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IL RAPPORTO DI AGENZIA TRA


ELETTORE E CANDIDATO
fallimento del voto ideologico
e fenomeno Lega Nord

di Vincenzo Sofo

1. Introduzione

Il politologo statunitense Francis Fukuyama sostiene che la molla che muove tutti gli uomini nel
corso della storia è il desiderio del riconoscimento universale degli esseri umani con il loro valore e
la loro dignità. Già Hegel individuava nella storia il tentativo di tale riconoscimento, avvenuto
tramite lo scontro fisico tra individui e popoli (il servoservo-padrone di Hegel). Le guerre tra i popoli
sono strumenti per ottenere il loro riconoscimento, ma si arriva ad un punto in cui esso non si
conquista più tramite
amite lo scontro militare, raggiungendol
raggiungendolo invece nella società liberale, in particolare
nell’area economica. Secondo Fukuyama, se questo riconoscimento pacifico fosse vero, la vittoria
della democrazia liberale significherebbe la fine della storia, poiché se la democrazia si afferma in
tutto il mondo significa che tutti i popoli hanno ottenuto il riconoscimento senza s più conflitti. Da
qui si capisce il ruolo fondamentale della ddemocrazia nella società: risoluzione pacifica
pa dei conflitti
ma anche partecipazione one al processo politico, diritto di voto, libertà di associazione, ecc.
Le moderne democrazie pongono però anche un problema di rapporto di agenzia tra chi delega il
proprio potere e chi viene delegato a governare. Democrazia vuol dire governo del popolo (dal
greco, demos: popolo, cratos:: potere); ttenendo
enendo fede all’accezione originaria del termine, verrebbe
meno il problema sopra citato, in quanto non ci sarebbe bisogno di ricorrere alla rappresentanza.
Perché allora non viene adottata? Per comprenderne i motivi, è utile prendere ad esempio la prima
forma di democrazia attuatasi nella civiltà occidoccidentale: la democraziarazia ateniese, quasi un mito in
quanto realizzazione della vera democrazia, quella diretta, che consegnava alla popolazione lo
scettro del comando senza dover ricorrere ad intermediari. Esempio sempio che permette
perme di evidenziare le
condizioni - alquanto restrittive – necessarie per un siffatto sistema di governo e i mutamenti che
hanno portatoo alla sua decadenza e alla impossibilità di riproposto attual
attualmente.
mente.
Innanzitutto bisogna ricordare l’organizzazione della polis polis. Ad Atene laa popolazione era suddivisa
in quattro categorie: i cittadini, i metechi, i liberti e gli schiavi. Di questi soltanto i primi godevano
dei diritti politici.. La politica era dunque esercitata da una piccola minoranza di persone, persone il che
contrasta con la nostra ra concezione di democrazia che, a differenza di que quella
lla degli antichi (basata
( sul

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concetto di partecipazione alla cosa pubblica di coloro che avevano diritti politici), si fonda sulla
libertà e sul diritto – almeno teorico - di tutti di poter decidere.
Il secondo elemento necessario per la democrazia “ateniese” erano le dimensioni limitate del
territorio nel quale veniva applicata e l’interesse delle persone verso tutto ciò che riguardava la cosa
pubblica. Fu proprio il venir meno di questi due requisiti che causò la decadenza di Atene e delle
polis. Infatti le guerre intestine della Grecia non bastano a spiegare la fine di tale civiltà: esse
c’erano sempre state ma non ne avevano impedito la crescita.
Il sistema Grecia era fondato sulla città-stato, che presupponeva la partecipazione diretta della
popolazione (che si riuniva nelle agorà), numericamente limitata. In questo contesto i cittadini non
si limitavano all’interesse per la propria attività, ma si occupavano di tutto ciò che riguardava la
città. Non vi erano tecnici o specialisti, ma lo diventarono con il passare del tempo, quando
l’autarchia che caratterizzava questa società venne messa da parte per far posto ai rapporti con le
altre realtà. Lo sviluppo del commercio e i numerosi conflitti con le altre potenze resero necessaria
l’esistenza di tecnici che sapessero fare bene un determinato mestiere. Questa progressiva
specializzazione impediva alle persone di avere del tempo per dedicarsi alle altre “faccende
pubbliche”. L’autarchia venne sostituita dall’esigenza di un mondo più aperto. Si passò dalla polis
alla cosmòpoli. Il risultato fu l’aumento del numero degli abitanti e la specializzazione del mestiere,
che causò la maggiore attenzione per l’interesse particolare a discapito del bene comune.
Tutto ciò spiega come la democrazia diretta non possa esistere in un contesto globalizzato e
specializzato come quello della nostra società. Ecco dunque giustificato l’avvento di un altro tipo di
democrazia: quella rappresentativa. Questo tipo di governo, proprio perché nato dal fallimento della
democrazia vera e propria, è stato tuttavia soggetto a diverse critiche, mirate in particolare
all’effettiva rappresentatività e legittimità dei governanti. Ad esempio viene fatto notare come,
alcuni elementi considerati cardine della democrazia siano in realtà presenti anche in altre forme. E’
il caso del consenso (che può essere presente anche nelle dittature), del potere della legge (maggiore
negli stati autoritari), dell’uguaglianza dei cittadini (cosa che avviene anche nei regimi comunisti),
della rappresentanza (i monarchi rappresentano il popolo, almeno formalmente), ecc.
Vilfredo Pareto contesta il meccanismo di formazione della classe governante, sostenendo che
questa debba essere costituita dai migliori membri della società, dubitando che ciò possa avvenire
attraverso il voto popolare. La formazione dell’elite è un processo inevitabile: è la stessa
organizzazione a creare l’oligarchia. Perciò il governo da parte del popolo, pur essendo una nobile
idea, è in pratica irrealizzabile. Anche le rivoluzioni hanno una spiegazione elitista: esse non sono
un mezzo del popolo per riappropriarsi del potere, bensì uno strumento utile al fine del ricambio
dirigenziale dell’elite. Per Gaetano Mosca l’unica forma di governo effettivamente esistente è
l’oligarchia. I governanti costituiscono un’elite al potere organizzata in modo tale da godere di una
sorta di autoreferenzialità, preservando a lungo la propria posizione e tutelando i propri interessi.
Persino il ricambio avviene al suo interno, senza interazioni con il mondo dei governati.
Anche il ruolo del Parlamento è soggetto a critiche: secondo Michels, in realtà non siamo noi a
scegliere i nostri rappresentanti, sono loro a farsi scegliere da noi. Il rapporto che deve sussistere tra
chi governa e chi viene governato non è quello proprio del parlamentarismo: il popolo ha bisogno di
un leader carismatico, il quale non può però prescindere da una relazione diretta con esso. Max
Weber è di diverso avviso, ritenendo questa istituzione utile per controllare l’operato del leader e
luogo adatto per la costituzione dell’elite; tuttavia concorda con Michels sulle motivazioni che
solitamente spingono il popolo a “sottomettersi” al leader: più emozionali che non razionali.
Queste critiche, giuste o sbagliate che siano, mettono in evidenza la centralità del rapporto di
agenzia tra elettore e candidato nel meccanismo democratico. L’obiettivo di questo documento sarà
dunque di analizzare il rapporto esistente tra partiti, candidati ed elettori nella politica italiana,
soffermando l’attenzione sui fattori che intervengono nella manifestazione del voto e sulle
caratteristiche dei partiti e dei candidati da essi proposti. Nel corso del documento verrà trattato il
caso della Lega Nord, fenomeno che rappresenta una rottura con la dinamica politica del passato e
che palesa il fallimento del voto ideologico.

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2. Il ruolo dei governanti nella democrazia rappresentativa

La suddivisione delle funzioni del settore pubblico effettuata da Richard Musgrave ci permette di
mostrare in modo molto semplice l’impatto delle istituzioni sugli individui. Secondo l’economista
americano, l’apparato pubblico ha quattro compiti: il controllo del ciclo economico, la produzione
di leggi, la scelta di quali beni e servizi consumare (funzione allocativa) e la redistribuzione delle
risorse. Risulta quindi chiaro che le decisioni dei governi - e della politica in generale – hanno
implicazioni notevoli non soltanto nella sfera politica, ma anche in quella economica dei singoli
individui. La scelta dei gruppi politici, il loro comportamento e la loro capacità di rappresentare la
popolazione hanno un impatto decisivo sulla vita di ognuno di noi.
Delineare le caratteristiche del rapporto tra governati e governanti è un passo indispensabile per
comprendere il contesto. Il primo problema che si riscontra nella realtà è una situazione di
asimmetria informativa: i cittadini, così come si afferma – ad esempio – nel modello di regolazione
del settore pubblico chiamato yardstick competition, sono degli ignoranti razionali in quanto non
seguono le azioni del governo. Questo mette i politici in una posizione di vantaggio informativo che
fornisce i presupposti per un modello populista secondo cui non vengono scelte le politiche, bensì i
politici, i quali poi nel periodo stabilito prendono le decisioni. Si crea così un rapporto di agenzia
con rischio di selezione avversa: la scelta del candidato da parte dell’elettore può risultare talvolta
inefficiente.
D’altronde non si tratta solamente di scegliere un rappresentante inadeguato: è anche possibile che i
governanti tengano consapevolmente un comportamento indesiderato per i cittadini. Alcuni studi di
public choice mettono in dubbio il fatto che – come invece afferma, ad esempio, Oates – i sistemi
politici siano realmente in grado di difendere gli interessi dei cittadini a causa dei già citati problemi
di agenzia, di asimmetria informativa, ecc. Anzi, si sostiene che i governi possano comportarsi
come dei moderni “Leviatano” (citando il paragone di Thomas Hobbes tra il mostro biblico e il
potere assoluto dello Stato), intenti a massimizzare le loro rendite. Tuttavia anche questo tipo di
governo “cattivo” può aver interesse a comportarsi bene a fini elettorali. E’ ipotizzabile ad esempio,
prendendo come riferimento un lasso temporale composto da due periodi intervallati nel mezzo da
una tornata elettorale, che il Leviatano abbia incentivo ad agire nel primo periodo nell’interesse dei
cittadini onde favorire la sua rielezione, salvo poi tornare a perseguire i suoi obiettivi una volta
rieletto. Cosa che può comportare problemi di coerenza intertemporale, con promesse elettorali poi
non mantenute… possibilità che peraltro può indurre gli agenti razionali a non attribuire credibilità
alle dichiarazioni, costringendo chi governa a costruirsi una reputazione.
In questo contesto si inserisce il trade-off presente in ogni democrazia, ossia quello tra competenza
e rappresentanza della voce degli elettori. Nel paper di Campiglio [Campiglio 1997], si spiega come
la competenza del politico aumenti con la sua permanenza nel Parlamento e nelle posizioni di
potere: in questo modo acquisisce una conoscenza dei meccanismi tale da favorire l’efficienza delle
decisioni da lui assunte. Tuttavia una permanenza prolungata in quei ruoli fa sì che esso
progressivamente perda la capacità di rappresentanza degli interessi degli elettori, al punto che
l’interesse pubblico può deformarsi in interesse privato. Al contrario, la rappresentatività della voce
degli elettori è meglio garantita da mandati brevi, che però ostacolano il processo di formazione
della competenza.
Lo stesso Campiglio riconosce nel politico professionista caratteristiche riconducibili al Leviatano:
nella democrazia rappresentativa il potere è conoscenza specializzata e asimmetrica; esso è il
principale obiettivo del politico professionista, che lo mantiene attraverso il consenso elettorale. Per
far ciò bisogna rappresentare meglio degli altri candidati gli interessi dei votanti. E’ ovvio che,
essendo il politico professionale un risultato della divisione sociale del lavoro, egli concretizzi più
efficacemente gli interessi economici del gruppo sociale del quale dispone maggiori informazioni.
Per gli altri è necessario mettere in atto un meccanismo di “simpatia estesa”, mettendosi nei panni
di chi si vuol rappresentare.

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Quanto descritto finora però vede l’elettore in una posizione più che altro passiva, di “vittima” delle
decisioni di chi è deputato al governo del territorio. La partecipazione attiva e concreta dei
governati dal sistema politico è invece riassumibile principalmente nell’espressione del voto: le
elezioni rappresentano l’unico momento in cui la popolazione ha il potere di influenzare questo
sistema, tramite la scelta dei suoi componenti, ovvero dei rappresentanti. Di seguito dunque si
andranno ad analizzare le dinamiche e i fattori che intervengono nella formazione della coscienza
elettorale, valutando il tipo di voto che viene espresso dal cittadino.

3. Il fallimento del voto ideologico

Le campagne elettorali successive alla caduta del Fascismo e all’instaurazione della Repubblica
erano caratterizzate da messaggi propagandistici fortemente improntati sullo scontro ideologico e
religioso. Contesto molto differente da quello presente oggi nel nostro Paese: ad esempio, alle
elezioni politiche del 2001 – che vedevano Forza Italia e l’Ulivo contendersi la premiership – i due
principali partiti concorrenti uscivano sui manifesti elettorali con i rispettivi slogan “Un impegno
concreto: un buon lavoro anche per te” e “Piena e buona occupazione. Ecco il nostro primo
obiettivo”. Si tratta evidentemente di slogan dal contenuto pressoché identico, dimostrazione
lampante del mutamento della politica, in questo caso italiana.
Questo esempio mostra perfettamente il compiuto passaggio da un voto di tipo ideologico ad uno di
appartenenza; concetti che talvolta vengono confusi, tendendo ad includere il secondo all’interno
del primo. In realtà vi sono differenze determinanti: il voto di appartenenza è sintomo
dell’affermazione di una identificazione soggettiva, favorita dall’appartenenza subculturale e
scarsamente esposta alla congiuntura politica, al tipo di consultazione e alla comunicazione; quello
ideologico invece fa riferimento a variabili che riguardano tematiche quali il significato di Stato, il
tipo di governo, considerazioni etiche/religiose, ecc. E’ un tipo di voto presente più che altro nella
Prima Repubblica e di cui godevano soprattutto partiti come la Dc, il Pci e il Msi. L’elettorato in
questione, proprio perché fortemente improntato su una visione ideologica, era molto statico.
Con il tempo però la situazione è cambiata profondamente. Il crollo delle ideologie è un dato di
fatto confermato dalle dichiarazioni che i politici stessi fanno molto spesso, invitando a metterle da
parte per lasciar posto ai nuovi temi. Altra conferma viene dalla netta perdita di consistenza dei
partiti ideologici: l’Udc, erede di quella Dc che per anni aveva quasi “monopolizzato” la politica, è
attualmente posizionata attorno al 5% dei consensi; la destra e la sinistra radicale sono invece
praticamente sparite dal panorama politico, restando addirittura fuori dal Parlamento.
In realtà la questione della destra radicale potrebbe fuorviare: ad un’analisi superficiale dei recenti
risultati delle elezioni nel resto d’Europa, la crescita dei partiti populisti e reazionari potrebbe essere
contrastante con quanto detto sopra. Tuttavia bisogna considerare che si tratta di paesi occidentali
protagonisti di un fenomeno comune: l’immigrazione. Non è dunque un caso che la crescita di
consenso sia collegata alla battaglia principale da essi portata avanti, ossia la lotta all’immigrazione
con annesso richiamo alle proprie radici. Di appartenenza si tratta dunque, non di ideologia.
L’anomalia dell’Italia consiste invece nel fatto che questo ruolo sia stato portato avanti dalla Lega
Nord e non dalle destre, ma i motivi di ciò esulano dallo scopo di questo paper. Il fenomeno Lega
Nord invece sarà trattato in seguito.
Studi compiuti sui comportamenti di voto dimostrano inoltre come oggi gli elettori si focalizzino
maggiormente sulle caratteristiche di personalità dei leader piuttosto che sui loro programmi. Così
come accade per un prodotto di consumo, i politici offrono nel mercato politico, attraverso tecniche
psicologiche e strategie espressive, un profilo di sé in cui più persone possibili possano identificarsi
e proiettare le loro parti migliori.

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La politica si è adattata alla preponderanza del voto di appartenenza in due maniere distinte: da un
lato abbiamo assistito alla nascita dei cosiddetti partiti “pigliatutto”, dall’altro quello dei partiti
identitari. I primi, i cui esempi principali sono i neonati Pdl e Pd, sono contenitori finalizzati ad
attrarre non un ceto particolare, bensì più tipologie possibile di elettori. La loro struttura è
caratterizzata da una fortissima identificazione personale nel proprio leader: questa è la
determinante per il loro successo elettorale, tanto che una delle principali cause comunemente
imputata al crollo del centro-sinistra italiano è proprio la mancanza di un personaggio carismatico
che faccia da contrappeso a Berlusconi. In questo tipo di partito la base militante è secondaria, se
non addirittura marginale: non vi è una ricerca del consenso direttamente nel territorio, si preferisce
adottare il mezzo mediatico, proprio perché consente di arrivare a tutti indistintamente. Cosa ben
diversa - ad esempio - da un gazebo, che invece ha potere di attrazione soltanto verso coloro che
hanno già di per se una simpatia più o meno spiccata nei confronti di una certa area politica.
L’altra tipologia di partito che ha preso piede in seguito all’avvento del voto di appartenenza è il
partito identitario. Si tratta di una forma di associazionismo che nasce e si consolida con riferimento
al proprio territorio di appartenenza. La sua politica è volta a tutelare e a promuovere gli interessi, le
tradizioni, la cultura di questo territorio, respingendo ogni forma di “contaminazione” esterna.
Questa forma di politica è stata certamente favorita dal contesto globalizzato in cui viviamo, che
oltre ai tanti vantaggi ha portato anche delle conseguenze negative. L’improvviso incontro/scontro
con civiltà nuove e poco conosciute ha colto impreparati paesi tradizionalmente chiusi (come
l’Italia), aumentando nella popolazione la preoccupazione e la paura di vedere il proprio modo di
vivere e le proprie abitudini stravolte da queste novità. I partiti identitari raccolgono questo sentore:
essi hanno come riferimento una categoria di persone ben precisa, anche se non identificabile in un
determinato ceto sociale.
Questo è il dato nuovo portato dal passaggio da voto ideologico a voto di appartenenza: il
mutamento degli schieramenti. Nei partiti nuovi sono compresi esponenti provenienti dalle più varie
fazioni politiche… vi si trovano nazionalisti, cattolici, atei, liberali, conservatori, progressisti,
socialisti, post-comunisti, post-fascisti… tutti racchiusi sotto la stessa bandiera. I partiti
“pigliatutto”, pur ponendosi in irriducibile contrapposizione tra loro, propongono programmi
politici spesso molto simili e talvolta irriconoscibili, come mostrato precedentemente. Le ideologie
sono state riposte nel cassetto per far spazio ad una identificazione nelle caratteristiche personali dei
politici, a tal punto che l’invito dei leader di centro-sinistra e centro-destra nelle ultime tornate
elettorali è stato a fare una “scelta di campo”, a prescindere dalle proposte o dalle posizioni circa i
singoli problemi a cui dare risposta. E’ infatti da constatare che i bacini elettorali di centro-destra e
centro-sinistra tendono ora più che mai a sovrapporsi, tanto che negli ultimi anni una parte dei voti
si è posizionata sulla base del grado di simpatia/antipatia per i leader di partito piuttosto che per i
partiti stessi.
Un esempio che conferma quanto detto è il successo ottenuto da un partito molto recente: l’Italia dei
Valori, che si fonda sulla strenua opposizione ad un soggetto ben preciso - che non è un partito
bensì una persona – alla quale si aggiunge l’enfasi posta sul concetto di legalità. Ancora una volta ci
troviamo di fronte ad un gruppo di persone che si raccolgono sotto una stessa insegna, accomunati
non da un progetto di società (ideologico), ma dal giudizio su un singolo e dal desiderio di tutelare
uno specifico interesse.
Anche i partiti identitari presentano pressoché le stesse caratteristiche, con alcune differenze: la
presenza scenica del leader è importante ma meno incidente, in quanto prevalgono il progetto
politico/sociale portato avanti e l’attaccamento al territorio. Ciò rende superflua l’esigenza di
ricordare all’elettorato le differenze dai competitors, perché già implicite nel programma. Vi è
invece una maggiore importanza della struttura partitica e della base militante, a cui spetta il
compito di mantenere il contatto con i cittadini e con il territorio.
Oltre a quelle citate, esistono altre due tipologie di voto: quello di opinione e quello di scambio.
Come si collocano questi nel contesto descritto?

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Per quanto riguarda il voto di opinione, esso rappresenta una quota piuttosto marginale nella
formazione della coscienza elettorale. Le motivazioni vanno ricercate nella progressiva disaffezione
della popolazione alle vicende politiche. Il voto “retrospettivo” è adottato sempre meno, perlomeno
se ci riferiamo al caso italiano. Ci sono studiosi i quali ritengono che una parte di elettorato decida a
chi concedere la propria preferenza sulla base di quanto avvenuto negli anni precedenti; in
particolare, si ritiene che l’andamento economico nel periodo di riferimento incida in modo decisivo
sulla riconferma o meno di un governo. Teoria che però in Italia è stata confutata dai fatti recenti:
caso emblematico è il risultato elettorale delle ultime elezioni regionali (2010) che, nonostante
avvenissero nel pieno della crisi economica, hanno visto la riconferma e l’avanzamento del centro-
destra.
Dai dati del Ministero dell’Interno si evince tale successo: prima di queste elezioni, undici delle
regioni che ne 2010 sono andate al voto erano governate dal centro-sinistra, a fronte delle soltanto
due regioni (Lombardia e Veneto) guidate dal centro-destra; alla fine di questa tornata il rapporto è
notevolmente cambiato, diventando di sette a sei. Le Europee del 2009 hanno visto vincente il Pdl
con il 35,3% dei consensi, così come le Provincie protagoniste delle elezioni dello stesso anno
hanno visto incrementare le giunte di centro-destra da otto a trentaquattro [Fonte: www.interno.it].
Quanto abbia influito in tutto ciò la buona amministrazione di governi e giunte, lo abbiamo spiegato
in precedenza: poco, perché il voto di appartenenza è dato a prescindere, senza guardare indietro.
Non è un caso che gli stessi partiti considerino i voti delle elezioni amministrative alla stregua di
veri e propri voti “politici”.
Altra questione invece riguarda il voto di scambio, che assume anch’esso un ruolo marginale se si
analizza il contesto nazionale italiano, ma che diviene più rilevante se si prendono in considerazione
le varie realtà. Per comprendere bene ciò di cui si parla è utile prendere a riferimento i dati delle
elezioni comunali, contraddistinte dalla presenza pressoché costante di liste civiche. Vi è però una
differenza notevole tra il Nord e il Sud dell’Italia:

• nei comuni del Settentrione infatti queste svolgono un ruolo di secondo piano e di norma
non raggiungono il 10% dei voti. Si tratta tra l’altro per lo più di liste che fanno riferimento
a personaggi politici e non, ma in ogni caso noti, oppure di liste collegate a quelle dei partiti
ed utilizzate da questi per raccogliere consensi al di fuori del proprio bacino elettorale;
• nei comuni meridionali invece tali liste assumono una parte fondamentale per la formazione
di una maggioranza. Qui non è usuale che le liste civiche superino il 10% e talvolta accade
che siano le liste più votate nel loro comune. Addirittura capita che nella competizione
elettorale non compaiano affatto le liste dei partiti.

La presenza delle liste civiche si presenta soprattutto nei comuni medio/piccoli, favorita ovviamente
da una conoscenza diretta dei candidati, ma è un fenomeno che tocca anche i comuni più grandi. In
entrambi i casi, come abbiamo appena detto, si nota una presenza più rilevante al Sud… perché?
Una possibile spiegazione è il cosiddetto familismo amorale: concetto introdotto dal sociologo
Edward Banfield nel libro The moral Basis of a Backward Society, in cui l’autore riporta gli studi
fatti nell’Italia meridionale e sostiene che in alcune culture – soprattutto nel nostro Mezzogiorno –
ci sia una tendenza secondo la quale l’obiettivo degli individui sia “massimizzare i vantaggi
materiali e immediati della famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso
modo” [Edward C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino 1976]. Robert
Putnam scrive: “La vita pubblica è qui organizzata in modo gerarchico. (…) Sono pochissimi coloro
che partecipano alle decisioni riguardanti il bene pubblico. L’interesse per la politica non è dettato
dall’impegno civico, ma scatta per obbedienza verso altri o per affarismo. Raro è il coinvolgimento
in associazioni sociali e culturali. La corruzione viene considerata una regola dai politici stessi. I
principi democratici vengono guardati con cinismo” [S. Tarrow, Un’America all’italiana, Il
Mulino, 1997].

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Insomma, anche a causa del percorso storico del Sud italiano si è formata una cultura tale da
svuotare di significato lo Stato e da considerare il rapporto con quest’ultimo come un rapporto di
scambio che ha per oggetto il potere e i vantaggi. D’altronde anche la mafia si è sviluppata e
radicata proprio in forza del suo ruolo di sostituto dello Stato. L’impostazione di Banfield pone
l’accento sul concetto di capitale sociale e sul ruolo che esso svolge nel favorire lo sviluppo
economico e il rendimento delle istituzioni.
Se il voto di scambio ha potuto resistere grazie all’approccio culturale al voto di stampo
meridionale, come vedremo al momento di analizzare il caso della Lega Nord, lo sviluppo del voto
di appartenenza di carattere territoriale è una peculiarità più che altro settentrionale. Prima di
approfondire questo discorso occorre però soffermarsi un attimo sulle conseguenze che il voto di
appartenenza ha avuto sulle caratteristiche dei candidati.

4. L’impatto del voto di appartenenza sui candidati

L’analisi di Campiglio sulla rappresentanza parlamentare [Campiglio 1997 e 2003] si occupa, tra
l’altro, di studiare il grado di rappresentatività dei candidati. Ne esce un quadro tutt’altro che
rassicurante, in quanto si rileva un evidente squilibrio della rappresentanza sociale. Con riferimento
al Parlamento italiano, vi è una sottorappresentanza dei ceti medio-bassi (impiegati, insegnanti,
casalinghe, studenti, ecc.) a favore di avvocati, imprenditori e via dicendo. A questo si aggiunge lo
squilibrio della rappresentanza della popolazione dal punto di vista dell’età, non soltanto per la
ovvia mancanza all’interno del Parlamento dei minorenni, ma soprattutto per la quota minima di
seggi occupata dai giovani in generale. Questa analisi è indubbiamente interessante se si pensa alle
possibili implicazioni: come ho già avuto modo di spiegare, nelle democrazie il potere è una forma
di conoscenza specializzata e asimmetrica. Il politico professionale mantiene il potere tramite il
consenso elettorale, che si acquisisce rappresentando nel miglior modo possibile gli interessi dei
votanti. In questo panorama entra in gioco anche la rilevanza della regione di nascita nella carriera
di un politico, tanto che con il predominio in termini di ministri di una certa regione, solitamente ha
coinciso un temporaneo vantaggio relativo della stessa sul piano dell’allocazione delle risorse
pubbliche (il cosiddetto “federalismo dal centro”).
Ci possono essere ricadute anche sulla disciplina delle singole regioni riguardo al bilancio e sulla
fornitura di servizi: se infatti vi è una correlazione tra il colore politico dell’ente locale e del
governo centrale per quanto riguarda le aspettative di salvataggio, verosimilmente potrebbe essere
fatto lo stesso ragionamento parlando della regione di provenienza di un ministro, del Presidente del
Consiglio o di altri esponenti politici dotati di influenza sull’operato del Governo. Mi spiego
meglio: una delle discussioni sul rapporto tra Stato ed enti periferici è incentrata su come il primo
dovrebbe intervenire nei casi in cui i secondi non dovessero garantire ai cittadini la fornitura dei
livelli essenziali dei servizi pubblici. In caso di impresa privata, il dissesto finanziario, gli sprechi di
risorse o la mancata erogazione di output teoricamente potrebbero anche essere ignorati dalla
politica. Nel caso delle amministrazioni pubbliche invece il governo centrale si impegna a sostituirsi
all’ente decentrato qualora si verificassero situazioni tali da pregiudicare la fruizione di determinati
beni (considerati fondamentali) da parte dei cittadini. Ovviamente la certezza dell’esistenza di
un’ancora di salvataggio può essere un incentivo per queste amministrazioni a comportarsi
volutamente in modo incosciente, soprattutto quando il colore politico del governo centrale e
differente da quello della Regione, della Provincia o del Comune. Altrettanto vero è che il potere
centrale può tendere ad assistere maggiormente gli enti periferici a lui vicini politicamente. Lo
stesso atteggiamento potrebbe sussistere in un ministro nei confronti del proprio luogo di
provenienza, soprattutto in virtù del fatto che – come sottolinea Campiglio – la regione di nascita è
rilevante per la carriera di un politico.

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Preso atto delle possibili implicazioni, bisogna chiedersi quale sia la reazione dei votanti, anche
perché – si potrebbe obiettare – sono gli elettori stessi a determinare quali candidati avranno il
compito di rappresentarli. Nell’Italia degli ultimissimi anni questa è un’obiezione non accettabile
per il semplice fatto che l’attuale legge elettorale per le elezioni Politiche prevede il meccanismo
delle liste bloccate, ossia l’impossibilità dell’elettore di segnalare la propria preferenza circa i
candidati, potendo così votare soltanto la lista. Ma si tratta di una novità recentissima, eppure,
sempre per quanto riguarda il Parlamento, lo stesso Campiglio rileva negli anni passati una
sottorappresentanza del Nord ed in particolare della Lombardia. Come è possibile? Per quale
motivo gli elettori decidono di creare nelle istituzioni una realtà sociale differente da quella presente
nel Paese, con il rischio di veder poco tutelati i propri interessi?
Il voto di appartenenza è perfettamente coerente con la situazione appena descritta: con il passare
del tempo la popolazione ha cessato di stabilire le proprie preferenze sulla base dell’impostazione
sociale, politica ed ideologica di uno o dell’altro partito. Attualmente vi è un’identificazione più
istintiva con una parte politica se non addirittura di uno specifico personaggio, che poggia
principalmente sulle caratteristiche immediate e che viene fortemente influenzata dal marketing
politico. A tal punto che spesso resiste persino a cambiamenti importanti di indirizzi politici o dagli
scandali che magari coinvolgono le parti sostenute. In questa macchina vengono inevitabilmente
coinvolte tutte le fazioni in campo, comprese quelle più improntate su progetti e meno sulle
persone, come si vedrà nel caso proposto nel prossimo paragrafo.

4. Il fenomeno Lega Nord

Caso emblematico presente nel panorama politico italiano di partito che ha perfettamente percepito
e catturato il passaggio dal voto ideologico a quello di appartenenza è la Lega Nord, partito
identitario fortemente legato al territorio, che rappresenta un’anomalia (o un precursore) rispetto
agli altri partiti.

La storia
La Lega Nord nasce con l’obiettivo di realizzare un progetto di Confederazione, poi tralasciato a
favore di una più cauta idea di federalismo, cioè di federazione di più Stati accomunati dall’idea di
una pacifica convivenza tra i popoli. Nel 1989 avviene l’unificazione dei vari movimenti
indipendentisti settentrionali sotto la sigla Lega Nord. Nel 1994, dopo Tangentopoli, la Lega si allea
al Polo delle Libertà e vince le elezioni, salvo poi due anni dopo far cadere il governo Berlusconi.
L’anno seguente si riunisce per la prima volta il Parlamento del Nord, istituito per garantire i diritti
e le libertà dei popoli del Nord e dotato di regolamento proprio e in questo periodo viene sancita per
la prima volta la Padania; percorso che culmina nel ’97 con un referendum nelle regioni padane per
la secessione, che raccoglie tra i votanti il 97% dei consensi. Nel 2001 avviene il primo grande calo
della Lega Nord alle elezioni politiche, a causa dell’alleanza con il Polo delle Libertà accompagnata
dalla mancanza del proprio simbolo, ma l’attentato alle torri gemelle solleva la questione dell’Islam
in Occidente e restituisce un ruolo centrale al partito di Bossi. In questo periodo procede la riforma
della Devolution tanto caldeggiata dai leghisti, che infatti iniziano ad incrementare costantemente i
consensi (anche se il referendum sul federalismo viene bocciato). Nel 2008 la Lega si candida
alleata con il Popolo delle Libertà e con l’MpA, ma presentando il proprio simbolo e le proprie liste,
ottenendo un boom che verrà confermato e amplificato alle Europee del 2009 e, soprattutto, alle
Regionali del 2010.

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Meccanismi di acquisizione del consenso
In Italia la Lega è l’unico caso di partito identitario di dimensioni rilevanti presente in Parlamento.
Questa identità trova espressione innanzitutto nei simboli utilizzati: ad esempio, la scelta di Pontida,
teatro nel 1167 del giuramento con cui i comuni lombardi si allearono contro il Sacro Romano
Impero di Barbarossa, è una località simbolica che mira a consolidare la continuità tra la tenacia
indipendentista degli antichi comuni lombardi e gli obiettivi del partito. Il fenomeno Lega Nord è
rilevante in quanto non si è trattato di uno dei tanti partiti costituiti e poi confluiti in contenitori più
ampi, bensì di un soggetto che ha travolto i tradizionali schemi politici preesistenti. La Lega ha
infatti risposto ad un disagio del popolo che non trovava risposte nelle consuete forme sociali e
politiche. Così ha ripescato le radici e simboli per restituire un’identità storica.
Questo è soltanto uno dei modi utilizzati per fidelizzare l’elettorato. Se si approfondisce il
meccanismo comunicativo, si possono notare alcune differenze rispetto agli altri partiti: si riscontra
un minor sfruttamento dei rituali televisivi nazionali compensato dalla presenza massiccia nelle
trasmissioni delle emittenti locali; la radio e il quotidiano di cui dispongono sono di portata
certamente differente rispetto alle altre radio e giornali di partito. Sembra inoltre che non ci sia
l’ossessione di massimizzare la rendita dei nuovi canali di diffusione legati al web (siti internet, face
book, ecc.). L’ampliamento del consenso invece passa per un contatto più diretto con gli elettori: la
Lega ha creato una fitta trama di relazioni umane intessute sul territorio, puntando a sfruttare il
passaparola, allargandosi dal Nord alle regioni contigue del Centro secondo una sorta di
“proselitismo politico”.
Ad agevolare questo processo ha certamente contribuito la caratteristica distintiva dei valori
fondamentali alla base della proposta politica: si tratta infatti di valori elementari, chiari, facilmente
distinguibili e comprensibili a tutti. La Lega è un partito programmatico, non ideologico, infatti
contiene varie anime ideologiche riunite sotto la bandiera dell’autonomia territoriale. Posizione che
nel corso del tempo è stata più volte modellata a seconda del momento storico, perché rappresenta
l’obiettivo finale (magari anche solo teorico) che permette di rendere sempre individuabile il
progetto del partito. Le battaglie portate avanti sono semplici e più o meno sempre le stesse,
toccando raramente aspetti ideologici: l’immedesimazione dell’elettore si realizza tramite il
richiamo alle radici, ai simboli, alla propria terra… non a qualche dottrina ideologica. L’elettore si
sente di far parte del popolo padano più che di essere ad esso affine nell’ideologia.
Questo senso di appartenenza non si attua soltanto dal basso verso l’alto, è costantemente stimolato
dalla vicinanza della classe politica leghista alla sua popolazione; è questo il vero dato nuovo ed
anomalo nella politica odierna. La struttura della Lega Nord ricorda per molti versi quella del
vecchio Pci che conquistava le simpatie delle masse operaie. Innanzitutto si può notare che il partito
di Bossi adotta nella denominazione l’accezione “movimento politico”, non partito, il che serve a
premere già verso un coinvolgimento dell’elettorato. Ed è sempre dal basso, cioè tra i cittadini, che
avviene la selezione degli amministratori: in questo caso il criterio di selezione è la militanza, ossia
il tempo dedicato alla causa del partito. Tanto che, prima di poter avere un minimo peso all’interno
di esso e di poter ambire a delle cariche bisogna superare un iter di almeno due anni ed essere
assoggettati al giudizio di un apposito consiglio interno. Il movimento cerca insomma di porsi
sempre da filtro tra la popolazione e i suoi rappresentanti, così da mantenere questi ultimi il più
possibile in linea con il progetto. Emblematiche in tal senso sono le regole stabilite per la campagna
elettorale, che vietano ai candidati di potersi sponsorizzare con manifesti elettorali né di acquisire
personalmente spazi personali, costringendoli così a cercare i voti direttamente sul territorio.
L’unica figura esente da tutto ciò è ovviamente il leader, attorno a cui è stato creato una sorta di
rapporto feudale fatto di venerazione e fedeltà.
A differenza da altre realtà però l’enfasi posta sulla leadership è stata sempre accompagnata da un
senso di appartenenza rivolto principalmente verso il partito e dall’allevamento di dirigenti che
tenessero in piedi la struttura, fatto che spiega come la Lega abbia potuto resistere saldamente – e
addirittura crescere – anche durante la malattia del suo leader. Considerazione non da poco, se si

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pensa alle lotte di successione o ai continui avvicendamenti al vertice che in questo periodo stanno
minando i principali partiti italiani, dove l’identificazione nel “capo” è un elemento imprescindibile.

L’ostacolo Milano e il fenomeno Salvini


Uno studio completo del fenomeno Lega Nord non può prescindere dall’affrontare la situazione
legata a Milano. Questa è infatti un punto di arrivo per il progetto-Lega, essendo considerata la
capitale del Nord. Eppure è proprio qui che i lumbard incontrano le difficoltà maggiori; peraltro
proprio a Milano si trova il personaggio più mediatico della classe dirigente leghista: Matteo
Salvini.
Il caso di Milano è l’occasione per verificare come il voto di appartenenza colpisca un partito
siffatto e come influisca sulla scelta dei candidati. Abbiamo detto che i partiti ed i candidati
rappresentano gli interessi dei propri elettori e abbiamo accennato ai collegamenti esistenti tra le
caratteristiche sociali dei votanti e quelle dei rappresentanti. Abbiamo anche raccontato il carattere
spiccatamente territoriale della Lega Nord, che si erige a difensore dei diritti delle popolazioni del
Nord, il che è testimoniato dalla provenienza dei suoi candidati. E’ interessante però chiedersi quale
sia l’elettorato della Lega, quali siano le sue esigenze (o pretese) nella selezione dei dirigenti.
Per quanto riguarda l’età, la Lega Nord è il partito con il più alto numero di giovani nelle istituzioni,
dato che pare essere in contrasto con l’età della gran parte dei suoi elettori. Non vi sono differenze
rilevanti nel tipo di professioni esercitate dai rappresentanti leghisti rispetto agli altri, ad eccezione
– a livello intermedio – di una minore presenza di laureati. La causa è da ricondurre al già citato
legame esistente tra il militante ed il partito, in quanto si riscontra una percorso di “welfare
politico”: mentre negli altri partiti è più facile un ingresso a posteriori (cioè in forza della propria
posizione professionale, economica o comunque privata) per tutelare i propri interessi, la Lega –
similmente ai vecchi partiti – preferisce un percorso di crescita interno al partito e dedito alla causa,
premiando l’impegno e la fedeltà. In parole povere, qui si preferisce che l’individuo si metta al
servizio del partito e si garantisce la possibilità a tutti coloro che dimostrano capacità di metterle sul
campo; in altre realtà invece si è valutati per lo status acquisito nella propria vita privata, rendendo
ad esempio determinante per la carriera politica la disponibilità economica.
Non essendoci dunque legami stretti di questo tipo, come si spiega – ad esempio – la differenza tra
il consenso di cui il partito gode a Milano e quello che ha nelle provincie? Anche qui la risposta sta
nell’appartenenza, che non si esprime però nelle caratteristiche dei candidati bensì nei concetti. Il
richiamo alla propria terra ha un’ascendenza maggiore nei luoghi in cui esiste un legame più forte
con il territorio piuttosto che in una metropoli cosmopolita in continuo contatto con l’estero. Con
riferimento alla politica italiana, si nota che il movimento di Bossi ha sempre tenuto molto al
Ministero dell’Agricoltura (oltre che a quelli dell’Interno e delle Riforme, non a caso suoi cavalli di
battaglia) proprio per ribadire questo concetto. L’enfasi posta sulle origini comuni di un popolo
attecchisce laddove c’è ancora una vita di comunità, non in una città il cui tessuto sociale è più
rarefatto e l’individuo è restìo a vivere il proprio quartiere.
Un esempio di come la Lega attiri i consensi è dato dalla figura di Matteo Salvini, consigliere
comunale a Milano e deputato al Parlamento Europeo, in entrambi i casi tra i candidati della leghisti
che hanno ottenuto il maggior numero di preferenze. Queste ultime ricevute non da una determinata
categoria di soggetti, bensì da tipologie differenti: nonostante sia abbastanza giovane, è molto
votato dalla popolazione anziana; nonostante sia milanese e faccia spesso e volentieri uso del
dialetto, è votato anche dai cittadini non di origini milanesi (anzi, questi costituiscono la
minoranza); nonostante non sia laureato e sia protagonista di provocazioni populiste, è votato anche
nelle zone più borghesi di Milano. Le determinanti del suo successo sono individuabili
esclusivamente nel contatto perenne con la popolazione, tramite i mercati, le televisioni locali, la
radio, internet. Salvini è anche il prototipo dell’amministratore/militante leghista: ha trascorso tutta
la sua carriera politica nella Lega Nord (in cui è entrato giovanissimo), professionalmente occupato
all’interno del partito come giornalista pubblicista e come conduttore radiofonico, impegnato

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quotidianamente a presenziare il territorio e promotore di battaglie politiche che toccano i problemi
concreti dei cittadini, mai le ideologie [Fonte: intervista a Matteo Salvini].

5. Conclusioni

L’approfondimento condotto in questo paper sul rapporto di agenzia tra elettore e candidato ha
evidenziato come questo, a causa della natura stessa della democrazia rappresentativa, debba
fondarsi su un’asimmetria informativa tale da consegnare al governante una situazione di vantaggio.
L’elettore può intervenire in questo meccanismo attraverso il voto, che può assumere diverse
tipologie: se una volta era espressione di una certa posizione ideologica, ora invece è espressione di
un sentimento di appartenenza e di identificazione con le caratteristiche di una personalità o di un
partito. Un ruolo residuale è invece giocato dal voto di opinione e da quello di scambio,
quest’ultimo presente maggiormente al Sud.
L’avvento del voto di appartenenze ha implicazioni anche sulle caratteristiche di chi rappresenta la
popolazione nelle istituzioni: il fatto che la realtà sociale presente in esse sia differente da quella
reale è un dato superfluo, proprio perché i rappresentanti vengono scelti a prescindere dalla loro
provenienza, dalla loro età o dalle loro vicende politiche e personali.
Queste dinamiche si ritrovano persino in un partito come la Lega Nord, vero e proprio fenomeno
nuovo nel panorama politico nazionale. Quello che potrebbe sembrare a primo impatto un ultimo
baluardo del voto ideologico, in realtà è l’unico esempio di appartenenza legata al territorio. Ma
proprio perché fondato sull’appartenenza, anche per esso valgono le stesse regole di acquisizione
del consenso elettorale: esempio lampante ne è l’eurodeputato e consigliere Matteo Salvini, che
raccoglie preferenze in diversi ambiti sociali nonostante le sue caratteristiche possano far pensare ad
una forte identificazione di una fascia specifica.

BIBLIOGRAFIA

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