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13/5/2020 Il secondo libro: la sfida di Glaucone

Il secondo libro: la sfida di Glaucone

L'ipotesi contrattualistica
Il mito dell'anello di Gige
Il soccorso di Adimanto: le responsabilità dell'educazione tradizionale

Trasimaco è stato confutato perché, professando la sophia, 13 non era in grado di privatizzare
interamente i canoni della conoscenza senza contraddire le condizioni di possibilità della sua stessa
professione. Ma la questione della giustizia – e, analogamente, la questione del rapporto fra la vita
teoretica e la politica – rimane aperta per chi non professa la sapienza. Perché la giustizia è meglio
dell’ingiustizia? Il fratello di Platone, Glaucone, che non è né sofista né filosofo, riformula il problema
proponendo a Socrate una classificazione dei beni, fondata sui motivi per i quali vale la pena sceglierli
(357b ss.):

1. beni che accetteremmo di avere di per sé stessi e non per quel che ne segue;

2. beni che amiamo sia per sé stessi, sia per quel che ne deriva (per esempio avere intelligenza,
vista e salute);

3. beni che vorremmo non per sé stessi, ma solo per il vantaggio che arrecano (far ginnastica,
curarci se siamo malati, lavorare per guadagnare denaro).

La giustizia, per Socrate, dovrebbe appartenere alla seconda categoria: chi aspira ad essere felice,
dovrebbe amarla di per se stessa, oltre che per i vantaggi che essa comporta. Glaucone gli fa osservare
che, per la maggioranza delle persone, la giustizia appartiene tutt’al più alla terza categoria: viene
perseguita per le mercedi (misthòi) e la buona reputazione (eudokimesis) che ne derivano, ma in se
stessa viene considerata difficile e gravosa (357d ss.), e gli chiede di dimostrare che vale la pena
perseguirla anche di per sé, in quanto appartiene all’ambito delle cose che hanno davvero valore e si
fanno volentieri senza che nessuna necessità lo imponga.

L'ipotesi contrattualistica

L’opinione comune sulla giustizia, dice Glaucone, si basa sull’idea che commettere ingiustizia sia un
bene e subirla un male. Ma le persone che non hanno la forza di prevalere sugli altri e temono che
gli altri possano a loro volta sopraffarle, trovano vantaggioso mettersi d’accordo per non farsi
ingiustizia a vicenda. Così hanno cominciato a porre leggi e a far patti fra loro, e hanno
chiamato nòmimos (legittimo e conforme alle consuetudini) e dìkaios (giusto) ciò che è stabilito
dal nomos (358e-359a ss.).

Questa è la genesi e la sostanza (ousìa) della giustizia: un modus vivendi stipulato fra persone che
non hanno la forza di sopraffarsi a vicenda. Si tratta, però, di una via di mezzo tra una opzione
migliore, ma impraticabile, commettere ingiustizia senza pagarne la pena, e una opzione peggiore,
da evitare: subire ingiustizia senza avere la forza di vendicarsi. Ma se fosse possibile mettere in
pratica l’opzione migliore, nessuno sceglierebbe la giustizia.

La posizione di Glaucone anticipa il contrattualismo nella versione di Hobbes, cioè nella forma di
un pactum unionis fra individui, cui non partecipa il sovrano: 14 si pattuisce la giustizia, che è una
costruzione convenzionale, per debolezza e per paura; ci si distacca dal comportamento giusto non
appena si ha la forza o l’occasione di farlo senza danno.

Secondo la testimonianza di Aristotele (Politica III 1280b) una tesi simile a quella di Glaucone era
sostenuta dal sofista Licofrone, per il quale la legge (nomos) era solo una composizione (syntheke)
che assicura reciprocamente il giusto ai cittadini, ma non li rende buoni e giusti. In questo modo,
commentava Aristotele, la comunità politica (koinonia) diviene simile a una alleanza militare

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13/5/2020 Il secondo libro: la sfida di Glaucone

(symmachia), con la sola differenza che ha luogo fra vicini e non fra popoli reciprocamente distanti.
Una posizione analoga è esposta da Tucidide nel dialogo fra Ateniesi e Melii (V,89.1), in questi
termini:

...nella considerazione [logos] umana il giusto [dikaia, come complesso dei diritti e dei doveri di
ciascuno] viene preferito per una uguale necessità [apo tes ises ananches], mentre chi è più
forte fa quello che può e chi è più debole cede. (V, 89, 1)

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