diritto all’assistenza sanitaria, diritto al lavoro). Questi diritti
storicamente sono gli ultimi che si presentano sulla scena degli ordinamenti, cioè è l’ultima
categoria di diritti che emerge storicamente. Tuttavia se è vero che questi diritti sono gli ultimi
a comparire sulla scena storica non vanno considerati come diritti secondari, o come semplici
diritti aggiunti, anzi è stato autorevolmente detto che i diritti sociali vanno considerati come
diritti autentici diritti presupposto. Questo vuol dire che la garanzia, l’effettività, di questi
diritti rappresenta un presupposto indispensabile per lo stesso esercizio libero, autonomo e
responsabile degli stessi diritti di prima e seconda generazione. Esempio: un soggetto a cui si
garantisce un’istruzione, o il diritto alla salute, è un soggetto meno ricattabile e quindi è un
soggetto che in maniera più libera, più autonoma e più responsabile eserciterà anche le altre
libertà di espressione del pensiero, di opinione, di voto. In Inghilterra si parla di libertà dai

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bisogni, i diritti sociali servono a liberare il soggetto dal bisogno, dall’ignoranza, e a renderlo
quindi meno ricattabile.
 Queste costituzioni riconoscono e garantiscono la proprietà, ma non la definiscono più
come un diritto inviolabile al modo delle vecchie carte costituzionali. Questo vuol dire che
non si attribuisce più alla proprietà il compito di descrivere la libertà del soggetto, cioè la
proprietà resta un diritto individuale importante, ma non è più l’unico diritto che descrive la
libertà dell’individuo. È stato detto che la proprietà è compiutamente laicizzata dalle
costituzioni democratiche, cioè la proprietà esce dall’empirio dei concetti sacri e diventa una
creatura terrena. Resta dunque un diritto importante, ma non così importante da essere
sinonimo della libertà del soggetto. La libertà del soggetto viene ancorata a valori diversi: al
principio della indivisibilità dei diritti, cioè l’idea che i diritti civili, politici e sociali
appartengano a un unico nucleo concettuale e normativo e poi c’è una specie di concetto limite
che figura nelle costituzioni democratiche, cioè il concetto di dignità. “Dignità” è una parola
nuova, la dignità dell’individuo non può essere violata da nessun intervento normativo. C’è
un limite oltre il quale non ci si può comunque spingere.
La scienza giuridica alle importanti novità contenute nella costituzione democratica si è
rapportata in maniera non facile, cioè l’incontro con la costituzione italiana del 48 non è stato né facile
né immediato. Nel 1948 c’è stata un’importante sentenza della Cassazione che ha stabilito la
distinzione tra norme precettive e norme programmatiche. Questo vuol dire che l’impianto
intimamente unitario della nostra costituzione è stato sezionato e all’interno della costituzione si sono
identificate alcune norme ritenute immediatamente precettive. Queste norme precettive erano le
norme ancorate espressione di una visione tradizionale del diritto (es. le norme di garanzia delle libertà
individuali). Venivano invece qualificate programmatiche quelle disposizioni della costituzione che
non si ritenevano immediatamente applicabili, ma che richiedevano un intervento attuativo del
legislatore ordinario. Dunque dovevano essere attuate dal legislatore e solo dopo che ci sarebbe stata
una legge diventavano norme vere e proprie. Vennero considerate programmatiche quelle norme più
innovative della costituzione, per esempio quelle che prevedevano obblighi di facere in capo allo
stato, oppure quelle che miravano a temperare l’assolutezza del diritto di proprietà.
Questa tendenziale diffidenza nei confronti della costituzione e delle sue novità si inizia a
sciogliere solo alla fine degli anni 50’ perché sono gli anni in cui una nuova generazione di giovani
giuristi arriva alla maturità, quindi inizia a lavorare, ma sono anche gli anni nei quali inizia a lavorare
la Corte Costituzionale che inizia a funzionare nel 1956. La Corte Costituzionale avrà un ruolo
decisivo nel far penetrare la costituzione nella vita quotidiana dell’ordinamento.
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Uno dei grandi problemi della costituzione è quello legato alla sua ATTUAZIONE, cioè la
costituzione perché sia un testo capace di vivere nella vita di una società e di avere un ruolo tangibile
è necessario che sia attuata, cioè che le sue disposizioni non abbiano un’esistenza solo
formale/cartacea. I nostri costituenti con un’espressione hanno parlato della nostra costituzione come
di una costituzione presbite. Il presbite è quello che non vede bene da vicino, ma vede bene da lontano.
Quindi dire che la costituzione è presbite vuol dire che avevano immaginato la costituzione come un
testo capace di guardare lontano, fortemente proiettato nel futuro, un testo che vedeva nel futuro un
suo fondamentale terreno di realizzazione. Perché la costituzione sia capace di solcare tempi storici
diversi e di avere una lunga vita, deve essere costantemente attuata, cioè deve essere vissuta come un
imprescindibile punto di riferimento dalle diverse forze politiche rappresentate in parlamento. La
nostra costituzione riconosce un ruolo importante ai partiti politici perché vede nei partiti delle
organizzazioni sociali che esprimono diverse idee, programmi e concezioni del vivere associato e che
attraverso la vittoria elettorale sono chiamati a trasformare il loro programma politico in programma
di governo. Quindi la costituzione vede nei partiti un importante momento di connessione tra
stato e società. Dopo il partito unico con il fascismo, i partiti sono immaginati come attori plurimi,
una cifra distintiva della democrazia. I costituenti però, pur ritenendo che il pluralismo dei partiti
fosse decisivo e indispensabile, avevano immaginato l’attuazione costituzionale come una specie di
politica nobile, come un momento capace di mettere d’accordo tutti almeno su certi fronti decisivi.
Avevano dunque immaginato che il profilo dell’attuazione costituzionale rappresentasse una sorta di
grande politica capace di mettere d’accordo tutti. Questo è avvenuto in termini molto ridotti nei
decenni di vita repubblicana. Il fatto che non sempre si sia riusciti a rendere la costituzione un testo
vivo perché non sempre si è riusciti a governare e gestire in maniera adeguata la tensione necessaria
benefica tra valori e soluzione. Questo vuol dire che non sempre si è riuscito a capire che certi valori
costituzionalmente affermati e garantiti non potevano essere smentiti costituendo il cuore stesso della
scommessa democratica. Quindi da un lato ci sono certi valori, dall’altro però la costituzione vive nel
tempo come testo vivo se si è in grado di modificare e di inventare sempre nuove soluzioni che
possono e devono cambiare nel corso del tempo in modo da rendere sempre attuali e vivi quei valori.
I valori riescono a restare anche se le soluzioni normative e istituzionali cambiano e si aggiornano.

Statuto Albertino
Lo Statuto Albertino è una tipica tappa del costituzionalismo liberale ottocentesco e viene promulgato
nel 1848 da Carlo Alberto, diventa poi la carta costituzionale del Regno d’Italia dal 1861 e resta
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formalmente in vigore durante tutto il ventennio fascista. Proprio perché non è una costituzione rigida
poteva essere agilmente svuotata dall’interno da parte del regime fascista. È una tipica carta ottriata,
cioè è una carta concessa dalla monarchia ai propri sudditi che instaura per la prima volta in Italia un
regime monarchico rappresentativo. C’è il re e c’è però anche un parlamento: la camera dei deputati
è elettiva, il senato è viceversa una camera di nomina regia ed è vitalizia, cioè una volta nominati ci
si resta finché non si passa a miglior vita.
Se si guarda alla struttura dello Statuto Albertino si nota che si occupa essenzialmente di identificare
i poteri dello stato e di definire le loro relazioni reciproche. Questo è espressione di una concezione
che riteneva che la bontà di una convivenza/di un sistema dipendesse essenzialmente da un equilibrato
rapporto tra poteri. Questa è una convinzione profonda di tutto il liberalismo ottocentesco, se i poteri
dello stato sono ben pensati e le loro relazioni son ben definite ed equilibrate tutto il sistema funziona.
Il grande assente di queste costituzioni è la società: noi abbiamo solo 9 articoli che si occupano dei
diritti e dei doveri dei cittadini dai quali emerge l’immagine scarna, depurata, che della società ha
l’800’. L’art. 24 dello statuto, quello che apre la sezione sui diritti e doveri dei cittadini, stabilisce che
tutti i regnicoli (abitanti del regno) sono uguali di fronte alla legge, quindi sanziona questo principio
dell’uguaglianza giuridica formale. Dopo di che c’è un elenco di libertà riconosciute all’individuo che
sono prevalentemente libertà negative, cioè libertà da indebite intromissioni dello stato nella sfera
privata (libertà di domicilio, libertà di stampa, libertà individuale).
C’è poi l’art. 29 dello statuto che dichiara che la proprietà privata è inviolabile. Poi si ammette che
possa essere espropriata per ragioni di interesse pubblico.
Da questa carta noi non ricaviamo indicazioni nette su quale sia la relazione tra stato e società, ma si
immaginano stato e società come due grandezze tendenzialmente non interferenti. Non c’è un progetto
comune che lega insieme stato e società.

Costituzione di Weimar
La Costituzione di Weimar ha una parte prima che si intitola “Struttura e funzioni del reich”, quindi
identifica i diversi poteri e la loro relazione reciproca. La seconda parte, dedicata ai diritti e doveri
fondamentali dei tedeschi, contiene un Capo II dedicato alla vita collettiva in cui si parla di
matrimonio, di educazione dei fanciulli, di diritti e doveri degli impiegati pubblici. C’è un Capo IV
che si intitola “Educazione e istruzione” in cui si garantisce il diritto all’istruzione e il diritto a che
questa istruzione sia pubblica. C’è un Capo V destinato alla vita economica in cui si dice che le
libertà economiche sono rispettate sé e nella misura in cui garantiscano a ogni uomo un’esistenza
degna. È questo capo che ospita una disposizione dirompente che è l’art. 153 che riconosce il diritto
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di proprietà, ma che stabilisce allo stesso tempo che la proprietà obbliga, cioè che la proprietà impone
anche doveri e non solo diritti al suo titolare.
Da questa costituzione dunque emergono i contorni di un progetto di convivenza, come dalla nostra
costituzione, che impegna simultaneamente cittadini e stato in vista del raggiungimento di alcuni
comuni obiettivi reputati decisivi per poter qualificare un sistema come democratico.

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