Académique Documents
Professionnel Documents
Culture Documents
1
spesa
sulle
terre
del
signore
o
impiegata
nel
trasporto
o
nella
lavorazione
delle
manifatture
signorili
(corvées).
Il
loro
comportamento
economico
era
quanto
di
più
lontano
si
possa
immaginare
dai
principi
dell’economia
di
mercato:
1. Esercitavano
semplici
diritti
d’uso;
2. Non
utilizzavano
fattore
lavoro
salariato;
3. Mancavano
di
specializzazione;
4. Lo
scopo
della
riproduzione
era
il
puro
consumo
domestico;
5. La
loro
agricoltura
era
estensiva,
con
bassi
livelli
di
rendimento.
I
contadini
servi
massimizzavano,
quindi,
l’ozio
risparmiando
lavoro
e
perseguendo
la
mera
riproduzione.
Essi
sottostavano
a
consuetudini
solidaristiche
e
comunistiche.
Anche
i
contadini
liberi
dell’ovest
avevano
analoghe
consuetudini.
Vi
erano,
infatti,
i
campi
aperti,
chiamati
in
tal
modo
poiché
su
di
essi
era
libero
il
pascolo
degli
animali
di
tutti.
Ogni
comunità
possedeva
inoltre
dei
campi
comuni
(foreste,
boschi,
pascoli
e
paludi
demaniali)
goduti
in
comunione
dagli
abitanti.
Essi
non
si
comportavano,
quindi,
in
modo
troppo
diverso
dai
servi
della
gleba.
Anch’essi
economizzavano
la
fatica
e
si
preoccupavano
soprattutto
di
riprodurre
le
derrate
necessarie
e
sufficienti
per
garantire
usuali
consumi
e
gli
essenziali
investimenti
così
da
perseguire
l’indipendenza
economica
delle
famiglie
(autarchia).
I
contadini
dell’ovest,
a
differenza
di
quelli
dell’est,
intrattenevano,
però,
qualche
relazione
con
il
mercato.
Fra
metà
‘400
e
metà
‘500
le
aristocrazie
feudali
incoraggiarono
l’azione
di
contadini
pionieri
che
impiantarono
aziende
agricole
accorpate
delle
quali
avevano
l’esclusivo
utilizzo
secondo
i
principi
dell’individualismo
agrario
autarchico.
Il
suolo
coltivabile
era
sfruttato
solamente
per
metà,
fatto
che
derivava
dal
sistema
dei
campi
aperti
che
prevedeva
il
riposo
dei
campi
per
un
periodo
dell’anno
(maggese).
Ma
l’esigenza
di
produrre
cereali
anche
per
la
vendita
indusse
i
contadini
delle
zone
più
popolose
d’Europa,
tra
il
1450
e
il
1550,
a:
1. Recintare
i
terreni,
superando
le
servitù
collettive,
formando
poderi
autonomi
e
indipendenti
secondo
i
principi
dell’individualismo
agrario;
2. Sostituire
il
maggese
con
la
coltivazione
delle
piante
foraggere
per
l’alimentazione
animale,
che
inoltre
arricchivano
d’azoto
il
suolo
rendendolo
più
fertile.
Nelle
economie
più
evolute
d’Europa
incominciarono
a
profilarsi
i
caratteri
di
quella
nuova
agricoltura
che
avrebbe
permesso
di:
1. Aumentare
la
produttività
agricola;
2. Collegare
l’agricoltura
al
mercato;
3. Promuovere
produzioni
agricole
utili
per
lavorazioni
artigianali
e
industriali;
4. Accrescere
i
redditi
dei
contadini
divenuti
agricoltori
e
stimolare
la
loro
domanda
di
manufatti
dell’artigianato
urbano
e
di
merci
estere.
I
contadini
liberi
erano,
nella
loro
situazione,
ben
lontani
dal
produrre
per
vendere
e
dal
comportarsi
come
imprenditori.
Il
loro
intento
era
di
realizzare
riserve
adeguate
ai
consumi
e
agli
investimenti
delle
famiglie,
così
da
non
essere
costretti
a
fare
acquisti
sul
mercato.
Il
sistema
prevalente
di
distribuzione
del
reddito
non
era
dunque
il
commercio.
2
F.
Braudel
ha
efficacemente
definito
VITA
MATERIALE,
l’insieme
delle
relazioni
economiche,
sociali
e
culturali
che
contraddistinguevano
i
contadini.
Il
circuito
della
vita
materiale
aveva
un
raggio
assai
limitato
che
coincideva
con
la
comunità
rurale
nella
quale
si
consumava
ciò
che
si
era
prodotto.
La
crescita
della
popolazione
avviatasi
a
metà
‘400
innescò
un
processo
d’impoverimento
crescente
degli
uomini
delle
campagne.
Nel
lungo
andare,
il
risultato
fu
l’avvento
di
una
figura
sino
allora
sconosciuta:
il
bracciante
senza
terra.
Le
città:
il
mercato
regolato,
l’economia
di
scambio
e
il
capitalismo
Alla
fine
del
’400
le
città
erano
inegualmente
distribuite.
Le
città
più
numerose
andavano
dalle
Fiandre
alle
regioni
centro
italiane.
Le
attività
artigianali
più
evolute
erano
tipicamente
urbane
e
sfruttavano
i
mulini
per
vari
usi
legati
alla
lavorazione
di
prodotti
agricoli,
lana
e
sollevare
l’acqua.
L’eterogeneità
sociale,
culturale
ed
economica
era
forse
la
cifra
dominante
delle
città
medievali
e
moderne
europee.
In
esse
convivevano
ceti
sociali
variamente
gerarchizzati
e
distinti.
Considerando
la
natura
dei
loro
redditi,
individuiamo:
1. Aristocrazia,
patriziato,
borghesia:
deteneva
la
rendita
fondiaria
e
edilizia;
inoltre
detenevano
anche
la
rendita
finanziaria
garantita
da
titoli
del
debito
pubblico;
2. I
profitti
dei
mercanti,
artigiani
ed
esercenti
delle
libere
professioni
oscillavano;
3. I
salari
dei
lavoratori
erano
regolati
da
disposizioni
pubbliche;
4. Vitto
e
alloggio
(salario
reale)
era
garantito
ai
servi
delle
fantesche
inseriti
nelle
famiglie
presso
le
quali
prestavano
servizio
a
vita.
In
generale,
le
città
dell’Europa
preindustriale
erano
gli
epicentri
della
divisione
e
della
specializzazione
del
lavoro,
degli
scambi
e
della
circolazione
di
moneta.
Se
le
campagne
erano
il
regno
della
vita
materiale
all’insegna
dell’autarchia
e
della
quasi
assenza
della
divisione
del
lavoro,
i
centri
urbani
erano
le
sedi
della
circolazione
dei
beni
e
dei
servizi
contro
moneta,
i
perni
dell’economia
di
scambio.
Mercato
Urbano
Pubblico
e
Privato
Le
compravendite
sui
mercati
urbani
erano
disciplinate
dalle
magistrature
municipali
(mercato
pubblico)
a
favore
degli
acquirenti
dei
beni
di
prima
necessità.
I
mercati
si
tenevano
in
luoghi
precisi
con
calendari
fissi
e
orari
variabili,
secondo
le
stagioni
e
si
cercava
di
garantire
la
massima
trasparenza
delle
transazioni.
I
magistrati
comunali
controllavano
i
requisiti
igienici,
giustezza
dei
pesi
e
delle
misure,
e
raccoglievano
informazioni
sulle
quotazioni
e
pubblicavano
periodicamente
i
prezzi
di
calmiere
in
modo
da
informare
i
cittadini
del
giusto
prezzo.
Talvolta
si
poteva
prevedere
anche
il
“giusto
guadagno”.
Le
fiere
offrivano
occasioni
di
scambio
ancora
più
favorevoli
e
solenni
in
occasione
delle
quali
erano
sospesi
dazi
e
gabelle
per
attirare
i
mercanti
dall’estero,
e
talvolta
erano
offerti
incentivi
e
premi.
Dal
‘400
si
moltiplicarono
le
botteghe
di
sola
vendita
(mercato
privato)
gestite
da
dettaglianti:
si
trattava
di
una
nuova
e
diversa
forma
di
commercio.
Così
il
commercio
si
estese
anche
alle
zone
rurali.
Cominciò
così
a
prendere
forma
un
sistema
di
piccoli
scambi
su
base
locale
che
concorse
a
rendere
abituali
e
persistenti
le
attività
di
compravendita
laddove
erano
state
occasionali.
La
graduale
diffusione
di
tali
relazioni
ebbe
3
principali
conseguenze:
3
1. La
moneta
si
mosse
entro
circuiti
di
crescente
ampiezza
e
la
sua
velocità
di
circolazione
crebbe
considerevolmente;
2. La
coltivazione
di
talune
specie
e
la
produzione
di
manufatti
domestici
che
trovavano
più
facile
sbocco
presso
i
bottegai
abituarono
i
contadini
a
prendere
dimestichezza
con
gli
scambi;
3. I
manufatti
tessili
di
canapa
accrebbero
la
massa
di
beni
compravenduti
enfatizzando
il
ruolo
d’intermediazione
dei
mercanti.
I
comuni
prelevavano
ricchezza
ricorrendo
a
una
vasta
gamma
d’imposizioni
ordinarie
(dirette:focatici,
testatici,
boccatici,
bovatere,
estimi/catasti
di
case
e
terreni,
e
mercantili;
e
indirette:dazi
e
gabelle)
e
straordinarie.
La
vendita
del
sale
era
monopolio
sovrano
e
ogni
suddito
doveva
acquisirne
annualmente
una
quantità
prefissata.
Le
corporazioni
Le
attività
commerciali,
artigianali
e
di
servizio
erano
svolte
da
operatori
appartenenti
a
gruppi
chiusi,
chiamate
corporazioni
(arti
o
gilde)
regolate
da
statuti
particolari,
riconosciuti
dalle
autorità.
I
masti
artigiani
operavano
nelle
loro
botteghe
e
sottostavano
a
regole
giurate
che
prevedevano:
1. Tempi
e
modi
del
lavoro
e
della
trasmissione
dei
segreti
d’arte;
2. Rigidi
standard
qualitativi
dei
manufatti:
3. Livelli
dei
guadagni
e
dei
salari:
4. Misure
d’assistenza
a
favore
delle
famiglie
dei
corporati
e
forme
del
culto
religioso.
Il
valore
dominante
era
la
solidale
concordia
fra
gli
iscritti
alla
matricola
dell’arte.
In
ambito
economico,
la
corporazione
garantiva
il
monopolio
della
produzione
agli
artigiani
immatricolati
e
impediva
che
si
facessero
concorrenza,
secondo
il
principio
che
nessuno
potesse
arricchirsi
a
scapito
degli
altri.
Una
fitta
rete
di
regole
e
controlli,
assieme
al
protezionismo
garantito
dalle
dogane
municipali,
favorì
la
conservazione
della
struttura
corporativa
per
secoli
e
concorse
a
ritardare
l’introduzione
d’innovazioni
tecniche
tendenti
a
risparmiare
lavoro.
Il
principio
autarchico
assicurava
anche
un
duraturo
impiego
della
manodopera
del
settore
artigiano.
Fra
le
città
più
popolate
del
tempo
figuravano
i
principali
porti/empori
europei
del
Mediterraneo
(Venezia
e
Genova),
che
commerciavano
con
il
vicino
Oriente
islamico
e
quelli
affacciati
sull’Atlantico
(Lisbona
e
Bordeaux)
e
sul
mare
del
Nord
(Gand
e
Londra).
In
questi
porti/empori
l’intensità
di
relazioni
economiche
aveva
favorito
la
nascita
e
lo
sviluppo
del
capitalismo
commerciale.
I
mercanti
capitalisti
eludevano
o
aggiravano
i
controlli
delle
pubbliche
amministrazioni
e
operavano
nei
settori
che
assicuravano
i
maggiori
profitti,
senza
specializzarsi.
L’insieme
delle
molteplici
funzioni
svolte,
moltiplicarono
le
attività
svolte
nelle
città
emporio
facendone
casi
esemplari
d’altra
concentrazione
di
relazioni
economiche.
Nell’Europa
del
‘400,
il
capitalismo
commerciale
era
pienamente
sviluppato
solo
in
due
aree
dominanti:
1. La
prima
Settentrionale
affacciata
sul
Mare
del
Nord,
costituiva
il
terminale
meridionale
di
regolari
flussi
di
materie
prime
di
basso
valore
unitario;
2. Dalle
Fiandre
e
dal
Barbante
prendevano
la
vai
del
nord
prodotti
francesi,
inglesi,
ecc.
4
Il
polo
meridionale
del
capitalismo
commerciale
europeo
coincideva
da
secoli
con
le
principali
città
italiane:
Milano,
Venezia
(che
prevaleva
per
volume
d’affari),
Genova,
Firenze,
Siena
e
Lucca.
Dopo
una
lunga
guerra
con
i
turchi
i
veneziani
ripresero
ad
acquistare
le
droghe
italiane.
Nell’interscambio
fra
il
polo
commerciale
italiano
e
quello
fiammingo,
prevaleva
il
primo
per
valore
delle
mercanzie
cedute
rispetto
a
quelle
acquistate.
Pertanto
Venezia
permase
il
maggior
centro
commerciale
d’Europa
fino
a
quando,
nel
secolo
‘500,
non
prese
il
sopravvento
Anversa
e
dai
primi
del
‘600
Amsterdam.
Quattro
Monete:
3
effettive,
1
reale
La
moneta
svolge
tre
funzioni:
1. Strumento
di
misura;
2. Riserva
di
valore:
il
loro
pregio
era
fattore
di
conservazione
del
valore
nel
tempo.
Lo
squilibrio
tra
moneta
alta
e
bassa
non
faceva
che
rivalutare
la
prima
rispetto
alla
seconda;
3. Intermediario
degli
scambi:
esigenza
dei
venditori
di
avere
contante.
Le
monete
europee
Alla
fine
dell’VII
sec.
Carlo
Magno
realizzò
una
riforma
che
avrebbe
avuto
durevoli
conseguenze
per
molti
secoli.
L’unità
di
misura
monetaria
divenne
la
lira,
equivalente
a
240
denari.
All’epoca
l’Italia,
regione
più
collegata
al
vicino
oriente
mediterraneo,
esistevano
3
aree
monetarie:
1. Imperiale:
Pavia,
Milano,
Verona,
Lucca;
2. Bizantina:
Ravennate,
Marche,
Amalfi,
Napoli,
Gaeta;
3. Mussulmana:
Sicilia
Fra
la
metà
del
X
e
la
fine
del
XII
secolo,
la
domanda
di
monete
continuò
a
crescere
di
pari
passo
con
l’aumento
della
popolazione,
e
ciò
porto
ad
un
incremento
del
conio
della
moneta
in
tutta
Italia:
Venezia
coniò
infatti
denari
grossi
d’argento
chiamati
Ducati.
Nel
1252,
anche
Firenze
e
Genova
coniarono
monete
d’oro
per
facilitare
i
commerci
con
l’area
bizantina
e
mussulmana.
Dalla
seconda
metà
del
‘200
nelle
città-‐stato
italiane
coesistettero
3
tipi
di
monete:
1. Scudi
d’oro
e
loro
imitazioni;
2. Moneta
Bianca
d’argento;
3. Moneta
Nera
o
Bassa.
I
rapporti
tra
i
3
tipi
di
monete
e
i
relativi
valori
dipendevano:
1. Dal
pregio
dei
metalli
utilizzati
per
coniarle;
2. Dal
metallo
fino
contenuto
nelle
leghe
3. Dalla
proporzione
fissa
di
moneta
alta
e
di
moneta
bassa
esistente
in
ogni
mercato
monetario
per
effetto
delle
relazioni
estere,
per
effetto
della
moneta
sottratta
alla
circolazione
e
per
il
comportamento
degli
zecchieri.
Ognuna
svolgeva
una
funzione
economica,
sociale
e
culturale.
A
queste
se
ne
aggiungeva
una
quarte:
la
moneta
di
conto;
una
moneta
ideale,
un
comune
metro
dei
valori
usato
su
ciascuna
piazza
per
misurare,
convertire
e
cambiare
i
tre
generi
di
monete
effettivamente
circolanti
e
per
esprimere
prezzi,
rendite
e
salari.
5
Le
autorità
pubbliche
che
controllavano
le
emissioni,
si
finanziavano
prelevando
ricchezza
con
dazi
e
gabelle
e
che
ricorrevano
a
prestiti
pubblici,
affidavano
ai
cambiavalute
il
compito
di
definire
empiricamente
il
valore
delle
diverse
monete
in
circolazione;
essi
curavano
la
periodica
pubblicazione
delle
tariffe
delle
monete
espresse
in
lire
locali.
Nel
1472
Venezia
e
nel
1474
Milano,
coniarono
ducatoni
e
testoni.
Nel
1575
il
re
di
Francia
rilanciò
la
sua
moneta
d’oro:lo
scudo
del
re
sole,
il
quale
prevalse
sulle
due
precedenti
affermandosi
sulle
maggiori
piazze
europee
e
contribuendo
a
frenare
la
strisciante
rivalutazione
delle
monete
d’oro.
L’Europa
fuori
d’Europa:
portoghesi
e
spagnoli
verso
i
nuovi
mondi
I
portoghesi
dell’oro
e
delle
spezie
A
metà
‘400
i
mercati
italiani
incontrarono
crescenti
difficoltà
nel
Levante.
Nel
frattempo
a
occidente
la
cristianità
allargava
i
suoi
confini.
Dal
1434
le
navi
di
Lisbona
presero
a
esplorare
la
costa
occidentale
africana.
La
capitale
portoghese
partecipò
al
grande
commercio
europeo
smistando
dall’Africa
verso
il
Mediterraneo
e
il
mare
del
Nord
vari
prodotti.
Un
insieme
di
circostanze
e
condizioni
elevò
il
Portogallo
a
protagonista
di
un’avventura
che
avrebbe
portato
i
suoi
marinai
a
controllare
la
metà
dei
mari
del
mondo.
I
principali
fattori
di
successo
furono:
1. Abitudine
a
navigare
al
largo
dalla
costa
per
pescare;
2. Vicinanza
a
cantieri
navali
biscaglini
e
galiziani
dove
fu
inventata
la
caravella;
3. Secolare
confidenza
con
cultura
e
lingua
araba;
4. Presenza
di
agenzie
di
mercanti
e
banchieri
genovesi,
fiorentini
e
lucchesi;
5. Spirito
d’avventura
nutrito
dall’aristocrazia
feudale;
6. Iniziativa
della
casa
regnante
che
promosse
e
finanziò
l’esplorazione
della
costa
africana.
Nel
1456
i
portoghesi
risalirono
il
fiume
Gambia
fino
a
Cantor,
sede
di
un’importante
fiera,
dove
ottennero
un
ingente
quantitativo
di
oro
in
polvere.
Nel
1471
giunsero
nel
Golfo
di
Guinea
e
ottennero
il
primo
oro
de
La
Mina;
quasi
tutto
l’oro
giunto
in
Europa
tra
fine
‘400
e
inizio
‘500
fu
trasportato
dai
portoghesi.
Dopo
il
1480,
a
causa
di
una
forte
crescita
dei
prezzi
del
pepe
asiatico,
i
portoghesi
decisero
di
giungere
in
India
via
mare
per
strappare
ai
veneziani
il
monopolio
delle
spezie.
Nel
1488
Bartolomeo
Diaz
fece
ritorno
a
Lisbona
dopo
aver
doppiato
il
Capo,
ma
fu
Vasco
de
Gama
che
10
anni
dopo
gettò
l’ancora
di
fronte
a
Calicut;
inoltre
nel
viaggio
di
ritorno
i
portoghesi
puntarono
sul
porto
di
Sofala,
posto
al
centro
di
un
immenso
comprensorio
aurifero
comprendente
il
Mozambico
e
lo
Zimbabwe.
Nel
1511
i
portoghesi
s’impossessarono
del
flusso
d’oro
che
dal
sud-‐est
asiatico
prendeva
la
via
dell’India
e
della
Cina.
L?ambizione
di
Lisbona
non
venne
meno
nemmeno
di
fronte
all’immenso
impero
cinese,
dove
aprirono
un’agenzia
a
Macao
nel
1555,
e
all’ancor
più
lontano
Giappone,
dove
furono
ammessi
alla
grande
fiera
annuale
di
Kinshu
nel
543.
L’Atlantico
Spagnolo
Nel
1492
Cristoforo
Colombo
aveva
già
toccato
terra
nelle
Antille
e,
tornando
in
Spagna,
aveva
scoperto
Santo
Domingo,
Cuba
e
le
Bahamas.
Fin
dalla
seconda
spedizione
gli
spagnoli
si
resero
conto
di
non
aver
raggiunto
l’Oriente,
e
iniziarono
quindi
a
cercare
esclusivamente
l’oro.
6
Terminato
lo
sfruttamento
dell’arcipelago
antilliano
nel
1515
gli
spagnoli
partirono
alla
volta
dell’altopiano
Mexica,
che
venne
conquistato
da
F.
Cortés
nel
1521
circa.
Dopo
essersi
divisi
il
bottino,
essi
si
resero
conto
che
l’oro
scarseggiava
anche
lì.
Decisero
quindi
di
muoversi
verso
l’altopiano
andino
dell’impero
Inca;
F.
Pizarro
riuscì
a
rapire
l’imperatore
Atahualpa
e
chiese
come
riscatto
4
tonnellate
d’oro
e
9,5
d’argento.
Fra
la
conquista
del
Messico(1521)
e
quella
del
Perù(1533),
la
colonizzazione
spagnola
mutò
profondamente
carattere:
ai
pionieri
si
sostituì
un
gran
numero
di
secundores.
Le
condizioni
di
lavoro
estreme
e
la
mancanza
di
difese
immunitarie
nei
confronti
di
vaiolo,
peste
e
morbillo
causarono
una
catastrofe
demografica
di
proporzioni
bibliche,
tanto
da
far
diminuire
nell’arco
di
70
circa
la
popolazione
del
nuovo
mondo
da
90-‐100
milioni
a
12-‐18
milioni.
L’unica
fonte
di
profitti
rimase
lo
sfruttamento
degli
indios
come
minatori
d’oro
e
d’argento.
La
tensione
fra
le
enormi
risorse
potenzialmente
sfruttabili
e
la
rarissima
manodopera
avrebbe
caratterizzato
a
lungo
le
economie
del
Nuovo
Mondo,
impedendone
una
crescita
equilibrata.
3.
Dal
Mediterraneo
al
Mare
del
Nord
(1530-‐1720)
Tra
il
1530
e
il
1620
assistiamo
a
un
declino
delle
economie
italiane
a
favore
dei
Paesi
settentrionali
che
raggiunse
il
culmine
nel
‘600
olandese.
Crescita
della
popolazione
e
individualismo
agrario
Dal
1450
in
tutta
Europa
la
popolazione
tornò
a
crescere
cominciando
dalle
campagne.
L’abbassamento
dell’età
de
matrimonio
accrebbe
la
natalità
mentre
si
attenuò
la
mortalità
infantile.
Con
il
tempo
accaddero
conseguenti
rialzi
dei
prezzi
che
non
smisero
di
aumentare
fino
agli
anni
40
del
‘600.
La
crescita
demografica
non
fu
uniforme,
infatti,
i
dati
raccolti
mostrano
che
l’incremento
demografico
maggiore
avvenne
nei
paesi
nord
europei,
e
ciò
permise
ai
paesi
settentrionali
di
attuare
notevoli
miglioramenti.
Nel
1600
la
crescita
continuava,
anche
se
con
ritmi
piuttosto
più
blandi.
In
tutta
Europa,la
risposta
alla
sfida
della
conservazione
dell’equilibrio
dinamico
esistente
fra
uomini
e
risorse
naturali
consistette
nel
rimettere
a
coltura
suoli
abbandonati
dopo
la
peste
nel
secondo
‘300
e
nel
primo
‘400.
Pertanto
il
‘500
fu
il
secolo
dei
contadini
pionieri,
impegnati
nella
riconquista
e
messa
in
valore
di
terre
incolte
divenute
boschi
e
pascoli,
acquitrini
e
paludi.
L’ampliamento
delle
coltivazioni
a
spese
di
foreste
e
zone
umide
fu
la
regola,
con
crescenti
problemi
relativi
agli
spazi
per
l’allevamento.
Laddove
la
densità
della
popolazione
era
minore,
la
dinamica
della
crescita
demografica
ed
economica
fu
più
energica.
Nel
‘500-‐‘600
la
produttività
agricola
migliorò
abbastanza
da
permettere
alle
città
nordiche
d’aumentare
di
mole,
avendo
efficacemente
risolto
il
problema
dell’approvvigionamento
delle
derrate
agricole.
Per
contro,
le
percentuali
di
abitanti
nelle
città
mostrano
il
rallentamento
e
declino
demografico
dei
paesi
mediterranei.
Caso
particolare
fu
quello
relativo
alla
Francia,
che
grazie
all’ingente
riserva
di
suoli
riducibili
a
coltivazione,
fece
registrare
una
crescita.
In
Olanda
si
costruirono
i
polders,
terreni
coltivabili
strappati
alle
lagune.
La
trappola
malthusiana
all’opera
7
Thomas
Malthus
nel
1798
pubblicò
uno
studio
intitolato
“
Saggio
sul
principio
di
popolazione”
nel
quale,
osservando
il
sostenuto
sviluppo
della
popolazione
inglese
profilatosi
da
un
quarantennio,
previde
che
la
crescita
demografica
avrebbe
condotto
il
paese
alla
catastrofe.
Egli
sostenne
che
due
leggi
diverse
regolano
rispettivamente
la
crescita
della
popolazione
(rapida)
e
quella
dei
mezzi
di
sussistenza
(più
lenta),
e
spiegò
questa
sull’intuizione
con
un
modello.
Nel
medio
periodo
,
egli
prevedeva
un
progressivo
immiserimento
perché
il
rapporto
fra
derrate
alimentari
disponibili
(numeratore)
e
consumatori
(denominatori)
non
poteva
che
peggiorare.
La
dinamica
spontanea
avrebbe
portato
a
catastrofi
demografiche
come
povertà,
guerre
e
carestie
(freni
positivi).
A
evitare
questo
genere
di
freni
l’economista
inglese
proponeva
d’attivare
freni
preventivi
capaci
di
moderare
il
tasso
di
natalità,
come
la
castità
prematrimoniale,
il
ritardo
dell’età
del
matrimonio
e
il
celibato
diffuso.
Effettivamente
nei
secoli
successivi
successero
diverse
guerre,
carestie,
pestilenze,
malattie.
Insomma
il
‘600
(secolo
di
ferro)
fu
preparato
da
condizioni
d’estrema
tensione
fra
uomini
e
risorse
profilatesi
sul
finire
del
‘500:
“La
trappola
malthusiana”.
All’interno
dell’agricoltura,
settore
dominante,
successero
una
serie
di
processi
involutivi
orientati
al
regresso
economico
e
sociale
del
mondo
rurale:
1. Frazionamento
dei
poderi;
2. Le
aziende
agrarie
andarono
sempre
più
spesso
incontro
a
crisi
di
sottoproduzione;
3. La
quota
di
popolazione
impoverita
e
priva
di
terra
crebbe
superando
la
domanda
di
manodopera,
fatto
che
fece
scendere
i
salari
al
livello
della
mera
sussistenza;
4. Eccedenza
di
forza
lavoro
nelle
aziende
agrarie;
5. Il
gran
numero
di
disoccupati
funzionò
da
freno
all’adozione
di
tecnologie
risparmiatrici
del
lavoro;
6. Furono
ridimensionate
le
colture
di
grano,
a
favore
di
specie
succedanee;
7. Cominciarono
le
coltivazioni
del
mais
e
della
patata.
Individualismo
agrario
Nei
Paesi
Bassi
fin
dal
‘500
o
pochi
campi
aperti
rimasti
furono
eliminati
e,
con
l’adozione
della
rotazione
continua
delle
colture,
accresceva
la
fertilità.
Le
novità
agronomiche
implicarono:
1. Ampliamenti
della
terra
coltivabile;
2. Crescente
intensità
di
lavoro
preteso
dalle
continue
coltivazioni;
3. Miglioramento
delle
attrezzature
impiegate
nelle
opere
agricole;
4. Crescente
specializzazione
produttiva;
5. Declino
progressivo
dell’economia
domestica
orientata
alla
sussistenza.
L’avvento
di
aziende
agricole
dotate
d’impianti
edilizi,
incentivò
l’avvio
di
colture
intensive
destinate
alle
industrie
cittadine.
Altro
settore
in
crescita
fu
l’allevamento
bovino
destinato
alla
produzione
casearia.
Nelle
aziende
imperniate
sull’allevamento
bovino
e
sul
caseificio,
la
disponibilità
abbondante
di
foraggio
fresco
disidratato
permise
di:
1. Accrescere
il
numero
dei
capi
allevati
senza
dover
allargare
la
superficie
coltivata;
2. Aumentare
il
volume
di
carne,
cuoio,
latticini
destinata
alla
vendita;
3. Passare
all’allevamento
stabulare;
4. Migliorare
e
selezionare
le
razze
bovine
allevate
per
la
produzione
di
latte
piuttosto
che
per
il
lavoro
o
per
la
carne;
5. Accrescere
la
massa
di
concime
organico
vaccino,
ricco
di
azoto;
8
6. Sintetizzare
fino
a
500
kg,
d’azoto
per
ettaro
all’anno
nei
terreni
a
prato
grazie
all’opera
di
microrganismi
ospiti
delle
radici
delle
piante
foraggere;
7. I
terreni
furono
resi
assai
più
fertili
e
produttivi.
Nei
Paesi
Bassi,
per
la
prima
volta,
l’agricoltura
divenne
un’attività
economica
volta
soprattutto
alla
produzione
per
la
vendita
e
fu
esercitata
da
imprenditori
agricoli
che
combinavano
al
meglio
i
fattori
produttivi:
terra,
lavoro,
impianti,
attrezzature
tecniche
(capitale).
L’industria
prima
dell’industrializzazione
Nell’Europa
del
‘500-‐‘600,
la
fabbrica
era
una
vera
rarità.
Più
diffuse
erano:
manifattura
esercitata
nelle
case
contadine,
i
piccoli
opifici
artigiani
e
la
manifattura
accentrata,
dove
un
imprenditore
teneva
i
macchinari
e
impiegava
stabilmente
manodopera
pagata
a
cottimo
che
lavorava
dall’alba
al
tramonto.
L’attività
più
praticata
e
capillarmente
diffusa
era
la
trasformazione
di
materie
prime
in
manufatti
secondo
5
modalità
compresenti
in
tutta
l’Europa
medievale
e
moderna:
1. L’industria
Domestica
rurale
(autarchica):
attività
condotta
ai
margini
e
fuori
dall’area
degli
scambi;
le
famiglie
contadine
trasformavano
le
materie
prime
ottenute
coltivando
la
terra
e
allevando
bestiame
usando
elementari
attrezzature,
alle
quali
si
dedicava
tempo
nei
tempi
morti
del
ciclo
agrario;
comportava
qualche
collegamento
col
mercato,
ma
in
realtà
la
vendita
rappresentava
una
domanda
di
moneta
tendente
ad
accrescere
le
riserve
di
valore
cui
si
ricorreva
in
caso
di
carestia;
l’offerta
crescente
di
manodopera
contadina
senza
terra
rappresentò
un
prerequisito
dello
sviluppo
della
proto
industria
rurale:
cessava
la
dimensione
autarchica
dell’artigianato
domestico
volto
alla
lavorazione
delle
materie
prime
autoprodotte;
entrò
quindi
in
scena
un
committente
esterno,
il
mercante
imprenditore,
che
forniva
le
materie
prime
e
chiedeva
lavoro
alle
famiglie
in
cambio
di
compensi
in
moneta.
2. Industria
a
Domicilio:
l’imprenditore
era
generalmente
un
mercante
di
tessuti
che
organizzava
una
filiera
produttiva
ricca
di
molte
fasi;
nel
caso
del
lanificio
si
trattava
di
5
fasi;egli
disponeva
di
un
sistema
produttivo
molto
flessibile
e
sulla
base
delle
indicazioni
provenienti
dal
mercato
e
dalle
previsioni
sul
comportamento
della
domanda,
impegnava
capitale
circolante
nella
produzione;
il
capitale
fisso
apparteneva
agli
operai
di
ogni
singola
fase.
3. Manifattura
Domestica:
il
protagonista
era
un
artigiano
indipendente
ed
esperto
d’ogni
fase
produttiva;
nella
sua
casa-‐laboratorio
riuniva
capitale
tecnico
e
manodopera.
I
prodotti
ottenuti
erano
ceduti
a
grossisti
che
ne
curavano
la
tintura,
la
finitura
e
commercializzazione.
4. Corporazione
(tipicamente
urbana):
ogni
città
disponeva
d’una
minima
organizzazione
artigianale
per
soddisfare
la
domanda
locale
di
prodotti
alimentari,
tessili,
ecc…;
i
maestri-‐
artigiani
operavano
sottostando
a
stringenti
regole
giurate
che
prevedevano:
tempi
e
modi
del
lavoro,
rigidi
standard
qualitativi
e
livelli
dei
guadagni
e
dei
salari.
Dal
1600
l’organizzazione
corporativa
entrò
in
crisi
per
via
della
diminuzione
dei
loro
poterei
e
dell’autonomia
attuata
dalle
autorità
municipali,
e
per
via
del
crescente
intervento
di
grandi
mercanti
internazionali;
il
commercio
internazionale
condannò
al
declino
e
alla
morte
il
particolarismo
corporativo
di
numerose
regioni.
5. Manifattura
accentrata
(privata
e/o
regia):
erano
casi
relativamente
rari
di
concentrazione
in
un
luogo
di
tutte
le
macchine
e
delle
competenze
necessarie
per
la
fabbricazione
di
un
certo
prodotto
(navi,
chiese,
palazzi,
stamperie,
zecche…);
in
Francia,
Germania
ed
Italia,
9
tra
il
1500
e
il
1700,
sorsero
manifatture
reali,
cioè
grandi
imprese
pubbliche
secondo
due
intenti:
disporre
di
manufatti
d’alto
valore
che
avrebbero
squilibrato
la
bilancia
commerciale,
e
mettere
all’opera
maestranze
disoccupate
e
avviare
al
lavoro
orfani
e
trovatelli
potenzialmente
marginali
sotto
il
profilo
sociale
e
canditati
a
ingrossare
le
fila
dei
fuorilegge.
Dal
1400
i
sovrani
avevano
preso
a
concedere
patenti
di
privilegio
a
inventori
che
miglioravano
o
innovavano
processi
produttivi
escogitando
macchine
ingegnose,
e
consentivano
loro
l’esclusivo
sfruttamento
economico
dell’innovazione.
Il
capitalismo
commerciale
La
repubblica
patrizia
delle
7
Province
Unite
Olandesi
Nel
1581,
sette
province
secessioniste
del
Nord
fondarono
una
repubblica
federale
con
sede
del
governo
a
L’Aia.
L’organo
politico
sovrano
era
dato
dagli
stati
generali
dei
rappresentanti
dei
sette
consigli
provinciali;
il
personale
politico
era
composto
da
un’oligarchia
patrizia
di
mercanti,
banchieri,
finanzieri
attivi
nei
numerosi
centri
urbani
del
paese.
L’Olanda
del
1600
fu
l’area
europea
a
più
alta
densità
di
città
e
cittadini.
Amsterdam
divenne
il
centro
commerciale
e
crocevia/emporio
delle
relazioni
economiche
fra
Nord
e
Sud
Europa
e
tra
Europa
e
resto
del
mondo;
funzionò
come
un
crogiolo
nel
quale
si
fusero
persone
provenienti
da
luoghi
diversi,
con
diverse
culture
e
religioni
e
riuscì
così
ad
offrire
un
eccellente
esempio
di
tolleranza
religiosa
e
di
riuscita
integrazione
culturale.
Il
primato
economico
di
questa
regione
derivò
da
una
felice
integrazione
di
diverse
attività
economiche
e
sistemi
di
collegamento
a
basso
costo
per
vie
d’acqua
interne
e
per
mare.
I
Paesi
Bassi
furono
definiti
da
Defoe
“i
trasportatori
del
mondo
,
le
persone
al
centro
del
commercio,
gli
agenti
e
i
mediatori
d’Europa”.
Dai
primi
anni
del
1600,
Amsterdam
controllò
il
mercato
internazionale
delle
assicurazioni
marittime,
dei
cambi
delle
valute
dei
depositi
delle
monete
pregiate,
del
credito
commerciale
e
degli
investimenti
finanziari
in
compagnie
privilegiate
e
in
società
commerciali
e
manifatturiere.
Inoltre,
la
concentrazione
dei
maggiori
operatori
economici
del
tempo
ne
fece
anche
il
primario
centro
europeo
della
banca
e
della
finanza.
Gli
olandesi
ridussero
costantemente
i
costi
di
transazione:
i
costi
di
ricerca,
i
costi
di
contrattazione,
i
costi
da
contenzioso.
L’organizzazione
delle
imprese
commerciali
subì
ammodernamenti
rispetto
alle
tradizionali
compagnie
mercantili
a
base
familiare,
caratteristiche
dei
mercanti
tedeschi
e
italiani.
Gli
olandesi
svilupparono
e
società
in
partecipazione
e
i
mercanti
commissionari.
A
fine
‘500
anche
il
mercato
del
credito
a
breve,
medio
e
lungo
termine
si
trasferì
ad
Amsterdam.
Grazie
al
costante
calo
del
costo
del
denaro,
le
regioni
olandesi
arrivarono
a
compiere
lavori
di
bonifica
grazie
ai
quali
costruirono
i
polders,
e
inoltre
fu
perfezionata
la
rete
di
canali
navigabili.
Negli
anni
’60
del
‘600
il
primato
olandese
incomincio
a
scricchiolare.
Nel
1672,
Francia
e
Inghilterra,
alleate,
dichiararono
guerra
all’Olanda.
Il
mercantilismo,
una
politica
governativa
che
limitava
le
importazioni
per
controllare
i
flussi
monetari
in
uscita
d’oro
e
d’argento,
minò
il
ruolo
d’emporio
centrale
d’Europa
svolta
da
Amsterdam.
Le
onerose
spese
per
la
guerra
causarono
una
crescita
incontrollata
del
debito
pubblico
e
i
gettiti
delle
imposte
non
bastavano
a
corrispondere
gli
interessi
ai
creditori,
sicché
la
spirale
dell’indebitamento
non
faceva
che
allargarsi;
inoltre
gli
ultimi
decenni
del
‘600
ed
i
primi
del
‘700
trascorsero
all’insegna
del
calo
dei
prezzi
e
del
declino
degli
sbocchi
esteri.
10
Il
colonialismo
commerciale:
le
compagnie
privilegiate
Fin
dal
XII
secolo,
in
Europa
erano
comparse
compagnie
commerciali
private,
formate
dai
mercanti
attivi
nei
porti/empori,
volte
a
tutelare
gli
interessi
degli
aderenti
nei
confronti
delle
autorità
politiche
e
amministrative
estere.
Rispetto
a
quelle
medievali,
esse
vantavano
2
caratteristiche
innovative:
il
contratto
di
società
durava
almeno
15
anni;
le
compagnie
godevano
di
privilegi
statali
come:
sovvenzioni
e
facilitazioni
doganali,
monopoli
sulle
merci
intermediate
e
l’esclusiva
su
nuove
rotte
marittime.
La
mira
realizzare
entrate
fiscali
indusse
i
sovrani
a
sollecitarne
la
fondazione
e
a
proteggere
la
gestione
delle
compagnie
commerciali
delle
Indie.
Inoltre
essi
furono
spinti
anche
dall’ambizione
di
trarre
dagli
scambi
con
l’Oriente
quei
metalli
preziosi
che
avrebbero
permesso
di
accrescere
la
massa
monetaria
circolante.
Dopo
il
naufragio
della
flotta
portoghese
che
produsse
un’acuta
rarefazione
delle
scorte
in
spezie
che
ne
quadruplicò
i
prezzi,
un
gruppo
di
mercanti
olandesi
armò
4
navi
e
nel
1595
partirono
verso
l’oriente.
Fra
il
1596
e
il
1601,
almeno
otto
società
mercantili
olandesi
violarono
il
monopolio
portoghese
delle
spezie
indiane.
Gli
Stati
Generali
decisero
di
concedere
il
monopolio
del
commercio
con
l’Asia
a
una
sola
compagnia
a
larga
partecipazione
azionaria:
la
VOC.
Fondata
nel
1602,
ebbe
dal
governo
le
seguenti
prerogative:
1. Stipulare
trattati
commerciali
con
principi
asiatici;
2. Arruolare
e
mantenere
un
esercito;
3. Battere
moneta;
4. Amministrare
in
piena
autonomia
le
proprie
basi
extraeuropee.
La
maggior
durata
rappresentò
un’innovazione
decisiva
perché
diede
luogo
a
un
prolungamento
indefinito
della
società.
Ogni
azionista
poteva
liquidare
facilmente
il
proprio
investimento
vendendo
la
propria
quota
in
borsa.
La
rivale
della
VOC
era
la
EIC
Inglese,
fondata
nel
1600.
Essa
ottenne
dalla
regina:
1. Monopolio
della
navigazione
verso
Oriente
per
15
anni
(conservato
fino
al
1813);
2. L’esclusiva
dell’importazione
in
Gran
Bretagna
delle
merci
asiatiche;
3. Il
diritto
di
mantenere
un
esercito
e
una
flotta
armata;
4. Concludere
trattati
con
gli
stati
asiatici.
A
differenza
della
VOC,
al
termine
di
ogni
spedizione
ogni
socio
poteva
stabilire
se
aumentare
o
diminuire
la
propria
quota
di
partecipazione.
In
Francia,
nel
1664,
Colbert
promosse
fra
mercanti
e
finanzieri
del
tempo
una
Compagnia
Statale
Francese
delle
Indie
Orientali
approvata
dal
sovrano
con
ampi
privilegi:
1. Monopolio
delle
rotte
a
Est
del
Capo
di
Buona
Speranza;
2. Permesso
di
esportare
oro
e
argento
in
lingotti
e
in
moneta
per
pagare
le
importazioni;
3. Autonomia
amministrativa
delle
proprie
basi
commerciali;
4. Possibilità
di
assoldare
localmente
armati;
5. Esercizio
della
giustizia
civile
e
penale;
6. Abbuoni
doganali
ed
esenzioni
nei
movimenti
di
merci
in
entrata
e
in
uscita
dai
confini
francesi.
11
Tutti
questi
privilegi
la
resero
ben
diversa
dalla
VOC
e
dalla
EIC;
la
compagnia
francese
era
vista
come
un’impresa
in
chiave
antiolandese.
In
seguito
fu
privatizzata
e
in
pochi
anni
le
promettenti
operazioni
di
finanza
e
commercio
furono
gestite
da
mercanti
professionisti
che
iniziarono
ad
arricchirsi.
Ma,
nel
1719,
queste
attività
furono
arrestate
a
causa
dell’operazione
di
John
Law,
il
quale
convinse
il
sovrano
a
riunire
tutte
le
attività
coloniali
in
una
sola
gigantesca
compagnia
sotto
il
controllo
statale
che
si
occupava,
in
realtà,
soprattutto
di
riscuotere
le
imposte
in
Francia,
esercitare
il
monopolio
dei
tabacchi,
stampare
moneta
e
rimborsare
i
titoli
del
debito
pubblico.
Nel
1720
la
compagnia
federale
di
Law
fece
bancarotta
e
solo
nel
1730
quella
delle
Indie
tornò
a
funzionare.
Le
compagnie
delle
Indie
Occidentali
Nel
1621,
gli
olandesi
fondarono
la
WIC
con
prerogative
identiche
alla
VOC.
Il
suo
scopo
principale
era
quello
di
fare
guerra
ai
convogli
spagnoli
che
trasferivano
ora
dal
centro
America.
Dal
1630
la
WIC
conquistò
larghi
tratti
delle
coste
brasiliane
e
ne
detenne
il
controllo
per
20
anni
circa.
Dal
1654
i
portoghesi
riconquistarono
le
province
brasiliane.
Le
azioni
della
WIC
crollarono
e
la
compagnia
fu
liquidata
nel
1674.
La
Compagni
delle
Indie
Occidentali
fondata
da
Colbert
nel
1664,
si
diede
il
compito
di
promuovere
il
commercio
con
il
Canada,
l’Africa,
le
Antille
e
l’America
meridionale.
Tra
il
1665
e
il
1672,
la
compagnia
organizzò
la
prima
popolazione
del
Quebec.
Nelle
Antille,
la
concorrenza
della
WIC
e
l’inefficienza
organizzativa
francese,
indussero
il
governo
ad
abolire
il
monopolio
e
a
introdurre
il
regime
dell’esclusiva,
che
lasciava
la
libera
possibilità
di
commerciare
con
le
colonie,
fatto
che
favorì
la
crescita
della
produzione
locale.
Due
altre
compagnie
ideate
da
Colbert,
quella
del
Senegal
e
quella
della
Guinea,
realizzarono
più
perdite
che
utili,
ma
gettarono
le
basi
del
futuro
impero
coloniale
francese
centro
africano.
4.La
Prima
Rivoluzione
Industriale
(1720-‐1870)
La
Gran
Bretagna
verso
l’economia
industriale
Alla
fine
del
’700,
la
Gran
Bretagna,
con
largo
anticipo
su
altri
paesi,
stava
diventando
la
prima
nazione
industriale
del
mondo,
grazie
ad
una
grande
produzione
delle
industrie
siderurgiche
e
dell’industria
tessile
e
a
una
diminuzione
della
percentuale
della
popolazione
attiva
che
lavorava
nel
settore
primario
(53%
contro
l’80%
delle
campagne
continentali).
Siamo
immersi
in
una
complessa
costruzione
culturale
e
sociale
che
avviò
trasformazioni
graduali,
cumulative,
e
con
il
tempo
dimostratesi
irreversibili
negli
assetti
preesistenti.
Perché
tutto
questo
cominciò
proprio
in
Inghilterra
dopo
la
metà
del
‘700?
Perché
laggiù
un
insieme
di
fattori
materiali
e
culturali,
da
tempo
entrati
sommessamente
in
azione,
aveva
precostituito
condizioni
favorevoli
al
dispiegarsi
di
un
nuovo
modo
di
produrre
la
ricchezza
per
mezzo
di
macchine
sempre
più
potenti
e
perfezionate,
avendo
ridotto
alla
condizione
di
merci
l’ambiente,
gli
uomini
e
la
moneta.
L’ambiente:
le
infrastrutture
di
collegamento
Il
canale
della
Manica
funzionò
come
ostacolo
per
gli
aggressori
e
come
elemento
di
connessioni
con
le
regioni
continentali.
12
Il
profilo
frastagliato
delle
coste
e
i
larghi
estuari
dei
fiumi
che
conducono
a
centri
interni
di
stoccaggio
e
consumo
moltiplicarono
gli
approdi
e
promossero
i
trasferimenti
di
beni
da
una
regione
all’altra
via
mare.
I
terreni
prevalentemente
pianeggianti
favorirono
il
miglioramento
o
la
costruzione
di
strade
da
parte
di
società
che
riscuotevano
pedaggi,
anche
se
i
viaggi
via
strada
costavano
il
quadruplo
rispetto
a
quelli
via
mare.
La
forma
allungata,
piatta
e
stretta
del
paese
ebbe
un
ruolo
fondamentale
nel
favorire
una
precoce
integrazione
delle
diverse
economie
regionali
in
un
mercato
nazionale.
Dal
1750
cominciò
a
profilarsi
un
mercato
nazionale
delle
materie
prime
industriali,
di
alcuni
generi
d’importazione
e
coloniali.
I
dati
danno
conto
di
due
fenomeni:
1. Del
gigantismo
di
Londra
fin
dal
primo
‘700;
2. Della
grande
crescita,
nel
secondo
‘700,
dei
porti
affacciati
sul
braccio
di
mare
che
separa
il
Galles
dall’Irlanda.
La
struttura
urbana
inglese
prese
forma
grazie
ai
traffici
internazionali
e
alle
attività
di
servizio
e
di
lavorazione
delle
materie
prime
importate.
L’ambiente:
il
mondo
rurale
Alla
fine
del
‘600,
l’agricoltura
inglese
e
gallese:
1. Aveva
grandi
riserve
di
terra;
2. In
molte
parti
del
paese
produceva
per
il
mercato;
3. La
produttività
del
frumento
oscillava
tra
i
9
e
i
10
quintali
per
ettaro;
4. I
raccolti
erano
stabili
nel
medio
periodo,
in
virtù
di
favorevoli
condizioni
meteo-‐climatiche.
La
popolazione:
la
dinamica
generale
Dopo
una
lenta
crescita
tra
‘600
e
inizio
‘700,
la
popolazione
quasi
triplicò
entro
metà
‘800
e
la
durata
della
vita
si
allungò.
I
dati
mostrano
differenziazioni
demografiche
in
relazione
con
i
caratteri
economici
prevalenti:
nelle
aree
a
prevalenti
attività
manifatturiere
e
commerciali,
la
popolazione
crebbe
maggiormente.
Alla
fine
del
secolo,
la
maggior
parte
della
popolazione,
viveva
ancora
nelle
contee
poste
ai
margini
del
processo
di
crescita
industriale.
Poiché
nel
1831
la
quota
residente
nelle
contee
era
ancora
il
55%,
ciò
significava
che
le
campagne
svolsero
un
ruolo
decisivo
sia
perché
fornirono
un
crescente
numero
di
braccia
alle
aree
in
cui
stavano
prendendo
slancio
le
attività
industriali,
commerciali
e
di
servizio,
sia
perché
proprio
nel
settore
agricolo
si
profilarono
quegli
aggiustamenti
tecnici,
economici
e
delle
mentalità
che
promossero
e
sostennero
l’industrializzazione.
Nella
storia
demografica
inglese
il
caso
di
Londra
rappresenta
un
caso
a
parte,
poiché
già
dalla
fine
del
‘600
era
la
città
europea
più
popolata,
e
col
passare
degli
anni,
la
popolazione
londinese
fu
in
costante
aumento.
Questa
crescita
non
avrebbe
potuto
proseguire
senza
i
mutamenti
intervenuti
nel
mondo
rurale
circostante.
Il
potere
d’acquisto
relativamente
elevato
di
quei
operatori
i
cui
salari
erano
i
più
alti
del
paese,
e
a
quello
dei
quasi
centomila
bottegai
attivi
nella
città
ai
primi
anni
del
‘700,
fu
un
decisivo
fattore
di
crescita
della
domanda
aggregata
di
beni
e
servizi,
che
da
Londra
si
radiava
in
tutta
l’Inghilterra.
Le
istituzioni:
la
sovranità
del
Parlamento
La
Gran
Bretagna
di
fine
‘700
aveva
quasi
completato
un
processo
istituzionale
colto
a
rafforzare
l’unità
nazionale
e
a
limitare
il
potere
della
corona,
della
chiesa
e
della
grande
aristocrazia
feudale.
Nel
1629,
con
la
Petizione
dei
Diritti,
la
Camera
dei
Comuni
aveva
limitato
il
potere
sovrano.
Nacque
un
acceso
conflitto
tra
corona
e
parlamento.
13
Le
elezioni
di
nuovi
deputati,
mercanti,
uomini
di
legge
e
proprietari
fondiari,
rafforzarono
gli
avversari
dell’assolutismo
regio.
Essi,
infatti,
votarono
una
norma
sulla
tolleranza
religiosa
e
invalidarono
ogni
tassazione
non
approvata
dal
Parlamento.
I
contrasti
tra
monarchici
e
avversari
portarono
a
una
guerra
civile
tra
esercito
regio
ed
esercito
del
Parlamento.
Olivier
Cromwell,
nel
1647,
incarcerò
il
Re,
lo
sottopose
a
giudizio
e
lo
fece
condannare
a
morte.
Abolita
la
Camera
dei
Lord
e
cancellati
i
privilegi
della
grande
aristocrazia,
Cromwell
instaurò
una
repubblica,
il
Commonwealth,
governata
da
un
consiglio
di
stato
composto
dai
suoi
fedeli.
Nel
1651
Cromwell
fece
votare
l’Atto
di
Navigazione,
con
il
quale
si
chiudevano
al
naviglio
estero
tutti
i
porti
britannici,
creando
una
vasta
area
riservata
ai
mercati
nazionali.
Con
la
morte
di
Cromwell
(1658)
terminò
la
sua
repubblica,
e
dal
1660
Carlo
II
Stuart
riprese
il
trono,
ma
il
sospetto
di
simpatie
papiste,
assieme
alla
sua
arrendevolezza
verso
il
re
francese,
indusse
i
ceti
borghesi
e
quelli
affaristici
liberali
ad
avviare
un’energica
politica
internazionale
e
a
contrastare
il
riemergente
assolutismo
regio.
Un
primo
successo
fu
la
promulgazione
dell’Habeas
Corpus
Act
(1679),
con
il
quale
fu
sancita
la
libertà
personale
dei
sudditi
e
interdetta
la
carcerazione
arbitraria.
Alla
sua
morte,
i
Whig
non
riuscirono
a
impedire
l’ascesa
al
trono
del
fratello
Giacomo
II.
I
parlamentari
inglesi
i
appellarono
al
genero
del
nuovo
re,
Guglielmo
II
d’Orange,
nobile
protestante
olandese,
che
nel
1689
fu
proclamato
re,
non
prima,
però,
di
avergli
fatto
giurare
la
Bill
of
Rights
a
conferma
delle
prerogative
parlamentari:
1. Libertà
di
parola
2. Approvazione
dei
tributi
e
controllo
della
finanza
statale;
3. Proibizione
al
monarca
di
tenere
un
esercito
stabile
al
suo
servizio.
L’Inghilterra
divenne,
così,
una
Monarchia
Costituzionale.
Nel
1694
fu
fondata
la
banca
d’Inghilterra
e
organizzato
un
mercato
per
i
titoli
pubblici
e
privati.
Il
potere
esecutivo
fu
temperato
dall’esistenza
di
leggi
che
riconoscevano
ai
sudditi
inglesi
un
insieme
di
libertà
individuali
sconosciute
nel
resto
d’Europa.
Lontano
da
Londra,
gli
squires,
i
rampolli
della
nobiltà
rurale,
esercitavano
le
funzioni
amministrative
e
giurisdizionali
in
condizioni
di
completa
indipendenza
e
senza
alcuna
limitazione
governativa.
Così
l’Inghilterra
divenne
una
monarchia
a
guida
doppiamente
aristocratica,
al
centro
come
nelle
periferie.
Le
istituzioni:
verso
l’individualismo
concorrenziale.
Tre
questioni
istituzionali
ebbero
decisive
conseguenze
economiche.
La
prima
riguardò
le
chiusure
delle
campagne,
la
seconda
la
regolamentazione
del
lavoro
artigianale,
e
la
terza
l’eliminazione
di
monopoli
e
privilegi
di
concessione
regia.
1.
Alla
fine
del
‘400
alcuni
proprietari
ricchi
presero
a
recintare
i
loro
terreni;
le
chiusure
dei
campi
minacciavano
il
livello
di
vita
di
quei
contadini
poveri
che
sopportavano
le
conseguenze
del
graduale
avvento
di
un
sistema
imperniato
sull’individualismo
agrario,
che
metteva
a
repentagli
l’equilibrio
sociale.
Il
1597
coincise
con
l’ultimo
decreto
contrario
a
sacrificare
la
cerealicoltura
a
vantaggio
del
pascolo.
Nel
1608
fu
promulgata
la
prima
norma
chiaramente
favorevole
alla
chiusura
dei
campi.
Nel
1621
il
parlamento
votò
l’Enclosure
Bill,
legge
quadro
che
disciplinava
organicamente
la
materia.
Nel
1624
fu
abrogata
ogni
norma
avversa
alle
chiusure
dei
campi
aperti.
Ma,
solo
nel
1801
fu
emanato
un
General
Act
of
Enclosure,
che
uniformò
la
disciplina.
2.
Nel
1751,
un’inchiesta
parlamentare
scoprì
che
“le
fabbriche
più
utili
e
prospere
sono
principalmente
gestite
in
quelle
città
e
in
quei
luoghi
che
non
sono
soggetti
a
leggi
locali
sulle
corporazioni”
ed
affermava,
inoltre,
che
le
leggi
relative
al
commercio
ed
all’industria
dovevano
essere
annullato
poiché,
nelle
presenti
congiunture,
erano
dannose
per
il
commercio.
In
realtà
il
14
sistema
corporativo
inglese
era
in
via
di
smantellamento
sin
dal
1688
e,
negli
anni
successivi,
il
Parlamento
rifiutò
più
volte
il
ripristino
delle
antiche
norme
corporative.
Nel
1694,
fu
abrogata
la
norma
dello
Statute
of
Artificiers,
che
vietava
ai
figli
dei
contadini
l’esercizio
di
attività
artigianali,
legalizzandone
l’impiego
nelle
manifatture
tessili.
Infine,
l’eliminazione
dell’apprendistato,
a
fine
‘700,
offrì
agli
imprenditori
l’opportunità
di
impiegare
donne
e
bambini.
Una
situazione
tanto
gravida
di
conflitti
economici
e
sociali
vene
controllata
grazie
all’esistenza
di
leggi
sui
Poveri,
Poor
Laws
(1579-‐1601),
secondo
le
quali
ogni
parrocchia
doveva
distribuire
sussidi
ai
bisognosi
utilizzando
fondi
prelevati
dai
gettiti
dell’imposta
fondiaria.
Il
preambolo
dell’Act
of
Settlement
(1662),
legava
gli
indigenti
alla
parrocchia
d’origine:
pertanto
la
legge
riconosceva
a
due
giudici
di
pace
il
potere
di
rispedire
alla
parrocchia
d’origine
gli
indigenti;
ma,
in
realtà,
i
nascenti
centri
industriali
divennero
sempre
più
permissivi
e
a
Londra
la
legge
non
fu
mai
applicata.
3.Il
terzo
aspetto
riguarda
dapprima
la
limitazione
e
poi
la
soppressione
del
diritto
sovrano
d’accordare
monopoli
e
privative
commerciali
dietro
pagamento
d’onoranze
e
canoni
al
Tesoro
della
corona.
Lo
Statuto
dei
Monopoli
del
1624,
cancello
ogni
privilegio
economico
ed
introdusse
nel
diritto
inglese
il
sistema
dei
brevetti
che
garantiva
solo
lo
sfruttamento
economico
di
autentiche
innovazioni,
per
un
limitato
periodo
di
tempo.
Le
gerarchie
sociali
Fra
fine
‘700
e
inizio
‘800,
la
Gran
Bretagna
conservava
i
caratteri
di
una
società
rurale,
anche
se
nelle
isole
britanniche
fin
dal
‘600
era
andata
profilandosi
una
struttura
sociale
imperniata
sul
primato
di
grandi
proprietari
fondiari
(Lords
e
Gentry).
Essi
concedevano
le
loro
campagne
a
fittavoli
in
cambio
di
un
canone,
ed
essi
si
avvalevano
di
braccianti
ingaggiati
stabilmente
e
altri
operai
precari.
Alla
fine
del
‘600
l’assetto
della
società
rurale
inglese
era:
concentrazione
del
70%
della
terra
nelle
mani
di
16.200
casate
aristocratiche,
fatto
che
testimonia
un’accentuata
sperequazione
nella
distribuzione
della
risorsa
di
base
(terra).
Inoltre,
a
questo
dato,
dobbiamo
aggiungere
circa
40.000
famiglie
che
controllavano
poderi
di
almeno
40
ettari.
Il
piccolo
proprietario
inglese
di
fine
‘600
era
in
un’ottima
situazione
economica
e
finanziaria.
La
riforma
protestante
ebbe
2
effetti
sociali
e
culturali
di
rilievo:
cancellazione
del
calendario
liturgico
di
un
gran
numero
di
festività
religiose,
fatto
che
aumentò
i
giorni
lavorativi,
la
fatica,
ma
anche
il
reddito
dei
salariati;
e
la
diffusione
dell’istruzione
di
base,
fatto
che
incrementò
l’indipendenza
di
opinione
ed
anche
la
pubblicazione
di
opere
in
inglese.
Nel
1695
fu
abolita
la
censura
preventiva,
fatto
che
aiuto
l’Inghilterra
a
essere
il
primo
paese
a
conoscere
l’avvento
della
pubblica
opinione
e
a
servirsi
della
stampa
quotidiana
e
periodica
come
strumento
di
pressione
politica.
L’economia
agricola
La
maggior
parte
della
ricchezza
prodotta
in
GB
e
la
percentuale
più
alta
di
persone
economicamente
attive
lavorava
nelle
campagne.
La
produttività
dell’agricoltura
raddoppiò
per
effetto
della
diffusione
dell’individualismo
agrario
e
di
novità
agronomiche
di
rilievo
come:
1. Conversione
dei
maggesi
in
campi
coltivati;
2. Semina
di
piante
da
foraggio;
3. Applicazione
del
principio
della
selezione
nell’allevamento
bovino;
4. Introduzione
delle
prime
macchine
per
seminare,
sarchiare,
segare
foraggi
e
mietere
e
trebbiare
i
cereali.
Fino
agli
anni
’60
del
’700,
l’Inghilterra
fu
il
maggiore
esportatore
di
grano
e
di
farina
dell’Europa
occidentale.
15
L’agricoltura
inglese
del
‘700
era
caratterizzata
dalla
presenza
dominante
di
fittavoli
imprenditori
agricoli
(farmers).
La
stipulazione
di
contratti
d’affitto
di
lunga
durata
permettevano
loro
di
fare
investimenti
migliorativi
sulle
terre
e
di
poterne
raccogliere
i
frutti.
Pertanto,
a
differenza
di
quanto
accadeva
nelle
campagne
continentali,
nelle
campagne
inglesi:
1. Gli
agricoltori
erano
una
maggioranza
e,
i
contadini,
una
minoranza;
2. La
maggior
parte
dei
prodotti
era
orientata
allo
scambio
interno
ed
estero;
3. Al
mercato
dei
prodotti
si
affiancò
quello
dei
fattori
produttivi;
4. Il
pagamento
dei
salari
in
moneta
divenne
la
regola;
5. La
grande
dimensione
delle
aziende
agricole
e
le
perfezionate
rotazioni
agrarie
permisero
di
integrare
agricoltura
e
allevamento.
A
dispetto
delle
pessimistiche
previsioni
di
Malthus,
durante
i
decenni
del
primo
sviluppo
industriale,
l’agricoltura
inglese
riuscì
a
sfamare
una
popolazione
in
rapida
crescita,
mettendo
il
paese
al
riparo
dal
pericolo
di
dover
ricorrere
ad
onerose
importazioni
di
cereali.
Inoltre
si
formò
un
circuito
virtuoso,
domanda
crescente-‐prezzi
in
flessione,
che
concorse
a
sostenere
un
mercato
di
massa
di
beni
industriali.
Manifattura
tessile
Fin
dal
‘400
l’Inghilterra
aveva
strappato
alle
Fiandre
il
primato
di
maggiore
esportatore
europeo
di
tessuti
di
lana.
Sotto
l’aspetto
organizzativo
nel
lanificio,
linificio
e
setificio,
ricorrevano
3
strutture
ineguale
peso
economico
e
sociale:
1. Lavoro
domiciliare
(putting-‐out
system):
largamente
prevalente,
era
imperniato
su
u
mercanti
imprenditori,
che
fornivano
la
materia
prima
da
lavorare
al
domicilio;
trascorso
il
periodo
concordato,
i
mercanti
tornavano
a
ritirare
il
prodotto
e
pagavano
in
denaro
il
compenso
pattuito;
si
trattava
di
organizzare
la
produzione
a
partire
dalla
fase
di
rifinitura
dei
tessuti
e
commercializzazione;
i
lavoratori
mantenevano
una
certa
indipendenza
e
padroneggiavano
attrezzature
e
tempo
ma,
ricevevano
compensi
assai
bassi.
2. Industria
Domestica:
il
protagonista
era
un
artigiano
che
utilizzava
strumenti
tecnici
propri,
aiutato
dai
familiari
e
da
qualche
garzone;
i
tessuti
prodotti
erano
direttamente
smerciati
dai
fabbricanti
nei
centri
urbani
vicini;
la
struttura
produttiva
laniera
era
strettamente
legata
all’agricoltura
facendone
parte
integrante.
3. Manifattura
accentrata:
un
imprenditore
riuniva
in
un
opificio
un
certo
numero
di
telai
accuditi
da
tessitori
a
tempo
pieno
pagati
a
cottimo;
egli
controllava
ogni
fase
produttiva;
vendeva
spesso
i
propri
tessuti
a
grossisti
che
li
piazzavano
sul
mercato
interno
ed
estero.
Gli
inizi
del
cotonificio
L’avvio
della
lavorazione
del
cotone
in
Inghilterra
risale
al
1550.
L’imitazione
delle
tele
indiane
in
Inghilterra
fu
stimolata
dal
divieto
di
importare
stoffe
votata
nel
1701
e
nuovamente
nel
1722.
La
proibizione
fu
sollecitata
dai
produttori
di
lana
che
si
sentivano
minacciati
dalla
fortuna
crescente
delle
tele
asiatiche
di
basso
prezzo.
Da
dopo
il
1730,
importazioni
e
consumi
conobbero
una
dinamica
sostenuta,
e
in
particolare
i
tessuti
misti
di
cotone
ebbero
un
successo
crescente.
Solo
le
trasformazioni
tecniche
di
fine
‘700
fecero
del
cotonificio
inglese
uno
dei
settori
trainanti
dell’economia
del
paese.
Le
attività
minerarie
e
metallurgiche
16
A
metà
‘700,
in
Inghilterra
e
Galles,
si
estraevano
5
milioni
di
tonnellate
di
carbone
l’anno.
Le
operazioni
di
estrazione
erano
appaltate
a
capimastri
che
ingaggiavano
squadre
di
minatori
pagati
a
cottimo.
A
inizio
‘700
a
causa
della
scarsità
di
legname
adatto
per
fare
carbone
vegetale
e
l’abbondanza
di
giacimenti
di
carbon
fossile,
moltiplicarono
i
tentativi
di
sostituire
nelle
operazioni
di
fusione
dei
minerali
metalliferi
il
vegetale
con
il
fossile,
assai
meno
costoso.
Nel
1709,
A.
Darby
riuscì
ad
ottenere
il
coke,
un
combustibile
d’elevato
potere
calorifico
che
sostituì
il
carbone
di
legna
nel
forno
per
fondere
il
ferro.
L’utilizzo
del
coke
si
affermò
lentamente
in
tutta
la
fusione
metallurgica:
nel
1788
l’80%
delle
ferriere
inglesi
adoperava
il
coke.
Lo
sfruttamento
allargato
di
giacimenti
minerari
pose
problemi
di
areazione,
d’illuminazione
e
dell’uso
di
cariche
esplosive
nelle
gallerie,
ma
soprattutto
evidenziò
la
questione
del
drenaggio
delle
acque
sotterranee.
Soluzioni
a
quest’ultimo
problema
furono
introdotte
col
passare
del
tempo:
1. 1698,
T.
Savery,
Pompa
a
vapore,
detta
“Amico
del
minatore”;
2. 1717,
J.
Newcomen,
la
rese
più
grande,
più
potente
e
più
affidabile;
3. 1769,
J.
Watt,
brevettò
la
sua
prima
Macchina
a
vapore;
4. 1775,
Boulton
&
Watt,
perfezionarono
la
precedente
di
Watt,
con
un
nuovo
motore,
ottennero
un
brevetto
di
25
anni;la
grande
innovazione
fu
che
il
moto
rettilineo
che
caratterizzava
le
precedenti,
venne
modificato
in
moto
rotatorio,
fatto
che
rese
la
macchina
a
vapore,
il
primo
potente
motore
universale.
L’accelerazione
del
mutamento
Fra
la
fine
del
‘600
e
i
primi
anni
’70
del
‘700,
periodo
d’incubazione
della
R.I.,
le
infrastrutture
e
i
settori
economici
del
paese
furono
in
costante
crescita.
Tutte
le
grandezze
economiche
registrate
progredirono
contemporaneamente,
secondo
un
principio
di
crescente
interdipendenza
in
un
sistema
economico.
Nella
prima
metà
del
‘700
la
percentuale
di
forza
lavoro
in
agricoltura
calò,
mentre
quella
maschile
addetta
ad
attività
industriali
crebbe;
ma
il
dato
più
scioccante
fu
dato
dal
fatto
che
la
quota
di
ricchezza
prodotta
non
consumata
crebbe
di
tre
volte
e
mezzo
liberando
risorse
per
investimenti
in
infrastrutture,
capitale
fisso
e
capitale
circolante.
L’Inghilterra
sperimentò
una
crescita
tendenziale
della
ricchezza
prodotta
in
agricoltura,
nell’allevamento
e
nelle
manifatture
già
prima
dell’avvio
della
R.I.:
gli
studiosi
riconoscono
al
settore
agricolo
il
ruolo
di
motore
del
mutamento
economico.
I
guadagni
d’efficienza
in
agricoltura
favorirono
anche
una
diminuzione
dei
costi
e
dei
prezzi
che
migliorò
il
potere
d’acquisto
dei
consumatori.
La
crescente
richiesta
di
combustibili
e
di
materie
prime
stimolò
la
sostituzione
di
risorse
organiche
e
di
fonti
energetiche
animali
con
minerali
e
fonti
d’energia
inanimate:
ne
derivarono
inevitabili
aggiustamenti
tecnologici.
Tra
fine
‘600
e
metà
‘700,
una
lievitazione
del
reddito
reale
fu
all’origine
di
un
proporzionale
incremento
della
domanda
aggregata
e
di
una
crescente
diversificazione
dei
generi
richiesti.
Il
reddito
medio
pro
capite
era
nettamente
superiore
a
quello
di
ogni
altro
operaio
in
Europa
e
era
interamente
corrisposto
in
denaro.
La
tecnologia
nel
mondo
rurale
La
possibilità
di
depositare
brevetti
e
di
avere
proventi
derivanti
dal
loro
esclusivo
sfruttamento,
promosse
in
Inghilterra
grappoli
d’innovazioni
e
d’invenzioni.
Nel
mondo
rurale
le
prime
macchine
furono
la
seminatrice
e
la
zappatrice
trainate
da
cavalli
inventate
a
inizio
‘700
da
J.
Tull.
Negli
stessi
anni
la
diffusione
dell’aratro
Rotherham
migliorò
le
tecniche
d’aratura.
Tra
il
1770
ed
il
1840
si
ebbe
un
profondo
mutamento
tecnologico.
L’uso
delle
17
macchine
per
operazioni
ad
altro
fabbisogno
di
manodopera
avventizia
mutò
il
calendario
dei
carichi
di
lavoro,
modificò
il
mercato
della
manodopera
rurale
e
liberò
la
parte
sottoccupata.
L’impiego
del
motore
a
vapore
L’impiego
della
macchina
a
vapore
in
siderurgia,
permise
agli
impianti
di
funzionare
senza
interruzione,
ma
anche
di
disporre
in
modo
“concentrato”
di
sufficiente
energia
da
poter
riunire
in
un
solo
impianto
le
tre
fasi
di
forno,
fucina
e
officina.
Nel
mondo
delle
miniere
prese
forma
l’idea
della
locomotiva.
Il
primo
esemplare
si
deve
a
R.
Trevithick
(1801),
che
utilizzo
una
macchina
a
vapore
ad
alta
pressione;
nel
1804
il
primo
esemplare
era
pronto
per
l’impiego.
Il
punto
debole
di
questo
nuovo
sistema
era
rappresentato
dai
freni,
dagli
assali,
dalle
mole
e
dall’armamento
dei
binari.
Nel
1825
G.
Stephenson
costruì
una
locomotiva
a
vapore
che
trascinava
vagoni
pieni
di
carbone
tra
2
giacimenti.
Nel
1829
riuscì
a
perfezionare
la
sua
Rocket
e
un
anno
dopo
fu
inaugurata
la
prima
linea
ferroviaria.
Innovazioni
tecnologiche
nel
tessile
Nel
settore
cotoniero,
le
macchine
che
resero
più
rapida
ed
efficiente
la
filatura
furono
inventate
tra
il
1760
e
il
1780:
1. 1733,
J.
Kay
invento
la
“Navetta
Volante”
per
il
telaio,
raddoppiando
la
produttività
dei
tessitori
e
moltiplicando
la
domanda
di
filo;
2. 1769,
R.
Arkwright,
“Water
Frame”,
filatoio
idraulico
imponente
e
costoso
che
utilizzò
la
forza
idraulica
dei
mulini;
3. 1770,
J.
Hargreaves,
“Spinning
Jenny”,
piccolo
filatoio;
ebbe
grande
successo
poiché
costava
poco,
era
facile
da
usare
e
permetteva
ad
una
sola
persona
di
realizzare
una
grande
quantità
di
filo
per
ogni
giornata
di
lavoro;
4. 1774-‐1779,
S.
Crompton,
“Mule”,ottenuto
combinando
i
principi
della
water
frame
e
della
spinning
jenny,
permetteva
di
ottenere
diversi
tipi
di
filo
5. 1790,
W.
Kelly,
riuscì
a
costruire
mule
automatiche
mosse
da
una
ruota
ad
acqua
dotate
di
circo
300
fusi
l’una
e
si
rivelò
di
grande
affidabilità
e
di
diffuse
a
macchia
d’olio
sempre
più
spesso
mossa
da
macchine
a
vapore.
I
progressi
nella
tessitura
furono
più
lenti.
Tra
il
1841
e
il
1845,
i
telai
meccanici
raggiunsero
una
tale
perfezione
tecnica
da
divenire
il
sistema
di
gran
lunga
più
economico
poiché
un
solo
sorvegliante
accudiva
più
macchine,
con
sensibili
risparmi
dei
costi
di
produzione
e
minor
impiego
di
manodopera
qualificata.
Le
operazioni
di
rifinitura
dei
tessuti
furono
le
più
lente
a
meccanizzarsi.
Il
primo
paese
industriale
Nel
1851
ci
fu
la
prima
esposizione
industriale
della
storia
a
Londra,
durante
la
quale
i
visitatori
si
accorsero
che
le
tecnologie
inglesi
non
avevano
eguali:
a
metà
‘800
la
Gran
Bretagna
era
la
massima
potenza
economica
del
pianeta.
I
destini
economici
della
popolazione
18
Nei
primi
50
anni
dell’800
gli
abitanti
erano
quasi
raddoppiati.
Non
si
tratto
solamente
di
una
vistosa
crescita,
ma
anche
la
struttura
demografica
mutò
profondamente:
1. Negli
anni
’40
la
popolazione
urbana
sopravanzò
quella
rurale;
2. Crebbero
le
città
industriali;
3. La
popolazione
si
spostò
verso
settori
a
maggior
produttività
rispetto
a
quelli
di
provenienza.
La
crescente
integrazione
del
sistema
economico
inglese
è
attestata
dall’espansione
degli
addetti
al
secondario
a
spese
del
primario
e
dal
progresso
delle
attività
d’intermediazione,
distribuzione,
credito,
assicurazione
e
servizio
alle
persone.
Fin
dal
1831,
l’Inghilterra
era
un
paese
a
economia
industriale,
poiché
l’agricoltura
cedette
il
primato
all’industria
nella
formazione
della
ricchezza
nazionale.
La
crescita
del
‘700
divenne
sviluppo,
sicché
la
ricchezza
prodotta
nel
paese
in
50
anni
crebbe
di
tre
volte
e
mezzo.
Nel
ventennio
1811-‐1831
vi
fu
il
massimo
sviluppo
economico
inglese,
ben
prima
che
facessero
la
loro
comparsa
le
ferrovie;
il
tenore
di
vita
medio
migliorò
sensibilmente,
con
un’impennata
del
reddito
pro
capite
negli
anni
proprio
negli
anni
20.
L’assenza
di
barriere
all’entrata
Nel
primo
‘800
lo
sviluppo
industriale
fu
favorito
anche
dalla
modesta
quantità
di
capitale
necessario
per
gli
investimenti.
I
dati
confermano
che
per
60
anni
circa,
in
Inghilterra
fu
possibile
divenire
industriali
senza
dover
disporre
di
ingenti
risorse.
Una
volta
avviate,
le
imprese
si
ingrandirono
grazie
all’investimento
di
una
parte
dei
profitti.
Ruolo
e
peso
del
capitale
fisso
Il
capitale
fisso
rappresentava,
nei
cotonifici,
poco
più
della
metà
di
tutte
le
risorse
investite,
e
negli
altri
settori
rappresentava
anche
una
quota
inferiore.
Un
freno
agli
investimenti
in
capitale
fisso
provenne
dalla
larga
ed
elastica
offerta
di
manodopera
a
basso
salario,
connessa
al
declino
del
putting-‐out
system,
e
all’alto
ritmo
di
crescita
della
popolazione.
I
mulini,
in
ritirata,
resistevano
solo
dove
non
era
indispensabile
disporre
di
un
moto
continuo
e
regolare
delle
apparecchiature.
I
progressi
della
siderurgia
e
la
crescente
domanda
di
manufatti
metallici
favorirono
la
nascita
del
settore
metalmeccanico
attorno
agli
anni
20.
Investimenti
in
infrastrutture
Nella
prima
metà
dell’800
il
capitale
venne
investito
principalmente
nella
costruzione
e
manutenzione
dei
canali:
essi
svolsero
un
ruolo
decisivo
nella
formazione
del
mercato
nazionale.
Essi
favorirono
anche
la
specializzazione
dei
trasporti
in
3
settori:
1. Cabotaggio
lungo
le
coste;
2. Acque
interne;
3. Strade;
pretesero
l’impiego
di
risorse
enormi.
Imprese
credito
e
moneta
Fino
a
metà
‘800
quasi
tutte
le
imprese
britanniche
furono
individuali
o
familiari.
Il
Bubble
Act
del
1720,
promulgato
per
tutelare
i
risparmiatori
dopo
lo
scandalo
della
South
Sea
Bubble,
una
bolla
speculativa
scoppiata
a
Londra
in
quell’anno,
prevedeva
solo
società
in
nome
collettivo
(partnerships),
così
ogni
socio
rispondeva
con
i
propri
beni
dei
debiti
degli
altri
soci.
Le
società
anonime
non
erano
sconosciute,
ma
per
la
loro
costituzione
era
necessario
ottenere
un
atto
speciale
del
parlamento
assai
costoso.
19
Il
Bubble
Act
fu
abolito
nel
1825,
anche
se
la
responsabilità
limitata
(Limited
Company)
fu
introdotta
solamente
nel
1825
con
i
Joint-‐Stock
Company
Acts.
Nel
1885
le
Limited
Company
erano
in
netta
minoranza
fra
le
imprese
manifatturiere
e
si
concentravano
nella
cantieristica,
siderurgia
e
nel
cotonificio.
Più
numerose
erano
le
società
azionarie
costituite
con
semplice
scrittura
privata
(Limited
Private
Company),
legalmente
riconosciute
solo
dal
1907:
fu
la
formula
preferita
per
controllare
le
imprese
familiari.
L’identità
fra
impresa
e
famiglia
fu
uno
dei
caratteri
fondanti
de,
imprenditoria
inglese
e
limitò
le
fonti
d’approvvigionamento
di
capitali:
1. Alle
relazioni
familiari
e
societarie
fra
persone;
2. Al
credito
commerciale,
in
forma
d’allungamento
dei
termini
di
pagamento
delle
materie
prime
e
dei
semilavorati;
3. A
facilitazioni
prestate
da
grossisti
agli
industriali,
loro
fornitori;
4. All’autofinanziamento
derivante
dalla
mancata
o
parziale
distribuzione
di
utili.
La
principale
forma
di
finanziamento
fu
largamente
rappresentata
da
credito
commerciale
a
breve,
offerto
da
banchieri
che
scontavano
cambiali
avvallate
da
terzi.
La
sospensione
della
convertibilità
in
oro
e
argento
della
cartamoneta
emessa
dalle
banche
moltiplicò
i
mezzi
di
pagamento
fiduciari
mentre
prezzi
e
salari
continuavano
a
crescere
e
il
debito
pubblico
aumentò
di
tre
volte
e
mezzo.
Con
il
Pell
Act
del
1819,
si
decise
di
ancorare
il
valore
della
sterlina
all’oro
e
di
limitare
l’emissione
di
moneta
cartacea
alle
disponibilità
di
metalli
preziosi
esistenti
presso
le
banche.
Dal
1821
la
convertibilità
fu
reintrodotta
di
fatto:
l’Inghilterra
inaugurava
così
il
GOLD
STANDARD,
un
sistema
monetario
che
avrebbe
semplificato
i
rapporti
commerciali
internazionali
per
tutto
l’800
e
fino
allo
scoppio
della
prima
GM.
La
Banca
d’Inghilterra
divenne
così
‘istituto
di
riscontro
finale.
La
riforma
del
1844
(Bank
Charter
Act),
regolò
rigidamente
l’emissione
di
moneta
cartacea,
essendo
prevalsa
la
convinzione
che
la
mancanza
di
vincoli
all’emissione
incoraggiava
le
speculazioni.
Le
reazioni
della
società
al
capitalismo
industriale
Tra
il
1795
e
il
1815,
il
rialzo
dei
prezzi
raddoppiò
le
rendite
fondiarie.
Analogamente
crebbero
anche
i
profitti
della
seconda
generazione
degli
industriali,
ma
alla
fine
delle
guerre
napoleoniche
il
clima
cambiò
perché
segui
un
periodo
di
deflazione
che
porto
a
un
generale
malcontento
ed
ad
una
serie
di
tumulti.
I
modi
di
lavorare
avevano
subito
enormi
cambiamenti.
L’industrializzazione
sostituì
al
servo
l’operaio,
l’uomo
fu
ridotto
a
merce
fittizia.
I
domestici
si
salvarono
dal
processo
di
massificazione.
Nella
fabbrica,
il
lavoro
alle
macchine
impose
una
monotonia
che
era
sconosciuta
agli
operai
preindustriali.
L’industrializzazione
portò
con
sé
la
tirannide
dell’orologio,
del
tempo
dettato
dal
fischio
della
sirena
della
fabbrica
e
dal
ritmo
della
macchina.
Poiché
uomini,
donne
e
bambini
non
si
adattavano
spontaneamente
a
mutamenti
tanto
radicali,
si
dovettero
costringere
con
una
ferrea
disciplina
e
con
ammende,
con
leggi
sul
lavoro
dipendente
come
quella
del
1824
che
prevedeva
la
prigione
per
gli
operai
che
rompessero
un
contratto
di
lavoro.
Anche
i
salari
bassi
cooperarono
alla
normalizzazione.
A
causa
della
rapida
industrializzazione
e
del
conseguente
inurbamento,
le
città
spesso
mancavano
di
servizi
pubblici
elementari,
e
ciò
contribuì
alla
diffusione
di
diverse
malattie
come
tifo,
colera
e
tubercolosi.
20
Le
città
distrussero
anche
le
tradizionali
relazioni
umane:
credenze,
morali,
religione
e
cultura
non
offrivano
alcune
linee
guida
per
i
comportamenti
richiesti
dal
nuovo
mondo
industriale,
e
la
completa
ignoranza
del
miglior
modo
di
vivere
rendeva
la
vita
quotidiana
ancor
più
penosa
e
difficile
per
i
poveri.
Nella
prima
metà
dell’800
sul
paese
si
abbatterono
periodiche
ondate
di
malcontento
e
malessere
sociale.
Nel
1832
il
Reform
Bill,
una
nuova
legge
elettorale,
modificò
i
collegi
elettorali
uninominali
accrescendo
i
seggi
cittadini
a
scapito
di
quelli
delle
contee;
fu,
poi,
istituito
il
suffragio
censitario.
Tenore
di
vita
e
assistenza
ai
poveri
Il
periodo
che
va
dal
1818
al
1824
venne
contraddistinto
da
un
drastico
calo
dei
prezzi
ma,
in
realtà,
solo
pochi
salari
nominali
furono
diminuiti
sicché,
allo
stesso
tempo,
crebbe
anche
il
loro
potere
d’acquisto.
Il
processo
di
deflazione
durò
fino
agli
anni
’50
e
i
salari
nominali
resistettero
o
calarono
di
meno;
l’unica
eccezione
furono
i
salari
dei
tessitori,
radicalmente
diminuiti.
Il
periodo
aureo
dei
salariati
(1818-‐1825)
si
spiega
con
una
serie
di
circostanze
almeno
in
parte
fortuite
come:
1. Severa
politica
deflazionistica
orientata
al
ripristino
della
convertibilità
della
sterlina;
2. Tradizionale
vischiosità
dei
salari
ereditata
dall’età
preindustriale;
3. Maggiore
volatilità
dei
prezzi
di
derrate
agricole
e
manufatti
industriali;
4. Mutamenti
strutturali
intervenuti
nella
società
e
nell’economia
inglese
che
indussero
il
Parlamento
a
rivedere
la
politica
assistenziale
verso
i
poveri;
infatti,
le
1834,
fu
introdotto
un
nuovo
sistema
di
assistenza
sociale
(il
sistema
di
Speenhamland)
che
integrava
le
entrate
dei
poveri
quando
queste
non
assicuravano
adeguate
razioni
quotidiane
di
pane.
Il
sistema
dei
sussidi
tratteneva
la
forza
lavoro
nei
luoghi
d’origine
e
addossava
ai
proprietari
fondiari
della
parrocchia
l’onere
del
finanziamento
dell’assistenza;
inoltre
istituiva
anche
case
di
lavoro
parrocchiali
o
interparrocchiali
nelle
quali
le
autorità
riunivano
i
disoccupati.
In
tal
modo
prevaleva
una
mentalità
che
identificava
nel
povero
un
fannullone
da
istituzionalizzare
e
controllare.
L’Inghilterra
dal
primato
al
declino
Verso
il
libero
scambio
internazionale
L’esportazione
svolse
un
ruolo
strategico
nella
crescita
economica
e
nello
sviluppo
inglese
fin
dai
primi
decenni
dell’800.
Di
fronte
ad
un
calo
consistente
dei
prezzi
del
grano
che
fece
fallire
numerosi
fittavoli,
nel
1815
il
Parlamento
votò
la
legge
protettiva
del
grano
nazionale
(Corn
Law)
volta
a
impedire
le
importazioni
di
cereali
a
basso
prezzo.
A
varie
riprese
i
dazi
furono
progressivamente
inaspriti.
Presto
si
notò
che
i
dazi
sui
grani
mantenevano
artificiosamente
alti
i
prezzi
dei
beni
di
prima
necessità
e
anche
i
salari
correlati
al
carovita.
Si
profilava
un
conflitto
tra
interessi
degli
agrari
e
interessi
degli
industriali.
Nel
1820
i
fautori
del
libero
scambio
riproposero
le
loro
tesi
con
una
petizione
presentata
in
Parlamento.
Nel
1822
furono
ridotti
i
dazi
sulle
materie
prime
e
sui
prodotti
industriali,
furono
oppresse
alcune
proibizioni
e
attenuati
gli
atti
di
navigazione.
Nel
1828
fu
votata
la
scala
mobile
dei
dazi
sul
grano
che
riduceva
il
protezionismo
sui
cereali.
Nel
1833
furono
ritoccate
al
ribasso
anche
le
tariffe
doganali.
Formidabile
ostacolo
al
libero
scambio
era
dato
dal
fatto
che
il
gettito
delle
dogane
rappresentava
larga
parte
dell’entrata
del
bilancio
pubblico
inglese,
insieme
alla
protezione
tradizionalmente
accordata
in
sede
politica
agli
interessi
dei
proprietari
fondiari,
i
cui
rappresentanti
sedevano
tanto
nella
camera
alta,
quanto
in
quella
dei
comuni.
21
La
riforma
elettorale
del
1832
portò
in
parlamento
numerosi
mercanti,
industriali
convinti
assertori
del
libero
scambio;
essi
affermarono
che
i
diritti
doganali
riducevano
le
dimensioni
del
mercato
nazionale
e
di
quello
estero
perché
limitavano
anche
la
capacità
d’acquisto
dei
paesi
esportatori.
Il
successo
di
queste
tesi
venne
dalla
prima
mobilitazione
dell’opinione
pubblica
e
culminò
con
l’Anti-‐Corn-‐Law
League
fondata
nel
1836;
6
anni
più
tardi,
nel
1842,
R.
Cobden
e
i
gli
altri
sostenitori
del
libero
scambio
ottennero
un
attenuamento
della
scala
mobile
del
grano.
Tutti
i
dazi
furono
abbassati,
eliminati
i
divieti
d’entrata
di
talune
merci
e
fissate
al
5%
le
tariffe
sulle
materie
prime.
Un
quadro
generale
dei
rapporti
economici
intrattenuti
dalla
Gran
Bretagna
con
l’estero
permette
di
soppesare
il
ruolo
dei
movimenti
di
merci,
l’importanza
dei
proventi
ottenuti
da
servizi
e
il
crescente
peso
dei
profitti
realizzati
investendo
capitale
all’estero.
La
dipendenza
commerciale
dall’estero
è
talmente
evidente
da
giustificare
la
preoccupazione
di
aprire
le
porte
alle
merci
straniere.
La
vera
forza
dell’economia
inglese
consisteva
nei
servizi,
nella
riesportazione
di
coloniali
e
nell’esportazione
di
capitali.
Se
la
bilancia
dei
pagamenti
fu
costantemente
in
avanzo,
ciò
si
dovette
alle
cosiddette
partite
invisibili
(finanza,
assicurazioni,
banca
e
noli
marittimi)
che
concorsero
ad
accrescere
le
riserve
auree
inglesi.
L’Inghilterra
verso
il
declino
Con
l’introduzione
del
libero
scambio,
la
dipendenza
inglese
dal
commercio
internazionale
si
accentuò
e
vennero
al
pettine
molti
nodi
connessi
a
uno
dei
caratteri
originari
dello
sviluppo
britannico:
la
ristrettezza
del
mercato
interno.
La
popolazione
non
era
abbastanza
numerosa
né
danarosa
da
sostenere
un
apparato
industriale
e
commerciale
in
continua
crescita.
Inoltre
i
salariati
inglesi
erano
stati
tenuti
troppo
a
lungo
in
condizioni
di
sottoconsumo
perché
alimentassero
un’adeguata
domanda
aggregata
di
beni
e
servizi
non
indispensabili.
Fino
al
1875
circa,
le
esportazioni
inglesi
aumentarono
più
rapidamente
del
reddito
nazionale;
in
altri
termini,
una
quota
crescente
della
ricchezza
prodotta
in
Gran
Bretagna
e
ne
andava
all’estero.
Alla
lunga
il
primato
britannico
fu
messo
in
discussione.
Le
economie
in
via
di
sviluppo,
una
volta
appropriatesi
delle
conoscenze
necessarie
all’avvio
dell’industrializzazione,
abbracciavano
il
protezionismo
per
consolidare
standard
tecnici
tanto
elevati
da
permettersi
di
affrontare
e
battere
sui
mercati
esteri
la
concorrenza
britannica.
Solo
tra
il
1846
e
il
1873
Gran
Bretagna,
aree
in
via
di
sviluppo
e
regioni
sottosviluppate
trassero
un
mutuo
vantaggio
dal
libero
commercio
internazionale.
Il
periodo
aureo
dell’economia
inglese
fu
tra
il
1840
e
il
1870,
periodo
durante
il
quale
il
commercio
mondiale
crebbe
enormemente,
ma
quella
fu
anche
l’epoca
dalla
quale
il
paese
cominciò
a
perdere
il
suo
primato
industriale.
Le
interpretazioni
del
declino
inglese
hanno
soprattutto
insistito
sulla
“stanchezza”
della
terza
generazione
d’imprenditori
i
cui
avi
avevano
profittato
di
condizioni
favorevoli
al
successo
e
i
cui
padri
lo
avevano
consolidato.
Taluni
fattori
esterni
contribuirono
ad
aggravare
la
situazione
socio-‐culturale
per
molti
versi
statica:
1. Né
il
sistema
scolastico
né
il
sistema
universitario
britannico
furono
all’altezza
della
sfida
posta
dal
crescente
fabbisogno
di
capitale
umano
e
all’esigenza
di
trasmettere
conoscenze
scientifiche
e
tecniche
d’alto
profilo;
22
2. L’avvento
tardivo
di
nuovi
settori
industriali
ad
altra
intensità
tecnologica,
insieme
al
ritardo
nell’adeguamento
tecnologico
in
settori
tradizionalmente
forti;
3. Lo
stile
di
vita
e
valori
culturali
di
riferimento
del
mondo
imprenditoriale
erano
quanto
di
più
lontano
potesse
esistere
dall’ingegneria
industriale
e
dal
management;
anche
nel
mondo
della
finanza
l’accentuato
conservatorismo
istituzionale
divenne
presto
un
fattore
d’arretratezza.
Una
prova
della
caduta
del
potenziale
economico
inglese
nel
corso
del
1800
proviene
anche
dal
raffronto
tra
livelli
percentuali
del
reddito
prodotto
nel
settore
industriale,
dagli
investimenti
effettuati
e
dalla
quota
di
spesa
pubblica
rispetto
agli
standard
medi
europei.
5.
L’Europa
industriale
(1830-‐1914)
I
primi
imitatori
continentali
Nel
1815,
a
Vienna,
i
sovrani
che
sconfissero
Bonaparte
ridisegnarono
l’Europa,
e
Francia,
Portogallo,
Spagna
e
Italia
rimisero
sui
troni
gli
antichi
regnanti.
Dagli
anni
’20
in
qualche
regione
si
profilarono
mutamenti
economici
analoghi
a
quelli
intervenuti
nell’Inghilterra
del
secondo
‘700.
Il
trasferimento
di
tecnologie
pretese
condizioni
di
base
e
dotazione
infrastrutturali:
1. Potenziali
di
crescita
della
produttività
nel
settore
agricolo;
2. Disponibilità
di
carbon
fossile
e
ferro;
3. Corsi
d’acqua
con
portate
costanti
per
tutto
l’anno;
4. Vie
di
comunicazione
efficienti
e
bassi
costi
di
trasporto;
5. Facile
accesso
ai
porti
atlantici
per
l’approvvigionamento
del
cotone
grezzo
importato;
6. Collegamenti
con
i
maggiori
centri
del
commercio
e
della
finanza
internazionale;
7. Elevata
specializzazione
della
manodopera
artigiana;
8. Brevettabilità
delle
invenzioni:
9. Alti
livelli
di
alfabetizzazione.
Questo
insieme
di
requisiti
mise
una
ristretta
cerchia
di
regioni
d’Europa
nella
condizione
di
imitare
l’Inghilterra
fin
dal
terzo
decennio
dell’800.
Solo
dal
1824
in
poi,
artigiani
inglesi
poterono
espatriare
e
dal
1825
fu
possibile
costruire
macchine
all’estero
su
licenza.
Una
completa
liberalizzazione
si
ebbe
solo
dal
1843,
con
l’adozione
del
libero
scambio
delle
merci.
L’industria
belga
fu
la
prima
a
decollare
e,
di
conseguenza,
trasmise
esperienze
tecnologie
e
capitali
alla
Francia
settentrionale,
alla
Germania
e
alla
Russia.
Il
Belgio,
primo
paese
industriale
del
continente
Il
congresso
di
Vienna
(1814)
unificò
le
ex
Provincie
Unite
olandesi
con
I
paesi
Bassi
e
il
granducato
del
Lussemburgo.
Le
differenze
economiche
e
culturali
portarono
alla
secessione
del
Belgio
nel
1830,
divenuto
monarchia
costituzionale
l’anno
successivo.
Precocità
e
alto
ritmo
di
sviluppo
belga
dipesero
da
almeno
4
fattori:
1. La
vicinanza
all’Inghilterra
e
l’integrazione
entro
uno
spazio
economico
che
comprendeva
Olanda,
alta
Rennania
e
Francia
settentrionale;
2. Le
abbondanti
riserve
di
carbon
fossile
e
ferro;
3. La
presenza
in
numerosi
centri
di
una
solida
manifattura
tessile:
4. L’iniziativa
economica
dei
sovrani
che
nel
1822
promossero
la
Société
Genérale:
la
prima
banca
d’affari
europea
e
nel
1835
fondarono
la
banca
centrale
(Banque
de
Belgique)
sottoscrivendo
metà
delle
azioni.
Lo
stato
realizzo
in
pochi
anni
un’ampia
rete
ferroviaria.
23
Nella
vallata
della
Mosa,
dal
1805,
prese
avvio
una
trasformazione
tecnologia
e
organizzativa
che
dalla
siderurgia
si
estese
al
settore
metalmeccanico.
Tra
il
1815
e
il
1834
si
affermarono
3
grandi
imprese:
nel
1809
quella
di
W.
Cockerill,
nel
1821
quella
dei
fratelli
Orban
e
nel
1829
quella
di
G.A.
Lamarche:
esse
controllavano
e
sfruttavano
i
giacimenti
coi
metodi
più
avanzati;
fu
il
primo
esempio
d’integrazione
verticale.
Spesso
alcune
imprese
incontrarono
problemi
di
finanziamento,
risolti
con
il
concorso
pubblico
e
con
investimenti
di
capitalisti
industriali
e
grandi
mercanti.
Il
settore
che
ebbe
il
maggiore
sviluppo,
evoluto
sin
dal
‘300,
fu
quello
della
tessitura
nella
regione
di
Gand
che
venne
organizzandosi
secondo
lo
schema
della
grande
manifattura
accentrata.
Dopo
aver
ottenuto
il
monopolio
generale
del
cotone
proveniente
dalle
indie
olandesi,
dal
1819-‐
182,
Gand
divenne
il
maggior
centro
cotoniero
continentale,
zona
nella
quale
furono
importati
anche
numerosi
filatoi
automatici
inglesi.
La
rapida
meccanizzazione
delle
operazioni
di
filatura
e
tessitura
accelerò
l’avvento
della
fabbrica
e
garantì
guadagni
di
produttività
e
stimolò
concentrazione
e
integrazione
verticale.
L’esperienza
storica
dell’industrializzazione
belga
presenta
alcuni
caratteri
peculiari:
1. La
precocità
dovuta
al
facile
accesso
alla
tecnologia
innovativa
inglese;
2. L’intraprendenza
degli
industriali
locali,
primi
organizzatori
del
sistema
di
fabbrica,
e
la
disponibilità
di
capitale
finanziario;
3. I
rapporti
sempre
più
serrati
del
sistema
bancario
con
le
industrie;
4. Una
politica
statale
favorevole
all’industrializzazione.
La
Svizzera,
un’eccezione
al
modello
inglese
L’industrializzazione
fu
relativamente
precoce
anche
in
Svizzera.
Il
suo
caso
conferma
che
le
piccole
dimensioni
territoriali
e
demografiche
costituirono
un
fattore
di
facilitazione
del
primo
viluppo
industriale.
La
manifattura
domestica
rurale
vi
si
era
rafforzata
nel
secondo
‘700
grazie
a
5
condizioni:
1. Il
particolarismo
politico
istituzionale,
con
leggi
diverse
da
cantone
a
cantone;
2. Un’agricoltura
talmente
povera
da
esigere
integrazioni
dei
redditi
tramite
manifattura
domestica;
3. La
vicinanza
ai
mercati
francese
e
tedesco
sui
quali
avviare
esportazioni;
4. L’assenza
di
controllo
delle
corporazioni
artigiane
urbane
nei
confronti
delle
attività
manifatturiere
dei
vicini
cantoni
rurali;
5. La
realizzazione
di
un’unione
doganale,
postale
e
monetaria.
La
particolare
morfologia
del
paese
rappresentava
una
difesa.
Nel
primo
‘800,
il
settore
cotoniero,
avendo
impiantato
moderni
filatoi,
produsse
le
matasse
di
base.
L’abbondanza
di
corsi
d’acqua
indusse
ad
incrementare
lo
sfruttamento
dell’energia
idraulica,
e
l’alto
costo
del
carbone
fece
si
che
le
poche
macchine
a
vapore
importate
funzionassero
solo
come
macchine
ausiliari.
L’accoglienza
delle
stoffe
pregiato
sui
mercati
esteri,
favorì
un
vero
e
proprio
boom
dell’export
svizzero
in
un
settore
oltretutto
privo
di
concorrenti.
La
posizione
di
nicchia,
ormai
consolidata
nell’800,
permise
di
continuare
a
usare
telai
a
mano
e
filatoi
idraulici
dispersi
entro
un
vasto
comprensorio.
Nel
settore
serico
furono
applicati
principi
analoghi:
1. Lavorazioni
tecnicamente
accurate
eseguite
in
piccoli
opifici;
2. Qualità
eccellente;
3. Forte
orientamento
all’esportazione.
24
Il
terzo
settore
orientato
ai
mercati
esteri
era
l’orologeria:
il
sistema
produttivo
s’imperniava
sull’attività
domiciliare
di
centinaia
di
artigiani,
e
grazie
alla
standardizzazione
dei
componenti
e
l’uso
crescente
di
macchine
e
di
utensili
di
precisione
modificarono
le
fasi
del
montaggio.
Prima
Vacheron
e
Costantin
e
poi
Patek,
Philippe
&
Co.,
intrapresero
la
produzione
per
l’esportazione
di
orologi
standardizzati
d’oro
e
d’argento.
A
metà
‘800,
già
una
delle
regioni
più
industrializzate
d’Europa,
la
Svizzera
si
scoprì
anche
una
vocazione
turistica
elitaria.
Poco
dopo
anche
l’agricoltura
cominciò
a
migliorare
e
sorsero
industrie
agrarie
innovative,
come
quelle
del
latte
condensato,
dell’estratto
di
carne
per
brodo
e
del
cioccolato.
Un
settore
chimico
e
farmaceutico
d’alto
profilo
tecnico
scientifico
si
affermò
nel
secondo
‘800
,
riuscendo
a
piazzare
quali
il
90%
della
sua
produzione
all’estero.
La
Francia
divenne
il
maggior
partner
negli
scambi
di
merci.
Con
il
tempo
la
quota
dell’export
svizzero
andò
calando,
per
converso
aumentò
l’esportazione
di
capitale
tecnico
e
finanziario
che
era
poco
meno
che
doppio
rispetto
a
quello
inglese.
Nell’alta
Italia,
gli
svizzeri
erano
fra
i
principali
protagonisti
del
nascente
settore
della
filatura
del
cotone.
Durante
l’800
la
crescita
economica
del
paese
fu
costante
ed
equilibrata,
fatto
che
portò
ad
un
aumento
del
PIL
pro
capite
che
raggiunse
i
livelli
di
quello
inglese
e
belga.
Fra
i
fattori
che
concorsero
a
un
risultato
tanto
appariscente,
vi
furono
anche
requisiti
di
carattere
sociale
e
culturale,
come:
1. Il
livello
d’istruzione
e
d’ingegnosità
della
popolazione;
2. Un’ampia
disponibilità
di
energia
idraulica;
3. Esportazione
di
prodotti
di
pregio
e
di
nicchia;
4. Secolare
abitudine
al
risparmio;
5. Combinazione
di
redditi
agricoli
e
da
manifattura
domestica;
6. Protezionismo
agricolo
che
assicurò
redditi
adeguanti
ai
contadini
e
li
trattenne
dal
cercare
in
massa
lavoro
nell’industria;
7. Alta
qualità
delle
produzioni
nel
cotonificio,
nel
setificio,
nell’orologeria
e
più
tardi
nella
farmaceutica
e
nella
chimica;
8. Il
prestigio
di
cui
godettero
i
manufatti
svizzeri.
Il
gigante
lento:la
Francia
La
popolazione
Nel
1801,
la
Francia
era
il
paese
più
popolato
dell’Europa
occidentale,
anche
se
la
quota
dei
giovani
era
inferiore
a
quella
degli
anziani.
La
caduta
della
fecondità,
fu
determinata
dalle
morti
che
portarono
le
guerre
napoleoniche,
e
rafforzata,
in
seguito,
dagli
effetti
successori
del
Codice
civile,
che
distribuiva
il
patrimonio
paterno
fra
i
figli
impoverendo
le
famiglie
numerose.
L’inurbamento
dei
rurali,
solo
in
parte
derivò
dall’industrializzazione.
Le
città
erano
anzitutto
centri
amministrativi,
d’artigianato
e
di
servizi
che
smistavano
i
prodotti
del
mondo
rurale
circostante.
La
crescita
urbana
fu
alimentata
dal
sovrappopolamento
delle
campagne.
Ne
derivarono
4
processi
di
notevole
portata
economica
e
sociale:
1. L’inurbamento
in
piccoli
e
medi
centri
che
crebbero
di
dimensione:
2. Controllo
della
fecondità
praticato
dalla
popolazione
rurale;
3. Incremento
del
volume
delle
produzioni
agricole;
4. Regresso
dell’artigianato
rurale.
L’agricoltura
25
La
suddivisione
dei
suoli
tra
le
diverse
coltivazioni,
nel
1840,
prova
il
grado
d’arretratezza
delle
campagne
francesi.
Per
tutto
l’800
esistettero
diversi
sistemi
agrari,
separati
da
una
linea
ideale
che
tagliava
diagonalmente
il
paese
da
nord-‐ovest
a
sud-‐est.
A
nord
prevalevano
grandi
poderi
dati
in
affitto
e
condotti
direttamente
dai
proprietari.
A
sud
coesistevano
due
agricolture
contadine;
una
sussistenziale,
fatta
di
piccoli
proprietari
che
avevano
saltuari
contati
con
il
mercato,
e
l’altra
monoculturale.
Un
lento
processo
di
modernizzazione
coincise
con
il
regno
di
Luigi
Filippo
di
Orleans
(1831-‐1847),
durante
il
quale
si
affacciarono
le
prime
colture
industriali.
Il
crescente
potere
d’acquisto
degli
abitanti
delle
campagne
fu
un
decisivo
fattore
di
crescita
per
l’economia
dell’intero
paese.
Verso
il
mercato
nazionale:
comunicazioni
e
trasporti
Nel
periodo
tra
il
1830
e
il
1860,
ingenti
investimenti
nel
sistema
delle
comunicazioni
favorirono
l’avvento
del
mercato
nazionale.
Il
sistema
viario
era
tra
i
più
evoluti
ed
efficienti
del
paese,
e
fece
un
miglioramento
con
il
completamento
della
rete
interna
di
canali.
Tra
il
1852
e
il
1870,
le
grandi
linee
ferroviarie
furono
completate.
Un
calo
netto
dei
costi
di
trasporto
abbassò
i
costi
di
produzione,
allargò
il
mercato
interno
e
rese
più
competitive
le
merci
francesi
all’estero.
Risorse
naturali,
energia,
tecnologie
L’abbondanza
delle
acque
e
l’alto
costo
del
carbone
spiegano
la
lenta
penetrazione
in
Francia
della
macchina
a
vapore.
La
protezione
doganale
favorì
la
nascita
di
un
solido
settore
meccanico.
Con
i
primi
anni
’60,
l’energia
delle
macchine
a
vapore
eguagliò
quella
prodotta
dai
motori
idraulici,
i
cui
rendimenti
erano
stati
migliorati
con
l’applicazione
di
turbine;
per
di
più,
pregiudizi
culturali
ostili
all’uso
del
carbone,
ritardarono
l’utilizzo
del
coke.
Per
questa
somma
di
ragioni
la
siderurgia
francese
raggiunse
livelli
produttivi
analoghi
a
quelli
inglesi
solo
dopo
il
1870.
La
siderurgia
francese
assunse
i
caratteri
della
grande
impresa
moderna
solo
dal
1870
con:
1. L’integrazione
verticale;
2. La
concentrazione
finanziaria
in
società
anonime;
3. Impianti
d’enormi
dimensioni;
4. L’evoluzione
verso
l’oligopolio;
5. L’abbattimento
della
concorrenza
con
un
cartello
che
avrebbe
evitato
crisi
di
sovrapproduzione
e
mantenuto
alti
i
prezzi
interni,
grazie
anche
alle
consistenti
difese
doganali.
Le
industrie
tessili
L’editto
regio
del
1762,
con
il
quale
si
permetteva
ai
campagnoli
di
fabbricare
ogni
tipo
di
stoffa,
sancì
una
diffusa
e
preesistenze
situazione
di
fatto.
L’industria
tessile
francese
seguì
il
modello
inglese.
Superato
il
periodo
delle
guerre
e
del
blocco
napoleonico,
nel
1815
la
filatura
era
in
linea
con
le
tecniche
più
aggiornate.
La
regione
cotoniera
francese
fu
l’Alsazia.
Il
successo
commerciale
stimolò
l’avvio
d’attività
locali
di
filatura
e
tessitura.
La
tessitura
subì
trasformazioni
altrettanto
profonde.
Il
cotonificio
alsaziano
stimolò
la
strutturazione
di
un
indotto
che
comprendeva
la
chimica
e
la
meccanica.
L’Alsazia
divenne
una
delle
aree
più
industrializzate
di
Francia
perché
al
cotonificio,
alla
chimica
e
alla
meccanica
si
aggiunsero
imprese
siderurgiche
lanifici,
cappellifici,
cartiere
e
raffinerie
di
zucchero
da
barbabietola.
Nel
cotonificio
l’adozione
di
filatoi
meccanici
fu
più
rapida
per
almeno
tre
motivi:
26
1. Il
cotone
aveva
parzialmente
sostituito
il
lino
e
la
lana
causando
una
riduzione
dei
loro
tradizionali
sbocchi
di
mercato;
2. La
larga
disponibilità
di
manodopera
rurale
a
basso
costo
ritardò
la
meccanizzazione
e
concentrazione
della
filatura;
3. Ci
furono
notevoli
difficoltà
tecniche
da
superare.
L’ultimo
comparto
tessile
a
dotarsi
di
macchine
fu
quello
del
lino.
Ancora
più
lenta
fu
la
diffusione
di
telai
automatici.
Capitale
Finanziario
e
credito
Attorno
al
1815,
in
Francia,
la
moneta
aveva
un
ruolo
modesto
come
intermediario
degli
scambi.
Per
di
più
la
circolazione
monetaria
era
intralciata
dalla
presenza
di
un’infinità
di
vecchie
monete
divisionali,
nazionali
ed
estere,
di
valore
intrinseco
largamente
inferiore
al
nominale.
Ci
fu
un
grande
ritardo
all’avvento
di
un
mercato
monetario
moderno
e
della
nascita
di
un
sistema
creditizio
capillarmente
diffuso.
Del
resto,
la
Banca
di
Francia
non
contribuiva
certo
a
promuovere
l’uso
di
moneta
fiduciaria,
poiché
per
gran
parte
dell’800
banconote
e
depositi
svolsero
un
ruolo
economico
marginale.
Napoleone
tentò
di
rilanciare
il
credito
agganciando
il
franco
all’oro
e
fondando
la
Banca
di
Francia,
ma
la
severità
delle
procedure
scoraggiò
il
ricordo
alla
BC
e
favorì
il
proliferare
di
scontisti
privati
che
applicavano
alti
tassi
d’interesse
e
impedivano
la
formazione
d’un
mercato
creditizio
trasparente.
Il
Codice
di
commercio
del
1808,
oltre
alla
società
di
persone,
contemplò
la
società
in
accomandita
e
l’anonima.
Gli
investimenti
nelle
imprese
commerciali
e
industriali
vennero
soprattutto
dai
patrimoni
familiari
degli
imprenditori
e
dal
reimpiego
di
profitti.
I
patrimoni
familiari
comportarono
due
gravi
conseguenze:
1. Le
piccole
dimensioni
impedirono
di
sfruttare
e
economie
di
scala;
2. Vi
fu
un’accentuata
indipendenza
dalle
banche.
Del
resto
i
banchieri
francesi
non
ambivano
a
sostenere
le
industrie.
Le
casse
di
risparmio
versavano
la
loro
raccolta,
fatta
nelle
periferie,
alla
nazionale
Cassa
Depositi
e
Prestiti,
che
permetteva
al
governo
di
realizzare
investimenti
pubblici
infrastrutturali.
Un
freno
allo
sviluppo
economico
provenne
dall’attitudine
francese
a
impiegare
risparmi
in
investimenti
sicuri:
pertanto,
solo
un
po’
meno
della
metà
del
risparmio
netto
francese
fu
investito
nell’agricoltura
e
nell’industria
del
paese.
Il
commercio
internazionale
e
l’andamento
del
reddito
nazionale
Rivoluzione
e
primo
impero
intralciarono
non
poco
le
relazioni
francesi
con
l’esterno,
anche
per
via
dell’embargo
commerciale
del
1806.
Dopo
la
caduta
di
Napoleone,
le
importazioni
di
materie
prime
crebbero
sotto
lo
stimolo
dell’industrializzazione.
La
bilanci
commerciale
francese
rimase
in
deficit
fino
alla
vigilia
della
prima
guerra
mondiale.
Il
lungo
periodo
libero-‐scambista
facilità
le
importazioni
di
materie
prime,
ma
causò
anche
una
depressione
agricola.
Poiché
due
terzi
dei
francesi
viveva
ancora
nelle
campagne,
vi
fu
un
peggioramento
dei
loro
redditi,
fatto
che
rallentò
la
dinamica
economica
compressiva.
Per
di
più
ci
fu
la
sconfitta
contro
i
prussiani,
che
portò
alla
perdita
dell’Alsazia,
maggior
polo
dell’industria
cotoniera,
e
della
Lorena,
giacimenti
di
carbone
e
ferro.
La
caduta
delle
protezioni
daziarie
rivelò
la
debolezza
del
sistema
economico
francese.
La
miscela
di
vincoli
e
limiti
dell’economia
francese
dell’800
può
essere
così
riepilogata:
27
1. Lo
svantaggio
derivante
dalle
dimensioni
geografiche
e
demografiche
insolitamente
ampie;
2. Un’agricoltura
arretrata
imperniata
u
coltivazioni
volte
ad
assicurare
la
sussistenza;
3. La
notevole
arretratezza
del
sistema
monetario
e
creditizio;
4. Una
persistente
mentalità
orientata
soprattutto
all’impiego
del
risparmio
in
investimenti
a
basso
rischio;
5. Un
ingente
debito
pubblico
che
impegnava,
per
il
pagamento
degli
interessi,
una
grossa
parte
del
bilancio
statale;
6. Una
domanda
interna
depressa
a
causa
della
stagnante
dinamica
demografica
e
per
la
lenta
crescita
del
reddito
pro
capite.
Un
mondo
rurale
conservatore
e
tradizionalista,
insomma,
ebbe
una
parte
non
secondaria
nella
vicenda
del
lento
sviluppo
economico
del
paese.
Nell’800
divenne
il
massimo
produttore
di
grano
e
di
vino
dell’Europa
occidentale.
Si
riconosce,
in
generale,
una
tendenza
a
non
sacrificare
il
settore
tradizionale
favorire
quello
avanzato.
Scienza
e
tecnica
al
servizio
dell’industria
Dall’empirismo
alla
scienza
Nel
secondo
‘800
prese
il
sopravvento
l’adattamento
all’industria
dei
risultati
della
ricerca
scientifica
nelle
discipline
chimiche,
fisiche
e
meccaniche.
La
“tecnologia
invisibile”,
derivante
dalla
scoperta
di
fenomeni
invisibili
a
occhio
nudo,
fu
trasferita
alla
siderurgia,
alla
chimica
di
base,
all’elettricità
e
alla
meccanica:
tutti
settori
nei
quali
conoscenze
scientifiche
e
tecnologiche
si
tradussero
in
invenzioni
e
innovazioni.
In
campo
siderurgico,
il
progresso
decisivo
consistette
nella
messa
a
punto
di
tecniche
che
resero
assai
meno
costosa
la
produzione
dell’acciaio.
Nel
1856,
H.
Bessemer
brevettò
un
sistema
di
fabbricazione
dell’acciaio
dalla
ghisa,
che
permetteva
di
abbassare
e
controllare
la
percentuale
di
carbonio
presente
nel
metallo
allo
stato
liquido,
ma
solo
possibili
con
alcuni
minerali
ferrosi.
Nel
1870,
Martin
e
Siemens
escogitarono
un
nuovo
forno,
più
lento
e
più
costoso
del
Bessemer,
che,
alimentato
con
minerali
ferrosi
ricchi
di
fosforo
frammisti
a
rottami
di
ferro,
forniva
acciaio
di
migliore
qualità.
Nel
1878-‐1879
S.
G.
Thomas
e
P.
C.
Gilchrist
brevettarono
un
ingegnoso
metodo
di
correzione
basica
del
fosforo
acido
presente
nei
minerali
ferrosi,
che
permise
di
sfruttare
nelle
acciaierie
i
minerali
di
vasti
giacimenti
fosforosi.
La
chimica
contribuì
alla
scoperta
e
all’utilizzo
di
nuovi
metalli
come
cromo,
manganese
e
tungsteno
e
allo
sfruttamento
di
zinco,
nichel,
magnesio
e
alluminio.
Dal
1856
la
chimica
industriale
aprì
la
strada
al
fondamentale
settore
dei
coloranti
artificiali.
Si
avviarono
così
4
nuovi
settori:
1. Principi
attivi
farmaceutici;
2. Esplosivi;
3. Reagenti
fotosensibili;
4. Fibre
sintetiche.
L’elettricità
fu
il
campo
della
fisica
nel
quale
susseguirono
scoperte
teoriche
più
tardi
tradotte
in
applicazioni
economicamente
sfruttabili.
Nel
1821
M.
Faraday
inventò
il
motore
elettrico
e,
10
anni
dopo,
la
dinamo.
Però,
vi
furono
problemi
di
produzione
e
distribuzione,
e
l’elettricità
a
livello
industriale
fu
sfruttata
soprattutto
per
trasmettere
informazioni
via
telegrafo.
28
Il
telefono
dell’americano
G.
Bell
(1876)
rese
private
le
comunicazioni.
T.
A.
Edison,
inventore
del
fonografo
e
della
lampadina
ad
incandescenza,
si
occupò
soprattutto
di
generazione
e
distribuzione
dell’energia
per
l’illuminazione
pubblica
e
privata.
La
produzione
di
corrente
alternata
e
del
trasformatore
permisero
di
trasferire
anche
a
grandi
distanze
l’energia
elettrica
usata
per
illuminazione,
trazione,
elettrochimica,
elettrometallurgia
e
forza
motrice.
L’ingegneria
meccanica,
dal
1840
in
avanti,
ebbe
il
suo
settore
più
dinamico
nelle
linee
ferroviarie
e
nel
materiale
rotabile.
Anche
i
piroscafi
mutarono
tempi
e
volumi
dei
trasporti
via
acqua.
Fra
il
1838
e
il
1854,
la
cantieristica
costruì
le
prime
grandi
navi
di
ferro
mosse
da
motori
di
crescente
potenza;
negli
anni
’60
si
passo
alla
produzione
di
scafi
d’acciaio.
Nel
campo
della
meccanica
fondamentali
innovazioni
riguardarono
l’editoria.
Altra
invenzione
che
ebbe
reali
conseguenze
sui
sistemi
produttivi
fu
la
macchina
da
cucire
comparsa
nei
primi
anni
’50:
essa
penetrò
nell’economia
domestica
e
diede
un
forte
impulso
all’industria
dei
guanti,
selleria,
confezione
di
calzature.
La
bicicletta
(1885)
e
soprattutto
l’automobile,
messa
a
punto
da
K.
Benz,
mossa
da
un
motore
a
scoppio
a
quattro
tempi,
ebbero
un
crescente
successo
dai
primi
del
‘900.
Lo
stato
protagonista
economico
Uno
sguardo
d’insieme
La
prima
industrializzazione
si
era
svolta
all’insegna
dello
stato
quasi
assente.
La
classe
dirigente
prelevò,
infatti,
ricchezza
con
imposte
sui
commerci
interni
ed
esteri,
decentrò
l’esercizio
della
giustizia
affidandola
a
giudici
non
professionisti,
eliminò
le
corporazioni,
i
monopoli
e
le
privative,
e
costruì
la
proprietà
individuale.
L’azione
della
cosiddetta
“mano
invisibile”
evocata
da
A.
Smith,
vale
a
dire
la
generalizzazione
degli
scambi
che
promosse,
poi,
la
divisione
e
la
specializzazione
del
lavoro
e
permise
agli
individui
e
alle
imprese
di
perseguire
il
massimo
tornaconto
nell’acquistare
e
nel
cedere
fattori
produttivi,
merci
e
servizi,
in
Gran
Bretagna
fu
il
motore
della
crescita
mentre
il
governo
lasciava
fare.
Notevole
contributo
all’abbattimento
dei
costi
di
transazione
in
Gran
Bretagna
fu
l’istituzione,
dal
1840,
di
un
servizio
postale
prepagato.
La
stessa
amministrazione
postale
sviluppò,
di
lì
a
poco,
una
rete
telegrafica.
Nel
secondo
‘800,
il
pensiero
degli
economisti,
indusse
a
considerare
innaturali
quei
processi
che
si
discostavano
da
quello
del
primo
paese
industriale
del
mondo:
in
realtà
si
trattavate
di
un
caso
unico
e
irripetibile,
poiché
l’Inghilterra
poté
godere
di
un
monopolio
tecnologico
per
più
di
10
anni
circa;
una
condizione
che
aveva
reso
assai
difficili
le
condizioni
di
crescita
e
sviluppo
di
eventuali
concorrenti
e
permise
ai
produttori
anglosassoni
di
realizzare
margini
di
profitto
talmente
alti
da
permettere
loro
di
autofinanziare
la
crescita
delle
loro
imprese.
In
secondo
luogo,
il
primato
della
flotta
commerciale
inglese
spalancò
le
porte
di
un
enorme
mercato
internazionale.
Quei
paesi
che
intrapresero
con
“ritardo”
il
difficile
cammino
dell’industrializzazione,
dovettero
ricorrere
a
quelli
che
gli
economisti
chiamarono
fattori
sostitutivi
nell’impianto
dell’economia
industriale:
1. Protezionismo
doganale;
2. Spesa
pubblica;
3. Credito
mobiliare
d’investimento
nelle
società
anonime
industriali;
4. La
diretta
gestione
statale
di
imprese
industriali.
29
Negli
stati
del
continente,
la
tradizione
regolativa
dei
mercati
interni
e
dei
commerci
esteri
delle
monarchie
assolute
e
dei
despoti
illuminati
produsse
riflessioni
teoriche
e
prassi
politiche
e
amministrative
favorevoli
all’intervento
dello
stato
nell’economia.
Il
primo
e
più
diffuso
intervento
fu
dato
dalle
tariffe
doganali;
nel
secondo,
lo
stato
disincentivava
l’esportazione
di
prodotti
nazionali
considerati
strategici.
L’idea
che
il
protezionismo
fosse
la
chiave
di
volta
dell’avvio
della
trasformazione
dell’economia
nazionale
in
senso
industriale,
fu
propugnata
dal
tedesco
F.
List,
economista
che
pose
le
basi
teoriche
dell’azione
economica
degli
stati
volta
a
proteggere
la
crescita
e
il
consolidamento
delle
industrie
nascenti,
in
aperta
contraddizione
con
la
tesi
dominante
del
free
trade.
Dagli
anni
’80
dell’800,
le
forme
d’intervento
dei
poteri
politici
delle
nazioni
economicamente
arretrate
furono
numerose
(misure
politiche
riguardanti):
1. Esigenza
di
raccogliere
ingenti
capitali:
molti
paesi
avviarono
politiche
fiscali
assai
onerose;
in
tal
modo
lo
stato
drenò
risorse
finanziarie
che
altrimenti
non
sarebbero
state
spontaneamente
investite
in
maniera
mirata
e
produttiva;oppure
venivano
lanciati
prestiti
pubblici
nazionali
e
internazionali;
2. Istituzionalizzazione
di
sistemi
bancari
capaci
di
controllare
il
credito
e
la
moneta
e
di
finanziare
le
grandi
imprese;
una
banca
abilitata
dal
governo
ad
emettere
banconote
fu
il
primo
prerequisito
comune
a
tutti
i
paesi;
secondo
passo
fu
aprire
istituti
di
credito
privati
in
forma
di
società
anonime;
in
Belgio
le
Banche
universali
o
miste
svolsero
un
ruolo
decisivo
nello
sviluppo
dei
rispettivi
comparti
industriali;
3. Fattore
lavoro;
in
tutti
i
paesi
in
cui
l’industria
andava
affermandosi
i
parlamenti:
• Limitarono
l’età
lavorativa
dei
minori;
• Limite
all’orario
di
lavoro
giornaliero;
• Vietarono
il
lavoro
notturno
ai
minori
e
alle
donne;
• Previdero
assistenza
per
le
lavoratrici
gestanti;
• Disposero
misure
igieniche
e
di
sicurezza
nei
luoghi
di
lavoro;
• Vararono
assicurazioni
contro
le
malattie
e
contro
gli
incidenti
sul
lavoro;
• Organizzarono
sistemi
di
pensionamento
dai
65
anni.
La
Germania:
territorio
e
popolazione
Nel
1800
i
territori
del
futuro
impero
tedesco
contavano
24,6
milioni
di
abitanti,
concentrati
nelle
regioni
a
suoli
più
fertili,
e
lungo
le
grandi
vie
di
comunicazione.
Tutto
l’800
fu
caratterizzato
dalla
alta
mortalità
infantile
e
da
una
bassa
natalità.
Mentre
la
popolazione
aumentava,
una
quota
crescente
di
tedeschi
si
trasferiva
dalle
campagne
alle
città
(inurbamento).
Poiché
gli
inurbati
erano
giovani,
la
loro
fecondità
accentuò
il
tasso
di
natalità
delle
città
industriali,
già
in
crescita
per
via
dell’immigrazione.
Dogane
e
trasporti:
verso
un
mercato
nazionale
Una
politica
di
rigore
finanziario
permise
ai
governanti
prussiani
di
riequilibrare
il
bilancio
dello
stato
e
di
affrancare
parte
del
debito
pubblico.
Le
misure
più
gravide
furono
prese
in
campo
daziario.
Nel
1819,
dazi
e
gabelle,
furono
sostituiti
da
un’unica
tariffa
applicata
alle
merci
che
superavano
le
frontiere,
trasformando
così
il
regno
in
un’unica
area
commerciale,
così
fabbricanti
e
commercianti
dovettero
misurarsi
con
i
prodotti
esteri.
Con
una
lungimirante
politica
dei
piccoli
passi,
la
Prussia
allargava
la
sfera
d’influenza
del
suo
“mercato
comune”.
30
Nel
1829
fu
raggiunto
un
accordo
che,
dal
1833,
prevedeva
l’unificazione
dell’associazione
doganale
del
nord
con
quella
del
sud.
Entro
il
1867
tutti
gli
stati
tedeschi
vi
aderirono
formando
una
Germania
economica
con
un’unica
frontiera
tariffaria
esterna.
A
metà
‘800
in
Germania
erano
già
sviluppate
molte
ferrovie.
In
fatto
di
regolazione
pubblica,
i
diversi
stati
si
valsero
di
tutte
le
possibili
soluzioni:
stile
belga,
francese
o
inglese.
I
Prerequisiti
materiali
e
sociali
La
formazione
di
un
vasto
mercato
comune
con
modeste
difese
daziarie
agì
come
prerequisito
dell’avvio
dell’industrializzazione
tedesca.
L’industria
sorse
su
basi
moderne,
lontano
dai
centri
tradizionali.
L’emancipazione
dei
servi
della
gleba
favorì
un
miglioramento
della
produttività
agricola
assieme
a
una
crescente
mobilità
della
manodopera.
L’agricoltura
era
in
costante
crescita,
grazie
a:
abbandono
del
maggese
che
permise
l’aumento
della
superficie
produttiva
e
l’aggiornamento
agronomico.
Le
grandi
tenute
orientali
degli
Junker,
sfruttate
a
basso
costo
dei
fattori
e
favorite
dal
continuo
miglioramento
dei
trasporti,
tra
il
1830
e
il
1870
conobbero
una
prolungata
fase
di
sviluppo.
Nella
seconda
metà
dell’800,
il
tasso
di
crescita
dell’agricoltura,
ebbe
una
leggera
flessione
per
effetto
dell’irruzione
dei
cereali
russi
e
americani
sul
mercato
tedesco
a
prezzi
imbattibili.
L’evoluzione
dell’agricoltura
di
villaggio
dell’ovest
fu
assai
più
lenta
di
quella
delle
tenute
orientali
degli
Junker.
L’incubazione
dello
sviluppo
(1848-‐1873)
A
metà
‘800,
la
Germania
produceva
ed
esportava
materie
prime
e
derrate
agricole
dell’est
e
cominciava
a
fabbricare
manufatti
industriali.
Dopo
un
boom
durato
dal
1852
al
1857,
l’economia
tedesca
continuò
a
crescere
impetuosamente.
Fra
il
1848
e
il
1873,
il
settore
tessile
fu
investito
dai
mutamenti
più
incisivi,
con
alla
testa
il
comparto
cotoniero.
L‘industria
della
lana
si
modernizzò
più
lentamente
perché
buona
parte
della
materia
prima
era
esportata.
Il
settore
tessile
meno
dinamico
e
tecnicamente
arretrato
continuò
a
essere
il
linificio.
Le
leggi
minerarie
prussiane
del
1851
diedero
notevole
impulso
all’estrazione
di
carbone
e
ferro.
Fu
inoltre
dimezzata
la
tassa
gravante
sulle
materie
prime
estratte.
Non
mancarono
apporti
di
investitori
stranieri,
di
banche
e
di
singoli
risparmiatori,
favoriti
dalla
creazione
di
società
minerarie
anonime.
Dal
1850
in
poi,
la
domanda
di
prodotti
siderurgici
esplose.
Le
esportazioni
di
materie
prime
e
semilavorati
tennero
un
ritmo
altissimo.
La
classe
politica
e
i
burocrati
governativi
compresero
che
lo
sviluppo
andava
programmato
favorendo
la
ricerca
scientifica
e
l’istruzione
tecnica
organizzando
efficacemente
le
imprese
e
proteggendo
con
una
politica
doganale
aggressiva.
La
Germania
preferì
stipulare
trattati
bilaterali
di
commercio
moderatamente
protezionisti.
Il
mondo
tradizionale
e
aristocratico
della
terra
si
alleò
a
quello
spregiudicato
e
nuovo
dell’industria.
La
tariffa
protezionistica
del
1879
inaugurò
la
fase
di
maturazione
del
capitalismo
tedesco.
Dalla
crescita
allo
sviluppo
(1873-‐
1896)
La
Germania,
unificata
nel
1871,
era
un
paese
in
via
di
sviluppo
che
stava
realizzando
colossali
investimenti
industriali.
Dal
1872
una
lunga
fase
depressiva
colpì
le
economie
più
avanzate.
Il
31
cancelliere
Bismarck
introdusse
il
Gold
standard
81873)
simile
a
quello
inglese
e
limitò
l’emissione
di
carta
moneta
a
34
banche
(1875).
Fu
anche
promulgata
una
legge
sui
marchi
di
fabbrica
(1875)
e
una
sui
brevetti
(1877).
In
agricoltura
andava
profilandosi
un
processo
di
riconversione
produttiva,
grazie
al
crescente
utilizza
di
macchine
e
fertilizzanti.
Anche
l’apparato
produttivo
industriale
non
smise
di
crescere.
Nel
tessile,
il
cotonificio
continuò
a
consolidarsi
e
a
completare
la
meccanizzazione.
La
manifattura
serica
ebbe
uno
sviluppo
sensibilissimo
sulla
base
di
una
meccanizzazione
intensiva
di
ogni
fase
produttiva,
tanto
da
portare
il
setificio
tedesco
al
secondo
posto
in
Europa.
Si
svilupparono
anche
grandi
fabbriche
di
capi
d’abbigliamento
di
serie,
di
bottoni
e
di
calzature.
La
crescita
urbana
favorì
lo
sviluppo
dell’edilizia
civile
e
delle
imprese
di
servizi
quali
la
distribuzione
d’energia
elettrica,
di
gas,
tramvie,
telegrafi
e
telefoni.
La
chimica
si
affermò
nel
panorama
industriale
tedesco
della
fine
dell’800:
in
Germania
crebbero
medie
e
grandi
industrie
chimiche
operanti
in
5
differenti
settori:
1. Chimica
di
base;
2. Fertilizzanti
agricoli
artificiali;
3. Catrame,
i
coloranti
minerali
e
artificiali;
4. Esplosivi;
5. Cosmetici
e
prodotti
farmaceutici.
Verso
una
posizione
di
primato
Da
1870
al
1913,
La
Germania
esportò
sempre
meno
derrate
agricole
e
sempre
più
prodotti
industriali
ad
alto
valore
aggiunto.
A
partire
dal
1880,
l’economia
tedesca
ebbe
un
equilibrato
sviluppo
che
coinvolse
agricoltura,
commercio
e
servizi
accanto
all’industria,
il
settore
dei
massimi
investimenti
in
tecnologia.
Il
successo
industriale
tedesco
per
gran
parte
dipese
dalle
grandi
dimensioni
aziendali
e
dai
continui
investimenti
migliorativi
in
tecnologia,
favoriti
anche
dagli
stretti
legami
intrecciati
fra
industria
credito
e
finanza.
Altro
fattore
di
crescita
fu
la
rinuncia
alla
concorrenza
antagonistica
sui
prezzi,
a
vantaggio
di
accordi
e
di
combinazioni
fra
imprese.
Dai
primi
anni
’70
nacquero
attitudini
favorevoli
alla
stipulazione
di
cartelli
industriali,
veri
e
propri
patti
di
non
aggressione
mirati
a
mantenere
sul
mercato
un
discreto
numero
di
imprese
d’analoga
dimensione,
bandendo
la
concorrenza.
Questi
cartelli
giunsero
a
regolare
prezzi
e
produzioni,
a
distribuire
le
quote
di
mercato
tra
imprese
e
a
formare
potenti
gruppi
d’acquisto
delle
materie
prime.
L’industria
tedesca
condusse
anche
una
politica
commerciale
aggressiva
di
dumping,
vendendo
all’estero
a
prezzi
inferiori
ai
costi
per
inibire
la
nascita
di
competitori
entro
i
paesi
più
arretrati;
questa
pratica
era
l’effetto
delle
sempre
più
energiche
difese
daziarie
messe
in
atto
dalla
maggior
parte
dei
paesi
a
quell’epoca
in
via
di
sviluppo.
Banca
centrale,
sistema
creditizio
e
investimenti.
Il
rapporto
tra
moneta,
credito,
finanza
e
investimenti
è
centrale
nello
sviluppo
economico
tedesco.
Prima
dell’unificazione,
in
Germania
esistevano
molte
monete
metalliche;
una
prima
razionalizzazione
coincise
con
la
riforma
monetaria
del
1871,
che
impose
il
marco
d’oro.
Nel
1875,
fu
riordinato
il
sistema
d’emissione
fondando
la
Reichbank
e
prendendo
a
modello
la
legge
bancaria
inglese
del
1844:
essa
svolgeva
le
normali
operazioni
di
credito
commerciale
e
fungeva
da
banca
delle
banche.
Dopo
la
crisi
politica
del
1848,
comparvero
i
primi
istituti
di
credito
in
forma
societaria,
cooperative
e
accomandite
per
azioni;
in
seguito
ci
fu
una
grande
proliferazione
di
società
bancarie,
delle
quali,
dagli
anni
’60,
tre
assunsero
il
primato:
la
Deutsche
Bank,
la
Commerz
und
32
Disconto
Bank,
e
la
Dresdner
Bank.
I
maggiori
istituti
di
credito
fecero
investimenti
soprattutto
nell’industria.
In
un
area
economica
priva
di
tradizioni
mercantili
e
arretrata
sotto
il
profilo
manifatturiero,
le
banche
svolsero
un
ruolo
fondamentale
nel
dirigere
gli
investimenti.
Un’attività
creditizia
tanto
rischiosa
indusse
le
banche
miste,
che
facevano
contemporaneamente
operazioni
di
credito
a
breve,
medio
e
lungo
termine,
ad
avere
imponenti
mezzi
propri
piuttosto
che
valersi
dei
depositi
della
clientela.
I
contraccolpi
sociali
dello
sviluppo
economico
La
trasformazione
della
Germania
da
paese
agricolo
e
tradizionale
a
potenza
industriale
nell’arco
di
tre
generazioni
fu
all’origine
d’inevitabili
quanto
diffusi
malesseri
sociali,
sia
nelle
aree
rurali
che
in
quelle
urbane,
protagoniste
di
una
crescita
sostenutissima.
Nel
1862
nacque
il
movimento
cooperativo
che
si
allargò
rapidamente
fino
a
comprendere
parecchi
settori
produttivi,
della
trasformazione
e
del
consumo.
I
gettiti
della
tariffa
doganale
permisero
di
finanziare
misure
di
politica
sociale
volte
ad
attenuare
i
disagi
esistenti
presso
vasti
strati
della
popolazione
meno
abbiente.
Un’altra
parte
servì
per
finanziare
un
sistema
assistenziale
fondato
su
4
settori
d’intervento:
1. Pensioni
di
vecchiaia;
2. Provvidenze
per
malattia;
3. Assistenza
per
infortuni
sul
lavoro;
4. Sussidi
per
disoccupati,
che
non
ebbero
corso
a
causa
dell’irriducibile
opposizione
del
mondo
imprenditoriale.
L’allontanamento
di
Bismarck
interruppe
l’efficace
e
lungimirante
politica
conservatrice
intesa
a
controllare
il
malessere
sociale
interno
e
minò
la
posizione
di
centralità
dell’azione
diplomatica
tedesca
in
Europa.
La
sostituzione
dell’accorta
realpolitik
bismarckiana
con
una
ben
più
rozza
politica
di
pura
potenza
portò
al
progressivo
isolamento
della
Germania
sulla
scena
diplomatica
europea.
Dal
Feudalesimo
al
Capitalismo
La
Russia
verso
l’emancipazione
dei
servi
Verso
il
1850,
la
Russia
era
una
società
feudale,
con
tecniche
arretrate
e
si
avvaleva
soprattutto
del
fattore
lavoro.
Il
governo
autocratico
degli
zar
controllava
un
immenso
paese
sottopopolato.
La
società
russa
era
polarizzata
agli
estremi
della
scala
sociale:
una
ristretta
cerchia
di
famiglie
aristocratiche,
i
pomesciki,
controllava
la
terra
lavorata
da
una
massa
di
contadini
poveri
dispersa
in
villaggi.
I
diritti
dei
nobili
sulla
terra
comprendevano
il
pieno
controllo
degli
uomini
che
lavoravano.
Ogni
maschio
adulto
sposato
riceveva
in
uso
un
lotto
di
terra,
secondo
una
ripartizione
operata
dal
consiglio
degli
anziani,
il
mir,
tenuto
conto
del
numero
dei
componenti
della
famiglia.
I
servi
russi
erano
tenuti
a
prestare
la
loro
opera
sulle
terre
del
signore
oppure
a
pagare
ogni
anno
un’onoranza
in
natura
e
in
moneta.
L’agricoltura
era
ancora
allo
stadio
di
attività
di
riproduzione,
tuttavia
si
trattava
del
settore
economico
del
quale
proveniva
la
maggior
parte
della
ricchezza
annualmente
prodotta
nell’impero.
L’esito
della
guerra
di
Crimea
(1854-‐1856)
assestò
un
duro
colpo
all’immagine
interna
ed
esterna
della
potenza
russa:
la
Russia
uscì
sconfitta
e
umiliata
a
causa
dell’arretratezza
tecnologica
e
organizzativa
accumulata
rispetto
alle
altre
potenze
europee.
L’emancipazione
dei
servi
era
necessaria
per
attenuare
l’ostilità
esistente
tra
i
contadini
e
i
loro
proprietari,
ed
era
preferibile
che
essa
avvenisse
dall’alto
anziché
dal
basso.
Il
governo
temeva
che
nelle
campagne
scoppiassero
sommosse
e
rivolte,
ma
prevaleva
il
timore
di
avviare
mutamenti
alla
33
lunga
incontrollabili.
Anche
gli
intellettuali
osteggiavano
l’industrializzazione
perché
ne
percepivano
l’estraneità
rispetto
ai
valori
tradizionali
della
Santa
Russia.
Tra
il
1858
e
il
1868
fu
abolita
la
servitù
e
distribuita
la
terra.
La
riforma
agraria
poneva
gravi
questioni
sociali:
se
i
nobili
preferivano
vendere
in
modo
da
fronteggiare
i
loro
debiti,
i
contadini
non
volevano
comprare,
mancando
loro
le
risorse
per
farlo.
Due
tipi
di
aziende
agrarie
prevalsero
all’indomani
della
riforma:
il
latifondo,
che
interessava
la
quarta
parte
dei
suoli
coltivati,
e
le
terre
dei
mir
controllate
dai
contadini
ex
servi.
La
bassa
produttività
e
l’insufficiente
produzione
dei
piccoli
poderi
autarchici
dei
contadini
ne
induceva
i
titolari
a
cercare
lavoro
come
braccianti
presso
i
latifondi
nobiliari.
Alla
lunga,
l’incremento
della
popolazione
e
l’aumento
percentuale
di
quella
residente
nei
centri
urbani
accrebbero
la
domanda
interna
di
cereali
e
di
patate
e
fecero
del
suolo
un
fattore
sempre
più
scarso.
L?imponente
crescita
demografica
nelle
campagne
causò
una
suddivisione
dei
poderi
familiari
nei
mir
e
aggravò
l’indebitamento
e
l’impoverimento
del
mondo
rurale.
Una
minoranza
di
contadini
intraprendenti
e
privi
di
scrupoli
che
prestava
a
usura,
i
kulaki,
moltiplicò
le
proprie
risorse
monetarie
e
continuò
ad
acquistare
terreni:
essi
erano
il
ceto
più
dinamico
delle
campagne.
La
consistente
crescita
demografica
favorì
l’avvio
di
u
processo
di
urbanizzazione
e
di
emigrazione
verso
le
pianure
siberiane
e
dell’Asia
centrale.
Le
trasformazioni
strutturali
avvenute
nel
mondo
rurale
sul
finire
dell’800
e
l’aggiornamento
agronomico
accrebbero
la
produttività
cerealicola,
portando
il
volume
medio
dei
raccolti
quasi
a
raddoppiare
sull’arco
di
un
decennio.
In
realtà
non
sempre
fu
soddisfatto
il
fabbisogno
interno
di
derrate
alimentari;
permase,
quindi,
il
fantasma
della
carestia.
Dalla
manifattura
tradizionale
all’industria
La
manifattura
non
esercitò
alcuno
stimolo
su
una
società
del
tutto
priva
di
un
ceto
borghese.
Per
di
più
dal
1822,
con
l’adozione
di
tariffe
doganali,
l’economia
nazionale
fu
sottratta
agli
stimoli
derivanti
dall’importazione
di
manufatti
di
largo
consumo.
La
sostenuta
crescita
della
popolazione
comportò
anche
l’ampliamento
della
rudimentale
base
manifatturiera.
I
dati
mostrano
un
alto
numero
di
addetti
per
opificio,
spiegabile
con
l’assenza
di
macchinari,
e
la
minima
percentuale
di
manodopera
impegnata
nelle
fabbriche.
La
nobiltà
non
riuscì
mai
a
trasformarsi
in
un
ceto
imprenditoriale.
Attorno
al
1830
in
Russia
cominciarono
a
comparire
grandi
impianti
tecnologicamente
all’avanguardia.
I
dazi
protettivi
sui
filati
esteri,
assieme
all’importazione
di
macchinari
e
di
tecnici
inglesi,
tra
il
1838
e
il
1853
favorirono
un
boom
della
filatura.
Contemporaneamente
il
governo
rilanciò
l’espansione
territoriale
in
Asia
centrale,
sia
per
avviarvi
la
coltivazione
del
cotone,
sia
per
smaltirvi
le
eccedenze
produttive
del
mercato
interno.
Intervento
statale,
industria
e
finanza
Come
altrove
in
Europa,
anche
in
Russia
la
costruzione
di
strade
ferrate
impresse
una
svolta
all’economia.
Iniziate
da
compagnie
private;
con
il
passare
del
tempo
il
governo
intensificò
il
suo
intervento.
Nel
1878
lo
stato
prese
il
controllo
di
numerose
società
ferroviarie
e
riscattò
le
compagnie
più
importanti.
Dal
1881
al
1903
i
tre
ministri
succedutisi
al
Tesoro
favorirono
investimenti
di
capitale
finanziario
e
tecnologico
straniero,
promossero
lo
sviluppo
d’infrastrutture
e
accentuarono
il
protezionismo
doganale.
34
Il
governo
aumentò
la
pressione
fiscale
sui
contadini
per
diminuire
i
consumi
e
stornare
risorse
destinate
alla
costruzione
d’infrastrutture
viarie
e
all’impianto
d’industrie.
Poiché
la
manodopera
rissa
era
inefficiente
e
indisciplinata
e
i
possidenti
non
erano
interessanti
a
investire
nell’industria,
il
governo
decise
di
ricorrere
a
imprenditori
stranieri
che
padroneggiassero
le
tecniche
più
moderne:
alla
manodopera
abbondante
ma
inefficiente
e
indisciplinata,
il
governo
sostituì
il
fattore
capitale.
Dal
1890,
lo
sviluppo
della
grande
industria
si
fece
tumultuoso.
Negli
stessi
anni
una
ditta
belga
avviò
la
costruzione
di
uno
stabilimento
siderurgico
modernissimo
nel
cuore
del
bacino
carbonifero
in
Ucraina.
Il
governo
incoraggiò
e
sostenne
anche
le
attività
metalmeccaniche,
che
dal
1880
in
poi
crebbe
rapidamente
fino
a
produrre
telai
automatici
per
le
industrie
tessili;
grazie
alla
formazione
di
cartelli
il
settore
riuscì
a
espandere
le
esportazioni.
Nel
settore
petrolifero
e
in
quello
del
credito,
si
crearono
veri
e
propri
trust.
La
crescita
del
ceto
borghese
produsse
un
mutamento
sociale
soprattutto
nelle
città,
nelle
quali
l‘artigianato
tradizionale
cominciò
a
tramontare.
Al
finanziamento
delle
infrastrutture
pubbliche
e
dell’industria
privata
parteciparono
sia
i
capitali
esteri,
inglesi
e
tedeschi,
sia
quelli
nazionali:
in
alcuni
settori
la
finanza
estera
dominava.
Dal
1870
in
poi,
la
finanza
russa
incontrò
crescenti
problemi,
e
il
basso
gettito
fiscale
e
il
ricorrente
deficit
di
bilancio,
non
fecero
che
aggravare
il
processo
inflazionistico.
Nel
tentativo
di
mettere
sotto
controllo
la
moneta,
anche
la
Russia,
nel
1897
adottò
il
gold
standard,
e
la
stabilizzazione
del
rublo
funzionò
come
una
svalutazione
che
allineò
il
valore
interno
della
moneta
con
quello
estero.
Fu
così
incoraggiato
l’afflusso
di
capitali
esteri
investiti
in
titoli
del
debito
pubblico
russo.
I
sensibili
progressi
ottenuti
nel
campo
industriale
non
si
diffusero
nel
resto
dell’economia,
anzi
il
passare
del
tempo
accentuò
il
contrasto
fra
tradizione
e
innovazione.
Dal
1906,
sempre
più
spesso
il
governo
dovette
controllare
e
reprimere
movimenti
rivoluzionari
favoriti
dal
malessere
economico
e
sociale
diffuso
tanto
nelle
campagne
quanto
nelle
aree
industriali.
L’economia
italiana
(1861-‐1914)
I
problemi
d’impianto
del
nuovo
stato
liberoscambista
Nel
1861,
L’Italia
era
uno
degli
stati
europei
più
densamente
popolati.
L’arretratezza
socio-‐
culturale
è
provata
dai
moltissimi
analfabeti,
dai
pochissimi
italiani
capaci
di
comunicare
per
iscritto
nella
lingua
letteraria,
dagli
alti
tassi
di
mortalità
infantile,
da
diete
alimentari
mediamente
povere
e
squilibrate
e
da
un
suffragio
elettorale
limitato.
Rispetto
a
quella
dei
maggiori
stai
europei,
l’economia
italiana
era
arretrata
e
depressa.
Essa
era
divisa
in
molti
mercati
particolari
e
risentiva
di
alcune
caratteristiche
sfavorevoli
all’avvio
di
un
processo
di
crescita
industriale.
L’agricoltura
era
tra
le
meno
produttive
d’Europa:
pochi
suoli
adatti
alle
coltivazioni,
condizioni
climatiche
sfavorevoli,
arretratezza
agronomica
e
mancanza
di
macchine
e
fertilizzanti
chimici
non
garantivano
nemmeno
l’autosufficienza
cerealicola
del
paese.
Il
basso
reddito
assicurato
dal
dominante
settore
primario
impediva
anche
l’accantonamento
di
risparmi.
Il
paese
era
privo
delle
risorse
naturali
indispensabili
per
l’impianto
di
una
siderurgia
moderna
e
per
fare
massiccio
uso
della
macchina
a
vapore.
35
Negli
anni
’60-‐’70,
l’azione
del
governo
a
favore
delle
imprese
fu
relativamente
blanda.
I
politici
e
gli
economisti
italiani
erano
convinti
che
il
paese
non
potesse
che
dedicarsi
alle
produzioni
agricole,
da
esportare
in
cambio
di
manufatti
industriali.
Dalla
seconda
metà
degli
anni
’70,
l’agricoltura
italiana
subì
l’assalto
dei
grani
russi
e
statunitensi,
a
prezzi
notevolmente
inferiori.
Alla
lunga,
il
riassetto
dell’agricoltura
più
orientata
al
mercato,
favorì
un
visibile
incremento
della
ricchezza
prodotta
nel
settore
economico
dominante.
Quali
misure
presero
i
governi
italiani
per
sostenere
e
favorire
le
attività
industriali?
L’unificazione
del
mercato
nazionale
fu
la
prima
preoccupazione
dei
governi
liberali
della
destra
storica.
Dal
1862
fu
realizzata
l’unione
monetaria
prendendo
a
modello
la
lira
piemontese
a
base
decimale.
Nel
dicembre
del
1865
l’Italia
aderì
all’Unione
Monetaria
Latina,
impegnandosi
a
coniare
monete
d’oro
e
d’argento
uniformi
per
titolo,
peso
e
dimensione.
Dal
1862
furono
uniformati
i
pesi
e
le
misure
adottando
il
sistema
metrico
decimale:
si
procedette
a
un
paziente
lavoro
di
fissazione
delle
equivalenze
delle
centinaia
di
misure
d’ascendenza
medievale.
Dal
1865
entrò
in
vigore
il
Codice
di
commercio,
in
modo
da
regolare
in
maniera
organica
le
relazioni
commerciali
e
la
costituzione
di
società
di
persone
e
di
capitali.
Il
25%
della
spesa
pubblica
fu
destinato
alla
promozione
e
alla
realizzazione
di
infrastrutture.
Il
primo
caso
d’intervento
governativo
a
favore
di
una
singola
impresa
riguardò
la
Società
Italiana
delle
Acciaierie
Fonderie
e
Altiforni
di
Terni.
Fondata
nel
1884,
le
furono
garantiti
finanziamenti
bancari
e
commesse
pagate
anticipatamente
rispetto
all’esecuzione
degli
ordinativi.
La
Terni
ebbe
seri
problemi
economici
sia
nel
1887
che
nel
1893:
in
entrambi
i
casi
il
governo
ne
ripianò
le
perdite.
Vi
furono
anche
interventi
pubblici
miranti
a
migliorare
l’immagine
estera
del
paese,
con
ricadute
economiche
di
qualche
peso.
L’esigenza
di
disporre
una
flotta
da
guerra
favorì
i
cantieri
navali
nazionali.
La
politica
fiscale
della
destra
storica
mirò
al
contenimento
dell’indebitamento
pubblico.
La
spesa
per
‘istruzione
elementare
va
equiparata
a
un
grande
investimento
in
infrastrutture.
Il
sostegno
all’industria
nel
periodo
protezionista
(1887-‐1914)
Nella
prima
metà
degli
anni
’80,
il
governo
della
sinistra
promosse
l’insediamento
di
società
estere
capaci
d’assicurare
produzioni
strategiche,
e
varò
un
piano
decennale
di
aiuti
alla
cantieristica.
Nel
1887
il
Parlamento
diede
una
decisa
sterzata
protezionistica.
Il
maggior
contributo
alla
crescita
industriale
italiana
provenne
dal
settore
cotoniero:
esso
progredì
quasi
ininterrottamente
fino
al
1915,
quando
arrivò
a
lavorare
un
volume
di
materia
prima
11,5
volte
superiore
rispetto
al
1875.
Le
barriere
doganali
a
difesa
della
filatura
promossero
l’insediamento
in
Lombardi
di
cotonieri
svizzeri,
francesi
e
tedeschi
che
trasferirono
macchinari
e
conoscenze.
Sul
mercato
interno,
la
crescita
del
settore
agricolo
allargò
il
consumo
dei
tessili
a
buon
mercato
e
garantì
una
stabilizzazione
della
domanda
di
beni
di
massa.
L’adozione
delle
prime
macchine,
dei
fertilizzanti
chimici
e
di
novità
agronomiche,
promosse
un
netto
incremento
della
produttività
nelle
campagne
e
una
crescita
dei
redditi,
dei
consumi
e
dei
risparmi
affidati
alle
banche.
36
Dal
1896
produzione
e
prezzi
presero
a
crescere
sui
mercati
internazionali
con
vantaggi
per
quei
paesi,
come
il
nostro,
arrivati
ultimi
all’industria
che
pagavano
bassi
salari.
Il
settore
tessile
fu
ulteriormente
rafforzato
e
tecnologicamente
aggiornato:
si
affermò
la
siderurgia
del
rottame,
e
l’elettricità
divenne
la
forma
energetica
emergente,
in
concorrenza
con
le
macchine
a
vapore.
La
fondazione
di
due
banche
miste
(Banca
Commerciale
Italiana
1894,
e
Credito
Italiano
1895)
sostenne
le
maggiori
società
anonime
industriali,
sorte
nell’alta
Italia
occidentale
fin
dagli
anni
’80,
con
aperture
di
credito,
acquisto
di
azioni
e
di
obbligazioni,
oltre
alla
partecipazione
diretta
di
funzionari
ai
consigli
d’amministrazione.
Dagli
ultimi
anni
dell’800,
le
attività
industriali
presero
un
forte
slancio
soprattutto
nelle
periferie
di
Milano,
Genova
e
Torino.
L’impiego
di
una
crescente
quantità
di
capitale
produsse
un
raddoppio
della
produttività
del
lavoro
fra
il
1870
e
il
1913
e
concentrò
nelle
tre
regioni
del
nord-‐ovest
dai
due
terzi
ai
tre
quarti
della
forza
motrice
installata
nei
4
settori:
tessile,
meccanico,
elettricità-‐gas-‐acqua,
e
meccanica
artigianale.
Nel
1905
il
governo
decise
di
nazionalizzare
quasi
tutte
le
linee
ferroviarie.
Nel
1907
una
crisi
economica
internazionale
ebbe
ripercussioni
pesanti
nel
settore
siderurgico
e
cotoniero:
era
la
prima
crisi
industriale
italiana
a
soli
9
anni
di
distanza
dall’ultima
carestia.
Nel
1911
la
Banca
d’Italia
costrinse
i
maggiori
istituti
di
credito
a
organizzare
il
salvataggio
dei
due
più
importanti
gruppi
siderurgici
italiani.
Nell’aprile
del
1912
nacque
l’INA
(Istituto
Nazionale
Assicurazioni).
Lo
stato
gestì
anche
direttamente
la
prima
rete
telefonica.
L’economia
italiana
rimase
quasi
immobile
nel
ventennio
1871-‐1891
e
accelerò
decisamente
negli
anni
1891-‐1911.
Gli
anni
della
grande
guerra
(1914-‐1918),
con
la
“mobilitazione
industriale”,
comportarono
un’assidua
regolazione
amministrativa
delle
oltre
mille
imprese
che
partecipavano
allo
sforzo
di
produrre
rifornimenti
adeguanti.
La
P.A.
avrebbe
garantito
le
scorte
di
materie
prime,
le
fonti
energetiche
e
la
manodopera
necessaria,
che
fu
equiparata
alle
truppe
arruolate.
Nei
febbrili
anni
della
guerra,
le
grandi
imprese
siderurgiche
e
meccaniche
divennero
colossi
perché
approfittarono
di
una
legislazione
che
prevedeva
facilitazioni
fiscali
per
i
profitti
reinvestiti
in
ampliamenti
e
in
nuovi
impianti.
La
certezza
dei
margini
di
utile
e
la
ristrettezza
del
mercato
nazionale
frenarono
gli
investimenti
in
tecnologia,
la
creazione
di
organizzazioni
manageriali
complesse
e
di
estese
reti
commerciali.
L’Italia
uscì
vittoriosa
dalla
guerra,
ma
con
enormi
disavanzi
di
bilancio
statale
e
debiti
esteri
ingenti,
con
prezzi
più
che
quadruplicati,
troppo
cartamoneta
in
circolazione
e
potenziali
produttivi
industriali
largamente
superiori
alla
più
ottimistica
capacità
d’assorbimento
della
domanda
interna.
L’agricoltura
era
in
condizioni
anche
peggiori.
6. L’industria
fuori
d’Europa
La
società
e
l’economia
giapponese:
dal
feudalesimo
all’industria
Un
paese
chiuso
in
movimento
Nel
1639,
l’impero
del
Sol
levante
chiuse
i
suoi
porti
alle
navi
europee.
Fino
al
secondo
‘800,
per
contro
dell’imperatore,
il
potere
politico
fu
ininterrottamente
esercitato
da
un
capo
militare,
lo
shogun,
della
nobile
casata
Tokugawa,
preservando
il
paese
da
ogni
influsso
culturale,
religioso
e
tecnologico
esterno
e
perpetuandovi
un
assetto
sociale
fondato
sul
feudalesimo
e
sulle
caste.
Tra
‘500
e
‘700
un
quarto
del
Giappone
apparteneva
ai
Tokugawa,
il
resto
era
suddiviso
fra
247
famiglie
feudali:
i
daymno,
che
esercitavano
un
potere
assoluto
nei
rispettivi
feudi,
avendo
diritto
37
di
vita
e
di
morte
sui
sudditi,
che
battevano
moneta,
prelevavano
imposte
e
armavano
eserciti.
Essi
avevano
al
loro
servizio
i
samurai:
la
nobiltà
minore
che
forniva
i
quadri
della
burocrazia
amministrativa
e
padroneggiava
l’uso
delle
armi.
L’economia
era
basata
sull’agricoltura
e
la
base
della
dieta
era
il
riso;
accanto
ad
altri
cereali
si
coltivavano
in
particolare
soia
e
tè.
Nei
tempi
morti
dei
lavori
agricoli,
i
contadini
residenti
presso
le
coste
si
dedicavano
alla
pesca
e
quelli
che
abitavano
nell’entroterra,
alla
filatura
e
tessitura
del
cotone,
della
canapa
e
della
seta.
Un’organizzazione
analoga
all’industria
domiciliare
europea
metteva
al
lavoro
i
contadini
fornendo
loro
le
materie
prime
e
limitandosi
a
rifinire
e
a
commercializzare
i
manufatti.
Nelle
città
operavano
mercanti
e
artigiani
riuniti
in
corporazioni
a
numero
chiuso.
Nelle
campagne
abitava
la
gran
massa
della
popolazione
che
deteneva
la
terra
in
semplice
uso.
L’appartenenza
per
nascita
a
un
ceto
decideva
i
destini
individuali,
essendo
vietato
cambiare
residenza
e
occupazione
o
mestiere.
Ai
daymno
e
ai
samurai
era
proibito
commerciare.
L?esistenza
di
numerosi
centri
urbani
densamente
popolati
fu
un
potente
fattore
d’evoluzione
economica
sociale.
Nelle
città,
infatti,
durante
il
‘700
i
mercanti
garantivano
l’offerta
di
derrate
agricole
e
di
manufatti
e
i
banchieri
prestavano
a
usura.
Insomma,
nonostante
una
politica
improntata
alla
conservazione
dell’assetto
sociale
tradizionale,
nel
lungo
andare
i
Tokugawa
on
riuscirono
a
evitare
che,
nelle
città
come
nelle
campagne,
prosperasse
una
borghesia
orientata
agli
scambi
e
al
credito,
mantenuta
in
condizioni
d’inferiorità
sociale
e
culturale
nonostante
controllasse
una
crescente
quota
di
ricchezza
fondiaria
e
mobiliare.
L’isolazionismo
giapponese
terminò
nel
1853,
quando
gli
USA
proponevano
l’avvio
di
normali
relazioni
diplomatiche
e
commerciali.
Gli
americani,
in
effetti,
avevano
bisogno
di
uno
scalo
tecnico
in
Giappone
per
arrivare
fino
in
Cina,
con
la
quale
avevano
inaugurato
una
linea
commerciale.
Nel
marzo
1854,
lo
shogun
Tokugawa
concesse
agli
statunitensi
in
diritto
di
risiedere
e
commerciare
in
due
porti.
Tra
il
1854
e
il
1859,
sulla
base
del
privilegio
concesso
agli
americani,
altri
paesi
imposero
al
Giappone
trattati
commerciali
analoghi.
Nacquero,
di
conseguenza,
movimenti
nazionalisti
contro
gli
stranieri
e
contro
lo
shogun
rimproverato
di
aver
leso
la
dignità
nazionale.
Nel
novembre
del
1864
l’imperatore
fu
costretto
a
firmare
un
trattato
che
aboliva
‘autonomia
doganale
del
Giappone
fino
al
1899
e
che
prevedeva
un
tetto
massimo
del
5%
per
i
diritti
doganali
applicati
sul
valore
delle
importazioni.
Nel
gennaio
del
1867
il
quattordicenne
Mitsuhito
saliva
al
trono;
all’inizio
del
1868
egli
proclamò
la
fine
dello
shogunato.
Subito
scoppiò
una
guerra
civile
che
portò
alla
vittoria
i
filo
imperiali.
Gli
effetti
del
commercio
internazionale
provocarono
un
crescente
malcontento
presso
la
popolazione.
Le
esportazioni
avevano
fatto
crescere
i
prezzi.
L’uscita
dal
paese
di
grandi
quantità
di
metallo
giallo
diminuiva
la
massa
monetaria
pregiata
e
accresceva
il
peso
relativo
di
quella
divisionale
d’argento
e
di
rame,
aggiungendo
inflazione
a
quella
causata
dal
calo
dell’offerta
interna
rispetto
alla
domanda.
L’avvio
della
modernizzazione
Conclusa
vittoriosamente
la
guerra
civile,
il
giovane
imperatore
stabilì
la
capitale
a
Tokyo
e
abolì
le
tradizionali
strutture
feudali.
Dal
1871
cadde
ogni
distinzione
di
ceto
fra
i
sudditi.
I
daymno
furono
concentrati
a
Tokyo
e
il
governo
li
tacitò
con
una
pensione
annuale
pari
alla
decima
parte
delle
entrate
che
erano
abituate
a
ricavare
dai
loro
feudi.
Anche
i
samurai
perdettero
i
loro
privilegi
e
le
funzioni
militari
in
cambio
di
una
piccola
pensione.
Il
governo
favorì
netti
miglioramenti
della
produttività
agricola
inviando
esperti
all’estero
a
far
pratica
dei
metodi
agronomici
più
aggiornati,
fondando
scuole
agrarie.
38
Dal
1880
al
1917,
la
produzione
risicola
del
paese
crebbe
fortemente
e
quella
del
grano
raddoppiò.
L’accresciuta
produzione
di
derrate
agricole
e
di
materie
prime,
permise
di
pagare
le
importazioni
di
tecnologia
per
l’industria.
Per
di
più,
la
neutralità
mantenuta
in
occasione
della
prima
guerra
mondiale
assicurò
ai
prodotti
giapponesi
crescenti
sbocchi
esteri.
L’obiettivo
centrale
del
governo
era
l’industrializzazione.
Dal
1868
al
1880,
lo
stato
finanziò
in
proprio
le
imprese.
Il
Giappone
si
avvantaggiò
delle
esperienze
tecniche
maturate
altrove,
specialmente
in
GB
e
negli
USA.
Dagli
anni
’70,
il
paese
realizzò
un’esperienza
di
politica
economica
per
molti
aspetti
eccezionale.
Il
tradizionale
ceto
fondiario
divenne
protagonista
della
finanza
privata
e
le
risorse
pubbliche
indispensabili
per
procedere
a
investimenti
infrastrutturali
provennero
dalla
tassazione
sui
terreni.
L’introduzione
della
regola
della
trasmissione
della
terra
a
un
solo
erede
per
ogni
generazione
stabilizzò
le
dimensione
delle
aziende
agrarie
favorendone
la
ricomposizione
fondiaria,
diede
vita
a
imprese
artigiane
e
industriali
nelle
campagne
e
provocò
l’inurbamento
di
rurali
in
cerca
d’occupazione
fuori
dal
settore
agricolo.
Dal
1872,
il
governo
diede
grande
impulso
all’istruzione
primaria
e
dal
1886,
la
scuola
dell’obbligo
previde
la
frequenza
di
quattro
annualità.
Il
governo
avviò
anche
attività
industriali
e
bancarie.
Nel
1869,
fondò
un’agenzia
per
il
commercio
estero
che
faceva
incetta
di
tè,
seta
e
riso
da
vendere
all’estero.
Accanto
a
costoro,
agirono
però
anche
uomini
di
livello
sociale
inferiore.
Nonostante
le
numerose
innovazioni
istituzionali
e
amministrative,
il
sistema
di
relazioni
economiche
e
sociali
continuò
a
essere
imperniato
sul
modello
culturale
della
famiglia,
con
una
felice
sintesi
di
tradizione
e
di
adattamento
al
moderno.
Fra
tradizione
e
innovazione
L’economia
privata
andò
organizzandosi
sulla
base
di
società
finanziare
in
accomandita
per
azioni
che
controllavano
un
gran
numero
di
imprese
minori
collegate
secondo
il
modello
del
clan
familiare.
La
società
madre
era
governata
dal
capo
della
famiglia
mentre
gli
altri
componenti
del
gruppo
si
occupavano
della
direzione
e
dell’amministrazione
delle
società
minori.
Si
trattava
del
sistema
chiamato
Zaibatsu.
Ne
erano
protagoniste
famiglie
di
mercanti
e
burocrati
tradizionalmente
dediti
alla
gestione
e
amministrazione
dei
feudi
la
cui
mentalità
era
orientata
al
rispetto
degli
indirizzi
governativi.
Con
il
passare
del
tempo,
otto
grandi
famiglie
giunsero
a
controllare
metà
di
tutto
il
capitale
investito:
tre
di
queste
detenevano
la
quarta
parte
della
ricchezza
nazionale.
Il
modello
di
sviluppo
giapponese
coniugava
un
potere
finanziario
altamente
concentrato
a
un’elevata
dispersione
delle
attività
manifatturiere
e
industriali.
Fino
a
tutti
gli
anni
’30
del
‘900,
fu
evitata
la
concentrazione
delle
industrie
nelle
periferie
urbane
e
il
conseguente
malessere
sociale
e
culturale
da
inurbamento
di
larga
parte
della
popolazione.
Si
verificò,
inoltre,
un
graduale
miglioramento
del
tenore
di
vita
di
larghi
strati
della
popolazione,
e
le
tensioni
sociali
si
attenuarono.
Nel
commercio
internazionale,
dopo
una
prima
fase
durante
la
quale
il
paese
esportò
materie
prime
e
prodotti
agricoli,
furono
venduti
all’estero
i
manufatti
tessili
Solo
dopo
aver
costruito
una
solida
base
industriale,
il
Giappone
si
lanciò
nella
diversificazione
delle
attività.
Nel
arco
di
40
anni,
il
nazionalismo
imperialista
giapponese
condusse
tre
guerre
vittoriose
nello
scacchiere
asiatico.
La
prima
contro
la
Cina
1894-‐95,
rese
un’ingente
quantità
d’oro;
la
seconda
contro
l’impero
russo
nel
1904-‐1905,
impose
il
paese
all’attenzione
del
mondo,
e
la
terza
con
l’invasione
della
Manciuria
nel
1931m
inaugurò
il
colonialismo
del
Sol
levante.
La
politica
statale
degli
armamenti
concorse
allo
sviluppo
della
siderurgia,
della
meccanica,
dell’industria
cantieristica
e
dell’aeronautica.
39
Tra
il
1868
e
il
1938,
la
crescita
economica
giapponese
ristagnò
nel
decennio
delle
guerre,
ma
successivamente
fu
continua
e
sostenuta.
L’economia
giapponese
moderna
offre
uno
dei
più
riusciti
esempi
di
sviluppo
economico
diretto
dal
governo
e
dalla
burocrazia
pubblica.
La
prima
e
principale
ragione
del
successo
consiste
nell’avere
accettato,
senza
complessi
d’inferiorità
culturale,
il
ruolo
di
paese
economicamente
arretrato.
La
permanente
capacità
di
apprendere,
imitare,
adattarsi
e
perseguire
l’ottimo
possibile
è
il
segreto
del
successo
giapponese.
Il
processo
di
rapida
modernizzazione
avvenne
senza
implicazioni
ideologiche
e
su
base
eminentemente
empirica,
facilitato
dalla
proverbiale
frugalità
dei
contadini.
La
prevalenza
del
gruppo
sul
singolo,
il
valore
riconosciuto
alla
cooperazione
e
all’armonia
piuttosto
che
all’antagonismo
e
alla
rivalità,
il
rispetto
ossessivo
per
le
differenze
di
rango
e
per
i
cerimoniali,
l’importanza
accordata
alle
relazioni
personali,
sono
altrettante
testimonianze
della
tenuta
di
un
mondo
di
relazioni
e
di
valori
ereditato
dalla
tradizione;
un
mondo
che
non
ha
impedito
al
paese
di
diventare
modernissimo
senza
tradire
la
propria
identità
culturale.
Dalla
sconfitta
militare
all’eccellenza
economica
Uscito
sconfitto
dalla
seconda
guerra
mondiale,
Il
Giappone
rinunciò
ad
avere
un
esercito
e
intrattenne
con
il
suo
vincitore,
gli
USA,
relazioni
tanto
strette
da
diventare
suo
alleato
nel
1951,
e
da
imitare
le
tecniche
di
gestione
aziendale.
Di
fronte
all’altissima
concentrazione
di
proprietà
industriali
e
bancarie,
il
comando
americano
occupante
stabilì
rigorose
regole
per
avviare
una
democratizzazione
dell’economia:
l’intento
era
eliminare
gli
zaibatsu.
Le
holding
furono
dichiarate
fuorilegge
e
suddivise
in
molte
nuove
imprese,
le
grandi
famiglie
dovettero
cedere
il
loro
pacchetti
azionari,
che
furono
collocati
presso
il
pubblico.
Infine
attraverso
imposte
straordinarie
sui
patrimoni,
le
ricchezze
familiari
furono
drasticamente
ridotte.
Il
governo
invertì
la
rotta
favorendo
una
ricomposizione
degli
antichi
potentati
senza
tuttavia
eliminare
un
diffuso
azionariato
popolare.
Al
posto
degli
zaibatsu
comparvero
i
Keiretsu,
che
raggruppano
in
senso
verticale
e
orizzontale
aziende
minori
sotto
l’egida
di
una
grande
impresa
dominante.
Nel
1962
l’autorità
parlamentare
d’inchiesta
sugli
assetti
appurò
che
le
156
aziende
“madri”
controllavano
in
media
ciascuna
16
società
“figlie”.
Dopo
una
fase
di
ristagno,
dal
1914
al
1945,
il
volume
del
commercio
mondiale
quadruplicò
dal
1953
al
1977.
Con
il
passare
del
tempo
prevalsero
i
prodotti
industriali
ad
alto
valore
specifico
e
il
Giappone
continuò
ad
accrescere
la
sua
quota
di
esportazioni
vendendo
all’estero
più
di
quanto
importava,
perché
i
suoi
prodotti
avevano
prezzi
concorrenziali
e
perché
il
governo
nipponico
ha
sempre
adottato
politiche
commerciali
difensive,
mantenendo
bassi
i
consumi
interni.
Il
trionfo
del
diverso:
l’economia
statunitense
I
difficili
esordi
Nel
1607
gli
inglesi
fondarono
la
prima
colonia,
la
Virginia,
di
là
dall’Atlantico.
Un
più
saldo
controllo
del
territorio
fu
iniziato,
però,
solamente
negli
anni
’20.
Gli
insediamenti
inglesi
si
consolidarono
attorno
a
Boston,
NY
e
la
Filadelfia
dei
quaccheri.
Raggiunta
l’indipendenza
dalla
madre
patria
nel
1783,
le
colonie
si
diedero
una
costituzione
nel
1787
e
nel
1789
il
primo
governo
federale
presieduto
da
G.
Washington,
cominciò
a
operare.
Nel
1790
a
popolazione
statunitense
era
dedita
alle
attività
agricole,
di
pesca,
trasporto
e
commercio
marittimo
ed
estrazioni
minerarie.
Alla
fine
del
’700,
la
flotta
commerciale
statunitense
era
seconda
solo
a
quella
inglese
e
i
celebri
clippers
americani
frequentavano
ogni
porto
del
mondo.
40
Cotone,
tabacco,
riso
e
canna
da
zucchero
erano
i
quattro
prodotti
dell’agricoltura
di
piantagione
degli
stati
del
sud
orientati
all’esportazione.
La
diffusione
della
macchina
sgranatrice
di
Eli
Whitney
moltiplicò
coltivazione
e
produzione.
NY
divenne
il
centro
delle
funzioni
d’intermediazione,
credito
assicurazione
e
trasporto
marittimo.
Fino
agli
anni
’40
dell’800,
le
officine
e
le
botteghe
americane
erano
piccole
imprese
familiari,
spesso
attive
nei
tempi
morti
dell’agricoltura,
simili
a
quelle
del’’artigianato
domestico
europeo.
La
precoce
adozione
di
filatoi
e
telai
idraulici
favorì
nel
tessile
l’avvento
della
fabbrica
integrata.
Molti
tecnici
americani
migliorarono
i
filatoi
importati,
in
modo
da
ottenete
più
prodotto
nella
stessa
unità
di
tempo.
Gli
eccellenti
rendimenti
dei
capitali
finanziari
investiti
nel
cotonificio
moltiplicarono
le
innovazioni
e
stimolarono
la
meccanizzazione
di
ogni
fase
lavorativa.
La
mancanza
di
manodopera
rurale,
orientò
gli
industriali
a
adottare
processi
di
fabbricazione
che
facevano
largo
ricorso
alle
macchine
per
economizzare
la
forza
lavoro.
I
continui
guadagni
di
produttività
promossero
l’accumulazione
di
capitale
tecnico.
La
crescita
della
domanda
nell’ampliare
le
dimensioni
del
mercato
fin
dal
primo
‘800
orientò
l’industria
verso
la
produzione
di
massa,
la
standardizzazione
e
l’organizzazione
delle
fasi
produttive
in
catena.
La
suddivisione
delle
operazioni
lavorative
in
un
processo
continuo
e
integrato,
era
comparsa
fin
dal
1872,
con
il
celebre
mulino
di
Oliver
Evans.
Nel
quale
una
serie
di
automatismi
trasformava
il
cereale
in
sacchi
di
farina.
Nel
1818,
Eli
Whitney,
costruì
le
prime
armi
da
fuoco
leggere
con
elementi
standardizzati
e
intercambiabili.
Specializzazione
del
lavoro,
alta
intensità
di
capitale
tecnico
aiutarono
all’avvio
della
meccanica
delle
armi,
grazie
anche
alle
commesse
governative.
Dal
settore
delle
armi,
i
metodi
produttivi
rimbalzarono
nella
metalmeccanica
che
produceva
aratri,
seminatrici
e
trebbiatrici.
L’occupazione
nel
settore
primario,
nell’arco
di
40
anni,
diminuì
del
20%.
Negli
anni
’40
dell’800,
il
mondo
agricolo
americano
faceva
già
uso
di
utensili
e
macchine
prodotte
industrialmente
come
aratri
metallici,
seminatrici,
…
Superata
la
fase
autarchica,
i
coloni
producevano
derrate
da
vendere
a
grossi
mercanti
e
altri
che
le
avrebbero
trasferite
sui
mercati
orientali.
I
corsi
d’acqua
naturali
e
i
canali
scavati
erano
le
vie
maggiormente
usate
dai
trasportatori
indipendenti
che
movimentavano
i
prodotti
agricoli,
il
carbone
e
i
metalli
estratti
dalle
miniere.
L’economia
statunitense
della
prima
metà
dell’800
rappresenta
un
caso
particolare
d’avvio
dell’industrializzazione
perché
le
condizioni
dei
fattori
economici
risultano
invertite
rispetto
all’esperienza
europea.
La
terra
era
così
abbondante
da
essere
ceduta
gratuitamente
o
con
vendite
all’asta
a
bassissimo
prezzo
dallo
stato
federale.
Fattore
sovrabbondante
nel
vecchio
continente,
negli
USA
la
manodopera
continuò
a
essere
così
scarsa
da
orientare
i
sistemi
produttivi
verso
un
massiccio
ricorso
al
capitale
tecnico.
A
metà
‘800,
lo
spazio
statunitense
era
diviso
in
3
aree:
1. Nord-‐est
atlantico:
specializzato
nell’industria,
nel
grande
commercio
e
nella
finanza,
oltre
che
nell’agricoltura
ortofrutticola
e
nel
settore
lattiero-‐caseario;
2. Ovest:
i
pionieri
si
erano
spinti
fino
a
una
linea
che
andava
dal
Texas
al
Michigan,
che
si
stava
specializzando
nella
produzione
di
cereali,
mais
e
di
carne
da
macello;
3. Sud:
specializzato
soprattutto
nella
produzione
di
cotone.
Il
nord-‐est
vendeva
i
suoi
prodotti
industriali
all’ovest,
il
quale
spediva
le
sue
derrate
agricole
a
sud
via
acqua.
Quest’ultimo
esportava
in
Europa
la
maggior
parte
delle
sue
produzioni
di
piantagione.
41
La
costruzione
di
ferrovie
permise
di
collegare
ancora
più
strettamente
le
tre
grandi
regioni
economiche
e
mise
in
relazione
diretta
le
vaste
pianure
centrali
produttrici
di
cereali,
mais
e
carne
con
l’area
industriale
altamente
urbanizzata
del
nord-‐est.
Dal
conflitto
economico
alla
guerra
di
secessione
La
scoperta
di
ricche
miniere
d’oro
in
California,
nel
1848,
accelerò
l
ritmo
di
immigrazione
negli
USA
e
quello
di
trasferimento
verso
ovest
di
pionieri-‐coloni
e
di
cercatori
d’oro.
La
crescente
disponibilità
dell’oro
ebbe
2
conseguenze
sul
mercato
americano:
1. Preferenza
per
l’oro
come
metallo
di
riserva,
a
garanzia
della
circolazione
di
cartamoneta
prodotta
dalle
banche;
2. Tendenziale
incremento
dei
prezzi,
sia
dei
prodotti
agricoli
sia
di
quelli
industriali.
Tra
il
1847
e
il
1855
giunsero
negli
USA
300.000
emigrati
all’anno
e,
dalla
piazza
di
Londra,
affluirono
capitali
finanziari
da
investire
soprattutto
nelle
grandi
società
ferroviarie
che
costruivano
tronchi
di
penetrazione
verso
ovest.
Il
conflitto
tra
gli
interessi
di
alcune
migliaia
di
latifondisti
del
sud
e
gli
interessi
degli
industriali,
dei
commercianti
e
dei
banchieri
del
nord,
esplose
a
proposito
della
politica
doganale,
degli
investimenti
federali
nei
canali
al
nord
e
della
questione
schiavista.
I
sudisti
avversavano
il
protezionismo
doganale
favorevole
alle
industrie
del
nord
perché
avrebbero
potuto
acquistare
merci
industriali
a
prezzi
inferiori.
Si
opponevano
alle
spese
federali
per
la
costruzione
dei
canali
di
collegamento
fra
le
miniere
del
nord
e
i
porti
della
costa
alto-‐
atlantica
e
contrastavano
l’abolizione
della
schiavitù
proposta
dai
parlamentari
nordisti.
Gli
instabili
conflitti
portarono
a
una
lunga
guerra
civile
(1861-‐1865)
che
causò
600.00
morti
e
in
occasione
della
quale
il
potenziale
industriale
a
disposizione
di
uno
dei
continenti
si
rivelò
decisivo
per
il
successo:
c’era
un’enorme
differenza
di
potenziale
produttivo
fra
i
due
antagonisti.
Per
l’economia
nordista,
la
guerra
fu
occasione
di
formidabile
crescita
in
ogni
settore,
agricoltura
e
allevamento
compresi;
essa
non
cessò
mai
di
crescere.
Al
contrario,
l’economia
dei
confederati,
imperniata
sulle
piantagioni
schiaviste,
dipendente
dalle
esportazioni
di
materie
prime
e
dalle
importazioni
di
manufatti
industriali,
priva
di
naviglio
commerciale,
povera
di
risparmi
e
di
credito
interno
e
internazionale,
entrò
rapidamente
in
crisi.
Gli
stati
del
nord
uscirono
dalla
guerra
economicamente
rafforzata
nella
siderurgia,
nella
meccanica
delle
armi
e
delle
macchine
agricole,
nella
conservazione
dei
cibi,
nel
lanificio
e
nella
confezione
di
abiti
e
scarpe.
Il
sud,
teatro
di
aspri
combattimenti,
ebbe
gravi
distruzioni
civili,
fallimenti
di
banche
e
industrie,
alti
tassi
d’inflazione,
perdite
dei
risparmi
investiti
in
titoli
del
prestito
pubblico
e
un’agricoltura
in
ginocchio.
L’impoverimento
dei
latifondisti
ebbe
durature
e
vistose
conseguenze
sulla
distribuzione
della
proprietà
fondiaria.
Nell’arco
di
un
ventennio,
in
tutto
il
sud,
la
superficie
media
delle
fattorie
calò,
mentre
decine
di
migliaia
di
proprietari
diretti
coltivatori
bianchi
e
di
mezzadri
neri
prendevano
il
posto
nella
manodopera
schiava.
Verso
imprese
di
grandi
dimensioni
42
Dal
1856
al
1914
lo
sviluppo
dell’economia
statunitense
proseguì
quasi
ininterrotto
contemporaneamente
in
tutti
i
tre
settori:
l’agricoltura
e
l’allevamento,
l’industria
pesante,
il
terziario
delle
assicurazioni
e
delle
banche,
ma
soprattutto
dei
trasporti
navali
e
ferroviari.
In
circa
80
anni,
la
popolazione
crebbe
di
circa
6
volte,
facendo
del
paese
il
primo
mercato
di
massa
del
mondo.
La
ricchezza
mediamente
disponibile
per
ogni
cittadino
americano
aumentò.
La
ricchezza
mediamente
prodotta
da
ogni
persona
economicamente
attiva
crebbe
sensibilmente.
Il
progresso
tecnico
e
organizzativo
riguardò
ogni
settore.
L’introduzione
di
tecniche
di
vendita
innovativa
accelerò
la
creazione
di
un
mercato
nazionale
in
continua
espansione
perché
la
manodopera
non
cessava
di
crescere,
soprattutto
grazie
all’immigrazione.
La
macchina
a
vapore
dal
1870
prese
il
sopravvento
sull’energia
idraulica
e,
dal
1869,
la
ferrovia
collegò
le
coste
atlantiche
a
quelle
del
pacifico
completando
il
processo
di
unificazione
e
integrazione
del
vasto
mercato
nazionale.
Da
1847
era
iniziato
lo
sfruttamento
commerciale
del
telegrafo,
che
si
rivelò
decisivo
nella
diffusione
di
informazioni
riguardanti
prezzi,
quantità
e
movimenti
delle
merci.
Vigendo
un
regime
di
concorrenza,
il
calo
dei
costi
si
tradusse
in
una
diminuzione
dei
prezzi,
sicché
la
domanda
aggregata
aumentò.
Negli
USA,
negli
ultimi
30
anni
dell’800,
l’avvento
della
fabbrica
come
organizzazione
produttiva
dominante
fu
favorito
da
un
complesso
di
fattori:
1. Offerta
crescente
del
carbon
fossile
a
basso
costo;
2. Disponibilità
di
macchine
a
vapore
sempre
più
potenti
ed
efficienti:
3. Possibilità
di
raggiungere
un
gran
numero
di
mercati
di
sbocco
senza
limitazioni
stagionali;
4. Capacità
di
comunicare
e
scambiare
informazioni,
anche
a
grande
distanza,
in
tempi
brevi
(telefono
a
fine
‘800);
5. Costante
crescita
della
domanda
interna.
Il
settore
economico
più
bisognoso
di
organizzazione,
coordinamento
e
controllo
degli
uomini
e
degli
impianti
era
quello
ferroviario
a
causa
delle
gigantesche
dimensioni
delle
imprese,
per
la
forma
di
società
anonima
e
per
l’esigenza
di
gestire
uomini
e
impianti
dislocati
entro
una
vasta
rete
di
unità
operative
interdipendenti.
La
gestione
delle
ferrovie
pretese
il
ricorso
a
un’inedita
figura
professionale:
l’alto
dirigente
stipendiato
e
impegnato
a
tempo
pieno.
Gli
ingegneri
civili
e
industriali
cominciarono
a
essere
identificati
come
i
professionisti
culturalmente
meglio
attrezzati
per
svolgere
il
ruolo
di
dirigenti
nelle
grandi
imprese
a
organizzazione
complessa.
L’adozione
di
macchine
a
ciclo
continuo,
indusse
le
imprese
a
riversare
sul
mercato
internazionale
una
parte
crescente
della
produzione.
La
vittoria
dei
nordisti,
portò
al
raddoppio
delle
tariffe
doganali
dopo
la
fine
della
guerra
civile,
così
da
riservare
ai
produttori
nazionali
il
mercato
interno
sul
quale
andavano
peraltro
dispiegandosi
tecniche
di
vendita
(marketing)
innovative.
Dai
secondi
anni
’70,
i
cereali
delle
grandi
pianure
centrali
raggiunsero
i
mercati
europei
a
prezzi
imbattibili;
come
conseguenza,
le
esportazioni
sopravanzavano
le
importazioni
con
vantaggio
per
la
bilancia
dei
pagamenti.
Il
mercato
interno
non
era
sufficiente
ad
assorbire
i
crescenti
volumi
dei
prodotti
agricoli
e
industriali.
Tra
il
1880
e
il
1910,
l’economia
statunitense
seppe
trovare
sbocchi
al’’estero
per
le
proprie
crescenti
produzioni.
Una
vittoriosa
guerra
con
la
Spagna
nel
1898
permise
agli
USA
di
allargare
la
loro
influenza
diplomatica
ed
economica
sulle
filippine,
su
Guam,
Portorico,
Cuba
e
Panama.
43
Nell’ultimo
ventennio
dell’800,
fusioni
e
incorporazioni
di
società
causarono
una
diminuzione
del
numero
d’imprese.
Nel
1888
con
l’Interstate
Commerce
Act
e
nel
1890
con
lo
Scherman
Act,
il
Parlamento
approvò
alcune
regole
quadro
che
rendevano
incostituzionale
ogni
collusione
fra
le
imprese
volte
a
stipulare
cartelli
ma,
stimolava
la
formazione
di
gruppi,
holdings,
sempre
più
grandi.
Nonostante
l’iterazione
di
norme
antitrust,
per
riuscire
a
spezzare
due
giganteschi
gruppi
che
controllavano
l’offerta
del
petrolio
e
del
tabacco,
dovette
intervenire
la
Corte
Suprema.
La
soluzione
manageriale
diveniva
sempre
più
la
modalità
di
gestione
prevalente
presso
le
gigantesche
imprese,
e
il
coordinamento
manageriale
la
tecnica
organizzativa
e
gestionale
più
idonea
a
trarre
il
massimo
vantaggio
dalle
dimensioni.
7. La
prima
globalizzazione
fra
‘800
e
‘900
La
formazione
di
un
mercato
mondiale
Nei
40
anni
che
precedettero
lo
scoppio
della
prima
GM,
l’Europa
raggiunse
il
massimo
potere
economico,
insieme
rappresentato
dal
primato
nella
produzione
di
beni
industriali
e
dal
dominio
sul
commercio
internazionale.
L’esistenza
di
un’imponente
rete
di
trasporti
in
Europa
e
nell’America
settentrionale,
accelerò
il
processo
d’integrazione
dell’economia
mondiale
avviato
dalla
Gran
Bretagna
a
metà
‘800
con
l’eliminazione
delle
dogane
e
la
libera
circolazione
internazionale
delle
merci.
Tra
secondo
‘800
e
primo
‘900,
il
trapianto
di
quasi
22
milioni
di
europei
nelle
Americhe,
in
Sud
Africa
e
in
Australia,
diffuse
un
gran
numero
di
potenziali
consumatori
di
prodotti
industriali.
Tutte
le
zone
coloniali
ricevettero
forza
lavoro
dall’Europa
meno
progredita
e
capitale
finanziario,
tecnico,
ingegneri
e
operai
specializzati
dalle
regioni
economicamente
più
evolute.
In
Europa
cominciarono
ad
affluire
masse
di
merci
di
relativamente
basso
valore
specifico.
L’abbattimento
di
noli
marittimi
sulle
lunghe
distanze.
L’apertura
dei
canali
di
Suez
e
Pana
e
la
comparsa
di
navi
frigorifere
permisero
alle
terre
più
lontane
di
aggiungere
alle
tradizionali
esportazioni
di
minerali
ad
alto
valore
intrinseco,
grandi
quantità
di
cereali,
farine
e
carni
congelate:
gli
emigrati
migliorarono,
così,
il
loro
tenore
di
vita
abbastanza
da
divenire
acquirenti
di
manufatti
industriali
europei.
Assistiamo
allo
sviluppo
del
commercio
internazionale.
I
paesi
tropicali
accomunati
dalla
bassa
produttività
agricola,
mobilitarono
le
loro
risorse
più
abbondanti
e
meno
costose
(terra
e
manodopera)
specializzandosi
in
una
sola
merce
la
cui
domanda
era
in
rapida
crescita.
L’integrazione
del
mercato
globale
comportò
un
livellamento
dei
prezzi
dei
coloniali
e
la
scomparsa
della
pluralità
di
produttori
dislocati
nei
viversi
continenti
che
aveva
contraddistinto
l’economia
coloniale
del
‘600-‐‘700.
Gli
USA
divennero
i
maggiori
esportatori
mondiali
di
cotone
e
tabacco
e
per
alcuni
decenni
furono
quasi
monopolisti
del
mercato
internazionale
del
grano,e,
il
Giappone,
di
seta
e
tè.
Guerre
doganali
e
rivalità
tecniche
e
commerciali
L’aumento
dell’offerta
in
Europa
di
derrate
agricole
di
base
a
prezzi
nettamente
inferiori,
in
un
mercato
effettivamente
aperto
avrebbe
dato
origine
a
un’inevitabile
quanto
pronta
riorganizzazione
delle
coltivazioni.
Dagli
ultimi
anno
’70,
gli
agricoltori
dell’Europa
occidentale
riuscirono
ad
evitare
di
dover
procedere
a
radicali
riconversioni
ottenendo
dai
governi
energiche
difese
doganali.
44
L’introduzione
e
l’inasprimento
di
tariffe,
innescò
una
reazione
a
catena
di
conflitti
commerciali
fra
paesi
europei,
che
in
qualche
caso
sfociarono
in
vere
e
proprie
guerre
doganali.
Solo
la
Gran
Bretagna
rimase
fedele
al
dogma
liberoscambista
perché
l’opinione
pubblica
inglese
non
accettava
l’idea
che
i
prezzi
dei
beni
alimentari
potessero
aumentare.
Le
regioni
dell’impero
britannico,
prive
di
autonomia,
non
poterono
che
allinearsi
alla
madrepatria,
sicché
andò
formandosi
un
duplice
mercato
internazionale:
quello
inglese,
improntato
sul
libero
scambio,
e
quello
dei
paesi
in
via
d’industrializzazione,
contraddistinto
da
regimi
doganali
che
disincentivavano
gli
scambi
e
favorivano
le
relazioni
commerciali
preferenziali
con
partner
ai
quali
erano
legati
anche
da
affinità
politiche
e
diplomatiche.
La
fede
inglese
al
liberoscambio
fece
sì
che
s’invertisse
la
corrente
di
importazioni
ed
esportazioni
di
manufatti
industriali
da
e
verso
i
paesi
dell’Europa
continentale.
I
consumatori
inglesi
beneficiarono
dei
prezzi
più
bassi,
ma
l’apparato
produttivo
del
paese
incontrò
crescenti
ostacoli
nel
conservare
le
dimensioni
e
le
posizioni
acquisite
durante
il
trentennio
liberoscambista
(1843-‐
1873).
Dalla
fine
dell’800,
insomma,
nell’Europa
continentale
e
negli
USA
il
nazionalismo
economico
prevalse
sul
liberalismo
concorrenziale.
Qual
era
il
ruolo
degli
stati
nell’opera
di
sostegno
e
di
promozione
dello
sviluppo
delle
economie
nazionali?
I
governi
non
potevano
disinteressarsi
del
finanziamento
di
basilari
infrastrutture,
della
promozione
di
un’essenziale
struttura
industriale
e
dell’industria
pesante.
Nel
medesimo
tempo
era
indispensabile
attenuare
il
disagio
indotto
dall’avvento
dell’industrializzazione
nei
settori
tradizionalmente
meno
efficienti,
come
l’agricoltura
e
commercio
al
dettaglio.
Il
diffuso
irrigidimento
doganale
ebbe
l’effetto
di
stimolare
i
maggiori
gruppi
produttori
di
beni
a
superare
gli
ostacoli
commerciali
aprendo
stabilimenti
all’interno
dei
paesi
protezionisti.
In
tal
modo
si
trasferirono
capitali
finanziari
e
tecnologie
e
si
diede
vita
a
gruppi
multinazionali
che
avviarono
imprese
ad
alta
tecnologia
là
dove,
spontaneamente,
non
sarebbero
sorte.
L’avvento
di
processi
e
la
realizzazione
di
prodotti
ad
alto
contenuto
tecnico
alimentarono
la
rivalità
tra
paesi
europei
che
esportavano
in
concorrenza
con
la
Gran
Bretagna.
Dopo
aver
umiliato
la
Francia,
la
Germania
strappò
alla
Gran
Bretagna
il
primato
industriale
in
Europa
a
cominciare
dalla
siderurgia
dell’acciaio.
Per
la
Gran
Bretagna
un
altro
fattore
di
crisi
provenne
dalla
formazione
di
un
mercato
globale
del
carbone.
Venivano,
così,
meno
le
condizioni
che
avevano
lungamente
permesso
all’economia
inglese
di
sopportare
i
costi
più
bassi
per
produrre
energia
e
calore.
Inoltre,
la
concentrazione
delle
esportazioni
inglesi
principalmente
sui
due
settori
del
carbone
e
dei
tessuti
di
cotone,
impediva
di
applicare
ai
rispettivi
processi
produttivi
innovazioni
tecniche
capaci
di
abbattere
consistentemente
i
costi.
Nella
chimica
industriale
la
Germania
vantava
un
altro
netto
vantaggio
competitivo
rispetto
alla
Gran
Bretagna,
derivante
dall’esistenza
in
quel
paese
di
numerose
istituzioni
culturali
e
scientifiche
d’alto
profilo,
fatto
che,
insieme
a
ricerche
e
finanziamenti
ingenti,
permise
alla
chimica
organica
di
svilupparsi
secondo
ritmi
che
non
avevano
paragoni
in
Europa
e
di
imporre
sul
mercato
internazionale
i
suoi
brevetti
e
i
suoi
prodotti.
La
tradizionale
preferenza
inglese
per
un
apprendimento
realizzato
sul
campo,
impedì
o
ritardò
la
creazione
nell’isola
di
grandi
industrie
a
elevato
tenore
tecnologico
e
dirette
da
manager.
45
L’Inghilterra
conservò
la
propria
posizione
di
primato
nella
cantieristica
e
nei
servizi
finanziari,
bancari
e
assicurativi
concentrati
a
Londra,
la
prima
piazza
finanziaria
del
mondo.
Gli
USA,
anch’essi
in
ascesa,
ebbero
un
impatto
meno
violento
sugli
equilibri
del
commercio
internazionale
perché
riversarono
la
maggior
parte
delle
proprie
energie
finanziarie
e
industriali
su
due
frontiere
interne:
la
conquista
dell’Ovest
e
la
rapida
crescita
della
popolazione
urbana
lungo
la
costa
orientale.
Visto
dall’Europa,
il
giovane
gigante
americano
era
soprattutto
il
granaio
del
mondo
che
riforniva
di
cereali
tutti
quei
paesi
europei
e
asiatici
bisognosi
di
approvvigionamenti.
Dall’inizio
del
‘900,
crescenti
quote
della
produzione
statunitense
di
grano,
carne,
cotone
e
tabacco
furono
assorbite
dal
mercato
interno,
con
un
inevitabile
ridimensionamento
delle
esportazioni.
La
tradizionale
attitudine
del
paese
a
sostituire
le
importazioni
di
manufatti
esteri
con
prodotti
nazionali
di
pari
qualità
e
minor
prezzo
rallentò
la
crescita
del
volume
d’interscambio
con
l’estero
e
contribuì
allo
sviluppo
di
settori
industriali
nuovi,
come
l’elettromeccanica,
la
chimica
organica
e
dei
coloranti.
Crebbero,
per
contro,
le
importazioni
di
materie
prime
industriali
come
lana,
seta,
gomma,
cuoio
e
pelli.
Rispetto
a
quelle
inglesi,
le
esportazioni
statunitensi
aumentarono
molto
di
più
soprattutto
per
due
ragioni:
1. Perché
si
trattava
di
prodotti
il
cui
consumo
mondiale
stava
crescendo;
2. Perché
finivano
sui
mercati
di
quei
paesi
che
avevano
uno
sviluppo
economico
superiore
alla
media.
La
concorrenza
americana
causò
una
caduta
dei
prezzi,
dei
redditi
e
del
potere
d’acquisto
di
contadini
e
agricoltori
tradottosi
in
un
ripiegamento
della
domanda
di
concimi
e
macchine
agricole.
Alle
origini
del
SOTTOSVILUPPO:
il
secondo
colonialismo
La
superiorità
di
strumenti
tecnici
e
concettuali,
assieme
alla
superiore
arte
della
guerra,
del
governo
e
del
credito,
dal
1400
permisero
agli
europei
di
stabilizzare
il
loro
dominio
su
popolazioni
di
altri
continenti.
Alla
lunga,
i
bianchi
prevalsero
ovunque
affermando
la
loro
superiorità
tecnica
e
concettuale
mediante
il
diritto,
il
potere
e
l’organizzazione.
Attorno
al
1760,
quando
l’Inghilterra
muoveva
i
primi
passi
verso
l’industria,
le
popolazioni
dei
diversi
domini
coloniali
ammontavano
a
27
milioni
di
abitanti,
mentre
l’Europa
ne
contava
già
130.
Nel
1830,
quando
la
decolonizzazione
di
gran
parte
delle
Americhe
aveva
ridotto
a
un
terzo
la
superficie
del
dominio
coloniale
europeo,
le
popolazioni
colonizzate
superavano
quelle
europee
(senza
la
Russia).
Tra
il
1760
e
il
1938
l’assetto
coloniale
subì
una
doppia
trasformazione:
l’America
cedette
il
suo
primato
d’area
coloniale
all’Asia.
Analogamente,
nel
1830,
il
primato
del
controllo
dei
bianchi
sul
resto
del
mondo
passò
dalla
Spagna
al
Regno
Unito.
Anche
il
Portogallo
non
era
più
una
potenza
marittima
e
commerciale.
Alla
vigilia
della
prima
GM,
le
merci
importate
in
Europa
ammontavano
a
20
milioni
di
tonnellate
(50
volte
i
quantitativi
del
1790).
Tra
il
1830
e
il
1912,
mentre
la
R.I.
si
diffondeva
nella
vecchia
Europa,
negli
USA
e
in
Giappone,
la
dinamica
dei
trasferimenti
tenne
ritmi
sostenuti
e
subì
una
straordinaria
accelerazione
nei
primi
dodici
anni
del
‘900.
Tre
processi
condizionarono
la
diversificazione
dei
prodotti
importati
dalle
colonie:
46
1. La
progressiva
industrializzazione
europea
ne
rese
quasi
impossibile
l’esportazione
dalle
colonie
e
creò
le
premesse
di
un’inondazione
in
periferia
di
prodotti
industriali
europei
e
nordamericani;
2. L’innalzamento
sensibile
dei
tenori
di
vita
degli
europei
moltiplicò
gli
sbocchi
per
l’offerta
di
quei
prodotti
tropicali
fino
ai
primi
dell’800,
percepiti
come
beni
di
lusso
esotici;
3. L’abbattimento
progressivo
dei
costi
di
trasporto
sulle
lunghe
distanze
rafforzò
le
due
tendenze
ricordate.
Nessun
paese
non
occidentale,
a
parte
il
Giappone,
riuscì
ad
avviare
un
processo
di
sviluppo
economico
prima
del
1960,
quando
le
“quattro
tigri”
asiatiche
(Hong
Kong,
Corea,
Taiwan
e
Singapore)
misero
in
moto
uno
sviluppo
così
rapido
che,
nel
1980
ormai
rientravano
tra
i
paesi
economicamente
avanzati.
Come
spiegare
la
durevole
condizione
d’arretratezza
economica
del
Terzo
Mondo
(ex
-‐
coloniale)
a
sessant’anni
dall’avvio
della
decolonizzazione
(1947)?
Innanzitutto,
la
diffusione
delle
innovative
tecniche
agricole
inglesi
nel
sud
del
mondo
fu
ostacolata
da
condizioni
climatiche
assai
diverse:
è
stato
più
semplice
ambientare
in
Europa
riso,
mais
e
patata
che
diffondere
altrove
il
frumento.
Per
di
più,
la
bassa
densità
della
popolazione
stanziata
nelle
campagne
europee
favorì
l’adozione
di
macchine
che
aumentarono
la
produttività
delle
coltivazioni.
Le
politiche
economiche
adottate
dai
governi
metropolitani
non
cessarono
di
favorire
la
produzione
di
semilavorati
e
di
prodotti
agricoli
che
è
impossibile
coltivare
nelle
zone
temperate.
Infine,
quattro
limitazioni
contraddistinsero
ovunque
le
relazioni
commerciali
fra
colonia
e
madrepatria:
1. I
prodotti
coloniali
erano
esportabili
solo
nella
madrepatria,
che
a
sua
volta
poteva
riesportarli;
2. Nella
colonia
le
importazioni
di
merci
e
servizi
potevano
venire
solo
dalla
madrepatria;
3. Nella
colonia
era
vietato
produrre
materie
prime
e
manufatti
in
concorrenza
con
quelli
della
madrepatria;
4. Le
relazioni
commerciali,
creditizie
e
di
trasporto
tra
colonia
e
madrepatria
erano
riservate
alle
imprese
metropolitane.
8.
Da
una
guerra
all’altra
(1914-‐1945)
L’Europa
nella
prima
guerra
mondiale
La
grande
guerra
(1914-‐1918)
alterò
i
regimi
politico-‐istituzionali,
modificò
gli
assetti
sociali,
coinvolse
le
economie,
incise
pesantemente
sugli
assetti
demografici,
alterò
i
rapporti
di
forza
fra
i
partiti
ed
ebbe
conseguenze
persistenti
sulle
mentalità
collettive
e
sulle
ideologie.
L’intesa
(Serbia,
Russia,
Francia,
Inghilterra
e
Belgio)
cui
si
aggiunsero
Italia
(1915)
e
Stati
Uniti
(1917),
fronteggiò
gli
imperi
centrali:
Austria
-‐
Ungheria
e
Germania
e
dal
1917
quello
Turco
ottomano.
Il
prolungarsi
del
confronto
e
la
mobilitazione
generale
di
risorse
umane
e
materiali
accrebbero
la
domanda
di
armamenti
,
esplosivi,
proiettili,
mezzi
di
trasporto
di
terra,
navi,
aeroplani,
abbigliamento
militare,
calzature,
materiale
sanitario,
medicinali,
bendaggi
e
razioni
alimentari
per
le
truppe:
emerse
l’esigenza,
con
il
prolungarsi
del
conflitto,
di
predisporre
adeguati
rifornimenti
per
i
fronti.
Gli
ammassi
obbligatori
delle
derrate
agricole,
il
razionamento
dei
generi
alimentari,
il
contingentamento
d’importazioni
ed
esportazioni,
la
requisizione
di
mezzi
di
trasporto,
la
47
nazionalizzazione
delle
risorse
energetiche,
allargarono
la
sfera
normativa
e
amministrativa
delle
istituzioni
pubbliche
centrali
e
periferiche
sull’economia.
Iniziò,
accanto
alla
guerra
combattuta
sul
fronte,
anche
una
guerra
economica
tendente
a
colpire
il
nemico
nelle
sue
strutture
produttive
e
nei
rifornimenti
all’estero
di
materiali
energetici
e
di
beni
alimentari.
Germania
e
Austria
–
Ungheria
furono
isolate
dall’embargo
degli
alleati.
La
Germania
replicò
con
la
guerra
sottomarina.
Le
conseguenze
demografiche
Decine
di
milioni
di
uomini
presero
parte
al
conflitto.
La
guerra
moltiplicò
i
decessi
e
limitò
i
concepimenti.
Sui
fronti
morirono
9
milioni
di
soldati
e
20
milioni
furono
gli
invalidi
e
i
mutilati,
oltre
alle
6
milioni
di
vittime
civili.
Alla
fine
della
guerra
mancavano
all’appello
28
milioni
di
persone.
Alla
già
grave
situazione
si
aggiunse
una
terribile
epidemia
influenzale:
la
“spagnola”.
Le
perdite
subite
in
vari
modi
dalla
popolazione,
furono,
tra
il
1914
e
il
1921,
attorno
i
56
e
i
60
milioni
di
individui.
Le
conseguenze
politiche
I
quadri
politici
tradizionali
furono
sconvolti
e
un
po’
ovunque
i
movimenti
operai
contestarono
sia
i
tradizionali
assetti
sociali,
sia
la
proprietà
privata.
I
nuovi
stati
sorti
in
europeo
dopo
lo
smembramento
dell’impero
austro-‐ungarico
e
parte
del
russo,
non
disponevano
né
di
personale
politico,
né
di
solidi
ceti
dirigenti
borghesi.
Mancavano
quadri
sociali
che
si
interponessero
fra
la
ristretta
cerchia
dei
grandi
agrari
nobili
e
la
massa
indistinta
di
contadini
discendenti
dai
servi
della
gleba.
I
livelli
di
analfabetismo
e
disoccupazione
erano
altissimi
e
manca
una
pubblica
opinione.
Le
istituzioni
parlamentari
funzionavano
male
e
facilmente
furono
spazzate
via
da
regimi
autoritari.
I
movimenti
conservatori
e
nazionalisti
guadagnarono
una
larga
base
popolare.
Fra
il
1920
e
il
1930,
il
liberalismo
parlamentare
fu
in
vario
modo
scalzato
e
sostituito
da
regimi
autoritari
e
dittatoriali.
Gli
unici
paesi
che
non
subirono
notevoli
cambiamenti
furono
quelli
del
nord
europeo
e
dell’area
baltica:
Olanda,
Belgio,
Francia,
Gran
Bretagna
e
le
monarchie
Scandinave.
Le
conseguenze
sociali
Le
conseguenze
sui
rapporti
politici
e
sugli
assetti
sociali
furono
enormi.
Apparve
una
figura
inedita:
l’ex
combattente
reduce.
Quel
numeroso
gruppo
di
persone
era
animato
da
orgoglio
e
fierezza,
da
acceso
nazionalismo,
fedeltà
alla
memoria
dei
compagni
caduti,
ostilità
verso
le
divisioni
partitiche,
disistima
verso
la
classe
politica
e
i
sistemi
parlamentari.
I
reduci
trovarono
una
società
ben
più
polarizzata
di
quella
prebellica:
nuovi
ricchi
e
una
maggioranza
delle
vittime
degli
effetti
economici
della
guerra.
Costoro
avevano
sopportato
pesanti
tagli
del
potere
d’acquisto
dei
loro
redditi
e
del
valore
stesso
dei
titoli.
Nemmeno
il
mondo
rurale
fu
risparmiato
dalle
conseguenze
economiche
della
guerra.
Quanti
erano
considerati
marginali,
scioperati,
fannulloni,
nella
nuova
veste
di
reduci,
cominciarono
a
premere
sui
partiti
politici
portando
alla
ribalta
l’inedita
questione
economica
e
sociale
della
disoccupazione.
Le
conseguenze
economiche
Le
distruzioni
d’infrastrutture,
edifici
civili,
impianti
industriali
e
di
scorte
di
merci
si
concentrarono
soprattutto
nelle
regioni
ad
alta
densità
industriale
teatro
degli
scontri.
48
Secondo
calcoli
accurati,
le
materie
prime,
i
capitali
e
il
lavoro
sprecati
e
distrutti
nella
grande
guerra
ammontarono
alla
ricchezza
che,
in
condizioni
di
pace,
l’Europa
avrebbe
potuto
produrre
in
3-‐4
anni.
Alle
distruzioni
bisogna
aggiungere
l’abbandono
o
la
perdita
degli
investimenti
esteri.
La
Gran
Bretagna
sopportò
grandissimi
danni
alla
flotta
mercantile
e
cedette
parte
dei
suoi
investimenti
esteri
per
finanziare
lo
sforzo
bellico.
Anche
i
francesi
perdettero
gli
investimenti
esteri,
ma
gli
svantaggi
maggiori
si
concentrarono
soprattutto
nel
settore
del
debito
pubblico
e
delle
partecipazioni
azionarie
in
quei
paesi,
dove
avvennero
radicali
trasformazioni
istituzionali.
Bisogna
considerare,
inoltre,
che
i
governi
finanziarono
le
ingenti
spese
belliche
in
parte
con
una
nuova
moneta
cartacea,
che
accrebbe
la
massa
fiduciaria
esistente
causando
un
processo
inflattivo
fuori
controllo,
e
in
parte
con
il
ricorso
all’emissione
dei
titoli
del
debito
pubblico
largamente
sottoscritti
dalle
banche.
In
condizioni
davvero
difficili
erano
Germania,
Austria,
Francia,
Belgio
e
Italia.
Per
i
governi,
la
pace
portò
con
sé
il
pesante
fardello
delle
pensioni
a
favore
di
orfani
e
vedove
dei
caduti.
L’erogazione
di
indennizzi
e
sussidi
pretese
un’organizzazione
burocratica
senza
precedenti.
La
corresponsione
di
pensioni
ebbe
un
peso
rilevante
e
concorsero
a
rendere
ancora
più
difficile
il
ritorno
a
pareggio
fra
entrate
e
uscite.
Nel
caso
dei
tre
imperi
sconfitti,
gli
oneri
derivanti
da
interessi
del
debito
pubblico
e
pensioni
si
aggiunsero
alle
riparazioni
o
danni
di
guerra
importi
soprattutto
alla
Germania.
Il
difficile
ritorno
alla
normalità
Finita
la
grande
guerra,
in
Europa
il
rapporto
fra
stato
e
imprese
private
mutò
profondamente:
il
ritorno
a
condizioni
di
pace
fu
lento
e
graduale.
I
problemi
comuni
a
tutti
gli
stati
usciti
dalla
guerra
erano:
1. Ricostruire
le
infrastrutture
e
il
capitale
tecnico
distrutti
o
danneggiati;
2. Gestire
i
debiti
di
guerra
interni
e
internazionali
e
le
riparazioni
dei
paesi
sconfitti;
3. Rientrare
dall’inflazione,
ricostruire
le
riserve
d’oro
e
di
valute
estere
convertibili
in
ora
in
modo
da
ritornare
alla
base
aurea
della
moneta
e
da
ripristinare
il
gold
standard;
4. Ridurre
l’eccesso
di
capacità
produttiva
in
alcuni
settori
industriali
enormemente
cresciuti
durante
il
conflitto;
5. Attenuare
la
dilagante
disoccupazione,
reperire
risorse
per
corrispondere
sussidi
pubblici
ai
reduci
di
guerra
invalidi;
6. Limitare
le
importazioni
troppo
costose,
tenuto
conto
dell’inflazione.
Nell’immediato
dopoguerra,
ci
si
illuse
di
tornare
in
breve
al
dinamismo
economico
dei
primi
tre
lustri
del
‘900,
quando
la
produzione
era
stata
costantemente
in
crescita
e
gli
scambi
internazionali
avevano
continuato
a
lievitare.
Da
paesi
strutturalmente
esportatori
di
beni,
la
guerra
ridusse
Gran
Bretagna
e
Francia
alla
condizione
di
debitori,
mentre
gli
USA,
divenuti
il
primo
paese
esportatore
di
beni
e
di
servizi,
assunsero
il
ruolo
di
massimo
creditore.
L’effetto
più
dirompente
venne,
però,
dalle
misure
di
limitazione
e
di
quotazione
prese
dal
governo
USA
a
partire
dal
1921,
che
vennero
presi
tra
il
1923
e
il
1925
anche
da
Canada
e
Australia.
Per
tutti
gli
anni
’20,
solo
l’America
continuò
ad
accogliere
emigranti
come
prima
della
guerra.
In
Europa,
il
ritorno
dell’agricoltura
e
dell’industria
a
condizioni
produttive
analoghe
a
quelle
prebelliche,
non
fu
né
semplice
né
rapido.
Il
lento
e
stentato
ritorno
a
standard
produttivi
simili,
che
avevano
sensibilmente
accresciuto
le
rispettive
esportazioni,
favoriti
dall’esigenze
delle
nazioni
belligeranti
di
rifornirsi
e
dal
simultaneo
calo
dell’offerta
di
manufatti
dei
maggiori
paesi
industriali
impegnati
nella
guerra.
Le
relazioni
internazionali
erano
complicate
anche
dall’enormità
dei
debiti
interalleati
di
guerra:il
principale
debitore
era
la
Francia,
poi
Italia
e
Belgio.
Le
riparazioni
addossate
alla
Germania
erano
49
di
33
miliardi
di
dollari,
con
annualità
proibitive;
nel
1923
fu
ristrutturato
e
dilazionato,
anche
se
l’inflazione
proseguiva
inarrestabile.
Negli
anni
’20,
lo
sviluppo
tecnologico
e
la
diffusione
dei
moderni
processi
costruttivi
allargarono
l’offerta
sul
mercato
mondiale.
Sorsero
rivalità
e
tensioni
fra
vecchi
e
nuovi
sistemi
produttivi,
tanto
sui
mercati
interni
quanto
su
quello
internazionale.
Gli
USA
favoriti
da
quella
congiuntura,
ma
anche
il
Giappone
ne
approfittò
per
compiere
vistosi
progressi
tecnologici
e
divenire
un
serio
concorrente
su
molti
mercati
esteri
periferici
riforniti
dagli
europei
fino
al
1913.
Con
il
deprimere
le
importazioni
e
con
lo
stimolare
il
nazionalismo
economico,
la
guerra
ridusse
la
domanda
internazionale
di
manufatti
tradizionalmente
provenienti
da
alcune
precise
aree
produttive.
Nel
biennio
1925-‐26,
dappertutto
i
processi
si
ricostruzione
economica
erano
pressoché
completati
e
il
commercio
internazionale
era
in
ripresa;
quasi
ovunque
in
Europa,
però,
la
ricchezza
pro
capite
era
ancora
inferiore
a
quella
del
1913.
Non
a
caso,
i
paesi
che
dal
1919
al
1928
realizzarono
i
maggiori
tassi
di
crescita
del
PIL
furono
quelli
neutrali.
La
grande
crisi
degli
anni
‘30
Fra
il
24
e
il
29
ottobre
del
1929,
la
borsa
di
NY
subì
un
crack.
Il
crollo
dei
corsi
dei
titoli
mentre
nel
paese
c’era
un
boom
di
consumi
di
beni,
causò
i
primi
fallimenti
di
agenti
di
cambio
e
banche
che
avevano
prestato
ai
clienti
dollari
per
speculazioni
borsistiche,
mentre
il
costo
del
denaro
cresceva
notevolmente
per
scoraggiare
le
speculazioni
a
breve.
Molte
imprese
industriali
persero
più
della
metà
dei
capitali
investiti,
con
conseguenze
gravissime
sull’equilibrio
finanziario.
Dai
primi
d’agosto
del
1929,
i
prezzi
all’ingrosso
delle
materie
prime
minerali
e
agricole
avevano
cominciato
a
scendere
su
tutte
le
maggiori
piazze
internazionali.
Il
calo
dei
prezzi
delle
merci
importate
negli
USA
accelerò
quello
delle
merci
interne,
inducendo
le
imprese
industriali
a
corto
di
liquidità
a
vendere
le
scorte
di
materie
prime.
La
consistente
crescita
dell’offerta,
a
prezzi
costantemente
in
calo,
e
l’attendismo
della
domanda
avviarono
una
spirale
involutiva
che
causò
una
netta
diminuzione
del
volume
degli
affari.
Le
prime
misure
anticrisi
prese
dal
governo
per
emettere
liquidità
nel
sistema
economico
consistettero
nel
riacquisto
di
370
milioni
di
dollari
di
titoli
del
debito
pubblico
assieme
all’abbassamento
del
tasso
ufficiale
di
sconto
dal
5%
al
4,5%.
Nei
primi
mesi
del
1930,
il
presidente
Hoover
ridusse
la
pressione
fiscale
per
stimolare
la
domanda
e
varò
una
tariffa
doganale
protettiva,
che
innescò
ritorsioni
da
parte
dei
paesi
esportatori
di
merci
in
America.
Il
prezzo
del
grano
era
dimezzato,
gettando
nella
crisi
più
nera
il
mondo
rurale
statunitense
che
aveva
ancora
un
peso
notevole
nell’economia
e
nella
politica
nazionale.
La
percentuale
di
disoccupati
dal
3,7%
del
1929
era
passata
al
24,9%
1933.
Il
crollo
della
borsa
americana
contagiò
le
piazze
europee.
Dai
primi
mesi
del
1930
si
ebbero
insolvenze
e
fallimenti
a
catena.
I
numerosi
licenziamenti
causarono
un
crollo
della
domanda
dei
prodotti
industriali
e
un
progressivo
calo
dei
prezzi.
A
una
decina
d’anni
dalla
fine
della
guerra,
sotto
la
pressione
dell’opinione
pubblica,
istituzioni
e
meccanismi
a
suo
tempo
per
fronteggiare
le
emergenze
belliche
furono
ripristinati
nell’intento
di
contrastare
una
crisi
senza
precedenti
nella
storia
economica
mondiale
perché
deflazione
e
disoccupazione
non
si
erano
mai
presentate
insieme
per
un
periodo
così
lungo.
Contemporaneamente
calavano
le
entrate
fiscali
e
cresceva
la
spesa
pubblica
per
indennità
di
disoccupazione.
Il
capovolgimento
da
paese
creditore
a
paese
debitore
mise
in
crisi
la
fiducia
nella
sterlina
come
stabile
mezzo
di
pagamento
internazionale.
Il
calo
di
valore
della
maggiore
valuta
internazionale
colpì
gli
interessi
di
quei
paesi
che
avevano
anche
riserve
in
sterline
(Gold
Exchange
Standard).
La
50
situazione
divenne
insostenibile
e
il
21
settembre
1931
il
governo
inglese
decise
di
sospendere
la
convertibilità
in
oro
della
sterlina.
Era
la
fine
del
gold
standard.
Cinque
mesi
dopo,
il
Parlamento
inglese
ripristinò
le
Corn
Laws,
abrogate
nel
1846.
Era
la
fine
del
liberoscambismo.
25
paesi
seguirono
la
sterlina
nel
suo
ribasso.
Per
tutti
gli
altri
fu,
di
fatto,
una
rivalutazione
delle
rispettive
monete
dell’ordine
del
40%,
con
effetti
depressivi
sui
prezzi
interni
che
continuarono
a
diminuire.
Negli
USA
i
prezzi
delle
materie
prime
subirono
cali
oscillanti
fra
il
10%e
il
34%.
Il
20
aprile
del
1933,
F.
D.
Roosevelt
svalutò
il
dollaro
senza
sganciarlo
dall’oro
e
avviò
una
politica
economica
e
sociale
dirigista,
chiamata
New
Deal,
che
introdusse
misure
in
materia
di
disoccupazione,
anzianità,
casa
mutua
malattia,
orario
di
lavoro,
salario
minimo,
lavoro
minorile,
prelevano
risorse
dalla
tassazione
dei
grandi
patrimoni.
Le
misure
anticrisi
all’epoca
adottate
nei
diversi
paesi
furono:
1. L’abbandono
del
gold
standard
e
la
svalutazione
della
moneta;
2. L’avvio
di
grandi
lavori
pubblici
ad
alto
impiego
di
fattore
lavoro;
3. Controlli
dei
cambi
per
evitare
deficit
della
bilancia
dei
pagamenti
e
cali
del
potere
d’acquisto
internazionale
delle
monete
nazionali;
4. Tariffe
doganali
più
alte;
5. Politiche
orientate
allo
sfruttamento
autarchico
delle
risorse
nazionali
e
dei
prodotti
del
paese;
6. Trattati
commerciali
con
i
maggiori
partner
allo
scopo
di
contingentare
i
generi
e
i
valori.
Dal
biennio
1933-‐34,
alcuni
governi,
avviando
un’intensa
politica
di
rinnovo
e
ampliamento
degli
armamenti,
sostennero
i
settori
siderurgico,
cantieristico,
metalmeccanico,
automobilistico
e
aeronautico.
Le
politiche
economiche
e
sociali
in
alcuni
paesi
europei
In
Gran
Bretagna,
dal
1934
il
governo
intervenne
a
sostegno
dei
settori
minerario,
cotoniero
e
dei
cantieri
navali.
Dal
1937
furono
offerti
incentivi
alle
imprese
che
s’installavano
in
aree
economicamente
depresse.
Furono
promosse
costruzioni
immobiliari,
piani
regolatori
urbani
e
di
sviluppo
di
nuovi
centri.
In
Francia,
il
governo
mantenne
il
gold
standard
e
tentò
una
politica
di
deflazione
controllata.
Il
ribasso
dei
prezzi
fece
aumentare
i
disoccupati
e
calare
i
profitti,
mentre
i
costi
di
produzione
erano
il
lenta
discesa.
Gli
agricoltori
furono
i
più
colpiti
dal
ribasso
dei
e
dalla
perdita
dei
loro
risparmi
per
fallimento
di
molte
banche
locali.
Con
la
vittoria
del
fronte
popolare
si
abbandonò
la
parità
aurea,
svalutò
il
franco
e
avviò
opere
pubbliche.
Nel
1937,
per
effetto
delle
misure
governative,
fu
raggiunto
il
pieno
impiego
della
forza
lavoro.
La
Svezia
non
ricorse
al
protezionismo,
né
attivò
pratiche
monetarie
deflattive.
Il
governo
regolò
la
spesa
pubblica
per
controbilanciare
le
fluttuazioni
dell’economia.
Nel
1933
quasi
un
quarto
dei
disoccupati
aveva
un
impiego
statale
sostitutivo.
Furono
varati
lavori
pubblici
lanciando
prestiti
redimibili.
Dopo
il
1935,
i
lavori
pubblici
furono
ininterrotti
e
i
prestiti
rimborsati
accrescendo
la
liquidità
a
disposizione
del
sistema.
Il
basso
costo
del
denaro
favorì
l’edilizia
abitativa
e
gli
investimenti
migliorativi
nelle
industrie.
La
ripresa
delle
esportazioni
di
prodotti
industriali
fece
da
traino
all’economia
generale.
La
Svezia
fu
il
primo
paese
ad
applicare
un’attiva
quanto
efficace
politica
economica
anticiclica:
la
miscela
di
misure
più
efficaci
fu
escogitata
e
messa
in
atto
in
Svezia.
I
regimi
totalitaristi
accrebbero
il
reddito
pro
capite
ad
un
ritmo
compreso
tra
il
+4,4%
e
il
+4,6%
l’anno.
Lo
stesso
Giappone
realizzi
nel
decennio
1929-‐1938
un
tasso
di
crescita
da
decollo
industriale.
51
Tra
i
paesi
europei
industrializzati,
solo
la
Gran
Bretagna
non
smise
di
crescere
nonostante
le
difficoltà
e
le
contrarietà
interne
e
internazionali.
I
totalitarismi
(1917-‐1945)
Dopo
la
prima
GM,
l’itinerario
politico
verso
la
democrazia
fu
arrestato
in
molti
paesi
dall’eliminazione
dei
partiti
e
dalla
presa
del
potere
da
parte
di
un
solo
partito
politico.
Il
totalitarismo,
come
esperienza
comune
al
comunismo
sovietica
(1917),
al
fascismo
italiano
(1922)
e
al
nazionalsocialismo
(1933),
fu
un
tragico
esperimento
di
dominio
politico
attuato
da
un
partito
rivoluzionario
guidato
da
un
capo
carismatico
che
instaurò
un
regime
a
partito
unico,
fondato
sul
terrore
e
sulla
demagogia
populistica,
assoggettò
la
popolazione
irriggimentandola
in
organizzazioni
proprie
e
impose
la
propria
ideologia
come
una
religione
politica
di
massa.
Ogni
regime
totalitario
presenta
sei
elementi
distintivi:
1. Il
partito
e
la
sua
ideologia;
2. L’assoggettamento
e
il
controllo
delle
forze
armate;
3. L’organizzazione
di
una
polizia
segreta
e
la
repressione/eliminazione
fisica
degli
oppositori:
4. La
propaganda
insistita,
la
censura
e
il
controllo
dei
mass
media;
5. Il
culto
della
personalità
del
capo,
identificato
come
eroe-‐dio
mitico;
6. Il
controllo
dell’economia
attraverso
una
politica
economica
dirigista
e/o
di
pianificazione
che
limita
e
programma
l’economia
di
mercato
o
la
sostituisce
del
tutto
con
una
gestione
burocratica
delle
relazioni
economiche
interne
e
con
l’estero.
Nell’ottobre
del
1917,
quando
scoppiò
la
rivoluzione
a
San
Pietroburgo,
la
Russia
conservava
una
struttura
sociale
arcaica
e
un’agricoltura
tradizionale
e
arretrata.
Nel
grande
paese
si
erano
sviluppate
solo
le
infrastrutture
pubbliche
e
la
grande
industria
con
capitali
esteri.
Al
principio,
i
bolscevichi
si
limitarono
a
istituire
consigli
operai
con
lo
scopo
di
controllare
le
decisioni
operative
degli
imprenditori.
Le
reazioni
di
questi
ultimi,
nel
1918,
indussero
Lenin
a
nazionalizzare
le
banche,
le
grandi
industrie,
le
imprese
che
commerciavano
con
l’estero
e
a
cancellare
l’ingente
frazione
del
debito
pubblico
ereditato
dallo
zar
in
mano
a
investitori
esteri.
Il
partito
optò
per
uno
sfruttamento
collettivista
dei
suoli
appartenenti
alla
borghesia
e
alla
nobiltà.
Per
sopprimere
il
mercato,
il
governo
organizzò
ammassi
pubblici
dei
prodotti
di
base
e
ne
impose
la
distribuzione
in
natura,
con
effetti
pratici
catastrofici.
L’economia
andò
incontro
a
una
totale
paralisi
anche
perché
era
in
corso
una
guerra
civile,
sicché
il
governo
fu
costretto
fu
costretto
a
rivedere
radicalmente
la
sua
politica
economica.
Introdotta
da
Lenin
nel
1921,
la
nuova
politica
economica
(NEP)
ripristinò
la
proprietà
privata
contadina
e
quelle
delle
imprese
industriali
che
impiegava
fino
a
venti
addetti.
Fu
ripristinato
l’uso
della
moneta
e
permesso
ai
piccoli
produttori
artigianali
e
contadini
di
vendere
i
loro
prodotti
direttamente.
La
NEP
ebbe
successo.
La
produzione
crebbe.
Nelle
campagne,
l’emergere
di
una
classe
di
contadini
arricchiti
dalla
produzione
per
la
vendita,
i
kulaki,
fu
visto
dal
governo
come
segnale
del
ritorno
dell’odiato
capitalismo.
Dal
1928,
Stalin
abbandonò
la
NEP
e
decise
la
socializzazione
del
commercio
e
la
collettivizzazione
delle
terre,
ingaggiando
una
lotta
senza
quartiere
con
i
kulaki.
Nei
primi
30
anni,
la
liquidazione
dei
kulaki
come
“classe”
procedette
senza
soste
né
pietà,
causando
molti
milioni
di
morti.
Nella
Russia
rurale
divampò
una
vera
e
propria
lotta
contadina
che
innescò
feroci
repressioni
da
parte
dell’esercito,
e
dal
1933
indusse
Stalin
a
rallentare
il
ritmo
della
collettivizzazione
dei
suoli.
Nel
1928,
fu
inaugurata,
inoltre,
la
politica
di
pianificazione
economica
sistematica
della
produzione
e
distribuzione
della
ricchezza,
poi
proseguita
fino
al
1957.
La
politica
di
piano
era
ispirata
a
tre
principi
generali:
52
1. Lo
spirito
di
partito;
2. Il
centralismo
democratico,
che
prevedeva
una
divisione
di
responsabilità
fra
centro
e
periferia;
3. Il
principio
settoriale:
ogni
impresa
statale
dipendeva
da
un
ministero
tecnico,
secondo
la
natura
della
produzione.
Nel
1930
si
procedette
alla
collettivizzazione
della
terra
completata
in
10
anni.
Da
quel
momento
comparvero
i
kolkoz,
le
grandi
fattorie
cooperative,
e
i
sovkoz,
le
fattorie
statali.
Le
aziende
industriali
governative,
dalla
fine
degli
anni
’30
furono
raggruppate
in
trust,
che
comprendevano
le
imprese
appartenenti
al
medesimo
settore
produttivo
oppure
in
Combinat
che
integravano
verticalmente
le
aziende.
Le
aziende
commerciali
erano
di
due
generi:
i
negozi
di
stato
e
le
cooperative
di
consumo.
Le
cooperative
agricole
ricevevano
dallo
stato
in
possesso
grandi
fattorie
di
alcune
migliaia
di
ettari,
simili
ai
latifondi
nobiliari
d’epoca
zarista.
I
kolkoz,
piccoli
appezzamenti
coltivati
individualmente,
contemperavano
l’individuo
contadino
con
il
collettivismo
socialista.
L’incentivo
del
tornaconto
individuale
manteneva
alte
le
rese
nel
kolkoz.
I
sovkoz,
enormi
aziende
statali
di
circa
8000
ettari
l’una,
erano
assai
più
rari.
Vi
lavoravano
operai
salariati,
in
tutto
paragonabili
alla
manodopera
industriale.
Le
disponibilità
di
macchine
(capitale)
assieme
a
un’agricoltura
estensiva,
accresceva
la
produttività
del
lavoro.
Gli
effetti
economici
del
primo
piano
quinquennale
(1928-‐1933)
sono
impressionanti.
Gli
economisti
occidentali
hanno
calcolato
che
il
tasso
annuo
di
crescita
si
aggirasse
attorno
al
13-‐
15%.
Anche
il
settore
edilizio
ebbe
uno
sviluppo
vistoso.
Nell’insieme,
la
produzione
industriale
fu
moltiplicata
per
otto
volte
e
mezzo.
Non
bisogna
peraltro
dimenticare
che
la
programmazione
coercitiva
di
Stalin
era
simile
a
“un’economia
di
guerra”
e
che
la
Russia
andò
del
tutto
esente
dagli
effetti
devastanti
sugli
apparati
industriali
occidentali
della
crisi
del
1929.
Alla
fine
della
seconda
GM,
il
paese
rifiutò
gli
aiuti
del
piano
Marshall
e
rilanciò
la
pianificazione
economica
(1946-‐1951).
Nel
1949
la
produzione
sovietica
aveva
già
riguadagnato
i
livelli
della
vigilia
della
guerra,
ma
dopo
la
morte
di
Stalin
(marzo
1953),
riemersero
le
disastrose
condizioni
dell’agricoltura,
il
settore
economico
sino
allora
più
trascurato.
Dagli
anni
’60,
l’agricoltura
cominciò
a
registrare
preoccupanti
cali
produttivi
di
cereali,
carne
e
latte.
Il
basso
tenore
di
vita
della
popolazione
di
un
paese
ormai
economicamente
avanzato
posa
la
questioni
di
riorganizzare
i
principi
stessi
della
pianificazione,
attribuendo
la
stessa
dignità
alla
produzione
di
beni
di
consumo
rispetto
a
quella
di
beni
strumentali
e
armamenti.
Mentre
l’economia
sovietica
dal
1930
al
1960
aveva
sperimentato
una
costante
espansione,
dal
1960
al
1989
andò
progressivamente
incontra
al
ristagno.
Quando,
dagli
anni
’50,
l’economia
capitalista
si
dedicò
al
soddisfacimento
della
crescente
domanda
privata
di
elettrodomestici,
automobili,
elettronica,
aeronautica
civile,
chimica
farmaceutica
comunicazioni,
l’URSS
non
riuscì
a
imitarla.
I
flussi
del
commercio
estero
russo
da
e
verso
il
mondo
capitalistico
occidentale,
testimoniano
efficacemente
il
progressivo
deterioramento
cui
andò
incontro
l’economia
sovietica
esportatrice
soprattutto
di
beni
primari,
gas
naturale
e
petrolio,
e
importatrice
di
derrate
alimentari,
metalli
e
prodotti
chimici.
Dopo
il
crollo
del
1989,
l’economia
russa
andò
incontro
al
disastro.
Nel
giro
di
pochi
anni
il
PIL
dimezzò.
L’economia
fu
distrutta
da
manovre
speculative
della
nomenklatura,
dalle
prescrizioni
astrattamente
liberistiche
del
Fondo
Monetario
Internazionale
(FMI),
da
alcuni
economisti
53
occidentali
e
dai
loro
colleghi
russi,
inesperti
di
capitalismo,
chiamati
a
ruoli
di
grande
responsabilità.
L’eredità
permanente
dello
statalismo
sovietico
ha
distrutto
la
società
civile.
Il
radicamento
della
democrazia
è
difficile
in
un
mondo
orfano
di
un’identità
collettiva,
dove
i
flussi
del
potere
e
del
denaro
condizionano
le
istituzioni
economiche
e
sociali
emergenti.
La
Russia
attuale
somiglia
in
maniera
impressionante
allo
zarismo
primo
novecentesco.
L’economia
autarchica
di
uno
stato
dirigista:
l’Italia
1922-‐1945
Alla
fine
del
1922,
Benito
Mussolini
ricevette
dal
re
l’incarico
di
formare
il
governo.
Le
prime
misura
economiche,
di
carattere
liberista,
favorirono
l’alta
finanza
e
la
borghesia
industriale
e
agraria.
Il
governo
abolì
il
monopolio
statale
delle
assicurazioni
sulla
vita,
diminuì
l’imposta
patrimoniale
ed
eliminò
quella
di
successione
per
i
discendenti
diretti.
Furono
ridotti
i
dazi
doganali
sulle
importazioni
e
la
produzione
agricola
migliorò.
Dal
1925
il
governo
abbandonò
la
politica
liberista
fino
allora
praticata
e
ne
avviò
una
di
risanamento
monetario
di
crescente
protezionismo
e
dirigismo
statale.
Con
il
1925
fu
inaugurata
una
politica
agricola
volta
a
migliorare
la
condizione
produttiva
del
settore
primario.
Mussolini
bandì
la
“battaglia
del
grano”
con
l’obiettivo
di
raggiungere
l’autosufficienza
produttiva
dell’alimento
base
della
popolazione
per
non
dover
dipendere
da
massicce
importazioni.
Nel
1926,
dopo
l’emanazione
delle
“leggi
fascistissime”,
la
Banca
d’Italia
ebbe
l’esclusiva
del
diritto
d’emissione
di
cartamoneta.
Nel
1927
fu
ripristinato
il
gold
Exchange
standard:
la
misura
era
una
premessa
per
la
rivalutazione
della
lira.
La
lira
fu
innegabilmente
sopravvalutata.
La
domanda
estera
calò
e
la
struttura
produttiva
nazionale
fu
orientata
a
produrre
per
il
mercato
domestico,
riducendo
violentemente
l’apertura
verso
l’economia
internazionale.
Prezzi
al
consumo,
stipendi
e
salari
diminuirono
senza
apprezzabili
vantaggi
per
i
consumatori
e
la
disoccupazione
triplicò.
Grazie
al
ripristino
di
un
dazio
protettivo
sul
grano,
l’Italia
arrivò
a
reperire
all’estero
un
quarto
del
grano
importato
10
anni
prima.
L’ampliamento
della
superficie
destinata
a
frumento
danneggiò
le
altre
colture
e
l’alto
prezzo
del
pane
abbatté
i
consumi
interni
di
derrate
agricole
e
manufatti.
La
“battaglia
del
grano”,
tuttavia,
stimolò
la
produzione
nazionale
di
trattori,
macchine
agricole
e
fertilizzanti
chimici,
anche
perche,
nel
1928,
fu
varata
la
legge
di
bonifica
integrale,
che
prevedeva
la
collaborazione
fra
stato
e
proprietari
fondiari
per
prosciugare
palude
acquitrini
e
trasformarli
in
campagne
modernamente
coltivate.
Negli
anni
‘320,
le
banche
miste
italiane
erano
gli
azionisti
di
controllo
delle
maggiori
imprese
industriali.
La
crisi
finanziaria
ne
dissestò
i
bilanci
e
minò
la
fiducia
della
clientela
depositante.
Alla
fine
del
1931,
il
Credito
Italiano
(CREDIT)
e
la
banca
Commerciale
Italiana
(COMIT)
cedettero
le
loro
partecipazioni
azionarie
a
due
società
finanziare
controllate
dalla
Banca
d’Italia
e
si
impegnarono
a
cessare
di
svolgere
operazioni
tipiche
delle
banche
universali.
Con
la
fondazione
dell’IRI
(Istituto
per
la
Ricostruzione
Industriale)
nel
1933,
il
governo
affrontò
il
problema
della
riorganizzazione
tecnica,
economica
e
finanziaria
delle
attività
industriali
acquisite
dalle
banche
miste.
Dal
1937
l’IRI
fu
un
organo
permanente
di
gestione
delle
partecipazioni
azionarie
dello
stato
nei
settori
commerciale,
industriale
e
creditizio
del
paese.
Nel
settore
elettrico,
da
solo
o
in
partecipazione
con
privati,
lo
Stato
controllava
la
rete
del
mezzogiorno.
54
Lo
stimolo
alla
concentrazione
industriale
prodotto
dalla
crisi
si
estese
anche
alle
imprese
private,
mentre
si
moltiplicavano
consorzi
o
cartelli
tra
i
produttori
dei
diversi
settori
al
fine
di
eliminare
la
concorrenza
e
di
sostenere
i
prezzi.
Il
governo
stesso
incoraggiò
la
costituzione
di
consorzi,
quando
non
lo
rese
addirittura
obbligatori
nel
giugno
del
1932.
I
consorzi
obbligatori
in
un
grande
numero
di
settori
agricoli
o
industriali
assicurarono
ai
produttori
posizioni
monopolistiche,
e
abbaterono
anche
l’efficienza
produttiva
del
sistema.
In
conclusione,
dai
primi
anni
’30,
quanto
al
livello
di
statalizzazione
dell’economia,
l’Italia
fu
seconda
solo
alla
Russia.
Il
risanamento
del
sistema
bancario,
avviato
nel
1926,
fu
concluso
nel
1936.
Gli
istituti
che
operavano
in
più
di
30
province
furono
definite
“banche
d’interesse
nazionale”
(COMIT,
CREDIT,
Banco
di
Roma)
abilitate
a
concedere
solo
finanziamenti
a
breve
termine.
Nacquero
poi
gli
Istituti
di
Credito
di
Diritto
Pubblico
e,
come
ultime,
la
Banche
di
Credito
Ordinario.
La
chiusura
delle
frontiere
di
numerosi
paese
in
condizioni
economiche
critiche,
creò
difficoltà
crescenti
alle
imprese
esportatrici;
per
di
più
l’aumento
dei
disoccupati
e
la
diminuzione
dei
salari,
ebbero
effetti
depressivi
anche
sulla
domanda
interna.
Alla
fine
del
1935,
la
Società
Delle
Nazioni
proclamò
l’embargo
su
armi
e
munizioni
e
vietò
ai
paesi
membri
le
importazioni
di
merci
italiane
e
la
concessione
di
prestiti
dia
parte
di
banche
straniere.
La
risposta
di
Mussolini
fu
la
proclamazione
dell’autarchia,
vale
a
dire
la
produzione
nazionale,
per
imitazione,
di
quei
beni
di
consumo
che
non
si
sarebbero
più
potuti
importare.
Così
l’economia
italiana
venne
a
trovarsi
in
una
condizione
d’isolamento,
e,
in
occasione
della
seconda
GM,
nel
mondo
industriale
della
penisola
non
accade
nulla
di
paragonabile
a
quanto
era
avvenuto
fra
il
1915
e
il
1918,
ai
tempi
della
generale
mobilitazione
dopo
l’entrata
nella
fornace
della
grande
guerra.
Il
nazionalsocialismo
tedesco
(1933-‐1945)
La
repubblica
parlamentare
e
federale
sorta
dalla
sconfitta
tedesca,
dal
1919
fu
governata
dai
socialisti
e
dai
loro
alleati
di
centro.
Parlamento,
partiti
e
la
politica
stessa
furono
però
oggetto
di
un
irriducibile
disprezzo
da
parte
di
quanti
attribuivano
alla
compattezza
e
alla
disciplina
un
valore
primario
e
che
nel
confronto
delle
differenti
opinioni
vedevano
un
lusso
insopportabile.
Concretezza,
ordine
e
dignità
erano
valori
irrinunciabili
proclamati
a
ogni
piè
sospinto
dalla
destra.
Nel
1920,
il
centrosinistra
perse
le
elezioni.
Nel
1922
fu
assassinato
Walter
Rathenau,
industriale
illuminato
di
origine
ebraica
favorevole
alla
partecipazione
operaia
alla
gestione
delle
imprese
e
ministro
degli
esteri.
Nel
1923,
le
truppe
belghe
e
francesi
entrarono
nella
Ruhr
per
costringere
i
padroni
di
casa
a
spedire
oltre
confine
convogli
ferroviari
di
carbone
in
parziale
pagamento
delle
riparazioni
di
guerra.
Gli
anni
dal
1923
al
1928
furono
relativamente
tranquilli
anche
perché
fu
raggiunto
un
onorevole
compromesso
sulla
questione
delle
riparazioni.
Il
partito
nazionalsocialista
di
Adolf
Hitler
si
convertì
alla
legalità
ma
non
riuscì
a
ottenere
in
controllo
dell’elettorato
di
destra.
Gli
effetti
a
distanza
della
crisi
di
Wall
Street,
diffuse
sfiducia
nella
repubblica
parlamentare
presso
gran
parte
dell’elettorato.
Alle
elezioni
del
1930,
i
nazionalsocialisti
raccolsero
6
milioni
e
mezzo
di
suffragi
contro
i
600.000
ottenuti
nel
1928.
Una
guerra
civile
strisciante
accrebbe
il
prestigio
delle
Squadre
d’Assalto
naziste
presso
l’elettorato
conservatore.
Nel
gennaio
1933
Hitler
ricevette
dal
presidente
della
Repubblica
Hindenburg
l’incarico
di
formare
il
governo
in
alleanza
al
centrodestra.
Messi
fuori
legge
i
comunisti
e
ottenuta
l’investitura
55
popolare
con
nuove
elezioni,
Hitler
sciolse
tutti
i
partiti
tranne
il
suo
e
attuò
energici
processi
centralizzazione
del
potere,
eliminando
l’articolazione
federale
dello
stato.
Nel
1934,
Hitler
cumulò
alla
carica
di
cancelliere
quella
di
presidente
della
repubblica,
concentrando
ogni
potere
nelle
sue
mani.
Dopo
il
1932,
l’economia
tedesca
realizzò
la
ripresa
più
rilevante
fra
quelle
dei
paesi
economicamente
avanzati.
La
disoccupazione
era
scesa;
in
seguito
furono
soppressi
i
sindacati,
razionate
le
risorse.
I
nazisti
lanciarono
un
vasto
programma
di
lavori
pubblici.
Gli
effetti
positivi
sull’occupazione
e
la
domanda
non
si
fecero
attendere.
Dal
1934
lo
sforzo
fu
concentrato
sul
riarmo
e
sui
preparativi
remoti
di
una
nuova
guerra.
La
spesa
statale
aumentò
consistentemente,
mentre
veniva
avviata
una
pianificazione
economica
selettiva.
Il
prelievo
fiscale
fu
inasprito
per
spostare
risorse
dai
consumi
alla
produzione.
Lo
sforzo
industriale
del
riarmo
garantì
grandi
commesse
statali
alle
industrie
siderurgiche,
cantieristiche,
metalmeccaniche
e
chimiche.
Il
governo
divenne
il
maggior
investitore
e
il
maggior
consumatore
dell’economia
nazionale.
La
Germania
stabilì
relazioni
commerciali
offrendo
loro
la
possibilità
di
pagare
con
materie
prime
e
prodotti
agricoli
le
importazioni
di
manufatti
e
di
macchinari
tedeschi.
La
penetrazione
economica
germanica
spianò
la
strada
alla
conquista
politica
e
militare
dei
paesi
partner.
Austria
e
Cecoslovacchia
furono
annesse
al
Reich
Hitleriano
nel
1938-‐1939
e,
di
lì
a
poco,
la
conquista
della
Polonia
avrebbe
innescato
lo
scoppio
della
seconda
guerra
mondiale.
La
seconda
guerra
mondiale
e
le
sue
conseguenze
La
guerra
del
1939-‐1945
fu
totale
in
un
duplice
senso:
perché
ebbe
un’estensione
geografica
davvero
mondiale
e
durò
68
mesi
in
Europa
e
44
mesi
in
Asia,
dove
cominciò
nel
1941
con
l’attacco
a
Pearl
Harbour,
e
finì
con
il
bombardamento
atomico
sul
Giappone
nel
1945.
Fu
una
guerra
generale
con
mobilitazione
altrettanto
generale;
militari
e
civili
ne
furono
equamente
coinvolti
e
ne
seguirono,
in
molti
casi,
guerre
partigiane.
Per
la
prima
volta
vi
furono
anche
bombardamenti
a
tappeto
sulle
periferie
industriali
delle
città.
Pianificazione
e
controllo
centralizzato
delle
risorse
economiche
dei
paesi
belligeranti
furono
molto
più
estesi
di
quanto
fosse
avvenuto
con
la
grande
guerra,
anche
per
effetto
degli
interventi
statali
avviati
negli
anni
’30
con
i
programmi
di
politica
economica
e
sociale
anticrisi.
Dovunque,
lo
sforzo
bellico
fu
realizzato
operando
in
tre
principali
direzioni:
1. Accrescendo
la
produzione;
2. Contenendo
i
consumi
privati
a
favore
di
quelli
pubblici;
3. Rinunciando
a
nuovi
investimenti
e
tralasciando
di
rinnovare
le
infrastrutture
e
il
capitale
tecnico
logorato
dall’uso
e
dal
passare
del
tempo.
Il
massimo
sforzo
economico
per
la
guerra
fu
sostenuto
dagli
USA
che
produssero,
impiegarono
e
distribuirono
agli
alleati
un
terzo
di
tutti
i
mezzi
adoperati
nei
combattimenti.
Fu,
insomma,
un
vero
e
proprio
boom.
Massicci
e
nuovi
investimenti
realizzati
negli
USA
accrebbero
del
50%
la
capacità
produttiva
dell’industria
rispetto
alle
condizioni
precedenti
il
1939.
La
Gran
Bretagna
destinò
metà
della
ricchezza
annualmente
prodotta
al
finanziamento
della
guerra.
Per
contro,
fino
agli
ultimi
mesi
di
guerra,
l’economia
tedesca
trasse
vantaggio
dal
conflitto.
La
Germania
impose
pesanti
tributi
alle
popolazioni
dei
territori
occupati.
Il
Reich
risucchiò
risorse
e
popolazione
attiva
non
solo
dalle
regioni
occupate,
ma
anche
da
quei
paesi
alleati
con
la
Germania.
I
peggiori
effetti
sulle
economie
nazionali
dell’occupazione
germanica
si
ebbero
in
Polonia,
Belgio,
Francia,
Olanda
e
Grecia.
L’invasione
tedesca
devastò
l’economia
russa,
che
perche
circa
la
metà
del
proprio
potenziale
industriale
entro
i
primi
due
ani
di
guerra.
I
livelli
di
vita
crollarono.
56
La
seconda
GM
causò
direttamente
dai
37
ai
44
milioni
di
morti,
17
dei
quali
caddero
in
combattimento.
Tra
i
morti
civili
(da
20
a
27
milioni)
rientrano
anche
i
quali
7
milioni
di
ebrei
e
le
centinaia
di
migliaia
di
zingari,
omosessuali
e
testimoni
di
Geova
vittime
dello
sterminio
nazista.
Le
conseguenze
territoriali,
riguardarono
soprattutto
la
Germania,
ed
ebbero
effetti
sulle
economie
dei
vari
paesi.
La
Germania,
divisa
in
due,
cessò
di
essere
la
prima
potenza
economica
del
continente
e
la
Russia
ne
prese
il
posto.
Gli
USA
accrebbero
la
loro
posizione
di
economia
dominante
e
creditrice,
a
differenza
di
quanto
era
accaduto
nel
primo
dopoguerra,
e
si
comportarono
di
conseguenza.
Nel
luglio
del
1944,
a
Bretton
Woods,
nel
New
Hampshire,
con
i
rappresentanti
degli
alleati
si
riunirono
quelli
di
44
paesi
per
disporre
misure
atte
a
evitare
che
l’ormai
imminente
fine
della
guerra
e
il
ritorno
a
un’economia
di
pace
provocassero
crisi
e
disagi
economici
analoghi
a
quelli
intervenuti
nel
1920-‐1921,
ivi
fu
deciso
di:
1. Creare
la
Banca
Internazionale
per
la
Ricostruzione
e
lo
Sviluppo
(BIRS),
detta
anche
Banca
Mondiale,
per
incoraggiare
investimenti
esteri
a
lungo
termine
e
che
oggi
aiuta
i
paesi
economicamente
arretrati;
2. Creare
il
Fondo
Monetario
Internazionale
(FMI),
che
avrebbe
svolto
un
ruolo
fondamentale
nel
mantenere
la
stabilità
dei
cambi
fra
valute
e
nel
risolvere
problemi
collegati
alla
bilancia
dei
pagamenti;
3. Promuovere
la
liberalizzazione
degli
scambi
internazionali:
nel
1947,
23
paesi
diedero
origine
al
General
Agreement
on
Tariffs
and
Trade
(GATT),
che
ebbe
un
ruolo
fondamentale
nel
processo
di
riduzione
delle
barriere
doganali.
Solo
nel
1995
sarebbe
sorta
l’Organizzazione
Mondiale
del
Commercio
(WTO).
9.
Ricostruzione,
sviluppo
e
maturità
(1945-‐1973)
La
ricostruzione
postbellica
Nel
giugno
1945,
le
poche
fabbriche
europee
rimaste
in
pieni
erano
prive
di
macchinari
e
materie
prime.
Le
vie
di
comunicazione
erano
interrotte
o
danneggiate.
L’agricoltura
subì
ovunque
cali
dei
raccolti.
La
mancanza
di
riserve
d’oro,
di
valute,
di
credito
internazionale
impedivano
le
importazioni
di
beni
indispensabili.
Pesanti
deficit
dei
conti
statali,
alti
livelli
d’indebitamento
interno
ed
esterno,
cartamoneta
sovrabbondante
rispetto
ai
volumi
degli
scambi,
ovunque
dominavano
il
quadro
finanziari.
Nel
1947,
gli
USA
completarono
la
trasformazione
della
loro
industria
di
guerra
in
un
apparato
produttivo
civile
senza
conseguenze
negative
sull’occupazione.
L’intervento
dell’UNRRA
(United
Nations
Relief
and
Rehabilitation
Administration),
avviato
fin
dal
1944
per
occorrere
le
popolazioni
europee
che
uscivano
dalla
guerra,
cessò
nel
giugno
1947,
quando
il
vecchio
continente
era
ancora
lontano
dall’aver
ricostruito
e
riavviato
le
proprie
economie
nazionali
e
usava
i
dollari
avuti
in
prestito
per
le
importazioni
cereali
indispensabili
a
sfamare
le
popolazioni.
Sempre
nel
giugno
1947,
il
segretario
americano
George
Marshall
presentò
un
imponente
piano
ERP
(European
Recovery
Program)
di
aiuti
diretti
ai
paesi
dell’Europa
occidentale
per
impedire
che
ricadessero
nell’autarchia
e
nel
protezionismo
e
smettessero
di
acquistare
materie
prime,
macchinari
e
manufatti
industriali
statunitensi,
causando
una
crisi
economica
di
là
dall’Atlantico.
Il
governo
americano
attribuì
anche
al
piano
il
compito
di
rafforzare
il
commercio
internazionale
intereuropeo;
il
governo
americano
trasferì
in
Europa
15,7
miliardi
di
dollari,
12
dei
quali
a
titolo
57
gratuito.
Il
piano
prevedeva
anche
la
cooperazione
tra
i
destinatari
degli
aiuti,
riuniti
nell’OECE
(Organizzazione
Europea
per
la
Cooperazione
Economica)
che
avrebbe
controllato
la
compatibilità
dei
piani
nazionali
di
utilizzo
degli
aiuti
e
incentivato
gli
scambi
fra
partner
che
ristabilivano
relazioni
economiche.
Gli
USA
contribuirono
a
riavviare
le
economie
europee
e
a
promuovere
le
esportazioni
in
modo
da
controbilanciare
le
importazioni
di
derrate
agricole
e
di
materie
prime.
Le
relazioni
fra
paesi
debitori
e
paesi
creditori
furono
garantite
dal
FMI
e
dalla
BIRS.
Dopo
l’istituzione
del
GATT,
l’accordo
generale
sulle
tariffe
di
commercio
internazionale,
alla
fine
del
1947,
quasi
la
metà
del
commercio
mondiale
era
esente
da
intralci
protezionisti.
Dei
tre
stati
usciti
perdenti
dalla
guerra,
l’Italia
era
quello
economicamente
meno
malandato.
A
distanza
di
5
anni
dalla
fine
del
conflitto,
Germania
e
Giappone
si
erano
riportati
ai
due
terzi
della
ricchezza
prodotta
alla
vigilia
del
conflitto.
L’Italia,
invece,
aveva
costantemente
superato
la
media
europea
comprendente
paesi
rimasti
imparziali
che
avevano
beneficiato
della
loro
neutralità.
Le
politiche
di
sostegno
alla
ripresa
Le
misure
prese
dai
governi
dell’Europa
occidentale,
diedero
un’energica
spinta
al
rilancio
delle
rispettive
economie
grazie
a
un’inedita
combinazione
di
pubblico
e
privato
chiamata
“economia
mista”.
Si
trattava
di
escogitare
i
modi
più
efficaci
per
riavviare
i
processi
di
crescita
economica
inceppatisi
fin
dal
1914.
La
teoria
economica
giuda
fu
identificata
nelle
tesi
di
John
Maynard
Keynes
proposte
nel
1936
con
il
celebre
trattato
Teoria
generale
dell’occupazione,
dell’interesse
e
della
moneta.
Keynes
affermò
che
un’economia
in
crisi
era
incapace
di
auto
correggersi
per
riportarsi
in
equilibrio.
Era
dunque
necessario
l’intervento
attivo
dei
governi
per
stimolare
l’impiego
di
fattori
disponibili
e
inutilizzati.
Si
avrebbero
così
evitare
crisi
economiche
catastrofiche
operando
attraverso
tre
leve:
1. Politica
monetaria;
2. Spesa
pubblica
-‐deficit
di
bilancio-‐
per
distribuire
reddito
e
creare
domanda
aggiuntiva;
3. Diminuzione/aumento
della
pressione
discale
per
sostenere
il
risparmio
e
la
domanda.
Le
linee
generali
di
politica
economica
perseguite
dai
diversi
governi
sono
riconducili
ai
seguenti
principi:
1. Concentrare
gli
investimenti
nelle
industrie
di
base,
così
da
ottenere
incrementi
di
produttività,
di
volumi
prodotti
e
di
esportazioni;
2. Accordare
priorità
agli
investimenti
rispetto
ai
consumi;
3. Stimolare
il
risparmio,
rendere
il
credito
per
investimenti
facile
e
a
buon
mercato;
4. Investire
in
risorse
pubbliche;
5. Controllare
l’inflazione
attraverso
la
leva
fiscale
sulla
domanda,
tassando
i
profitti
non
reinvestiti
e
contenendo
i
salari;
6. Promuovere
le
esportazioni
e
contenere
le
importazioni
perché
i
paesi
europei
mancavano
di
riserve
di
dollari
e
di
oro
per
aumentare
il
commercio
internazionale.
Nonostante
i
gravi
danni,
i
tempi
della
ricostruzione
si
rivelarono
nettamente
più
brevi
di
quelli
pretesi
dal
primo
dopoguerra.
Due
settori,
in
particolare,
realizzarono
alti
tassi
di
crescita:
l’industria
e
l’agricoltura.
Le
forze
politiche
esprimevano
dappertutto
forti
istanze
riformistiche.
Furono
numerosi
i
mutamenti
istituzionali
orientati
alla
democrazia.
Furono
tendenze
politiche
comuni
a
tutta
l’Europa
occidentale:
58
1. Suffragio
universale,
il
sistema
elettorale
proporzionale
(tranne
la
GB),
regimi
assembleari
reputati
garanti
dei
principi
democratici,
governi
in
posizione
di
soggezione
rispetto
alle
assemblee
parlamentari;
2. Realizzazione
di
riforme
economiche
strutturali,
come
le
nazionalizzazioni
di
grandi
imprese
industriali
e
di
servizi;
3. Progressi
di
carattere
sociale
come
la
ricostruzione
dei
sindacati
e
la
loro
unità
d’azione,
l’introduzione
di
assegni
familiari
e
della
scala
mobile
dei
salari
per
attenuare
l’effetto
inflazionistico
sul
potere
d’acquisto
dei
lavoratori
dipendenti;
Verso
l’economia
mista
Nel
1949,
gli
esperti
ONU
avevano
previsto
che
la
produzione
industrial
sarebbe
aumentata
fra
il
40%
e
il
60%.
Gli
aiuti
americani,
la
crescente
liberalizzazione
degli
scambi
fra
partner
europei,
gli
investimenti
migliorativi
e
delle
tecniche
produttive
e
il
massiccio
intervento
diretto
e
indiretto
dei
governi,
interagendo
e
rafforzandosi
a
vicenda,
spiegano
come
la
ricostruzione
abbia
potuto
favorire
l’avvento
di
un
processo
di
generale
sviluppo
economico,
dovunque
prolungatosi
dai
primi
anni
’50
ai
primi
anni
’70.
L’economia
mista
ebbe
5
obiettivi
espliciti:
1. Il
pieno
impiego
del
fattore
lavoro;
2. L’utilizzo
dell’intera
capacità
produttiva
esistente;
3. La
stabilità
dei
prezzi;
4. L’aumento
dei
salari
legato
a
miglioramenti
della
produttività
del
lavoro;
5. L’equilibrio
della
bilancia
dei
pagamenti.
Con
il
passare
del
tempo,
alla
preoccupazione
d’attenuare
le
oscillazioni
cicliche
congiunturali,
subentrò
quella
di
programmare
la
crescita
economica
a
lungo
termine.
L’accoglimento
dell’economia
mista
pose
anche
la
questione
del
ruolo
statale
nel
favorire
una
distribuzione
equa
del
benessere
su
tutta
la
popolazione.
I
governi
ebbero
un
crescente
ruolo
nei
trasferimenti
di
ricchezza
drenata
per
mezzo
dell’imposizione
fiscale
proporzionale
sui
patrimoni
e
progressiva
sui
redditi.
Furono
approvate
leggi
sui
salari
minimi,
sull’edilizia
pubblica,
sull’istruzione
obbligatoria,
sulla
sanità
e
sulla
previdenza
sociale.
L’economia
mista
fu
inaugurata
procedendo
a
nazionalizzazioni
d’imprese
strategiche.
L’azione
economica
del
governo
laburista
britannico
puntò
soprattutto
sul
pieno
impiego
del
fattore
lavoro.
Nel
1952
i
conservatori
allentarono
i
controlli
sui
prezzi
e
salari
e
privatizzarono
i
trasporti
su
strada
e
parte
della
siderurgia
e
nel
1962
crearono
il
Consiglio
di
sviluppo
economico
nazionale.
Gli
interventi
più
incisivi
riguardarono
la
ricerca
tecnologica
e
l’istituzione
di
scuole
professionali.
In
Germania
ci
fu
un
netto
rifiuto
della
politica
dirigista
perché
evocava
quella
nazista.
Essi
presero
come
modello
un’economia
di
mercato
a
sfondo
sociale
e
fu
lanciata
una
politica
favorevole
alle
piccole
imprese.
Nel
1948
fu
riformata
la
moneta
e
furono
ridotte
le
imposte
sul
reddito
personale
e
sugli
utili
delle
società.
La
politica
neoliberista
rimase
in
sostanza
a
livello
di
dichiarazioni
d’intenti
finché,
dal
1948,
il
piano
Marshall
e
la
ricostruzione
a
tappe
forzate
pretesero
l’intervento
dello
stato.
Nel
corso
degli
anni
’50
le
eccedenze
del
bilancio
governativo
furono
destinate
al
miglioramento
dell’assistenza
sociale,
alla
tutela
dell’ambiente
e
alle
pensioni
d’anzianità.
Nel
1967
il
Parlamento
tedesco
votò
una
legge
che
impegnava
il
governo
a
promuovere
la
stabilità
dei
prezzi
e
dei
salari
e
la
crescita
dell’economia
mediante
una
pianificazione
quinquennale
dei
59
bilanci
pubblici,
l’istituzione
di
un
consiglio
di
esperti
economici
e
l’adozione
di
una
politica
dei
redditi.
Sul
finire
degli
anni
’50,
l’accesso
delle
esportazioni
al
mercato
mondiale
e
l’avvio
delle
CEE
(Comunità
Economica
Europea),
segnarono
il
tramonto
del
Neoliberismo
germanico.
In
Svezia,
Paesi
bassi,
Belgio
e
Austria
l’economia
mista
prese
corpo
attraverso
la
sistematica
consultazione
delle
parti
sociali
da
parte
dei
governi.
I
venticinque
anni
d’oro
(1949-‐1973)
Fra
il
1949
e
la
crisi
petrolifera
di
metà
anni
’70,
l’economia
europea
e
mondiale
visse
un
periodo
di
sviluppo
economico
e
sociale
senza
precedenti.
A
progressiva
liberalizzazione
degli
scambi
internazionali
svolse
un
ruolo
decisivo
perché
l’ammontare
di
derrate
agricole,
di
materie
prime
metalliche
ed
energetiche
,
di
semilavorati
e
di
prodotti
finiti
scambiati
fra
paesi
continuò
ad
aumentare
senza
interruzioni.
La
crescente
produzione
di
merci
e
servizi
fu
il
risultato
combinato
di
massicci
investimenti
di
capitale
tecnologico
e
dell’aumento
di
manodopera
impiegata
nei
settori
secondario
e
terziario,
dovuto
tanto
alla
crescita
della
popolazione,
quanto
allo
spostamento
da
settori
a
bassa
produttività
a
settori
ove
l’alta
produttività
era
favorita
dalla
crescente
intensità
di
capitale
tecnologico.
Gran
Bretagna
e
USA
non
disponevano
quasi
di
riserve
di
manodopera
perché
avevano
completato
le
trasformazioni
strutturali
delle
rispettive
agricolture
nella
prima
metà
del
‘900,
investendovi
massicce
quote
di
capitale
e
ottenendo
consistenti
risparmi
di
fattore
lavoro.
Gli
alti
prezzi
interni
dei
beni
alimentari
agirono
da
freno
al
trasferimento
massiccio
e
repentino
di
manodopera
dal
primario
all’industria
e
ai
servizi,
consentendo
altresì
l’accumulo
di
potere
d’acquisto
e
di
risparmio
presso
larga
parte
della
popolazione
rurale.
Per
di
più
i
governi
avviarono
o
riavviarono
il
processo
di
meccanizzazione
dell’agricoltura
e
di
aggiornamento
agronomico
delle
tecniche
produttive.
I
massicci
investimenti
in
capitale
produssero
sensibili
aumenti
della
produttività
perché
si
trattava
soprattutto
di
“ingegneria
del
miglioramento”,
cioè
di
applicazioni
ai
processi
produttivi
esistenti
degli
accorgimenti
e
delle
attrezzature
usate
negli
Stati
Uniti
negli
anni
’30
e
’40.
Gli
investimenti
ebbero
effetti
stimolanti
sulla
produttività
del
lavoro
e
sulla
crescita
economica
complessiva
di
tutti
i
paesi,
in
particolare,
i
tre
paesi
usciti
sconfitti
dalla
guerra
realizzarono
i
maggiori
progressi
in
virtù
di
una
miscela
di
fattori
economici,
sociali
e
culturali.
In
Europa
e
Giappone,
crebbero
vistosamente
i
consumi
di
beni
industriali
durevoli
mentre
andava
affermandosi
per
gradi
la
società
del
benessere.
Mentre
in
Europa
e
Giappone
il
settore
economico
più
dinamico
diveniva
il
secondario,
nell’economia
americana
il
settore
protagonista
cominciava
a
essere
il
terziario.
La
supremazia
tecnologica
statunitense
nel
campo
della
organizzazione
e
della
gestione
aziendale
indusse
le
grandi
imprese
multinazionali
ad
aprire
filiali
in
quei
paesi
dove
stava
profilandosi
il
compimento
della
seconda
rivoluzione
industriale.
A
spingere
gli
investimenti
statunitensi
in
Europa
occidentale
e
in
Giappone
concorsero
anche
le
leggi
antitrust
e
la
super
valutazione
del
dollaro,
fino
al
1971,
nei
confronti
delle
valute
europee
e
dello
yen
giapponese.
L’Italia
paese
industriale
Dalla
ricostruzione
allo
sviluppo
60
Nel
triennio
1945-‐1947,
l’Italia
era
un
paese
in
crisi
economica,
politica
e
sociale.
Aveva
subito
danni
al
materiale
ferroviario,
alle
strade,
ai
porti,
al
naviglio
mercantile,
ai
ponti,
alle
reti
elettriche,
telefoniche
e
telegrafiche.
Rallentamento
della
crescita
e
deindustrializzazione
Dopo
una
lunga
fase
di
stabilità,
durata
fino
al
1966,
dal
1967
al
1971,
nei
maggiori
paesi
i
prezzi
rincararono
di
quasi
il
5%
l’anno.
L’inflazione
causò
un
ripiegamento
della
domanda
aggregata
e
un
rallentamento
delle
produzioni.
L’aumento
del
27%
del
prezzo
del
petrolio
greggio
rinforzò
le
tendenze
inflazionistiche.
Fu
però
il
primo
shock
petrolifero
dell’ottobre
del
1973
a
fornire
un
propellente
formidabile
alla
tendenza
rialzista
degli
indici
generali
dei
prezzi
i
quali
sumentarono
in
media
del
13,2%.
Tra
ottobre
1980
e
novembre
1981,
l’oro
nero
raggiunse
i
34
dollari
al
barile,
19
volte
il
prezzo
di
undici
anni
prima.
La
febbre
inflazionistica
provocata
dall’embargo
parziale
da
parte
dei
paesi
arabi
produttori
contro
i
paesi
europei
nell’occasione
della
guerra
fra
arabi
e
israeliani
(1973)
durò
all’incirca
un
decennio.
Un’inflazione
d’intensità
senza
precedenti
in
periodi
di
pace,
comportò
aumenti
medi
annui
dei
prezzi
del
9,1%.
L’inflazione
galoppante
(1972-‐1983)
produsse
una
serie
di
contraccolpi:
1. Depresse
il
valore
delle
monete
misurato
in
dollari,
la
valuta
di
riferimento
per
i
pagamenti
internazionali,
a
sua
volta
ancorata
all’oro.
Il
15
agosto
1971
il
presidente
americano
Nixon
decise
di
sospendere
la
convertibilità
delle
banconote
in
oro;
da
quel
momento
finiva
una
storia
millenaria
e
l’oro
diventava
una
merce
qualsiasi,
per
quanto
rara
e
pregiata;
2. I
valori
delle
singole
monete
fluttuarono
liberamente
secondo
le
condizioni
del
mercato,
ma
il
dollaro
continuò
a
essere
la
moneta
di
riferimento
per
le
altre
monete
sul
mercato
internazionale;
3. Altro
effetto
riguarda
i
bilanci
statali.
Il
rallentamento
della
crescita
e
l’aumento
della
spesa
pubblica
causarono
in
tutti
i
bilanci
statali
deficit
annuali
più
o
meno
pesanti;
molti
bilanci
chiusero
in
disavanzo
costringendo
i
governi
a
ricorrere
a
prestiti
onerosi;
4. Sul
mercato
dei
capitali,
la
concorrenza
alle
imprese
da
parte
dei
governi
rese
molto
più
oneroso
il
costo
del
denaro;
5. La
crescita
del
debito
pubblico
e
dei
tassi
d’interesse
corrisposti
dagli
stati
aggravò
ulteriormente
i
disavanzi;
6. Dal
1974
la
disoccupazione
cominciò
a
crescere
senza
interruzioni
fino
al
1983.
Dopo
di
allora,
fino
ai
gironi
nostri,
essa
non
è
significativamente
diminuita.
La
risposta
dei
governi
ai
bilanci
pubblici
in
deficit
strutturale
fu
la
privatizzazione
d’imprese
industriali
pubbliche
e
di
servizi
pubblici.
In
GB,
dal
1980,
il
primo
ministro
conservatore
M.
Thatcher
privatizzò
imprese
che
nell’insieme
impiegavano
600.000
persone.
Negli
anni
’90,
alcuni
governi
cedettero
a
privati
perfino
i
servizi
sociali.
Dalla
metà
degli
anni
’80,
fra
le
imprese
private
ci
sono
state
molte
migliaia
di
fusioni-‐acquisizioni,
specie
fra
aziende
attive
in
paesi
diversi
e
con
spostamento
delle
attività
manifatturiere
del
Terzo
Mondo.
Dalla
metà
degli
anni
’70
in
Europa
occidentale,
e
dai
primi
anni
’70
negli
USA,
il
settore
tessile
è
declinato
avendo
perduto
la
metà
degli
addetti
che
contava
trent’anni
prima
(1965).
A
cominciare
dagli
ultimi
anni
’60
un
processo
analogo
ha
interessato
la
siderurgia
e
l’elettronica
di
prima
generazione,
con
spostamenti
da
regioni
d’antica
industrializzazione
a
paesi
di
più
recente
sviluppo,
come
Giappone,
Corea
del
Sud,
India,
Spagna
e
brasile.
61
Alla
stessa
epoca,
fenomeni
simili
riguardarono
la
produzione
di
radio
e
di
apparecchi
televisivi,
macchine
fotografiche
e
cineprese.
Il
regresso
ha
pesantemente
riguardato
i
settori
tradizionali
a
basso
contenuto
tecnologico,
come
il
tessile,
l’abbigliamento
e
la
siderurgia.
In
ogni
caso,
nessun
settore
produttivo
fa
eccezione
alla
tendenza
generale.
All’origine
delle
rilocalizzazioni
industriali
agiscono
tre
fattori:
1. Differenti
livelli
salariali;
2. Disponibilità
o
meno
di
manodopera
addestrata;
3. Abbattimento
delle
dogane
su
prodotti
industriali
esteri,
con
dimezzamento
delle
tariffe
tra
i
primi
anni
’50
e
i
primi
anni
’60.
Conflitti
e
integrazioni
di
fine
secolo
Gli
shock
petroliferi
degli
anni
’70
spinsero
i
paesi
sviluppati
occidentali
a
incrementare
le
loro
esportazioni
nel
tentativo
di
controbilanciare
il
maggior
esborso
a
favore
dei
produttori/venditori
di
petrolio
greggio.
Intorno
al
1970,
le
esportazioni
dei
paesi
sviluppati
occidentali
si
aggiravano
attorno
al
10%
della
ricchezza
prodotta
ogni
anno
del
mondo.
Gli
USA
sono
il
paese
che
più
di
ogni
altro
ha
ampliato
la
propria
quota
di
esportazioni,
più
che
raddoppiando
la
sua
percentuale
dal
1970
al
2004.
Nell’insieme,
i
paesi
dell’UE
sono
cresciuti,
ma
non
va
trascurato
che
da
6
iniziali
sono
diventati
25
e
che
l’unione
doganale
ha
stimolato
anzitutto
gli
scambi
interni.
Una
dinamica
del
genere
spiega,
fra
l’altro,
perché
il
concetto
di
mondializzazione
o
globalizzazione
abbia
molto
più
credito
di
là
dall’Atlantico
che
nel
vecchio
continente.
Il
terzo
protagonista
dell’economia
nazionale,
il
Giappone
all’inzio
degli
anni
’90
era
di
molto
cresciuto.
Nell’insieme,
comunque,
agli
inizi
dell’ultimo
decennio
del
XX
secolo,
il
37,9%
delle
esportazioni
mondiali
erano
appannaggio
della
“triade”
USA,
UE,
Giappone
e
sorge
il
sospetto
che
i
maggiori
esportatori
facciano
dumping
(vendevano
all’estero
a
prezzi
inferiori
rispetto
a
quelli
interni)
per
sfruttare
appieno
le
capacità
produttive
e
organizzative
delle
loro
imprese.
Tra
il
1990
e
il
2004,
mentre
il
Giappone
arretrava
parecchio,
gli
USA
e
ancor
di
più
l’UE
guadagnavano
terreno
trascinati
dalle
importazioni
delle
economie
asiatiche,
in
vistosa
e
prolungata
crescita
dalla
metà
degli
anni
’80.
Oltre
alle
merci,
anche
i
servizi
interscambiati
tra
paesi
sviluppati
hanno
registrato
tassi
d’incremento
notevoli;
nel
ventennio
1970-‐1990,
i
più
dinamici
furono
i
Giapponesi.
Un
ultimo
aspetto
delle
relazioni
economiche
internazionali
merita
di
essere
accennato:
quello
degli
investimenti
esteri
di
capitale.
I
paesi
europei
hanno
raddoppiato
i
loro
investimenti
dal
1980
al
1995
preferendo
puntare
sulle
regioni
economicamente
evolute
piuttosto
che
su
quelle
in
via
di
sviluppo.
Gli
USA,
dall’inizio
degli
anni
’70,
sono
divenuti
i
maggiori
destinatari
d’investimenti
stranieri
diretti.
In
tal
modo,
con
il
passare
del
tempo,
gli
investimenti
statunitensi
all’estero
sono
andati
equilibrandosi
con
quelli
esteri
realizzati
negli
USA,
al
punto
che
nel
1995,
il
valore
complessivo
dei
primi
superava
solo
di
un
quarto
quello
dei
secondi.
La
crescente
concentrazione
dei
tre
quarti
degli
investimenti
di
capitali
dei
paesi
ricchi
nelle
economie
dei
medesimi
paesi
ricchi
ha
accentuato
l’interdipendenza
fra
le
diverse
economie
più
avanzate.
Protagoniste
d’investimenti
esteri
volti
alla
delocalizzazione
sono
soprattutto
le
imprese
multinazionali.
62
Le
multinazionali
coprono
i
due
terzi
del
commercio
mondiale.
Se,
nell’insieme,
si
può
parlare
di
mondializzazione
dell’economia,
non
v’è
tuttavia
alcun
dubbio
che
si
tratti
di
un
processo
che
riguarda
prevalentemente
le
imprese
dei
paesi
ricchi,
nei
quali
vive
e
opera
solo
il
22%
della
popolazione
del
globo.
Conviene,
infine,
gettare
uno
sguardo
agli
indici
dell’andamento
della
ricchezza
prodotta
dal
1971
al
2005
nei
sei
paesi
più
ricchi.
La
ricchezza
prodotta
ha
smesso
di
crescere
tra
il
1991
e
il
1996
dappertutto
tranne
che
in
Gran
Bretagna.
La
rivoluzione
tecnologica
delle
comunicazioni
sembra
favorire
i
paesi
in
via
di
sviluppo
molto
più
di
quelli
solidamente
sviluppatisi
con
l’economia
misto
dopo
la
seconda
GM.
Analogamente,
gli
USA,
che
erano
giunti
alla
maturità
economica
prima
dello
scoppio
della
seconda
GM,
crebbero
più
lentamente
e
meno
bruscamente
calarono
sul
finire
del
secondo
millennio.
Sembra
che
la
maturità
renda
meno
reattive
le
economie
e
troppo
alti
i
costi
d’impianto
d’infrastrutture
e
di
tecnologie
avanzate,
senza
parlare
del
personale
tecnico
e
scientifico
necessario
per
convertire
e
mantenere
le
strutture
innovative.
(inserire
paragrafo
da
219
a
222)
10.
L’Unione
Europea
tra
passato
e
futuro
Alle
Origini
dell’Europa
dei
sei
(1948-‐1972)
Quando
il
secondo
conflitto
mondiale
volgeva
al
termine,
la
maggioranza
delle
forze
democratiche
dell’Europa
occidentale
comprese
che
era
indispensabile
rimuovere
i
nazionalismi
contrapposti
di
Francia
e
Germania
che
avevano
insanguinato
il
vecchio
continente
per
ben
tre
volte.
Per
di
più,
la
collaborazione
fra
stati
dell’Europa
occidentale
avrebbe
favorito
l’avvento
di
un’entità
terza
tra
le
due
grandi
potenze,
USA
e
URSS,
alleate
in
guerra,
ma
irriducibili
avversarie
quanto
a
strutture
politiche,
economiche
e
sociali.
Le
condizioni
delineatesi
dalla
fine
della
guerra,
con
l’avvio
del
bipolarismo
est-‐ovest,
spinsero
i
paesi
europei
verso
l’integrazione
sotto
l’incentivo
del
piano
di
aiuti
americani
per
la
ricostruzione
e
la
liberalizzazione
degli
scambi.
Nel
1948
a
l’Aia,
politici
e
diplomatici
europei
si
incontrarono
per
discutere
le
misure
da
prendere:
era
indispensabile
fuggire
la
tentazioni
di
umiliare
la
Germania
e
occorreva
contrastare
il
blocco
dei
paesi
comunisti
centroeuropei,
con
un
fronte
di
paesi
democratici
stabili
ed
economicamente
forti.
L’Organizzazione
Europea
di
Cooperazione
Economica
(OCSE),
creata
a
Parigi
nel
1948
per
coadiuvare
‘attuazione
del
Piano
Marshall,
promosse
le
liberalizzazione
dei
commerci
attraverso
l’eliminazione
di
tre
ostacoli
storici:
l’inconvertibilità
delle
monete,
i
contingentamenti
o
le
restrizioni
quantitative
alle
importazioni
e
i
pesanti
dazi
all’entrata.
Infine,
la
NATO(North
Atlantic
Treaty
Organisation,
comprendente
Belgio,
Danimarca,
Francia,
Islanda,
Italia,
Lussemburgo,
Norvegia,
Paesi
Bassi,
Portogallo,
Gran
Bretagna,
USA
e
Canada),
stipulata
a
Washington
nella
primavera
del
1949,
assicurò
un
ombrello
militare
anti
URSS
ai
paesi
dell’Europa
Occidentale.
L’Unione
Europea
dei
Pagamenti
(UEP)
dal
1950
permise
di
semplificare
le
relazioni
monetarie
fra
paesi
aderenti,
utilizzando
come
valute
di
riserva
l’oro
e
i
dollari
dispensati
dal
piano
di
aiuti.
In
tal
modo,
era
assicurata
la
piena
convertibilità
delle
valute
e
facilitata
la
ripresa
di
scambi
multilaterali.
I
sei
paesi
fondatori
della
Comunità
Europea
del
Carbone
e
dell’Acciaio
(CECA,
operativa
dal
1952)
vale
adire
le
materie
prime
all’epoca
indispensabili
per
avviare
e
consolidare
63
un
processo
di
crescita
industriale,
si
unirono
per
eliminare
i
dazi
doganali
e
per
decidere
i
prezzi
e
le
quote
di
produzione
secondo
lo
stile
di
un
cartello
internazionale.
La
Germania
era
il
massimo
produttore
europeo
di
carbone,
la
Francia
era
seconda
solo
all’URSS
in
quella
del
ferro
e
dipendeva
dal
carbone
tedesco
per
la
sua
siderurgia.
L’accordo
permise
alla
Germania
di
superare
i
controlli
delle
potenze
occidentali
occupanti
sulla
sua
industria
pesante
e
di
avviare
una
sua
solida
ricostruzione
economica
e
politica.
Tutta
l’industria
carbosiderurgica
europea
era
in
tal
modo
sottoposta
a
controllo
e
fruiva
di
vantaggi
economici
e
tecnologici.
Nel
1972,
il
volume
prodotto
entro
i
confini
della
CECA
era
quintuplicato
rispetto
ai
valori
del
1948.
Nel
1955,
i
sei
paesi
della
CECA
decisero
si
studiare
la
possibilità
di
approdare
a
un’unione
economica
più
completa.
Al
termine
di
lunghe
trattative,
il
25
marzo
1957,
i
sei
fondatori
della
CECA
stipularono
a
Roma
il
trattato
EURATOM,
per
coordinare
il
nascente
settore
strategico
dell’energia
nucleare
e
soprattutto
fondarono
la
Comunità
Economica
Europea
(CEE,
detta
anche
“Mercato
Comune”,
ideata
dal
francese
Jean
Monnet)
che
avrebbe
gradualmente
abolito
i
dazi
fra
i
sei
paesi
e
che
avrebbe
creato
un’area
nella
quale
i
prodotti
industriali
e
agricoli,
i
servizi,
le
persone
e
i
capitali
si
sarebbero
mossi
liberamente,
difesi
da
una
comune
tariffa
estera.
Le
istituzioni
ideate
furono
la
BEI,
il
Fondo
Sociale
e
il
FEOGA.
Tra
il
1957
e
il
1968,
il
processo
d’integrazione
delle
CEE
procedette
soprattutto
eliminando
gli
ostacoli
al
libero
commercio.
Nel
1968
la
riduzione
dei
dazi
doganali
era
stata
realizzata
e
funzionava
un
mercato
comune
dei
prodotti
industriali
e
di
quelli
agricoli
di
quasi
200
milioni
di
consumatori.
La
politica
statunitense
di
stabilità
monetaria
e
di
liberalizzazione
degli
scambi
inaugurata
negli
anni
’40
coadiuvò
la
crescita
del
Mercato
Comune
Europea
tanto
da
convincere
paesi
prima
scettici
a
chiedere
e
ottenere
di
entrarne
a
far
parte.
Negli
anni
’60,
l’accelerazione
subita
dal
processo
di
integrazione
economica
verso
uno
stato
federale
suscitò
reazioni
di
netta
resistenza
al
trasferimento
di
quote
di
sovranità
a
Bruxelles.
Le
reazioni
più
energiche
vennero
da
C.
De
Gaulle,
ma
nel
1973,
dopo
la
scomparsa
del
presidente
francese,
la
Gran
Bretagna,
orfana
del
suo
impero
coloniale,
insieme
a
Irlanda
e
Danimarca
entrò
nella
comunità.
La
politica
di
bilancio
(1970-‐2006)
I
volume
del
bilancio
comunitario
è
relativamente
modesto.
La
limitata
dimensione
è
giustificata
sia
dall’esclusiva
competenza
dei
singoli
paesi
riguardo
ai
maggiori
capitoli
di
spesa
pubblica
quali
Stato
Sociale
(pensioni
e
sanità),
istruzione
e
difesa.
Dopo
qualche
inutile
tentativo
di
sostituire
i
contributi
finanziari
dei
singoli
stati
con
risorse
proprie,
nel
1970
furono
approvate
disposizioni
che
cambiarono
la
logica
di
funzionamento
del
bilancio.
I
contributi
nazionali
fissi
furono
sostituiti
dalle
seguenti
entrate
proprie,
il
cui
tetto
era
fissato
dagli
stati
membri:
1. Dazi
doganali
e
altri
diritti
riscossi
sulle
importazioni
provenienti
dall’esterno
della
Comunità;
2. Prelievi
variabili
sulle
importazioni
di
prodotti
agricoli
allo
scopo
di
portarne
i
prezzi
ai
livelli
di
quelli
interni;
3. Quota
dell’imposta
sul
valore
aggiunto
(IVA)
prelevato
da
ogni
paese
fino
a
un
massimo
dell’1%.
L’ammontare
delle
risorse
proprie
così
raccolte
si
rivelò
presto
insufficiente
per
fronteggiare
i
molti
e
crescenti
bisogni
della
Comunità.
64
L’impresa
di
identificare
fonti
aggiuntive
e
di
farle
approvare
divenne
impraticabili
poiché
la
Gran
Bretagna
si
oppose
a
un
aumento
delle
contribuzioni,
e
pretese
di
ridurre
il
suo
contributo.
Per
venire
incontro
alle
richieste
inglesi,
nel
1975
e
nel
1979
furono
adottati
meccanismi
di
compensazioni
rivelatisi
macchinosi
e
difficilmente
gestibili
da
Bruxelles.
Finalmente,
nel
1984,
un
Consiglio
svoltosi
a
Fontainebleau
sbloccò
la
situazione,
riconoscendo
implicitamente
un
principio
d’equità
circa
i
contributi
netti
di
ogni
paese
al
bilancio
comunitario.
I
buoni
propositi
dichiarati
di
ridurre
la
percentuale
di
risorse
destinate
alla
PAC
non
furono
messi
in
pratica,
per
di
più
l’iperinflazione
durata
per
un
lungo
periodo
causò
un
calo
in
termini
reali
sia
dei
contribuiti
in
entrata,
sia
delle
erogazioni
del
bilancio
comunitario.
Nel
1988,
in
occasione
del
Consiglio
Europea
s
Bruxelles,
fu
decisa
una
radicale
riforma
del
bilancio
a
partire
da
una
“quarta
risorsa”
identificata
in
un
contributo
di
ogni
paese
proporzionale
al
PIL;
secondariamente
fu
elevata,
fino
a
un
massimo
dell’1,2%
del
PIL
globale,
l’incidenza
nel
bilancio
annuale
delle
risorse
proprie
entro
il
1992.
In
terzo
luogo,
dalla
parte
delle
uscite,
per
controllare
l‘incessante
lievitazione
dei
contributi
della
PAC,
furono
introdotti
“stabilizzatori
di
bilancio”
che
penalizzavano
quei
paesi
le
cui
produzioni
superavano
le
“quantità
massime
garantite”,
fissate
per
limitare
l’offerta
così
da
assicurare
prezzi
remunerativi
agli
agricoltori.
Infine,
fu
deciso
di
accrescere
i
finanziamenti
dei
fondi
strutturali
che
ridistribuivano
a
livello
regionale
risorse
promotrici
di
crescita
economica
e
di
qualificazione
professionale,
partendo
dalla
misura
del
PIL
pro
capite
locale.
Con
il
passare
del
tempo,
il
prelievo
proporzionato
al
PIL
divenne
il
principale
contributo
in
entrata
del
bilancio,
mentre
i
gettiti
dei
dazi
doganali
e
dei
prelievi
agricoli
diminuivano.
Il
peso
crescente
della
“quarta
risorsa”
ha
permesso
di
abbattere
i
contributi
derivanti
dall’aliquota
IVA:
per
questa
ragione
il
Consiglio
Europeo
di
Berlino
nel
1999,
dispose
una
progressiva
diminuzione
dell’aliquota
massi
d’IVA
che
dall’1%
passò
allo
0,75%
del
2002
e
allo
0,5%
del
2004.
Dal
2000
le
spese
dell’UE
si
distinguono
in
sette
capitoli.
In
ordine
decrescente
d’importo
essi
sono
i
seguenti:
1. PAC;
2. Fondi
Strutturali:
accanto
alla
PA
svolgono
il
ruolo
di
redistribuzione
di
risorse
a
vantaggio
delle
regioni
economicamente
più
arretrate;
3. La
spesa
per
Politiche
Interne;
4. Le
Spese
per
ricerca
sono
svolte
a
migliorare
le
capacità
scientifiche
e
tecnologiche
dell’industria
comunitaria
e
promuoverne
la
competitività.
Ne
sono
favoriti
i
paesi
più
ricchi
e
le
regioni
tecnologicamente
più
avanzate;
5. Spese
per
Azioni
esterne;
6. Riserva
monetaria
e
riserve
per
garanzia;
7. Aiuti
preadesione:
sono
spese
a
favore
di
quei
paesi
in
attesa
di
entrar
a
far
parte
della
UE.
Le
tappe
dell’ampliamento
(1973-‐2004)
Negli
anni
’80
entrarono
a
far
parte
della
comunità
i
tre
paesi
mediterranei
relativamente
più
arretrati:
Grecia
(1981)
e
Spagna
e
Portogallo
(1986),
portando
il
numero
dei
membri
a
12.
Tra
i
nuovi
arrivati
il
Portogallo
era
il
più
povero.
L’obiettivo
della
totale
libertà
di
circolazione
dei
fattori
della
produzione
doveva
essere
raggiunto
il
1°
gennaio
1993.
Il
libero
movimento
delle
persone
suppone
che
sia
possibile
stabilirsi
temporaneamente
o
definitivamente
in
un
qualsiasi
paese
della
Comunità
del
quale
non
si
è
cittadini
per
prestarvi
lavoro
e
per
soggiornarvi.
La
libertà
di
circolazione
fu
attuata
dal
1968,
con
un
anno
di
anticipo
sulla
data
prevista.
65
Entrato
in
vigore
nel
1987,
l’Atto
unico
europeo
modificò
il
trattato
di
Roma
ampliando
le
competenze
degli
istituti
comunitari,
ma
soprattutto
istituendo
dal
1993
un
vero
e
proprio
“mercato
unico”.
L’altra
grande
novità
istituzionale
e
procedurale
fu
il
superamento
del
voto
unanime
per
quello
a
maggioranza
dei
ministri
dei
paesi
membri
che
siedono
in
Consiglio.
Proprio
quando
l’Europa
accelerava
l’integrazione
economica
e
politica,
nel
novembre
1989
il
paesaggio
geopolitico
mutò
improvvisamente.
La
riunificazione
della
Germania
derivante
dal
crollo
dell’impero
sovietico
e
dei
suoi
satelliti
scombinò
l’equilibrio
faticosamente
raggiunto.
La
nuova
Germania
unificata
assumeva
un
peso
decisivo
nel
contesto
della
Comunità
e
dell’Europa
intera
e
rievocava
un
fantasma
che
si
credeva
ormai
scomparso.
La
risposta
alla
sfida
si
tradusse
in
un
rafforzamento
delle
istituzioni
europee.
Appoggiata
dalla
Gran
Bretagna,
la
Germania
promosse
e
ottenne
l’ingresso
di
Austri,
Svezia
e
Finlandia
e
fu
progettata
una
politica
di
stabilizzazione
dei
paesi
ex
comunisti
del
centro
Europa
così
da
frapporre
un
cuscinetto
di
sicurezza
tra
Russia
e
Germania.
Nel
1990,
a
Schengen
(Lussemburgo)
fu
stipulata
una
convenzione
tra
Belgio,
Francia,
Germania,
Lussemburgo,
Paesi
Bassi
Portogallo
e
Spagna
che
prevedeva
la
progressiva
abolizione
dei
controlli
di
frontiera
fra
i
paesi
firmatari,
compresa
la
libertà
di
movimento
per
quei
cittadini
extracomunitari
che
legittimamente
varchino
la
frontiera
di
uno
qualsiasi
dei
paesi
della
Comunità.
L’allargamento
dell’accordo
fu
graduale
e
stentato.
Anche
i
capitali
andavano
trasferiti
in
qualsiasi
momento,
dove
fossero
economicamente
più
utilizzati:
la
realizzazione
di
questo
progetto
fu
lungamente
intralciata
dal
controllo
dei
cambia
delle
monete
da
parte
degli
stati.
Un’ulteriore
liberalizzazione
avvenne
con
il
trattato
di
Maastricht
e,
infine,
con
l’introduzione
della
moneta
unica
all’inizio
del
2002.
Anche
l’itinerario
di
avvicinamento
alla
moneta
unica
è
stato
accidentato
e
difficile.
Il
primo
piano
al
riguardo
fu
elaborato
fin
dal
1970.
Nel
1972
fu
creato
il
cosiddetto
SME
(Sistema
Monetario
Europeo).
Esso
prevedeva
che
il
tasso
di
cambio
d’ogni
valuta
CEE
potesse
fluttuare
in
relazione
a
quelli
di
tutte
le
altre
monete
entro
limiti
prefissati
e
piuttosto
ristretti.
Il
valore
sintesi
del
paniere
fu
chiamato
ECU
(European
Curency
Unit)
e
divenne
l’unità
di
conto
delle
finanze
e
delle
relazioni
fra
monete
dei
paesi
CEE.
Nemmeno
il
passaggio
dall’ECU,
unità
di
conto
e
moneta
ideale,
alla
moneta
unica
effettiva,
chiamata
euro,
è
stato
semplice.
Un’accelerazione
decisiva
in
tal
senso
venne
dal
trattato
di
Maastricht
(1991)
che
mutò
il
nome
della
Comunità
Economica
Europea
in
Unione
Europea.
Il
trattato
previde
un’Unione
Economica
e
Monetaria
(UEM)
imperniata
su
di
un
Istituto
Monetario
Europeo
(IME)
che
avrebbe
coordinato
le
politiche
monetarie
dei
diversi
paesi
sottraendole
alle
banche
centrali.
Nel
contempo,
le
politiche
economiche
dei
singoli
stati
avrebbero
dovuto
soddisfare
cinque
“criteri
di
convergenza”:
1. Deficit
di
bilancio
non
superiore
al
3%
del
PIL;
2. Debito
pubblico
non
superiore
al
60%
del
PIL;
3. Inflazione
non
superiore
al
1,5%
rispetto
alla
media
dei
tre
paesi
più
virtuosi;
4. Tassi
di’interesse
a
lungo
termine
non
superiori
al
2%
rispetto
alla
media
dei
tre
stati
membri
a
più
bassa
inflazione;
5. Appartenenza
per
almeno
due
anni
al
Sistema
Monetario
Europeo.
L’integrazione
dei
paesi
ex
comunisti
dal
2004
ripropone
questioni
e
dinamiche
già
sperimentate
dai
quindi
paesi
negli
anni
’80
e
’90.
66
Il
divario
economico
e
tecnologico
in
molti
casi
è
assai
grande
e,
pertanto,
impegnerà
una
grossa
parte
dei
fondi
comunitari
in
interventi
volti
ad
attenuare
il
divario
tra
regioni
e
tra
settori
dei
nuovi
entrati
rispetto
ai
15.
Il
vero
problema
di
fondo
dell’economia
europea
consiste
nell’altra
percentuale
di
popolazione
adulta
che
dispone
della
sola
istruzione
di
base.
Investimenti
in
R&S
producono
brevetti
internazionali
e
crescita
economica
per
gran
parte
derivante
dall’aumento
della
produttività
del
lavoro,
posto
che
le
nuove
tecnologie
creano
posizioni
lavorative
altamente
qualificate
in
imprese
di
medie
dimensioni.
È
probabile
che,
date
le
circostanze,
l’Unione
dei
25,
tenderà
a
chiudersi
verso
l’esterno,
intralciando
le
importazioni
di
prodotti
agricoli
concorrenziali,
di
manufatti
di
basso
valore
unitario
e
di
largo
consumo
provenienti
dall’Asia
orientale
e
da
altre
economie
in
rapida
industrializzazione
nonché
dei
prodotti
d’alta
tecnologia
USA,
giapponesi,
cinesi
e
delle
quattro
tigri.
Un’economia
aperta
alla
dinamica
globalizzante
metterebbe
inoltre
in
discussione
i
programmi
di
protezione
sociale
degli
stati
continentali
dell’Unione;
programmi
che,
dalla
fine
della
seconda
guerra
mondiale,
hanno
garantito
un
clima
di
pace
sociale.
L’innalzamento
della
durata
della
vita
rende
ancora
più
oneroso
il
finanziamento
pubblico
di
tali
programmi,
sicché
non
è
azzardato
prevedere
inderogabili
riforme
riduttive
dello
stato
sociale
(Welfare),
se
miglioreranno
i
bilanci
pubblici,
innescheranno
anche
reazioni
protezioniste.
11.
Dalla
decolonizzazione
al
Terzo
Mondo
Il
processo
di
decolonizzazione
Lo
sgretolamento
del
colonialismo
europeo
avvenne
in
una
ventina
d’anni
dalla
fine
della
seconda
guerra
mondiale
e
si
svolse
in
due
fasi
successive.
La
prima,
1946-‐1951,
riguardò
essenzialmente
il
continente
asiatico;
la
seconda,
1956-‐1963,
fu
la
volta
dell’Africa.
Del
grande
impero
britannico
sopravviveva
la
piccola
Hong
Kong
che
sarebbe
stata
restituita
alla
Cina
nel
1997.
Tra
la
prima
e
la
seconda
fase,
si
situa
una
tappa
fondamentale
delle
relazioni
fra
nazioni
neoindipendenti
ed
economicamente
arretrate
e
paesi
sviluppati.
Nella
primavera
del
1955,
riuniti
a
Bandung
(Indonesia),
i
responsabili
di
29
paesi
asiatici
e
africani
condannarono
ogni
forma
d0oppressione
coloniale
ancora
esistente
e
sollecitarono
l’avvio
di
una
politica
di
riequilibrio
delle
relazioni
economiche
tra
sud
e
nord
del
mondo:
prese
forma
uno
schieramento
di
nazioni
che
condividevano
l’esigenza
di
tramutare
la
recente
indipendenza
in
vera
e
propria
autonomia
e
di
avviare
la
crescita
economica.
I
paesi
ex
coloniali
si
divisero
tra
economie
di
libero
mercato
ed
economie
a
programmazione
economica
centralizzata.
70
nazioni,
nel
1965
nel
palazzo
dell’ONU,
rappresentavano
quella
parte
di
umanità
che
il
demografo
ed
economista
francese
Alfred
Sauvy
chiamò
“Terzo
Mondo”.
Le
Nazioni
Unite,
con
una
risoluzione
del
1961,
avevano
dichiarato
gli
anni
’60
come
il
“primo
decennio
dello
sviluppo”
dei
paesi
poveri,
e
l’anno
successivo
creavano
l’UNCTAD.
Accanto
alle
agenzie
dell’ONU
fiorirono
anche
associazioni
che
misero
in
relazione
gruppi
di
paesi
del
nord
e
del
sud.
Negli
anni
della
presidenza
Kennedy
(1961)
negli
USA
fu
creata
l’Alleanza
per
il
progresso.
Di
qua
dall’Atlantico
l’Unione
Europea
strinse
legami
con
18
paesi
africani.
Luci
e
ombre
della
prima
fase
di
sviluppo
(1946-‐1965)
Raggiunta
l’indipendenza,
i
paesi
del
Terzo
Mondo
s’impegnarono
nell’avvio
di
processi
d0industrializzazione,
assieme
a
programmi
d’istruzione
rapida
per
popolazioni
semianalfabete,
in
modo
da
attenuare
il
grave
ritardo
rispetto
ai
paesi
del
mondo
sviluppato.La
battaglia
67
dell’istruzione
diede
risultati
incoraggianti.
L’accesso
agli
studi
universitari
è
stato
relativamente
diseguale
da
un
continente
all’altro
e
da
paese
a
paese,
secondo
gli
assetti
e
i
regimi
politici
esistenti,
ed
è
inversamente
proporzionale
alla
massa
dei
potenziali
studenti.
In
ogni
caso,
il
progresso
dell’istruzione
superiore
ha
avuto
andamento
esponenziale.
Nell’arco
di
un
paio
di
decenni,
tra
il
1948
e
il
1965,
il
Terzo
Mondo
a
economia
di
mercato
triplicò
il
volume
delle
produzioni
manifatturiere
tenendo
un
tasso
annuo
medio
di
crescita
del
7%.
La
sostituzione
delle
importazioni
con
produzione
locale
spiega
l’intensità
del
processo.
In
pratica,
fu
rovesciatala
tendenza
consolidatasi
nel
XIX
secolo
e
proseguita
fino
alla
vigilia
della
prima
GM,
quando
le
importazioni
di
manufatti
dai
territori
metropolitani
avevano
sostituito
le
produzioni
locali.
Non
appena
il
processo
di
sostituzione
delle
importazioni
fu
completato
sul
finire
degli
anni
’60
vi
fu
un
ovvio
rallentamento
della
crescita
delle
attività
manifatturiere.
Per
di
più,
la
possibilità
di
riversare
su
mercati
esteri
le
produzioni
a
basso
valore
aggiunto
fu
intralciata
da
limitazioni
e
ostacoli
frapposti
alle
importazioni
dai
paesi
sviluppati
che
difendevano
la
loro
manodopera
e
le
loro
imprese.
Un
freno
alla
prosecuzione
dello
sviluppo
venne
anche
dalla
rigidità
della
domanda
mondiale
di
tessili
e
calzature
assieme
alla
dipendenza
delle
società
multinazionali
occidentali
che
nel
Terzo
Mondo
spostarono
in
crescente
misura
quelle
fasi
dei
processi
produttivi
che
impiegano
manodopera
scarsamente
qualificata.
I
casi
di
massicci
investimenti
relativisti
del
tutto
inutili
o
largamente
sovradimensionati
non
si
contano,
come
quelli
di
sperpero
energetico
e
di
materie
prime.
Un
capitolo
a
parte
meriterebbe
la
questione
della
diffusa
corruzione
delle
autorità
governative
e
dei
funzionari
pubblici
chiamati
a
decidere
la
localizzazione
di
nuovi
impianti
industriali.
Un
altro
fattore
limitativo
è
dato
dalla
prevalente
sottoutilizzazione
della
capacità
produttiva
delle
installazioni,
spesso
largamente
sovradimensionate
rispetto
ai
volumi
di
prodotto
assorbibili
della
domanda
interna
ed
estera.
Il
vincolo
demografico
Nei
primi
anni
’60
i
risultati
dei
primi
censimenti
ruppero
l’incantesimo.
Fu
presto
chiaro,
infatti,
che
era
in
corso
un’inflazione
demografica
galoppante.
Gli
effetti
del
boom
demografico
innescato
da
cali
consistenti
della
mortalità
infantile
e
da
campagne
di
vaccinazione
a
tappeto
non
tardarono
a
manifestarsi
con
deficit
degli
alimenti
di
basi.
In
molti
casi
i
governi
finanziarono
politiche
di
miglioramento
delle
tecniche
agronomiche,
di
diffusione
delle
macchine
agricole
e
di
utilizzo
di
sementi
modificate
dalla
ricerca
biotecnologica.
Alle
politiche
locali
si
affiancarono
sempre
più
spesso
programmi
internazionali
di
aiuti
di
scarsa
efficacia
strutturale.
Nel
frattempo,
l’esplosione
della
domanda
di
petrolio
introduceva
un
forte
discrimine
fra
paesi
in
via
di
sviluppo,
dissociando
i
venditori
d’oro
nero
da
tutti
gli
altri.
Proprio
l’impennata
della
domanda
di
petrolio
del
“primo
mondo”
avvisò
quei
paesi
che
non
ne
disponevano
che
il
divario
tra
i
loro
livelli
di
vita
e
quelli
dei
paesi
ricchi
sarebbe
inesorabilmente
aumentato.
La
scalata
dei
prezzi
del
greggio
causò
inflazione
anche
nei
paesi
del
Terzo
Mondo;
inflazione
che
si
aggiunse
a
quella
endogena
prodotta
dalle
accresciute
produzioni
agricole
e
manifatturiere
avutesi
dalla
fine
degli
anni
’40.
Quando,
dalla
metà
degli
anni
’80,
la
febbre
inflattiva
si
spense,
nel
Terzo
Mondo
non
solo
continuò,
ma
addirittura
si
aggravò
nel
decennio
1986-‐1995,
con
enormi
divari
fra
i
tre
continenti.
68
Una
via
d’uscita
dal
sottosviluppo:
le
quattro
tigri
asiatiche
All’inizio
degli
anni
’70
nel
Terzo
Mondo
a
economia
di
mercato
il
clima
generale
era
improntato
al
pessimismo.
Nei
paesi
privi
di
petrolio
una
galoppante
inflazione
dei
prezzi
interni
si
aggiungesse
al
boom
demografico
e
al
connesso
crescente
deficit
alimentare.
In
totale
controtendenza,
nel
lontano
oriente,
dagli
anni
’60
Hong
Kong
e
poi,
una
decina
d’anni
dopo,
Taiwan,
Corea
del
Sud
e
Singapore,
imboccarono
la
strada
di
uno
sviluppo
economico
tanto
rapido
e
inteso
da
proiettarli,
trent’anni
dopo,
nel
novero
dei
paesi
economicamente
avanzati.
I
quattro
piccoli
paesi
che
rappresentavano
una
minima
frazione
demografica
dell’Asia
e
del
Terzo
Mondo,
condividevano
alcune
caratteristiche
negative,
se
si
guarda
ai
requisiti
per
avviare
un
processo
di
sviluppo
all’occidentale.
Si
trattava
di
territori
privi
di
risorse
naturali
ed
energetiche,
densamente
popolati
e
usciti
devastati
dalla
guerra
mondiale.
Corea
e
Taiwan,
che
erano
state
colonie
giapponesi,
negli
anni
’30
avevano
conosciuto
miglioramenti
dell’agricoltura
e
qualche
iniziativa
industriale.
Alla
vigilia
della
seconda
GM
la
Corea
era
già
molto
sviluppata
nel
settore
industriale
grazie
anche
alla
manodopera
locale
specializzata.
A
Hong
Kong
e
Singapore
mancava
il
peso
del
mondo
rurale
tradizionale
che
ovunque
rappresenta
un
serbatoio
di
manodopera
sottoutilizzata.
Hong
Kong,
che
dal
1842
è
stata
una
vera
e
propria
enclave
inglese
alle
porte
della
Cina,
aveva
cominciato
a
esportare
manufatti
già
prima
della
grande
guerra
e,
alla
fine
della
seconda,
aveva
una
base
industriale
diversificata.
La
crescita
demografica
dei
quattro
paesi
fu
inferiore
a
quella
del
resto
dell’Asia.
Un
notevole
fattore
di
facilitazione
nell’avvio
dello
sviluppo
fu
dato
anche
dalle
basse
percentuali
di
contadini
e
di
livelli
d’analfabetismo
nettamente
inferiori
alla
media
dei
paesi
asiatici
a
economia
di
mercato.
La
novità
delle
quattro
tigri
consiste
nelle
relazioni
istituitesi
fra
stato,
come
fattore
e
organizzatore
di
sviluppo,
economia,
tecnologia
e
società
muovendo
da
politiche
dettate
dalla
logica
della
sopravvivenza
nazionale
postbellica.
La
crescita
economica
andò
di
pari
passo
con
un
visibile
miglioramento
dei
tenori
di
vita
e
della
perequazione
dei
redditi.
È
interessante
notare
come
nei
paesi
in
cui
ha
lungamente
dominato
la
cultura
britannica,
la
sperequazione
dei
redditi
è
nettamente
più
accentuata
rispetto
ai
rimanenti
tre
paesi
nei
quali
domina
la
cultura
orientale
tendente
a
non
polarizzare
la
distribuzione
della
ricchezza,
che
significa
maggior
potere
d’acquisto
diffuso,
maggiore
capacità
di
risparmio,
migliore
sostegno
della
domanda.
In
tutti
e
quattro
i
casi
considerati,
in
vario
modo,
l’azione
delle
amministrazioni
pubbliche
è
stata
così
decisiva
da
far
coniare
agli
studiosi
la
formula:
“Stato
per
lo
Sviluppo”,
espressiva
di
uno
stato
che,
mentre
sostiene
le
imprese,
impone
loro
di
misurarsi
sul
mercato
globale.
Hong
Kong
fu
la
più
precoce
delle
quattro.
Tutto
il
territorio
apparteneva
alla
corona
inglese
che
lo
affittava
invece
di
venderlo
a
privati.
Questa
politica
dei
suoli
permise
al
governo
di
finanziare
progetti
di
edilizia
pubblica
e
di
costruire
immobili
a
uso
industriale
e
fabbriche
con
abitazioni
civili
annesse;
politica
poi
rivelatasi
decisiva
nella
prima
fase
d’industrializzazione.
Le
autorità
di
Hong
Kong
svolsero
anche
un
ruolo
decisivo
di
promozione
e
controllo
nel
settore
bancario,borsistico
e
di
servizi
avanzati,
tanto
da
lanciare
il
mercato
finanziario
della
città
nel
Gotha
delle
maggiori
borse
mondiali.
La
chiave
iniziale
del
successo
fu
comunque
la
crescita
esponenziale
delle
esportazioni
di
manufatti
destinate
al
Regno
Unito
al
Commonwealth
e
agli
USA,
seguendo
una
strategia
di
cambiamento
delle
linee
di
prodotti
o
del
loro
valore
all’interno
del
medesimo
settore.
In
questo
senso,
il
fattore
fondamentale
fu
la
flessibilità
dei
prodotti
69
manifatturieri
e
la
loro
capacità
d’adattamento
alla
sempre
più
mutevole
domanda
del
mercato
mondiale.
La
flessibilità
del
sistema
produttivo
deriva
dal
prevalere
di
piccole
e
medie
imprese
e
da
tassi
d’investimento
costante
elevati.
Dal
1950
al
1995,
favoriti
da
un
peso
limitato
dell’agricoltura
e
da
dimensioni
territoriali
minime,
le
quattro
tigri
realizzarono
uno
sviluppo
economico
rapido
e
intenso,
seppur
con
tempi
sfasati
tra
loro
per
la
differente
epoca
dell’avvio
del
processo.
Le
tigri
nella
crisi
di
fine
secolo
La
crisi
economica
asiatica
di
fine
anni
’90
ebbe
effetti
assai
diversi
sulle
quattro
tigri.
Per
la
bolla
speculativa
immobiliare
e
per
il
crollo
della
sua
borsa,
nel
1998
Hong
Kong
entrò
in
recessione
per
la
prima
volta
dopo
30
anni.
A
Hong
Kong
tra
il
1990
e
il
1996,
il
valore
degli
immobili
privati
quadruplicò.
Mentre
l’offerta
di
terreni
demaniali
privatizzabili
calava
e
c’era
un
boom
delle
attività
finanziarie
e
di
servizio
alle
imprese,
i
prezzi
esplosero.
Per
di
più,
era
in
corso
una
rapida
riconversione
dell’economia
da
manifatturiera
a
terziario
avanzato.
La
terziarizzazione
attirò
i
capitali
dei
taiwanesi,
dei
giapponesi
e
degli
speculatori
di
tutto
il
mondo,
mentre
e
quotazioni
di
borsa
continuavano
a
crescere.
Nell’ottobre
del
1997,
un
attacco
speculativo
al
dollaro
di
Hong
Kong
minò
la
fiducia
degli
investitori.
Il
successivo
crollo
venne
evitato
grazie
al
provvidenziale
intervento
della
Cina
Popolare,
ma
l’economia
incappò
in
una
recessione.
Dopo
il
grande
sviluppo
della
finanza
a
Singapore,
lo
stato
evitò
che
si
abbandonasse
il
settore
manifatturiero,
a
favore
del
quale
il
governo
avviò
un
progetto
di
sviluppo
tecnologico
per
stimolare
produzioni
a
più
alto
valore
aggiunto.
Grazie
a
regolamentazioni
dei
mercati
creditizi
e
finanziari
più
rigide
di
quelle
di
Hong
Kong,
la
borsa
di
Singapore
andò
esente
da
scorrerie
speculative
della
finanza
globale
e
i
solidi
legami
con
le
multinazionali
manifatturiere
fecero
il
resto.
La
crisi
coreana
iniziò
nel
gennaio
del
1997,
con
il
fallimento
di
Hanbo,
uno
dei
maggiori
Chaebol
(conglomerata,
che
dipese
da
problemi
di
assetto
e
di
gestione
e
da
standard
tecnologici
scaduti
rispetto
a
quelli
concorrenti)
specializzato
in
siderurgia
e
edilizia.
Nel
giro
di
pochi
mesi
fallirono
6
fra
i
primi
30
gruppi
del
paese.
Gli
investitori
esteri
si
affrettarono
a
liquidare
le
loro
posizioni.
La
fuga
di
capitali
mise
in
crisi
la
moneta,
che
il
governo
tentò
di
difendere
inutilmente
dilapidando
le
riserve
in
valuta
estera.
Il
won
crollò
mentre
il
governo
dichiarava
che
non
avrebbe
pagato
gli
interessi
sul
debito
pubblico.
Fu
chiamato
in
aiuto
il
FMI
per
risanare
la
situazione.
Il
nuovo
governo
favorevole
alla
deregolamentazione
e
liberalizzazione
dei
commerci
e
delle
transazioni
finanziarie,
non
intervenne
per
evitare
i
fallimenti
dei
chaebol
sicché
la
fiducia
interna
e
internazionale
crollò.
Le
aziende
produttrici
di
semiconduttori
taiwanesi,
addirittura
superarono
i
concorrenti
sudcoreani
e
giapponesi,
conquistando
fette
del
mercato
mondiale
tecnologico.
Inoltre,
le
enormi
riserve
di
valuta
estera
scoraggiarono
attacchi
speculativi
sulla
moneta
nazionale.
Confidando
nella
competitività
manifatturiera,
l’economia
taiwanese
sfuggì
brillantemente
alle
turbolenze
finanziarie
che
avevano
messo
in
seria
crisi
sia
Hong
Kong,
sia
la
corea
del
Sud.
Singapore
e
Taiwan
uscirono
indenni
dalla
burrasca
perché
non
sacrificarono
la
loro
tradizionale
competitività
manifatturiera
alla
finanza
globale
e
al
terziario
più
o
meno
avanzato.
70
12.
Il
risveglio
dei
dinosauri
Asiatici
Il
dragone
cinese
Il
modello
di
modernizzazione
e
crescita
dell’economia
cinese
non
ha
precedenti
nella
storia
economica
contemporanea
perché
è
concepito
e
attuato
all’interno
della
principale
Economia
Pianificata
del
mondo,
nel
tentativo
di
realizzare
una
sintesi
virtuosa
tra
pianificazione
centralizzata
ed
economia
di
mercato.
L’ingresso
cinese
nell’economia
globale
non
è
lasciato
all’autonomo
processo
di
aggiustamento
delle
“forze
del
mercato”,
ma
è
piuttosto
governato
dallo
stato
con
misure
di
politica
mirate,
e
accompagnate
da
riforme,
che
da
un
lato
tendono
a
rendere
la
transizione
graduale
e
sostenibile
e,
dall’altro,
la
fanno
essere
compatibile
con
le
condizioni,
le
esigenze
e
gli
interessi
specifici
del
paese.
Per
comprendere
cosa
significhi
per
la
Cina
stabilire
relazioni
con
il
resto
del
mondo
conviene
prendere
mosse
dagli
anni
’30
del
‘900.
Dopo
l’occupazione
della
Manciuria
(1931),
nel
1937
il
Giappone
riprese
la
guerra
di
conquista
in
Cina
attaccando
Pechino
e
conquistando
facilmente
le
province
esterne
e
industrializzate
di
Shangai,
Nanchino
e
Canton.
Nella
resistenza
ai
giapponesi
si
distinse
l’Esercito
di
Liberazione
Popolare
formato
da
contadini
e
guidato
da
Mao
Zedong.
Esso
fu
decisivo
per
la
sconfitta
dell’invasore
nel
continente
asiatico
e,
con
una
guerra
civile
condotta
dal
1945
al
1949,
Mao
sconfisse
anche
il
generale
Chiang
Kai-‐schek,
con
il
quale
aveva
combattuto
i
giapponesi.
La
rivoluzione
cinese
fu
nazionalista
e
contadina.
In
più,
essendo
comunista,
nella
costruzione
del
nuovo
stato
per
il
partito
fu
prioritario
controllare
l’economia
attraverso
un
sistema
di
pianificazione
centralizzata
e
gestire
la
società
attraverso
un
capillare
apparato
ideologico
marxista-‐leninista
che
dominasse
l’informazione
e
la
comunicazione.
In
uno
stato
scaturito
da
una
guerra
di
liberazione
e
poi
da
una
guerra
civile,
il
cuore
del
nuovo
sistema
di
potere
fu
la
Commissione
Militare
Centrale
del
Comitato
centrale
del
Partito,
la
cui
presidenza
fu
l’unica
carica
ininterrottamente
conservata
da
Mao
sino
alla
morte
nel
1976.
Il
partito,
una
cosa
sola
con
l’esercito,
era
un’immensa
macchina
politica
ramificata
e
decentrata
ovunque,
che
per
la
prima
volta
nella
storia
cinese
controllava
ogni
angolo
dell’immenso
paese.
L’estrema
personalizzazione
della
leadership
ha
fatto
sì
che
qualsiasi
decisione
presa
dal
vertice
si
trasformi
in
una
mobilitazione
generale.
Solo
così
si
spiega
la
straordinaria
potenza
distruttiva
di
parole
d’ordine
come
“il
grande
balzo
in
avanti”
e
la
“rivoluzione
culturale
proletaria”,
lanciate
da
Mao
in
persona.
In
realtà
Mao
rispondeva
alla
fondamentale
questione
di
come
conservare
il
potere
comunista
e
come
rendere
la
Cina
forte
e
indipendente
in
un
modo
radicalmente
diviso
fra
le
due
superpotenze
e
avendo
alle
porte
quattro
tigri
in
rapido
sviluppo
economico
e
tecnologico.
Egli
era
convinto
che
convenisse
conservare
la
civiltà
rurale
cinese
della
quale
era
figlio,
sviluppare
l’autosufficienza,
assicurare
il
primato
dell’ideologia
e
allenare
il
popolo
a
una
guerriglia
decentrata
per
resistere
a
eventuali
invasori,
che
andavano
scoraggiati
con
il
deterrente
nucleare.
Al
vertice
del
partito,
ed
in
disaccordo
con
Mao,
fin
dagli
anni
’50
Deng
Xiaoping
e
Liu
Shao-‐chi
sostenevano
che
si
dovesse
invece
procedere
a
un’accelerata
industrializzazione
e
modernizzazione
tecnologia,
in
modo
da
seguire
lo
sviluppo
come
in
Russia.
Chou
En-‐Lai,
capo
del
governo,
riuscì
abilmente
nel
difficile
gioco
di
accordare
le
fazioni
in
lotta
rafforzando
il
complesso
produttivo
e
scientifico
militare,
inteso
come
indispensabile
presidio
dell’indipendenza
nazionale.
Fu
così
che
la
ricerca
tecnologica
militare
passarono
indenni
fra
le
bufere
politiche
e
le
lotte
al
vertice
degli
anni
’60
e
’70.
71
Morto
Mao,
nel
1976,
i
vertici
del
partito
si
riorganizzarono
richiamando
l’mai
anziano
Deng
il
quale
riprese
la
sua
vecchia
idea
che
la
prosperità
economica
e
la
modernizzazione
tecnologica
rappresentassero
i
pilasti
del
prestigio
internazionale
e
dell’indipendenza
cinese.
Egli
intuì
anche
che,
dopo
la
dissennata
“rivoluzione
culturale”
maoista,
era
indispensabile
restituire
legittimità
al
partito
diffondendo
fra
la
popolazione
il
diritto
di
proprietà,
migliorandone
il
tenore
di
vita
e
fondando
attese
di
crescita
economica.
L’economia
della
Cina
autarchica
Nel
1978,
alla
vigilia
della
decisione
di
Deng
di
aprire
le
porte
a
imprenditori
e
capitali
esteri,
in
quali
condizioni
versava
l’economia
del
paese
che
conta
un
quinto
degli
abitanti
della
terra?
Nel
primo
decennio
della
Repubblica
Popolare,
il
migliorato
tenore
di
vita
e
l’adozione
di
un’assistenza
sanitaria
essenziale
per
tutta
la
popolazione
causarono
un’impetuosa
spinta
demografica,
interrotta
solo
dalle
stravaganti
misure
adottate
da
Mao
per
realizzare
un
“grande
balzo
in
avanti”.
La
popolazione
fu
suddivisa
in
gruppi
di
circa
5000
famiglie
dotate
di
lotti
di
terreno,
di
cucine
comuni
e
perfino
di
acciaierie
a
conduzione
familiare,
secondo
principi
d’autarchia
spinta.
Il
risultato
fu
ovviamente
fallimentare.
Crollarono
produzione
e
distribuzione
delle
derrate
agricole
essenziali
e
ci
fu
una
disastrosa,
pluriennale
carestia
che
causò
30
milioni
di
morti
in
4
anni.
In
risposta,
il
governo
dispose
rigide
norme
di
pianificazione
familiare:
era
vietato
sposarsi
prima
dei
25
anni
e
si
poteva
generare
un
solo
figlio
per
coppia.
Il
diffuso
malcontento,
a
metà
degli
anni
’80,
suggerì
alle
autorità
di
abrogare
le
regole
quando
la
natalità
s’era
fortemente
ridotta.
La
cerealicoltura
impiegò
qualche
anno
per
riportarsi
dov’era
prima
della
dissennata
politica
del
“grande
balzo”,
dopo
di
che
raddoppiò
il
volume
dei
raccolti
entro
il
1978.
Si
assistette,
quindi
ad
una
crescita
generale,
e
l’economia
superò
dell’80%
la
media
di
quelle
del
Terzo
Mondo.
Ricordiamo
che
la
Cina
non
usufruì
di
aiuti
né
d’investimenti
esteri
né
esportò
significative
quantità
di
merci.
L’apertura
al
mondo
Nei
primi
anni
’80
il
progetto
di
integrare
la
Cina
nell’economia
globale
cominciò
da
quattro
Export
Processing
Zones
piazzate
dirimpetto
a
Hong
Kong.
L’idea
era
di
attirarvi
capitali
e
tecnologie
estere
per
acquisire
know-‐how
aggiornato
e
realizzare
profitti
in
dollari
e
sterline.
Le
zone
furono
isolate
dal
resto
della
Cina
per
paura
che
il
capitalismo
contaminasse
il
resto
del
paese.
L’esperimento
non
funzionò
perché
le
multinazionali
fruivano
di
condizioni
analoghe,
ma
soprattutto
perché
erano
molto
più
interessate
a
penetrare
nel
mercato
cinese
per
portarvi
la
loro
cultura
aziendale
e
creare
una
rete
di
fornitori
e
distributori.
In
pratica
si
trattava
di
far
parte
dell’economia
cinese
e
di
non
fermarsi
nell’anticamera
del
paese
e
sfruttarne
semplicemente
la
manodopera
a
basso
costo.
Dopo
qualche
anno,
il
governo
aprì
una
gran
parte
delle
regioni
industriali
sotto
l’attento
controllo
della
burocrazia
statale
e
di
quella
dei
governi
regionali.
Tuttavia,
fino
alla
metà
degli
anni
’90,
gli
investimenti
occidentali
e
giapponesi
rappresentarono
solo
il
28%.
La
principale
connessione
con
l’economia
globale
era
data
dal
know-‐how
tecnologico
e
dall’esperienza
dei
cinesi
di
Hong
Kong
e
Taiwan
in
fatto
di
mercato
globale.
Facendo
capo
a
reti
relazionali
di
parentela,
negli
anni
’80
i
fuoriusciti
furono
protagonisti
dell’armatura
infrastrutturale
di
una
megaregione
divenuta,
di
fatto,
un
gigantesco
distretto
economico
dove
abitavano
80
milioni
di
persone:
uno
dei
potenziali
nodi
globali
del
XXI
secolo.
72
In
risposta
la
regione
si
Shangai
nei
primi
anni
’90
lanciò
la
nuova
regione
economica
di
sviluppo
di
Pudong,
divenuta
in
breve
il
principale
centro
dei
servizi
avanzati
per
le
imprese.
Dagli
anni
’90,
il
capitale
cominciò
ad
affluire
da
ogni
parte
del
globo,
ma
soprattutto
e
ancora
da
cinesi
d’oltremare.
Nel
1992,
Deng
Xiaoping
incoraggiò
il
Guandong
e
la
regione
di
Shangai
a
imitare
e
superare
le
quattro
tigri.
Le
autorità
delle
due
regioni
rivendicarono
una
crescente
autonomia
economica
e
di
attivare
insediamenti
d’imprese
estere
e
fondare
imprese
in
partecipazione
(Joint
Ventures)
con
stranieri.
Nel
1992,
un
emendamento
della
Costituzione
introdusse
il
principio
dell’”economia
socialista
di
mercato”.
In
pratica,
accanto
alle
tradizionali
imprese
di
stato,
nella
Cina
aperta
al
capitalismo,
sono
sorte
imprese
private
e
soprattutto
“imprese
collettive”
di
livello
regionale
del
“capitalismo
burocratico”.
Si
tratta
di
aziende
oligopolistiche
nella
regione
in
cui
operano
e
concorrenziali
nel
resto
del
mercato
cinese
e
in
quelli
esteri.
La
crisi
del
biennio
1998-‐1999
ha
causato
un
relativo
rallentamento
dell’altissimo
ritmo
di
crescita
nel
dodicennio
qui
considerato,
dopo
di
che
la
percentuale
annua
di
crescita
è
costantemente
aumentata
nonostante
le
autorità
governative
si
sforzino
di
mantenere
sotto
controllo
la
dinamica
economica
in
atto,
potenzialmente
inflattiva.
Le
conseguenze
della
politica
della
“porta
aperta”
di
Deng,
che
decretò
la
fine
dell’isolazionismo
cinese
e
preparò
l’introduzione
nella
Costituzione
(1999-‐2004)
del
diritto
“inviolabile”
della
proprietà
privata,
dello
stato
di
diritto
e
del
superamento
della
pianificazione
economica
socialista,
pongono
però
una
serie
di
questioni
di
gran
peso.
• La
prima
è
data
dal
massiccio
esodo
delle
campagne
di
alcune
centinaia
di
milioni
di
cinesi
socialmente
e
culturalmente
sradicati
e
in
condizioni
economiche
precarie.Incombente
dualismo
regioni
rurali
e
urbane.
• I
sempre
più
frequenti
conflitti
tra
Pechino
e
province
della
fascia
costiera
derivanti
dalla
larga
autonomia
concessa
dal
governo
alle
autorità
provinciali
sono
un
potenziale
fattore
di
disgregazione
e
di
crisi
politica.
• Le
imprese
pubbliche
a
bassa
produttività
non
trovano
compratori,
né
possono
essere
liquidate.
• Accettare
la
diffusione
di
Internet:
dal
1950,
l’informazione
è
controllata
e
censurata
dal
partito.
L’india
dell’East
Indian
Company
Ai
primi
del
‘600
arrivarono
i
primi
galeoni
inglesi
sulla
costa
occidentale
indiana.
L’East
Indian
Company
ottenne
il
monopolio
del
commercio
a
est
del
Capo
di
B.S.
La
prima
base
operativa
fu
stabilita
a
Surat
dove
il
sovrano
accordò
il
diritto
di
commerciare
e
di
costruire
edifici
e
magazzini.
Nel
1635
Lisbona
accettò
e
legittimò
la
presenza
inglese
in
India.
L’East
Indian
Company
continuò
ad
aprire
basi
commerciali
e
svolse
funzioni
amministrativa
per
conto
dei
sovrani
dei
numerosi
principi
e
regni
indiani.
Il
volume
d’affari
in
crescita
e
l’impossibilità
di
imporre
i
prezzi
delle
merci
acquistate
causò
un
crescente
deficit
commerciale
inglese.
Ai
primi
del
‘700
il
parlamento
di
Londra
approvò
due
leggi
che
vietavano
l’importazione
di
cotonate
indiane
interrompendo
un
ricco
e
promettente
commercio,
sicché
la
compagnia
rimediò
cominciando
a
svolgere
fra
Bengala
e
Cina
il
poco
nobile
e
assai
redditizio
traffico
dell’oppio,
ottenendone
in
cambio
tè,
porcellane
e
lacche
cinesi.
Fra
il
1757
e
il
1765
l’EIC
si
guadagnò
la
riscossione
delle
imposte
in
tre
stati.
I
proventi
delle
esazioni
servirono
per
l’acquisto
di
merci
destinate
alla
madre
patria,
senza
che
si
dovesse
spostare
oro
e
argento
da
Londra.
73
Nel
giro
di
una
trentina
d’anni
la
Compagnia
prese
il
controllo
politico
ed
economico
dell’India
nord-‐orientale
,
facendo
adottare
riforme
fiscali
e
introducendo
principi
del
diritto
comune
inglese
come
la
proprietà
privata
della
terra
(1793).
La
riforma
creò
una
pletora
di
parassiti
latifondisti
e
usurai
favorevoli
agli
inglesi
e
odiati
dal
resto
della
popolazione
contadina.
Dal
1813,
quando
finì
il
monopolio
della
EIC,
tramontò
anche
l’attitudine
d’incivilimento
e
prese
il
sopravvento
quella
di
sfruttamento.
Per
tutto
l’800,
il
monopolio
governativo
della
droga
fu
una
delle
colonne
dell’economia
indiana
e
assicurò
il
secondo
gettito
d’entrata
del
bilancio
pubblico.
A
metà
‘800,
la
convinzione
che
il
commercio
fosse
il
motore
della
modernità
spinse
gli
inglesi
a
fare
investimenti
giganteschi
nella
costruzione
di
strade
ferrate
laddove
si
sarebbe
potuta
costruire
una
rete
di
canali
d’irrigazione
per
ottenere
sostanziali
incrementi
del
volume
di
cereali
e
approvvigionare
una
popolazione
in
costante
aumento.
Da
un
lato,
una
fiorente
economia
mercantile
fu
messa
in
crisi
dalla
“globalizzazione”
della
tela
di
cotone
fabbricata
a
Manchester,
dall’altra
di
verificò
una
specie
d’implosione
delle
economie
di
villaggio
regredite
allo
stadio
di
economie
sussistenziali
e
povere.
Il
processo
di
penetrazione
e
conquista
proseguì
fio
al
1857,
quando
nel
Bengala
i
militari
indiani
al
soldo
della
Compagnia
si
rivoltarono.
In
quell’occasione
esplose
il
malcontento
di
migliaia
di
uomini
che
non
sopportavano
che
gli
stranieri
continuassero
a
imporre
cambiamenti
degli
usi
e
costumi
tradizionali.
La
rivolta
fu
sedata
con
inaudita
violenza
da
un
corpo
di
spedizione
militare
inviato
da
Londra.
Il
2
agosto
1858,
il
governo
ripristinò
il
controllo
con
il
Governement
Act
of
India
ed
il
Parlamento
trasferiva,
così,
alla
corona
tutti
i
diritti
della
East
India
Company
riducendo
il
paese
allo
stato
di
colonia.
La
piantagione
di
materie
prime
industriali
squilibrò
l’agricoltura
indiana
e
impedì
alle
popolazioni
di
coltivare
secondo
le
proprie
esigenze
alimentari,
tanto
che
alla
fine
del
XIX
secolo
si
verificarono
disastrose
carestie.
Poiché
a
lungo
l’economia
indiana
fu
diretta
da
Londra,
all’indomani
dell’indipendenza
(1947),
il
paese
non
poté
fare
a
meno
dei
partner
economici
inglesi.
La
Repubblica
Federale
Indiana
Nell’estate
del
1947,
lo
smembramento
dell’Impero
britannico
delle
Indie
generò
due
stati:
l’Unione
Indiana
e
il
Pakistan,
rispettivamente
induista
e
islamica.
Per
l’Unione
Indiana,
i
“compiti
per
il
futuro
erano:
la
sconfitta
della
povertà,
dell’ignoranza,
delle
malattie
e
delle
disparità
sociali
ed
economiche
delle
opportunità”.
I
capi
di
governo
succedutisi
alla
guida
del
paese
si
diedero
per
obiettivo
primario
la
promozione
dell’economia
assieme
all’equità
sociale.
A
tale
scopo,
fin
dal
1950
furono
disposti
piani
quinquennali
che
identificavano
i
fini
da
perseguire,
stanziavano
risorse
pubbliche
e
controllavano
i
risultati.
La
diffusa
condizione
di
povertà
fu
contrastata
soprattutto
promuovendo
la
modernizzazione
del
settore
agricolo
e
sostenendo
lo
sviluppo
delle
industrie
di
base.
Due
fattori
soprattutto
intralciarono
il
raggiungimento
degli
obiettivi
costantemente
ribaditi:
i
conflitti
interreligiosi
e
politici
su
base
etnica
e
‘inarrestabile
crescita
della
popolazione.
C’era
da
ammodernare
il
sistema
ferroviario
ereditato
dagli
inglesi
e
da
realizzare
una
rete
minuta
di
strade.
Il
settore
economico
più
tutelato
direttamente
e
indirettamente
fu
il
primario,
La
grande
attenzione
dei
governanti
indiani
per
il
difetto
sociale
ed
economica
della
povertà
è
ben
evidente.
Con
i
primi
quattro
piani
(1951-‐1971),
i
governi
mirarono
soprattutto
a
dotare
il
paese
di
infrastrutture
di
base
adeguate
e
a
migliorare
l’agricoltura,
così
da
renderlo
autonomo
sotto
il
74
profilo
alimentare.
Una
politica
daziaria
iperprotettiva
dal
1950
difese
le
industrie
e
le
manifatture
nazionali
dalla
concorrenza
degli
altri
paesi
asiatici.
Dagli
anni
’70
i
governanti
cominciarono
a
dimostrare
un
crescente
interesse
per
forme
di
cooperazione
internazionale
che
promuovessero
lo
sviluppo.
L’apertura
verso
l’estero
Con
i
primi
anni
’80,
il
ceto
governativo
indiano
si
convinse
che
convenisse
seguire
la
via
intrapresa
dalle
quattro
tigri
cioè
abbattere
le
difese
daziarie
e
aumentare
i
prodotti
da
esportare,
promuovendo
la
concorrenza
e
l’efficienza,
Per
far
ciò
era
indispensabile
incentivare
investimenti
esteri
diretti
e
favorire
lo
spostamento
di
manodopera
dal
dominante
e
arretrato
settore
primario
al
secondario.
L’effetto
indiretto
del
nuovo
indirizzo
si
manifestò
subito
con
un
calo
del
tasso
di
povertà.
Nel
1991
l’ingresso
dell’India
nel
WTO
accelerò
il
processo
di
riforme
e
di
liberalizzazione
del
mercato.
Dopo
la
svalutazione
della
rupia,
le
principali
riforme
economiche
del
periodo
1991-‐1997
attenuarono
la
presa
dello
stato
sull’economia:
1. Fu
abolito
il
sistema
delle
licenze
per
aprire
o
ampliare
imprese,
a
eccezione
di
quelle
strategiche;
2. Furono
eliminati
i
controlli
sulle
importazioni
di
capitali
e
merci
e
ulteriormente
ridotte
le
tariffe
doganali.
Dal
1993,
la
rupia
divenne
convertibile
nelle
maggiori
valute.
Fu
liberalizzato
il
tasso
d’interesse,
allentata
la
barriera
all’ingresso
per
banche
private
nazionali
ed
estere
e
aperta
la
borsa
a
investitori
istituzionali
esteri.
Da
ultimo,
il
sistema
fiscale
fu
rafforzato,
riformato
e
semplificato.
Il
pacchetto
di
riforme
si
rivelò
vincente.
Nel
triennio
iniziale
del
nuovo
secolo
(2000-‐2003),
la
ricchezza
annualmente
prodotta
ha
oscillato,
dipendendo
in
parte
dalla
produttività
agricola,
a
sua
volta
legata
alla
meteorologia.
Le
misure
liberalizzanti,
facilitando
l’accesso
a
fattori
produttivi
e
beni
d’investimento
esteri,
hanno
migliorato
l’utilizzo
delle
capacità
produttive,
e
favorito
la
crescita
delle
esportazioni.
Le
esportazioni
hanno
tratto
vantaggio
dalla
liberalizzazione
del
commercio
della
riduzione
dei
dazi
e
dell’apertura
all’investimento
estero
in
settori
orientati
all’export
come
quelle
dell’Information
Technology,
il
vero
e
proprio
fiore
all’occhiello
del
recente
sviluppo
economico
del
paese.
L’emergere
dei
servizi
come
settore
più
dinamico
dell’economia
indiana
per
molto
versi
costituisce
un
enigma
perché
gli
economisti
sostengono
che
nei
processi
di
sviluppo
economico
in
un
primo
tempo
cala
la
quota
della
ricchezza
prodotta
dall’agricoltura
e
cresce
quella
dell’industria.
Solo
in
seguito
la
quota
dei
servizi
cresce
più
rapidamente,
mentre
quella
del
settore
industriale
resta
stabile
o
declina
di
poco.
Una
prima
spiegazione
della
stupefacente
crescita
del
terziario
indiano
rimanda
a
un
aumento
della
domanda
dei
servizi
proveniente
dagli
altri
due
settori.
In
più:
le
trasformazioni
tecniche
e
strutturali
avrebbero
indotto
le
imprese
ad
affidare
all’esterno
operazioni
tradizionalmente
svolte
in
casa.
La
crescita
industriale
avrebbe
causato
una
più
che
proporzionale
domanda
di
prestazioni
burocratiche.
Un
indice
di
povertà
fra
i
più
altri
del
Terzo
Mondo
a
economia
di
mercato
esige
strutture
assistenziali
pubbliche
centrali
e
periferiche
altrove
inesistenti.
Infine,
un
ruolo
decisivo
avrebbero
svolto
le
riforme
degli
anni
’90,
assieme
alla
crescita
della
domanda
estera.
75
L’accelerazione
della
crescita
del
settore
dei
servizi
negli
anni
’90
derivò
anche
da
una
dismissione
generalizzata
di
numerose
imprese
e
funzioni
pubbliche,
trasferite
ai
privati
e
da
una
crescita
accelerata
di
alcuni
sostenitori
quali:
1. I
servizi
relativi
agli
affari
,
cresciuti
in
media
di
circa
il
20%
l’anno;
2. I
servizi
di
comunicazione;
3. I
servizi
creditizi
e
finanziari;
4. I
servizi
di
comunità,
hotel
e
ristoranti.
76