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LESSICO PIRANDELLIANO
ABBA. Marta Abba. Sarebbe stata attrice di dannunziano talento se, appena
esordiente, non avesse incontrato Pirandello, che castamente se ne invaghì, la
elesse a interprete ideale dei suoi personaggi femminili, ne fece la «musa viva»
del suo scrivere. Al momento dell'incontro, lei aveva la metà degli anni di
Pirandello; ed era, agli occhi di Pirandello (non ai nostri: nel ricordo di un
film in cui era Teresa Confalonieri, nell'averla più tardi incontrata appunto ad
Agrigento: lineamenti duri, petulante eloquio da «musa»), bellissima. «E
giovanissima e di meravigliosa bellezza. Capelli fulvi, ricciuti. Occhi verdi,
lunghi, grandi e lucenti, che ora, nella passione, s'intorbidano come acqua di
lago; ora, nella serenità, si fermano a guardare limpidi e dolci come un'alba
lunare; ora, nella tristezza, hanno l'opacità dolente della turchese. La bocca
ha spesso un atteggiamento doloroso, come se la vita le desse una sdegnosa
amarezza; ma se ride, ha subito una grazia luminosa, che sembra rischiari e
avvivi ogni cosa»: è didascalia di Quando si è qualcuno, commedia scritta per
lei: a dichiararle amore, a spiegarle la difficoltà di quell'amore, a presentire
e a legittimare, si direbbe anche ad agee
'è sempre nelle scelte e affermazioni di ti~ ~as~ ~a. ~reatura, personaggio,
attrice di inaliena~ile condizione pirandelliana: come del re
o tutte le vite di coloro che con la vita di Dirandello hanno avuto a che fare.
Vite di ~ittime di cui Pirandello era vittima.
Qualche anno dopo, mentre legge il capitolo XXVII del primo libro degli Essais
di Montaigne, gli avviene, e «pour cause», di ripensare a quel «suo caso
singolarissimo», scetticamente sorridendone: ma di uno scetticismo non
montaigniano, da «libero pensatore» piuttosto. Contro lo scetticismo di
Montaigne, anzi, in quel momento. «C'est folie de rapporter le vray et le faux à
notre suffisance» diceva Montaigne: ma Bobbio si permetteva di sorridere, oltre
che della sua avemaria di allora, anche di Montaigne che non avrebbe del tutto
respinta l'idea che il ma, di denti gli fosse svanito per effetto di
quell'avemaria. Ed ecco che si verifica un fatto incredibile, inverosimile,
fantastico: un momentaneo, fulmineo accordo tra Montaigne e santa Maria delle
Grazie. E avviene il primo miracolo: il dolore al dente gli torna, furioso come
allora. Butta via il libro, lo riprende, passeggia nervosamente e, ghignando
sfida alla Madonna delle Grazie, a Montaigne, a sant'Agostino, recita - questa
volta in latino l'avemaria. Ma forse a causa del latino, il dolore non se ne va.
E infatti all'invocazione «oh Maria! oh Maria!» che gli sgorga «con voce non
sua, con fervore non suo », il dolore si allontana. Ma ritorna: e Bobbio, man
dando al diavolo in cui non credeva sant'Agostino e Montaigne, corre dal
dentista. «Recitò o non recitò, durante il tragitto, senza saperlo, di nuovo,
l'avemaria? »: fatto sta che si trovò davanti alla porta del dentista che il
dolore era completamente scomparso. Ma ugualmente si fece estirpare il dente, ed
era disposto a farseli strappar tutti: «Non voglio più di questi scherzi, io!».
La sua «suffisance» - e cioè, come dice Montaigne, «la sciocca presunzione di
disprezzare e condannare come falso quel che non ci sembra verosimile» - non
l'ammetteva.
CRISTIANO. Il Dizionario siciliano italiano latino del gesuita Michele Del Bono
(1751) registra: « Cristianu. Cristiano. Homo. Per uomo semplicemente». Ma dice
ben poco. Repugnava forse, al padre gesuita, andare oltre, cogliere e definire
quanto poco cristianesimo sostanzialmente ed effettualmente contenesse la
parola, quanto dall'afflato cristiano fosse lontana e segnasse anzi distanza,
estraneità. Perché «cristianu» vale, quasi come sinonimo, uomo: ma uomo che non
si conosce e di cui, comunque, si ignora il nome. «Cristianu» è stato anche,
fino a non molti anni fa, per le mogli, sinonimo di marito: riconoscimento di un
dominio sulla famiglia, di un potere; ma distaccato, ma estraniato.
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DON CHISCIO~E. Alla fine del secondo capitolo della seconda parte, Sancio dice a
Don Chisciotte: « Stanotte è arrivato da Salamanca, dov'era a studiare, il
figlio di Bartolomeo Carrasco, che ha preso il diploma di baccelliere; ed
essendo io andato a dargli il benvenuto, mi ha detto che è già stampata la
storia di vostra signoria, col titolo dell'Ingegnoso Gentiluomo Don Chisciotte
della Mancia; e dice che ci sono anch'io col mio nome di Sancio Panza, e la
signora Dulcinea del Toboso, con altre cose che ci sono accadute quando eravamo
noi due soli, che mi sono segnato di croce dallo spavento di come lo scrittore
abbia potuto fare per saperle...». Da questo punto, dice Américo Castro nel
saggio CervantesyPirandello (del 1924), «i personaggi principali del Chisciotte
cominciano a mostrarci la loro doppia identità di esseri reali, che vivono e
vanno di qua e di là, e di figure letterarie, alla mercé della seconda esistenza
che a uno scrittore piaccia di conceder loro». E ancora: «La letteratura moderna
deve a Cervantes l'arte di stabilire interferenze tra il reale e il fantastico,
tra la rappresentazione della possibilità e quella dell'effettualità. Nel suo
libro per la prima volta incontriamo il personaggio che parla di sé in quanto
personaggio, che reclama in nome della sua esistenza a volte reale e a volte
letteraria, e rivendica il proprio diritto a non essere trattato in un modo
qualsiasi. E questo è il punto centrale dei Sei person~ggi, di cui tutto il
resto è pura conseguenza».
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EVA. Tra le opere che Pirandello concepì e non scrisse, e di cui parlò il figlio
Stefano alla radio nel secondo anniversario della morte, c'era un Adamo ed Eva:
« storia, tra mitica e umoristica, d'un ricominciamento della vita umana dal
nulla: di un uomo e una donna soli sulla Terra, ma non i primi abitatori di
essa, bensì gli ultimi, scampati a una imprevedibile catastrofe...»
(prevedibile, diciamo oggi, prevedibile). Inglese lui, Prestley « quando sulla
Terra c'era una lin gua inglese»; spagnola lei, Consuelo «quando sulla Terra
c'era una lingua spagnola». Ora, soli sulla Terra, chiamati ad incontrarsi dalla
irresistibile forza della vita, sono Prestilèo e Gueli. La suggestione che ci
viene dal nome di lei, ci porta a sospettare che il luogo dell'incontro poteva
essere la Sicilia: e si veda - ancora - l'elenco telefonico della provincia di
Agrigento: se ne può avere l'allucinazione che da lei, ricominciato il mondo
umano, abbiano preso nome i tanti Gueli che lo popolano.
Da questo libro non scritto, sulla sola trama che ne racconta il figlio, Tilgher
avrebbe potuto aggiungere una postilla ai suoi saggi su Pirandello: che ancora
una volta, e con maggiore evidenza che altrove, lo scrittore tornava alla
dualità e conflitto tra Vita e Forma (I'idea di scrivere Adamo ed Eva è del
1926). Lei, Eva come la prima, a rap presentare la Vita; lui, Adamo come il pri
mo, a rappresentare la Forma. Ma, per continuare il suo corso, la Vita non può
che uccidere la Forma: forse per poi ricostituirsi in essa, forse per
costituirsi in altra e diversa. Comunque, la Vita è lei: Eva, Gueli. Dalla parte
dei figli, degli uomini nuovi. Prestilèo non è che il sopravvivere del vecchio
mondo; delle idee, delle regole, dei pregiudizi di quel mondo che le acque hanno
cancellato. E anche Prestilèo, una volta assolto il compito della rigenerazione,
deve esserne cancellato.
Questa favola, questo mito che poi quasi si trasfonde ne La nuova colonia, non
si può dire che sfugga al pregiudizio della «donna madre», della «donna
istinto», della sacertà della donna in quanto portatrice e custodia di vita. E
quando esce dal mito e guarda la donna dentro la società, dentro la famiglia,
vittima appunto di quel pregiudizio antico cui altri ne ha aggiunto l'infima
borghesia ferocemente (e quella siciliana in particolare), che Pirandello
diventa, come oggi si direbbe, uno scrittore «femminista»; e possiamo anche dire
il più «femminista» che la letteratura italiana annoveri. La sua trepida,
dolorosa, angosciata attenzione alla condizione della donna - dalle indelebili
impressioni che certamente ne ebbe nell'infanzia, nell'adolescenza: a Girgenti e
nella
sua stessa famiglia - non ha incrinature, sfagli, contraddizioni. Lo scrittore è
sempre dalla parte di lei. Da ciò, anche per un eccesso di rispetto, oltre che
per un quasi schi zofrenico pudore, la sua sensualità, che a volte la si sente
ribollire come un magma sotterraneo, riceve una sorta di castigo, di -nel senso
più proprio - «mortificazione». FILOSOFIA. Giacomo Debenedetti, Saggi critici
(nuova serie): «Il disastro di chi cerca, ha detto un bello spirito, è che
finisce sempre col trovare. Sulla faccia esterna della sua opera, Pirandello
mostrava quella che si chiama una "filosofia"; e la critica sotto, a dare una
traduzione, una divulgazione letterale di quella "filosofia". Che poi non era se
non un'astuzia della Provvidenza: il materiale isolante che permetteva a
Pirandello di maneggiare il fuoco bianco del suo nucleo poetico e umano».
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GIRGENTI. Agrigento dal 1927. «Città murata, vi si beve acqua di pozzo», dice un
antico geografo arabo: e ha stabilito anche un destino. Ancora irrisolto, e in
questi ultimi anni più grave e assillante, il problema idrico; e la vecchia
città, che nel 1833 il barone Gonzalve de Nervo vedeva, dalla valle, come un
bianco ventaglio di case (« c'est un effet ravissant!»), è ora murata dal
cemento dei nuovi palazzi.
Pirandello vi nacque, nella contrada Caos (i nomi sono conseguenti alle cose, ma
pure le cose sono conseguenti ai nomi), il 28 giugno del 1867. Vi passò
l'infanzia e l'adolescenza; da giovane, e fino ai primi anni del matrimonio, vi
tornava ad ogni estate; poi più raramente. E ad ogni ritorno la sua fantasia si
inzuppava dei fatti grotteschi e pietosi che vi accadevano e che familiari ed
amici gli raccontavano: e andavano a infoltire, ad affollare, quelli che nella
sua memoria prepotentemente vivevano. Fino alla seconda guerra mondiale Girgenti
era quella della sua infanzia, con personaggi che l'amore di sé, parossistico,
ipertrofico, spingeva ai confini della follia: lucidi notomizzatori dei propri
sentimenti e dei propri guai, presi fino al delirio dalla passione del
«ragionare» ancor più che da quella per la donna e per la roba, intenti a
difendere ossessivamente il loro apparire dal loro essere, di fronte agli altri
e a volte di fronte a se stessi - o improwisamente vocati a scio gliersi dalle
apparenze, ad eleggersi «uomini soli», «creature» nel flusso della vita.
Personaggi in cerca d'autore.
GOJ. Goi nel dizionario del Battaglia: «De nominazione con cui gli ebrei
indicano tutti coloro che non appartengono al loro popolo (spesso con valore
spregiativo)». Vi si accompagna una sola citazione: di Riccardo Bacchelli,
poiché Pirandello, che prima di Bacchelli l'ha usata (e come Bacchelli tra
virgolette), ne aveva rovesciato il senso. «Goj», nella novella così intitolata
(1922, stando al volume in cui fu pubblicata, ma forse scritta negli anni della
prima guerra mondiale), è infatti - parodiando il dizionario - «denominazione
con cui i cristiani indicano gli ebrei». Volutamente (non è pensabile che
Pirandello ne ignorasse l'origine e il significato corrente), tout court
pirandellianamente, la parola ha assunto il suo contrario: cristiano, di un
sentire propriamente cristiano, è il povero Daniele Catelli (Levi in origine)
caduto per matrimonio dentro cattolicissima famiglia, vessato, disprezzato. «Mio
amico», tiene a dir lo: nonostante quel dispettoso «ridere nella gola»,
inopportunamente e «in un certo modo così irritante che a molti, tante volte,
viene la tentazione di tirargli uno schiaffo » .
HOTEL DES TEMPLES. Girgenti ebbe due grandi alberghi: il Gellia (quello di
Anatole France, di Silvestre Bonnard), al centro della città; I'Hotel des
Temples nella campagna della valle, su una balza che permetteva la veduta dei
templi e del mare. Il Gellia sopravvisse di qualche anno alla guerra del '40, ma
l'Hotel des Temples ne ebbe il colpo di grazia. Pochissimo frequentato dagli
italiani (si apriva infatti al primo giorno di ottobre, chiudeva all'ultimo di
maggio), Pirandello lo predilesse nei suoi ritorni a Girgenti, peraltro
piuttosto rari dopo la prima guerra mondiale. Certamente vagheggiò di
soggiornarvi negli anni dell'infanzia, dell'adolescenza: quasi come un luogo che
consentisse una sufficiente estraniazione per meglio osservare, spiare,
decifrare la vita di quella sua terribile città.
Non per le stesse ragioni di Stamburè (il cui nome dice della voglia di essere
stamburato), ma per il suo essere nativamente e perfettamente cristiano.
INDICE. L'indice dei libri proibiti, I'Index librorum prohibitorum della chiesa
cattolica. Corse voce, nell'estate del 1934, che Pirandello stesse per entrarvi.
A scongiurare l'evento, Silvio D'Amico scrisse una lettera a monsignor Montini,
futuro Paolo VI. Monsignor Montini rispose: «Non ho tardato ad occuparmi
dell'oggetto della Sua lettera e La posso assicurare ch'essa è stata portata a
conoscenza, con i commenti del caso, ad autorevoli persone del S. Offizio, e ho
ragione di pensare ch'essa abbia portato loro con soddisfazione preziosi
elementi di conoscenza e di riflessione. Anche per cotesta opera buona quindi La
ringrazio sen titamente». Così, i libri di Pirandello non entrarono tra i
proibiti.
«Come tutti sanno»: e Stefano voleva, scegliendo quello pseudonimo, che non
sapessero. E può darsi l'avesse scelto non sapendo o non ricordando che era
stato il nome dell'ultimo boia del Granduca; ma può anche darsi volesse far
giustizia di quella che Savinio chiama «l'invadente importanza del padre», del
padre che per lui non ci voleva (il che Savinio, per discrezione, finge di non
aver capito). Ma quell'invadente padre c'era. Inquieti, dunque, i loro rapporti:
come del resto erano stati, per ragioni che si potrebbero dire «materne», quelli
di Luigi Pirandello col padre. E a momenti, a quanto pare, questi inquieti
rapporti s'intramavano al pretesto - tutto siciliano - della « roba»; a momenti
diventavano assolutamente pirandelliani. Articoli firmati dal padre si ha il
fondato sospetto che siano stati scritti dal figlio: come quello, pubblicato nel
1933 dalla rivista «Occidente» che s'intitola Non parlo di me, pirandelliano al
massimo. Il che sarà stato per il padre un gioco, un divertimento; ma - a parte
il movente economico - certo non per il figlio.
Il bibliotecario, sappiamo da altra fonte, era uno dei cinque preti: padre
Schifano, « presso che illetterato». In quanto ai manoscritti, circa cento
secondo Pirandello, più di trecento secondo gli inventari, erano «ridotti a tale
da non poterne in alcuni casi più far conto e copia»: dopo la ricognizione fatta
molti anni prima da Michele Amari, I'umidità, gli scarafaggi e i topi ne stavano
facendo scempio.
Mattia Pascal, «così misera stima dei libri»: a differenza di padre Schifano,
che alla Lucchesiana convitava a vegetariane colazioni confrati e carabinieri,
don Eligio nella biblioteca comunale di Miragno vuole mettere un po' d'ordine.
«Temo che non ne verrà mai a capo» dice Mattia. Veridica profezia, riguardo alla
Lucchesiana; e valida fino ai giorni nostri. Ammesso che ci sia mai stato
qualcuno che, come don Eligio, abbia avuto volontà di mettere ordine.
Majorana non ebbe quelli che Pirandello chiama «scrupoli»: organizzò la sua
sparizione «vera» direttamente attingendo all'inverosimile.
MOSJOUKINE. Ivan Mosjoukine. Ivan Il'ic Mosjoukine: per intridere nel suo nome
quello del personaggio di cui Tolstoj racconta la morte (e la racconta,
inarrivabile vertice della letteratura, come esperienza vissuta). E del resto
Mosjoukine, in Russia, prima della rivoluzione, era stato nel teatro Fedja
Protasov, il Cadavere vivente di Tolstoj. Aveva anche fatto del cinema, in
Russia: ma è quando arriva in Francia che ne diventa divo, negli Anni Venti,
fino all'avvento del parlato. Nel 1925, ormai famoso, il regista Marcel
L'Herbier lo chiama a interpretare il Mattia Pascal di Pirandello: da Fedja
Protasov a Mattia Pascal, già si intravede la linea di un destino.
Indimenticabile Mattia Pascal: nonché tutti i lettori del romanzo che hanno
visto il film, forse lo stesso Pirandello non riuscì più a ricordare il suo
personaggio se non con la figura, i movimenti e le espressioni di Mosjoukine. Fu
poi Casanova: e ci sarà una ragione se, nella nostra memoria o rileggendo il
romanzo, Mattia Pascal è anche Casanova: MosjoukineMattia Pascal-Casanova (è una
ragione che gia sappiamo; ma non è qui luogo per svolgerla: e ognuno può
sciogliersela da sé, come un rebus).
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allo Shaw della Prima commedia di Fanny. Una commediola che a Pirandello non
sarebbe dispiaciuta.
«C'è un olivo saraceno, grande, in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto».
«Tutto»: Igiganti della montagna, la sua opera, la sua vita. Non era soltanto un
«particolare di fatto», come annota il figlio, una soluzione scenica per quella
commedia che non avrebbe completata: era una soluzione di significato, di
catarsi, che definiva e concludeva l'intera sua opera, I'intera sua vita L'olivo
saraceno a simbolo di un luogo, a simbolo della sua memoria, della Memoria.
Potremmo anche dire: di Mnemosine che a tutte le Muse è madre e a quella di
Pirandello particolarmente; di una Mnemosine che in quel «luogo di metamorfosi»
si è trasformata in olivo: terragna, profondamente radicata, liberamente
stormente ora ai venti acri che vengono dalla zolfara ora a quelli salmastri
(anche di sale comico) che vengono dalla marina.
PASCAL. Mattia Pascal. «Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi
di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal ». Una certezza soltanto
anagrafica, un'identità spiaccicata come larva tra i fogli di un registro. Per
il resto - di sé, del suo esistere -Mattia Pascal avrebbe potuto dire (e in
effetti lo dice, in diluizione, per tutto il libro): «Io non so né perché venni
al mondo né come, né cosa sia il mondo, né cosa io stesso mi sia. E s'io corro
ad investigarlo, mi ritorno confuso d'una ignoranza sempre più spaventosa. Non
so cosa sia il mio corpo, i miei sensi, I'anima mia; e questa stessa parte di me
che pensa ciò ch'io scrivo, e che medita sopra di tutto e sopra se stessa, non
può conoscersi mai. Invano io tento misurare con la mente questi immensi spazi
dell'universo che mi circondano. Mi trovo come attaccato in un piccolo angolo di
uno spazio incomprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui che
altrove; o perc~é questo breve tempo della mia esistenza sia assegnato piuttosto
a questo momento dell'eternità, che a tutti quelli che precedevano, e che
seguiranno. Io non vedo da tutte le parti altro che infinità le quali mi
assorbono come un atomo».
RENSI. Giuseppe Rensi. Scriveva nel 1939: «... sono stato il primo enunciatore
di quella filosofia dell'irrazionalismo che posteriormente ha avuto tante
espressioni negli altri paesi e a cui gli eventi politici dell'età nostra hanno
dato e danno una così luminosa conferma da farmi quasi credere d'aver avuto
d'essa età una precorritrice intuizione; quella filosofia dell'irrazionali smo
che, con la sua tesi fondamentale che non esiste una ragione una e che la
ragione non giova quindi a dirimere e decidere le divergenze, è dunque veramente
la filosofia dell'epoca: e lo è anche perché del dolore, anzi della disperazione
di quest'epoca nostra è la ripercussione filosofica. Ed è singolare che proprio
nell'Italia di oggi questa situazione psichica dell'epoca abbia avuto due
manifestazioni, indipendenti una dall'altra. Nel campo filosofico la mia, e in
quello dell'arte il teatro di Pirandello. Poiché questo non è altro che la mia
filosofia portata con grandissimo ingegno drammatico sulla scena (con che, si
capisce, non intendo nemmeno lontanamente dire che Pirandello, il quale non
lesse certo nessuno dei miei libri, abbia attinto la sua nota fondamentale da
me). La cosa è così evidente e innegabile che verrebbe universalmente
riconosciuta e proclamata, se, a mio riguardo, circostanze che non hanno nulla a
che fare con la valutazione del pensiero, non stessero ad impedirlo». E la cosa
è davvero evidente e innegabile, se proprio si vuole collegare Pirandello a una
filosofia; né si può dire che sia stato il fascismo - come Rensi si illudeva - a
impedire che venisse riconosciuta. La pigrizia intellettuale, piuttosto; e una
sorta di provincialismo per cui il far richiamo alla filosofia di Georg Simmel
si credeva meglio giocasse ad alzare il livello e a dar risonanza al discorso
critico su Pirandello.
SERRA. Renato Serra. Alla fine del 1913, disegnando una carta panoramica
dell'attività letteraria in Italia, dopo aver parlato per un paio di pagine di
Luciano Zuccoli, liquidava in dieci righe un buon gruppo di narratori, come in
una istantanea che insieme li avesse colti ad una riunione conviviale: «Dopo
aver parlato molto di lui (cioè di Zuccoli), ci possiamo quasi dispensare di dir
degli altri: che si trovano sullo stesso piano, con meno qualità e più difetti.
Andare a cercare certe piccole differenze di maniera, di garbo e di abilità,
sarebbe inutile: quel che conta in Ojetti e in Térésah, nella Prosperi e nella
Guglielminetti, nella Drigo e in Pirandello, in Bontempelli, in Bracco e in
Brocchi, in Pastonchi e in Cecconi e in Palmieri e in Palmarini, e nella Deledda
e in Beltramelli, e in Sfinge e in Neera e in Iolanda, è il tipo; e di quello si
è detto abbastanza». Poco più avanti, sembra avere un ripensamento su
Pirandello: lo estrae da quella specie di «democrazia ottica» in cui lo aveva
intruppato, gli dedica un momento di attenzione; ma come per assicurarsi che da
quella esecuzione in massa non l'avesse scampata: « C'è, per esempio,
un'intenzione di realismo più penetrante nel Pirandello, con una ricerca di
particolari umili duri e silenziosamente veri, che dovrebbero far scoppiare i
contrasti della pietà e dell'umorismo: ma quella ricerca e quella precisione è
proprio ciò che pesa di più nelle sue pagine, che gli dà quella particolare
ingratitudine delle fatiche accurate e un po' sciupate: il suo bozzetto val più
della novella; e la novella molto meglio del romanzo». Che cosa poi fossero i
«bozzetti» di Pirandello, non riusciamo a capire: forse intendeva le novelle più
brevi.
Alla fine del 1913, Pirandello aveva pubblicato - in gran parte sul «Corriere
della Sera» e poi quasi tutte raccolte in otto volumi -centotrentacinque
novelle; i romanzi L'esclusa, n turno, Ilfu Mattia Pascal, Suo marito, I vecchi
e i giovani; il saggio sull'umorismo. Ai fini della formulazione di un giudizio
critico intelligente, meditato, sicuro, I'opera sua offriva già una compiuta
articolazione e definizione. Ma Serra non se ne accorgeva; e figuriamoci gli
altri, Croce principalmente incluso. E le novelle specialmente (e si poteva
anche fare richiamo, ma con molta cautela, a quelle di Capuana) avrebbero dovuto
dare più che un awiso sulla novità e forza dello scrittore: e basta gettare
l'occhio sull'elenco cronologico che ne fa il Lo Vecchio-Musti nell'appendice
bibliografica al volume Saggi, poesie e scritti varii. E non che si voglia qui
affermare che le novelle siano meglio del romanzo. Savinio diceva: «Si è tentato
di sostenere la superiorità di
randello comunica.
SICILIA. Nel suo saggio sul Mastro-don Gesualdo, ad un certo punto Lawrence dice
dei siciliani: «E presi uno per uno, gli uomini hanno qualcosa della noncuranza
ardita dei greci. E quando stanno insieme come cittadini che diventano gretti».
Giudizio acutissimo (e a «gretti» si può anche sostituire «micidiali»), che di
fatto Pirandello condivide e discioglie in gran parte dell'opera sua. Ma come
ogni siciliano che vede gli strumenti di giudizio, che egli stesso ha offerto,
adoperati senza rispetto e cautela, in accusa irreversibile, Pirandello è
portato a difendere la Sicilia, i siciliani, ogni volta che li sente offesi -
anche se allusivamente o vagamente - dal pregiudizio.
Nel 1932, Emilio Cecchi, che dirigeva la Cines, ebbe idea di trarre un film
da,la novella di Pirandello Lontano. Gliene scrive, ma cautamente facendogli
presente l'inconveniente, I'inconvenienza, che ne deriverebbe: il centro della
vicenda risultando quello di un conflitto (che il film avrebbe reso più
evidente) tra una civiltà energica e libera, qual quella norvegese da cui viene
il protagonista, e un ambiente ristretto e meschino qual quello siciliano
assegnatogli dalla sorte. E Pirandello: «Tutt'a,tro! Non era, né poteva
rango - che, forse per essere state in vita negate alla maternità, si dedicavano
a cambiar posto alle culle dei neonati e a produrre nei loro capelli un male
detto appunto «treccia di donna». Ma c'erano anche spiritelli scherzosi, aerei,
fatti di vento, chiamati « signureddri», piccole signore, poiché proprio nelle
case in cui erano vissute venivano di notte a signoreggiare: come le quattro
defunte mogli di don Diego Alcozèr.
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i due Colloqui coi personaggi: e il secondo con la madre, «ombra solo da ieri»
(donna Caterina Ricci-Gramitto era morta non molti giorni prima: e si spiega
anche col soggiorno a Girgenti per il luttuoso evento la pubblicazione dei
Colloqui sul « Giornale di Sicilia», quasi a modo di necrologio). E da questo
punto è ormai chiaro che i personaggi di Pirandello sono anche « pensionati
della memoria», sono anche «ombre», sono anche « spiriti»; e si potrebbe anche
dire che sono, in rispondenza al sentire popolare, «anime del purgatorio» che
allo scrittore chiedono riscatto. E sono molti i luoghi, nelI'opera di
Pirandello, cui possiamo riferirci a dimostrazione della somiglianza tra
fantasia e «comunicazioni spiritiche»: ma si pensi soprattutto ai Sei
personaggi, alla loro apparizione, all'apparizione di madama Pace; e alla giusta
soluzione scenica che se ne diede alla prima rappresentazione parigina,
facendoli ascendere dal profondo, dagli inferi.
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Così - come ancora nell'Islam di cui Girgenti era parte - Pirandello il teatro
lo inventa. Dirà Pitoeff: « Il teatro era in lui, egli era il teatro».
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Del pericolo che aduggiò Pirandello, Tilgher, come abbiamo detto, si accorse più
tardi: nel 1928, ma ne fece piena dichiarazione nel 1940. «Pirandello era un
grandissimo scrittore ed io un modestissimo critico, tuttavia io avevo la
pretesa di valere per me e non pel riflesso che della gloria di Pirandello
potesse cadere su me. Perciò non intervenni mai per protestare o correggere o
rettificare le infinite volte in cui si stampò o si disse o si fece dire a
Pirandello che egli non accettava l'interpretazione che io avevo dato della sua
opera, la rifiutava, la rinnegava. Qui, mi limito a constatare che, qualunque
cosa Pirandello pensasse della mia interpretazione, è un fatto che nelle
innumerevoli conferenze con cui preludiava alla recita delle sue opere e nelle
sue opere stesse successive alla pubblicazione del mio saggio, egli espose la
sua intuizione della vita e del mondo con le stesse precise parole eformule del
mio saggio. Si dica quel che si vuole: è un fatto che senza quel mio saggio
Pirandello non sarebbe mai giunto a tanta chiarezza sul suo mondo interiore; è
un fatto che senza quel mio saggio, Pirandello non avrebbe mai scritto Diana e
la Tuda. Ma dopo questo innocente sfogo permesso alla mia vanità, sono il primo
a riconoscere, e l'ho già riconosciuto nella terza edizione dei miei Studi sul
teatro contemporaneo del 1928 che per Pirandello sarebbe stato molto me
glio che quel mio saggio egli non lo avesse mai letto. Non è mai troppo bene per
un autore acquistare coscienza troppo chiara di quello che è il suo mondo
interiore. Ora, quel mio saggio fissava in termini così chiari e (almeno a
tutt'oggi) così definitivi il mondo pirandelliano, che Pirandello dové
sentircisi come imprigionato dentro, donde le sue proteste di essere un artista
e non un filosofo (e chi aveva mai detto altrimenti? io mi ero limitato a dire
che per capire la sua arte bisognava rendersi conto esatto della sua intuizione
della vita e del mondo, della suafilosofia) e i suoi tentativi di evasione. Ma
più cercava di evadere dalle caselle critiche in cui io lo avevo collocato e più
ci si serrava dentro. Duello drammatico cui io assistevo in silenzio e da
lontano, astenendomi dal vederlo, dal frequentarlo, dal parlargli, dal parlarne,
dallo scrivergli e (dopo il 1928) dallo scriverne. Rispettavo così il giusto
orgoglio del grande scrittore senza rinnegare di un punto le mie convinzioni di
critico».
per quanto io possa». Ed è inutile che da parte nostra si dica che quest'ultima
frase è una offerta di mediazione, nell'eventuale conversione di Tilgher al
fascismo. In effetti, è lo stesso punto di vista di Borgese nei riguardi di
Croce, ma in Borgese mosso da un netto antifascismo e da un'altrettanto netta
avversione a Croce: che l'antifascismo crociano era una « incoerenza».
L'avversione di Pirandello a Tilgher era meno netta e meno maliziosa: perciò il
suo stupirsi che Tilgher sia tra gli ostinati a non voler capire la necessità
storica del fascismo; e gli parla, poi, da uomo che « ha capito», non come
Borgese da uomo che aveva capito e recisamente aveva rifiutato. Che poi
Pirandello non avesse capito, è altro discorso: e da fare. Intanto è da dire che
con l'antiparlamentarismo - senz'altro matrice del fascismo, ma non sufficiente
a spiegarlo interamente e internamente - non abbiamo l'intera e interna ragione
dell'adesione di Pirandello al fascismo. Intanto è da dire che questa adesione
esplode dopo il delitto Matteotti e nel momento in cui il regime appare
vacillante. Pirandello, insomma, si esponeva a un rischio. «Il fascismo» - si
legge nella biografia del Nardelli, pubblicata nel 1932 - « attraversava una
tragica ora; un tempo di defezioni e di fuggi fuggi. Fu proprio allora che
Pirandello si iscrisse al partito». Un voler essere diverso, uno scatto d'umore,
un puntiglio. Da siciliano. Con a monte, s'intende, una simpatia qual quella
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dichiarata al Crémieux nel 1934: «Si è scritto qualche volta che sono stato uno
dei precursori del fascismo. Nella misura in cui il fascismo è stato il rifiuto
di tanta dottrina preconcetta, volontà di adeguarsi alla realtà, di modificare
la propria azione nella misura in cui la stessa realtà si modifica, io credo si
possa dire che ne sono stato uno dei precursori...».
qualche giorno dopo affermando cosa evi dentemente non vera: che l'attacco del
«Mondo» era diretto non al Pirandello scrittore, ma al Pirandello uomo di parte.
Pirandello non interviene se non con una secca dichiarazione: « Chi mi conosce
sa che non sono un uomo volgare». La polemica continua, cresce, finisce con
l'inscriversi nei termini, per così dire, di esasperato tilgherismo del rapporto
autore-critico; e così viene riassunta da un foglio umoristico: «D'altro non si
discute e si discorre, I per ogni dubbio torre, I su chi mai nacque prima: I se
Tilgher (uovo) o Pirandel (gallina) ». Ancora due anni dopo, sulla rivista
«Humor» Tilgher pubblicava anonimamente una velenosissima nota contro
Pirandello. Cominciava: «L'ultima tragedia di Luigi Pirandello, Diana e la Tuda,
rappresentava la lotta della Forma con la Vita, con sconfitta della Forma
(Sirio) presa alla gola dalla Vita (Giuncano) e strangolata. Sappiamo che
l'illustre scrittore ha sul telaio altre tragedie: in una è la Forma che
strangola la Vita; in un'altra Forma e Vita si strangolano a vicenda; in una
terza Forma, Vita e Autore sono strangolati dal pubblico, ecc. ecc.»; e fino a
questo punto siamo nello scherzo. Ma poi la nota si fa acre, rancorosa,
accusatoria. E volgare. Ma forse valse a sciogliere del tutto Pirandello dalla
suggestione che su una parte della sua opera il critico aveva innegabilmente
esercitato.
TOZZI. Federigo Tozzi. Sul romanzo Con gli occhi chiusi di Tozzi, Pirandello
pubblicava un articolo nel 1919: di fervido consenso, di acute notazioni (tra le
altre: « Si direbbe naturalismo: ma non è neanche questo; perché qui tutto,
invece, è atto e movimento lirico...»). L'anno prima, Tozzi aveva pubblicato un
saggio su Pirandello. Ma leggendo le due cose - e soprattutto conoscendo i due
scrittori - è evidente che non si è trattato di uno scambio di affabile
attenzione, di superficiale estimazione e simpatia: i due non potevano non
amarsi in quel che scrivevano; e di questo amore si può anche trovare radice in
quel che l'uno e l'altro in quegli anni scrissero di Verga.
spetti interiori e nobili; con dispetti dolorosi o frenetici; una prosa che ha
bisogno continuamente di andare innanzi compiacendosi di tutto ciò che scopre da
dire. Molte volte sembra che non sia sufficiente a reggere tutta la forza che
c'è dentro: e allora si sente quasi invisibile; con ogni parola che dimentica se
stessa per appartenere più volentieri al significato totale di tutta la novella.
Non ci sono parole che ci fanno attendere, o che esigono un rispetto di per se
stesse. Esistono solo perché non se ne può fare a meno. E lo stile è
continuamente in balìa di tutti gli scatti, di tutte le giocondità e le
tristezze, di questa inquietudine che si convince di essere indispensabile. Non
è una prosa che prende vita dalle parole, ma sono le parole che prendono vita da
quel che è dentro. Le parole sono raschiate, assottigliate, rese quasi
imponderabili; adoperate senza nessun riguardo; messe lì magari costringendole a
fatiche inattese; ma hanno un taglio che non sbagliano mai; sono parole leali;
hanno umiltà rabbiose e anche cattiverie intelligenti. Il Pirandello non le
adopera come le trova nel vocabolario; egli le mette un poco di traverso perché
anch'esse, con questa positura, prendano parte al significato di tutta la prosa.
Qualche volta sembrano impiccolite, perché debbono stare troppo fitte; tanto c'è
bisogno di compattezza intima. Ma si sente che esse, nel lavoro, diventano tutte
d'una stessa razza; e non sarebbe più possi
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po la Pasqua, si recava sul Monte Carmelo, ne' Luoghi Santi per ascoltare i
bisogni de' fedeli»). E ci sono le udienze dello scrittore, ogni domenica
mattina, « dalle otto alle tredici». Erano, nei paesi, il giorno e le ore delle
udienze della cosiddetta Conciliazione, in cui un giudice di nomina, non di
professione, risolveva le piccole controversie. Quel giorno e quelle ore
Pirandello, forse inawertitamente balenandogli la parola « conciliazione», e il
senso, li adotta per dare udienza ai suoi personaggi: per conciliarli,
nell'arte, a se stessi: con giustizia spietata e insieme con grande
misericordia.
VESTIRE GLI IGNUDI. E stato più volte raccontato che Pirandello bambino «un
giorno uscì di casa vestito domenicalmente di un abito da marinaretto, appena
appena estratto fuori dal pacco portato da Palermo; e tornò dalla passeggiata
seminudo, perché aveva rivestito del suo abito un bimbo che aveva visto coperto
di cenci». Questo precetto di misericordia corporale della Chiesa cattolica, la
cui pratica gli fu allora rimproverata (il cristianesimo!), divenne poi anche
precetto di misericordia morale, spirituale: manifestamente, e con dolorosa
ironia, nella commedia che appunto s'intitola Vestire gli ignudi.
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Giustificherebbe dunque, riguardo al titolo, lo sfaglio della mia memoria.
Da questa novella, nel 1937, Eduardo De Filippo trasse i tre atti della omonima
commedia: «scenario di Luigi Pirandello concertato e dialogato in dialetto
napoletano da Eduardo De Filippo». Non sappiamo qual misura abbia avuto, al di
là della novella, la collaborazione di Pirandello. Nella nota che Savinio dedicò
allo spettacolo, si dà a De Filippo la lode che «l'assenza della mano di
Pirandello non si avverte» nel dialogo; espressione che può suonare un po'
ambigua, ma poiché Savinio ambiguo non era, ed ebbe grande anche se distante
ammirazione per Pirandello, vuole semplicemente dire di un dialogo assolutamente
pirandelliano. Ma la nota di Savinio va soprattutto ricordata per l'affinità che
scopre tra siciliani e russi, tra Pirandello e Dostoevskij. «Profonda affinità»
dice. «Il modo diverso con cui russi e siciliani reagiscono alla cornificazione,
sembra contraddire alla mia tesi. Ma in verità non contraddice affatto. Il
romanticismo e l'animismo dei russi, nei siciliani è largamente compensato da un
innato sentimento cosmico. Ora che conta, davanti a questi tesori dell'abisso
umano, un poco più o un poco meno di gelosia? Senza dire che le reazioni di
Michele Crispucci rivelano una strana aria di famiglia col masochismo tra
patetico e grottesco di Pavel Pavlovic: l'eterno marito... Altra differenza tra
russi e siciliani: la r ~ Pn7i~n~o necessaria ai primi, ignota ai secondi. Dal
fondo delle galere siberiane, i personaggi di Dostoevskij volano direttamente in
Paradiso. Ai personaggi di Pirandello, queste capacità aviatorie mancano. Più
tardi, quando con la Nuova colonia e soprattutto coi Giganti della montagna il
mondo di Pirandello ci avrà rivelato tutti i suoi segreti, questi personaggi
neri e dai movimenti di automi avranno modo, se lo desiderano, di passare in un
"altro mondo", il quale però non somiglia affatto a un ospizio per anime
redente... ».
nel bisogno, nell'angoscia del bisogno che tre bambini - il più grande di otto
anni rendono quotidiana, continua. Angoscia che si somma ad altre fino a quel
momento segrete, rimosse: e Antonietta Portulano vi si smarrisce. La «roba», la
sua «roba», era rifugio, sicurezza, identità: come per lungo ordine d'anni e di
sentimenti nella sua famiglia - e in ogni famiglia pari alla sua si era abituati
a concepirla.
12. Angus Wilson e Philippe Jullian, Per chi suona la cloche (2 a ediz . )
14. Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra ciDiltà
(15aediz.)
39. 40.
41 42.
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45.
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90. Hermann Hesse, Una biblioteca della letteratura uniDersale (6a ediz.)
104. Guido Morselli, Incontro col comunista 105. Sergio Quinzio, Dalla gola dkl
leone 106. Karl Valentin, Tingeltangel 107 . Jean-Jacques Langendorf, Elogio
funebre dkl generak AugwtWilhelm Don Lignitz 108-109. 0. Henry, Memorie di un
cane giallo
111. Carl Seelig, Passeggiate con Robert Walser 112. Charles Duff, Manuak del
boia
116. Jean Paul, Giornak di bordo dell'aeronauta Giannozzo 117. Fausto Melotti,
Linee
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Ditirambi di Dioniso e Poesie postume
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piccolo almanacco di Radetzky 144. Elvio Fachinelli, Clawtroftlia 145. Giorgio
Colli, Per una enciclopedia di autort classut 146. Thomas de Quincey, Gli ultimi
giorni di Immanuel Kant
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(5aediz.? 153 Aleksandr Zinov'ev, Appunti di un Guardtano Notturno
158 . Simone Weil, Riflessioni sulk cawe della libertà e dell 'oppressione
sociak (2aedi.)
(2a ediz.)
181. Colette, La ftne di Chéri 182. Edme Boursault, Lettere di Babet 183. Henri
Maspero, n Soffto ViDo 184. Friedrich Nietzsche, Schopenhauer come educatore
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200. Simone Weil, Venezia salDa 201. Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica
202. M. Granet - M. Mauss, n linguaggio dei sentimenti
210. Milan Kundera, L'arte del romanzo 211. Eugenio Montale, Mottettt 212 losif
Brodskij, Dall'esilio
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221. Hippolyte Taine, Etienne Mayran 222. Carlo Michelstaedter, 11 dtalogo della
salute 223. E M. Cioran, Esercizi di ammtraztone
226. Giovanni Macchia, Tra Don CioDanni e Don Rodngo (2a ediz.)
227. Alberto Savinio, Capitano Ulisse 228. Vivant Denon, Senza domant 229.
Rudolf Borchardt, Città italtane 230 Colette, Sido
diDina
Stampato nel dicembre 1989 dal (,onsorzio Artigiano <~ L.V.(,. » - Azzate
Piccola Biblioteca Adelphi Periodico mensile: N. 23511989 Registr. Trib. di
Milano N. 180 per l'anno 1973 Direttore responsabile: Roberto Calasso