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di Glauco Giostra
(Ordinario di diritto processuale penale all'Università la Sapienza)
(estratto da Glauco Giostra, Commentario al processo penale minorile,
2010, Giuffrè)
I. Le fonti normative. —
3 Non pare possa essere accolta, pertanto, la tesi di chi, sulla base della
considerazione che « né la legge di delegazione né il d.p.r. 448/1988
contengono disposizioni abrogative espresse della normativa » dettata
dal r.d.-l. 1404/1934, ritiene che questa rimanga « in vigore nelle parti
non incompatibili con il codice di procedura ordinaria e con le disposizioni
sul processo penale minorile » (G. SPANGHER, in M. CHIAVARIO, 1994, 25). Il
r.d.-l. 1404/1934, istitutivo del tribunale per i minorenni, ha un contenuto
normativo composito, annoverando disposizioni di carattere
ordinamentale, processuale penale, amministrativo e civile: non v'è
dubbio che, in mancanza di espressa disposizione abrogatrice, esso sia
ancora in vigore. Ma tutte le disposizioni a contenuto processuale del r.d.-
l. 1404/1934 debbono ritenersi abrogate in forza dell'art. 15 disp. prel.
c.c., essendo l'intera materia del procedimento penale minorile
regolamentata dal nuovo d.p.r. 448/1988, sia pure in parte per
relationem. Non a caso, del resto, proprio nel r.d.-l. 1404/1934, si
stabiliva che, in quanto non diversamente ivi disposto, si continuassero ad
osservare « le norme dei codici, delle leggi e dei regolamenti in vigore »
(art. 34). Il legislatore del 1934, non volendo abrogare la normativa
previgente, aveva correttamente ritenuto di doverlo stabilire in modo
espresso: sull'implicito presupposto che questa altrimenti si sarebbe
dovuta ritenere abrogata, essendosi provveduto a ridisciplinare la
materia. Compito cui ancor più inequivocabilmente era impegnato il
legislatore delegato del 1988, al quale il preambolo dell'art. 3 l.d.
richiedeva « di disciplinare il processo a carico di imputati minorenni al
momento della commissione del reato ». L'inequivoco tenore
dell'espressione normativa assume ancor più forte significato, se si tiene
conto che essa identifica l'ambito di una specifica delega (G. CONSO, L.
pen. 88, 406 ss.; G. LA GRECA, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, 1990,
9 ss.), mentre inizialmente costituiva contenuto di una delle direttive (n.
87) riguardanti la riforma del codice di procedura penale (per ulteriori
ragguagli in argomento, cfr. G. GIOSTRA, in G. GIOSTRA, 2001, 4 s.).
5 A mente dell'art. 4 comma 4 d.lgs. 274/2000 anche per i reati attribuiti
alla cognizione del giudice di pace « rimane ferma la competenza del
tribunale per i minorenni », il quale, quando giudica tali reati (per il cui
tassativo catalogo cfr. art. 4 d.lgs. 274/2000) deve osservare le
disposizioni del titolo secondo (artt. 52-62), « nonché, in quanto
applicabili, le disposizioni di cui agli articoli 33, 34, 35, 43 e 44 » del
medesimo decreto (art. 63 comma 1 d.lgs. 274/2000). Stando
all'inequivoco tenore letterale dell'ultima espressione normativa, le
disposizioni del titolo secondo, dedicato alle sanzioni, dovrebbero
operare sempre nel settore minorile, purché, naturalmente, si verta su
reati ricadenti nella giurisdizione di pace, mentre le altre solo previa
verifica della loro compatibilità con il sistema processuale minorile. Una
siffatta opzione legislativa, peraltro, suscita non pochi problemi applicativi
(v. infra, § VII).
3 A tal fine il legislatore ha rimesso agli operatori (a tutti, non soltanto al
giudice: cfr., in tal senso, F. PALOMBA, 2002, 76; G. SPANGHER, in M.
CHIAVARIO, 1994, 31) della giustizia penale minorile il compito di adottare
ogni accorgimento, in sede di applicazione della norma, che consenta,
senza trasfigurarne la portata, di individualizzarla, adeguandola «
alla personalità e alle esigenze educative del minorenne ». Questa
espressione deve intendersi come una specie di endiadi normativa, non
essendo ipotizzabili accorgimenti che, adeguati alla personalità del
minore, non lo siano alle sue esigenze educative; e viceversa. Con essa,
verosimilmente, si è voluto imporre all'operatore chiamato ad applicare
disposizioni del processo penale minorile uno sforzo di adattamento alla
personalità dell'imputato, per tutelarne le esigenze educative.
L'obbiettivo, naturalmente, non può essere quello di promuovere, con
studiate modalità attuative delle norme processuali, l'educazione o,
peggio ancora, la rieducazione del minorenne. Oltre che del tutto
inidonee, le disposizioni del processo penale non possono essere usate
per perseguire obiettivi di emenda e di recupero individuale e sociale
(v. infra, § V, 1 e 2). Un tale uso dello strumento processuale, sarebbe,
prima ancora che istituzionalmente improprio, politicamente pericoloso:
gli indizi di reato fungerebbero da presupposto per interventi educativi
estemporanei, svincolati da garanzie e sottratti a qualsiasi controllo. Vi è
un solo modo corretto per la norma processuale di farsi carico delle
esigenze educative del minore: quello di non pregiudicarle (c.d. principio
di minima offensività). E la seconda parte del primo comma vuol
significare proprio questo: chi è chiamato ad applicare la norma
processuale penale minorile ha il potere-dovere di fletterla, purché non
ne comprometta la funzionalità istituzionale (v. infra, § V, 2), per
salvaguardare il percorso evolutivo del minore.
1 Per una parte della dottrina, il processo a carico dei minorenni, sia pure
utilizzato come risorsa estrema e con le modulazioni applicative rese
necessarie dalle caratteristiche personologiche dell'imputato, partecipa, a
tutti gli effetti, delle connotazioni e delle finalità tipiche della giurisdizione
penale (cfr. G. ASSANTE-P. GIANNINO-F. MAZZIOTTI, 2000, 258; L. PEPINO, Esp.
giust. min., 1989, 10;A. PRESUTTI, in E. PALERMO FABRIS-A. PRESUTTI, 2002,
307 ss.; in questo senso, v. anche E. ROLI, Quest. giust. 89, 889 ss.).
Secondo un opposto, non meno consistente orientamento, il processo
costituisce una particolare forma di intervento educativo; uno strumento
“forte” ed estremo per propiziare una positiva evoluzione della
personalità del minorenne (cfr. G. FUMU, in G. FUMU, 1991, 71 ss.;A.C.
MORO, 2008, 545 ss.; F. PALOMBA, 2002, 86). Non manca neppure chi,
ponendosi in una posizione intermedia, riconosce pari cittadinanza, nel
processo minorile, all'istanza repressiva ed a quella educativa (G.
SPANGHER, in M. CHIAVARIO, 1994, 30 s.). Come è stato efficacemente
osservato, il processo penale minorile rimane da sempre, in pericoloso
bilico funzionale tra repressione ed educazione (L. PEPINO, in P. PAZÈ, 1989,
10). Questa ambiguità vocazionale del rito minorile si fa ancor più
accentuata se si tiene conto che su di essa si riflette il plurivoco impiego
del termine educazione. Ciò che pertanto deve essere preliminarmente
chiarito, quando si ricollega al processo penale minorile una finalità
educativa, è se con questa si allude ad un obbiettivo di recupero in chiave
rieducativa del minorenne ovvero alla necessità di adottare ogni cautela
per evitare che la vicenda processuale comprometta, od ostacoli il
processo evolutivo della sua personalità. Soltanto successivamente è
possibile stabilire se l'esigenza educativa, nell'accezione precisata, debba
avere valore prevalente su quella dell'accertamento dei fatti e delle
responsabilità.
1 Si è già osservato come la giustizia penale minorile debba procurare, nel
suo momento applicativo, di scongiurare ogni evitabile pregiudizio
derivante dall'impatto del processo penale sulla personalità in evoluzione
dell'imputato. Va aggiunto che il legislatore non si prefigge di conseguire
tale obbiettivo soltanto con la flessibilità applicativa delle regole
processuali (cfr. supra, § V), ma anche, e pregiudizialmente, attraverso un
costante sforzo di coinvolgimento dell'imputato alla vicenda giudiziaria,
favorendone una consapevole e corretta percezione. Il giudice, infatti, è
tenuto a norma del secondo comma ad illustrare « all'imputato il
significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza,
nonché il contenuto e le ragioni etico-sociali delle decisioni ». Chiari e
condivisibili gli intendimenti legislativi, anche se la lettera della norma
sembra peccare per difetto e per eccesso. Dal primo punto di vista,
sarebbe forse opportuno non limitare l'onere illustrativo del
giudice alle attività che si tengono in presenza dell'imputato. È proprio
con riguardo a ciò che si è svolto in sua assenza, infatti, che questi è
maggiormente interessato a sapere, anche per meglio comprendere
quanto cade sotto la sua diretta percezione, essendo il processo
un continuum. Ovviamente, nei casi in cui l'assenza del minore all'atto è
stabilita nel suo interesse (cfr., ad esempio, artt. 31 comma 2 e 33 comma
4), si tratterebbe di rappresentare all'imputato la funzione e il significato
dell'attività svolta, senza offrire resoconti informativi che possono
vanificare le ragioni dell'allontanamento. Comunque, anche se la norma
non prescrive di spiegare all'imputato il significato delle attività tenute in
sua assenza, sarebbe auspicabile e più in linea con lo spirito della norma
stessa e dell'intero ordinamento processuale minorile, che il giudice si
adoperi affinché il minorenne imputato abbia una corretta percezione
complessiva della propria vicenda giudiziaria. Più di tanti piccoli
espedienti prescrizionali o indulgenziali, ciò che davvero potrebbe
costituire un elemento positivo di crescita personale è la possibilità per il
minorenne di acquisire, proprio attraverso l'esperienza processuale che lo
riguarda, una migliore e più consapevole “propriocezione” sociale e
giuridica: affinché si senta non oggetto di accertamento giudiziario o di
non richieste sollecitudini rieducative, ma soggetto cui competono
responsabilità e diritti. Ed in questa chiave va letta la parte meno felice
della norma contenuta nel secondo comma dell'articolo in commento, là
dove impone al giudice di illustrare all'interessato « il contenuto e le
ragioni etico-sociali delle decisioni». Va evitato che l'assolvimento di
questo compito inclini verso atteggiamenti moralistici. Nulla è più lontano
dalle esigenze educative del minore di un freddo dispositivo
accompagnato da un paternalistico sermone. Il giudice deve limitarsi ad «
esporre all'imputato le ragioni dell'ordinamento e non le convinzioni
proprie, o i propri pregiudizi, o le proprie speranze » (L. PEPINO, in P.PAZÈ,
1989, 17).