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Le ceneri di Gramsci nel deserto di Bolsonaro

Roberto Vecchi
Università di Bologna

Un titolo impegnativo va in un qualche modo motivato. Il primo riferimento, molto


noto, rinvia alla serie di poemetti di Pasolini dedicata a Gramsci (quella in cui il poeta- regista
fissa quella sua famosa posizione gramsciana: “lo scandalo di contraddirmi di essere con e
contro di te”) e, più letteralmente, al tumulo del cimitero degli Inglesi di Roma dove è inciso
“Cinera Gramsci”. Funziona la immagine delle spoglie di Gramsci come una immagine che
serve a esplorare un “pensiero” dei più ermetici –ammesso che esista- come quello del
Presidente Jair Bolsonaro che ha assunto il pensiero del filosofo italiano come un nemico
giurato di una posizione ideologica confusa e cattiva.
Perché le ceneri di Gramsci sono cosi scomode per la destra brasiliana? La domanda
permette di approfondire alcuni aspetti del “discorso” bolsonarista. Il suo quadrante non si
regge su una linea logica o su aspetti idealistici riconducibili a qualche matrice critica. Appare
molto di più come un affastellato coagulo tenuto insieme essenzialmente da un collante: il
risentimento.
Ma come si può schematizzare (pur essendo gia schematico e poco denso sul piano
semantico) il discorso di Bolsonaro? La sua pratica scissa da una idea di prassi è apprezzabile
quotidianamente ed essitono oggi anche alcuni gia solidi strumenti critici per interpretarlo.
Un primo tratto che emerge è la sostanziale linearità tra campagna elettorale (dove
l’occultamento dei limiti del candidato e’ stato il risultato di una pianificazione vincente) e i
mesi a tutt’oggi di presidenza.
Il solco è quello che struttura i cosiddetti “hate speeches” che i lingusiti e filosofi (cfr
Judith Butler) in tempi come questi possono approfondire com una molteplicita di esempi.
Nel quadro di crisi (o di collasso) del potere sovrano, i “performativi” lingusitici sovrani che
si strutturano su ingiurie servono per gerarchizzare socialmente i bersagli delle offese,
promuovendo una subordinazione struttutale. La prima vulenrabilità della vittima predestinsta
è sorpattutto una vulnerabilità linguistica. Non è materia di cui Bolsonaro si occupi ma esiste
una enorme bibliografia teorica sul tema da una ventina di anni.
Sul piano del significante, della morfologia del discorso di Bolsonaro, nella parte finale
della camapagna elettorale mi sono reso conto di una analogia tra il discorso di Bolsonaro e
un altro discorso di cui avevo memoria. Se da internet recuperiamo i due orribili libri di Carlos
Alberto Brilhante Ustra, il famigerato e abietto aguzzino della OBAN e del DOI CODI,
Rompendo o silêncio (1987) e A verdade sufocada: a história que a esquerda não quer que o
Brasil conheça (2006) spuntano delle curiose similitudine tra le forme retoriche di Ustra e
quelle del Presidente Bolsonaro: la stessa amalgama di sacralita religiosa e di violenza
verbale, di parodica coscienza morale, di mitologia civilizzatrice e di argomentazione
aggressiva e tagliente.1
La costruzione di una posizione confortevole di vittima che pero distrugge l’intero
universo che non gli aggrada: la violenza lingusitica come strumento di costruzione di
identitta e apprtenenze. Si ci si aggiunge il ricco catalogo scatologico di Olavo de Carvalho
possiamo riunire le matrici che alimentano le forme di discorso bolsonariste all’apparenza
originali delle nuova politica sempre rivendicata.
In realtà, emerge con chiarezza la natura imitativa e mimetica di questo discorso.
Bolsonaro insomma non inventa nulla ed è anzi un bulimico riciclatore di simboli,
significanti, artifici del passato.
Ma non si tratta solo della forma. Anche il signficato ha un suo peso rilevante e qui
l’accanimento verso alcuni simboli in un certo senso è rivelatore. Se qualcuno ha avuto modo
di sfogliare il programma elettorale di Bolsonaro, prima della sua emersione come candidato
da agosto 2018 quando sono iniziate, anche se per poco con lui, le tribune elettorali televisive,
si sarà reso conto di due caratteristiche evidenti. La prima la estemporaneità del programma
che rasentava un taglia-incolla vistosamente approssimativo. Il secondo l’enorme
risentimento espresso contro due figure intellettuali considerate responsabili del “Marximo
culturale”, Paulo Freire (di cui si dovrebbe “expurgar a ideologia educacional”) ma anche e
soprattutto Antonio Gramsci2. L’elezione dei due bersagli, ma in particolare di Gramsci, dal
punto di vista discorsivo rappresenta una citazione piuttosto grossolana, del tutto priva di
fondamento critico, di una linea di pensiero le cui radici oggi sono note ed evidenti. Per i
tempi della periodizzazione storica (che coincidono con larga parte della democratizzazione

1 “Em primeiro lugar elevo meu pensamento a Deus. Peço a Ele que ilumine a minha mente. Que eu seja sincero
e relate unicamente a verdade, sem ofender ou caluniar a quem quer que seja. Sei o que é ser caluniado. Que eu atinja os
objetivos a que me propus quando decidi escrever este livro”.
2 “Nos últimos 30 anos o marxismo cultural e suas derivações como o gramscismo, se uniu às oligarquias
corruptas para minar os valores da Nação e da família brasileira.” (slide 8)
post 1985) per l’associazione risentita del “gramscismo” ad “oligarchie”, la bandiera che
viene issata è del tutto pretestuosa e falsa. Al contempo illumina una genealogia che
recentemente lo storico Lincoln Secco ha messo a fuoco con precisione3).
Da un lato il rigetto del “politicamente corretto” -altro cavallo di battaglia elettorale-
deriva da una appropriazione, come sempre, alle ossessioni dei neoconservatori statunitensi
degli anni ‘80 (i cosiddetti “paleoconsertives oggi divenuti gli “alt-right”) (Eduardo Costa
Pinto, 4) mostrando come il dispositivo retorico elettoralistico rinviasse direttamente alla
citazione delle elezioni di Donald Trump.
Dall’altra parte, rispetto a Gramsci, le teorie cospirative sul potenziale subdolamente
politico del concetto di egemonia di Gramsci (opposto a quello di rivoluzione) risalgono
all’indomani della campagna di repressione e sterminio della resistenza armata negli anni ‘70
e, gia a partire dagli anni ‘80, avviene un cambio di strategia visto che l’ombra sovversiva del
nemico interno viene proiettata sul lavoro di organizzazione politica.
La fobia del “gramscismo” -gia improprio nella stessa denominazione che rinvia a un
ismo ideologico e non ad una filosofia- si dilata con la ridemocratizzazione occupando libri
(A Revolução Gramscista no Ocidente: a Concepção Revolucionária de Antônio Gramsci em
os Cadernos do Cárcere, del 2002, del Generale Sérgio Augusto de Avellar Coutinho libro
raccomandato nel 2014 nel blog della “Familia Bolsonaro”) oppure occupa blog come
antigramsci.blogspot.com dove si denuncia il contagio gramsciano con intellettuali di diversa
provenienza e professione politica (Piaget, la Scuola di Francoforte, Said. Bachtin ecc). Ma il
contributo tra virgolette teorico non poteva che venire da Olavo de Carvalho che nel 1994
pubblica un volume dedicato tra gli altri anche a Gramsci, A Nova Era e a Revolução
Cultural: Fritjof Capra & Antonio Gramsci. Il capitolo dedicato al filosofo italiano è
elucidativo da una parte della superficialità critica del guru della nuova destra, dall’altra di
come venga spacciata per esegesi in realtà forme acritiche ed ideologiche di deformazione,
ironia, ribassamento, abbondantemente condite di metafore sessuali (Secco) utilizzate per
sostituire con l’insulto identitario qualunque scrupolo di ragione o di logica.
Progressivamente poi emerge il vero bersaglio della damnatio gramsciana che è il
“gramiscsmo petista”.

3 “Gramscismo: Una Ideología De La Nueva Derecha Brasileña”, em: Revista Política Latinoamericana, (7),
2018, Buenos Aires
L’effetto che i social media determinano da basi come queste e’ evidente: dal piano
della superficialità si passa a quello dell’assurdo naturalizzato che sfonda qualunque muro di
credibilità eppure circola, in un medium dove il paradosso può diventare facilmente principio
di realtà. Come e’ stato notato si tratta di una manipolazione razione della irrazionalità, delle
paranoie, dei fantasmi dei seguaci/followers che si sintonizzano su questo discorso.
Se Gramsci offre una semantica riportata al “bolsonarismo”, che conferma come non
vi sia nulla di originali ma semplicemente il riciclaggio di materiali e oggetti gia esistenti,
cosa resta al discorso bolsonarista? Cosa caratterizzerebbe la nuova politica che viene
invocata per motivare anche goffaggini e plateali errori da parte di chi si dice cambierà la
scena pubblica? Bolsonaro cita -male- discorsi e parole già consacrati e noti pur provando a
spacciare come nuovo quello che e’ un ricalco maldestro di cose gia dette e diffuse.
Questa piega arcaica nella novità professata ci dice molto sulla rivoluzione che anche
nel campo di battaglia linguistico e di storia concettuale è sempre stata per i militari e le elite
il sinonimo di restaurazione e non di cambiamento. In fondo è soltanto una questione lessicale
e il blocco civile militare del 1964 aveva già dimostrato di sapersi appropriare dei simboli
(come proprio il termine rivoluzione) iscritti molto di più nel discorso dei nemici, per
annientarne anche le parole.
Se il discorso di Bolsonaro non rivela alcuna novità ma ripristina un passato nemmeno
troppo lontano, sia sul piano della forma, sia su quello concettuale, è interessante domandarsi
come la banalizzazione di questo sprofondamento nel passato, del rovesciamento della
incompetenza in virtù abbia reso possibile una vittoria elettorale delle dimensioni che ha avuto
l’attuale Presidente. Qui stride un contrasto che si deve evidenziare.
Il presente politico è stato costruito attraverso la strategia di un doppio tempo, una
doppia trazione, un movimento di contrazione ed espansione, di sistole e diastole, in cui anche
i limiti del Presidente non solo non sono stati ignorati o sottostimati (non è stata una chiave
della vittoria il suo occultamento mediatico ancora prima dell’accoltellamento?) ma sono
parte di un ingranaggio narrativo che sta facendo il suo corso.
Il primo tempo è stato quello elettorale. Le dimensioni del consenso di Bolsonaro sono
state create attraverso una attenta ed abile economia del risentimento. Un candidato di destra
ma popolare (non appartenente cioè alle élite) ha convogliato il voto di protesta di chiunque
avesse critiche, dissidenze, diversità di punti di vista con i governi del PT. Il risentimento
funziona infatti, secondo la teoria mimetica (René Girard) come un sentimento ambiguo,
relazionale e reattivo che si produce sempre in rapporto a un altro sociale (o alla propria azione
potenziale) che ci umilia e ci condanna a un isolamento mentre si professano valori sociali,
all’apparenza, ugualitari e omogenei. Il risentimento (Maria Rita Khel) sarebbe in teoria il
contrario della politica perché non si preoccupa della trasformazione ma si nutre da sentimenti
reattivi, di vendetta immaginaria o rinviata, mantenuta da una memoria che registra solo le
lamentele affettive e sterili. Questi processi, che le nuove tecnologie permettono di combinare
anche se molto distanti gli uni dagli altri. Sono stati coordinati e gruppi sociali diversissimi e
teoricamente in competizioni si sono ritrovati sul piano generale del risentimento comune.
Il secondo tempo è quello attuale, dei primi mesi di una presidenza dalla parvenza
surreale che gira clamorosamente a vuoto. Anche questo movimento non è frutto del caso
(come l’altro) ma risponde ad un impulso di frantumazione. Non sembra esserci attore in
grado di resistere alla furia della situazione: dalla Globo, ai giornali delle élite finanziarie, da
Temer non escludendo anche i militari, il gruppo che fornisce una cinghia di trasmissione
essenziale al governo. Nemmeno Bolsonaro sembra esserne immune.
Non è certo Jair Bolsonaro che articola i frammenti per erigere il suo edificio politico.
Da questo punto di vista Bolsonaro non è inappropriato ma è perfetto nelle sue inettitudini
plateali e goffe. Sembrerebbe l’antitesi di tutti i possibili soggetti sovrani, ma in verità in
questo tempo secondo diventa visibile il soggetto sovrano che probabilmente regge questa
situazione e un soggetto sovrano misto, anche non nazionale, non brasiliano, economico e
geopolitico, che si avvantaggia della frammentazione destinata molto probabilmente ad
espandersi ulteriormente. L’idea di una folclorica e variopinta compagine ministeriale e’ solo
un paravento voluto. In verità la sua inadeguatezza è un meccanismo del gioco a partire dal
suo stesso presidente, passando per il filosofo di fiducia Olavo de Carvalho e per figure
ministeriali che sono l’antitesi della competenza e della credibilità. Anche questo insomma,
non e’ uno scenario nuovo, ma una poderosa opera di riciclaggio. La disgregazione è stata
nella storia del Brasile uno strumento di dominazione (si pensi per esempio alla Republica
Velha ma anche ad epoche storiche successive, dallo Estado Novo alla ditattura del 1964).
Qui sorge la seconda metafora del titolo di questa presentazione: il deserto di
Bolsonaro. Il deserto di Bolsonaro è il ritorno a una permanenza nella storia del Brasile. Tanto
che la sua rivelazione e denuncia risale a uno scrittore, Euclides da Cunha, che aveva
associato, in un articolo del 1901 pubblicato sull’Estado de São Paulo, “Fazedores de
deserto”, la immagine del deserto proprio ad una tipologia di modernizzazione, quella
escludente e retta dalla violenza di stato, che faceva vittime soprattutto tra i segmenti più
precari e fragili della popolazione. Anche questo, il deserto, la produzione del deserto, è
qualcosa di già visto. Una geografia esplorata e nota nella storia degli abusi di potere che
hanno creato una densa tradizione politica. Nulla di nuovo dunque sotto il sole. Neanche
questa volta.

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