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RYSZARD

KAPUSCINSKI
IL CINICO NON E ADATTO

A QUESTO MESTIERE

CONVERSAZIONI SUL BUON


GIORNALISMO
A CURA DI MARIA NADOTTI
Maria Nadotti: In uno dei tuoi primi libri.
Another day of life, un reportage sulle guerre in
Angola ancora inedito in Italia, hai scritto: "è
sbagliato scrivere di qualcuno senza averne
condiviso almeno un po' la vi- (p. 66).
In Imperium, testimone della
“modernizzazione” di una città, scrivi:
“Davanti all’albergo dove abito stanno
demolendo un vecchio quartiere di Erevan.
Buttano giù antiche casette, porticati, logge,
giardinetti pensili, aiole, zolle, miniruscelli e
cascateli m miniatura, tetti coperti da tappeti
di fiori, staccionate soffocate da viluppi di
vite; abbattono scale in legno, spaccano
panchine appoggiate contro i muri delle case,
distruggono ripostigli per legna e pollai,
portoni e eaneelletti. Tutto svanito. La gente
guarda i bulldozer avventarsi su questo
paesaggio -colpito dagli anni (al suo posto
saranno piazzate le londamenta di un grande
blocco abitativo in cemento), stritolare e
trasforma-
re in immondizia queste stradine verdi, questi
cantucci raccolti e silenziosi. La gente sta li e
piange. Sto lì anch’io e piango con loro”
(pag. 101).
In La pruna guerra del football e altre guerre
di poveri, in una sorta di digressione
autobiografica che fa luce sulla natura e la
misura del tuo impegno di scrittore e
giornalista, scrivi: "In Africa mi sono
ammalato spesso, perché i tropici producono
tutto in eccesso, a dismisura... Non c'è
scampo: se si vuole penetrare negli angoli più
oscuri, traditori e intatti di questa terra,
bisogna essere pronti a pagarlo con la salute
se non con la vita. Ma così accade per tutte le
passioni rischiose... Qualcuno risolve la
situazione con un’esistenza paradossale, vale
a dire che appena arrivato in Africa si rintana
in un buon albergo, non esce mai dai quartieri
dei bianchi e, anche se da un punto di vista
geografico si trova in Àfrica, in realtà
continua a stare in Europa, in un surrogato
d’Europa a formato ridotto. Si tratta
comunque di un espediente indegno di un
vero viaggiatore e impossibile per un
corrispondente che deve verificare tutto sulla
propria pelle" (pag. 161).
La tua opera più recente, Ebano, è la
fotografia di un'Africa vista da dentro e dal
basso, il tentativo riuscito di un’osservazio-
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ne partecipante e a suo modo militante delle
mille vite di un continente che per molti
continua a essere niente più che un immenso
buco nero sulla mappa del mondo.
Vorrei dunque invitarti a partire proprio da
qui, dal racconto e dalle .motivazioni di un
agire giornalistico improntalo a una scelta
etica molto forte e alla necessità del rischio,
dell'esperienza diretta, della condivisione.

Ryszard Kapuscinski: Innanzi tutto vorrei


esprimere la mia grande gioia di essere qui.
Non è la prima volta che partecipo a un
meeting di giornalisti qui in Italia e ho
bellissimi ricordi di questi incontri. In
secondo luogo coirei dire che sono contento
di vedere tanti giovani. La nostra professione
ha bisogno di nuove forze, nuove visioni,
nuova immaginazione, perché negli ultimi
tempi è cambiata in modo tremendo. Voi siete
nati per portare a compimento un lavoro
appena avviato. Il giornalismo sia
attraversando una grande rivoluzione
elettronica. Le nuove tecnologie facilitano
enormemente il nostro lavoro, ma non ne
prendono il posto. Tutti i problemi della
nostra professione, le nostre qualità, la nostra
manualità rimangono inalterati. Qualsiasi
scoperta o miglioramento tecnico
può certamente aiutarci, ma non può
sostituirsi al nostro lavoro, alla nostra
dedizione ad esso, al nostro studio, al nostro
esplorare e ricercare.
Nel nostro mestiere vi sono alcuni elementi
specifici molto importanti.
Il primo elemento è una certa attitudine ad
accettare di sacrificare qualcosa di noi. È una
professione molto esigente, questa. Tutte lo
sono, ma la nostra in modo particolare. Il
motivo e che noi ci conviviamo ventiquattro
ore al giorno. Non possiamo chiudere il
nostro "desk” alle quattro del pomeriggio e
passare a occupazioni diverse. Questo è un
mestiere che prende tutta la vita, non c'è altro
modo di esercitarlo. 0 almeno di farlo in
modo perfetto.
Va detto, naturalmente, che esso può essere
svolto appieno a due livelli molto diversi.
A livello artigianale, come avviene per il
novanta per cento ilei giornalisti, non
differisce in niente da un lavoro comune
come quello del calzolaio o del giardiniere, È
il livello più basso.
Ma c’è poi un livello pili alto, che è quello
creatilo: è quello in cui, nel lavoro, mettiamo
un po’ della nostra individualità e delle nostre
ambizioni. E ciò richiede davvero
tutta la nostra anima, il nostro attaccamento,
il nostro tempo.
11 secondo elemento della nostra
professione è il costante approfondimento
delle ostro conoscenze. Vi sono professioni
pei-le quali normalmente si va all'università,
si ottiene il diploma e lì finisce lo studio. Per
il resto della vita si deve semplicemente
amministrare ciò che si è imparato. Nel
giornalismo, invece, 1’aggiornamento e lo
studio costanti sono la conditio sine qua non. Il
nostro lavoro consiste nell'indagare c nel
descrivere il mondo contemporaneo, che è in
continuo, profondo, dinamico e rivoluzionario
cambiamento. Da un giorno all'altro noi
dobbiamo seguire tutto questo ed essere in
grado di prevedere il futuro. Perciò bisogna
costantemente studiare e imparare. Ho molti
amici di grande qualità insieme ai quali ho
cominciato a fare il giornalista e che dopo
pochi anni sono spariti nel nulla. Essi
credevano molto nei loro talenti naturali, ma
queste capacità nella nostra professione si
esauriscono molto presto; così sono rimasti
senza risorse e hanno smesso di lavorare.
C'è una terza qualità importante perla
nostra professione, ed è non considerarla
come un semplice mezzo per arricchirsi. Per
questo ci sono professioni che consentono di
guadagnare molto meglio e più velocemente.
All'ini/io il giornalismo non dà molti profitti.
Intatti quasi tutti i giornalisti alle prime armi
sono gente povera, e per vari anni non godono
di una situazione finanziaria molto florida. Si
tratta di una professione dalla precisa
struttura feudale: si sale di livello solo con
l'età e ci vuole tempo. Si incontrano molti
giovani giornalisti pieni di frustrazioni,
perché lavorano tanto ad un salario molto
basso, poi perdono il lavoro c magari non
riescono a trovarne un altro. Tutto questo fa
parte della nostra professione. Perciò, siate
pazienti e lavorate. 1 nostri lettori,
ascoltatori, telespettatori sono persone molto
giuste, che riconoscono in fretta la qualità del
nostro lavoro e altrettanto velocemente
cominciano ad associarla al nostro nome;
sanno clic da quel nome riceveranno un bufiti
prodotto. Questo è il momento in cui si
diventa giornalisti stabili. Non sarà il nostro
direttore a deciderlo, ma i lettori.
Per arrivare fin qui occorrono, però, le
qualità di cui ho parlato all’inizio: sacrificio e
studio continuo.
La domanda di Maria riguardava il peso
che l’esperienza personale ha su ciò che si sta
scrivendo. Dipende. Nella nostra professione
si possono fare cose molto diverse.
Con l'età ci si specializza in una particolare
camera.
In generale i giornalisti si dividono in due
grandi categorie. La categoria dei seni della
gleba e la categoria dei direttori. Questi
ultimi sono i nostri padroni, coloro che
dettano le regole, sono dei re, decidono. Io
non sono mai stato direttore, ma so che oggi
non JC corre essere un giornalista pei - essere a
capo dei media. Infatti, la maggioranza dei
direttori e dei presidenti delle grandi testate e
dei grandi network non sono affatto giorna-
Msti. Sono dei grandi manager.
La situazione ha cominciato a cambiare
quando il mondo ha capito, non molto •.empo
la, che l’informazione è un grande business.
Prima, ali’inizio del secolo, l'informazione
aveva due facce. Poteva mirare alla ricerca
della verità, aH'indivjduazione di ciò che
accade veramente, e a informarne la gente nel
tentativo di indirizzare la pubblica opinione.
Per l'informazione la verità era la qualità
principale.
Il secondo modo di concepire
l’informazione era di trattarla come uno
strumento di lotta politica. I giornali, le radio,
la televisione ai suoi esordi erano strumenti
di diversi partiti c forze politiche in lotta per i
propri
interessi. Così, ad esempio, nel XIX secolo,
in Francia, Germania o Italia, ogni partito e
ogni grande istituzione avevano la loro
stampa. L’informazione, per questa stampa,
non era la ricerca della verità, ma era
guadagnare spazio e sconfiggere il proprio
nemico.
Nella seconda metà del secolo XX, special-
mente negli ultimi anni, dopo la fine della
Guerra Fredda, con la rivoluzione
dell’elettronica e della comunicazione,
improvvisamente il grande mondo degli affari
scopre che la verità non è importante, e che
neanche la lotta politica è importante: che,
nell’informazione, ciò che conta è
l'attrazione. E, una volta che abbiamo creato
I'infotmazione-at- trazione, possiamo vendere
questa informazione ovunque. Più
l’informazione è attraente, più denaro
possiamo guadagnare con essa.
Così l’informazione si è totalmente
separata dalla cultura: ha cominciato a
fluttuare nell’aria; chiunque abbia soldi può
prenderla, diffonderla e fare ancora più soldi.
Quindi, oggi, ci troviamo in un’era
dell'informazione del tutto diversa. Nella
situazione attuale il fatto nuovo è questo.
Ed è questo il motivo per cui,
improvvisamente, a capo dei piii grandi
network televi-
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sivi troviamo persone che non hanno asso-
lutamento nulla a che fare con il giornalismo,
che sono soltanto dei grandi uomini daffari,
legati a grandi banche o compagnie ai
assicurazione o a un qualsiasi altro ente
fornito di molto denaro. L'informazione ha
cominciato a "rendere" e a rendere in modo
veloce.
Quella attuale, pertanto, è una situazione in
cui nel mondo dell'informazione stanno
entrando sempre più soldi.
C e anche un altro problema. Quaranta,
.inquant’anni fa un giovane giornalista poteva
andare dal proprio capo e sottoporgli i propri
problemi professionali: come scrivere, come
fare un reportage alla radio o alla televisione.
E il capo, che di solito era più oziano dì lui,
gli avrebbe parlato della sua esperienza e dato
dei buoni consigli.
Ora provate ad andare da Mr. Turner, che
in vita sua non ha mai fatto il giornalista e
che rat amente legge i giornali o guarda la
te- .evisione: non potrà darvi alcun consiglio,
perché non ha la più pallida idea di come si
faccia il nostro mestiere. Il suo scopo e la sua
regola non sono di migliorare la nostra
professione, ma solamente dj guadagnare di
più.
Per queste persone, vivere la vita della
gente comune non è importante né necessario;
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la loro posizione non e costruita
sull’esperienza di giornalista, ma di money-
maker.
Per noi giornalisti che lavoriamo con le
persone, che cerchiamo di comprendere le
loro storie, che dobbiamo esplorare e
investigare, l’esperienza personale è
naturalmente Fondamentale. La fonte
principale della nostra conoscenza
giornalistica sono “gli altri’’. Gli altri sono
coloro che ci dirigono, ci danno le loro
opinioni, interpretano per noi il mondo che
tentiamo di capire e descrivere.
Non c’è giornalismo possibile fuori dalla
relazione con gli altri esseri umani. La
relazione con gli altri è l’elemento
imprescindibile del nostro lavoro. Nella
nostra professione è indispensabile avere
qualche nozione di psicologìa, sapere come
rivolgerci agli altri, come trattare con loro e
comprenderli.
Credo che per fare del giornalismo si debba
essere innanzi tutto degli uomini buoni, o
delle donne buone: dei buoni esseri umani. Le
persone cattive non possono essere dei bravi
giornalisti. Se si è una buona persona si può
tentar e di capire gli altri, le loro intenzioni,
la loro fede, i loro interessi, le loro difficoltà,
le loro tragedie. E diventare immediatamente,
fin dal primo momento, parte del loro destino.
È una qualità che in
necrologia viene chiamata 'empatia”.
Attraverso l'empatia si può capire il carattere
del proprio interlocutore e condividere in
marnerà naturale e sincera il destino e i
problemi degli altri.
In questo senso, il solo modo per fare be-
’■.e il nostro lavoro è scomparire,
dimenticarci della nostra esistenza. Noi
esistiamo solamente come individui che
esistono per gii altri, che nc condividono i
problemi e provano a risolverli, o almeno a
descriverli.
Il vero giornalismo è quello
intenzionale, .ale a dire quello che si dà uno
scopo e che mira a produrre una qualche
forma di cam- aiamento. Non c'è altro
giornalismo possibi le. Parlo ovviamente di
buon giornalismo. Se .eggete gli scritti dei
migliori giornalisti - le >pere di Mark Twain,
di Ernest Hemingwav, ài Gabriel Garda
Màrquez -, vedrete che si tratta sempre di
giornalismo intenzionale. Stanno lottando per
qualcosa. Raccontano ner raggiungere, per
ottenere qualcosa. Que- s*o è mollo
importante nella nostra professione. Essere
buoni e sviluppare in noi stessi la categoria
dell’empatia.
Senza queste qualità, potrete essere dei
buoni direttori, ma non dei buoni giornalisti.
E questo per una ragione molto semplice:
perché la gente con la quale dovete
lavorare - e il nostro lavoro sul campo è un
lavoro con la gente - scoprirà immediatamente
le vostre intenzioni e il vostro atteggiamento
verso di essa. Se percepiscono che siete
arroganti, non realmente interessati ai loro
problemi, se scoprono che siete andati lì solo
per fare qualche fotografia o raccogliere un
po' di materiale, le persone reagiranno
immediatamente in modo negativo. Non vi
parleranno, non vi aiuteranno, non vi
risponderanno, non saranno amichevoli. E
certamente non vi forniranno il materiale che
cercate.
E senza l’aiuto degli altri non si può
scrivere un reportage. Non si può scrivere una
storia. Ogni reportage - anche se firmato solo
da chi l’ha scritto - in realtà è il frutto del
lavoro di molti. Il giornalista è l’estensore
finale, ma il materiale è fornito da moltissimi
individui. Ogni buon reportage è un lavoro
collettivo, e senza uno spirito di collettività,
di cooperazione, di buona volontà, di
comprensione reciproca, scrivere è
impossibile.
Questo è il minimo che io possa rispondere
a questa domanda, che era molto lunga e
complicata.

MN: "L'altro” scelto da Kapuscinski non è,


però, un altro generico. Tu hai affermato in
40
;':u occasioni che “l’altro" a cui sei
interessalo è il povero. In Lapidarium, per
esempio, dici: “Il tema della miavita sono i
poveri". In La pruno guerra del football e altre
guerre di poveri, citando il Lévi-Strauss di
Tristi tropici, hai scritto che la tua decisione di
tare il reporter dai paesi del Terzo mondo
esprimeva una profonda incompatibilità verso
il tuo r 1 ippo, la tua cultura, il tuo paese...

RX: ...vedi, il problema dello scrittore che


-..'rive da molti anni è che il mondo e noi
stessi cambiamo continuamente. Tante volte
mi ricordano che ho scritto questo o quello e
io rispondo: è impossibile. Allora mi dicono:
ma è scritto qui. Sì, ma il libro è stato
stampato trenta o quaranta anni fa. Da allora
tutto è cambiato. È impossibile vivere nel
mondo contemporanco senza cambiare e
senza adattarsi ai cambiamenti. Perché la
nostra materia è in costante mutamento. E noi
stiamo tentando di descrivere il mondo
contemporanco con gli strumenti che
andavano bene quaranta anni fa, e che oggi
sono completamente obsoleti, fuori fuoco.
La nostra professione ha bisogno di
continui aggiustamenti, modificazioni,
miglioramenti. Certo, dobbiamo attenerci a
certe regole generali. Essere eticamente
corretti.
ad esempio, è una delle principali
responsabilità che abbiamo. Pei' il resto il
nostro soggetto è in continuo movimento. Io,
ad esempio, mi sono specializzato nei
problemi dei paesi del Terzo mondo - Africa,
Asia e America Latina -, ai quali ho dedicato
quasi tutta la mia vita professionale. Il mio
primo lungo viaggio fu in India, Pakistan e
Afghanistan, nel ’56. Quindi sono piti di
quarantanni che viaggio nei paesi del Terzo
mondo. Ci ho vissuto permanentemente per
più di ventanni, perché cercare di conoscere
altre civiltà e culture con una visita di tre
giorni o di una settimana non serve a nulla.
Quando ho iniziato a scrivere su questi
paesi, dove la maggioranza della popolazione
vive in povertà, mi sono reso conto che
quello era l’argomento a cui volevo
dedicarmi. Scrivevo, tuttavia, anche per
alcune ragioni etiche: intanto perché i poveri
di solito sono silenziosi. La povertà non
piange, la povertà non ha voce. La povertà
soffre, ma soffre in silenzio. La povertà non
si ribella. Avrete situazioni di rivolta solo
quando la gente povera nutre qualche
speranza. Allora si ribella, perché spera di
migliorare qualcosa. Nella maggior parte dei
casi si sbaglia; ma l'elemento della speranza è
tondamenta- le perché la gente agisca. Nelle
situazioni di
perenne povertà, la caratteristica principale è
la mancanza di speranza. Se sei un povero
agricoltore in uno sperduto villaggio indiano,
per te non ce speranza. La gente lo sa
periettamenle. Lo sa da tempo immemorabile.
Questa gente non si ribellerà mai. Cosi ha
bisogno di qualcuno che parli per lei. Questo
è uno degli obblighi morali che abbiamo
quando scriviamo di questa infelice parie
della famiglia umana. Perché sono lutti nostri
fratelli c sorelle. Ma sfortunatamente sono
fratelli e sorelle poveri. Che non hanno voce.
La mia intenzione, però, è più
ambiziosa. .Non intendo limitarmi a scrivete
di poveri o di ricchi, perché questo è
principalmente compito di una serie di
organizzazioni, dal ie chiese alle Nazioni Unite.
La mia intenzione è piuttosto quella di
mostrare a tutti noi europei - che abbiamo una
mentalità molto eurocentrica - che l’Europa, o
meglio una sua parte, non è la sola cosa
esistente al mondo. Che l'Europa c circondata
da un immenso e crescente numero di culture,
società, religioni e civiltà differenti. Vivere in
un pianeta che è sempre più interconnesso
significa tenere conto di questo, e adattarci a
una situazione globale radicalmente nuova.

ri
Prima era possibile vivere separati, senza
conoscere nulla gli uni degli altri e da un
paese all’altro. Ma nel ventunesimo secolo
non lo sarà più. Ouindi dobbiamo lentamente
- o meglio rapidamente - adattare a questa
nuova situazione il nostro immaginario, il
nostro tradizionale modo di pensare. Cosa che
è ovviamente molto di ft i ci le, in molti casi
pressoché impossibile in tempi brevi.
Il nostro immaginario è stato educato a
pensare per piccole unità: di famiglia, di
tribù, di società. Nel diciannovesimo secolo si
pensava in termini di nazione, di regione o di
continente. Ma non abbiamo strumenti né
esperienza per pensare su scala globale, per
capire cosa essa significhi, per accorgerci di
come le altre parti del pianeta ci influenzino e
come noi influenziamo loro.
In altre parole è molto difficile capire che
ognuno di noi è un essere umano connesso
agli altri esseri umani, che dobbiamo
immaginarci come figure dotate di moltissimi
fili e legami che vanno in ogni direzione; per
molti è difficile accettare questa realtà, ecco
perché viviamo tante tensioni, depressioni,
stress.
Nel mio caso, proprio perché vivevo in
questi continenti, ho tentato di far capire at-

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traverso i miei scritti che viviamo un
momento di grande rivoluzione, a cui tutti
prendiamo parte; e che in primo luogo
dobbiamo comprendere la situazione e quindi
adattarci a essa.

MN: Quali sono le fonti su cui lavori e


do- .e le cerchi?

RK: Le fonti sono diverse. In pratica sono


di tre tipi: la principale sono gli altri, la
gente. La seconda sono i documenti, i libri,
gli articoli sul tema. La terza fonte è il mondo
che ci circonda, in cui siamo immersi. Colori.
temperature, atmosfere, clima, tutto ciò che è
chiamato imponderabilia, che è difficile da
definire e che pure c una parte sostanziale
della scrittura.
li problema principale, oggi, è che le prime
due fonti stanno crescendo incessantemente.
Da qualunque parte si vada, ci sono sempre
più persone. La selezione delle persone che
vogliamo come “materiale’' per i costri
reportage c una questione di scelta tana grazie
all’intuito e alla fortuna. E su questo è
impossibile dare definizioni o fornire ricette.
Una delle cose fondamentali da capire è
che nella maggior parte dei casi la gente su

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cui scriveremo, la incontriamo per un
brevissimo periodo della loro e della nostra
vita. Talvolta vediamo qualcuno per cinque o
dieci minuti, stiamo andando in altri luoghi e
quella persona non la incontreremo mai più.
Quindi il segreto di tutto sta nella quantità di
cose che queste persone sono capaci di dirci
in un tempo così breve. Il problema è che le
persone, al primo contatto, sono di solito
molto silenziose, non hanno voglia dì parlare.
E un’esperienza che appartiene a tutti:
bisogna avere il tempo di adattarsi all'altro.
Ma quei pochi minuti a volte sono gli unici
che avete per parlare con una persona! Per un
giornalista, se quei minuti passano in silenzio
o danno vita a una comunicazione
insoddisfacente, rincontro è un fallimento. Il
successo dipende allora da situazioni che
sono completamente al di fuori del nostro
controllo, quasi degli "incidenti".
Ln altro grande problema di questa
professione, almeno sul piano del giornalismo
internazionale, è quello della lingua. È un
problema costante dell’unnanità. Anche qui,
oggi, tra di noi, esiste il problema della
lingua. Se io parlassi nella mia lingua
materna,: il polacco, mi esprimerei in un
modo assai' piu interessante. Ma parlando in
inglese, la lingua di un altro popolo, non sono
in gra-
io di andare troppo per il sottile e una serie di
stum a ture vanno perdute. E Maria sta,
oltretutto. traducendo da una lingua che a sua
volta non è la sua.
Quello della lingua è uno dei problemi
crescenti nel mondo. Una delle caratteristiche
del mondo contemporaneo è la crescita dei
nazionalismi e delle lingue legate ad essi.
Ogni nazione e ogni regione all'interno delle
singole nazioni insiste sempre più a voler
parlare la propria lingua e non quella degli
"a.tri". Ciò si riflette anche sulla
comunicazione interpersonale. Se qualcuno
vuole parlare con me e deve farlo nella mia
lingua, non riesce a esprimersi appieno. Vi
faccio un esempio: recentemente è stato
pubblicato uri libro sulla storia degli Stati
Uniti. L’autore, quando ha cercato i
documenti relativi agli accordi scritti e
firmati dai colonizzatori eu- iropei che erano
in lase di espansione e dai capi delle tribù
indigene, gli indiani d’America, ha scoperto
improvvisamente che tutti questi trattati - in
qualsiasi anno, luogo o situazione fossero
stati adottati - erano scritti in una lingua
estranea a una delle due contropali i. E in più
gli indiani che li firmarono isuno analfabeti:
oltre a non parlare quella lingua non sapevano
neppure leggere né Iscri sere. Si è scoperto
cosi che tutti questi
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trattati, proprio a causa del problema della
lingua, sono in gran pane dei falsi. E quindi la
storia degli Stati Uniti d’America si fonda su
un'errata comprensione della lingua.
Il problema della lingua non è solo
internazionale, ma anche nazionale. Basti
pensare alle differenze linguistiche esistenti
in un paese come il vostro, dove la lingua
nazionale convive con i dialetti, le lingue
delle cosiddette minoranze c le lingue dei
gruppi di recente immigrazione.
Il problema della comunicazione, dunque, è
tremendo, specialmente per i giornalisti,
perché l’uso di un linguaggio preciso è una
questione molto delicata per la nostra
scrittura.
Ricapitolando: c’è un primo problema
psicologico, che consiste nel dover parlare
con persone mai incontrate prima di allora e
nel cercare di ricavarne il più possibile in
incontri di solito brevissimi. Il secondo
problema è quello linguistico: spesso non
riusciamo nemmeno a comunicare con l’altro,
perché non conosciamo la sua lingua né
abbiamo traduttori a disposizione. E così
magari costruiamo la storia solo su una
percezione visiva.
Vi faccio un esempio riportato anche in un
mio libro, Le Shah, scritto nel periodo della
evoluzione khomeinista. Tale rivoluzione si
esprimeva sotto forma di grandissime
manifestazioni di strada. Quando ero a
Teheran, vent anni fa, le lingue europee erano
vietate; la lingua locale era il farsi e io non lo
parlavo. Le fonti ufficiali non avevano nessun
interesse a far sapere alla stampa estera che
.osa succedeva davvero nel paese. Le notizie
relative a manifestazioni di piazza,
assembramenti, eccetera, venivano
regolarmente censurate. E, non conoscendo la
lingua del. posto, era davvero un problema
trovare fonti alternative di informazione. Be’,
mi ci è voluto un po’ di tempo, poi mi sono
accorto che lavorando su certi indizi, su certi
microse- anali in apparenza insignificanti,
non era difficile prevedere quello che si stava
preparando. Avevo notato che una piccola
bottega di una via popolare di un certo
quartiere, uno di quei negozietti che
espongono le proprie mercanzie fin sulla
strada, in determinali giorni non esponeva la
propria merce o non apriva addirittura. Non
mi ci è voluto molto a capire che potevo
servirmi, di questo segnale come di un
dispaccio d’agenzia più che attendibile. A
seconda dei movimenti di piazza, di cui era
ovviamente al corrente, il proprietario della
bottega sceglieva la sua linea di condotta,
mandando così a dire a
chiunque voleva capire l'antifona cosa
aspettarsi, a che ora e in quale parte della
città.
Ci sono molti casi come questo, ma era
solo per dire che nel nostro mestiere spesso
bisogna lare grande attenzione non tanto alle
cose che ci vengono dette dalla radio, dalla
televisione o nelle conferenze stampa, ma a
ciò che c semplicemente attor no a noi e che
rientra, appunto, nelle impanci era bilia.
Altro problema: ognuno di noi vede la
storia e il mondo in maniera diversa. Se
ognuno di noi andasse in un posto dove sta
succedendo qualcosa e volesse descriverlo,
avremmo versioni completamente differenti
di quegli eventi, ognuno li racconterebbe a
modo suo, A chi credere? Quali sono i
criteri?
Ho una sorella di un anno più giovane di
me e a cui voglio molto bene; vive in Canada.
Ci siamo visti due o tre anni fa. Da tanto
tempo avevo in mente di scrivere un libro
sulla nostra infanzia in un piccolo \ illaggio
della Bielorussia, dove siamo cresciuti
insieme e dove siamo sempre stati
attaccatissimi. Così ho pr ovato a rispolverare
insieme a lei i nostri ricordi della seconda
guerra mondiale. Le ho chiesto di dirmi cosa
ricordava di quegli anni, poi ho tirato fuori le
mie memorie. Ebbene, pur avendo vissuto
sempre assieme, ciascuno di noi ricordava
cose
totalmente diverse. Continuavo a chiederle se
ricordava alcuni episodi particolari e lei
rispondeva di no. E la stessa cosa avveniva
per me quando era lei a domandare.
Non è che un esempio di quanto sia
difficile il nostro lavoro con gli aln i. Non
perché ci vogliano imbrogliale, ma solo
perché la nostra memoria funziona come un
meccanismo selettivo. Intervistando persone
diverse, avremo diversi racconti dello stesso
evento. Prendiamo resperimento l'atto da una
grande scrittrice messicana, Helena
Poniatovv- ska: nella storia recente del
Messico è avvenuto un fatto molto tragico, il
massacro di diverse centinaia di studenti a
Città del Messico nel 1968, nella Piazza di
Tlatelolco. Poniatovvska ha scritto un libro -
il cui titolo f appunto La notte di Tlatelolco -
che consiste in una pura cronaca, senza alcun
commento, di questo evento che avvenne
tutto in quella singola piazza, raccontato però
da alcune centinaia di persone che vi
assistettero. E un libro che rivela qual è il
principale problema di chi fa giornalismo: i
racconti di questi testimoni sono l'uno
diversissimo dal- l abro. .Ma, mentre
Poniatovvska ha scritto un libro di
cinquecento pagine, per il giornale voi dovete
raccontare una storia in tre pagine, oppure
(are un servizio di appena un
minulo per la radio o la televisione. La
selezione delle cose da scrivere è interamente
affidata al vostro intuito, al vostro talento e
ai vostri principi etici. Possiamo mentire
senza volerlo, solo perche la nostra memoria
è limitata o i ricordi sono sbagliati, oppure a
causa delle nostre emozioni.
L'ultimo problema riguarda il mutare dei
nostri atteggiamenti e dei nostri ricordi col
passare del tempo. Talvolta, tra l’evento su
cui abbiamo raccolto del materiale e il
momento in cui ci accingiamo a scriverne,
trascorre un lungo periodo di tempo. E nel
corso del tempo i nostri ricordi sono
cambiati.
Tutto questo è solo per di ivi quanto è
difficile la nostra professione, se soltanto
cominciamo a farla seriamente.

Domanda dal pubblico: Come ha


cominciati; a girare il mondo? E prima di
cominciare a girarlo c stato un po’ cinico
anche lei nel cercare le notizie, come siamo
un po’ tutti noi?

RK: Ho cominciato a scrivere come poeta.


Quando ero ancora a scuola ho pubblicato
alcune poesie, il direttore di un quotidiano mi
ha scoperto e mi ha chiesto di lavorare

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con loro appena avessi finito gli studi. Cosi
1)0 completato la scuola a diciotto anni e il
giorno dopo ho iniziato a lavorare come
giornalista. Fin dal primo momento ho
scoperto quanto questa professione sia
affascinante. Eravamo appena usciti dalla
seconda guerra mondiale, l'Europa era
distrutta, molti profughi vagavano da una
nazione all'altra, tra la povertà e le macerie.
Può sembrare patetico, ma fu allora che si
sviluppò in me la passione di descrivere la
nostra povera esistenza umana. Mi interessava
molto anche vedere il mondo, ma eravamo nel
perìodo comunista e per noi era impossibile
andare all'estero. Poi venne un po’ di
tranquillità nei rapporti internazionali, e dopo
la morte di Stalin ci fu a poco a poco
concesso di viaggiale fuori dal nostro paese.
Per il mio primo viaggio fui mandato in India,
Pakistan, Afghanistan. Fin da allora ho diviso
il mio tempo professionale tra lo scrivere del
mio paese e lo scrivere di altri paesi.
Sono convinto che il ventesimo secolo sia
stato un secolo estremamente affascinante. Di
solito viene descritto come un secolo di
disastri: la prima e la seconda guerra
mondiale, le dittature, i regimi totalitari,
fascismo, comuniSmo. Io credo che nel
ventesimo secolo abbiamo vissuto
un'esperienza storica
unica: la creazione di un pianeta
indipendente. Se prendiamo una cartina del
nostro pianeta com’era all’inizio del secolo e
una di come è alla fine, avremo due situazioni
completamente differenti. Nella prima
abbiamo pochi stati indipendenti e il resto del
mondo vive sotto la dipendenza coloniale o
semico- lonialc. Oggi abbiamo quasi duecento
stati indipendenti, e il loie numero sta ancora
crescendo. Il colonialismo ha cessato di
esistere e le colonie non esistono quasi più.
Benché il livello economico di moltissime
nazioni sia bassissimo, benché ci siano
società molto infelici, viviamo in un mondo
in cui quasi sei miliardi di persone sono,
almeno nominalmente, esseri umani
politicamente indipendenti. Credo che questa
sia una caratteristica positiva del nostro
secolo, che non dovremmo passare sotto
silenzio.
Io sono stato uno dei testimoni di questo
fenomenale evento, che non era mai avvenuto
prima nella storia dell’umanità, né si ripeterà
ancora. Tutte le mie opere sono dedicate alla
descrizione di questa eccezionale esperienza
umana.
Quanto alla seconda parte della sua
domanda, la nostra professione non può
essere esercitata al meglio da nessuno che sia
cinico. Occorre distinguere: una cosa è essere
sceltici, realisti, prudenti. Questo è assoluta-
mente necessario, altrimenti non si potrebbe
lare giornalismo. Tutt’altra cosa è essere
cinici, un atteggiamento incompatibile con la
professione del giornalista. Il cinismo è un
atteggiamento inumano, che allontana
automaticamente dal nostro mestiere, almeno
se lo si concepisce in modo serio.
Naturalmente qui parliamo solo di grande
giornalismo, che è l'unico di cui valga la pena
occuparsi, non ceno di quel cattivo modo di
interpretarlo che vediamo di frequente.
Niella mia vita ho incontrato centinaia di
grandi, meravigliosi giornalisti, di diversi
paesi e in epoche differenti. Nessuno di loro
era un cinico. Al contrario, erano persone
molto legate a ciò che stavano facendo, molti-
serie, in generale persone molto umane.
Come sapete, ogni anno più di cento
giornalisti vengono uccisi c varie centinaia
vengono messe in prigione oppure torturate.
In varie parti del mondo si tratta di Lina
professione molto pericolosa. Chi decide di
lare questo lavoro ed è disposto a pagarne il
orezzo sulla propria pelle, con rischio e
sofferenza, non può essere cinico.

Domanda dal pubblico: Lei ha detto che uno


dei grossi problemi di questo nostro
mestiere è che i resoconti su un fatto sono
diversi a seconda dei testimoni, mentre il
fatto è uno e uno solo, Allora, la diversità dei
resoconti non è una ricchezza?
Entrando si è felicitato nel vedere tanti
giovani, ma questo è anche un mestiere che fa
invecchiare presto...

RK: Circa ventanni fa nel mio paese si è


posto il problema di creare un fondo
pensionistico per i giornalisti, dato che la
pensione dovrebbe arrivare alla fine di ogni
carriera professionale. Nel sindacato dei
giornalisti arrivammo a questa conclusione:
che era un problema che non si poteva
affrontare, in quanto nella nostra categoria
quasi nessuno vive fino aH’età della
pensione. Questa è una delle caratteristiche
della nostra professione, una professione fatta
di stress costante, di nervosismo, insicurezza
e rischio c dove si lavora giorno e notte.
Quindi si invecchia presto e molto presto si
esce di scena. Della mia generazione,
pochissimi colleghi sono ancora vivi. Alcuni
sono andati tranquillamente in pensione, ma
di coloro che hanno iniziato con me nessuno è
ancora in attività. Non è per spaventarvi...
Naturalmente ci sono forme della nostra
professione in cui si può lavorare più o meno
con tranquillità, ma non sono molte.
Rispetto alla sua prima domanda, quello
che lei dice è giusto, se si ha la possibilità di
descrivere un evento da molte angolature,
come quando si scrive un libro. Ma nella
nostra professione, in tutte le forme in cui
essa si esprime (stampa, televisione...), la
tendenza è ad abbreviare sempre di più i
resoconti. Se hai una o due cartelle da
scrivere, tutte le sfumature se ne vanno. Devi
condensare tutto in una battuta, in una frase.
Non c'è posto per la ricchezza dei particolari,
a meno che tu non sia uno scrittole. Se sei un
giornalista-scrittore, allora puoi permetterti di
mostrare tutta la ricchezza delle opinioni,
delle esperienze. Parlando della vita di tutti i
giorni, di solito il giornalista deve fare una
scelta drammatica, piegarsi a una lacerante
riduzione che gli permetta di comprimere la
realtà - che è sempre ricca e multidimensio-
nale - in una descrizione breve e molto
seminìi beata.

Domanda dal pubblico: Si è detto di un


giornalismo che fa attenzione soprattutto ai
ceboli, di una professione pericolosa, che
consuma. Vorrei sapere, nella sua esperienza
prima di tutto di uomo e poi di giomali-
sla, qual è stalo il suo rapporto con il potere,
in particolare con i regimi dell'Est europeo. e
quale dovrebbe essere oggi il rapporto del
giornalista con il potere.

RK È una domanda veramente complessa.


Io ho una lunga storia giornalistica da
raccontare e occorrerebbe scrivere un libro
per rispondere compiutamente. Non c’è una
sola T egola. L'ideale è quello di essere il più
indipendenti possibile, ma la vita è lontana
dall’essere un ideale. Il giornalista è
sottoposto a molte e diverse pressioni perché
scriva ciò che il suo padrone vuole che egli
scriva. La nostra professione è una lotta
costante tra il nostro sogno, la nostra volontà
di essere del tutto indipendenti e le situazioni
reali in cui ci troviamo, che ci costringono ad
essere invece dipendenti da interessi, punti di
vista, aspettative dei nostri editori.
Ci sono paesi in cui esiste la censura, e
allora bisogna lottare per evitarla e per
scrivere quanto più possibile ciò che si
intende scrivere, nonostante tutto. Ci sono
paesi in cui c’è libertà di espressione, in cui
non esiste una censura ufficiale, ma la libertà
del giornalista è limitata dagli interessi della
testata per la quale lavora. In molti casi il
giornalista, specialmente se è giovane, dece
sottostare a molti compromessi e usare varie
lattiche per evitare il confronto diretto, e così via.
Ma non sempre è possibile, ed è questo il motivo
per cui si verificano cosi tanti casi di persecuzione.
Sono tecniche di persecuzione indubbiamente
diverse da quelle violente di cui parlavo in
precedenza: assumono la forma del licenziamento,
deH’emar- ginazionc di fatto dalla vita lavorativa,
della minaccia di natura economica. In generale si
n atta di una professione che richiede una continua
lotta e un costante stato di alleila. Pei' rispondere
concretamente alla sua domanda, bisognerebbe
analizzare caso per caso, ma è comunque difficile
dire se in un determinato paese la situazione sia
migliore o peggiore che in un altro. Le cose
fluttuano, cambiano in pochi anni. In generale, la
conquista di ogni pezzetto della nostra
indipendenza richiede una battaglia.
Ognuno di noi, dopo un certo numero di anni di
lavoro e di viaggi, ha nel suo curriculum almeno
un caso personale di persecuzione, di espulsione
da qualche paese, di fermo, di tensione con la
polizia a le autorità, che magari rifiutano di
concedere il visto, che usano centinaia di
espedienti per renderci difficile la vita.
Domanda dal pubblico: All’inizio del nostro
incontro lei ha detto che non bisogna mai stancarsi
di studiare il mondo, perché esso ci cambia
costantemente attorno. Dunque dobbiamo cercare
di anticipare gli eventi, di prevedere il futuro.
Questo mi ha ricordato una frase dello storico
Hobsbavvm nel suo libro Intervista sul nuovo
secolo. Ma qual è il r apporto tra cronaca e storia,
tra giornalista e stori co? Non ci accade talvolta di
lare lo stesso mestiere?

RK: lo sono laureato in storia, e fare lo storico


è il mio lavor o. Mentre stavo completando il mio
iter scolastico, mi trovai a dover scegliere tra il
continuar e i miei studi storici per diventare un
professore di storia, un accademico, e lo studiare
la storia nel suo farsi, che è il giornalismo. Ho
scelto questa seconda str ada. Ogni giornalista è
uno storico. Ciò che egli fa è ricercare, esplorare,
descrivere la storia nel suo farsi. Avere un sapere e
un intuito da storico è una qualità fondamentale
pei' ogni giornalista. Il buono e il cattivo
giornalismo si distinguono facilmente: ne] buon
giornalismo, oltre alla descrizione di un evento
avete anche la spiegazione del perché è accaduto;
nel cattivo giornalismo c'è invece la sola
descrizione,

su
'Cnza alcuna connessione o riferimento al
contesto storico. C’è il resoconto del puro tatto,
ma non ne conosciamo né le cause né i precedenti.
La storia risponde semplicemente alla domanda:
perché?
Nella nostra professione è fondamentale avere
molta attenzione per il lettore (o tele- spettatore) a
cui ci rivolgiamo. Noi conosciamo di un fatto
molte più cose di lui, che anzi di solito non ne sa
assolutamente nulla. Dobbiamo allora avere molto
equilibrio. Dobbiamo introdurlo alla
comprensione dell'evento, dicendogli cosa è
avvenuto prima, narrandogliene la storia.

Domanda dal pubblico: Ci sono drammi della


storia contemporanea che sono stati poco o nulla
raccontati dai giornali. Mi riferisco per esempio
alle persecuzioni di alcune minoranze religiose ed
etniche in Iran. Come mai certi fatti non sono mai
entrati nell'agenda della stampa intemazionale?

RK: Perché la stampa internazionale è


manipolata. E le ragioni di tale manipolazione
sono diverse. Ci sono, ad esempio, ragioni
ideologiche: tra le attività umane, i mass media
sono i più manipolati perché >ono strumenti per
influenzare l’opinione
pubblica, cosa che può avvenire in vari modi a
seconda di chi li gestisce. Ci sono diverse tecniche
di manipolazione. Nei giornali si può attuare una
manipolazione a seconda di cosa si sceglie di
mettere in prima pagina, del titolo e dello spazio
che diamo a un evento. Nella stampa ci sono
centinaia di modi per manipolare le notizie. E altre
centinaia ve ne sono nella radio e nella televisione.
E senza dire bugie. Tl problema della radio e della
televisione è che non ce bisogno di mentire: ci si
può limitare a non riflettere la verità. Il sistema è
molto semplice: omettere l’argomento. La
maggior parte degli spettatori della televisione
ricevono in modo molto passivo ciò che essa offre
loro. I padroni dei network televisivi decidono per
loro cosa debbono pensare. Determinano la lista
delle cose a cui pensare e cosa pensarne. Non
possiamo aspettarci che il telespettatore medio
possa svolgere studi indipendenti sulla situazione
del mondo, sarebbe impossibile persino per gli
specialisti. L'uomo medio, che lavora, toma a casa
stanco e vuole semplicemente starsene un po' con
la sua famiglia, recepisce giusto quello che gli
arriva in quei cinque minuti di telegiornale. Gli
argomenti principali che danno vita alle ’'notizie
del giorno” decido-
no che cosa pensiamo del mondo e come lo
pensiamo.
Si tratta di un’arma fondamentale nella
costruzione dell'opinione pubblica. Se non pal
liamo di un evento, esso semplicemente non
esiste. Per i più. infatti, le "notizie del giorno”
sono l’unica via per conoscere qualcosa del
mondo. Sono stato personalmente testimone di
questa situazione a Mosca nel ’91 quando vi fu il
tentativo di rovesciare il primo governo Eltsin e di
restaurare il comuniSmo. L’evento principale,
quello che decise tutto, avvenne a Leningrado,
oggi San Pietroburgo. Tutte le troupe televisive,
però, erano a Mosca.
Il problema delle televisioni, in generale di lutti
i media, è che sono cosi grandi, induenti e
importanti che hanno cominciato a creare un
mondo tutto loro. Un mondo che ha poco a che
fare con la realtà. Ma del resto questi media non
sono interessati a inflettere Va realtà del mondo,
bensì solo a competere l'uno con l’altro. Una
stazione televisiva, • ) un giornale, non può
permettersi di non avere la notizia che ha anche il
suo diretto concorrente. Così essi finiscono per
osserva- ■e non la vita reale, ma i propri
concorrenti.
Oggi i inedia si muovono in branchi, come
pecore in gregge; non possono spostarsi

63
separatamente. Per questo, su tutto ciò che viene
riportato, leggiamo e ascoltiamo gli stessi
resoconti, le stesse notizie. Prendete la guerra del
Golfo: duecento troupe televisive si concentrano
nella medesima area. Niello stesso momento
tantissime altre cose importanti e anche cruciali
avvengono in altre zone del mondo. Non importa,
nessuno ne parlerà: tutti sono nel Golfo. Perché lo
scopo di ogni grande network non è di offrire
un'immagine del mondo, ma di non essere battuto
dagli altri network. Se poi subito dopo ce un altro
grande avvenimento, tutti si muovono in quella
nuova direzione, e tutti ci resteranno sopra senza
avere il tempo di coprire altri luoghi. Questo è il
modo in cui l'uomo medio si fa un’idea della
situazione mondiale.
Naturalmente ci sono riviste, bollettini e
soprattutto libri che offrono un'immagine più
bilanciata e completa, ma sono per minoranze, per
piccoli gruppi di specialisti. Per il grande pubblico
l’inlormazione è solo il risultato della
competizione, della lotta tra i diversi media. Che è
un’altra storia.
L’altro tipo di manipolazione è quella
cosciente. Oggi i media sono disposti a parlare di
un avvenimento solo quando sono in grado di
spiegarne le cause e di fornire tut-
-
.e le risposte necessarie. Ad esempio, la cri- 'i in
Kosovo è in corso già da otto anni, ma non se ne
parla fino a quando non viene presa la decisione di
cominciare a risolverne il problema. La notizia
non esiste, se non si ha la risposta pronta sulle sue
cause.

MN: Concludiamo questo incontro, che non ha


certo esaurito né poteva esaurire tutte le questioni
aperte, leggendo la pagina filale di L'ultima
guerra del football e altre zuene di poveri, una
sintesi perfetta e totalmente aperta del modo di
lavorare, vivere e ricercare di Ryszard
Kapuscinski: ''Sono tornato di nuovo nell'altro
emisfero e poi ancora in Alrica. Ma ha ancora
senso continuare questa storia? Descrivere la
traversata dello Zambesi, la visita del maresciallo
Idi Amin? La descrizione del mondo aveva senso
solo quando gli uomini vivevano in un luogo pic- .
olo come ai tempi di Marco Polo. Oggi il mondo è
grande, è infinito. Si accresce continuamente c
sarà certo più facile per un ..ammello passare per
la cruna di un ago che per noi conoscere, sentire e
comprendere tutto quel che compone l'esistenza di
quasi dieci miliardi di persone. Leggo Moby Dick
di Herman Melville. Tl protagonista, un marinaio
di nome Ismaele, naviga sull’oceano. In-

65
sieme alla ciurma della nave dà la caccia a una
pericolosa e inafferrabile balena, che alla fine
emergerà dal fondo e assesterà alla nave il colpo
mortale. A un certo punto sente il capitano, il
terribile, implacabile Achab, gridare lordine:
'Barca sopravento, raddrizzala per il giro del
mondo'. Ismaele allora pensa: 'Il giro del mondo?
Ce molto in queste parole che ispira sentimenti
d'orgoglio, ma dove conduce tutta questa
circumnavigazione? Soltanto, attraverso
innumerevoli pericoli, a quello stesso punto donde
si è partiti. Dove quelli che abbiamo lasciato
indietro, al sicuro, sono stati avanti a noi tutto il
tempo’. Eppure, Ismaele continua a navigare”.

Vinicio Albanesi: È difficile incontrare dei


maestri, e noi questa sera abbiamo incontrato un
maestro. I maestri non sono infallibili, sono delle
guide. Io, ascoltando Kapuscinski, ho sentito una
riflessione piena di umanità, dì quella pietà di cui
abbiamo parlato all'inizio del nostro convegno, c
di speranza. Kapuscinski ha auraversato molti
decenni, ha iniziato come giovane corrispondente,
ha visto la trasformazione dei mezzi tecnologici,
però non ha perso la bussola, ha continuato a
navigare. È questo ciò che noi dobbiamo
interiorizzare. Voi siete

66
ragazzi, conoscerete altri mondi, altri mezzi. Però
quello che abbiamo cercato di comunicarvi
attraverso Kapuscinski è questa interiorità, questa
umanità, questa dignità. Ringrazio Maria Nadotti
che ce l’ha portato. Non è stato facile. La
Repubblica stamattina ha pubblicato un'intervista
per recuperare. L'ha inseguito fino a Zurigo. È un
piccolo esempio di potere: hanno scelto di non
veni- v a incontrarlo a Capodarco perché
dovevano dimostrare di essere i più bravi, cioè i pr
imi. Cercate degli esempi da non imitare e li avete
sotLo gli occhi.
Grazie di cuore a Ryszard Kapuscinski.

Forniamo, qui di seguito, l'elenco delle opere di Rvs/ard


Kapuscinski citate nel testo:

- Another Day Of Life, (originale polacco 1976). tr.


inglese Picador 1987.
- /.< Shah, (originale polacco 1982), tr. francese "
l.enmarion 1986.
- Il Negus. Splendori e miserie di un autocrate.
Feltrinelli. Milano 1983 (ripubblicato nel 1991 da Serra e
Riva con il titolo L'imperatore).
- ì.a prima gitemi del football e altre guerre di po\ e-
Scrra e Riva 1990.
Imperium, Feltrinelli 1994.
-Lapidarium, Feltrinelli 1997.
-Ebano, Feltrinelli 2000.
- Shah-in-Sluih, Feltr inelli 20010.

Tutte le opere pubblicate nel nostro paese sono tradotte


da Vera Verdiani, ad eccezione de li Negus, tradotto
dall’inglese da Maria Luisa Bocchio e Carlo De Magri e
revisionato sull’originale polacco da Vera Verdiani per
l'edizione Serra e Riva del 1991.
I passaggi tratti dai libri ancora inediti in Italia sono
tradotti da Maria Nadotti.

68
Raccontare un continente
la storia nel suo farsi
Andrea Semplici: Lei è andato in Africa, la
prima volta, nel 1958. Aveva ventisei anni e il
Ghana di Nkrumah aveva appena conquistato
la propria indipendenza. Per questo continente
era cominciata la stagione delle grandi
speranze. Com’era l'Africa, allora?

Ryszard Kapuscinski: Non c era allora e


non ce oggi una sola Africa. Non possiamo
dimenticarlo. Ci sono diverse Afriche, almeno
quattro: il Nord Africa, una striscia immensa
che si estende dalle coste mediterranee fino al
Sahara, l'Africa occidentale, l’Africa orientale
e infine l’Africa australe. Ognuna di queste
regioni africane è profondamente differente da
ciascuna delle altre. Ma c'è qualcosa che
univa, soprattutto allora, il continente: la lotta
per l’indipendenza, un’aspirazione generale
alla libertà. Era uno spirito che percorreva
ogni angolo dell’Africa: vi erano attese e
speranze nella fine del colonialismo. In ogni
parte dell’Africa

71
trovavo questo clima, questo fantasma della
libertà: era lo spirito di Uhuni, lo spirito
dell’indipendenza, parola chiave di quegli anni1.
La sola differenza che attraversava il continente
erano gli effetti dei tempi diversi di questa libertà.
Alcuni paesi riuscirono a ottenere l'indipendenza
prima di altri. Altri ancora dovettero attendere,
invece, molti anni. Ma lo spirito era davvero
comune a tutta l'Africa e il continente era unito da
questa aspirazione.
Le strade dell’indipendenza furono molto
diverse. Vi fu chi lottò con le armi per
conquistarla: l’Algeria fu il paese dove la lotta fu
più aspra e lunga, ma anche in molte altre
situazioni furono necessarie guerre sanguinose.
Nelle colonie portoghesi i conflitti durarono fino
agli anni Settanta. La rivolta dei Mau-Mau scosse
per anni il Kenya2, guerriglie divamparono nelle
regioni meridionali del Sudan.
Altri paesi, soprattutto ex colonie britanniche,
riuscirono a ottenere la libertà con strumenti
costituzionali. Ci furono trattative, conferenze che
ebbero luogo, alla fine degli anni Cinquanta, in
paesi come il Malawi, il Kenya e l’Uganda. La
Nigeria, paese importantissimo, divenne
indipendente attraverso questi accordi
costituzionali. Erano soluzio-

12
::i di compromesso: la Gran Bretagna riconosceva
i diritti del nuovo paese e in cambio atteneva
privilegi economici e militari.
Le colonie francesi seguirono, invece, un :erzo
cammino: Parigi concesse l'indipendenza, ma a
condizione che il nuovo paese rimanesse nelle
mani di un’élite cresciuta culturalmente in Francia
e fedele al vecchio padrone coloniale.
Il 1960 fu l’anno delle indipendenze: diciassette
paesi africani, soprattutto ex colonie francesi,
ottennero la libertà. Ma quelli er ano anche gli
anni della Guerra Fredda e le grandi potenze
fecero subito irruzione in Africa.
I paesi africani si divisero, quasi
immediatamente, in due schieramenti: alcuni
scelsero alleanze occidentali, altri guardarono a
Est; alcuni si schierarono con Mosca, altri
strinsero accordi con gli Stati Uniti. Questa
divisione fu uno dei principali ostacoli all’unità
dei nuovi stati. Solo il grande prestigio r.i Hailé
Sei assi é; ri usci a far dialogare i due gJTjppi:
l’imperatore d’Etiopia fu accettato uà ognuno dei
due campi avversi. Si mantenne neutrale, incontrò
i leader africani e nel 1963 riuscì a organizzarne la
prima riunione: tutti i protagonisti delle
indipendenze si ritrovarono ad Addis Abeba. Fu
allora
che nacque l’Oua, l’Organizzazione dell’Unità
africana. Un appuntamento che io, giovane
cronista, non potevo mancare.

AS: Nonostante le divergenze fra i diversi paesi


africani, ad Addis Abeba prevalse l'unità. Cosa
ricorda di quell’avvenimento? Si realizzò davvero
il soglio di Nkrumafr?

RK: Il vertice di Addis Abeba è stato il più


grande evento dell’Africa contemporanea.
Trentadue paesi africani siglarono la Carta
fondamentale dell'Africa. Adesso sono cin-
quantatré. i paesi indipendenti. F. Kwane
Nkrumah, grande politico e grande scrittore, fu la
personalità piti importante di quell’avvenimento, il
vero protagonista di quell’incontro. Era il leader
che aveva una visione del futuro, un progetto
ambizioso per l’intero continente.

AS: Chi era Kwane Nkrumah?

RK: Poco prima del vertice di Addis Abeba,


Nkrumah aveva scritto il suo manifesto per
l’Africa: Africa must unite era il suo programma c
il suo sogno. Nkrumah era un visionario e sapeva
bene che i singoli stati africani, da soli, non
sarebbero stati in gra-
do di competere nel mondo moderno. Erano
'.coppo deboli: solo un’Africa unita avrebbe
ootuto giocare un ruolo importante, avrebbe
potuto contare nella comunità internazionale.
Nkrumah credeva che solo una federazione di stati
africani avrebbe avuto qualche possibilità. Il
mondo, nelle previsioni del leader ghaniano.
sarebbe stato guidato solo da pandi potenze e
l’Africa, per poter far senti- e la sua voce, avrebbe
dovuto anch’essa diventare una vera potenza.
Altrimenti il suo destino sarebbe stato segnato:
divisioni, rivalità, guerre interafricanc.
Ricordo benissimo il momento in cui Nkrumah
si presentò all’assemblea di Addis Abeba. Il
vertice stava vivendo un momento di stanchezza: i
delegati disertavano le sale, andavano al bar,
parlavano con i giornalisti, ma all’improvviso una
scossa elettrica percorse ognuno di noi. Si era
sparsa la voce: Nkrumah stava per prendere la
parola, stava per parlare. La sala si riempì in pochi
minuti, Nkiumah salì sul podio e fu silenzio
immediato.
Era un leader carismatico, un uomo capace di
suscitare grandi emozioni, un personaggio
appassionante. Aveva uno sguardo che sembrava
sempre guardare lontano. Sicuramente era il più
grande fra i nuovi capi
dell'Africa. Anche se ad Addis Abeba non
mancavano altre personalità straordinarie. Come
Hailé Selassié, l’imperatore d’Etiopia, che vide
consacrato il suo prestigio.
Nasser era, invece, il punto di riferimento per
tutta l’Africa araba. Al pranzo inaugurale,
l’imperatore etiopico e il presidente egiziano
entrarono per primi, assieme, fianco a fianco.
Faceva impressione vedere i protagonisti della
storia africana così riuniti: mi colpirono Ben
Bella, il combattente dell’Algeria, e Sekou Tourè\
il leader gu in eia no, un altro sostenitore del
panafricanesimo. Ad Addis Abeba non venne
Jomo Kenyatta, il padre della libertà del Kenya.
Lui noti ha mai viaggiato fuori dalle frontiere del
suo paese,

AS: Lei adesso ha parole quasi ammirate per


Hailé Selassié, eppure ha scritto un libro
durissimo contro di lui. Ci spiega?

RK: Io ho descritto la corte imperiale di Hailé


Selassié. Il mio libro era il racconto di un sistema
di potere. L’imperatore era, sicuramente, un
personaggio politico stupefacente. L’Etiopia era
un paese di estrema povertà, una terra feudale,
arretratissima. Era autentico medioevo profondo.
La schiavitù era una realtà ancora ben concreta. E

76
. imperatore, per alcuni versi uomo moderno. era
davvero una figura uscita direttamente da quel
medioevo. Il suo potere era dispotico e assoluto. I
suoi atteggiamenti, i suoi abiti, il suo protocollo
erano propri di .ma corte medioevale. Hailé
Selassié sapeva .he non poteva sfidare la .sua
aristocrazia. Ne faceva parte, quei feudatari erano
il pilastro del suo potere: l'imperatore non poteva c
non aveva intenzione di cambiare le istituzioni
feudali dell’Etiopia. Era un uomo spietato: chi vi
si opponeva, era condannato. Chi -fidava
l'imperatore era morto. Dopo il tentativo di colpo
di stato del I960', la sua repressione fu priva di
ogni clemenza: uccise rutti i ribelli, compresi i
suoi collaboratori riu stretti.

AS: Ad Addis Abeba mancò uno dei leader più


amati della nuova Africa. 1 secessionisti de!
Katanga avevano già ucciso Patrice Lumumbas
Chi era Lumumba?
RK: Una stella cadente. Che non ha avuto il
tempo di brillare. Fu primo ministro del Congo per
pochissimi mesi. Fu ucciso in modo brutale da
Ciombc e dai secessionisti ka- langhesi sei mesi
dopo la sua nomina. Era giovane. Un mese dopo
essere diventalo primo ministro, il Congo
precipitò in una san-
guinosa guerra civile. In realtà non possiamo dire
molto di lui. Io ero in Congo quando Lumumba
venne ucciso. Mi colpì la rapidità e la brutalità
degli avvenimenti e l'isolamento di Lumumba.
Non ebbe mai un vero potere, fu lasciato solo,
venne abbandonato. F. diventato un simbolo: è un
Che Guevara africano, il suo mito è legato anche
alla sua morte così crudele.
Non ha avuto tempo di esprimere, fino in (ondo
le sue idee. Non ha lasciato libri dietro di sé. Fu
eletto, scoppiò la guerra e il Congo si trasformò in
un campo di battaglia dove si sfidarono le grandi
potenze. Arrivarono i russi e gli americani. Se
qualcuno oggi rileggesse le prime pagine dei
giornali di allora avrebbe la sensazione che il
Congo stesse per diventare la scintilla della terza
guerra mondiale. Nell’estate del 1960 il focolaio
congolese avrebbe potuto davvero incendiare il
mondo: il Congo come Sarajevo per la prima
guerra mondiale o come la Polonia per la seconda.
Vi era una tensione immensa in questo cuore
dell’Africa. Era un gioco terribile: americani,
russi, cinesi e belgi avevano progetti brutali e,
laggiù, in mezzo all’Africa più profonda, si
scontrarono duramente.
Lumumba non aveva nessuna possibilità:
per i potenti della Terra non contava. Ordinarono
di ucciderlo senza alcuna esitazione.

AS: Perché l’Africa delle indipendenze ha


tallito? Perché un sogno è svanito?

RK: Per molte ragioni. Ad Addis Abeba, a cuci


primo vertice africano, venne presa una decisione
importante e fondamentale. La Carta
dell’Organizzazione dell’Unità africana dichiarò
che i confini stabiliti dalle potenze coloniali erano
intoccabili. Quei confini erano stati fissati quasi
un secolo prima a Berlino dai paesi europei che si.
sparti- uno il continente. 1 leader africani
temevano che toccare quei confini avrebbe
significato spalancare la porta a infiniti conflitti
etnici, a rivalità senza fine, a gitene civili. Gli stati
erano troppo deboli per affrontare una simile
situazione. Spesso erano semplici entità il cui
potete non si estendeva oltre le periferie delle
capitali. Stabilire l'imoccabilità dei confini
coloniali, allora, nel 1963, fu una decisione saggia.
Ma non vi fu la volontà di evitare un fenomeno
negativo: le nuove classi dirigenti africane presero
semplicemente il posto dei vecchi padroni bianchi.
Ne ereditarono, in un solo giorno, privilegi c
potere. Una élite nera si sostituì
automaticamente ai colonialisti bianchi. Questa è
stata una delle ragioni del completo fallimento dei
nuovi stati. Non vi furono nuove regole, non vi fu
un nuovo modo di amministrare. Non furono
trasformati lo stato o i meccanismi dell’economia.
Tutto rimase uguale: i nuovi padroni neri avevano
gli stessi privilegi dei loro predecessori bianchi.
Non ci misero poi molto a capire gli oliati
meccanismi della corruzione. L’indipendenza non
modif icò la struttura del potere bianco: sono qui
le radici del naufragio dell’Africa. La lotta per il
potere alimentò le rivalità fra le etnie e fra le
differenti tribù: l'amministrazione dello stato si
trasformò in un campo di battaglia per spartirsi la
ricchezza nazionale e il potere politico. La
corruzione divenne dilagante e i conflitti furono
inevitabili.
Come inevitabile tu, in questa situazione, la
stagione dei colpi di stato militari. Non si dovette
aspettare poi molto per vedere i militari prendere
il potere in quasi tutta l'Africa. Gli anni Sessanta
furono il decennio dei colpi di stalo militari. Io ne
ho contati oltre quaranta. Pochi paesi riuscirono a
evitare l’intervento dei militari. Lo sfacelo delle
amministrazioni civili favori il successo di questi
colpi di stato. L'esercito era, in quegli anni,
la sola, istituzione funzionante: aveva proprie
strutture e propri bilanci, era una forza
disciplinata, controllava i sistemi di comunicatone.
I militari non faticarono a impossessarsi del potere
di fronte a governi civili rissosi e inetti. Non solo:
in molti casi, i militari godevano del sostegno
popolare, l’esercito appariva come un’istituzione
non corolla, pulita, austera.

AS: Ma nemmeno i militari furono una


soluzione per l’Africa...

RK: No, senz'altro. Il nuovo decennio, gli anni


Settanta, I L I il peggiore nella storia recente
dell’Africa. E vero: altri paesi conquistarono
l’indipendenza: erano le ex colonie portoghesi
come l’Angola, il Mozambico e Capo Verde. Ma
per questo continente cominciò anche la grande
tragedia, gli anni delle siccità e delle carestie.
Smise di piovere in Sahel. Gli anni Settanta, in
Africa, rappresentarono la line di ogni speranza:
scomparve quel clima di attesa, di fiducia che
aveva contraddistinto, fino ad allora, l’intero
continente. La gente dell’Africa aveva creduto che
la libertà avrebbe acceso la scintilla dello
sviluppo, che l’indipendenza avrebbe reso
possibile una vita migliore. Erano ingenuità, ma
questa grande speranza aveva davvero messo in
movimento l'Africa. Il decennio delle siccità
uccise questa speranza. In Etiopia e in Salici si
consumarono tragedie immani. L’Africa cambiò
volto. E altri fenomeni aggravarono questo
dramma spaventoso: una tremenda esplosione
demografica si aggiunse alle carestie e alla fame.
Nacquero milioni e milioni di nuove persone e
non vi era niente da mangiare. Tensioni terribili
percorsero il continente per tutti gli anni Settanta e
Ottanta. L'Africa conobbe nuove divisioni: ogni
aspirazione dì unità scomparve, lo spirito delle
indipendenze svanì del tutto. Ogni paese, in angoli
differenti dell’Africa, si trovò a vivere realtà
completamente diverse.
Alcuni stati riuscirono a trovare un equilibrio
sia pure precario: penso al Botswana e al Ghana,
che si sono costruiti una storia recente in qualche
modo positiva. Un altro gruppo di paesi, piu
povero, ha comunque mostrato, negli ultimi anni,
una certa stabilità: la Namibia, lo Zimbabwe, la
Tanzania, il Senegai e i paesi nordafricani come la
Tunisia o il Marocco hanno tentato realmente di
emergere. Altri paesi, invece, appaiono perduti:
guerre civili hanno devastalo, e stanno ancora
devastando, l’Angola, il Sudan, la Liberia, la Si
eira Leone. La Somalia
non è più uno stato. Non esiste più come ta- .e.
Praticamente due governi si contendono il Congo-
Brazzaville, mentre la Sierra Leone ha vissuto
autentici interni, in questi luoghi : autorità del
governo, ammesso die esista, non va oltre i coniini
della capitale. Questi paesi sono una parte
importante dell'Africa c rischiano, ogni momento,
una totale disintegrazione. Si combatte solo per il
potere di una fazione sull’altra. E il futuro delle
nuove generazioni è segnato dalla totale assenza di
qualsiasi istruzione. Queste sono tre Afriche
troppo diverse fra loro: ma è con queste
impressionanti divisioni che il continente è entrato
nel XXI secolo.

AS. Ma la fine della Guerra Fredda ha prodotto


anche il disinteresse delle grandi potenze verso
l’Africa. Perché si combatte oggi?

RK: Questa è una delle grandi amarezze per chi


guarda all'Africa di questi ultimi anni. La fine
dello scontro Ira Stati Uniti e Unione Sovietica
non ha significato la pace in Africa. In Angola,
l’Unita8 è stata sostenuta, per anni, dal Sudafrica e
dall’America contro il governo di Luanda alleato
di Mosca. Finita la guerra fredda, franato l’accor-
do di pace, l’Unita combatte ancora per i
diamanti. In Africa si fanno nuove guerre per il
potere e per la ricchezza. E così in Angola, è così
in Sierra Leone, è così in Congo. L'Africa, prima
del 1989, era il terreno di scontro fra due potenze
che si sfidavano ovunque nel mondo: dopo il
crollo del muro di Berlino è come se l'Africa
avesse cessato di esistere. Nessuno, nel 2000, ha
più interesse all'Afri- ca. Si tratta di un continente
ai margini del pianeta. Negli ultimi dieci anni
sono crollati i sostegni internazionali: l’aiuto allo
sviluppo è precipitato sotto l’l%. Questo vuol dire
che ogni africano riceve meno di due dollari al
mese. Cioè niente. L questi calcoli non
comprendono solo gli aiuti monetari, ma ogni
settore di inteivento della cooperazione, dalla
sanità all’istruzione. 1 leader africani sono certi
che gli aiuti che prima giungevano nel continente,
abbiano preso, adesso, le strade dell’Est europeo.
L’Africa è stata del tutto dimenticata. L’Europa,
agli occhi degli africani, ha scelto di abbandonare
il continente e di privilegiare altri europei.

ÀS: Eppure, in anni recenti, una ventata di


ottimismo aveva percorso l’Africa. Ricorda il
viaggio del presidente americano Bill Clinton
nella primavera del 1998? Proclamò

84
la nuova era dell'Africa, l'inizio del Rinascimento
africano. È durato solo due mesi questo
Rinascimento.

RK: Clinton fece quel viaggio per ragioni


interne: aveva bisogno di conquistare il so- stegno
degli afro-americani. Voleva anche attrarre
l'attenzione della Banca mondiale, del Fondo
monetario e di alcune grandi imprese americane
sull’Africa. Voleva che le multinazionali
americane vi investissero i propri soldi.
Washington aveva latto una valutazione semplice
ed errata: gli americani ritenevano che l’Africa
fosse, oramai, un continente vuoto. La Russia era
fuori gioco e anche le antiche potenze coloniali,
Francia e Gran Bretagna, non sembravano avere
più interessi in Africa. Per questo gli strateghi del
Dipartimento di Stato convinsero Clinton a
considerare storico quel viaggio; per questo gli
suggerirono di parlare di una nuova frontiera, di
un nuovo Rinascimento. In America credevano
che, per pochi soldi, avrebbero potuto comprarsi
l’Africa. Non vi era un’idea molto nobile dietro il
viaggio di Clinton. Ma nessuna impresa americana
avrebbe potuto, anche se avesse voluto, investire
su larga scala in Africa. Gli investimen-
americani potevano essere, e sono, diretti

K5
sok> a proteggere gli interessi degli Stali Uniti:
l'Africa c un'alternativa indispensabile per gli
approvvigionamenti di petrolio destinati al Nord
America. L’Africa è il secondo fornitore degli
Stati Uniti, che comprano greggio in Nigeria, in
Gabon, in Angola .
Ma gli osservatori americani qualche ragione,
in fondo, l’avevano: gli interessi francesi e inglesi
in Africa sono ormai puramente politici. Parigi e
Londra non hanno più rilevanti ambizioni
economiche nel continente. Sa qual è la nuova
potenza economica in Africa? La Cina.
Pechino produce merci che l’Africa può
comprare. Sono prodotti che costano pochissimo e
sono cose che servono agli africani. Scarpe,
penne, sandali, catini, piccole radio, meccanismi
elettrici elementari, camicie, tessuti: i mercati
africani sono pieni di oggetti made in China. Ogni
villaggio, anche il più sperduto, utilizza prodotti
cinesi. Gli studenti, nelle scuole rurali, usano
quaderni cinesi. Sono tutti prodotti che costano un
dollaro, un dollaro e mezzo al massimo. Non un
centesimo di piti. Le merci europee sono troppo
care per l’Africa. E nessuna impresa europea può
produrre per clienti che non hanno denaro. La
Cina e, in misura minore, l’India non hanno rivali.
È un fenomeno sin-
polare: è come se si fossero riaperte, in questi
ultimi anni, rotte tradizionali, strade già percorse
centinaia di anni fa. Le prime vie commerciali,
ben prima dellairivo dei bianchi, allacciavano
l’Africa aU’Oriente, univano ie coste dell’Oceano
Indiano all'Asia, alla penisola arabica e al Medio
Oriente. Mercanti indiani e cinesi vendevano,
mille anni fa, le loro merci in Somalia, in
Mozambico, in Kenya. La cultura asiatica ha
influenzato, in 'laniera visibile, la religione, la
cultura e i commerci africani. Quegli antichi
legami -tanno ricostruendosi oggi, anno 2000.

AS: Un altro viaggiatore ha percorso l’Africa


negli stessi anni delle sue avventure. Mi riferisco
ad Alberto Moravia. Leggendo i libri .ii Moravia c
i suoi si ha una curiosa impressione: è come se
aveste visto due continenti diversi. Moravia parla
della bellezza dell’Africa, lei delle tragedie. Non
le interessa la na- ■.ura dell’Africa?

RK: Nel mio ultimo libro, lei leggerà pagine


che parlano della bellezza deH’Africa"1. Io c
Moravia facevamo due lavori diversi e avevamo
tempi diversi. To amo la natura dell’Africa, ne
sono estasiato, ma Moravia ha aiuto più fortuna di
me: c andato in Africa
come scrittore. Io ero uno schiavo, schiavo del
mio lavoro ossessivo. Ero il corrispondente di
un'agenzia di stampa e dovevo coprire tutto il
continente. E in quegli anni lontani comunicare
dall’Africa con il niondo non era certamente
tacile. Pochi telefoni, niente televisione,
pochissimi giornali, comunicazioni impossibili,
Internet era fantascienza. Io vivevo in Africa e
avere notizie, per me, era difficilissimo. Vivevo in
Tanzania e non riuscivo a sapere cosa stesse
accadendo in Algeria. Un giornalista a Parigi o
Londra ne sapeva molto più di me. L’unico
strumento di contatto con il mondo era il telex e
solo in qualche paese avevo la fortuna di trovare
un telex funzionante. Capire dove fosse un telex
era il mio problema principale ogni volta che mi
mettevo in viaggio. E dovevo sperare che
funzionasse. La nostra era un’agenzia povera e io
non avevo molto denaro. Mon potevo spendere
per inviare notizie. Doveva essere Varsavia a
cercarmi, a trovarmi, a mettersi in contatto con
me. Ma questo voleva dire che la mia agenzia
doveva sapere dove rintracciarmi, che dovevamo
fissare degli appuntamenti davanti a un telex. I
problemi erano senza fine, spesso insolubili. Era
un inferno. Non avevo certo il tempo materiale per
andare a vedere le pit-

8.S
‘.ure rupestri in Tanzania o a visitare i parchi «.lei
Kenya. Io dovevo occuparmi di politica, ài
economia, di guerre, lo volevo vedere l'A- : rica,
ne ammiravo la bellezza: sono stato costretto a
lavorarci per avere la possibilità di conoscerla.
Non potevo pagarmi viaggi in Africa.
Non era possibile nemmeno essere un free Un
giornalista polacco non poteva avere questa
opportunità. Per questo, a differenza di Moravia,
nei miei libri ho potuto raccontare solo l’Africa
dei colpi di stato, delle guerre, dei grandi leader
politici. Adesso ho più tempo e posso permettermi
altre cose: nell'ultimo libro appare la natura
dell’Africa, la sua cultura, i grandi ambienti. Ma
sempre con un’attenzione particolare all’uomo, ai
suoi rapporti con questa natura straordinaria.

AS: In quale paese andrebbe oggi?

RK: In Algeria. Un paese molto particola- "e.


Non è sicuramente un classico paese africano. Se
si guarda una carta geografica, appare come un
paese immenso. È piccolo se, invece, si pensa che
il 95% della sua popolazione vive lungo le coste
del Mediterraneo. La Francia si ostinò a
considerare
l’Algeria un territorio metropolitano. Questo è
stato un elemento decisivo: la colonizzazione
francese voleva popolare l'Algeria. Era l’esatto
contrario del colonialismo inglese: Londra cercava
di controllare le proprie colonie con il minimo
indispensabile di uomini. Solo gli amministratori
emigravano verso le colonie britanniche. Vi
poteva vivere solo chi aveva una vera ragione per
starci. Londra cercò di tenere in pugno un paese
gigantesco come la Nigeria con una sparuta
pattuglia di dodici funzionari. L’Algeria, al
contrario, era vicina alle coste francesi ed è un
paese bellissimo, l iceo, con grandi riserve di
petrolio. I francesi vi si trasferirono a migliaia.
Erano contadini e divennero proprietari di
latifondi. Arrivarono anche i grandi agricoltori e si
impossessarono delle terre degli algerini. Le
tensioni sociali e politiche furono inevitabili.
Precedettero perfino ogni aspirazione
indipendentista. Per questo la lotta per la libertà
dell'Algeria fu così aspra, per questo la guerra
anticoloniale fu così feroce. Nella lotta di
liberazione algerina caddero un milione di
persone. Più che in ogni altro conflitto africano.
Fu una guerra vera: il Fronte di Liberazione
nazionale era ben armato. Non fu una guerriglia
classica, ma un confronto durissimo fra due
eserciti.
l
)0
.\elle città algerine si respirava un’atmo- stera
francese. Algeri c Orano erano città con foltissime
influenze francesi. I bar, i caffè, l'urbanistica
riflettevano la colonizzazione francese. Dopo
l’indipendenza i militari algerini cercarono di
cancellare questa atmo- stera. Volevano il
controllo assoluto del paese. Tutti i coloni
francesi, un milione di persone, dovettero
andarsene. Non fu un'operazione indolore: fu un
altro vero conflitto, una nuova guerra. L'Algeria è
sempre stata un paese eccessivo: la lotta
anticoloniale fu tremenda, l’esercito algerino che
nacque dopo l’indipendenza aveva un potere
smisurato ed era l'armata più potente in questa
pane del mondo. L'islam radicale ha trovato
campo fertile in Algeria: qui è cresciuto con
grande impeto soprattutto negli anni Settanta. Lo
scontro fra l’esercito e l’islam fondamentalista fu
inevitabile: i militari erano spaventati dalia sua
forza crescente. Il ri- iiiltato delle elezioni del
1991 era inaccettabile per l’esercito: avevano
perso e temevano anche di perdere il controllo del
paese. Lo scontro di questi anni è stato spiegato.
Solo oggi, dopo quasi dieci anni di massacri, si
riescono a intravedere delle vie d’uscita. Il nuovo
presidente, Abdclaziz Bou- •.eflika :, è un ottimo
politico. Io l’ho cono-

o:
sciuto quando era ministro degli Esteri negli anni
Sessanta. Già allora era un uomo abile. Ma il suo
è un compito difficile. Ci vorrà tempo. La
pacificazione sarà un processo lento. Anche
perché vi è qualcosa, in Algeria, che rende tutto
molto complicato. Il simbolo di questo paese è la
casbah di Algeri: vicoli strettissimi, strade
anguste, un groviglio di gradini. Ln labirinto dove
è facile entrare e da cui è difficile uscire. Ecco:
l’Algerla è un luogo complesso, nessuno può dire
di conoscerla fino in fondo.
AS: All’altro capo del continente vi è un altro
paese particolare, il Sudafrica.

RK: Il Sudafrica é un miracolo. Il conflitto


sociale e razziale c stato profondissimo, ed è una
delle ferite più grandi dell'Africa. L'n paese
immenso con un groviglio etnico inestricabile:
bianchi, neri, meticci, asiatici. Lna complessità
sociale enorme, lo ci sono stato nei mesi
immediatamente successivi alla line del regime di
apartheid: i farmer bianchi erano armati, avevano
le mitragliatrici nascoste nelle case. Aspettavano
lo scoppio della guerra ci\rile. Volevano difendere
i loro privilegi feudali. I loro latifondi erano
davvero regni medioevali e questa gente temeva
davvero di perdere potere e ric-
chezza. Sembrava inevitabile anche Io scontro fra
gli zulu e gli xosa, le due maggiori etnie nere del
paese. Mandela ha fatto il miracolo. Non è
scoppiata nessuna guerra civile e il potere politico
è passato ai neri. E un caso quasi unico nella
storia: una sola nersona, straordinaria. Nelson
Mandela, è riuscita a compiere un’impresa al di là
di )gni immaginazione.
Ma il Sudafrica è un paese che deve af- n'ontare
problemi giganteschi. La criminalità controlla una
buona parte del territorio e spadroneggia nelle
città. Gli equilibri sociali -ono precari e il rischio
di una guerra civile non è scomparso del tutto. La
transizione sarà ancora lunga: le contraddizioni, in
Sudafrica. sono stridenti. I bianchi hanno
conservato le loro grandi ricchezze, vivono con
agiatezza in quartieri di lusso. Mentre troppi neri
sono confinati in bidonville oscene, in
baraccopoli, in shanty towns orribili, i luoghi
peggiori che ho visto al mondo. Un sociologo mi
spiegò che durante le sue lezio- ••; gli studenti si
addormentavano. Indagò su questi sonni
improvvisi e scoprì che la maggior parte di quei
ragazzi proveniva dalle pe- riferie di
Johannesburg. A casa non potevano dormire: si
accalcavano in trenta in una baracca con una sola
stanza. Questa

\>3
non è vita. Il Sudafrica è un paese splendido, ma
troppe sono le sue contraddizioni e fino a quando
non saranno eliminate, la possibilità di nuove
ondate di violenza sarà sempre reale. Ora la pace e
la speranza, grazie a questo vero miracolo, hanno
trionfato. T bianchi non sono fuggiti. Pochi,
pochissimi se ne sono andati. Mandela, con la sua
storia eccezionale, è uno dei padri dell’Africa.

N ote

Fu Jomo Kenvatta a proclamare, il 12 ottobre del


1963, Villini, l’indi ponderi/.a del Kenya. Ulwni è una
paiola di lingua swahili.
:
Nel 1950, gruppi di kikuyu. popolazione del Kenya,
laudarono la società segreta dei Man-Man e chiamarono
alla rivolta contro il potere dei bianchi inglesi. Migliaia di
kikuyu furono uccisi e imprigionati. Londra dichiarò lo
stato di emergenza in tutto il paese: durò fino al i960, fino
alla vigilia dell’indipendenza.
' Hailé Selassié eia salito sul trono di Re dei Re
imperatore di Etiopia, nei 1930. L'Etiopia fu il primo paese
africano ad essere accolto, da stato indipendente, in
organismi internazionali come la Lega delle Nazioni.
Kapuscinski ha dedicato alla sua figure-, un libro
straordinario: lì iVcgns. Hailc Selassié sarà deposto da una
rivolta militare nel 1974. Verrà ucciso, soffocato nel
sonno, nel 1975.
• Kwane Nkrumah fu uno dei principali leader del
movimento panafricano. Dal 1946 lo alla lesta della lolla
per l’indipendenza in Ghana. Me divenne primo presidente
nel 1957. Fu rovesciato da un colpo di staio militare nel
1966. Morì in esilio nel 1972. Aveva >critto Africa must
u>iite, libro-programma sulla ne- ,'ssità dell’unità africana.
!
Ahmed Sekou Tourè, sindacalista, fondatore del
Partito democratico della Guinea. Primo presidente del
paese nel 1958 Da leader del panali icanesimo si trasformò
in un dittatore spieiato. Morì nel 1984 dopo ventisei anni
di potere assoluto.
Nel I960 la guardia imperiale di Ha ile Selassié si
yollevò contro l'imperatore. Il tenuti ivo di colpo di stato
Fu debellato in cinque giorni.
Patrice Lumumba fu il primo presidente del Congo
indipendente. Governò per pochi mesi. Venne «".assillato
nel gennaio del 1961. Inchieste recenti accusano
esplicitamente il Belgio, c\ potenza coloniale, di averne
ordinato la morte.
' [.'Unita è l'Unione nazionale per lindi pendenza totale,
Fronte guerrigliero nato nel 1966 in contrapposizione al
Movimento popolare di Liberazione dell'Angela (MpIaL di
ispirazione marxista. Dopo l’indipendenza dell'Angela
(1975), è divampata una feroce guerra civile ira i due
Itomi. Un ennesimo accordo di pace siglato nel 1994 è
stato infranto alla line del <998: la guerra Ira Unita e
governo di Luanda è ri- r-olosa con asprezza.
Nelle prime settimane del 2000 il segretario di ■tuo
Madeleine Albright ha dichiarato che, fra i pac- africani,
solo la Nigeria rientra nei 'paesi priorita- r" per l'aiuto
americano in Africa.
Rvszard Kapuscinski, Ebano, Feltrinelli 2000.
Nel dicembre del 1991 il Fiorite islamico di salvezza
(Fis) vinse il primo turno delle elezioni legislative. La
situazione nel paese, già dai mesi precedenti, era molto
tesa. Alla vigilia del secondo turno, nel gennaio del 1992,
le elezioni vennero sospese e il primo turno annullato. A
marzo il Fis venne dichiarato illegale.
;
Abdelaziz. Bouteflika, ex ministro degli Esteri nei
primi governi algerini, ha tinto le elezioni presidenziali del
1999. Subito dopo ha promulgato una legge sulla
“Concordia Civile", successivamente approvata con
referendum. Si natta di un provvedimento che promette
l'amnistia per gli islamisti coinvolti, dal 1991, nella guerra
civile che ha insanguinato l'Algeria.

%
Il racconto in uno spicchio d'aglio
John Berger, nato a Londra nel 1926, è autore di
romanzi, racconti, saggi, poesie, sceneggiature, testi
teatrali tradotti in varie lingue e di una copiosa produzione
come disegnatore e come documentarista. Delle sue opere,
a tut- t’oggi, sono state U adotte in italiano: Vita di un
artista (Longanesi, 1965), G. (Garzanti, 1974 e il
Saggiatore, 1996), Un settimo uomo (Garzanti, 1976), Le tre
vite di Lucie (Gelka Edizioni, 1992), Festa di nozze (il
Saggiatore, 1995), Del guardare (Edizioni Sestante, 1995),
Splendori e miserie di Pablo Picasso (il Saggiatore, Milano
1996), Questione di sguardi (il Saggiatore, 1998), Pagine
della ferita (Greco & Greco Editori, 1999).
Berger, che è uno dei massimi e più innovativi critici
dalie di questo secolo, collabora a varie testate
intemazionali, tra cui Frankfurter Rundschau, El Pais, The
Guardian.
Da oltre venticinque anni ha scelto di vivere in un
piccolo villaggio delle Alpi francesi.
John Berger: Ryszard Kapuscinski è un
viaggiatore geniale e probabilmente conosce il
mondo più di chiunque altro. Attraverso i suoi
scritti, egli ci dà la possibilità di seguirlo nei suoi
viaggi e nelle sue osservazioni. Di tanto in tanto,
mentre scrive, si ferma, alza
10 sguardo al cielo e dice qualcosa di più
generale, Per dare inizio a questa serata, vorrei
leggere una frase tratta da uno dei suoi libri, un
passo in cui Ryszard interrompe improvvisamente
il racconto, per un istante smette di osservare la
gente e dice:
“Come Colombo viveva in un’epoca di grandi
scoperte geografiche, in cui ogni spedizione
navale modificava il quadro mondiale, così noi
oggi attraversiamo un’epoca di grandi scoperte
politiche, in cui rivelazioni sempre nuove
cambiano incessantemente
11 quadro della contemporaneità”, ossia il
significato dell’essere vivi al giorno d’oggi.
Mi piacerebbe usare questa citazione co-
me argomento di questa serata: almeno per
iniziare, parleremo della relazione tra storie -
scrivere, se preferite, letteratura, o in altre parole
racconti stampati - e vita vissuta. In che cosa
consiste questo rapporto? E qualcosa di molto
misterioso.
Io ho una figlia, Katia, che ha sposato un greco
e vive ad Atene. Cinque giorni fa, ho ricevuto una
sua lettera in cui mi raccontava una breve storia.
Anche in Grecia si è verificata un'alluvione, come
in Italia, anche se di dimensioni piti modeste. Ma
prima dell’allu- vione, dice Katia nella lettera,
Atene è stata il teatro di un'altra tragedia, molto
più intima, di entità molto minore, una tragedia
che non ha trovato spazio nella stampa mondiale.
L'autista dell’autobus 222, che mia figlia prende
ogni mattina per andare al lavoro, ha perso il
controllo e l’autobus, dopo aver sbandato fino
all'altro lato della strada, ha investito un gruppo di
persone che aspettavano alla fermata,
principalmente studenti diretti all’università. Nove
di loro sono rimasti uccisi, schiacciati sotto
l’autobus, e molti altri sono stati feriti, alcuni
gravemente, e portati in ospedale. Il giorno dopo,
Katia ha preso l’autobus 222, è scesa alla solita
fermata, quella dove era avvenuto l’incidente, e ha
visto un gruppo di tre o quattrocento uo

mo
mini anziani che parlavano appassionatamente e
con grande concitazione, il genere di uomini che
si vedono solitamente seduti al bar, a giocare a
carte o a backgammon. Ma quella mattina erano
tutti in strada. Mia figlia credeva che si stesse
svolgendo un comizio o una specie di
manifestazione, magari pei' i tagli delle pensioni.
Invece, si trattava di ben altro: quei tre o
quattrocento nomini, erano riuniti per discutere e
commentare l'incidente del giorno prima. Uno
di :oro diceva: "È stato qui che ha perso il
controllo e ha investito quel vecchio". E un altro
rispondeva: "No, è impossibile, perché se quel
vecchio losse stato qui, non sì sarebbe rotto le
gambe, che Dio lo protegga e gli sal- \ ì l'anima.
Ora è in ospedale e magari in punto di morte". La
discussione è andata avanti. Mia figlia è rimasta lì
per un’ora, poi ha dovuto proseguire per recarsi al
lavoro. Il giorno dopo, quando Katia è scesa
dall'autobus, «. era un gruppo più esiguo, ma pur
sempre ci un centinaio di uomini che
continuavano a discutere. E la lettera continua
così. Quando la gente parla di Atene come della
culla della democrazia europea, mi fa venire la
nausea: non è altro che retorica e nessuno capisce
quello che veramente succede ad Atene o in
Grecia. Ma gli ateniesi hanno una

ii))
caratteristica: la capacità di commentare gli
avvenimenti, di criticarli, di dare loro un
significato e di trarne conclusioni, che,
solitamente, commenta Katia, vengono subito
dimenticate. Improvvisamente mi resi conto,
continua Katia, che quegli uomini erano il coro di
una tragedia greca, che recitavano esattamente
nello stesso modo.
Questa storia, realmente successa un paio di
settimane fa, ci dice qualcosa sul misterioso
rapporto che lega la vita vissuta e la letteratura.
Forse è giunto il momento di fare delle
distinzioni tra i racconti e forse anche di abolire,
almeno per il momento, la parola “fiction”. La
fiction fu inventata nel XIX secolo, quando la
gente trascorreva lunghe serate accanto al camino,
passando il tempo a leggere del mondo. Prima del
XIX secolo, la vita era più sedentaria, meno
soggetta ai cambiamenti e meno sicura. A quel
tempo venivano raccontate e ripetute tante storie,
che però non venivano considerale “fiction”. Esse,
proprio perché venivano raccontale c ripetute,
erano una commistione di fatti e leggende. E le
leggende non erano meno importanti dei fatti.
Omero taceva della fiction? Sarebbe impossibile
rispondere a questa domanda, perché la parola
"fiction”
diventa troppo riduttiva, quando ciò che si sta
tacendo è tentare di dare nome alle cose là dove
esse si originano, nel loro momento dì fondazione.
Oggi i cambiamenti avvengono anche più
rapidamente di quanto succedeva nel XIX secolo
sebbene, come osserva Ryszard, "i cambiamenti di
ordine politico si svolgono a una velocità molto
diversa da quella della vita quotidiana, la vita
materiale, la vita di ogni giorno, in cui per la
maggior parte delia gente non cambia quasi niente
e se qualcosa cambia, cambia quasi sempre in
neggio”. Tuttavia, assistiamo a enormi cam-
oiamenti in campo tecnologico, e nella sfera della
politica i mutamenti vengono molto
drammatizzati. L’informazione è diventata un
bombardamento continuo. I viaggi, siano essi per
diletto o per necessità economica come nel caso
delle emigrazioni, sono un luogo comune. Il
mondo è quindi diventalo immenso. Eppure non
riusciamo più a percepirlo come la nostra casa.
Questo significa che i racconti diventano rari.
L'immaginazione ha preso il loro posto. Le
sensazioni hanno sostituito il senso del destino,
che costituisce la parte essenziale di un racconto.
Forse, oggi, grazie alla speciale qualità della . oce
umana che canta, che urla tutto il suo
dolore, la forma narrativa popolare più vitale e
genuina è la musica rock.
Tuttavia la fiction continua a essere prodotta,
ma solitamente ha qualcosa che non va, perché le
parole e le espressioni sono troppo grandi e troppo
vicine a noi e quello che sta aldilà di esse è spesso
in realtà privo di corpo. Mentre, qualunque storia,
nel suo più profondo significato, è qualcosa che
succede ai corpi: uomini, donne, cavalli, anche
navi, che sono come corpi. La differenza che
passa tra l'informazione e le storie vere, le storie
che succedono a dei coipi, sta nella prospettiva,
nell'ottica dei fatti. È una questione di come una
storia viene raccontata. A questo proposito, vorrei
leggervi un breve paragrafo di una storia, scritta
da Ryszard.
“Una volta incontrai un uomo che aveva
passato dieci anni in un gulag perché aveva tentato
di collocare un pesante busto di Lenin in una sala
al secondo piano di un edificio. Le porte erano
troppo strette e così lo sfortunato decise di
sollevare il busto da un balcone. Innanzi tutto
doveva legarlo con una corda e così fece: mise
una corda intorno al collo della statua, al collo
dell'autore del marxismo e dell’empiriocriticismo.
Mon ebbe neanche il tempo di slegare il cappio
prima dell’arresto'.

KM
Questo è un racconto, non una notizia. Ma per
osservare quello che è fisico, per osservare
l’essenza dei racconti, occorre che il vero e
proprio corpo del narratore si trovi sul posto o
nelle immediate vicinanze. Non si possono
compiere osservazioni su uno schermo. Tutto
quello che permette di fare „no schermo è leggere.
Ryszard Kapuscinski è un corrispondente
estero, un giornalista, un viaggiatore. Non fa par
te degli autori di fiction, però è uno dei rari grandi
narratori del nostro tempo. A natte la sua cultura e
il suo cuore è un granee narratore perché si trova
sul posto con il suo corpo, e mostra ciò che accade
ad altri coipi. Nei suoi racconti, ci sono i gusti, il
respiro che alita dietro le parole, la paura, la fatica,
la vecchiaia, il ricordo di una madre. Nessuno dei
quali compare nelle notizie. Da tutto questo
materiale fisico, nasce un’essenza: il senso del
destino. Egli spesso lo esprime con una domanda
che esige di essere posta, ma che però non può
trovare risposta.
“Sulla stessa strada, ma verso il basso, .elle
profondità di una ripida gola, c’è un monastero:
Debril Tbanos. All’interno, la chiesa è
piacevolmente fresca ed è come se ossi precipitato
nell’oscurità più completa. Dopo qualche
momento, mi abituo al buio e
vedo pareti coperte di affreschi e pellegrini etiopi
vestiti di bianco, che giacciono bocconi sul
pavimento, coperto solo da stuoie. In un angolo,
un vecchio monaco recita ) canti sacri in ge’ez,
ora una lingua morta. La sua voce sonnolenta è
sommessa, come se in qualunque momento
dovesse spegnersi completamente. L un momento
di silenzio e misticismo, un momento che è più di
un momento, aldilà di qualunque misura, aldilà
dell’esistenza, aldilà del tempo. Da quanto tempo
giacciono lì ì monaci? Non lo so. So soltanto che
esco dalla chiesa per poi tornare, diverse volte nel
corso della giornata t ogni volta i monaci
giacciono lì, immobili. Un giorno, un mese, un
anno, per tutta l’eternità?’'. Questo è il tipo di
domanda che non ha risposta e che evoca il
destino.
Ma perché è necessario raccontare storie come
questa? Perche raccontiamo delie storie? Per
passare il tempo? A volte. Per informare? Per dire
cose non ancora dette? Sì. A volte, solo per
guadagnarci la pagnotta o per far capire alla gente
quante fortunata, dato che oggi la maggior parte
dei racconti sono tragici. A volte sembra che il
racconto abbia una sua volontà, la volontà di
essere ripetuto, di trovare un orecchio, un
compagno. Come i cammelli attraversano il
deserto, i
: acconti attraversano la solitudine della vita,
offrendo ospitalità all'ascoltatore o cercandola. IJ
contrario di un racconto non è il silenzio o la
meditazione, bensì l’oblio. Sempre, sempre, fin
dall’inizio, la vita ha giocato con lassurdità. E
poiché l'assurdo è il padrone del mazzo di carte e
del casinò, la vita non può far altro che perdere.
Eppure, l’uomo compie delle azioni, spesso
coraggiose. Tra quelle meno coraggiose, ma
nonostante questo efficaci, c’è l’atto del
raccontare. Questi atti sfidano l’assurdità e
l’assurdo. In che cosa consiste l’atto del
raccontare? Mi sembra che sia una permanente
azione di retroguardia contro la permanente
\ittoria della volgarità e della stupidità. I racconti
sono una dichiarazione permanente del vissuto in
un mondo sordo. E questo non cambia. E sempre
stato così. Ma un’altra cova che non cambia è il
fatto che di tanto in tanto si verificano dei
miracoli. E noi cono- sciamo i miracoli grazie ai
racconti.
Con questo vorrei collocare quello che stiamo
facendo o tentando di fare in un contesto attuale e
anche nella storia. Una volta fatto questo,
possiamo parlare con molta più precisione del lato
pratico dei racconti., dello scrivere, del leggere,
dei diversi modi eli porsi, di osservare. Volevo
però fare que-
stc osseivazioni per dimostrare che forse
l’argomento di stasera è importante.

Ryszard Kapuscinski: John è una grande figura


della letteratura e per me in particolare ha un
significato molto speciale. Benché lo abbia
incontrato fisicamente solo ieri sera, conoscevo i
suoi scritti da molto tempo. John ha fatto della
grande poesia e letteratura, ha scritto prose
meravigliose, ma una parte dei suoi scritti è stata
di un’importanza particolare per me, in quanto mi
ha insegnato a guardate l’arte, la vita e la
fotografia con un atteggiamento attivo. Io sono un
fotografo, ma il mio modo di fare fotografia è
molto istintivo. Quando anni fa a Filadelfia
acquistai il suo saggio About looking, ne rimasi
affascinato, .soprattutto per la sua in- teiprctazione
della fotografia e di ciò che si trova nelle
fotografie. Di solito ignoriamo le fotografie. Ne
vediamo decine al giorno. E non ci rendiamo
conto che per capire le fotografie e la letteratura è
necessaria una partecipazione attiva. Non si riesce
a capire la fotografia se non ci si pone come
creatori attivi. Ogni fotografia e ogni racconto ha
bisogno di due componenti: colui che ha
realizzato la fotografia, che ha dipinto un quadro,
che ha scritto un racconto e allo

10«
stesso tempo colui che osserva o legge
attivamente. Senza quest’ultimo non può esservi
arte, in quanto l’arte è un processo bilaterale. A
volte si parla della crisi della letteratura: essa è
determinata non dalla crisi degli scrittori, bensì
dalla crisi dei lettori. Se ;! lettore non si pone al
livello della grande letteratura, la grande
letteratura non può esistere. Questa è la lezione
che ho imparato dalla filosofia di John Berger, una
lezione che ho preso molto a cuore per
comprendere il mondo. Comunque, finché ci sarà
una partecipazione così numerosa a una serata
vOme questa, la letteratura e l’arte non potranno
morire. T.a letteratura è ancora viva perché siamo
tutti creatori. Ci troviamo sempre più nella
situazione in cui ogni opera d'arte, ogni opera
letteraria è una creazione collettiva. Ai tempi di
Erodoto o di Tucidide, era possibile che
emergessero questi individui unici perché
lavoravano in un campo uoto. Ma tutti noi
abbiamo una mente e un’immaginazione sempre
più creative, per- vhé noi tutti leggiamo molto
prima di scrivere, vediamo molto prima di
dipingere.
Nella nostra mente esiste un’enorme
interazione da parte di quello che a volte viene
percepito inconsciamente e tuttavia influenza la
nostra fantasia, il nostro modo di os-

109
seivare il mondo e la nostra creatività, fino al
punto in cui diventa sempre più difficile tracciare
una linea di demarcazione tra quello che ci
appartiene e quello che appartiene
all’immaginazione, alle scoperte e alle creazioni
di altri. Stiamo arrivando alla situazione in cui
l’atto di creazione è una conquista collettiva, che
porterà il nome di qualcuno, ma in cui troviamo
sempre più la partecipazione degli altri. In questo
senso, chi crea dovrebbe essere molto modesto,
perché è assai difficile determinare che cosa
abbiamo realizzato con le nostre lorze e qual è il
contributo degli altri. L’arte e la letteratura
contemporanee richiedono quindi la
partecipazione attiva degli altri. Chiunque abbia la
possibilità di leggere John Bergen si renderà conto
di quanta attività mentale, quanta partecipazione
attiva sia contenuta in un’opera d’arte, una
fotografia, un'opera letteraria apparentemente
semplice. In questo modo ogni opera d’arte, così
come ogni fotografia o opera letteraria ci
appartiene sempre di più. L’arte sta diventando
sempre piti comunitaria e gli scritti di John Berger
sono incentrati proprio su questo aspetto dell’arte
creativa.

J"B: Forse la parola giusta è attenzione.


RK: Concentrazione?

JB: Sì, la concentrazione necessaria per


Dresiare attenzione. È chiaro che non posso
dedicare la mia attenzione a tutte le fotografie che
vedo, ma se una fotografia mi parla ncr una
ragione o per l'altra o sembra sul punto di parlare,
è solo una questione di prestare attenzione a quella
fotografia e solo a quella fotografia, non alla
tecnica fotografica, non alla biografia del
fotografo, bensì a quello che vedo nella fotografia.
Si dovrebbe dedicare la stessa attenzione quando
si è testimoni di un'esperienza vissuta da qualcun
altro o quando qualcun altro ci parla. Se si cresta
attenzione, è possibile che quell'espc- rienza ci
venga trasmessa, è possibile che quell’esperienza
venga trasmessa al narratore, allo scrittore e poi,
attraverso l’attenzione del lettore, ritorni alla vita.
Viene dalla vita, entra nel circuito della fotografia,
dell'ascolto, dell’osservazione, della pagina e poi
rientra nella vita. Se è questo il ciclo, il ruolo del
narratore diventa quello del portatore che trasporta
qualcosa da un punto all’altro. Se non si resiste
alla tentazione di non essere modesti, si perde la
capacità di prestare attenzione.

ni
RK; Mi sono reso conto di non avere questa
capacità d’attenzione leggendo una raccolta di
saggi di John Berger. In questo testo, intitolato
Del guardare, compare una fotografia di August
Sander, che ho dovrito guardare e riguardare
molte volte. È il ritratto di tre giovani contadini
ungheresi vestiti in abiti moderni da città, che
andavano forse a una festa. La fotografia è banale,
non ce niente di drammatico: non cc sangue,
nessuna violenza. Si tratta di una fotografia molto
semplice c naturale. Ed ecco che John scrive un
incredibile saggio - che Foucault riprese anni dopo
- su) rapporto tra il coipo e il vestito e
suH’abbigliamento come espressione della
cultura. Il saggio è incentrato su come il corpo del
contadino dedicato al lavoro dei campi, immerso
nella natura, non sia adatto agli abiti da cittadino,
su come questa fosse una situazione artificiale. E
da questo nasce tutta una meravigliosa teoria sul
rapporto tra cultura e abbigliamento, tra
abbigliamento e corpo, tra cultura urbana e
contadina. Questo breve pezzo, di due o tre
pagine, è una lezione su quanto possiamo
imparare dal dettaglio più banale quando
partecipiamo attivamente all’interpretazione, su
quanto possiamo imparare quando prestiamo
attenzione, su come questa atten-
/.ione sia una sorta di conoscenza, di
comprensione della cultura.

Maria Nadotti: Siccome a me sembra che


quello che si stanno dicendo Berger e
Kapuscinski, due personaggi sicuramente
straordinari che trovandosi per la prima volta non
potevano che dirsi delle bellissime cose c trovarsi
concordi, sia un po' troppo idilliaco, voirei farli
precipitare nella realtà contemporanea, che non è
una realtà fatta di attenzione. Vorrei allora citare
un’osservazione da uno degli ultimi libricini di
En- zensberger, Prospettive sulla realtà civile.
"È fuori dubbio ormai che siamo diventati tutti
spettatori e questo ci distingue dagli uomini del
passato, i quali quando non erano loro stessi
vìttime o colpevoli o testimoni, apprendevano
soltanto attraverso voci incerte, leggende bianche
o nere, quel che accadeva altrove, lo venivano a
sapere solo per sentito dire. Ancora alla metà del
XX secolo la popolazione sapeva poco o nulla dei
grandi crimini dell'epoca. Hitler e Stalin fecero di
tutto per tenerli nascosti. Il genocidio era un
segreto di stato. Nei campi di sterminio non
cerano telecamere. Oggi, invece, gli assassini sono
ben disposti a farsi intervistare e i media, dal canto
loro, fieri di non mancare

113
quando si uccide. La guerra civile si trasforma in
un serial televisivo. I reporter assicurano di
assolvere in tal modo soltanto il loro dovere e cioè
quello di dare l’informazione. Ci mostrano
impietosamente, così ci dicono, quel che è
accaduto e il commentatore di .suo ci mette
l’opportuna indignazione. L'orrore è cosa
consueta...".
Allora che cosa succede, si chiede. Enzen-
sberger: noi dalle immagini, dal tenore delle
immagini, dei racconti di realtà, veniamo
trasformati in due possibili cose: terroristi o
voyeur. “Ciascuno di noi in questo modo si vede
sottoposto a un ricatto permanente, perché solo chi
è reso testimone oculare può sentirsi chiedere con
tono carico di biasimo, che cosa intenda fare
contro quello che gli viene mostrato. Così la
televisione, ossia i.1 più coirono dei media, ad
esempio, assurge a istanza morale".

JB: Non sono assolutamente d’accordo.


Ryszard scrive di catastrofi che avvengono in tutto
il mondo. I suoi libri non sono per niente idilliaci.
Sono libri che ci pollano a casa brutte notizie.
Sempre. Io ho passato gli ultimi 15 anni scrivendo
della tragica scomparsa dei contadini da tutto il
mondo. Ho dedicato gli ultimi tre anni della mia
vita a

114
scrivere un romanzo sull'Aids, Festa dì nozze.
Non penso di aver proposto una visione idilliaca
del mondo. Questa è l'ultima cosa di cui possiamo
essere accusati sia io che Ryszard. T.1 libro di
Enzensberger, che peraltro è un grande poeta,
francamente è folle. Hans Magnus c un bravo
ragazzo ed è un peccato che si sia abbandonato a
una tale paranoia. Naturalmente esistono queste
due possibilità. È assolutamente vero che di ‘
conte a quella che Enzensberger chiama in-
ionmazione, di fronte allo schermo televisivo ma
questo è solo un modo di fare informazione - di
fronte ai mass media in generale, si possono avere
solo due possibilità: essere un voyeur o quello che
lui definisce un terrorista. Non sono sicuro di
quello che intende veramente con questa
definizione, forse un complice. Ma esistono altre
possibilità se non si considera soltanto
l’informazione che si riceve dai media. Quando
Ryszard c io parliamo di attenzione, è
precisamente perché giriamo le spalle allo
schermo e cerchiamo di tornare alla vita e lì è
richiesta fatten zio- nc. A volte questa attenzione è
molto difficile da dedicare. Non è un’attenzione di
natura sentimentale, per niente. È quella che i
bambini apprendono nel gioco, prima che la
scuola intervenga a fargliela disimparare.

11S
Per ricevere qualcosa, occorre dedicare la propria
attenzione.

RK: Non posso schierarmi così decisamente


contro Enzensberger perché è il mio editore, ma
sono d’accordo con John sul fatto che Hans
Magnus, essendo un grande poeta, prende una
posizione piuttosto paradossale nei suoi saggi e
specialmente in questo libro. Gli piace pollare la
dissertazione fino all'estremo per provocare
proprio il tipo di risposta che abbiamo ascoltato
adesso. Qualche anno fa, Francis Fukuyama, il
politologo americano, ha scritto un saggio sulla
fine della storia. Si trattava di una tipica pi o-
vocazione intellettuale mirata a suscitare risposte
come quella in cui si afferma che la storia non è
giunta al termine, ma anzi è all’inizio. La
questione t che incomincia la storia di altri.
Naturalmente anche questa è un'affermazione
estremista, paradossale e provocatoria. Ci vengono
proposte queste due posizioni estreme, ma
naturalmente la vita non sta agli estremi. La vita e
quindi le realtà del mondo stanno nel mezzo, non
agli estremi.
Secondo me, la scomparsa del mondo
contadino dal globo è uno dei piti grandi paradossi
del mondo contemporanco, per

itò
che produciamo una quantità di cibo sempre
inferiore per una popolazione in continua crescita.
La liquidazione del mondo contadino, che è un
fenomeno sociale ed economico su scala
mondiale, consiste in un atto di suicidio globale. Il
mio campo è l'Africa e posso dire che si tratta di
un processo tipicamente suicida, a cui l'umanità a
volte si abbandona: il continente che ha sempre
meno cibo e sempre più abitanti sta liquidando la
classe contadina e lo sta facendo molto
rapidamente. In pratica, una grossa parte
dell'umanità vive di aiuti e con questi aiuti che
inviamo in Ruanda e altri paesi stiamo creando
una situazione tragica: una classe parassita di
profughi su scala mondiale, che vengono
allontanati dai loro villaggi, dai loro campi, dal
loro bestiame, messi nei campi profughi e
alimentati dalle organizzazioni mondiali - molte
delle quali sono completamente corrotte - a cui
vanno a finire il nostro denaro, le nostre tasse.
Stiamo creando una classe di milioni e milioni di
persone, i cosiddetti prolughi, che riescono a
vivere solo se gli aiuti continuano ad arrivare,
perché sono incapaci di tornare a casa e di
produrre, dato che hanno cessato di imparare l’arte
della produzione. Questa classe di parassiti che
conta già 40 o 50 mi-
Moni di esseri umani, continua a crescere, ogni
anno e a ogni guerra. Ci ritroviamo sempre più
invischiati in questo circolo vizioso che ha
prodotto, per esempio, intorno alle città africane,
campi profughi i cui abitanti sono sempre più
numerosi e sopravvivono solo grazie agli aiuti dei
paesi industrializzati. Essi sono incapaci di
intraprendere una vita diversa perché sono stati
abituati a ricevere questi aiuti c a dipenderne
passivamente, lo ho visitato questi campi piuttosto
spesso. Sono stato nei campi profughi al confine
tra Etiopia e Somalia proprio l’anno scorso, dove
vivono 300.000 o 500.000 persone. Ognuno riceve
tre litri di acqua pei' tutto, per cucinare, bere e
lavarsi, e mezzo chilo di mais. E vivono di questo.
L’acqua viene trasportata da 82 autocisterne
Mercedes e se le strade sono interrotte o non c’è
benzina, l’acqua non arr iva al campo e la gente
muoio il giorno dopo. Stiamo creando, attraverso
questo folle meccanismo delle cosiddette
organizzazioni umanitarie, un problema enorme
per l'umanità, liquidando la classe contadina e
rendendo l’umanità sempre più dipendente dalla
burocrazia delle cosiddette organizzazioni
umanitarie. Quello che dice John sulla difesa del
mondo contadino significa che se continuiamo a
li-
quidarc la classe contadina, ben presto ci
ritroveremo in una situazione tragica.
Probabilmente John è preoccupato del tatto che
la gente conosce il mondo sempre più attraverso le
immagini offerte dai media. Per la prima volta
nella storia dell’umanità, nella seconda metà del
XX secolo, incominciamo a vivere non una, ma
due stone. Per i 5.000 o 7.000 anni di storia scritta
abbiamo vissuto una sola storia, che abbiamo
creato e a cui abbiamo partecipato. Ma uallo
sviluppo dei media nella seconda metà del XX
secolo, stiamo vivendo due storie diverse: quella
vera e quella creata dai media. Ti paradosso, il
dramma e il pericolo stanno nel latto che
conosciamo sempre più la storia creata dai media e
non quella vera. Perciò la nostra conoscenza della
storia non si riferisce alla storia reale, ma a quella
creala dai media. Io sono ben cosciente di tutto
questo perché lavoro nel campo dell'informazione.
Collaboro con troupe televisive e so come
operano. Mi ricordo, per esempio, che a Mosca
durante il colpo di stato del 1991, gli operatori
televisivi, dopo qualche giorno, erano già stanchi:
c’era un tempo orribile, pioveva, faceva freddo.
Quando si verificava qualche avvenimento
importante, le troupe sì riunivano, si mettevano a
bere

ny
vodka o qualcos’altro e concordavano di non
raccontare niente. E se gli avvenimenti non
venivano riportati dalla televisione, era come se
non fossero mai successi. Questi bravi ragazzi
decidevano se la storia avveniva o non avveniva.
Tutti noi siamo testimoni di questa situazione.
Prima la professione del giornalista era un lavoro
di specialisti. C’era un esiguo gruppo di giornalisti
specializzati in un determinato campo. Ora la
situazione è cambiata completamente: non
esistono specialisti in nessun campo. Il giornalista
è semplicemente qualcuno che viene spostato da
un posto all’altro, secondo le esigenze della rete
televisiva. Ma più impoitante è il fatto che i
media, la televisione, la radio sono interessati non
a riportare quello che succede, ma a battere la
concoiTenza. Di conseguenza, i media creano il
loro mondo e questo loro mondo diventa più
importante di quello reale. Assistiamo, allora, a
questo fenomeno di spostamento in massa dei
media. Se ce una crisi nel Golfo Persico, tutti
vanno nel Golfo Persico. Se ce un colpo di stato a
Mosca, tutti vanno a Mosca. Se c'è una tragedia in
Ruanda, tutti vanno in Ruanda.
Contemporaneamente alla tragedia del Ruanda, si
sono verificati in Africa tre o quattro avveni

vo
menti molto importanti, a cui non è stata dedicata
alcuna attenzione, perché erano tutti in Ruanda, La
tragedia del Ruanda è stata presentata come la
tragedia africana, come la tomba dell’Africa, la
morte dell’Africa. Nessuno ha osservato che il
Ruanda è una nazione molto piccola, i cui abitanti
ammontano a meno dell’ 1% della popolazione
africana. Ma quelli che sono stati mandati in
Ruanda, siccome non sanno niente dell’Africa,
sono assolutamente convinti che quella è l’Africa.
Quindi ci troviamo in un mondo che ha perso
qualunque criterio, qualunque proporzione, in cui
sono i media a creare la storia. Nel XXI secolo, tra
50 anni, lo storico che studierà il nostro tempo,
sarà costretto a guardare milioni di chilometri di
registrazioni televisive per cercare di capire le
migrazioni, i genocidi, le guerre, e ne deriverà
l'idea di un mondo pazzo in cui tutti sparano a
tutti, mentre noi sappiamo bene che viviamo in un
mondo relativamente pacifico, se prendiamo in
considerazione il fatto che sul nostro pianeta
vivono quasi sei miliardi di persone, che parlano
due o tremila lingue diverse, con innumerevoli
interessi. Ma lo storico del XXI secolo avrà una
visione del nostro mondo completamente diversa,
piena di tragedie, di drammi, di problemi.
MN: Come mai tu, John, cerchi i racconti
vicino casa, mentre Ryszard va molto lontano?
Vorrei citare Walter Benjamin: "I racconti nascono
da due diversi tipi di narratore: quello che deve
viaggiare lontano da casa per trovare fatti e
racconti, il mercante, il marinaio; l’altro è il
contadino, quello che sta a casa a raccogliere
ricordi e a distribuirli”.
In un certo modo, John è il contadino, mentre
Ryszard è il marinaio. È sempre una scelta
psicologica e personale? Entrambi vi interessate a
una narrazione utile perii resto del mondo. Allora,
perche John cerca questa utilità vicino a casa e nel
passato, nel ricordo dei contadini che stanno
scomparendo, mentre Ryszard trova questa utilità
lontano da casa e nella vita di persone compieta-
mente diverse dai suoi lettori? Siete d’accordo sul
latto che John è il contadino, che cerca il passato
per raccontare il presente, mentre Ryszard è il
marinaio o il mercante che viaggia lontano da casa
per descrivere il presente e forse per anticipare il
futuro?

JB: È una domanda e un'osservazione molto


interessante. Forse la differenza non è cosi grande.
È un po’ presuntuoso dire questo davanti a
Ryszard, ma mi sembra
molto importante: forse Ryszard incominciò a
viaggiare a causa della situazione in Polonia e a
Varsavia al tempo in cui diventò uno scrittore. Fu
un modo per mettersi nelle condizioni di poter
parlare della vita, cosa che non avrebbe potuto lare
se fosse rimasto a Varsavia. Forse le ragioni non
sono legate alla genetica, al carattere, ma alle
circostanze storiche.
Per quanto riguarda me, per quindici anni ho
scritto del mondo contadino. I contadini parlano
sempre del passato, a volte fin troppo, ma lo fanno
per cercare le soluzioni migliori di problemi veri,
dei pericoli assolutamente imprevedibili che
devono correre coltivando la terra c allevando il
bestiame. Quindi osservano il passato, come altri
consultano i dizionari o le enciclopedie. Come mai
ho deciso di raccontare il mondo contadino?
Benché sia strano, è un esempio di come gli
estremi opposti si congiungano. Venti anni fa
lavoravo a un libro insieme al mio amico fotografo
Jean Mohr, sugli emigranti, sull’emigrazione, sui
viaggi, sullo sradicamento, sul ritrovarsi immerso
in un’altra cultura, in un altro paese. Questa storia
è molto comune nell’Italia degli anni passati: gran
parte della letteratura e del cinema italiano si sono
occupati di questa
esperienza. In ogni modo, per scrivere quel libro
dovevamo ascoltare e frequentare gli emigranti
che arrivavano dai più diversi paesi - dal
Portogallo alla Turchia, a quelli del Nord Africa.
Tutti o quasi tutti questi uomini venivano da
paesini e, ascoltandoli, riuscivo a capire almeno in
parte la loro esperienza della grande città e come
ci erano arrivati. Quello che non riuscivo a capire,
anche se me ne parlavano, era quello che si erano
lasciati alle spalle e che a volte sognavano di notte.
Mi vergognavo di me stesso perché a quel tempo
più della metà della popolazione mondiale viveva
in piccoli paesi e io, invece, che tentavo di capire
qualcosa del mondo moderno, mi accorgevo di
essere fondamentalmente ignorante, e la mia
ignoranza non poteva che essere colmata
consultando le enciclopedie, quelle vere. Così mi
dissi che dovevo imparare, andare in campagna e
imparare. Non mi era necessario imparare a
scrivere, ma imparare almeno una parte della vita e
delle conoscenze dei contadini. Quindi la mia
scelta di stare in un solo posto non ha a che fare
con il mio carattere, ma analogamente a quanto è
successo a Ryszard, con gli argomenti di cui
volevo scrivere. Naturalmente a quel tempo anche
i miei amici mi dicevano che ero trop-
po giovane per andare in pensione e malgrado le
mie proteste, rimasero della loro idea. Per
raccontare il mondo contadino, è fondamentale
conoscere ciò che i contadini sanno, capire il loro
istinto acquisito, l’enorme capacità di osseivazione
e quella loro specie di saggezza. Tutto questo
viene distrutto mentre il mondo ne avrebbe
bisogno. Nel suo libro Imperlimi, Ryszard, che
scrive molto su questo mostruoso crimine, parla
dell'eliminazione dei contadini nell'ambito della
cosiddetta collettivizzazione della terra,
specialmente in Ucraina: milioni di contadini sono
scomparsi, sterminati. Oggi tutti a Mosca cercano i
contadini. Ma come fare? Se solo ci fosse
qualcuno che ci dicesse come comportarci in
questa situazione agricola catastrofica!
Ritornando un momento a me stesso, fu la
scelta degli argomenti che mi ha portato a
condurre un’esistenza sedentaria, perché una delle
caratteristiche dei contadini è che, se vogliono
rimanere contadini, non possono scegliere il posto
dove vivono: esso è già stato scelto per loro dalla
nascita. Questo è il loro tipo di sedentarietà.
Volevo poi aggiungere qualcosa a proposito
dell’argomento di cui stavamo parlando prima, a
completamento di quello che
Ryszard ha già esposto brillantemente sui media e
sul senso storico. Quel processo è affiancato da un
altro cambiamento. Qualche settimana fa un
giornalista inglese molto in gamba si trovava in
una scuola media nell’Inghilterra del Nord, una
/.ona molto povera ora, dove la disoccupazione è
enorme. A un ragazzo di dodici anni è stato
chiesto che cosa avrebbe voluto fare in futuro e
come pensava che sarebbe stato il mondo nell'anno
2015. Il ragazzo ha risposto che lui comunque non
ci sarebbe stato. Questa è una dimostrazione molto
grafica di come il dominio mondiale del libero
mercato abbia abolito il futuro. Agli albori del
libero mercato, si parlava di un nuovo ordine del
mondo. Ma sempre più ci accorgiamo che questo
nuovo ordine del mondo ci offre una prospettiva di
qualche mese o qualche anno, cinque anni al
massimo. Cinque anni sono qtiasi un'eternità
secondo gli standard attuali. Ora. se il futuro è
abolito nei pensieri della gente, è impossibile
vedere o scrìvere la storia. Il futuro è un perno
assolutamente indispensabile per scrivere la storia.
Se viene abolito, la storia non esiste più. Questo
processo, che ha un grande valore filosofico, si
fonde perfettamente con le invenzioni e le
distorsioni degli avvenimenti eontempora-

i 26
nei da parte dei media, che sostituiscono così la
storia vera.

RK: Vorrei aggiungere qualche dato statistico


alla descrizione del mondo contadino, che è una
delle passioni di John. Non siamo abituati a
pensare all'umanità all’inizio del XX secolo come
a una realtà in gran parte contadina. Le città erano
rare e molto distanti tra loro, principalmente
concentrate in Europa e negli Stati Uniti. La
stragrande maggioranza dei continenti non
avevano città o ne avevano ben poche. Ora, 100
anni dopo, alla line del XX secolo, la nostra
società è principalmente ur bana. Quindi, una delle
grandi rivoluzioni avvenute nel XX secolo è
consistita in una delle più massicce migrazioni dai
paesi, dai villaggi, dalla campagna in direzione
della città. Abbiamo incominciato a costruire una
cultura e una scala di valori completamente nuove.
Ora la popolazione urbana si rivolta contr o la
gente delle campagne. Per tornare all’esempio
dell’Africa, l’attuale burocrazia degli stati africani
viene dalle campagne c tuttavia ha stabilito un
regime di sfruttamento di queste terre più spietato
di quanto avvenga in qualunque altra parte de)
mondo. Quella gente, o i loro figli, è diventata la
classe che

127
.sfrutta le persone con cui condivide la stessa
origine sociale.
Pei quanto riguarda la domanda .sulla
sedentarietà e sulla scelta de) viaggio, si possono
dare diverse spiegazioni di ordine politico, di
libertà, e cosi via. Ma nella comunità degli
scrittori, si può tare una semplicissima divisione
tra quegli scrittori che traggono ispirazione da se
stessi, e quelli che devono essere ispirati da motivi
esterni, Ci sono caratteri riflessivi e caratteri che
rispecchiano il mondo. Ci sono scrittori come John
che hanno il dono di riflettere. Come è già staio
detto, si può vedere tutto il mondo senza
abbandonare la propria stanza. Questo è tipico dei
caratteri riflessivi, che traggono ispirazione da se
stessi, dal materiale che hanno in se stessi, che
deve essere animato, formulato ed espresso.
Questo è un tipo di letteratura. Nel mio caso,
invece, io rispecchio il mondo: devo andare sul
posto per poter scrivere. Stando in un solo posto io
muoio, mentre John crea. È una questione mollo
personale, ma in fondo ciò che conta è il prodotto
finale.

XB: Forse abbiamo mollo più in comune di


quel che sembra. Ieri notte, dopo esserci incontrati
di persona per la prima volta, ho sognalo Ryszard,
A volte i sogni sono diffìcili
da interpretai e, perché sono spesso pre-verbal i e
perciò difficili da spiegare a parole. Ma la
situazione del sogno era più o meno la seguente.
Cerano molte vecchie signore, lo ero l’osservatore,
ma non mi trovavo al centro. In mezzo a quelle
donne, si trovava Ryszard: tutte gli parlavano, gli
raccontavano delle storie, anche se io non riuscivo
a sentirle. Poi mi accorsi che Ryszard cercava
qualcosa nelle loro parole, nelle loro voci,
qualcosa dì materiale e in effetti io sapevo di che
cosa si trattava: Ryszard cercava uno spicchio
d'aglio. Con mio grande sollievo, ne trovò uno: lo
aveva tra le dita. Lo spicchio d’aglio si ingrandì
fino a diventare una stanza o una tenda, in cui
sedeva Ryszard. A questo punto mi svegliai. Se
penso a questo sogno, mi accol go che ce un invito
ad ascoltare per poi trovare una stanza per la
storia, l’abitazione del racconto, dove si entra per
scriverlo. Questo avviene sia che si scriva di
mattina o nel pomeriggio, sia che si viaggi intorno
al mondo o che si rimanga seduti sotto un albero,
come faccio io sotto un pruno, anche se le prugne
non erano buone quest’anno perche la primavera
aveva ucciso i lion.

1VLN: Vorrei sapere quale uso fate del silenzio


nel vostro modo di scrivere.

12 V
TB: Naturalmente, il silenzio è assoluta- mente
essenziale: l'arte della narrativa dipende da quello
che si lascia fuori di essa. Altrimenti non ci
sarebbe una storia, perché sì saturerebbe
semplicemente il mondo di parole. Quindi è una
questione di selezione, di quello che si esclude,
dello spazio a volte tra le parole, certamente tra le
frasi e tra i paragrafi. Quando il lettore è creativo,
quando l’attenzione è reciproca, all’inizio egli
deve in qualche modo saltare per arrivare alla
frase successiva, ma via vìa che la storia continua i
salti diventano sempre più lunghi e questo è un
modo per stabilire la complicità tra scrittore,
lettore e racconto. Il silenzio, ciò che non viene
detto è incredibilmente importante. Si potrebbe
esprimere questa importanza a un livello molto più
metafisico e filosofico, perché quello che non si
può esprìmere è moltissimo e forse è l’elemento
più prezioso. Ma parlando a livello più artigianale,
il silenzio rappresenta lo strumento principale per
stabilire la complicità con l'ascoltatore o il lettore.

RK: Il silenzio è qualcosa che viene in parte


creato dallo scrittore, ma anche in grande misura
dal lettore. A volte lo vediamo negli attori, negli
interpreti dei testi. Questa

rio
è la l'isposta: è una poesia di John. Quello che
significa il silenzio nel testo è lasciato
all'improvvisazione, al modo in cui lo leggiamo, a
come lo interpretiamo.

Oh, my beloved, / how sweet it is to go down / and bath


in the pool , /before your eves, / let- ling you see ! how
my drenched line dress / marries the beauty of my body.
: Co me,/look at me,"'

[La poesia viene letta senza alcuna intonazione,


tutta di seguito e viene interpretata con una serie
di silenzi, ndr\

È tutta una questione di interpretazione del


testo. Quindi il silenzio viene creato dal modo in
cui interpretiamo il testo. In tutti i testi c’è il
silenzio e non ce il silenzio: dipende da quello che
troviamo nel testo. Naturalmente scrivere è una
selezione, una scelta, una decisione. ÌVla so dal
mio lavoro che chiunque scriva un libro cerca di
attrarre il lettole al gusto delle parole. Poi
improvvisamente troviamo qualcuno che ha letto
un nostro libro in un’ora. Questo significa che non
lo ha letto, perche quel libro era
* Oh,''mia amaUi./com'è dola.- immergi'.' si
'nell'acqua dello slagno,/davanti ai tuoi occhi/e
lasciai ti v edi iv/cninr l abito di lino ba g nato/sposa
ia. belle/./a ile] mio corpo. Vi etti,/putii dami.
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destinato a durare per una settimana, per un
mese, solo per capire qualcosa. Quindi il
silenzio è un rapporto tra l’autore e il lettore.

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