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Occidente" del 6-8 dicembre 2003 tenuto all'Istituto Lama Tzong Khapa di
Pomaia e organizzato da Mindfulness Project.
Jacob Raz: Buongiorno, questo è all'incirca tutto ciò che so in italiano. Non so ciò che
Manuel abbia detto per presentarmi, ma vorrei precisare che io non ho un background
(di formazione) nella psicologia. Ma ho una esperienza di intensiva interazione con
vari psicologi, psicoterapeuti, con persone che lavorano in molti diversi settori, quali
operatori sociali, infermieri. I corsi di Psico-Dharma dove partecipano tali
professionisti possono durare un anno oppure due anni. Non ho, dunque, un effettivo
retroterra psicologico, ma una intensissima interazione con operatori di questo
ambito.
Vorrei iniziare col narrare qualche evento che riguarda la mia biografia personale. Ieri
mi era stato chiesto dal Professor Kulka come avessi iniziato, come avessi intrapreso
la via della meditazione. Gli ho risposto che non ricordo, davvero non lo so, ma ricordo
un punto cruciale che risale a quando ero uno studente all'Università di Tel Aviv nel
1968. Giravano delle voci che annunciavano la venuta di un maestro zen giapponese
che sarebbe venuto per un periodo a vivere in Israele. Trovai un indirizzo e volli
andare a vedere cosa ci fosse. Incontrai quattro persone e quello era tutto il buddismo
allora presente in Israele. Sulla porta di quell'indirizzo stava scritto il nome della
Signora Piattelli. Il nome mi suonò familiare. Entrai e trovai una signora anziana di
nobile aspetto e un monaco giapponese, calvo, vestito nello stile zen classico. Ci fu
una sessione di meditazione e la signora fece la traduzione dalla lingua giapponese in
ebraico, con uno spiccato accento teutonico-italiano. Mi ricordai della circostanza nella
quale avevo sentito parlare di lei. Molti anni prima, quando ancora ero piccolo, ci fu un
omicidio all'esterno di una sala cinematografica. Allora gli assassini erano davvero tali,
non come quelli del giorno d'oggi. Un tizio aveva rapinato il cassiere e, durante la
fuga, spaventato, sparò ad un signore, che era il Signor Piattelli. Egli era un ebreo
italiano e sua moglie era proprio quella signora che avevo incontrato con quel maestro
giapponese. Mi ricordai che, dopo quel caso, la signora Piattelli si era recata in carcere
e aveva adottato l'omicida del marito. Mossa dalla sua compassione, gli insegnò la
musica e lo rese direttore dell'orchestra del carcere. Più avanti nel tempo, ella divenne
buddista. Tale donna, nata ad Amburgo, aveva incontrato il signor Piattelli quando era
venuta in Italia, dove si era convertita al giudaismo. Studiò anche il buddismo e
divenne buddhista. Si trasferirono in Israele, poi andarono in Giappone e
successivamente tornarono in Israele, dove ella salvò quel killer. Non mi pare che da
allora io abbia sentito parlare di atti simili di compassione, adottare proprio l'assassino
del marito come un figlio. Successivamente io divenni discepolo di tale maestro
giapponese e anche discepolo della Signora Piattelli. Un giorno le chiesi: “Come ha
fatto?” Ella ripose: “Ho svuotato la parola assassino e ho visto l'uomo, quell'uomo
spaventato, tormentato, logorato, quell'uomo sofferente e, allora, lo ho adottato come
un figlio”. Quella fu una pratica straordinaria di compassione. Così, io decisi di studiare
con loro, il maestro giapponese e quella donna. Ne sto parlando ora, ma lei non è più
viva.
Ora vorrei descrivere un poco il significato del termine sanscrito sunyata. Viene
tradotto con il termine vacuità. La vacuità non è il nulla. E' un'assenza di esistenza
intrinseca. Tale assenza di esistenza inerente (delle cose, nega che esistano) così
come vengono recepite dalla nostra mente illusa: come auto-sufficienti, consistenti,
concrete, coerenti, fisse, durature. Di tutto ciò vi è assenza. Più avanti dirò anche che
cosa è e non solo cosa non è. Quando parliamo di vacuità, vedremo, non si tratta di
vuoto, di nulla, ma c'è qualcosa di molto pieno, qui presente, qui e ora.
1. vacuità,
2. interdipendenza o interconnessione, a volte tradotto anche come sorgere
dipendente, cosa emerge con … con l'ambiente e significa che ogni evento o
fenomeno del mondo è interconnesso a tutti gli altri fenomeni. Questo indi ca
che il buddhismo, nella sua essenza o nucleo centrale è un modo molto
ecologico di pensare e di vivere.
3. Anicca significa impermanenza, il fluire, il cambiare.
Quando ci pensate, vi accorgete che tutti questi tre termini sono interconnessi.Quando
osservate profondamente, vi rendete conto che se voi stessi siete interconnessi e ogni
cosa che fate è interconnessa con gli altri e il resto, allora, proprio per questo, siete
vuoti di esistenza intrinseca. Perché ogni momento e ogni secondo della vostra vita,
ogni respiro, ogni pensiero che avete, ogni frammento della vostra vita non è nato
dall'interno di voi, ma è stato ispirato e nutrito dall'ambiente. Ciò riguarda sia il vivere
fisico che quello mentale. Quando vedete che ogni cosa muta e che tutto è
interconnesso, allora vedete che ogni cosa è vuota di esistenza inerente. Una delle
metafore più belle presentate nell'insegnamento del Buddha circa tale
interconnessione si trova in un sutra mahayana chiamato Avatamsaka Sutra che parla
della rete di Indra. Si dice che Indra, un dio del pantheon indiano, creò il mondo come
una infinita rete tridimensionale. In ciascuno degli allacciamenti di tale rete si trova
una perla che riflette ogni altra perla dalla quale a sua volta viene riflessa. Non solo,
riflette anche i riflessi. Questa è una bellissima metafora che ci dice che ciascuna perla
esiste riflettendo ed essendo riflettuta da tutte le altre.
Mentre si osserva, mentre si è nella saggezza, si è liberi dai tre klesha. In sanscrito
questa parola vuol dire: radici amare e velenose. Queste sono l'illusione, l'avversione
e l'avidità (o passione e attaccamento).
L'illusione è un tipo di ignoranza. Delusion, in inglese, è un ottimo termine
appropriato, perché implica l'ignorare, il non vedere qualcosa. Non si riferisce ad una
mancanza di informazioni, ma a un non vedere chiaramente, ad un equivoco, un
fraintendimento.
L'avversione si riferisce a tutte quelle cose con cui non voglio stare, che rifiuto, che
odio, di cui ho paura e con cui sono arrabbiato, che respingo. Dall'altro lato, dal punto
di vista della diagnosi buddista è esattamente la stessa cosa, sorge la passione,
l'avidità, l'attaccamento, ecc. La mia avidità per questo deriva dalla mancanza di
chiarezza, dalla illusione di base derivano le altre due afflizioni. In assenza della
chiarezza che vede il mondo tale e quale come è, ci ritroviamo a distinguere e
separare e mettere da una parte questo che voglio e dall'altra quello che non voglio,
ciò che amo e ciò che odio, ciò che mi piace e ciò che non mi piace, questo è bello e
questo è brutto. Tutti i dialoghi umani, quelli comuni così come anche quelli fra
paziente e terapeuta, sono la stessa cosa. E' possibile che, da questa parte, senza
parlare dell'altra parte, essere svuotati dai nostri pensieri solidi, teorie, modelli,
riflessi, reazioni e così via, possiamo essere liberi dai klesha? Possiamo de-
strutturarci? Nella psicologia a volte si parla di ristrutturare, io direi qui destrutturare.
Quando arriva un paziente con una storia, io suggerisco un'altra storia, un'altra
prospettiva, di guardare le cose da un altro punto di vista, cosa che può essere molto
utile. Ma qui intendo qualcosa di molto più radicale, in nome dello zen, in particolar
modo. Cerchiamo di destrutturare e vedere nello spazio aperto cosa c'è ora. Si tratta
di togliersi da tutti gli inquadramenti, le strutture. Significa sentire nel momento
presente con presenza, essere presenti al presente. Nel lavoro prolungato ed
esperienze che ho avuto con dei terapeuti, ho rilevato che ciò è davvero molto utile
per loro, e non sto riferendomi alle tecniche, ora, le tecniche sarebbero una altro
punto ancora. All'opposto dei tre klesha, cioè della illusione, dell'avversione e
dell'attaccamento, ci sono, rispettivamente, la chiarezza, la compassione e il non
attaccamento.
Vorrei concludere con un semplice esempio. Durante i nostri dialoghi, noi parliamo e
reagiamo, e questo è okay. Per esempio, se mi venisse chiesto da Manuel come fare
per uscire da questa stanza, io risponderei che deve andare verso il fondo e poi girare
a destra. Ma questo varrebbe solo per Manuel o chi si trova in questa zona, non per
voi che siete seduti in fondo (rivolti verso il palco), perché voi dovreste (venire avanti
e) girare a sinistra, invece. Dunque, il termine ‘destra' è funzionale, ma non reale, non
è vero, è utile, ma è vuoto. Così come Nagarjuna, e tutta la tradizione zen affermano,
ciò vale per tutti i termini che usiamo nella nostra vita: sono utili, ma vuoti.
Mostratemi la destra! Non vi è destra, non vi è sinistra, ma è utile indicarle, utilizzare
queste parole. Quando siamo attaccati alla illusione della solidità della destra e della
sinistra, osservate cosa succede in politica, si inizia ad ammazzarsi gli uni con gli altri.
Almeno questo è ciò che accade in Israele, diventa una cosa mortale. Avrei molte altre
cose da dire, ma concluderò leggendo una lettera. Lavoro facendo counselling, non si
tratta di terapia, ma di una sorta di counselling buddhista. Una delle donne con cui
lavoro, che è ultra-trentenne, durante il nostro lavoro ha affermato di avere un
rapporto molto difficile con sua madre, cosa che, in effetti, non è rara. Siamo nel
mezzo di un processo, e vorrei solo indicare un punto di un lungo processo, non vorrei
darvi l'impressione che sia un trucco, un raggiro. Non sto parlando della tecnica, l'idea
che le avevo proposto era stata quella di svuotare sua madre dalla sua maternità,
dallo stato di madre e lei da quello di figlia. Fino ad allora la comunicazione fra loro
era stata dal punto di vista del loro sentirsi (identificarsi come) madre e figlia, e con
ogni sorta di recriminazione, biasimo, tormento e sofferenza … era stata vissuta
solamente sotto quella luce. Dopo un po' di esercizio sulla vacuità, lei mi ha scritto
questa lettera, molto autentica.
Caro Jacob,
Come si inizia a condividere la pratica della vacuità?
Dopo la nostra conversazione, nella mia mente è turbinata l'idea della vacuità. La
sensazione è stata sconcertante, ma allo stesso tempo attraente. Ho cominciato a fare
la pratica in un luogo sicuro, sul mio cuscino di meditazione. Ero solamente respiro.
Non figlia, vittima od oppressore. Non salvatrice, profeta o aggressore. Dopo che
‘figlia' era diventata vuota, anche ‘madre' era diventata vuota. Mole barriere sono
diventate ponti. Improvvisamente non era impossibile vedere mia madre dentro di me
e me stessa in lei. C'era grande sollievo nell'esercizio stesso. C'era anche grande
tristezza. Lasciare andare le speranze, i sogni e i desideri è più doloroso che
illuminarsi. Mi sono ritrovata a sedermi tutti i giorni, ad assaporare tutti i gusti di
questo nuovo senso dell'essere, afferrandomi al santuario della meditazione.
Qualcosa della pratica si è riversata nella mia routine quotidiana. Il mio scrivere è
rimasto chiaro, ma il processo dello scrivere è diventato meno auto-critico, le mie
conversazioni telefoniche con mia madre sono diventate, in qualche modo, più
pacifiche.
Lavoro, gioco con i miei figli e mi occupo di loro, scrivo e vi è una straordinaria pace
che cammina sempre con me. Anche quando qualcosa è irritante, lo vedo arrivare e
andarsene. Le cose mi scorrono via come dell'acqua scivola via dal dorso di un'anatra.
E' come se io avessi perso completamente le mie preoccupazioni.
(Passa alla fine della lettera) Mi sento come se mi fossi inciampata in una scappatoia,
e la caduta mi togliesse di dosso varie ‘persone' che avevo accumulato durante gli
anni. Inoltre, non vi sono nuove ‘persone' che sostituiscono quelle vecchie. Vi è
solamente un senso dell'essere, presenza e una grande fatica. Piuttosto
sorprendentemente, non sto cercando nuove ‘persone'.
Concludo così la lettera.
Vorrei concludere con una breve storia zen per condividere un po' di umorismo.
Un maestro zen stava per morire. I suoi discepoli più vicini si erano riuniti nei suoi
pressi per ricevere le ultime parole di saggezza. Gli avevano chiesto: “Per favore,
maestro, dicci il significato della vita” … o cose del genere. Lui non avrebbe voluto
rispondere perché avrebbe desiderato morire tranquillo. Ma, cedendo alle loro
richieste, aveva detto: “Va bene, la vita è come acqua che scorre”. Il discepolo più
anziano (più vicino) aveva trasmesso questo messaggio al vicino, che lo aveva
trasmesso al successivo … fino all'ultimo, (seduto più distante) il più giovane. Il
discepolo più giovane, recepito questo messaggio, aveva detto: “Non ho capito cosa
significa, per favore, chiedi cosa vuol dire”. Quindi, di nuovo, era partita la
trasmissione del messaggio di richiesta, attraverso gli altri discepoli, e raggiunto il
maestro, egli aveva risposto, “Ok, la vita non è come l'acqua che scorre” … e morì.
Fine.
Introduzione
Voglio iniziare dicendovi che mi dispiace di non essere in grado di parlare in italiano,
ma ho fiducia nella nostra buona relazione, (fra me e la traduttrice), e so che qualcosa
potrà essere comunicato, per cui ringrazio per la condivisione del mio lavoro, oggi. Vi
porto i saluti molto caldi dal Karuna Institute, in Inghilterra, e soprattutto da Maura e
Franklyn Sills, che ne sono i fondatori e i co-direttori. Dal nostro piccolo istituto
vorremmo abbondante buona fortuna e una nascita facile, se vi è una cosa del genere,
per il nuovo Training di Counselling Buddhista che credo inizierà qui.
Vorrei anche prendere atto della preziosità di questo momento: siamo tutti qui
presenti con le nostre esperienze di vita di grande valore, con le nostre esperienze
cliniche, con le nostre esperienze di Dharma e con l'esperienza di vivere insieme.
Il modo in cui lavoriamo in questi tre giorni può essere a diversi livelli. Esploriamo
insieme l'interfaccia fra la psicoanalisi, psicoterapia, counselling e la pratica del
Dharma. E condividiamo insieme queste esperienze, stando insieme anche in questo
convegno, in questa stanza: è dunque qualcosa di emozionante.
Dirò qualcosa circa le mie circostanze personali. Sono una allieva anziana di Maura e
Franklyn Sills, e sono anche membro dello staff, del personale del K.I., ed essendo in
attività da molto tempo, sono e mi sento anche anziana in termini di età, sto
invecchiando. Ma, anche grazie a questo, sono in connessione col Karuna Institute da
molto tempo. Sono dunque giunta qui per condividere qualcosa della mia esperienza.
Sono coordinatrice del corso di tirocinio in quattro anni di psicoterapia del Core
Process.
Karuna I. è membro costituente dell'United Kingdom Council for Psychotherapy. Per
gli operatori clinici fra di noi, dico anche che il suddetto comitato è composto da
diverse sezioni e K.I. fa parte della sezione umanistica e integrativa. Insieme ad un
altro paio di organizzazioni, abbiamo creato una identità, ci chiamiamo terapeuti
psico-spirituali. La nostra specificità è che siamo organizzazioni buddhiste che si
occupano di tirocinio in psicoterapia e siamo congiunti nelle pratiche buddhiste di
consapevolezza e nella interpretazione buddhista del sé. Abbiamo anche adottato certi
modelli e principi di psicoterapie occidentali nel creare il nostro approccio. Ignoro
l'ordinamento della psicoanalisi e la psicoterapia in Italia, ma mi pare molto bello che
attualmente un training buddhista in psicoterapia stia influenzando lo sviluppo della
psicoterapia in Gran Bretagna.
Il mio lavoro di combinare la psicoterapia con la pratica del Dharma è, tra l'altro,
molto vicino al mio sentiero personale, mi sta a cuore, in effetti è il mio sentiero. Mi
considero una praticante apprendista nel lignaggio karma-khaghiu del buddhismo
tibetano. Tale integrazione della psicoterapia con il Dharma è stata ed è certamente
una necessità personale.
Punti principali
Ora è mia intenzione esprimere alcuni degli assunti di base soggiacenti alla
psicoterapia del Core Process. Vorrei riflettere un poco sulle implicazioni del fare
tirocinio per degli psicoterapeuti. Forse per alcuni operatori clinici qui presenti potrei
usare un linguaggio un po' bizzarro, e forse anche per dei praticanti di Dharma potrei
sembrare stravagante nel mio modo di esprimermi. Abbiamo cercato di tradurre
termini e integrarli per molto tempo. Ma spero che vi saranno sufficienti punti di
contatto.
II. Questo ha delle enormi implicazioni nel nostro lavoro clinico. Questo perché
ci è necessario imparare a permettere il movimento verso il dischiudersi di
questa salute inerente. Questo rappresenta una sfida per me in quanto
psicoterapeuta, sfida la mia necessità di comprendere ciò che avviene e anche
la mia necessità di controllare sottilmente ciò che accade. E' una sfida per il mio
desiderio di rendere migliori le situazioni. E sfida anche i limiti della prospettiva
che ho nelle situazioni e delle persone. Magari vedo dei sintomi, noto certe cose
che accadono, che potremmo chiamare ‘forme'. Dovremmo imparare non a
‘cambiare' la mente, ma ad aprirci alla potenzialità di una ‘mente più ampia',
nel momento, a un cuore più allargato. Per la comprensione orientale mente e
cuore hanno significati molto simili. Il lavoro clinico implica l'imparare ad
equilibrare le ‘forme' con la ‘vacuità', ad equilibrare l'attenzione per le forme e
la vacuità. Certamente potremmo dire molte cose circa la vacuità. In termini
pratici, possiamo parlare di equilibrio fra l'attenzione focalizzata e un processo
percettivo più espanso.
Un altro punto che vorrei far notare qui, essendo rilevante proprio in questo
momento, è che parte dell'apprendimento ad orientarsi al proprio benessere
intrinseco, implica anche l'imparare a portare gentilezza a noi stessi. In quanto
psicoterapeuti, molti di noi sono esperti a portare gentilezza agli altri, ma non
altrettanto, almeno questo è ciò che ho rilevato in Inghilterra, a portare
gentilezza a se stessi. E' indispensabile imparare questo in grande profondità.
Questo per aprire la nostra mente e per permettere che un qualcosa possa
nascere dentro di noi.
I punti principali che ho qui tracciato riguardano il fatto che se abbiamo una
fiducia di base nella salute intrinseca, ciò ha delle implicazioni radicali per la
formazione degli psicoterapeuti. Potrei trascorrere tutto il tempo a mia
disposizione solo parlando di questo.
B. Un altro assunto di base nel nostro lavoro di Core Process Psychotherapy
(CPP), è che il lavoro terapeutico richiede la sintonia nel campo relazionale
all'interno del quale le esperienze del cliente e del terapeuta co-emergono e
sono interconnesse.
I. Ciò ha a che vedere con la comprensione buddhista del sé quale fenomeno
dipendente, contingente ai fattori fisici e mentali.
Il venire a conoscenza del ‘come stanno le cose' – la verità circa la mia
esperienza della tua mente – implica il percepire qualche cosa di tale
interconnessione.
II. Tale visione fa da base alla nostra comprensione della pratica della
psicoterapia: due persone (il ‘cliente' e il ‘terapista') creano insieme un campo
relazionale costituito dalle loro esperienze rispettive e interconnesse, all'interno
del quale certi punti di contatto emergeranno con maggiore intensità nella
consapevolezza, richiedendo attenzione. La capacità del psicoterapeuta di
tracciare la sua esperienza emergente, momento per momento, per ‘stare con'
questo processo, nel senso di essere vulnerabile all'esserne influenzato/a, è
determinante: buona parte della guarigione ha a che vedere con il
sentirsi visti, uditi e accolti nella relazione.
IV. Nel fare tirocinio agli psicoterapeuti, è nel campo relazionale del gruppo del
training che vengono co-create le necessarie strategie per sostenere e gestire il
nostro dolore e le forme particolari delle nostre necessità soggiacenti. Sto
cercando di inquadrare il contesto del gruppo di tirocinio di psicoterapeuti:
l'intero training psicoterapeutico diventa così una opportunità per esplorare i
modo in cui ci co-creiamo le sofferenze. Dal punto di vista buddhista, potremmo
dire che è in tali relazione con questo gruppo che abbiamo l'opportunità di
esplorare le condizioni dipendenti, il senso di sé che proiettiamo su ciò
e possiamo percepire il fluido o natura vuota delle nostre proiezioni.
Avrei molto da aggiungere a questo proposito.
Durante il training, impariamo a recepire l'assenza di una sufficiente salute o
risorse per lavorare nel gruppo.
E iniziamo, così, ad articolare certe modalità di lavoro all'interno del gruppo che
fondamentalmente ci aiutino a creare le “condizioni per il benessere” di
ora, al momento presente. Ciò implica il coltivare certe qualità molto
ordinarie per includerle coscientemente nel campo di lavoro, quali calore,
sintonia, sensibilità, risonanza, qualità che riconoscano l'Essere, la nostra vera
natura, la più profonda, per creare insieme un campo di coerenza.
V. Certamente una delle sfide principali di questo lavoro con gli psicoterapeuti è
quella di fare una condivisione del lavoro. Si tratta di una pratica congiunta. Al
Karuna insegniamo come lavorare con le nostre esperienze così come sorgono
nel campo relazionale.
La mia domanda a questo punto del discorso è: Cosa fornisce sufficiente
nutrimento e sostegno per tale profondità dell'esplorazione?
C. Nel CPP consideriamo la capacità del terapeuta per una presenza incarnata
come la risorsa unica e più importante per tale lavoro psicoterapeutico.
Il corpo del terapeuta è il suo campo dell'esperienza per venire a conoscenza
delle condizioni dell'essere umano e per essere capace di toccare la sofferenza.
Il corpo sostiene la nostra capacità di sapere direttamente che esiste la
sofferenza, che è la prima delle ‘nobilitanti verità' La nostra capacità di
evitare di venire bruciati, consumati, durante il processo dipende dal fatto di
avere imparato a smettere di ‘fare' e di ritornare a riposare nella ‘mente-cuore
più ampia'. Dobbiamo imparare ad avere accesso e nominare ciò che è già
intero e libero dentro di noi, per poter trovare un modo di tornarci e riposarci in
esso.
Transpersonale è una parola nuova per designare qualcosa che è, in fondo, sempre
esistito ma che in determinati periodi e in alcune tradizioni culturali, è rimasto
nascosto. Oggi questo sapere, o meglio questo conoscere, viene portato alla luce ed è
a disposizione di tutti, senza esclusione.
E' dal convergere di pensieri molto diversi sia di origine occidentale che orientale,
giapponese indiana europea e americana, e anche da domini di ricerca molto varî quali
la psicologia, la psicoterapia, la pedagogia, la spiritualità, la teoria degli insiemi, le
religioni comparate, la cibernetica, la fisica teorica quantistica, l'astronomia, la
biologia e la genetica, che emerge il movimento transpersonale.
In questo convegno le aree che ci interessano particolarmente sono le Vie Tradizionali,
tra cui indichiamo il Buddhismo, il Sufismo, l'Induismo, il Taoismo ma anche le
religioni occidentali e i suoi ambiti mistici, come il Hassidismo e l'Esicasmo fino ai
mistici della tradizione cristiana.
Pian piano, durante tutto l'arco del ‘900 assistiamo all'inizio di un vero e proprio
mutamento di paradigma, diamo solo qualche “parola chiave” per definire le differenze
tra quello precedente e quello che via via si sta delineando: nel paradigma che
potremmo definire newtoniano-cartesiano, predomina una visione materialista e
riduzionistica dei fenomeni che vengono appunto spiegati, cioè dissolti nelle loro
componenti molecolari per poter poi essere interpretati e studiati.
Differentemente accade nel nuovo paradigma, di stampo più olistico, che inquadra la
vita e i fenomeni in un'ottica più ampia, potremmo dire più “spiritualista” ed è più
votato alla loro comprensione.
Eccoci di fronte a una prospettiva “transpersonale”.
Scendendo più nel dettaglio e tratteggiando le caratteristiche specifiche della
psicologia transpersonale possiamo prima di tutto vedere che così come in un
paradigma indichiamo la definizione della materia di indagine, la teoria filosofica a
monte, la metodologia empirica, le ipotesi di lavoro e i maggiori rappresentanti, nella
psicologia transpersonale indichiamo:
“La psicologia transpersonale è il nome dato ad una forza che emerge nel campo della
psicologia grazie ad un gruppo di psicologi e di professionisti in altri campi, i quali si
interessano alle capacità e potenzialità umane ultime che non trovano un posto
sistematico in una teoria positivista o comportamentista (seconda forza), né nella
teoria psicoanalitica classica (prima forza). Questa emergente psicologia
transpersonale (quarta forza) si occupa in modo specifico dello studio scientifico
empirico, e della realizzazione responsabile delle scoperte relative, del divenire, delle
meta-necessità dell'individuo e della specie, i valori ultimi, la coscienza unitiva,
l'esperienza suprema, i valori B, l'estasi, l'esperienza mistica, il timore reverenziale,
l'essere, l'autorealizzazione, l'essenza, la beatitudine, il prodigio, il senso ultimo, la
trascendenza dell'io, lo spirito, l'unicità, la coscienza cosmica, la sinergia dell'individuo
e della specie, l'incontro interpersonale massimo, la sacralità della vita quotidiana, i
fenomeni trascendenti, l'autoironia e il genio dei giochi cosmici, la capacità di risposta
e di espressione, di concetti, di esperienze, e attività in relazione con tutto questo. In
quanto definizione, questa formula deve intendersi come soggetta ad interpretazioni
individuali o di gruppi opzionali, sia in tutto sia in parte, rispettando l'accettazione dei
suoi contenuti come essenzialmente naturalisti, deisti, soprannaturalisti, o di qualsiasi
altra proposta di classificazione”.(Sutich, “Some consideration regarding
Transpersonal Psychology”, in The Journal of Transpersonal Psychology, I, 1969, 15-
16).
“Poiché noi siamo entrambe le cose, strumenti e modelli per ciò che offriamo, è un
imperativo per noi cercare di vivere e di essere ciò che vorremmo offrire ai nostri
clienti. Pur avendo uno scarso orientamento empirico, dobbiamo avere fiducia in noi
stessi sull'orientamento e, per la stessa ragione, dobbiamo aspirare all'integrità,
all'impeccabilità e alla sensibilità. Al presente, nel campo della psicoterapia, la crescita
dello psicoterapeuta e del suo lavoro in se stesso o in se stessa è più importante per
entrambi, per il cliente cioè e per il terapeuta, perché ciò che una persona deve offrire
all'altra è il suo proprio essere, né più né meno”.
I destinatari della psicologia così come della psicoterapia transpersonale sono sia i
gruppi che gli individui, in particolare quando vi è una disponibilità verso la
dimensione spirituale.
Il metodo della psicoterapia transpersonale, è sia quello derivato da metodiche
psicoterapiche tradizionali che nuovo, sia per ambiti che per contenuti. Walsh e
Vaughan, nello stesso testo citato precedentemente aggiungono:
“E' in questo corpo di così limitata estensione che vi mostro il mondo, l'origine del
mondo, l'estinzione del mondo e la via che porta all'estinzione del mondo”.
Infine, in accordo con Riccardo Venturini, caro amico e maestro, vorrei lasciarvi con
una riflessione su come:
“…la propagazione compassionevole del Dharma sia qualcosa che va oltre l'impegno e
le capacità dell'uomo, configurandosi come il Dharma stesso in azione (o – se si
preferiscono altre parole – come l'opera della creatività dello Spirito, della Volontà,
della Grazia…), nel movimento immobile del suo eterno presente. A ciascuno di noi,
individualmente, esso chiede di ascoltare la voce del profeta che dice: «raddrizzate
nella solitudine i sentieri del nostro Dio (Is. 40, 3)», operando perché ci siano nel
mondo sentieri sempre meno tortuosi, sui quali consapevolezza e compassione
possano più speditamente procedere…”
“Una Nuova Fase Storica per una Relazione Ambivalente:
La Psicologia del Sé come Ponte Armonioso fra
Psicoanalisi e Buddismo”
Comunicazione del Prof. Raanan Kulka
Il mio sentiero personale con il Dharma Buddista iniziò quando ero un giovane
infervorato affascinato dal vivace dono spirituale offerto dalla meditazione. Feci le
prime letture e sedute di meditazione nei due anni precedenti al mio reclutamento nel
servizio militare all'età di diciotto anni.
Dopo quei giorni dell'innocenza durante la mia adolescenza, tornai alla meditazione
solo dopo la fine della mia psicoanalisi personale durata dieci anni, quando avevo già
40 anni. Da allora, da circa venti anni sto giacendo nel Buddismo, e in questo periodo
il mio percorso è guidato quasi totalmente dalla mia devota immersione nella
sofferenza dei miei pazienti che pongono loro stessi nelle mie mani in quanto loro
psicoanalista.
Chiunque abbia avuto il privilegio di conoscere questi due ambiti avverte l'esistenza di
una profondissima connessione fra di loro. Allo stesso tempo, si prova anche un
costante disagio circa la consapevolezza di un considerevole divario che purtroppo li
separa.
Gradirei rivelare a voi la mia tesi circa tale dualità che fa da base a tale storica
relazione ambivalente.
La psicoanalisi era nata nel clima culturale della seconda metà del diciottesimo secolo,
periodo che vide l'emergere dell'Esistenzialismo quale sistema filosofico e quale guida
empirica sulla modalità di condurre la vita umana. Fra Kierkergaard e Nietzsche, che
contraddistinguono l'esistenziale manifesto, la psicoanalisi emerse e pose l'individuo
nella sua unicità al suo centro.
Sull'altro versante, l'affanno avvincente di Freud di acquisire la rispettabilità scientifica
per la nuova scienza della psicoanalisi causò un tracollo della congiunzione naturale
della psicoanalisi con l'esistenzialismo. Lo sforzo notevole di Freud di stabilire il suo
pensiero sui fondamenti della razionalità trasformò probabilmente la psicoanalisi in
qualcosa come l'ultimo progetto eroico della modernità e la rese come una disciplina
strutturale positivistica profondamente radicata in ciò che merita la definizione di
‘Metafisica del Meccanismo'.
Non dovremmo sorprenderci, dunque, che la psicoanalisi non abbia potuto essere
usata dal Buddismo come culla appropriata per un dialogo fertile. Un sistema filosofico
che è basato sulla profonda consapevolezza della non esistenza di qualsiasi struttura o
meccanismo, visto solamente come un vuoto fenomeno condizionato, e che per lo più
valuta l'acquisizione umana del vivere la verità interna ultima della non dualità, tale
fede spirituale non avrebbe potuto vedere la prospettiva psicoanalitica come una
compagna naturale per un Sentiero congiunto.
Tracce storiche:
Nonostante tale restrizione inerente, la consapevolezza condivisa che la profonda e
sincera auto-esplorazione della mente umana sia un elemento in comune fra queste
due posizioni contemplative, diede l'abbrivio a numerosi coraggiosi tentativi di
comparare la psicoanalisi e il Buddismo per cercare di risolvere l'enigma circa la
connessione esistente fra i due.
La ricerca delle vene comuni dei due ambiti – a iniziare dai pionieri (come Joe Tom
Sun, F. Alexander, C.G. Jung, Karen Horney, E. Fromm e altri) e culminando nelle
mirabili figure dei tempi moderni (J. Engler, M. Epstein, A. Molino, A. Philips, Nina
Coltart, J. Suler e altri) – ha avuto a che fare primariamente con la scoperta
Copernicana della psicoanalisi, quella dell'inconscio. Altre faccende di comparazione
quali, ad esempio, fra il metodo psicoanalitico della associazione libera e le varie
modalità di tirocinio meditativo hanno preoccupato vari ricercatori psicoanalitici.
Vorrei suggerire che nella esplorazione retrospettiva sulla profusione di questi
ricercatori intellettuali vi sono due latenti dimensioni che combinano la psicoanalisi e il
Buddismo in un'unica base intrinseca.
Tali due trasformazioni sono, a mio parere, la base dalla quale la psicoanalisi, tra
l'altro, ritornò alla sua origine esistenzialista. Con tale evoluzione la psicoanalisi
attestò nuovamente il personale e il soggettivo al di sopra e al di là del generale e
dell'oggettivo. Dunque, la psicoanalisi si aprì ampiamente verso un nuovo tentativo di
combinare la psicoanalisi con il Buddismo.
La famosa iniziativa di E. Fromm e di D.T. Suzuki che culminò nel 1957 in una
Conferenza di Buddismo Zen e Psicoanalisi e, nel 1960, nella pubblicazione degli atti
principali di tale conferenza (incluso il contributo seminale di R. De Martino) sono la
prova vivente di tale passaggio storico.
D'altro canto vi erano due seri ostacoli che prevenivano la soluzione dell'equazione
ambivalente di psicoanalisi e Buddismo. Sebbene il progetto di Fromm e Suzuki sia
stato un importante balzo in avanti, rimase estraneo alla formale psicoanalisi in
quanto era un progetto non-clinico. Dal suo esordio la psicoanalisi era stata una
distinta disciplina basata sull'ambientazione clinica della stanza della terapia e degli
avvenimenti empirici nell'incontro fra le due persone (il terapeuta e il paziente)
implicate in essa. La filosofia e le applicazioni psicoanalitiche ebbero una ridottissima
influenza sul corso dominante della evoluzione della psicoanalisi nella sua teoria.
L'altro ostacolo era radicato nel fatto che la psicoanalisi rimase nella sua essenza una
teoria strutturale; il passaggio a una forza propellente non biologica e alla
riattivazione della inerente bontà umana costituiscono un cambiamento radicale nella
sfera teorica dell'energia, e facilitano l'avvio al colmare la lacuna, però non venne
ancora intaccata la base della psicoanalisi come teoria strutturale e come una teoria
delle strutture. Perché venisse fatto il vero e proprio ponte era necessario un distacco
più profondo dalla prospettiva strutturale e un moto verso una teoria non-lineare di
stati più elevati dell'Essere e del Divenire.
Questa è la ragione immanente per la quale tutti i pensatori che avevano scavato
profondamente nel terreno comune delle due sfere, hanno avuto successo nella
elaborazione della mappa sofisticata di comparazioni e contrasti fra le due, ma
nessuno di essi ha risolto l'enigma della dualità e dell'ambivalenza. La scissione fra la
psicoanalisi, la cui meta è quella di ottenere la coesione della personalità strutturale, e
l'intento primario del Buddismo di raggiungere la vuota natura interiore dell'essere
umano e dell'universo, una natura libera da qualsiasi attaccamento all'entità
strutturale esistente in se stessa e per se stessa … tale spaccatura non poté
conseguire una sua dissoluzione.
Ora giungiamo a ciò che credo sia il ponte potenziale sul quale la psicoanalisi e il
Buddismo possono evolvere congiuntamente, come dei gemelli perfetti dell'oriente e
dell'occidente.
Dal 1959 fino alla sua morte avvenuta nel 1981, Heinz Kohut, un emigrante Ebreo-
Austriaco sbarcato negli Stati Uniti d'America, sviluppò il suo paradigma psicoanalitico
rivoluzionario che ha coniato la “Psicologia del Sé”, un paradigma che vi vorrei
presentare come la prospettiva contemporanea più promettente per decifrare l'enigma
dell'ambivalenza e per dissolvere il baratro intellettuale ed emozionale fra la
psicoanalisi e il Buddismo.
D.T.Suzuki ci aveva insegnato che nel reame della totale soggettività dimora il sé
ultimo. Fu, dunque, semplicemente naturale che l'immersione totale di Kohut nella
esperienza soggettiva umana lo conducesse a stabilire la prima sistematica e
comprensiva teoria del sé della psicoanalisi.
Le parole sensibili e sagge di Kohut circa il suo fondamentale punto di vista del sé vi
trasmetteranno, ne sono convinto, l'elemento essenziale del credo dalla psicologia del
sé:
Tale citazione è tratta dal libro (pubblicato) nel 1977 intitolato “The Restoration of the
Self” (probabilmente in italiano sarà “La Ricostruzione del Sé”):
“La mia ricerca contiene centinaia di pagine che riguardano la psicologia del sé
– eppure non assegna mai un significato inflessibile al termine sé. Ammetto tale
fatto senza alcun pentimento o imbarazzo. Il sé è, così come ogni realtà, non
conoscibile nella sua essenza. Possiamo descrivere le varie forme coese nelle
quali il sé appare, possiamo dimostrare gli svariati costituenti che lo adornano e
spiegare la loro genesi e le funzioni. Possiamo fare tutto ciò, ma, ancora, non
conosciamo l'essenza del sé come separata dalle sue manifestazioni.”
In questa breve e programmatica introduzione non posso riprodurre un disegno
completo dell'intricata matrice dell'intera teoria, così mi limiterò alla presentazione dei
tre principi di base della teoria che, sono profondamente convinto, fornisce una porta
chiara, ampia e generosa al passaggio fra la psicoanalisi e il Buddismo.
Entrambi i divari filosofici e delle esperienze fra lo sforzo che mira verso la
non-mente e l'impegno verso una personalità strutturata e coesa trovano la
risoluzione nella rete di coordinamento dove il sé viene stabilito e dissolto in
un processo di interezza.
Tale acquisizione teoretica deriva dalla riformulazione di Kohut della teoria
psicoanalitica del narcisismo. Freud vedeva il narcisismo come uno stadio
libidinale inevitabile nella evoluzione umana dall'autoerotismo all'amore
diretto verso un oggetto amore (amore diretto verso un oggetto), dunque
giudicava l'esperienza spirituale come una manifestazione del desiderio di
regredire nello stato di narcisismo primario, quello del bambino con la
propria madre. Tale visione riduzionista è stata uno degli ostacoli maggiori
fra il pensiero psicoanalitico e il concetto Buddistico della dimensione
spirituale.
La psicologia del sé vede il narcisismo come una energia non biologica unica
che si sviluppa indipendentemente da una forza trainante istintuale
attraverso oscillazioni in trasformazione non lineare. Il narcisismo non è più
la parola chiave per illustrare l'auto-riferimento (self centeredness, che si
pone al centro del mondo) e l'egoismo, la parola chiave dell'esistenza
separatista. Nella psicologia del sé il narcisismo diviene l'energia unica del sé
per il suo viaggio spirituale umano dallo stato dell'essere coeso (compatto,
cristallizzato) a quello della trascendenza cosmica della vacuità.
Il grande maestro Zen Dogen espresse tale vocazione nel famoso verso:
Il workshop si focalizza sulla qualità della presenza del terapeuta nell'incontro col
cliente. L'intenzione e' di esplorare l'idea che l'incontro venga vissuto, nella persona
del terapeuta, come una forma di meditazione a due. Il ruolo del terapeuta diventa
quindi di accogliere e di essere presente al vissuto interiore del cliente con lo stesso
tipo di attenzione e di atteggiamento che caratterizza l'osservazione partecipe dei
fenomeni interiori che emergono durante la meditazione. Un atteggiamento di
accettazione radicale, amorevolezza e presenza mentale.
E' questo possibile? E se si che implicazioni questo ha per il processo formativo dei
terapeuti?