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KAPUSCINSKI
IL CINICO NON E ADATTO
A QUESTO MESTIERE
ri
Prima era possibile vivere separati, senza
conoscere nulla gli uni degli altri e da un
paese all’altro. Ma nel ventunesimo secolo
non lo sarà più. Ouindi dobbiamo lentamente
- o meglio rapidamente - adattare a questa
nuova situazione il nostro immaginario, il
nostro tradizionale modo di pensare. Cosa che
è ovviamente molto di ft i ci le, in molti casi
pressoché impossibile in tempi brevi.
Il nostro immaginario è stato educato a
pensare per piccole unità: di famiglia, di
tribù, di società. Nel diciannovesimo secolo si
pensava in termini di nazione, di regione o di
continente. Ma non abbiamo strumenti né
esperienza per pensare su scala globale, per
capire cosa essa significhi, per accorgerci di
come le altre parti del pianeta ci influenzino e
come noi influenziamo loro.
In altre parole è molto difficile capire che
ognuno di noi è un essere umano connesso
agli altri esseri umani, che dobbiamo
immaginarci come figure dotate di moltissimi
fili e legami che vanno in ogni direzione; per
molti è difficile accettare questa realtà, ecco
perché viviamo tante tensioni, depressioni,
stress.
Nel mio caso, proprio perché vivevo in
questi continenti, ho tentato di far capire at-
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traverso i miei scritti che viviamo un
momento di grande rivoluzione, a cui tutti
prendiamo parte; e che in primo luogo
dobbiamo comprendere la situazione e quindi
adattarci a essa.
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cui scriveremo, la incontriamo per un
brevissimo periodo della loro e della nostra
vita. Talvolta vediamo qualcuno per cinque o
dieci minuti, stiamo andando in altri luoghi e
quella persona non la incontreremo mai più.
Quindi il segreto di tutto sta nella quantità di
cose che queste persone sono capaci di dirci
in un tempo così breve. Il problema è che le
persone, al primo contatto, sono di solito
molto silenziose, non hanno voglia dì parlare.
E un’esperienza che appartiene a tutti:
bisogna avere il tempo di adattarsi all'altro.
Ma quei pochi minuti a volte sono gli unici
che avete per parlare con una persona! Per un
giornalista, se quei minuti passano in silenzio
o danno vita a una comunicazione
insoddisfacente, rincontro è un fallimento. Il
successo dipende allora da situazioni che
sono completamente al di fuori del nostro
controllo, quasi degli "incidenti".
Ln altro grande problema di questa
professione, almeno sul piano del giornalismo
internazionale, è quello della lingua. È un
problema costante dell’unnanità. Anche qui,
oggi, tra di noi, esiste il problema della
lingua. Se io parlassi nella mia lingua
materna,: il polacco, mi esprimerei in un
modo assai' piu interessante. Ma parlando in
inglese, la lingua di un altro popolo, non sono
in gra-
io di andare troppo per il sottile e una serie di
stum a ture vanno perdute. E Maria sta,
oltretutto. traducendo da una lingua che a sua
volta non è la sua.
Quello della lingua è uno dei problemi
crescenti nel mondo. Una delle caratteristiche
del mondo contemporaneo è la crescita dei
nazionalismi e delle lingue legate ad essi.
Ogni nazione e ogni regione all'interno delle
singole nazioni insiste sempre più a voler
parlare la propria lingua e non quella degli
"a.tri". Ciò si riflette anche sulla
comunicazione interpersonale. Se qualcuno
vuole parlare con me e deve farlo nella mia
lingua, non riesce a esprimersi appieno. Vi
faccio un esempio: recentemente è stato
pubblicato uri libro sulla storia degli Stati
Uniti. L’autore, quando ha cercato i
documenti relativi agli accordi scritti e
firmati dai colonizzatori eu- iropei che erano
in lase di espansione e dai capi delle tribù
indigene, gli indiani d’America, ha scoperto
improvvisamente che tutti questi trattati - in
qualsiasi anno, luogo o situazione fossero
stati adottati - erano scritti in una lingua
estranea a una delle due contropali i. E in più
gli indiani che li firmarono isuno analfabeti:
oltre a non parlare quella lingua non sapevano
neppure leggere né Iscri sere. Si è scoperto
cosi che tutti questi
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trattati, proprio a causa del problema della
lingua, sono in gran pane dei falsi. E quindi la
storia degli Stati Uniti d’America si fonda su
un'errata comprensione della lingua.
Il problema della lingua non è solo
internazionale, ma anche nazionale. Basti
pensare alle differenze linguistiche esistenti
in un paese come il vostro, dove la lingua
nazionale convive con i dialetti, le lingue
delle cosiddette minoranze c le lingue dei
gruppi di recente immigrazione.
Il problema della comunicazione, dunque, è
tremendo, specialmente per i giornalisti,
perché l’uso di un linguaggio preciso è una
questione molto delicata per la nostra
scrittura.
Ricapitolando: c’è un primo problema
psicologico, che consiste nel dover parlare
con persone mai incontrate prima di allora e
nel cercare di ricavarne il più possibile in
incontri di solito brevissimi. Il secondo
problema è quello linguistico: spesso non
riusciamo nemmeno a comunicare con l’altro,
perché non conosciamo la sua lingua né
abbiamo traduttori a disposizione. E così
magari costruiamo la storia solo su una
percezione visiva.
Vi faccio un esempio riportato anche in un
mio libro, Le Shah, scritto nel periodo della
evoluzione khomeinista. Tale rivoluzione si
esprimeva sotto forma di grandissime
manifestazioni di strada. Quando ero a
Teheran, vent anni fa, le lingue europee erano
vietate; la lingua locale era il farsi e io non lo
parlavo. Le fonti ufficiali non avevano nessun
interesse a far sapere alla stampa estera che
.osa succedeva davvero nel paese. Le notizie
relative a manifestazioni di piazza,
assembramenti, eccetera, venivano
regolarmente censurate. E, non conoscendo la
lingua del. posto, era davvero un problema
trovare fonti alternative di informazione. Be’,
mi ci è voluto un po’ di tempo, poi mi sono
accorto che lavorando su certi indizi, su certi
microse- anali in apparenza insignificanti,
non era difficile prevedere quello che si stava
preparando. Avevo notato che una piccola
bottega di una via popolare di un certo
quartiere, uno di quei negozietti che
espongono le proprie mercanzie fin sulla
strada, in determinali giorni non esponeva la
propria merce o non apriva addirittura. Non
mi ci è voluto molto a capire che potevo
servirmi, di questo segnale come di un
dispaccio d’agenzia più che attendibile. A
seconda dei movimenti di piazza, di cui era
ovviamente al corrente, il proprietario della
bottega sceglieva la sua linea di condotta,
mandando così a dire a
chiunque voleva capire l'antifona cosa
aspettarsi, a che ora e in quale parte della
città.
Ci sono molti casi come questo, ma era
solo per dire che nel nostro mestiere spesso
bisogna lare grande attenzione non tanto alle
cose che ci vengono dette dalla radio, dalla
televisione o nelle conferenze stampa, ma a
ciò che c semplicemente attor no a noi e che
rientra, appunto, nelle impanci era bilia.
Altro problema: ognuno di noi vede la
storia e il mondo in maniera diversa. Se
ognuno di noi andasse in un posto dove sta
succedendo qualcosa e volesse descriverlo,
avremmo versioni completamente differenti
di quegli eventi, ognuno li racconterebbe a
modo suo, A chi credere? Quali sono i
criteri?
Ho una sorella di un anno più giovane di
me e a cui voglio molto bene; vive in Canada.
Ci siamo visti due o tre anni fa. Da tanto
tempo avevo in mente di scrivere un libro
sulla nostra infanzia in un piccolo \ illaggio
della Bielorussia, dove siamo cresciuti
insieme e dove siamo sempre stati
attaccatissimi. Così ho pr ovato a rispolverare
insieme a lei i nostri ricordi della seconda
guerra mondiale. Le ho chiesto di dirmi cosa
ricordava di quegli anni, poi ho tirato fuori le
mie memorie. Ebbene, pur avendo vissuto
sempre assieme, ciascuno di noi ricordava
cose
totalmente diverse. Continuavo a chiederle se
ricordava alcuni episodi particolari e lei
rispondeva di no. E la stessa cosa avveniva
per me quando era lei a domandare.
Non è che un esempio di quanto sia
difficile il nostro lavoro con gli aln i. Non
perché ci vogliano imbrogliale, ma solo
perché la nostra memoria funziona come un
meccanismo selettivo. Intervistando persone
diverse, avremo diversi racconti dello stesso
evento. Prendiamo resperimento l'atto da una
grande scrittrice messicana, Helena
Poniatovv- ska: nella storia recente del
Messico è avvenuto un fatto molto tragico, il
massacro di diverse centinaia di studenti a
Città del Messico nel 1968, nella Piazza di
Tlatelolco. Poniatovvska ha scritto un libro -
il cui titolo f appunto La notte di Tlatelolco -
che consiste in una pura cronaca, senza alcun
commento, di questo evento che avvenne
tutto in quella singola piazza, raccontato però
da alcune centinaia di persone che vi
assistettero. E un libro che rivela qual è il
principale problema di chi fa giornalismo: i
racconti di questi testimoni sono l'uno
diversissimo dal- l abro. .Ma, mentre
Poniatovvska ha scritto un libro di
cinquecento pagine, per il giornale voi dovete
raccontare una storia in tre pagine, oppure
(are un servizio di appena un
minulo per la radio o la televisione. La
selezione delle cose da scrivere è interamente
affidata al vostro intuito, al vostro talento e
ai vostri principi etici. Possiamo mentire
senza volerlo, solo perche la nostra memoria
è limitata o i ricordi sono sbagliati, oppure a
causa delle nostre emozioni.
L'ultimo problema riguarda il mutare dei
nostri atteggiamenti e dei nostri ricordi col
passare del tempo. Talvolta, tra l’evento su
cui abbiamo raccolto del materiale e il
momento in cui ci accingiamo a scriverne,
trascorre un lungo periodo di tempo. E nel
corso del tempo i nostri ricordi sono
cambiati.
Tutto questo è solo per di ivi quanto è
difficile la nostra professione, se soltanto
cominciamo a farla seriamente.
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con loro appena avessi finito gli studi. Cosi
1)0 completato la scuola a diciotto anni e il
giorno dopo ho iniziato a lavorare come
giornalista. Fin dal primo momento ho
scoperto quanto questa professione sia
affascinante. Eravamo appena usciti dalla
seconda guerra mondiale, l'Europa era
distrutta, molti profughi vagavano da una
nazione all'altra, tra la povertà e le macerie.
Può sembrare patetico, ma fu allora che si
sviluppò in me la passione di descrivere la
nostra povera esistenza umana. Mi interessava
molto anche vedere il mondo, ma eravamo nel
perìodo comunista e per noi era impossibile
andare all'estero. Poi venne un po’ di
tranquillità nei rapporti internazionali, e dopo
la morte di Stalin ci fu a poco a poco
concesso di viaggiale fuori dal nostro paese.
Per il mio primo viaggio fui mandato in India,
Pakistan, Afghanistan. Fin da allora ho diviso
il mio tempo professionale tra lo scrivere del
mio paese e lo scrivere di altri paesi.
Sono convinto che il ventesimo secolo sia
stato un secolo estremamente affascinante. Di
solito viene descritto come un secolo di
disastri: la prima e la seconda guerra
mondiale, le dittature, i regimi totalitari,
fascismo, comuniSmo. Io credo che nel
ventesimo secolo abbiamo vissuto
un'esperienza storica
unica: la creazione di un pianeta
indipendente. Se prendiamo una cartina del
nostro pianeta com’era all’inizio del secolo e
una di come è alla fine, avremo due situazioni
completamente differenti. Nella prima
abbiamo pochi stati indipendenti e il resto del
mondo vive sotto la dipendenza coloniale o
semico- lonialc. Oggi abbiamo quasi duecento
stati indipendenti, e il loie numero sta ancora
crescendo. Il colonialismo ha cessato di
esistere e le colonie non esistono quasi più.
Benché il livello economico di moltissime
nazioni sia bassissimo, benché ci siano
società molto infelici, viviamo in un mondo
in cui quasi sei miliardi di persone sono,
almeno nominalmente, esseri umani
politicamente indipendenti. Credo che questa
sia una caratteristica positiva del nostro
secolo, che non dovremmo passare sotto
silenzio.
Io sono stato uno dei testimoni di questo
fenomenale evento, che non era mai avvenuto
prima nella storia dell’umanità, né si ripeterà
ancora. Tutte le mie opere sono dedicate alla
descrizione di questa eccezionale esperienza
umana.
Quanto alla seconda parte della sua
domanda, la nostra professione non può
essere esercitata al meglio da nessuno che sia
cinico. Occorre distinguere: una cosa è essere
sceltici, realisti, prudenti. Questo è assoluta-
mente necessario, altrimenti non si potrebbe
lare giornalismo. Tutt’altra cosa è essere
cinici, un atteggiamento incompatibile con la
professione del giornalista. Il cinismo è un
atteggiamento inumano, che allontana
automaticamente dal nostro mestiere, almeno
se lo si concepisce in modo serio.
Naturalmente qui parliamo solo di grande
giornalismo, che è l'unico di cui valga la pena
occuparsi, non ceno di quel cattivo modo di
interpretarlo che vediamo di frequente.
Niella mia vita ho incontrato centinaia di
grandi, meravigliosi giornalisti, di diversi
paesi e in epoche differenti. Nessuno di loro
era un cinico. Al contrario, erano persone
molto legate a ciò che stavano facendo, molti-
serie, in generale persone molto umane.
Come sapete, ogni anno più di cento
giornalisti vengono uccisi c varie centinaia
vengono messe in prigione oppure torturate.
In varie parti del mondo si tratta di Lina
professione molto pericolosa. Chi decide di
lare questo lavoro ed è disposto a pagarne il
orezzo sulla propria pelle, con rischio e
sofferenza, non può essere cinico.
su
'Cnza alcuna connessione o riferimento al
contesto storico. C’è il resoconto del puro tatto,
ma non ne conosciamo né le cause né i precedenti.
La storia risponde semplicemente alla domanda:
perché?
Nella nostra professione è fondamentale avere
molta attenzione per il lettore (o tele- spettatore) a
cui ci rivolgiamo. Noi conosciamo di un fatto
molte più cose di lui, che anzi di solito non ne sa
assolutamente nulla. Dobbiamo allora avere molto
equilibrio. Dobbiamo introdurlo alla
comprensione dell'evento, dicendogli cosa è
avvenuto prima, narrandogliene la storia.
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separatamente. Per questo, su tutto ciò che viene
riportato, leggiamo e ascoltiamo gli stessi
resoconti, le stesse notizie. Prendete la guerra del
Golfo: duecento troupe televisive si concentrano
nella medesima area. Niello stesso momento
tantissime altre cose importanti e anche cruciali
avvengono in altre zone del mondo. Non importa,
nessuno ne parlerà: tutti sono nel Golfo. Perché lo
scopo di ogni grande network non è di offrire
un'immagine del mondo, ma di non essere battuto
dagli altri network. Se poi subito dopo ce un altro
grande avvenimento, tutti si muovono in quella
nuova direzione, e tutti ci resteranno sopra senza
avere il tempo di coprire altri luoghi. Questo è il
modo in cui l'uomo medio si fa un’idea della
situazione mondiale.
Naturalmente ci sono riviste, bollettini e
soprattutto libri che offrono un'immagine più
bilanciata e completa, ma sono per minoranze, per
piccoli gruppi di specialisti. Per il grande pubblico
l’inlormazione è solo il risultato della
competizione, della lotta tra i diversi media. Che è
un’altra storia.
L’altro tipo di manipolazione è quella
cosciente. Oggi i media sono disposti a parlare di
un avvenimento solo quando sono in grado di
spiegarne le cause e di fornire tut-
-
.e le risposte necessarie. Ad esempio, la cri- 'i in
Kosovo è in corso già da otto anni, ma non se ne
parla fino a quando non viene presa la decisione di
cominciare a risolverne il problema. La notizia
non esiste, se non si ha la risposta pronta sulle sue
cause.
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sieme alla ciurma della nave dà la caccia a una
pericolosa e inafferrabile balena, che alla fine
emergerà dal fondo e assesterà alla nave il colpo
mortale. A un certo punto sente il capitano, il
terribile, implacabile Achab, gridare lordine:
'Barca sopravento, raddrizzala per il giro del
mondo'. Ismaele allora pensa: 'Il giro del mondo?
Ce molto in queste parole che ispira sentimenti
d'orgoglio, ma dove conduce tutta questa
circumnavigazione? Soltanto, attraverso
innumerevoli pericoli, a quello stesso punto donde
si è partiti. Dove quelli che abbiamo lasciato
indietro, al sicuro, sono stati avanti a noi tutto il
tempo’. Eppure, Ismaele continua a navigare”.
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ragazzi, conoscerete altri mondi, altri mezzi. Però
quello che abbiamo cercato di comunicarvi
attraverso Kapuscinski è questa interiorità, questa
umanità, questa dignità. Ringrazio Maria Nadotti
che ce l’ha portato. Non è stato facile. La
Repubblica stamattina ha pubblicato un'intervista
per recuperare. L'ha inseguito fino a Zurigo. È un
piccolo esempio di potere: hanno scelto di non
veni- v a incontrarlo a Capodarco perché
dovevano dimostrare di essere i più bravi, cioè i pr
imi. Cercate degli esempi da non imitare e li avete
sotLo gli occhi.
Grazie di cuore a Ryszard Kapuscinski.
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Raccontare un continente
la storia nel suo farsi
Andrea Semplici: Lei è andato in Africa, la
prima volta, nel 1958. Aveva ventisei anni e il
Ghana di Nkrumah aveva appena conquistato
la propria indipendenza. Per questo continente
era cominciata la stagione delle grandi
speranze. Com’era l'Africa, allora?
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trovavo questo clima, questo fantasma della
libertà: era lo spirito di Uhuni, lo spirito
dell’indipendenza, parola chiave di quegli anni1.
La sola differenza che attraversava il continente
erano gli effetti dei tempi diversi di questa libertà.
Alcuni paesi riuscirono a ottenere l'indipendenza
prima di altri. Altri ancora dovettero attendere,
invece, molti anni. Ma lo spirito era davvero
comune a tutta l'Africa e il continente era unito da
questa aspirazione.
Le strade dell’indipendenza furono molto
diverse. Vi fu chi lottò con le armi per
conquistarla: l’Algeria fu il paese dove la lotta fu
più aspra e lunga, ma anche in molte altre
situazioni furono necessarie guerre sanguinose.
Nelle colonie portoghesi i conflitti durarono fino
agli anni Settanta. La rivolta dei Mau-Mau scosse
per anni il Kenya2, guerriglie divamparono nelle
regioni meridionali del Sudan.
Altri paesi, soprattutto ex colonie britanniche,
riuscirono a ottenere la libertà con strumenti
costituzionali. Ci furono trattative, conferenze che
ebbero luogo, alla fine degli anni Cinquanta, in
paesi come il Malawi, il Kenya e l’Uganda. La
Nigeria, paese importantissimo, divenne
indipendente attraverso questi accordi
costituzionali. Erano soluzio-
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::i di compromesso: la Gran Bretagna riconosceva
i diritti del nuovo paese e in cambio atteneva
privilegi economici e militari.
Le colonie francesi seguirono, invece, un :erzo
cammino: Parigi concesse l'indipendenza, ma a
condizione che il nuovo paese rimanesse nelle
mani di un’élite cresciuta culturalmente in Francia
e fedele al vecchio padrone coloniale.
Il 1960 fu l’anno delle indipendenze: diciassette
paesi africani, soprattutto ex colonie francesi,
ottennero la libertà. Ma quelli er ano anche gli
anni della Guerra Fredda e le grandi potenze
fecero subito irruzione in Africa.
I paesi africani si divisero, quasi
immediatamente, in due schieramenti: alcuni
scelsero alleanze occidentali, altri guardarono a
Est; alcuni si schierarono con Mosca, altri
strinsero accordi con gli Stati Uniti. Questa
divisione fu uno dei principali ostacoli all’unità
dei nuovi stati. Solo il grande prestigio r.i Hailé
Sei assi é; ri usci a far dialogare i due gJTjppi:
l’imperatore d’Etiopia fu accettato uà ognuno dei
due campi avversi. Si mantenne neutrale, incontrò
i leader africani e nel 1963 riuscì a organizzarne la
prima riunione: tutti i protagonisti delle
indipendenze si ritrovarono ad Addis Abeba. Fu
allora
che nacque l’Oua, l’Organizzazione dell’Unità
africana. Un appuntamento che io, giovane
cronista, non potevo mancare.
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. imperatore, per alcuni versi uomo moderno. era
davvero una figura uscita direttamente da quel
medioevo. Il suo potere era dispotico e assoluto. I
suoi atteggiamenti, i suoi abiti, il suo protocollo
erano propri di .ma corte medioevale. Hailé
Selassié sapeva .he non poteva sfidare la .sua
aristocrazia. Ne faceva parte, quei feudatari erano
il pilastro del suo potere: l'imperatore non poteva c
non aveva intenzione di cambiare le istituzioni
feudali dell’Etiopia. Era un uomo spietato: chi vi
si opponeva, era condannato. Chi -fidava
l'imperatore era morto. Dopo il tentativo di colpo
di stato del I960', la sua repressione fu priva di
ogni clemenza: uccise rutti i ribelli, compresi i
suoi collaboratori riu stretti.
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la nuova era dell'Africa, l'inizio del Rinascimento
africano. È durato solo due mesi questo
Rinascimento.
K5
sok> a proteggere gli interessi degli Stali Uniti:
l'Africa c un'alternativa indispensabile per gli
approvvigionamenti di petrolio destinati al Nord
America. L’Africa è il secondo fornitore degli
Stati Uniti, che comprano greggio in Nigeria, in
Gabon, in Angola .
Ma gli osservatori americani qualche ragione,
in fondo, l’avevano: gli interessi francesi e inglesi
in Africa sono ormai puramente politici. Parigi e
Londra non hanno più rilevanti ambizioni
economiche nel continente. Sa qual è la nuova
potenza economica in Africa? La Cina.
Pechino produce merci che l’Africa può
comprare. Sono prodotti che costano pochissimo e
sono cose che servono agli africani. Scarpe,
penne, sandali, catini, piccole radio, meccanismi
elettrici elementari, camicie, tessuti: i mercati
africani sono pieni di oggetti made in China. Ogni
villaggio, anche il più sperduto, utilizza prodotti
cinesi. Gli studenti, nelle scuole rurali, usano
quaderni cinesi. Sono tutti prodotti che costano un
dollaro, un dollaro e mezzo al massimo. Non un
centesimo di piti. Le merci europee sono troppo
care per l’Africa. E nessuna impresa europea può
produrre per clienti che non hanno denaro. La
Cina e, in misura minore, l’India non hanno rivali.
È un fenomeno sin-
polare: è come se si fossero riaperte, in questi
ultimi anni, rotte tradizionali, strade già percorse
centinaia di anni fa. Le prime vie commerciali,
ben prima dellairivo dei bianchi, allacciavano
l’Africa aU’Oriente, univano ie coste dell’Oceano
Indiano all'Asia, alla penisola arabica e al Medio
Oriente. Mercanti indiani e cinesi vendevano,
mille anni fa, le loro merci in Somalia, in
Mozambico, in Kenya. La cultura asiatica ha
influenzato, in 'laniera visibile, la religione, la
cultura e i commerci africani. Quegli antichi
legami -tanno ricostruendosi oggi, anno 2000.
8.S
‘.ure rupestri in Tanzania o a visitare i parchi «.lei
Kenya. Io dovevo occuparmi di politica, ài
economia, di guerre, lo volevo vedere l'A- : rica,
ne ammiravo la bellezza: sono stato costretto a
lavorarci per avere la possibilità di conoscerla.
Non potevo pagarmi viaggi in Africa.
Non era possibile nemmeno essere un free Un
giornalista polacco non poteva avere questa
opportunità. Per questo, a differenza di Moravia,
nei miei libri ho potuto raccontare solo l’Africa
dei colpi di stato, delle guerre, dei grandi leader
politici. Adesso ho più tempo e posso permettermi
altre cose: nell'ultimo libro appare la natura
dell’Africa, la sua cultura, i grandi ambienti. Ma
sempre con un’attenzione particolare all’uomo, ai
suoi rapporti con questa natura straordinaria.
o:
sciuto quando era ministro degli Esteri negli anni
Sessanta. Già allora era un uomo abile. Ma il suo
è un compito difficile. Ci vorrà tempo. La
pacificazione sarà un processo lento. Anche
perché vi è qualcosa, in Algeria, che rende tutto
molto complicato. Il simbolo di questo paese è la
casbah di Algeri: vicoli strettissimi, strade
anguste, un groviglio di gradini. Ln labirinto dove
è facile entrare e da cui è difficile uscire. Ecco:
l’Algerla è un luogo complesso, nessuno può dire
di conoscerla fino in fondo.
AS: All’altro capo del continente vi è un altro
paese particolare, il Sudafrica.
\>3
non è vita. Il Sudafrica è un paese splendido, ma
troppe sono le sue contraddizioni e fino a quando
non saranno eliminate, la possibilità di nuove
ondate di violenza sarà sempre reale. Ora la pace e
la speranza, grazie a questo vero miracolo, hanno
trionfato. T bianchi non sono fuggiti. Pochi,
pochissimi se ne sono andati. Mandela, con la sua
storia eccezionale, è uno dei padri dell’Africa.
N ote
%
Il racconto in uno spicchio d'aglio
John Berger, nato a Londra nel 1926, è autore di
romanzi, racconti, saggi, poesie, sceneggiature, testi
teatrali tradotti in varie lingue e di una copiosa produzione
come disegnatore e come documentarista. Delle sue opere,
a tut- t’oggi, sono state U adotte in italiano: Vita di un
artista (Longanesi, 1965), G. (Garzanti, 1974 e il
Saggiatore, 1996), Un settimo uomo (Garzanti, 1976), Le tre
vite di Lucie (Gelka Edizioni, 1992), Festa di nozze (il
Saggiatore, 1995), Del guardare (Edizioni Sestante, 1995),
Splendori e miserie di Pablo Picasso (il Saggiatore, Milano
1996), Questione di sguardi (il Saggiatore, 1998), Pagine
della ferita (Greco & Greco Editori, 1999).
Berger, che è uno dei massimi e più innovativi critici
dalie di questo secolo, collabora a varie testate
intemazionali, tra cui Frankfurter Rundschau, El Pais, The
Guardian.
Da oltre venticinque anni ha scelto di vivere in un
piccolo villaggio delle Alpi francesi.
John Berger: Ryszard Kapuscinski è un
viaggiatore geniale e probabilmente conosce il
mondo più di chiunque altro. Attraverso i suoi
scritti, egli ci dà la possibilità di seguirlo nei suoi
viaggi e nelle sue osservazioni. Di tanto in tanto,
mentre scrive, si ferma, alza
10 sguardo al cielo e dice qualcosa di più
generale, Per dare inizio a questa serata, vorrei
leggere una frase tratta da uno dei suoi libri, un
passo in cui Ryszard interrompe improvvisamente
il racconto, per un istante smette di osservare la
gente e dice:
“Come Colombo viveva in un’epoca di grandi
scoperte geografiche, in cui ogni spedizione
navale modificava il quadro mondiale, così noi
oggi attraversiamo un’epoca di grandi scoperte
politiche, in cui rivelazioni sempre nuove
cambiano incessantemente
11 quadro della contemporaneità”, ossia il
significato dell’essere vivi al giorno d’oggi.
Mi piacerebbe usare questa citazione co-
me argomento di questa serata: almeno per
iniziare, parleremo della relazione tra storie -
scrivere, se preferite, letteratura, o in altre parole
racconti stampati - e vita vissuta. In che cosa
consiste questo rapporto? E qualcosa di molto
misterioso.
Io ho una figlia, Katia, che ha sposato un greco
e vive ad Atene. Cinque giorni fa, ho ricevuto una
sua lettera in cui mi raccontava una breve storia.
Anche in Grecia si è verificata un'alluvione, come
in Italia, anche se di dimensioni piti modeste. Ma
prima dell’allu- vione, dice Katia nella lettera,
Atene è stata il teatro di un'altra tragedia, molto
più intima, di entità molto minore, una tragedia
che non ha trovato spazio nella stampa mondiale.
L'autista dell’autobus 222, che mia figlia prende
ogni mattina per andare al lavoro, ha perso il
controllo e l’autobus, dopo aver sbandato fino
all'altro lato della strada, ha investito un gruppo di
persone che aspettavano alla fermata,
principalmente studenti diretti all’università. Nove
di loro sono rimasti uccisi, schiacciati sotto
l’autobus, e molti altri sono stati feriti, alcuni
gravemente, e portati in ospedale. Il giorno dopo,
Katia ha preso l’autobus 222, è scesa alla solita
fermata, quella dove era avvenuto l’incidente, e ha
visto un gruppo di tre o quattrocento uo
mo
mini anziani che parlavano appassionatamente e
con grande concitazione, il genere di uomini che
si vedono solitamente seduti al bar, a giocare a
carte o a backgammon. Ma quella mattina erano
tutti in strada. Mia figlia credeva che si stesse
svolgendo un comizio o una specie di
manifestazione, magari pei' i tagli delle pensioni.
Invece, si trattava di ben altro: quei tre o
quattrocento nomini, erano riuniti per discutere e
commentare l'incidente del giorno prima. Uno
di :oro diceva: "È stato qui che ha perso il
controllo e ha investito quel vecchio". E un altro
rispondeva: "No, è impossibile, perché se quel
vecchio losse stato qui, non sì sarebbe rotto le
gambe, che Dio lo protegga e gli sal- \ ì l'anima.
Ora è in ospedale e magari in punto di morte". La
discussione è andata avanti. Mia figlia è rimasta lì
per un’ora, poi ha dovuto proseguire per recarsi al
lavoro. Il giorno dopo, quando Katia è scesa
dall'autobus, «. era un gruppo più esiguo, ma pur
sempre ci un centinaio di uomini che
continuavano a discutere. E la lettera continua
così. Quando la gente parla di Atene come della
culla della democrazia europea, mi fa venire la
nausea: non è altro che retorica e nessuno capisce
quello che veramente succede ad Atene o in
Grecia. Ma gli ateniesi hanno una
ii))
caratteristica: la capacità di commentare gli
avvenimenti, di criticarli, di dare loro un
significato e di trarne conclusioni, che,
solitamente, commenta Katia, vengono subito
dimenticate. Improvvisamente mi resi conto,
continua Katia, che quegli uomini erano il coro di
una tragedia greca, che recitavano esattamente
nello stesso modo.
Questa storia, realmente successa un paio di
settimane fa, ci dice qualcosa sul misterioso
rapporto che lega la vita vissuta e la letteratura.
Forse è giunto il momento di fare delle
distinzioni tra i racconti e forse anche di abolire,
almeno per il momento, la parola “fiction”. La
fiction fu inventata nel XIX secolo, quando la
gente trascorreva lunghe serate accanto al camino,
passando il tempo a leggere del mondo. Prima del
XIX secolo, la vita era più sedentaria, meno
soggetta ai cambiamenti e meno sicura. A quel
tempo venivano raccontate e ripetute tante storie,
che però non venivano considerale “fiction”. Esse,
proprio perché venivano raccontale c ripetute,
erano una commistione di fatti e leggende. E le
leggende non erano meno importanti dei fatti.
Omero taceva della fiction? Sarebbe impossibile
rispondere a questa domanda, perché la parola
"fiction”
diventa troppo riduttiva, quando ciò che si sta
tacendo è tentare di dare nome alle cose là dove
esse si originano, nel loro momento dì fondazione.
Oggi i cambiamenti avvengono anche più
rapidamente di quanto succedeva nel XIX secolo
sebbene, come osserva Ryszard, "i cambiamenti di
ordine politico si svolgono a una velocità molto
diversa da quella della vita quotidiana, la vita
materiale, la vita di ogni giorno, in cui per la
maggior parte delia gente non cambia quasi niente
e se qualcosa cambia, cambia quasi sempre in
neggio”. Tuttavia, assistiamo a enormi cam-
oiamenti in campo tecnologico, e nella sfera della
politica i mutamenti vengono molto
drammatizzati. L’informazione è diventata un
bombardamento continuo. I viaggi, siano essi per
diletto o per necessità economica come nel caso
delle emigrazioni, sono un luogo comune. Il
mondo è quindi diventalo immenso. Eppure non
riusciamo più a percepirlo come la nostra casa.
Questo significa che i racconti diventano rari.
L'immaginazione ha preso il loro posto. Le
sensazioni hanno sostituito il senso del destino,
che costituisce la parte essenziale di un racconto.
Forse, oggi, grazie alla speciale qualità della . oce
umana che canta, che urla tutto il suo
dolore, la forma narrativa popolare più vitale e
genuina è la musica rock.
Tuttavia la fiction continua a essere prodotta,
ma solitamente ha qualcosa che non va, perché le
parole e le espressioni sono troppo grandi e troppo
vicine a noi e quello che sta aldilà di esse è spesso
in realtà privo di corpo. Mentre, qualunque storia,
nel suo più profondo significato, è qualcosa che
succede ai corpi: uomini, donne, cavalli, anche
navi, che sono come corpi. La differenza che
passa tra l'informazione e le storie vere, le storie
che succedono a dei coipi, sta nella prospettiva,
nell'ottica dei fatti. È una questione di come una
storia viene raccontata. A questo proposito, vorrei
leggervi un breve paragrafo di una storia, scritta
da Ryszard.
“Una volta incontrai un uomo che aveva
passato dieci anni in un gulag perché aveva tentato
di collocare un pesante busto di Lenin in una sala
al secondo piano di un edificio. Le porte erano
troppo strette e così lo sfortunato decise di
sollevare il busto da un balcone. Innanzi tutto
doveva legarlo con una corda e così fece: mise
una corda intorno al collo della statua, al collo
dell'autore del marxismo e dell’empiriocriticismo.
Mon ebbe neanche il tempo di slegare il cappio
prima dell’arresto'.
KM
Questo è un racconto, non una notizia. Ma per
osservare quello che è fisico, per osservare
l’essenza dei racconti, occorre che il vero e
proprio corpo del narratore si trovi sul posto o
nelle immediate vicinanze. Non si possono
compiere osservazioni su uno schermo. Tutto
quello che permette di fare „no schermo è leggere.
Ryszard Kapuscinski è un corrispondente
estero, un giornalista, un viaggiatore. Non fa par
te degli autori di fiction, però è uno dei rari grandi
narratori del nostro tempo. A natte la sua cultura e
il suo cuore è un granee narratore perché si trova
sul posto con il suo corpo, e mostra ciò che accade
ad altri coipi. Nei suoi racconti, ci sono i gusti, il
respiro che alita dietro le parole, la paura, la fatica,
la vecchiaia, il ricordo di una madre. Nessuno dei
quali compare nelle notizie. Da tutto questo
materiale fisico, nasce un’essenza: il senso del
destino. Egli spesso lo esprime con una domanda
che esige di essere posta, ma che però non può
trovare risposta.
“Sulla stessa strada, ma verso il basso, .elle
profondità di una ripida gola, c’è un monastero:
Debril Tbanos. All’interno, la chiesa è
piacevolmente fresca ed è come se ossi precipitato
nell’oscurità più completa. Dopo qualche
momento, mi abituo al buio e
vedo pareti coperte di affreschi e pellegrini etiopi
vestiti di bianco, che giacciono bocconi sul
pavimento, coperto solo da stuoie. In un angolo,
un vecchio monaco recita ) canti sacri in ge’ez,
ora una lingua morta. La sua voce sonnolenta è
sommessa, come se in qualunque momento
dovesse spegnersi completamente. L un momento
di silenzio e misticismo, un momento che è più di
un momento, aldilà di qualunque misura, aldilà
dell’esistenza, aldilà del tempo. Da quanto tempo
giacciono lì ì monaci? Non lo so. So soltanto che
esco dalla chiesa per poi tornare, diverse volte nel
corso della giornata t ogni volta i monaci
giacciono lì, immobili. Un giorno, un mese, un
anno, per tutta l’eternità?’'. Questo è il tipo di
domanda che non ha risposta e che evoca il
destino.
Ma perché è necessario raccontare storie come
questa? Perche raccontiamo delie storie? Per
passare il tempo? A volte. Per informare? Per dire
cose non ancora dette? Sì. A volte, solo per
guadagnarci la pagnotta o per far capire alla gente
quante fortunata, dato che oggi la maggior parte
dei racconti sono tragici. A volte sembra che il
racconto abbia una sua volontà, la volontà di
essere ripetuto, di trovare un orecchio, un
compagno. Come i cammelli attraversano il
deserto, i
: acconti attraversano la solitudine della vita,
offrendo ospitalità all'ascoltatore o cercandola. IJ
contrario di un racconto non è il silenzio o la
meditazione, bensì l’oblio. Sempre, sempre, fin
dall’inizio, la vita ha giocato con lassurdità. E
poiché l'assurdo è il padrone del mazzo di carte e
del casinò, la vita non può far altro che perdere.
Eppure, l’uomo compie delle azioni, spesso
coraggiose. Tra quelle meno coraggiose, ma
nonostante questo efficaci, c’è l’atto del
raccontare. Questi atti sfidano l’assurdità e
l’assurdo. In che cosa consiste l’atto del
raccontare? Mi sembra che sia una permanente
azione di retroguardia contro la permanente
\ittoria della volgarità e della stupidità. I racconti
sono una dichiarazione permanente del vissuto in
un mondo sordo. E questo non cambia. E sempre
stato così. Ma un’altra cova che non cambia è il
fatto che di tanto in tanto si verificano dei
miracoli. E noi cono- sciamo i miracoli grazie ai
racconti.
Con questo vorrei collocare quello che stiamo
facendo o tentando di fare in un contesto attuale e
anche nella storia. Una volta fatto questo,
possiamo parlare con molta più precisione del lato
pratico dei racconti., dello scrivere, del leggere,
dei diversi modi eli porsi, di osservare. Volevo
però fare que-
stc osseivazioni per dimostrare che forse
l’argomento di stasera è importante.
10«
stesso tempo colui che osserva o legge
attivamente. Senza quest’ultimo non può esservi
arte, in quanto l’arte è un processo bilaterale. A
volte si parla della crisi della letteratura: essa è
determinata non dalla crisi degli scrittori, bensì
dalla crisi dei lettori. Se ;! lettore non si pone al
livello della grande letteratura, la grande
letteratura non può esistere. Questa è la lezione
che ho imparato dalla filosofia di John Berger, una
lezione che ho preso molto a cuore per
comprendere il mondo. Comunque, finché ci sarà
una partecipazione così numerosa a una serata
vOme questa, la letteratura e l’arte non potranno
morire. T.a letteratura è ancora viva perché siamo
tutti creatori. Ci troviamo sempre più nella
situazione in cui ogni opera d'arte, ogni opera
letteraria è una creazione collettiva. Ai tempi di
Erodoto o di Tucidide, era possibile che
emergessero questi individui unici perché
lavoravano in un campo uoto. Ma tutti noi
abbiamo una mente e un’immaginazione sempre
più creative, per- vhé noi tutti leggiamo molto
prima di scrivere, vediamo molto prima di
dipingere.
Nella nostra mente esiste un’enorme
interazione da parte di quello che a volte viene
percepito inconsciamente e tuttavia influenza la
nostra fantasia, il nostro modo di os-
109
seivare il mondo e la nostra creatività, fino al
punto in cui diventa sempre più difficile tracciare
una linea di demarcazione tra quello che ci
appartiene e quello che appartiene
all’immaginazione, alle scoperte e alle creazioni
di altri. Stiamo arrivando alla situazione in cui
l’atto di creazione è una conquista collettiva, che
porterà il nome di qualcuno, ma in cui troviamo
sempre più la partecipazione degli altri. In questo
senso, chi crea dovrebbe essere molto modesto,
perché è assai difficile determinare che cosa
abbiamo realizzato con le nostre lorze e qual è il
contributo degli altri. L’arte e la letteratura
contemporanee richiedono quindi la
partecipazione attiva degli altri. Chiunque abbia la
possibilità di leggere John Bergen si renderà conto
di quanta attività mentale, quanta partecipazione
attiva sia contenuta in un’opera d’arte, una
fotografia, un'opera letteraria apparentemente
semplice. In questo modo ogni opera d’arte, così
come ogni fotografia o opera letteraria ci
appartiene sempre di più. L’arte sta diventando
sempre piti comunitaria e gli scritti di John Berger
sono incentrati proprio su questo aspetto dell’arte
creativa.
ni
RK; Mi sono reso conto di non avere questa
capacità d’attenzione leggendo una raccolta di
saggi di John Berger. In questo testo, intitolato
Del guardare, compare una fotografia di August
Sander, che ho dovrito guardare e riguardare
molte volte. È il ritratto di tre giovani contadini
ungheresi vestiti in abiti moderni da città, che
andavano forse a una festa. La fotografia è banale,
non ce niente di drammatico: non cc sangue,
nessuna violenza. Si tratta di una fotografia molto
semplice c naturale. Ed ecco che John scrive un
incredibile saggio - che Foucault riprese anni dopo
- su) rapporto tra il coipo e il vestito e
suH’abbigliamento come espressione della
cultura. Il saggio è incentrato su come il corpo del
contadino dedicato al lavoro dei campi, immerso
nella natura, non sia adatto agli abiti da cittadino,
su come questa fosse una situazione artificiale. E
da questo nasce tutta una meravigliosa teoria sul
rapporto tra cultura e abbigliamento, tra
abbigliamento e corpo, tra cultura urbana e
contadina. Questo breve pezzo, di due o tre
pagine, è una lezione su quanto possiamo
imparare dal dettaglio più banale quando
partecipiamo attivamente all’interpretazione, su
quanto possiamo imparare quando prestiamo
attenzione, su come questa atten-
/.ione sia una sorta di conoscenza, di
comprensione della cultura.
113
quando si uccide. La guerra civile si trasforma in
un serial televisivo. I reporter assicurano di
assolvere in tal modo soltanto il loro dovere e cioè
quello di dare l’informazione. Ci mostrano
impietosamente, così ci dicono, quel che è
accaduto e il commentatore di .suo ci mette
l’opportuna indignazione. L'orrore è cosa
consueta...".
Allora che cosa succede, si chiede. Enzen-
sberger: noi dalle immagini, dal tenore delle
immagini, dei racconti di realtà, veniamo
trasformati in due possibili cose: terroristi o
voyeur. “Ciascuno di noi in questo modo si vede
sottoposto a un ricatto permanente, perché solo chi
è reso testimone oculare può sentirsi chiedere con
tono carico di biasimo, che cosa intenda fare
contro quello che gli viene mostrato. Così la
televisione, ossia i.1 più coirono dei media, ad
esempio, assurge a istanza morale".
114
scrivere un romanzo sull'Aids, Festa dì nozze.
Non penso di aver proposto una visione idilliaca
del mondo. Questa è l'ultima cosa di cui possiamo
essere accusati sia io che Ryszard. T.1 libro di
Enzensberger, che peraltro è un grande poeta,
francamente è folle. Hans Magnus c un bravo
ragazzo ed è un peccato che si sia abbandonato a
una tale paranoia. Naturalmente esistono queste
due possibilità. È assolutamente vero che di ‘
conte a quella che Enzensberger chiama in-
ionmazione, di fronte allo schermo televisivo ma
questo è solo un modo di fare informazione - di
fronte ai mass media in generale, si possono avere
solo due possibilità: essere un voyeur o quello che
lui definisce un terrorista. Non sono sicuro di
quello che intende veramente con questa
definizione, forse un complice. Ma esistono altre
possibilità se non si considera soltanto
l’informazione che si riceve dai media. Quando
Ryszard c io parliamo di attenzione, è
precisamente perché giriamo le spalle allo
schermo e cerchiamo di tornare alla vita e lì è
richiesta fatten zio- nc. A volte questa attenzione è
molto difficile da dedicare. Non è un’attenzione di
natura sentimentale, per niente. È quella che i
bambini apprendono nel gioco, prima che la
scuola intervenga a fargliela disimparare.
11S
Per ricevere qualcosa, occorre dedicare la propria
attenzione.
itò
che produciamo una quantità di cibo sempre
inferiore per una popolazione in continua crescita.
La liquidazione del mondo contadino, che è un
fenomeno sociale ed economico su scala
mondiale, consiste in un atto di suicidio globale. Il
mio campo è l'Africa e posso dire che si tratta di
un processo tipicamente suicida, a cui l'umanità a
volte si abbandona: il continente che ha sempre
meno cibo e sempre più abitanti sta liquidando la
classe contadina e lo sta facendo molto
rapidamente. In pratica, una grossa parte
dell'umanità vive di aiuti e con questi aiuti che
inviamo in Ruanda e altri paesi stiamo creando
una situazione tragica: una classe parassita di
profughi su scala mondiale, che vengono
allontanati dai loro villaggi, dai loro campi, dal
loro bestiame, messi nei campi profughi e
alimentati dalle organizzazioni mondiali - molte
delle quali sono completamente corrotte - a cui
vanno a finire il nostro denaro, le nostre tasse.
Stiamo creando una classe di milioni e milioni di
persone, i cosiddetti prolughi, che riescono a
vivere solo se gli aiuti continuano ad arrivare,
perché sono incapaci di tornare a casa e di
produrre, dato che hanno cessato di imparare l’arte
della produzione. Questa classe di parassiti che
conta già 40 o 50 mi-
Moni di esseri umani, continua a crescere, ogni
anno e a ogni guerra. Ci ritroviamo sempre più
invischiati in questo circolo vizioso che ha
prodotto, per esempio, intorno alle città africane,
campi profughi i cui abitanti sono sempre più
numerosi e sopravvivono solo grazie agli aiuti dei
paesi industrializzati. Essi sono incapaci di
intraprendere una vita diversa perché sono stati
abituati a ricevere questi aiuti c a dipenderne
passivamente, lo ho visitato questi campi piuttosto
spesso. Sono stato nei campi profughi al confine
tra Etiopia e Somalia proprio l’anno scorso, dove
vivono 300.000 o 500.000 persone. Ognuno riceve
tre litri di acqua pei' tutto, per cucinare, bere e
lavarsi, e mezzo chilo di mais. E vivono di questo.
L’acqua viene trasportata da 82 autocisterne
Mercedes e se le strade sono interrotte o non c’è
benzina, l’acqua non arr iva al campo e la gente
muoio il giorno dopo. Stiamo creando, attraverso
questo folle meccanismo delle cosiddette
organizzazioni umanitarie, un problema enorme
per l'umanità, liquidando la classe contadina e
rendendo l’umanità sempre più dipendente dalla
burocrazia delle cosiddette organizzazioni
umanitarie. Quello che dice John sulla difesa del
mondo contadino significa che se continuiamo a
li-
quidarc la classe contadina, ben presto ci
ritroveremo in una situazione tragica.
Probabilmente John è preoccupato del tatto che
la gente conosce il mondo sempre più attraverso le
immagini offerte dai media. Per la prima volta
nella storia dell’umanità, nella seconda metà del
XX secolo, incominciamo a vivere non una, ma
due stone. Per i 5.000 o 7.000 anni di storia scritta
abbiamo vissuto una sola storia, che abbiamo
creato e a cui abbiamo partecipato. Ma uallo
sviluppo dei media nella seconda metà del XX
secolo, stiamo vivendo due storie diverse: quella
vera e quella creata dai media. Ti paradosso, il
dramma e il pericolo stanno nel latto che
conosciamo sempre più la storia creata dai media e
non quella vera. Perciò la nostra conoscenza della
storia non si riferisce alla storia reale, ma a quella
creala dai media. Io sono ben cosciente di tutto
questo perché lavoro nel campo dell'informazione.
Collaboro con troupe televisive e so come
operano. Mi ricordo, per esempio, che a Mosca
durante il colpo di stato del 1991, gli operatori
televisivi, dopo qualche giorno, erano già stanchi:
c’era un tempo orribile, pioveva, faceva freddo.
Quando si verificava qualche avvenimento
importante, le troupe sì riunivano, si mettevano a
bere
ny
vodka o qualcos’altro e concordavano di non
raccontare niente. E se gli avvenimenti non
venivano riportati dalla televisione, era come se
non fossero mai successi. Questi bravi ragazzi
decidevano se la storia avveniva o non avveniva.
Tutti noi siamo testimoni di questa situazione.
Prima la professione del giornalista era un lavoro
di specialisti. C’era un esiguo gruppo di giornalisti
specializzati in un determinato campo. Ora la
situazione è cambiata completamente: non
esistono specialisti in nessun campo. Il giornalista
è semplicemente qualcuno che viene spostato da
un posto all’altro, secondo le esigenze della rete
televisiva. Ma più impoitante è il fatto che i
media, la televisione, la radio sono interessati non
a riportare quello che succede, ma a battere la
concoiTenza. Di conseguenza, i media creano il
loro mondo e questo loro mondo diventa più
importante di quello reale. Assistiamo, allora, a
questo fenomeno di spostamento in massa dei
media. Se ce una crisi nel Golfo Persico, tutti
vanno nel Golfo Persico. Se ce un colpo di stato a
Mosca, tutti vanno a Mosca. Se c'è una tragedia in
Ruanda, tutti vanno in Ruanda.
Contemporaneamente alla tragedia del Ruanda, si
sono verificati in Africa tre o quattro avveni
vo
menti molto importanti, a cui non è stata dedicata
alcuna attenzione, perché erano tutti in Ruanda, La
tragedia del Ruanda è stata presentata come la
tragedia africana, come la tomba dell’Africa, la
morte dell’Africa. Nessuno ha osservato che il
Ruanda è una nazione molto piccola, i cui abitanti
ammontano a meno dell’ 1% della popolazione
africana. Ma quelli che sono stati mandati in
Ruanda, siccome non sanno niente dell’Africa,
sono assolutamente convinti che quella è l’Africa.
Quindi ci troviamo in un mondo che ha perso
qualunque criterio, qualunque proporzione, in cui
sono i media a creare la storia. Nel XXI secolo, tra
50 anni, lo storico che studierà il nostro tempo,
sarà costretto a guardare milioni di chilometri di
registrazioni televisive per cercare di capire le
migrazioni, i genocidi, le guerre, e ne deriverà
l'idea di un mondo pazzo in cui tutti sparano a
tutti, mentre noi sappiamo bene che viviamo in un
mondo relativamente pacifico, se prendiamo in
considerazione il fatto che sul nostro pianeta
vivono quasi sei miliardi di persone, che parlano
due o tremila lingue diverse, con innumerevoli
interessi. Ma lo storico del XXI secolo avrà una
visione del nostro mondo completamente diversa,
piena di tragedie, di drammi, di problemi.
MN: Come mai tu, John, cerchi i racconti
vicino casa, mentre Ryszard va molto lontano?
Vorrei citare Walter Benjamin: "I racconti nascono
da due diversi tipi di narratore: quello che deve
viaggiare lontano da casa per trovare fatti e
racconti, il mercante, il marinaio; l’altro è il
contadino, quello che sta a casa a raccogliere
ricordi e a distribuirli”.
In un certo modo, John è il contadino, mentre
Ryszard è il marinaio. È sempre una scelta
psicologica e personale? Entrambi vi interessate a
una narrazione utile perii resto del mondo. Allora,
perche John cerca questa utilità vicino a casa e nel
passato, nel ricordo dei contadini che stanno
scomparendo, mentre Ryszard trova questa utilità
lontano da casa e nella vita di persone compieta-
mente diverse dai suoi lettori? Siete d’accordo sul
latto che John è il contadino, che cerca il passato
per raccontare il presente, mentre Ryszard è il
marinaio o il mercante che viaggia lontano da casa
per descrivere il presente e forse per anticipare il
futuro?
i 26
nei da parte dei media, che sostituiscono così la
storia vera.
127
.sfrutta le persone con cui condivide la stessa
origine sociale.
Pei quanto riguarda la domanda .sulla
sedentarietà e sulla scelta de) viaggio, si possono
dare diverse spiegazioni di ordine politico, di
libertà, e cosi via. Ma nella comunità degli
scrittori, si può tare una semplicissima divisione
tra quegli scrittori che traggono ispirazione da se
stessi, e quelli che devono essere ispirati da motivi
esterni, Ci sono caratteri riflessivi e caratteri che
rispecchiano il mondo. Ci sono scrittori come John
che hanno il dono di riflettere. Come è già staio
detto, si può vedere tutto il mondo senza
abbandonare la propria stanza. Questo è tipico dei
caratteri riflessivi, che traggono ispirazione da se
stessi, dal materiale che hanno in se stessi, che
deve essere animato, formulato ed espresso.
Questo è un tipo di letteratura. Nel mio caso,
invece, io rispecchio il mondo: devo andare sul
posto per poter scrivere. Stando in un solo posto io
muoio, mentre John crea. È una questione mollo
personale, ma in fondo ciò che conta è il prodotto
finale.
12 V
TB: Naturalmente, il silenzio è assoluta- mente
essenziale: l'arte della narrativa dipende da quello
che si lascia fuori di essa. Altrimenti non ci
sarebbe una storia, perché sì saturerebbe
semplicemente il mondo di parole. Quindi è una
questione di selezione, di quello che si esclude,
dello spazio a volte tra le parole, certamente tra le
frasi e tra i paragrafi. Quando il lettore è creativo,
quando l’attenzione è reciproca, all’inizio egli
deve in qualche modo saltare per arrivare alla
frase successiva, ma via vìa che la storia continua i
salti diventano sempre più lunghi e questo è un
modo per stabilire la complicità tra scrittore,
lettore e racconto. Il silenzio, ciò che non viene
detto è incredibilmente importante. Si potrebbe
esprimere questa importanza a un livello molto più
metafisico e filosofico, perché quello che non si
può esprìmere è moltissimo e forse è l’elemento
più prezioso. Ma parlando a livello più artigianale,
il silenzio rappresenta lo strumento principale per
stabilire la complicità con l'ascoltatore o il lettore.
rio
è la l'isposta: è una poesia di John. Quello che
significa il silenzio nel testo è lasciato
all'improvvisazione, al modo in cui lo leggiamo, a
come lo interpretiamo.
132