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Politicità e impoliticità del comune.

Pensiero della comunità e filosofia della storia nel pensiero di Benjamin e Foucault

1. Introduzione

La possibilità di un confronto sistematico tra le filosofie di Walter Benjamin e Michel


Foucault è stata esplorata molto poco dalla critica: non vi sono monografie che affrontino in
maniera organica l'argomento, così come pochi sono gli interventi critici sulla questione.
Ciò non significa tuttavia che non vi siano possibilità di dialogo: in questo intervento ci
proponiamo di mostrare come Foucault e Benjamin condividano larghi tratti di una concezione
peculiare della storia e del ruolo filosofico e politico del suo studio: in primo luogo, una critica
comune dei presupposti delle storiografie positiviste e storiciste sulla quale ha giocato, per
entrambi, un ruolo fondamentale la lettura di Nietzsche e in particolare l'idea di storia effettiva
(wirchliche Historie); in secondo luogo, l'idea che la pratica storiografica debba assumere
immediatamente una prospettiva e una funzione politiche, rifiutando di ridursi a mera disciplina
descrittiva; infine, il fatto che, in entrambi, questa pratica sia necessariamente legata ad un'idea di
comunità, che essa presuppone e di cui cerca di definire i termini e le prospettive emancipative. È
questo tuttavia il luogo in cui Benjamin e Foucault mostrano tutta la loro incompatibilità: se il
primo infatti conserva una visione radicalmente messianica dell'agire politico e del comune,
rimanendo così fedele a quello che è forse il carattere più fondamentale e duraturo del suo pensiero,
il filosofo francese ne presuppone una che si mostra profondamente e ineluttabilmente inserita nella
storia e nella sua materialità, esito sempre in bilico delle relazioni reticolari tra pratiche di
soggettivazione e dispositivi di assoggettamento che ne determinano, in ogni momento, la
configurazione specifica.
Così, se la proposta comunitaria di Foucault, concependo la storia come esito di una dinamica
inesausta tra poteri e resistenze che si implicano vicendevolmente, e dalla quale è impensabile
uscire, permane fermamente nella dimensione del politico, quella benjaminiana, auspicando al
contrario una rottura definitiva, un'interruzione salvifica del corso degli eventi che renda possibile
una forma di vita radicalmente altra, si colloca con decisione al polo opposto, sfociando in una
prospettiva impolitica sul comune.

2. Ricordo e genealogia: la filosofia e il tempo storico

Il testo in cui Benjamin si occupa più esplicitamente di storia e di storiografia è anche l'ultimo
a cui lavorò prima della sua morte prematura: trattasi delle celeberrime tesi Sul concetto di Storia
(Über den begriff der Geschichte), pubblicate postume a cura dell'Istituto di Scienze Sociali di
Francoforte in esilio1. Esse sono un testo notoriamente denso ed enigmatico, e sono state oggetto di
interpretazioni assai diverse, quando non manifestamente contraddittorie tra di loro2.
In esse, oggetto della polemica del filosofo tedesco è qualunque concezione storica che
presupponga un tempo «omogeneo e vuoto»3 in cui gli avvenimenti si inanellerebbero in maniera
monotona e senza differenze di intensità. Le due maggiori filosofie della storia del tempo
presentano, per Benjamin, precisamente questa struttura: che si tratti infatti delle degenerazioni più
schiettamente positiviste del materialismo storico marxista, elaborate dall'ortodossia sovietica, o di
1 Cfr., per le rocambolesche vicende editoriali del testo, W. Benjamin, Gesammelte Schriften I/2 (da qui in avanti:
GS), a cura di H. Scweppenhäuser e R. Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt 1972-1989, trad. it. Opere complete, vol.
VII. Scritti 1938-1940, Einaudi, Torino 2006, pp. 570 sgg.
2 Cfr. M. Löwy, Walter Benjamin: Avertissement d'incendie. Une lecture des thèses «Sur le concept d'Histoire»,
P.U.F., Paris 2001, trad. it. Segnalatore d'incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin,
Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 32, dove l'autore individua almeno tre grandi linee interpretative: una,
materialistica, difesa da Brecht, una teologica classicamente rappresentata da Scholem, e una che punta sulla natura
intimamente contraddittoria del tentativo benjaminiano, enunciata, tra gli altri, da Habermas.
3 W. Benjamin, Über den begriff der Geschichte, prima pubblicazione con il titolo Walter Benjamin zum Gedächtnis,
Institut für Sozialforschung, edizione ciclostilata, Los Angeles 1942, pp. 1-16, trad. it. Tesi di filosofia della storia,
in id., Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, p. 80.
una sua versione più sfumata propria della socialdemocrazia tedesca, in cui il percorso storico è
teleologicamente orientato verso un progressivo e generale miglioramento delle condizioni di vita
dell'umanità dovuto alla modalità di funzionamento del sistema capitalistico; o che si tratti della
prospettiva storicista, animata com'è dall'obiettivo di conoscere il passato «come propriamente è
stato»4, isolando il singolo evento dalle sue conseguenze 5 e dissezionando il corso storico in singoli
fatti puntuali e isolati, siamo evidentemente di fronte ad un'unica concezione, quantitativa e
indifferenziata, del tempo storico. L'idea fondamentale che accomuna tutte queste posizioni è quella
di progresso, che, nella molteplicità delle sue possibili interpretazioni, conduce ad una visione
teleologica e direzionata del corso degli eventi.
A questo complesso di filosofie della storia Benjamin contrappone una posizione radicalmente
alternativa. Al tempo omogeneo e vuoto, meramente quantitativo delle filosofie tradizionali, è
contrapposto un tempo differenziato, pieno e qualitativo, in cui a cambiare è prima di ogni altra
cosa la visione dell'attimo presente. Esso smette di essere un mero passaggio da un momento ad un
altro su una stessa linea retta, per venire riconfigurato come sempre «in bilico nel tempo ed
immobile»6, un adesso – che Benjamin definisce Jetztzeit forzando il dettato della lingua tedesca e
che il traduttore italiano traduce con “tempo-ora” 7 - che è gravido di possibilità e che rende il tempo
storico intrinsecamente segnato da gradienti di intensità diversi. Per comprendere questa
formulazione è necessario soffermarsi su due punti assolutamente decisivi: da un lato, il cambio di
direzione dell'eterodosso materialismo storico benjaminiano, che si rivolge, in un senso peculiare, al
passato e non al futuro; dall'altro, una concezione, che è possibile definire strategica, del lavoro
dello storiografo materialista.
Per quanto riguarda il primo, esso rappresenta uno dei luoghi dell'opera del critico tedesco in
cui è più evidente l'influenza del misticismo ebraico e neoplatonico. Per Benjamin l'interesse dello
sguardo dello storico si sofferma sul passato, che non può non apparire come un enorme ammasso
di rovine: questo perché la storia è il continuo susseguirsi delle vittorie dei dominatori sui dominati,
quel nemico che non lascia sicuri persino «i morti»8 e che «non ha smesso di vincere»9. Quest'idea
perentoria del divenire storico appare come l'incontro della prospettiva del materialismo marxista
con alcune idee che Benjamin aveva già espresso soprattutto nei saggi Destino e carattere10 e in Per
la critica della violenza11: qui l'autore aveva posto in un'unica costellazione diritto e mito,
concependo il tempo storico come un tempo ancora mitologico – cioè primitivo, demonico – poiché
dominato dall'eterno ciclo della violenza che pone e che conserva il diritto e che dunque non può
che lasciare dietro di sé il sangue dei vinti, contrapponendovi la dimensione della giustizia che,
attraverso una violenza definita, per opposizione, divina, arrestando la dinamica della violenza
mitica, rifiuta di creare nuovo diritto – una nuova dominazione, un nuovo ordine dell'ennesimo
vincitore – dedicandosi al contrario al suo completo annientamento. Lo stravolgimento creato da
questa nuova violenza è un'uscita definitiva dallo stato di minorità in cui l'essere umano è ancora
costretto, e si configura come una nuova temporalità storica radicalmente alternativa alla
precedente12.
Che ne è della storia passata in questa prospettiva? Se quest'ultima appare come la catena

4 Ivi, p. 74. Benjamin cita qui Ranke, uno dei più noti esponenti dello storicismo tedesco.
5 Cfr. ivi, p. 75: «Fustel de Coulanges raccomanda allo storico che voglia rivivere un'epoca di cacciarsi di mente tutto
ciò che sa del corso successivo della storia. Non si potrebbe definire meglio il procedimento con cui il materialismo
storico ha rotto i ponti».
6 Ivi, p. 81.
7 Ivi, p. 80.
8 Ivi, p. 75.
9 Ibidem.
10 Cfr. id., Schicksal und Charakter, in Die Argonauten, Serie I, fascicolo 10-12 (1921), pp. 187-96, trad. it. in id.,
Angelus Novus, op. cit., pp. 29-36.
11 Cfr. id., Zur Kritik der Gewalt, in Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, XLVII (1920-21), n. 3, pp. 809-
32, trad. it. in id., Angelus Novus, op. cit., pp. 5-28.
12 «[s]ull'interruzione di questo ciclo che si svolge nell'ambito delle forme mitiche del diritto, sullo spodestamento del
diritto insieme alle forze a cui esso si appoggia (come esse a esso), e cioè in definitiva dello Stato, si basa una nuova
epoca storica»: ivi, pp. 27-8.
ininterrotta del successo dei vincitori e del sangue degli sconfitti, nondimeno essa mostra come per
contrasto la presenza, frammentaria e dimenticata, dei loro tentativi di emancipazione, delle
sofferenze e dei torti subiti. L'avvento messianico della giustizia, l'interruzione della violenza mitica
rammemora e recupera questi frammenti riconducendoli ad un'unità che è come un riscatto
complessivo dei loro patimenti. È l'idea ebraica del tiqqun, la ricomposizione dei vasi sparsi in mille
pezzi dal peccato originale, una restitutio ad integrum come ritorno ad uno stato originario che
tuttavia non si configura, come vedremo, come una qualche età dell'oro da ritrovare prima della
storia propriamente detta, ma come una nuova epoca storica che in ogni suo momento ricorda
l'insieme delle sconfitte che ne hanno anticipato la venuta. Per questo Benjamin può scrivere che
«solo per l'umanità redenta il passato è citabile in ognuno dei suoi momenti» 13, senza cioè
perpetuare ulteriormente l'oblio dei vinti che contraddistingue il dominio del diritto14.
Ora, è su quest'ordine di pensieri che l'influenza del materialismo storico marxiano si innesta
senza soluzione di continuità15: precisamente questo cambio di sguardo, che cambia il vettore di
interesse dal futuro verso il passato, costituisce l'influsso teologico sulla peculiare concezione
materialista della storia difesa da Benjamin 16, che è stata molto opportunamente definita “marxismo
gotico”17. Questo sguardo al passato è contrassegnato, come si è visto, dalla coppia di concetti
composta da rammemorazione (Eingedenken) e redenzione (Erlösung)18, che, unendo virtuosamente
teoria e prassi in un unico sguardo, ci permettono di passare al secondo punto di nostro interesse.
In questa visione della storia, la storiografia materialista che Benjamin cerca di definire
assume, in contrapposizione netta con le storiografie descrittive di matrice positivista o storicista,
un'attitudine costruzionista19: compito della rappresentazione materialista della storia non è fornirne
una descrizione scientifica o imparziale, la cui stessa possibilità epistemologica è intrinsecamente
solidale alle visioni della storia che Benjamin rifiuta; piuttosto, essa si riconfigura come strumento
funzionale alla lotta, e alla coscienza, delle classi rivoluzionarie: «[i]l soggetto della conoscenza
storica è la classe stessa oppressa che combatte»20. Essa agisce innanzitutto demistificando la
tradizione dei vincitori, passando la storia «a contrappelo»21 poiché è in grado di vedere, dietro alle
propagande celebrative dell'esistente, la sua vera origine, fatta di sopraffazione e di dominio sui
subalterni di ogni epoca22. Questo sguardo implacabile e iconoclasta giunge infine a comprendere
che il ciclo di violenza con cui i dominatori si susseguono, e soprattutto i momenti in cui la vittoria
finale è in discussione – ciò che il dibattito tedesco dell'epoca indicava con il concetto di stato di
emergenza23 – non è un'eccezione, ma la regola di un continuum storico che è necessario far
deflagrare, interrompendone l'andamento ciclico24. Ma non è solo questo il compito dello
13 Id., Tesi di filosofia della storia, op. cit., p. 73.
14 Scrive anche Benjamin: «c'è un'intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra.
A noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il
passato ha un diritto»: ibidem. Corsivo dell'autore.
15 D'altronde, è quanto Benjamin dichiara esplicitamente nella prima delle sue tesi, quando dichiara che il materialismo
storico «può farcela senz'altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com'è noto, è piccola e
brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno»: id, Tesi di filosofia della storia, op. cit., p. 72.
16 Una difesa brillante di questa tesi, da parte di uno dei più importanti studiosi americani della Scuola di Francoforte e
delle figure intellettuali orbitanti intorno a essa, è in R. Beiner, Walter Benjamin's philosophy of history, in Political
Theory, vol. 12, n. 3 (1984), p. 424.
17 M. Löwy, Segnalatore d'incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, op. cit., p. 20.
18 Cfr. ivi, p. 39.
19 «alla base della storiografia materialistica è […] un principio costruttivo»:W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia,
op. cit., p. 81.
20 Ivi, p. 79.
21 Ivi, p. 76.
22 «tutto il patrimonio culturale che egli abbraccia con lo sguardo ha immancabilmente un'origine a cui non può
pensare senza orrore. Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, ma
anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso
tempo, documento di barbarie»: ivi, pp. 75-6.
23 Il riferimento è ovviamente alla celebre definizione di sovranità fornita da Carl Schmitt: sull'influenza di Schmitt su
Benjamin si veda M. Löwy, Segnalatore d'incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin,
op. cit., p. 73.
24 «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere
storiografo materialista. La funzionalità del suo lavoro alla lotta degli oppressi non sta solo nel
fornire una descrizione della storia che ne metta in luce i torti subiti; ma anche, e soprattutto, di
collegare le esperienze di lotta a tutte quelle che le hanno precedute, investendone così l'azione di
un portato messianico e di un compito redentivo. Ciò – e torniamo qui alla questione dello jetztzeit
da cui eravamo partiti – al fine di riconoscere nell'attimo della lotta una intensità del tutto nuova,
grazie al collegamento che esso definisce con altri momenti del passato che lo riempiono di
significato25. Qui sta il carattere strategico del lavoro del materialista storico: lungi dal costituire una
figura estranea e avulsa dagli eventi storici che pure si propone di analizzare, egli cerca piuttosto di
cogliere, in essi, il legame messianico che li unisce a quelli che li hanno preceduti, e di coglierlo,
soprattutto, nell'attimo della loro effettuazione, in un tempismo che solo può rendere politicamente
efficace la sua azione. Diviene così possibile combattere il pericolo che le classi in lotta vengano di
nuovo assoggettate a coloro che da sempre le dominano; in altre parole, di essere reinserite nella
tradizione alla quale cercano disperatamente di sottrarsi26.
Dovrebbe risultare a questo punto chiaro come in Benjamin teoria e prassi, visione della storia
e della storiografia, si compenetrino senza residui, entrando in una soglia di indistinzione. E non
solo a partire dal presupposto costruttivista che, come abbiamo visto, domina la visione
benjaminiana del materialismo storico: esso appare in realtà conseguenza di un tratto di ordine
strutturale e metodologico ben più generale. La discussione sulla storia, in Benjamin, non è mai
disgiunta da una certa idea di quale sia lo stato della comunità politica nel momento presente, e di
che cosa si auspichi che diventi una volta usciti dalla dimensione demonica nella quale l'umanità è
ancora imprigionata. È la stessa struttura del discorso benjaminiano a suggerirci questa conclusione:
lo storiografo materialista costruisce una rete di corrispondenze che illuminano il momento storico
della lotta di una dimensione che la ricollega al passato e la proietta, nel medesimo tempo, nel
futuro, scoprendo la natura del vivere comune dominato dal diritto come uno stato che è necessario
superare in vista di un'umanità redenta che si caratterizza come una vita radicalmente altra, un
regime di esperienza totalmente nuovo. La storia è in altre parole segnata in tutto il suo spessore da
indici che puntano verso la redenzione, in un senso tuttavia profondamente tragico, contingente e
non teleologico27, che disegna una tensione permanente tra il nostro stato attuale e il futuro
messianico i cui frammenti sono sparsi in tutto il corso del passato. La teoria della storia è così
immediatamente e contemporaneamente rivelazione dello stato in cui versa la comunità umana e
delineazione di una nuova esperienza storica, di una nuova umanità, di un nuovo modello di vita
comune: in altre parole, l'idea di una comunità possibile innerva, fino a costituirne un vero e proprio
principio interpretativo, la concezione benjaminiana della storia e della storiografia.
Ora, al fine di allestire un parallelo teoreticamente legittimo con la visione foucaultiana della
storia, è fondamentale notare la presenza, quasi spettrale e tuttavia evidente, di un ulteriore matrice
all'opera nella concezione benjaminiana della storia: la filosofia di Nietzsche. È in effetti difficile
non sentir risuonare, nella polemica di Benjamin contro lo storicismo e le dottrine positiviste, così
come nella sua visione disincantata della storia come eterna sequela di dominazioni diverse, idee di
a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del
vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo»:W. Benjamin, Tesi di
filosofia della storia, op. cit., p. 76.
25 «[l]a storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di “tempo-
ora” […] al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico
non può rinunciare. Poiché questo concetto definisce appunto il presente in cui egli per suo conto scrive storia»: ivi,
pp. 80-81.
26 «[a]rticolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”. Significa impadronirsi di
un ricordo come esso balena nell'istante di un pericolo. Per il materialismo storico si tratta di fissare l'immagine del
passato come essa si presenta improvvisamente al soggetto storico nel momento del pericolo. Il pericolo sovrasta
tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo stesso per entrambi: di ridursi a
strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in
procinto di sopraffarla»: ivi, p. 74. Benjamin cita qui ancora Ranke, al quale la sua tesi si contrappone
diametralmente.
27 il futuro è il tempo in cui «ogni secondo» è «la piccola porta da cui [può] entrare il Messia», in un'incertezza
radicale che tuttavia libera la tradizione ebraica di quel «fascino del futuro […] a cui soggiacciono quelli che
cercano informazioni presso gli indovini»: ivi, p. 83.
schietta ascendenza nietzscheana. Nell'idea di passare contropelo la storia agisce senza dubbio
l'influenza della seconda considerazione inattuale Sull' utilità e il danno della storia per la vita, che
Benjamin lesse e ammirò profondamente28; e non stupisce trovare, in esergo alla tesi dodici, una
citazione tratta precisamente da quest'opera29. Provando a sistematizzare, sono due i nodi teorici
riguardo al concetto di storia che legano Benjamin a Nietzsche e, attraverso quest'ultimo, a
Foucault: da un lato, un rifiuto netto di ogni filosofia della storia totalizzante, organica,
teleologicamente orientata; dall'altro, il ruolo strategico, politico e non contemplativo, dello studio
della storia. Connesso a quest'ultimo aspetto è poi la presupposizione, in entrambi, di una idea di
comunità politica che traspare dalle loro concezioni della storia: se è vero che vi è nelle loro opere
una coincidenza di natura strutturale su questo aspetto, è tuttavia a partire da questo punto che le
loro proposte teoriche divergono nettamente. Per mettere in luce questa rete di affinità e divergenze,
è bene dedicarsi brevemente ad un analisi di alcuni aspetti della concezione foucaultiana della
storia.
Lo scritto foucaultiano che più ci aiuta a mettere in luce questi punti di convergenza con
l'opera di Benjamin è un testo di forte valore programmatico e metodologico: si tratta di Nietzsche,
la généalogie, l'histoire30, che, come è noto, è considerata la prima, e più esaustiva, trattazione
sistematica del metodo genealogico. Attraverso una analisi serrata dei testi nietzscheani, Foucault si
scaglia contro ogni metodo storiografico viziato da una visione teleologica e direzionata della storia,
in cui gli eventi non farebbero che comporre, nel loro insieme, una figura coerente che ne
costituirebbe il significato trascendentale31. Per questo motivo, essa rifiuta radicalmente il concetto
di origine, considerato da Foucault non solo epistemologicamente fallace – l'origine come tale è
inattingibile – ma soprattutto inevitabilmente al servizio delle visioni più monumentali, celebrative
e acritiche degli eventi storici, caratterizzato com'è dal presupposto che all'origine appartenga
l'essenza della cosa, la sua verità, la sua perfezione 32. Ad essa, il genealogista sostituisce
innanzitutto l'idea di provenienza, che riscopre, dietro alle narrazioni che disegnano la continuità
metastorica di un'identità, «la proliferazione degli avvenimenti attraverso i quali (grazie ai quali,
contro i quali)» i concetti e i caratteri «si sono formati» 33, non deducendo dunque «[n]ulla che
somiglierebbe all'evoluzione di una specie, al destino di un popolo [,poiché s]eguire la trafila
complessa della provenienza, è al contrario mantenere ciò che è accaduto nella dispersione che gli è
propria»34. Quest'ultima si completa, in secondo luogo, attraverso l'idea di emergenza, concepita da
Foucault come studio del particolare diagramma delle forze all'opera in un determinato momento
storico e nel contesto del quale un dato concetto assume una nuova forma, nasce o viene
reinterpretato35.
Commentando e riprendendo anch'egli il testo delle Considerazioni inattuali, Foucault nota
che Nietzsche spesso, in contrapposizione alla storia degli storici tradizionali, definisce la
genealogia come storia effettiva, wirkliche Historie. Una volta distrutta la spessa patina delle

28 Cfr. M. Löwy, Segnalatore d'incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, op. cit., p.
65, p. 85. Per un'analisi sistematica e filologica dell'influenza di Nietzsche su Benjamin cfr. H. Pfotenhauer,
Benjamin und Nietzsche, in B. Lindner (a cura di), Walter Benjamin im Kontext, Athenäum, Köningstein 1985, pp.
100-26. Cfr. anche S. Weigel, Body- and image-space. Rereading Walter Benjamin, Routledge, London 1996, p. 40-
2, dove l'autore propone una ricostruzione testuale dell'influsso di Nietzsche sulla Premessa gnoseologica al
Dramma barocco tedesco.
29 Cfr. W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, op. cit., p. 79.
30 M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l'histoire, in Hommage à Jean Hyppolite, a cura di S. Bachelard, P.U.F., Paris
1971, trad. it. Nietzsche, la genealogia, la storia, in M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi,
Torino 1977, pp. 29-54.
31 La genealogia si oppone con decisione, in altre parole, «al dispiegamento metastorico dei significati ideali e delle
indefinite teleologie»: ivi, p. 30.
32 Cfr. ivi, pp. 31-33.
33 Ivi, p. 35.
34 Ibidem.
35 Essa «si produce sempre in un certo stato delle forze. L'analisi dell'Entstehung deve mostrarne il gioco, il modo in
cui combattono le une contro le altre, o la lotta che portano avanti di fronte alle circostanze avverse, o ancora il
tentativo che fanno […] di sfuggire alla degenerazione e riprendere vigore a partire dal loro stesso indebolimento»:
ivi, p. 38.
dinamiche teleologiche, delle apologetiche e delle teodicee che caratterizzano le diverse filosofie
della storia oggetto della polemica comune di Nietzsche, di Foucault e di Benjamin, ciò che rimane
è la materialità effettiva degli avvenimenti, la loro inconfessabile assenza di origine, la loro
scandalosa assenza di scopo36: in questo wirkliche non può non risuonare allora quel wirklichen
Ausnahmezustands, quello stato di eccezione effettivo che Benjamin pone come obiettivo politico
degli sfruttati in lotta e che consiste appunto nello svelare la reale e sanguinosa natura della storia
come susseguirsi di dominazioni e di violenze, di nuovi dominatori che sostituiscono i precedenti in
un ciclo che è quello, mitico, del diritto e della colpa. Un'idea di effettività come distruzione dello
sguardo teleologico, razionalista o positivista sulla storia lega, attraverso la comune lettura di
Nietzsche, la riflessione di Benjamin a quella di Foucault, costituendo il punto di maggior contatto,
di massima prossimità, tra le loro prospettive teoriche.
È a partire da questo nodo teorico estremamente denso che, in Foucault, si sviluppa da un lato
una riflessione sul ruolo politico dell'analisi genealogica che lo accomuna ulteriormente alle
posizioni benjaminiane e, dall'altro, una peculiare concezione di questa effettività che costituisce il
punto preciso a partire dal quale le loro prospettive teoriche si differenziano reciprocamente,
pervenendo così a due diverse idee di comunità.
Per quanto riguarda il primo aspetto, Foucault è estremamente esplicito nell'indicare lo scopo
dell'analisi genealogica. Essa non ha alcun intento meramente descrittivo o giustificatorio, mirando
piuttosto a destabilizzare ciò che nel presente è percepito come immutabile, naturale, ineluttabile,
privo di attrito. Il passato diviene la materia di analisi con la quale, attraverso un riferimento
costante alla strettissima attualità, è possibile rimettere in discussione lo statuto dei concetti e delle
idee fondamentali che permeano l'esperire proprio alla nostra contingenza storica37. La genealogia
«reintroduce nel divenire tutto ciò che si era creduto immortale nell'uomo» 38, dedicando la sua
indagine a «quel che le sta più vicino ma per allontanarsene bruscamente e riafferrarlo a distanza» 39.
In ciò sta la sua intrinseca politicità: «il sapere non è fatto per comprendere, ma per prendere
posizione»40, scrive Foucault. La vicinanza con le tesi benjaminiane è evidente: entrambi cercano di
«rimuovere le necessità storiche al fine di introdurre mobilità politica nel presente» 41, e questa
somiglianza diventa addirittura palese quando Foucault giunge alla conclusione che «si tratta di fare
della storia un uso che la liberi per sempre dal modello, insieme metafisico ed antropologico, della
memoria. Si tratta di fare della storia una contromemoria, - e di dispiegarvi di conseguenza una
forma del tempo del tutto diversa»42.
In questo senso il metodo genealogico verrà successivamente definito, in un cambio di
angolazione prospettica – in cui entrerà in gioco più decisamente l'esame delle pratiche di
soggettivazione – che tuttavia non ne sconfesserà minimamente l'impianto complessivo,
un'ontologia del presente43. Ora, con quest'ultimo passaggio metodologico dell'opera di Foucault,

36 «Nei fatti, ciò che Nietzsche non ha smesso di criticare dalla seconda delle Inattuali in poi, è questa forma di storia
che reintroduce (e suppone sempre) il punto di vista soprastorico: una storia che avrebbe la funzione di raccogliere,
in una totalità ben richiusa su di sé, la diversità infine ridotta del tempo; una storia che ci permetterebbe di
riconoscerci dovunque e di dare a tutte le trasformazioni del passato la forma della riconciliazione: una storia che
getterebbe dietro di sé uno sguardo da fine del mondo. Questa storia degli storici si dà un punto d'appoggio fuori del
tempo. Pretende di giudicare tutto secondo un'obiettività da apocalisse; in realtà ha supposto una verità eterna,
un'anima che non muore, una coscienza sempre identica a se stessa. […] Al contrario, il senso storico sfuggirà alla
metafisica per diventare lo strumento privilegiato della genealogia se non si orienta su nessun assoluto»: ivi, pp. 41-
42.
37 «la ricerca della provenienza non fonda, al contrario: inquieta quel che si percepiva immobile, frammenta quel che si
pensava unito; mostra l'eterogeneità di quel che s'immaginava conforme a se stesso. Quale convinzione vi
resisterebbe? Ancor più, quale sapere?»: ivi, p. 36.
38 Ivi, p. 42.
39 Ivi, p. 45.
40 Ivi, p. 43.
41 A. Greenberg, Making way for tomorrow: Benjamin and Foucault on history and freedom, in Journal of political
thought, vol. 2, n. 1 (2016), p. 38, trad. mia.
42 M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, op. cit., p. 49.
43 Id., Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France 1982-1983, Seuil, Paris 2008, trad. it. Il
governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009, p. 30.
ciò che nella precedente formulazione dei principi dell'analisi genealogica era già di fatto implicato
assume un ruolo di primo piano. La genealogia infatti, col suo lavoro di distruzione delle identità,
costituiva già una diagnosi dello stato contingente di una comunità attraverso l'analisi dei concetti e
delle idee sulle quali essa fonda il suo autoriconoscimento. Quando Foucault dichiara
esplicitamente che l'ontologia del presente costituisce una «ontologia storica di noi stessi»44 non fa
dunque che portare alla luce questo tratto che costituirà sempre più l'oggetto centrale delle sue
ultime ricerche. Essa si pone infatti come impresa teorica che «non dedurrà quello che ci è
impossibile fare o conoscere dalla forma di ciò che noi siamo; ma coglierà, nella contingenza che ci
ha fatto essere quello che siamo, la possibilità di non essere più, di non fare o di non pensare più
quello che siamo, facciamo o pensiamo»45. Si noti che questo aspetto costituisce il tratto
specificamente genealogico dell'ontologia del presente, che Foucault distingue da quello che
definisce, collegandolo con il suo periodo dedicato alla storia dei saperi, archeologico, poiché
quest'ultimo ne costituisce il metodo, mentre il primo la sua finalità 46. Questo particolare, oltre a
confermare la nostra ipotesi che il tema della comunità costituisse tratto essenziale già delle prime
analisi genealogiche – come suo sfondo e scopo, come suo orizzonte di riferimento –, permette di
sottolineare come anche in Foucault, così come avveniva in Benjamin, natura politica dello studio
della storia e preoccupazione per il comune s'intrecciano strettamente: nei due pensatori, in altre
parole, l'interesse politico per la comunità e per i suoi possibili statuti occupa il medesimo posto
nell'insieme della loro opera.
Tuttavia, è proprio su questo punto che i loro itinerari filosofici prendono strade diverse e
antitetiche. L'origine di questo divario è già rintracciabile nelle riflessioni foucaultiane sullo statuto
del metodo genealogico, e consiste in una divergenza fondamentale nel pensare le relazioni tra
storia e potere e la natura di quest'ultimo: in altre parole, nella natura di quella storia effettiva che
abbiamo poco sopra evocato. Per esplicitarlo, torniamo all'analisi del concetto di Enstehung
[emergenza]. Come si ricorderà, quest'ultimo aspetto della genealogia si dedica all'analisi dello stato
delle forze in gioco al momento della comparsa storica di un concetto. Ebbene, l'occhio disincantato
del genealogista, in quest'indagine, non può che cogliere la realtà del divenire storico come lotta per
il dominio e per il monopolio delle interpretazioni possibili e, dunque, per l'egemonia sul significato
da dare all'esistente, ai suoi segni e ai suoi oggetti: «in un certo senso, l'opera recitata su questo
teatro senza luogo è sempre la stessa: è quella che ripetono indefinitamente i dominatori e i
dominati»47. Qui, la somiglianza con Benjamin è solo apparente. Mentre infatti per quest'ultimo,
come abbiamo visto, la storia e la tradizione che la celebra non sono che il susseguirsi senza posa
delle continue vittorie degli sfruttatori sugli sfruttati, per Foucault ciò che costituisce il divenire
storico non è tanto questo trionfo senza tregua, quanto lo spazio in cui questa stessa lotta si situa, lo
schema contingente delle forze che vi sono implicate, e l'esito, sempre contrastato, di questo scontro
in cui fazioni diverse si fronteggiano. Per questo egli può sottolineare, in un punto per noi
fondamentale, che «[n]essuno è […] responsabile d'un'emergenza, nessuno può farsene gloria; essa
si produce sempre nell'interstizio»48. L'idea, in altre parole, è che il potere sia definito da un
carattere strettamente relazionale, e che il corso della storia sia precisamente frutto di queste
relazioni: sono idee, queste, che nel saggio su Nietzsche risultano ancora allo stato embrionale, ma
che verranno esplicitate pochi anni dopo nel primo dei volumi sulla Storia della sessualità. In esso,
questa riflessione viene da Foucault compiutamente sviluppata, com'è noto, nei termini di una
implicazione reciproca, fondamentale e costitutiva di potere e resistenza: «là dove c'è potere c'è
resistenza e […] tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità
rispetto al potere»49. Ecco l'effettività della storia per Foucault: ecco la sua materia e la sua forza
motrice. Al di là di tutte le visioni ancora metafisiche della storia, la cui critica Foucault e Benjamin

44 Id., Qu'est-ce que les Lumières?, in Magazine littéraire, n. 207 (Maggio 1984), pp. 35-39, trad. it. Che cos'è
l'illuminismo?, in I. Kant, M. Foucault, Che cos'è l'illuminismo?, Mimesis, Milano 2012, p. 36.
45 M. Foucault, Che cos'è l'illuminismo?, op. cit., p. 36.
46 Cfr. Ibidem.
47 Id., Nietzsche, la genealogia e la storia, op. cit., p. 39.
48 Ivi, p. 39.
49 Ivi, pp. 84-5.
condividono pienamente, essi trovano così due spazi diversi: da un lato, un campo di forze in
perenne contrasto, relazioni di potere e resistenze conseguenti che plasmano il corso degli eventi e
vi imprimono una forma ambigua; dall'altro, un'eterna ripetizione di dominazioni identiche nella
forma seppur forse differenti nella sostanza; un'unica matrice della violenza, che pone o conserva il
diritto senza mai eliminarlo o metterlo in discussione e costringe gli sfruttati ad un destino sempre
identico a se stesso.
Non sorprende notare, a questo punto, come da queste due posizioni differenti siano scaturite
due concezioni del comune fortemente eterogenee, che ci proponiamo di analizzare nei due
paragrafi seguenti.

3. attualità integrale e felicità: impoliticità del comune in Benjamin

Ciò che Benjamin intende per comunità, o, come anche si esprime, per «società senza
classi»50, è, prima di ogni altra cosa, un'esperienza storica radicalmente alternativa a quanto finora
esperito: essa costituisce l'esito di un'interruzione improvvisa del corso della storia che, allo stesso
tempo, si mostra, in un senso ancora tutto da chiarire, come il suo paradossale compimento. Sono,
queste, le coordinate essenziali che descrivono l'eterodossa idea di comune difesa dal filosofo
tedesco: anche in questo ambito, il pensiero benjaminiano intreccia le molteplici influenze del suo
pensiero in una sintesi densissima, ardua da dipanare.
La storia dominata dalla violenza del diritto è costruita sull'oblio dei vinti. Una volta interrotto
tale ciclo, è di conseguenza un altro rapporto col passato ciò che caratterizza la comunità umana.
Per caratterizzarlo, Benjamin utilizza spesso l'espressione di «attualità integrale» 51. Con questa
formulazione enigmatica, egli intende descrivere una forma di esperienza storica in cui ogni
momento rammemora, nella sua concretezza, la sofferenza degli sconfitti che pure, nelle loro lotte,
lo hanno prefigurato. Tale rammemorazione è la sostanza stessa del vivere redento: non un atto
intenzionale52, ma ciò che esso immediatamente esprime nel suo essersi infine liberato dalla
violenza. Per questo non si tratta di una celebrazione, che, cristallizzandosi in un rituale,
manterrebbe la distanza tra celebrante e celebrato, quanto di una festa, che esprime immediatamente
il ricordo, informando di esso il momento presente in un attimo che fa collassare ogni distacco 53.
L'attimo redento assume così una valenza monadologica, poiché riassume per intero la storia che lo
ha prodotto e di cui esso costituisce la redenzione.
La vita comune diviene così la festa ininterrotta che, nel suo stesso darsi, redime i vinti di
ogni epoca. In questo contesto si capisce perché Benjamin possa scrivere che «grazie a questa
struttura monadologica, l'oggetto storico trova rappresentate al suo interno la propria pre- e post-
storia»54: esso manifesta in sé da un lato la sua pre-storia come il suo essere parte di una tradizione
discontinua degli oppressi che viene cancellata dal continuum storico, e dall'altro un'indice alla
redenzione, che costituisce precisamente la post-storia come futuro compimento redentivo delle
sofferenze che portava con sé. Se la storia è composta da frammenti che contengono in sé,
monadologicamente, la loro ricomposizione messianica nella festa dell'umanità liberata,
quest'ultima ne costituisce, in senso platonico e romantico, l'idea che essi prefigurano. In altre
parole, ciò che questi frammenti sparsi della storia dei vinti manifestano, è la figura, infine integra,
della loro redenzione, che coincide con la loro paradossale – in quanto sempre, inevitabilmente, ex-
post – compiutezza: l'idea della comunità libera. Ciò che quest'ultima ricorda, nella sua festa, è
allora il mai-stato delle sconfitte passate che la hanno preceduta, l'idea di comunità cui esse
anelavano e che non sono riuscite ad ottenere55.

50 Cfr. W. Benjamin, Aufzeichnungen zum Thema, GS I/3, pp. 1229-52, trad. it. Appendice a Sul concetto di storia, in
Opere complete, vol. VII. Scritti 1938-1940, op. cit., p. 496.
51 «il mondo messianico è il mondo dell'attualità universale e integrale»: ivi, p. 499.
52 «nel momento in cui il passato si contrae nell'attimo […] esso entra a far parte del ricordo involontario
dell'umanità»: ivi, p. 498.
53 «Tale festa è depurata da ogni celebrazione. Essa non conosce canti di festa»: ivi, p. 499.
54 Id., Opere complete, vol. IX. I “passages” di Parigi, op. cit., p. 533.
55 «[l]'eingedenken, allora, può essere cosiderato come la traduzione più pertinente dell'anamnesis platonica. La
Solo in questa redenzione ineffettuale56, nell'idea che il complesso dei torti e delle sconfitte
che hanno segnato la nostra vita possa essere salvato nel ricordo, consiste per Benjamin la felicità:
«l'idea di felicità che possiamo coltivare è tutta tinta del tempo a cui ci ha assegnato, una volta per
tutte, il corso della nostra vita. Una gioia che potrebbe suscitare la nostra invidia, è solo nell'aria che
abbiamo respirato, fra persone a cui avremmo potuto rivolgerci, con donne che avrebbero potuto
farci dono di sé. Nell'idea di felicità, in altre parole, vibra indissolubilmente l'idea di redenzione» 57.
La comunità umana redenta è dunque capace di un'esistenza che manifesta in sé la felicità di una
compiutezza paradossale, ottenuta attraverso una memoria festosa e redimente. Si tratta di uno
spazio profondamente e risolutamente profano, che indica, per contrasto, il regno della giustizia
divina che tuttavia, come tale, è ovviamente inattingibile all'uomo. Questo ordine del profano
descrive una comunità umana che, avendo superato infine ogni concezione teleologica della storia,
ogni forma di progresso – poiché ha eliminato la violenza mitica che vi soggiaceva come sua
condizione di possibilità – possiede una modalità di esperienza che accetta il carattere caduco
dell'esistenza, il suo essere privo di una destinazione. Poiché un unico nodo unisce diritto, violenza,
idea di uno scopo del divenire storico e tempo omogeneo e vuoto, la sua soluzione sta in un modo di
vita comune che, deponendo il diritto e la sua violenza, non presuppone alcuno scopo e tuttavia
riempie l'attimo dell'unica compiutezza che è possibile all'umano, quella di prefigurare un regno
della giustizia. Caducità e profanità si rivelano essere così, come dichiarato esplicitamente in un
altro testo benjaminiano fondamentale, il Frammento teologico-politico, termini consustanziali58.
Si tratta, a ben guardare, di una visione radicalmente a-teologica: nella traiettoria divergente
del regno di Dio e della Dynamis del divenire storico, concetto teorizzato in quest'ultimo testo 59 e
ravvisabile poi in tutta la produzione seguente del filosofo tedesco, si rende evidente e incolmabile
la distanza di Benjamin da Schmitt, come è stato giustamente notato 60. Ciò nonostante, la sua
posizione a-teologica implica pur sempre un rapporto, ideale – nel senso sopra esplicitato – e
messianico, tra categorie umane e teologiche.
Non solo. Il distacco da Schmitt e dalla teologia politica è reso evidente dalla natura non solo
a-teologica, ma impolitica della proposta benjaminiana. L'impoliticità di Benjamin deriva, come si
sarà già intuito, dal fatto che, in primo luogo, la sua proposta emancipativa si colloca letteralmente
fuori dalla storia: è un'altra esperienza con essa che va costruita affinchè la possibilità di una società
senza classi, di una comunità redenta, si dia; e, inoltre, poiché presenta un tratto fortemente
aporetico nella trattazione della prassi politica necessaria a raggiungere questo tipo di forma di vita,
che non a caso Benjamin descrive come una rottura messianica non ulteriormente specificata. Non
vi è, in altri termini, mediazione politica possibile tra lo stato demonico dominato dal diritto e la
comunità umana liberata: in questo profondo senso va intesa l'espressione benjaminiana secondo
cui la violenza divina è «fulminea», arriva immediatamente al suo scopo rompendo di netto il
continuum della storia nel suo stato mitico, mentre quella che perpetua il diritto «incombe» 61,
configurandosi come una presenza costante e ineliminabile che soggiace a ogni tipo di rapporto
sociale. La politica in quanto mezzo per la risoluzione dei conflitti inerisce strettamente a

rammemorazione, così intesa, non può pertanto essere definita dal semplice ricordo di ciò che è stato, ma piuttosto
dal suo richiamare alla mente ciò che non è mai stato, ossia tutto ciò che ancora attende la propria verità e reclama i
propri diritti alla coscienza dello storico»: F. Desideri, M. Baldi, Benjamin, op. cit., p. 175.
56 Secondo una suggestiva definizione proposta da De Conciliis: Cfr. E. De Conciliis, La redenzione ineffettuale.
Walter Benjamin e il messianismo moderno, La città del sole, Reggio Calabria 2001.
57 W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, op. cit., pp. 72-3.
58 «[a]lla restitutio in integrum spirituale, che conduce all'immortalità, ne corrisponde una mondana, che porta
all'eternità di un tramonto e il ritmo di questa mondanità che eternamente trapassa, e trapassa nella sua totalità, non
solo spaziale, ma anche temporale, il ritmo della natura messianica è la felicità. Poiché la natura è messianica per la
sua eterna e totale caducità»: Id., Teologisch-politisches Fragment, in Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am
main 1955, vol. I, pp. 511 sg., trad. it. Frammento teologico-politico, in Opere complete, vol. I. Scritti 1906-1922,
Einaudi, Torino 2008, pp. 512-13.
59 Cfr. ibidem.
60 Cfr. F. Desideri, M. Baldi, Benjamin, op. cit., p. 182, e R. Esposito, Categorie dell'impolitico, Il Mulino, Bologna
1999, pp. 144-145, nota 42.
61 W. Benjamin, Per la critica della violenza, op. cit., p. 25.
quell'universo del diritto che costituisce il polo opposto a quello della giustizia, e anzi costituisce la
categoria generale con la quale identificare l'insieme degli strumenti che, conservandolo o
ponendolo, ne perpetuano il regime. Politica, diritto e potere si legano in un unico dispositivo:
«creazione di diritto è creazione di potere, e in tanto un atto di immediata manifestazione di
violenza»62. La comunità umana libera, producendo una forma di convivenza che sospende
indefinitamente ogni mediazione, facendola, letteralmente, girare a vuoto – e abitando questo vuoto
che la separa dal Regno –, consuma così un divorzio incolmabile dal politico63.
L'impolitico benjaminiano si configura dunque – ed è questa la sua definizione più propria a
cui gli aspetti appena sottolineati conducono – come una sospensione indefinita delle categorie del
politico: una dimensione che trova il suo senso soltanto attraverso una relazione con quest'ultimo.
Esso presenta in altri termini un rapporto obliquo col politico e l'esperienza storica che presuppone,
una relazione che anzi «determina il politico circoscrivendolo nei suoi specifici termini. Che sono
finiti. Non dal punto di vista di qualcos'altro di infinito. Ma finiti in se stessi – e perciò non
suscettibili di essere portati a una fine diversa da quella che originariamente ad essi inerisce e che
non ha mai smesso di caratterizzarli. Di ciò – della propria finitezza costitutiva – la politica non
sempre è consapevole. È costitutivamente portata a dimenticarla. L'impolitico non fa altro che
“ricordargliela”»64. Il leggero spostamento in cui consiste il regno messianico non è altro che questa
disattivazione generale, che non presuppone un fuori, ma solo una diversa forma di vita. Qui sta
tutta la sua impoliticità e, di conseguenza, tutta la sua impraticabilità politica.

4. Estetiche dell'esistenza e modi di vita: la comunità di Foucault

È indubbiamente nel cantiere di ricerca aperto da Foucault sulle pratiche della cura di sé che
va cercata una sua prospettiva sul comune e sulla comunità politica. Dopo le articolate riflessioni
sui diversi regimi di governo dei tardi anni settanta, egli mette infatti a tema, in esso, quelle pratiche
di soggettivazione che costituiscono l'altro polo della dinamica fondamentale tra poteri e resistenze
in cui, per il pensatore francese, si sostanzia il divenire storico: una sorta di pars construens dove la
proposta politica di Foucault si fa infine più netta ed elaborata.
Ciò non significa che tale questione non fosse già ben presente nelle indagini precedenti:
abbiamo anzi visto come costituisse un presupposto inevitabile delle riflessioni sul metodo
genealogico, che Foucault mise poi definitivamente in chiaro nell'analisi dei testi kantiani
sull'illuminismo. Essa tuttavia perviene, nelle ultime ricerche foucaultiane, ad una maggior
chiarezza: ne costituisce anzi, vorremmo dire, una sorta di urgenza sotterranea che ne percorre per
intero la traiettoria, prendendo talvolta forma esplicita in alcune espressioni come modo di vita e
forma di vita, sempre più centrali nell'ultimo lessico del pensatore francese 65, e appartenenti a
quell'universo concettuale il cui fulcro è l'idea di estetica dell'esistenza.
Con quest'ultimo termine, com'è noto, Foucault riassume la sua interpretazione delle pratiche
di cura di sé studiate nell'antichità classica, cogliendone il significato etico o, meglio ancora,
enucleando l'idea di etica che esse presuppongono. Se in prima approssimazione, l'idea di estetica
dell'esistenza è messa in campo per descrivere la modalità specificamente greca e romana di
rapportarsi alla propria sessualità, il discorso foucaultiano, tuttavia, lungi dal limitarsi allo studio
della morale sessuale, colloca quest’ultimo all’interno di una cornice più ampia in cui oggetto della
ricerca è il modo di pensare l’ambito dell’etico e le maniere in cui è possibile costituirsi come
soggetti morali. In altre parole, ciò che costituisce l’interesse di Foucault è che l’idea di estetica
dell’esistenza rimandi ad un’etica che non si sostanzia tanto nella redazione di un codice rigido di

62 Id., p. 23.
63 «La consapevolezza del fallimento storico (o, più decisamente, della Storia) determina una secca divaricazione di
piani tra potere (politico) e bene (etico) riconducibile ad un doppio postulato: impraticabilità di una politica in
termini etici, e impensabilità di un'etica in termini politici»: R. Esposito, Categorie dell'impolitico, op. cit., pp. 144-
145.
64 R. Esposito, Categorie dell'impolitico, op. cit., p. XVI.
65 Cfr. J. Revel, Identità, natura, vita: tre decostruzioni biopolitiche, in M. Galzigna (a cura di), Foucault, oggi,
Feltrinelli, Milano 2008, p. 138.
comportamenti, quanto nell’«elaborazione di una forma di rapporto con se stessi che permette
all’individuo di costituirsi come soggetto di una condotta morale»66.
Ciò che Foucault rintraccia dunque nei testi antichi oggetto della sua indagine è una maniera
radicalmente altra di pensare il rapporto del soggetto con l’etica che dissolve, per così dire,
entrambi i poli del rapporto invitandoci a pensare piuttosto alla natura costitutivamente etica delle
pratiche di formazione di sé, e di qui all’idea «di fare della […] vita un’opera che esprima certi
valori estetici e risponda a determinati criteri di stile» 67, dove, come si sarà già intuito, il riferimento
all’estetica rimanda non tanto ad una determinata concezione del bello che soggiacerebbe a tale
attività, quanto al lavoro di costruzione e di messa in forma, all’attività di tipo artigianale, che essa
implica68.
Ora, le pratiche di soggettivazione nelle quali un'estetica dell'esistenza si concretizza hanno
un valore sempre e immediatamente comunitario: il riferimento ad una comunità è in effetti parte
integrante della loro definizione. Foucault sottolinea questo aspetto già nelle sue riflessioni più
tecniche e filologiche sulle pratiche di cura di sé dell'antichità. In esse, il riferimento all'altro è
ineludibile: «[g]li altri, l'altro, sono indispensabili nella pratica di sé, se si vuole che la forma che
definisce tale pratica riesca effettivamente a raggiungere il proprio oggetto, vale a dire il sé, e da
esso possa effettivamente essere colmata. Affinché la pratica di sé possa giungere a quel sé a cui
essa mira, l'altro risulta indispensabile»69. Le forme che questa relazione all'altro prende sono varie,
ma la conclusione che è possibile trarne è sostanzialmente la medesima: non è possibile pensare alle
forme di costruzione etica del sé in termini puramente solipsistici; persino nelle scuole filosofiche in
cui l'autonomia e l'autosufficienza costituivano i pilastri fondamentali dell'insegnamento morale, il
lavoro di costruzione del proprio stile di esistenza è sempre inserito in un contesto non
individualistico.
Dire questo, tuttavia, non è ancora abbastanza. Più in generale, l'idea di estetica dell'esistenza
congiunge in sé, in un nodo inestricabile, governo di sé e governo degli altri: non solo perché, come
Foucault dimostra attraverso una serie di esempi storici tratti soprattutto da Platone, il lavoro sul sé
è spesso propedeutico, nell'antichità classica, alla vita politica, alla capacità di esercitare il potere
sugli altri70; ma soprattutto perché la condotta di vita che si cerca di formare contiene in sé un valore
esemplare, presuppone in altri termini la rivendicazione di un comune possibile in cui tale forma di
esistenza venga generalizzata. In quanto un certo tipo di rapporto all'altro è sempre implicato in
ogni pratica di soggettivazione, quest'ultima contiene sempre in sé il riferimento ad un modello di
comunità. La dimensione dell'etico e quella del politico collassano così l'una sull'altra: non c'è etica
che non sia già, e immediatamente, una politica, così come non c'è politica che non si costituisca a
partire da un certo rapporto etico col proprio sé71. In altri termini, ciò che Foucault rinviene nelle
elaborazioni etiche del mondo greco e romano è non solo una certa maniera di rapportarsi e di
pensare la dimensione della moralità, ma la connessione strutturale – a prescindere dalle particolari
forme che essa assume nei vari autori oggetto dei suoi studi – tra estetica dell'esistenza e
delineazione di una proposta comunitaria. In quanto la prima si sostanzia di una certa modalità di
relazione all'altro e agli altri, essa la prescrive e la rivendica allo stesso tempo, schiudendo in questo
modo la sua peculiare proposta politica: il lavoro su di sé è al medesimo tempo creazione di uno
stile generalizzabile, di un comune nel quale soltanto è possibile riconoscersi.

66 M. Foucault, L'usage des plaisirs, Gallimard, Paris 1984, trad. it. L'uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 2004, p. 251.
67 Id., p. 16.
68 «[p]iuttosto che sullo spettatore e sull’idea di “bello”, essa [l’estetica dell’esistenza] si concentra sul creatore e sul
suo lavoro di messa in forma (del bios)»: D. Lorenzini, Éthique et politique de soi. Foucault, Hadot, Cavell et les
techniques de l'ordinaire, Vrin, Paris 2015, p. 230, trad. mia.
69 M. Foucault, L'herméneutique du sujet. Cours au Collège de France 1981-1982, Gallimard, Paris 2001, trad. it.
L'ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano 2016, p. 111.
70 Cfr. ad es. id., Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), op. cit., pp. 274 sgg.
71 Come Foucault dichiarerà in un'intervista di quel periodo, «ciò che mi interessa è […] la politica intesa come
un'etica». M. Foucault, Politics and ethics: an interview , conversazione con M. Jay, L. Löwenthal, P. Rabinow, R.
Rorty, C. Taylor, Università di Berkeley, Aprile 1983, in P. Rabinow (a cura di), The Foucault reader , Pantheon
Books, NewYork 1984, pp. 373-380, trad. it. in M. Foucault, Politica ed etica, in Biopolitica e liberalismo, Medusa,
Milano 2001, p. 197.
Lungi dall'auspicare un assurdo ritorno ai modelli etico-politici dell'antichità greco-romana, il
filosofo francese è piuttosto interessato ad attualizzarne il paradigma di riflessione. Foucault cerca,
in numerosi interventi degli ultimi anni della sua vita, di esprimere ed elaborare questa esigenza. In
uno dei più interessanti e significativi, egli tematizza l'idea di modo di vita come costruzione
collettiva di un comune caratterizzato da una certa qualità etica che prescinde da qualunque tipo di
identificazione presupposta come il livello culturale o la classe sociale:

Questa nozione di modo di vita mi sembra importante. Non sarebbe forse necessario introdurre un tipo di
differenziazione diverso da quelli dovuti alle classi sociali, alle differenze di professione, ai livelli culturali, una
diversificazione che sarebbe anche una forma di relazione, e che sarebbe il “modo di vita”? Un modo di vita può essere
condiviso da individui di età, statuto, attività sociale differenti. Può dar luogo a delle relazioni intense che non
assomiglino a nessuna di quelle istituzionalizzate e mi sembra che un modo di vita possa dare luogo a una cultura, e a
un'etica.72

Questa comunità, questa forma di vita, nasce come generalizzazione di un lavoro etico sul
proprio sé che è, al tempo stesso, la definizione di una modalità comune di esistenza (in questo
caso, Foucault parla della comunità gay): «essere gay è, credo, non identificarsi con i tratti
psicologici e le maschere visibili dell'omosessuale, ma cercare di definire e sviluppare un modo di
vita»73. Quanto appena esposto è espresso qui nella maniera più evidente: non solo la costruzione di
una soggettività etica rifugge di basarsi su un codice di norme morali già definite, configurandosi
piuttosto come una specifica tipologia di relazione con sé; ma questo lavoro di costruzione è al
tempo stesso la proposta politica di una comunità .74 L'idea di comune proposta da Foucault si
configura così come costruzione collettiva di una forma di vita attraverso la definizione di un'etica
della relazione con sé e con l'altro; e appare, proprio in quanto esito di un lavoro collettivo, come
costitutivamente dinamica, in discussione, procedendo per accumulazione, e non per livellamento,
delle differenze individuali75. A rigore, ciò che Foucault intende e cerca, in maniera più o meno
definita, di pensare negli ultimi anni della sua vita, è in definitiva la natura dei processi collettivi di
soggettivazione, implicati e anzi reclamati dalla natura sempre comune delle soggettivazioni
individuali, o, in altre parole, «la lenta invenzione del comune come spazio sempre rielaborato delle
soggettivazioni e dei modi di vita»76.
Questo comune, e le pratiche che lo costituiscono, sono per Foucault irrimediabilmente
storiche. Seguendo la sua peculiare concezione di storia e potere che abbiamo già evocato per
sommi capi, ciò significa che esse risultano sempre situate in un certo diagramma di relazioni di
potere e di conseguenti resistenze. Esse risultavano già centrali nella definizione, per così dire
filologica, del concetto di estetica dell'esistenza nelle sue fonti greche; ma, più in generale, appare
evidente come sia propriamente impensabile, per Foucault, una qualunque relazione umana che si
ponga fuori da questa dinamica, poiché significherebbe porsi fuori dalla storia in quanto tale.
Quest'ultima possibilità, esplicitamente teorizzata e auspicata da Benjamin – e che anzi costituisce
l'architrave della sua prospettiva filosofico-politica – è in altre parole rigorosamente esclusa dal
filosofo francese. Come spiega lucidamente Agamben, «[c]iò che Foucault non sembra vedere, […]
è la possibilità […] di una zona dell'etica del tutto sottratta ai rapporti strategici, di un Ingovernabile

72 Id., De l'amitié comme mode de vie, Gai pied, n. 25, Aprile 1981, pp. 38-39, ripubblicato in Dits et écrits. vol. IV,
Gallimard, Paris 1994, p. 165, trad. mia.
73 Ibidem, trad. mia.
74 Commenta Revel: «Un modo di vita, ci dice in effetti Foucault, è un'etica – vale a dire una maniera di stare insieme.
[…] Ora questa costituzione […] è alla lettera la sperimentazione di una polis, vale a dire di una politica. L'etica, in
Foucaut, non è ovviamente né un riflusso morale, né un riflusso “individualista” o “egoista”: è invece, apertamente,
la problematizzazione di un comune che si costituisce a partire dalle differenze e le mette in gioco attraverso modi
inediti di condurre la propria esistenza. E la condotta della propria esistenza è qui sempre inclusiva di una relazione
agli altri»: J. Revel, Identità, natura, vita: tre decostruzioni biopolitiche, op. cit., p. 139. Corsivo dell'autrice.
75 «Il modo di vita è precisamente la messa in comune delle differenze e la costruzione, a partire da questo tessuto
differenziale, di qualcosa che abbia a che fare con il comune – inteso come condivisione delle differenze»: ivi, p.
138.
76 Ivi, p. 147.
che si situa al di là tanto degli stati di dominio che delle relazioni di potere» 77. Ciò che li
differenziava nelle loro concezioni della storia sfocia così, coerentemente, in due visioni della
comunità opposte: da un lato, una comunità umana integrale raggiungibile solo interrompendo il
ciclo storico in cui l'umanità è imprigionata, ponendo fine alla violenza mitica e producendo così
una nuova esperienza storica, una dimensione al di là della storia in cui infine sperimentare una
forma realmente emancipata di convivenza; dall'altro, un processo di costruzione collettiva di un
comune sempre preso in una relazione con i regimi di potere che caratterizzano la contingenza
storica, una soggettivazione comune che disegna i contorni di un'etica e di una politica in continua
ridefinizione; e le migliori soggettivazioni collettive, i divenire-comuni meglio allestiti, saranno
quelli in cui l'azione del potere, mai del tutto eliminabile, viene ridotta ai minimi termini. Solo così,
tenendo insieme etica, libertà e potere, diviene possibile comprendere tutte le implicazioni di una
formula foucaultiana che riassume per intero questo discorso: «la libertà è la condizione ontologica
dell'etica. Ma l'etica è la forma riflessa che prende la libertà»78.
Questa identificazione di politico ed etico, che racchiude per sommi capi l'ultimo testamento
filosofico di Foucault e la sua idea di comunità, non perviene così a nessun esito impolitico: il
rifiuto dell'impoliticità è anzi, come si è visto, parte delle sue condizioni preliminari. La
dimensione, per così dire ultra-storica e messianica, da cui riguardare al fenomeno del potere come
a un qualcosa da cui ci si è definitivamente liberati, è per Foucault una mera illusione anti-storica.
Piuttosto, si tratterà di pensare a forme di vita che perfezionino al massimo l'arte di non essere
(troppo) governati, predisponendo un'etica (e dunque una politica) che siano adatte allo scopo. Il
compito che Foucault assegna alle soggettività non è in altre parole quello di ricercare la loro
umanità e la loro libertà in un al di là della storia dove il conflitto è infine sospeso, ma di disegnarne
una figura specifica e non definitiva e di assumersi l'alto onere di preservarla e di svilupparla.

77 G. Agamben, L'uso dei corpi, op. cit., p. 148.


78 Id., L' éthique du souci de soi comme pratique de la liberté, in Concordia. Revista interacional de filosofia, n. 6,
Luglio-Dicembre 1984, pp. 99-116, ripubblicata in id., Dits et écrits. vol. IV, Gallimard, Paris 1994, p. 712, trad.
mia.

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