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PRINCÌPI GENERALI DEL PROCESSO MINORILE

 
di Glauco Giostra
 
(Ordinario di diritto processuale penale all'Università la Sapienza)
(estratto da Glauco Giostra, Commentario al processo penale minorile,
2010, Giuffrè)
 

Sommario: I. Le fonti normative. — II. (segue): la normativa


internazionale. — III. Principio di sussidiarietà. — IV. Principio di
adeguatezza applicativa. — V. Natura e funzione del processo penale
minorile. — VI. Il dovere del giudice di illustrare il significato
dell'intervento giurisdizionale. — VII. Reati di competenza del giudice
di pace e processo minorile.

I. Le fonti normative. —

1 Il decreto in commento non è normativamente autosufficiente per il


governo del procedimento penale a carico di minorenni: si limita a
disciplinare istituti e attività processuali che debbono essere modulati
sulla peculiarità della condizione minorile, tracciando le linee qualificanti
e irrinunciabili di un microsistema. Per il resto, rimanda all'impianto
sistematico del codice di procedura penale, del quale si dice “tributario”
(v. infra, § III). Ciò, in perfetta coerenza con la sua matrice genetica. Il
legislatore delegante del 1987 impegnava il Governo, infatti, a
predisporre per gli imputati minorenni un procedimento disciplinato «
secondo i princìpi generali del nuovo processo penale, con le
modificazioni ed integrazioni imposte dalle particolari condizioni
psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua
educazione », nonché dall'attuazione degli specifici criteri analiticamente
enunciati (art. 3 l.d.).
2 In linea con le indicazioni del delegante, la proposizione di esordio del
decreto prevede che nel procedimento a carico di minorenni si osservano
le disposizioni del decreto medesimo e, « per quanto da esse non
previsto, quelle del codice di procedura penale ». Non si dice “per quanto
da esse o da altre disposizioni non previsto”, secondo una formula di
salvezza adottata per il procedimento davanti al tribunale in
composizione monocratica (cfr. art. 549 c.p.p.: « per tutto ciò che non è
previsto nel presente libro o in altre disposizioni »). La formula impiegata
vuol anche significare che, almeno nell'impianto originario della riforma
processuale del 1988, l'universo normativo che presiede al processo
penale minorile è un universo chiuso: si deve ritenere, cioè, che la
disciplina risultante dalla complessa intramatura delle disposizioni dettate
dal d.p.r. 448/1988 con quelle del codice di procedura penale abbia una
sua autarchica compiutezza. Ogni problema attinente al procedimento
penale a carico dei minorenni va, dunque, inquadrato e risolto all'interno
di tale perimetro normativo, salvo, naturalmente, successivi
provvedimenti legislativi “estravaganti”, diretti in modo espresso ad
incidere sulla materia (v. infra, 4 e 5): le disposizioni che, prima
dell'entrata in vigore del d.p.r. 448/1988, concorrevano a disciplinare il
processo penale minorile, devono intendersi implicitamente abrogate.

3 Non pare possa essere accolta, pertanto, la tesi di chi, sulla base della
considerazione che « né la legge di delegazione né il d.p.r. 448/1988
contengono disposizioni abrogative espresse della normativa » dettata
dal r.d.-l. 1404/1934, ritiene che questa rimanga « in vigore nelle parti
non incompatibili con il codice di procedura ordinaria e con le disposizioni
sul processo penale minorile » (G. SPANGHER, in M. CHIAVARIO, 1994, 25). Il
r.d.-l. 1404/1934, istitutivo del tribunale per i minorenni, ha un contenuto
normativo composito, annoverando disposizioni di carattere
ordinamentale, processuale penale, amministrativo e civile: non v'è
dubbio che, in mancanza di espressa disposizione abrogatrice, esso sia
ancora in vigore. Ma tutte le disposizioni a contenuto processuale del r.d.-
l. 1404/1934 debbono ritenersi abrogate in forza dell'art. 15 disp. prel.
c.c., essendo l'intera materia del procedimento penale minorile
regolamentata dal nuovo d.p.r. 448/1988, sia pure in parte per
relationem. Non a caso, del resto, proprio nel r.d.-l. 1404/1934, si
stabiliva che, in quanto non diversamente ivi disposto, si continuassero ad
osservare « le norme dei codici, delle leggi e dei regolamenti in vigore »
(art. 34). Il legislatore del 1934, non volendo abrogare la normativa
previgente, aveva correttamente ritenuto di doverlo stabilire in modo
espresso: sull'implicito presupposto che questa altrimenti si sarebbe
dovuta ritenere abrogata, essendosi provveduto a ridisciplinare la
materia. Compito cui ancor più inequivocabilmente era impegnato il
legislatore delegato del 1988, al quale il preambolo dell'art. 3 l.d.
richiedeva « di disciplinare il processo a carico di imputati minorenni al
momento della commissione del reato ». L'inequivoco tenore
dell'espressione normativa assume ancor più forte significato, se si tiene
conto che essa identifica l'ambito di una specifica delega (G. CONSO, L.
pen. 88, 406 ss.; G. LA GRECA, in G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, 1990,
9 ss.), mentre inizialmente costituiva contenuto di una delle direttive (n.
87) riguardanti la riforma del codice di procedura penale (per ulteriori
ragguagli in argomento, cfr. G. GIOSTRA, in G. GIOSTRA, 2001, 4 s.).

4 Ancorché precedenti la riforma del 1988, devono ritenersi in vigore,


invece, tutte le disposizioni funzionalmente collegate al procedimento
penale a carico dei minorenni. Oltre alle disposizioni civili e
amministrative, anche quelle di carattere ordinamentale (cfr., ad
esempio, artt. 49 ss. ord. giud.), sostanziale (cfr., ad esempio, artt. 169
c.p. e 19 r.d.-l. 1404/1934, in tema di perdono giudiziale) o penitenziario
(cfr. artt. 30-ter e 47-ter ord. penit. che si applicano anche ai minorenni in
forza dell'art. 79 ord. penit.). Per quanto concerne le disposizioni
penitenziarie, in particolare, bisogna richiamare la nota bipartizione tra
esecuzione formale ed esecuzione materiale, cioè tra esecuzione del
comando ed esecuzione del contenuto del comando (cfr. F. CORBI, 1992, 9
s.). La prima, riguardante le vicende relative al titolo esecutivo, fa
propriamente parte della disciplina del processo (F. CORBI, 1992, 28) e
deve intendersi pertanto ridisciplinata dal d.p.r. 448/1988 (che peraltro,
sul punto, si limita a recepire la normativa del codice di procedura
penale), con effetto implicitamente abrogativo delle disposizioni
precedenti in subiecta materia. La seconda, concernente soprattutto
l'esecuzione penitenziaria della pena, è estranea al processo penale in
senso stretto e quindi all'ambito della riforma che lo ha riguardato: le
norme previgenti vanno pertanto considerate tuttora in vigore;
segnatamente, quelle della legislazione penitenziaria, che sono
applicabili al minorenne « fino a quando non sarà provveduto con
apposita legge » (art. 79 ord. penit.).

5 A mente dell'art. 4 comma 4 d.lgs. 274/2000 anche per i reati attribuiti
alla cognizione del giudice di pace « rimane ferma la competenza del
tribunale per i minorenni », il quale, quando giudica tali reati (per il cui
tassativo catalogo cfr. art. 4 d.lgs. 274/2000) deve osservare le
disposizioni del titolo secondo (artt. 52-62), « nonché, in quanto
applicabili, le disposizioni di cui agli articoli 33, 34, 35, 43 e 44 » del
medesimo decreto (art. 63 comma 1 d.lgs. 274/2000). Stando
all'inequivoco tenore letterale dell'ultima espressione normativa, le
disposizioni del titolo secondo, dedicato alle sanzioni, dovrebbero
operare sempre nel settore minorile, purché, naturalmente, si verta su
reati ricadenti nella giurisdizione di pace, mentre le altre solo previa
verifica della loro compatibilità con il sistema processuale minorile. Una
siffatta opzione legislativa, peraltro, suscita non pochi problemi applicativi
(v. infra, § VII).

II. (segue): la normativa internazionale.

1 Il rapporto tra convenzioni internazionali e disposizioni sul processo


penale minorile ripropone l'annoso problema della collocazione,
nella gerarchia delle fonti, della norma internazionale rispetto a quella
interna (per una sintesi del dibattito in argomento, v.   B. CONFORTI, 2006,
276 ss.), ma con specificità che discendono dalla particolare
strutturazione della matrice legislativa del vigente rito minorile (l.d.
81/1987). Il Governo della Repubblica, infatti, era delegato « a disciplinare
il processo a carico di imputati minorenni secondo i princìpi del nuovo
processo penale » (così, il preambolo dell'art. 3 l.d.), che, a sua volta,
doveva « adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate
dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale » (così, il
preambolo dell'art. 2 l.d.). Queste norme, pertanto, dovevano avere, per
il legislatore delegato minorile, la stessa efficacia cogente della norma
delegante (cfr. G. CONSO, Giust. pen. 91, III, 580). Al fine di costituire un
limite alla legislazione interna, peraltro, non sarebbe stato sufficiente
l’esistenza di un obbligo internazionale, dato che la norma delegante
prevedeva espressamente la necessità di una ratifica. Questo elemento
sembrerebbe indicare che i soli trattati internazionali stipulati in forma
solenne, ai sensi dell’art. 80 della Cost., costituivano un limite vincolante
per il legislatore delegato minorile. Ad essere rilevante, pertanto,
è il momento della ratifica del testo convenzionale da parte dell'Italia. Se
la ratifica è intervenuta prima dell'entrata in vigore del d.p.r. 448/1988, la
normativa internazionale ha valore gerarchicamente sovraordinato
rispetto alle disposizioni minorili contenute in tale decreto, che, in base al
combinato disposto dei preamboli degli artt. 2 e 3 l.d., devono dare ad
essa attuazione: in caso di contrasto, quindi, la normativa interna è
costituzionalmente censurabile ex art. 76 Cost. Se la ratifica è intervenuta
entro tre anni dall'entrata in vigore del d.p.r. 448/1988 (24 ottobre 1989 -
24 ottobre 1992), il problema va impostato e risolto nello stesso modo
tutte le volte che il Governo abbia, successivamente alla ratifica, emanato
« disposizioni integrative e correttive » con lo strumento del decreto
legislativo in forza dell'art. 7 l.d.: tali disposizioni non possono porsi in
contrasto con le convenzioni internazionali ratificate ed eventuali
dissonanze configurerebbero ipotesi di violazioni della delega,
denunciabili alla Corte costituzionale. Se la ratifica è intervenuta dopo il
triennio di “ultrattività” della delega (o anche durante il triennio, ma con
legge ordinaria e quindi al di fuori dei vincoli della delega), il problema
dell'eventuale contrasto tra disposizione minorile e fonte internazionale
si pone nei termini consueti in cui si prospetta il rapporto tra normativa
ordinaria interna e obblighi internazionali(v., infra, 2).

2 Gli obblighi internazionali previgenti al momento dell’esercizio della


delega de qua, ove diversi dalle «convenzioni internazionali ratificate
dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale», e tutti gli
obblighi internazionali successivi all’esercizio medesimo costituiscono un
vincolo per il legislatore processuale penale minorile – come per il
legislatore ordinario in genere – a norma dell’art. 117 comma 1 Cost. Al
sistema processuale minorile va dunque applicato il regime previsto in via
generale da questa norma, così come precisato, recentemente, dalla
giurisprudenza della Corte costituzionale (v., in particolare, le sentenze n.
348 e n. 349 del 2007, sulle quali cfr. E. CANNIZZARO, R. d. internaz. 08, 138
ss.; M. LUCIANI, Corr. giur. 08, 201 ss.). 

III. Principio di sussidiarietà.

1 La prima proposizione normativa dell'articolo enuncia il principio di


sussidiarietà, che informa l'ordinamento processuale minorile:
soccorrono, per quanto non previsto dal d.p.r. 448/1988, le disposizioni
del codice di procedura penale. Il principio risulta chiaro negli
intendimenti, ma di problematica applicazione. È necessario precisare,
preliminarmente, se il rinvio operato alle disposizioni del codice debba
intendersi come strumento di ricezione materiale della normativa del
1988 ovvero come rinvio formale al sistema processuale penale vigente al
momento della celebrazione del giudizio minorile. Secondo la prima
impostazione, le norme del codice di procedura penale applicabili nel rito
a carico di minorenni avrebbero una sorta di « doppia vigenza », per cui «
potrebbe pensarsi che ogni intervento (modificativo, abrogativo,
interpretativo, o in sede di valutazione di legittimità costituzionale)
operato sulla norma sussidiaria assunta non esplichi di per sé efficacia
automatica nel processo penale minorile » (così, F. PALOMBA, 2002, 69,
ove, peraltro, si nega che ciò implichi ricezione materiale delle
disposizioni codicistiche). Il sistema processuale penale sarebbe
governato dalle disposizioni del decreto in commento e, per quanto da
esse non previsto, dalle norme del codice di procedura penale del 1988,
nella loro formulazione originaria. Secondo l'altra impostazione, invece, il
rinvio operato dall'art. 1 dovrebbe intendersi riferito al codice di
procedura penale nell'assetto vigente al momento in cui se ne invoca, in
via succedanea, l'applicazione nel rito minorile. Questa seconda linea
interpretativa sembra preferibile. Le comuni matrici culturali e politiche
del codice di procedura penale e del sistema processuale penale minorile,
che hanno trovato traduzione normativa in un'unica legge delega nel
1987, fanno ritenere che il legislatore, con l'articolo in commento, si sia
preoccupato di assicurare un costante, vivificante collegamento del rito
minorile a quello per adulti. Il rinvio non obbedisce solo all'ovvia esigenza
economica di evitare di trascrivere nell'ordinamento processuale minorile
le disposizioni del codice di procedura penale ad esso applicabili.
Persegue, principalmente, l'obbiettivo di mantenere — attraverso il
“cordone ombelicale” normativo assicurato dal primo comma dell'art. 1
— uno stretto contatto tra queste due espressioni della giurisdizione
penale ordinaria, le cui uniche differenze dovrebbero essere quelle
imposte dalla peculiare realtà dell'imputato minorenne. La tesi del
recepimento materiale, invece, condannerebbe i due sistemi a muoversi
lungo linee inevitabilmente divaricate, in quanto il quadro di riferimento
per il rito minorile rimarrebbe fermo nel tempo, mentre la “giustizia
penale per adulti” seguirebbe propri itinerari evolutivi in grado di
mutarne, anche in modo significativo, i caratteri connotativi. Oltretutto, a
seguire questa impostazione, rimarrebbe insoddisfatto uno degli
obbiettivi primari perseguiti con il principio di sussidiarietà. Infatti, come è
stato inequivocabilmente chiarito nel corso dei lavori parlamentari, la
norma espressa dalla prima parte dell'art. 1 comma 1 « non è di mero
rinvio », intendendo affermare « che il processo minorile ha regole e
valenze sue proprie, ma è e rimane un processo con tutte le garanzie
ordinarie » riconosciute ai maggiorenni (Rel. prog. prel., 210; v. anche,
non meno perentoriamente, 209). Ebbene, ove si accedesse alla tesi del
rinvio materiale alle norme del codice di procedura penale del 1988, in
presenza di uno sviluppo in senso garantistico di questa normativa di
riferimento, il rito minorile, astoricamente legato all'impianto originario
della stessa, assicurerebbe un minus di garanzie. Il risultato, censurabile
sia sul piano sistematico che su quello costituzionale, appare un'ulteriore
ragione per dubitare della validità della premessa.

2 L'espressione regolativa del rapporto di sussidiarietà (« per quanto da


esse non previsto ») presente nell'articolo in commento e nello speculare
art. 1 disp. att., presa alla lettera, sembra governare soltanto la relazione
tra norme. In realtà, governa la relazione tra sistemi, sancendo una sorta
di “autonomia parassitaria” dell'ordinamento processuale minorile, nei
confronti di quello per adulti. La formula impiegata, infatti, è quella cui il
legislatore di solito ricorre per denotare un microcosmo normativo
autonomo, ancorché, come in questo caso, largamente tributario di altro,
più compiuto sistema (cfr., per una tecnica di rinvio analoga, art. 549
c.p.p. o art. 2 d.lgs. 274/2000). Non è stata scelta una formulazione del
tipo di quella adottata nell'art. 598 c.p.p. (« si osservano le disposizioni
[…], salvo quanto previsto dagli articoli seguenti »). Ciò avrebbe
comportato che il sistema di primo riferimento sarebbe dovuto essere il
codice di procedura penale, sia pure con i singoli adattamenti dettati dalle
disposizioni del d.p.r. 448/1988. In base alla tecnica di rinvio seguìta,
invece, l'operatore giudiziario minorile deve prioritariamente inquadrare
e risolvere il problema procedurale sulla base di queste disposizioni,
anche per quanto sono in grado di esprimere nel loro collegamento
sistematico; soltanto dopo, se non è possibile ricavare per tale via la
risposta cercata, si deve succedaneamente ricorrere al codice di
procedura penale. Questo significa: sul piano ordinamentale, che
nell'ambito della giurisdizione penale viene riconosciuto un sistema
processuale minorile autonomo, sebbene delineato con una tessitura a
maglie larghe, in grado di tracciarne soltanto le connotazioni salienti; sul
piano interpretativo, che la sola presenza o assenza tra le disposizioni
minorili di una norma che incida sulla medesima materia regolata da una
norma del codice di procedura penale non basta di per sé,
rispettivamente, ad escludere o ad imporre l'applicazione di
quest'ultima nel processo minorile, secondo un meccanico automatismo.

3 In presenza di una specifica disposizione minorile, infatti, è necessario


verificare se la previsione si faccia effettivamente carico di disciplinare in
modo alternativo l'intera materia su cui cade o se non intenda essere
soltanto additiva o parzialmente modificativa rispetto a quella
codicistica. L'art. 13, ad esempio, dedicato al « divieto di pubblicazione e
di divulgazione » sembrerebbe voler autonomamente regolamentare la
materia dei limiti alla divulgazione di notizie processuali, derogando a
quanto dispone l'art. 114 c.p.p., dedicato appunto al « divieto di
pubblicazione degli atti ». In realtà, l'art. 13 si preoccupa soltanto di
garantire l'anonimato dell'imputato minorenne, peraltro non senza
problemi di raccordo con la normativa “ordinaria” (v. amplius, sub art. 13,
§ II). Nulla legittima a ritenere che nel processo minorile il legislatore
abbia inteso rinunciare alla tutela della riservatezza investigativa, della
genuina formazione del convincimento giudiziale o degli altri interessi
extraprocessuali, assicurata dall'art. 114 c.p.p.
4 Venendo alla seconda situazione ipotizzabile, non qualsiasi “vuoto”
normativo autorizza a mutuare la disciplina del codice di procedura
penale: è necessario preliminarmente accertare che non vi sia una norma
enucleabile dal sistema minorile, che vi si opponga. Quando il legislatore
ha inteso consegnare la forza derogatoria di un sottoinsieme normativo
esclusivamente al contenuto espresso dalle singole disposizioni di cui si
compone, l'ha prescritto con maggiore puntualità: disciplinando il
meccanismo della citazione diretta in giudizio, ad esempio, ha precisato,
in una clausola di chiusura, che « per tutto ciò che non è espressamente
previsto si osservano le disposizioni contenute nel libro settimo, in quanto
compatibili » (art. 555 comma 5 c.p.p.). Con norme così strutturate,
quando nell'ordinamento “satellitare” manca una disposizione espressa,
si deve fare senz'altro ricorso al sistema principale di riferimento, salvo
verificare che quanto da esso previsto sia compatibile con il sottosistema
mutuatario. Nel d.p.r. 448/1988, invece, il legislatore ha inteso
disciplinare diversamente entrambi i passaggi. Non basta appurare la
carenza di una disposizione ad hoc per giustificare il rinvio al codice di
procedura penale: si deve verificare in via preliminare che non vi siano
norme univocamente ricavabili da un'interpretazione sistematica
dell'ordinamento processuale minorile, che in tutto o in parte si
oppongono ad un recepimento della normativa codicistica. Volendo fare
soltanto un esempio: nel d.p.r. 448/1988 manca un'autonoma disciplina
del giudizio abbreviato, rito speciale che trova sicuramente applicazione
nella giurisdizione penale per i minorenni (arg. ex art. 25 comma 1). Ciò,
peraltro, non è sufficiente a far ritenere integralmente “importabile” nel
processo minorile la disciplina prevista dal codice. Non lo è, in particolare,
la norma secondo cui « il giudice dispone che il giudizio si svolga in
pubblica udienza quando ne fanno richiesta tutti gli imputati » (art. 441
comma 3 c.p.p.). Da un esame sistematico del d.p.r. 448/1988, infatti, si
evince con sufficiente univocità che, ribaltando il rapporto pubblicità-
segretezza del processo per adulti, nell'ordinamento processuale penale
minorile la pubblicità costituisce l'eccezione (cfr. art. 33 commi 1 e 2).
Pertanto, l'unico caso di pubblicità attualmente previsto — quello relativo
alla pubblicità dell'udienza dibattimentale richiesta dall'imputato
ultrasedicenne — è insuscettibile di applicazione analogica (cfr. L.
CARACENI, 2000, 1040). In tutti gli altri casi, compreso quello del giudizio
abbreviato che, stando alla normativa del codice, ammette la possibilità di
svolgimento in forma pubblica, nel processo minorile è vietata la
divulgazione con qualsiasi mezzo — anche la pubblicità dell'udienza — «
di notizie o immagini idonee a consentire l'identificazione del minorenne
comunque coinvolto nel procedimento » (art. 13 comma 1), con l'unica
significativa deroga, che conferma il principio, della celebrazione del
dibattimento a porte aperte (art. 13 comma 2) a seguito di richiesta
dell'imputato ultrasedicenne (art. 33 comma 2).

5 Le disposizioni del codice di procedura penale, in conclusione, non sono


“traslabili” nell'ordinamento processuale minorile quando vertono su
materia in ordine alla quale questo o contempla una disciplina ad hoc o
esprime, sistematicamente, un propria regola. Quello indicato
appare  l’unico  modo metodologicamente corretto di intendere il
principio di sussidiarietà. Va da sé che la sua linearità logico-giuridica
debba poi fare i conti con delicati problemi interpretativi, potendo essere
tutt’altro che agevole stabilire se la singola disposizione del d.p.r.
448/1988 intenda esaustivamente regolare l’intera materia cui inerisce
ovvero se, pur in difetto di una prescrizione che disciplini una certa
fattispecie processuale, sia incontrovertibilmente enucleabile dal sistema
una norma ad essa applicabile. L’unico sussidio ermeneutico, nei casi
dubbi, potrebbe essere costituito dal criterio secondo cui l’interprete
deve sempre privilegiare una chiave ricostruttiva costituzionalmente
orientata: in particolare, nell’ambito problematico in esame, tra più
ricostruzioni esegeticamente plausibili dei rapporti tra d.p.r. 448/1988 e
codice di procedura penale, l’interprete deve escludere quella la cui
adozione porrebbe fondati problemi di costituzionalità.

6 Una volta accertato che, per difetto di specifica disposizione o di regola


desumibile dall'intero ordinamento, vi è un vuoto normativo, questo deve
essere colmato mediante ricorso al codice di procedura penale, senza che
si debba o possa procedere ad un apprezzamento in ordine alla
applicabilità delle disposizioni codicistiche, che sono assistite da una
presunzione assoluta di compatibilità, superabile soltanto con censure di
incostituzionalità (v., però, F. PALOMBA, 2002, 69 ss.). Manca, infatti, nella
formula di rinvio dell'articolo in commento, la clausola di salvezza « in
quanto applicabili », con cui in genere il legislatore si cautela
dalla possibile incompatibilità della normativa alla quale si rinvia, con
l'ambito in cui è destinata ad operare (cfr., per il procedimento davanti al
tribunale in composizione monocratica, art. 549 c.p.p., e per il
procedimento davanti al giudice di pace, art. 2 comma 1 d.lgs. 274/2000).

7 Va ricordato, peraltro, che Corte cost. 323/2000 ha applicato un


inedito principio di prevalenza della disposizione codicistica sulla
disposizione speciale minorile, ogniqualvolta risulti, rispetto a questa, più
favorevole (v. sub art. 23, § II, 5). Secondo la Corte, infatti, « quale che sia,
in generale, la ricostruzione che si debba effettuare dei rapporti fra
norme del codice e norme del decreto sul processo minorile », quando si
tratta di una disposizione di maggior favore, « introdotta ex novo a
distanza di tempo dal momento in cui furono delineate le due parallele
discipline del codice e del decreto sul processo minorile e al di fuori […] di
ogni intento legislativo di revisione dei rapporti fra le due discipline, si
deve ritenere che essa sia applicabile anche agli indagati minori, in base
al principio, seguito dallo stesso legislatore e conforme ai princìpi
costituzionali e internazionali, del favor minoris ». Condivisibili gli
intendimenti della Corte, ma estremamente infìdo il terreno su cui si è
inoltrata per perseguirli. L'ordinamento processuale minorile, in effetti,
deve tendenzialmente assicurare un livello di garanzie almeno pari a
quelle previste nel rito per gli adulti: è scritto nel suo codice genetico
(cfr. Rel. prog. prel., 209 s.) ed è richiesto dalle convenzioni internazionali
in materia. Ma, a parte che non si può escludere che la singola garanzia
prevista dal codice di procedura penale sia inapplicabile o muti natura (ad
esempio, la garanzia della pubblicità delle udienze dibattimentali: cfr. art.
471 c.p.p. e art. 33; quella della incoercibilità della presenza dell'imputato
all'udienza, salvo la necessità di assumere una prova: cfr. art. 490 c.p.p. e
art. 31; quella del divieto di perizia psicologica: cfr. art. 220 c.p.p. e art. 9)
nel processo a carico dei minorenni, giustificando una mancanza di
specularità garantistica tra i due sistemi, tale principio-guida deve valere
per il legislatore, non per l'interprete (un interessante obiter dictum su
questo punto, si rinviene in C s.u. 29-11-95, D. T., A. n. proc. pen. 95, 992
s.). L'articolo in commento, infatti, non giustifica canoni ermeneutici
diversi dal criterio di sussidiarietà sopra illustrato (v. supra, 2). E si tratta
di una provvida scelta, essendo alquanto rischioso rimettere al giudice
non già l'interpretazione delle norme applicabili, bensì la valutazione della
loro applicabilità. Soprattutto se si considera che il parametro del favor
minoris, che dovrebbe orientarlo, è suscettibile, talvolta, di apprezzamenti
molto soggettivi, specialmente quando il medesimo istituto presenta,
nell'ordinamento minorile, non già un deficit garantistico rispetto alla
omologa disciplina prevista dal codice, bensì tutele diverse o
diversamente modulate. L'approccio più ortodosso al problema sembra
essere un altro: il giudice dovrebbe appurare di volta in volta se lo scarto
garantistico tra i due sistemi non abbia una spiegazione legata alla
specificità della giurisdizione minorile e in caso di esito negativo della
verifica, proporre questione di legittimità costituzionale della norma
minorile che presenta l'ingiustificabile carenza di garanzia.

IV. Principio di adeguatezza applicativa.

1 Se la proposizione di esordio del primo comma dell'articolo in esame


delimita il quadro normativo del procedimento a carico di minorenni, la
seconda ne individua le specificità funzionali: l'una serve a stabilire quali
siano le norme applicabili, l'altra offre il parametro per modularne le
modalità applicative; l'una governa l'an, l'altra il quomodo. L'articolo,
dunque, tiene nitidamente distinti il piano delle norme applicabili da
quello della loro applicazione (cfr. C s.u. 29-11-95, D. T., A. n. proc.
pen. 95, 992), nonché, corrispondentemente, il piano della condizione
minorile in generale da quello della specifica realtà del singolo imputato
minorenne. L'universo normativo disegnato dalla prima parte del comma
1 è considerato dal nostro legislatore, nell'attuale momento storico, la
migliore soluzione per conformare il processo penale alla peculiarità della
condizione minorile (potremmo parlare di principio di adeguatezza
normativa). La seconda proposizione del comma 1, prescrivendo l'obbligo
di adeguare alla personalità e alle esigenze educative del singolo
imputato le modalità attuative delle disposizioni applicabili (principio di
adeguatezza applicativa), indica il tributo massimo che il sistema è
attualmente in grado di offrire in punto di diversificazione per
individualizzare il processo a tutela della evoluzione psicologica del
minorenne.
2 È stato sostenuto che il principio di adeguatezza applicativa debba
essere riferito alle sole disposizioni del codice di procedura penale
“importabili” nel processo minorile (cfr. G. BATTISTACCI, inG. FUMU, 1991,
5). Si deve al contrario ritenere che l'adeguamento riguardi tutte le
disposizioni applicabili (cfr. F. PALOMBA, 2002, 60 e 72). Depongono in tal
senso sia il dato letterale, che non sembra distinguere tra norme del d.p.r.
448/1988 e norme del codice di procedura penale, sia la
ricordata ratio della disposizione. È pur vero, infatti, che le prime sono
specificamente dedicate alla realtà minorile, per tener conto della quale
prevedono deroghe al sistema processuale “ordinario”, ma è altrettanto
incontestabile che, per la medesima ragione, anche le norme del codice di
procedura penale applicabili nel processo per i minorenni sono state
ritenute dal legislatore a questi adeguate, altrimenti si sarebbe discostato
dalla regola codicistica coniandone una ad hoc. Bisogna considerare,
invece, che la norma, riferendosi alla necessità che le disposizioni siano «
applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del
minorenne », pone opportunamente attenzione alla specificità delle
situazioni individuali, richiedendo un adattamento delle modalità
attuative di tutte le disposizioni applicabili alla peculiare realtà evolutiva
del singolo imputato. Del resto, se il legislatore si fosse soltanto
preoccupato di modulare l'applicazione delle norme sulle generiche
esigenze della condizione minorile, avrebbe predisposto in via generale
regole attuative rispettose di tale condizione. Come, infatti, ha
provveduto a fare nel secondo comma dell'articolo, quando ha
individuato una regola comune a tutte le disposizioni applicabili: quella
che impone di rendere l'imputato minorenne partecipe del significato
delle attività e degli epiloghi processuali (cfr. infra, § VI; considerazioni
analoghe potrebbero anche svolgersi per la previsione di un difensore
“specializzato” e per l'assistenza psico-affettiva assicurata dall'art. 12: L.
CARACENI, 2000, 1018). Mentre, però, questa sorta di “didascalia
processuale” non può che giovare sempre ad un consapevole
coinvolgimento del minorenne nell'intervento giurisdizionale che lo
riguarda, la scelta delle concrete modalità di questo intervento, là dove
sia suscettibile di adattamenti attuativi, dipende dalle peculiarità
psicologiche del singolo imputato, che non sono ovviamente
categorizzabili in astratte previsioni normative, ma debbono essere colte
e apprezzate nella specificità del caso concreto.

 3 A tal fine il legislatore ha rimesso agli operatori (a tutti, non soltanto al
giudice: cfr., in tal senso, F. PALOMBA, 2002, 76; G. SPANGHER, in M.
CHIAVARIO, 1994, 31) della giustizia penale minorile il compito di adottare
ogni accorgimento, in sede di applicazione della norma, che consenta,
senza trasfigurarne la portata, di individualizzarla, adeguandola «
alla personalità e alle esigenze educative del minorenne ». Questa
espressione deve intendersi come una specie di endiadi normativa, non
essendo ipotizzabili accorgimenti che, adeguati alla personalità del
minore, non lo siano alle sue esigenze educative; e viceversa. Con essa,
verosimilmente, si è voluto imporre all'operatore chiamato ad applicare
disposizioni del processo penale minorile uno sforzo di adattamento alla
personalità dell'imputato, per tutelarne le esigenze educative.
L'obbiettivo, naturalmente, non può essere quello di promuovere, con
studiate modalità attuative delle norme processuali, l'educazione o,
peggio ancora, la rieducazione del minorenne. Oltre che del tutto
inidonee, le disposizioni del processo penale non possono essere usate
per perseguire obiettivi di emenda e di recupero individuale e sociale
(v. infra, § V, 1 e 2). Un tale uso dello strumento processuale, sarebbe,
prima ancora che istituzionalmente improprio, politicamente pericoloso:
gli indizi di reato fungerebbero da presupposto per interventi educativi
estemporanei, svincolati da garanzie e sottratti a qualsiasi controllo. Vi è
un solo modo corretto per la norma processuale di farsi carico delle
esigenze educative del minore: quello di non pregiudicarle (c.d. principio
di minima offensività). E la seconda parte del primo comma vuol
significare proprio questo: chi è chiamato ad applicare la norma
processuale penale minorile ha il potere-dovere di fletterla, purché non
ne comprometta la funzionalità istituzionale (v. infra, § V, 2), per
salvaguardare il percorso evolutivo del minore.

4 Evenienza affatto diversa, ancorché imparentata con quella in esame


dalla comune finalità di tutela del minorenne, è quella in
cui l’applicazione di una disposizione al caso concreto viene fatta
legislativamente dipendere dalla circostanza ch’essa non rechi pregiudizio
alle esigenze educative dell’interessato ovvero eviti il pregiudizio
derivante dalla adozione di soluzioni processuali diverse. Si pensi ai casi in
cui tale finalità assurge a criterio discretivo in ordine all’adozione di una
misura cautelare (art. 19 comma 2), di un rito speciale (art. 25 comma 2-
ter) o di una determinata formula di non luogo a procedere (art. 27
comma 1). In simili evenienze, non abbiamo a che fare con il principio di
adeguatezza applicativa, perché non si tratta di stabilire
ilquomodo nell’attuazione di una certa norma, ma la sua applicabilità nel
caso concreto; tanto è vero che, una volta sciolto positivamente l’an,
l’autorità giudiziaria è comunque tenuta a darle esecuzione «in modo
adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne». Ma
non abbiamo a che fare neppure con il principio di adeguatezza
normativa (v. supra, 1), poiché non si tratta di stabilire quali siano le
disposizioni che governano il rito minorile, bensì di scegliere, tra queste,
quella da applicare in ragione della sua maggiore funzionalità rispetto
all’esigenza di proteggere i processi educativi in atto del destinatario.
Quando il legislatore decide di incamminarsi lungo questo stretto ed
infido crinale – tra norme già tarate sulla realtà minorile (applicabilità in
astratto) e modalità esecutive conformate sulle specificità del caso di
specie (applicazione in concreto) – nel tentativo di assicurare
un’attenzione suppletiva (applicabilità in concreto) all’evoluzione
sociopsichica del minorenne, compie una scelta particolarmente delicata.
Una scelta non di rado foriera di gravi sbandamenti interpretativi.
Rispetto ai quali è bene almeno alzare due argini. Anzitutto, l’esigenza di
salvaguardare i processi educativi in atto può costituire criterio per
stabilire l’applicabilità in concreto di una disposizionesoltanto quando vi
sia una espressa previsione legislativa in tal senso. In difetto, non è mai
consentito all’interprete ritenere applicabile al processo minorile una
disposizione soltanto perché risulta nel caso di specie particolarmente
consona alle esigenze educative del minorenne e neppure, all’inverso,
escludere l’applicazione di una norma, soltanto perché disfunzionale a
queste. Così, ad esempio, non può essere mai ammessa l’emissione nel
rito minorile di un decreto penale di condanna, anche ove questo epilogo
decisorio rispondesse più di ogni altro, nel caso di specie, riguardante ad
esempio un imputato lavoratore, all’obbiettivo di non pregiudicare, anzi
di consolidare i percorsi evolutivi di responsabilizzazione in corso. Per
contro, quando si verifichi la carenza di una causa di improcedibilità o un
difetto di imputabilità ratione aetatis, il giudice deve pronunciare una
sentenza di non luogo a procedere, ancorché nel caso di specie dovessero
risultare più proficui, dal punto di vista educativo, altri epiloghi
processuali. In secondo luogo, anche quando il legislatore subordina
l’applicazione di una norma all’esigenza di non compromettere il
percorso evolutivo in atto del minore, il perseguimento di tale
tutela non si deve mai spingere sino al punto di pregiudicare la
finalità istituzionale cui la disposizione è preordinata. Così, ad esempio,
l’«esigenza di non interrompere i processi educativi in atto» (art. 19
comma 2) ben può indurre il giudice ad applicare una misura cautelare
piuttosto che un’altra, mai a sacrificare le esigenze cautelari. Ed ancora:
«quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze
educative del minorenne», il giudice può eccezionalmente emettere una
sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto sin dalle
indagini preliminari (art. 27 comma 1), ma sarebbe inammissibile che il
giudice, nelle sedi deputate a una pronuncia nel merito, non dichiari il
non luogo  procedere per irrilevanza del fatto soltanto perché,  quando –
pur ricorrendo i presupposti della tenuità e dell’occasionalità – risulti che
la prosecuzione del processo non pregiudicherebbe le esigenze educative
del minore.

 V. Natura e funzione del processo penale minorile.

1 Per una parte della dottrina, il processo a carico dei minorenni, sia pure
utilizzato come risorsa estrema e con le modulazioni applicative rese
necessarie dalle caratteristiche personologiche dell'imputato, partecipa, a
tutti gli effetti, delle connotazioni e delle finalità tipiche della giurisdizione
penale (cfr. G. ASSANTE-P. GIANNINO-F. MAZZIOTTI, 2000, 258; L. PEPINO, Esp.
giust. min., 1989, 10;A. PRESUTTI, in E. PALERMO FABRIS-A. PRESUTTI, 2002,
307 ss.; in questo senso, v. anche E. ROLI, Quest. giust. 89, 889 ss.).
Secondo un opposto, non meno consistente orientamento, il processo
costituisce una particolare forma di intervento educativo; uno strumento
“forte” ed estremo per propiziare una positiva evoluzione della
personalità del minorenne (cfr. G. FUMU, in G. FUMU, 1991, 71 ss.;A.C.
MORO, 2008, 545 ss.; F. PALOMBA, 2002, 86). Non manca neppure chi,
ponendosi in una posizione intermedia, riconosce pari cittadinanza, nel
processo minorile, all'istanza repressiva ed a quella educativa (G.
SPANGHER, in M. CHIAVARIO, 1994, 30 s.). Come è stato efficacemente
osservato, il processo penale minorile rimane da sempre, in pericoloso
bilico funzionale tra repressione ed educazione (L. PEPINO, in P. PAZÈ, 1989,
10). Questa ambiguità vocazionale del rito minorile si fa ancor più
accentuata se si tiene conto che su di essa si riflette il plurivoco impiego
del termine educazione. Ciò che pertanto deve essere preliminarmente
chiarito, quando si ricollega al processo penale minorile una finalità
educativa, è se con questa si allude ad un obbiettivo di recupero in chiave
rieducativa del minorenne ovvero alla necessità di adottare ogni cautela
per evitare che la vicenda processuale comprometta, od ostacoli il
processo evolutivo della sua personalità. Soltanto successivamente è
possibile stabilire se l'esigenza educativa, nell'accezione precisata, debba
avere valore prevalente su quella dell'accertamento dei fatti e delle
responsabilità.

2 Attribuire al processo penale minorile un compito promozionale di


rieducazione e di recupero sociale è strada che non appare
costituzionalmente percorribile (così, invece, G. FUMU, in G. FUMU, 1991,
71, secondo cui « la funzione di rieducazione — art. 27 comma 3 Cost. —
si è trasferita su tutto il procedimento »). Il processo svolgerebbe una
funzione ancipite di repressione e di rieducazione, non dissimile da quella
assegnata da più di mezzo secolo — con alterne accentuazioni dell'uno o
dell'altro profilo — alla pena. Ma proprio questo accostamento dimostra
l'improponibilità della tesi de qua: il nostro ordinamento costituzionale
consente di predisporre misure rieducative, peraltro mai a carattere
coattivo, soltanto nei confronti del condannato (art. 27 comma 3 Cost.;
per una nitida applicazione del principio, cfr. artt. 1 comma 6, 13 e 15
comma 3 ord. penit.). L'idea di una rieducazione dell'imputato minorenne
si fonda su un inammissibile tralignamento istituzionale del processo
penale, ridotto ad improbabile luogo di trattamento educativo e di
emenda, in spregio del secondo comma dell'art. 27 Cost.: quando gli indizi
di reato divengono non già presupposto per procedere alla verifica della
fondatezza dell'accusa, ma sintomi di disagio psico-sociale, che
legittimano un concorso di interventi di diverse pubbliche autorità per
promuovere l'educazione dell'inquisito (in tal senso, G. SPANGHER, Giust.
pen. 92, III, 198); quando le misure processuali, anche quelle cautelari,
vengono piegate alle esigenze pedagogiche del minore e non del
processo, vuol dire che l'imputato minorenne è presunto colpevole o, ed
è persino peggio, che l'accertamento della sua colpevolezza viene
considerato fatto secondario, se non irrilevante. La sollecitudine
rieducativa ha talvolta indotto persino la Corte costituzionale a
pretermettere simili considerazioni: da quando, per salvare
l'obbligatorietà dell'istruzione sommaria nel rito per imputati minorenni,
ha affermato di ritenerla maggiormente aderente alle finalità della
giustizia minorile, « che ha una particolare struttura in quanto è diretta in
modo specifico alla ricerca delle forme più adatte per la rieducazione dei
minorenni » (Corte cost. 25/1964); sino alla pronuncia, con la quale ha
dichiarato non fondata la questione di legittimità dell'art. 25, essendo
questa disposizione volta « a tutelare la esigenza primaria del recupero
del minore, che è assicurata dagli istituti tipici del processo minorile,
incompatibili con l'istituto del patteggiamento » (Corte cost. 272/2000).
Nonostante la consistenza dell'orientamento dottrinale che la patrocina e
taluni infelici obiter dicta della Corte costituzionale, la tesi che attribuisce
al rito minorile una finalità rieducativa, intesa come operazione di
ortopedia pedagogica condotta sul minorenne imputato, non appare
costituzionalmente difendibile. L'unica ortodossa relazione strumentale
che può intercorrere tra la norma processuale e l'educazione del
minorenne è nel senso che la prima deve essereconfigurata ed applicata
in modo da evitare o, comunque, ridurre al minimo il pregiudizio per la
positiva evoluzione della personalità del minorenne (c.d. principio di
minima offensività). E proprio in tal senso è sostanzialmente orientato,
salvo qualche sporadica “incertezza” legislativa, i l'ordinamento
processuale minorile, come attesta l'articolo in esame (cfr. supra, § IV, 3;
in dottrina, v. M. BOUCHARD, 1995, 142).

3 Riconosciuta, in questi limiti, una finalità educativa al rito minorile (più


precisamente, anche se meno incisivamente, si dovrebbe parlare
di finalità di tutela delle esigenze educative), bisogna precisare in che
rapporto essa si ponga con quella, istituzionale, di accertamento del
dovere di punire. Sostenere, come si è fatto in dottrina, che le due finalità
appaiono pariordinate (cfr. G. SPANGHER, in M. CHIAVARIO, 1994, 30 s.) non
risolve il nodo di quale debba considerarsi la priorità teleologica nel caso
in cui i due obbiettivi si presentino confliggenti. Una rigorosa lettura
dell'articolo in commento e dell'intero sistema processuale minorile
consente di sottrarre il dibattito sulle finalità del processo penale minorile
alle suggestioni di psicologismi e di pedagogismi — sempre in agguato
quando si ha a che fare con una realtà intrisa di connotazioni
personologiche e di condizionamenti socio-familiari — ancorandolo al
dato normativo. Ciò non significa certo trascurare le spiccatissime
specificità del fenomeno giurisdizionale minorile, ma soltanto denunciare
che queste, male intese, hanno talvolta indotto a concepirlo come
un'opportunità pedagogica, giocata sul registro grave del processo
penale, perché grave sarebbe il disagio espresso dal sintomo
comportamentale. Nessuna disposizione del d.p.r. 448/1988 permette di
subordinare l'applicazione di una norma processuale alla sua capacità
educativa. L'art. 1, in particolare, stabilisce che le disposizioni processuali
« sono applicate in modo adeguato » e non che sono applicabili se sono
adeguate « alla personalità e alle esigenze educative del minorenne ».
Ferma la doverosa attuazione delle regole della giurisdizione, si deve
operare il massimo sforzo di individualizzazione applicativa compatibile
con la loro funzionalità processuale. In altri termini, una volta che il
legislatore abbia predisposto norme processuali adatte alla realtà
minorile, che il giudice abbia scelto tra queste, ove ciò sia previsto, quella
meno lesiva nel caso concreto e che nel darle esecuzione si siano adottate
le più idonee modalità, il processo deve comunque avere il suo corso,
anche ove ciò comporti un grave pregiudizio per il percorso educativo del
minore. L'attenzione per quest’ultimo e la conseguente tensione verso
una individualizzazione del processo sono, infatti, di primaria importanza,
purché se ne colga l'invalicabile limite implicito: l'intervento
giurisdizionale non deve mai abdicare al suo compito istituzionale di
accertamento delle responsabilità penali, secondo l’itinerario cognitivo a
ciò preordinato. Il legislatore può anche decidere di rinunciare al processo
(art. 28), alla condanna (art. 27) o alla pena (art. 169 c.p.), quando valuta i
vantaggi individuali e sociali che ne deriverebbero minusvalenti rispetto al
nocumento per la positiva evoluzione della personalità del minore, ma
non può permettere che ogni imputato minorenne abbia un suo processo,
e, quindi, una sua giustizia nel segno di generici fini rieducativi, tanto
giuridicamente inammissibili (art. 27 comma 2 Cost.), quanto
pedagogicamente improbabili (cfr. supra, 2). Oltretutto, proprio la
“pedagogizzazione” del processo penale sarebbe il più serio vulnus a
quella finalità educativa nel cui nome la si vorrebbe imporre: l'imputato
innocente non potrebbe che percepirla come un'ingiusta ed intollerabile
irruzione dello Stato nel suo percorso evolutivo; l'imputato colpevole ne
riceverebbe un diseducativo messaggio di paternalistico indulgenzialismo.

4 I connotati funzionali del processo penale minorile emergono, quindi,


con sufficiente risalto. Esso è espressione di una giurisdizione
specializzata, cioè di una giurisdizione che, senza perdere i caratteri e gli
scopi tipici della giurisdizione ordinaria, adegua le sue forme in ragione
della peculiarità del soggetto inquisito (come in questo caso) o
dell'oggetto dell'accertamento (si pensi alla recente introduzione nel
nostro ordinamento della giurisdizione di pace in materia penale ad opera
del d.lgs. 274/2000). Lo scopo prioritario e indefettibile del processo
penale minorile è, dunque, l'accertamento dei fatti e della responsabilità
di rilievo penale riferibili a soggetti minorenni. Ma la disciplina del rito
minorile presenta, “sottotraccia”, una sorta di tensione ideale, cui
l'articolo in esame dà fondamento normativo, verso un obiettivo non
meno importante, ancorché, in sede giurisdizionale, subordinato:
compatibilmente con le necessità dell'accertamento, i soggetti pubblici
del processo minorile debbono adoperarsi affinché questo sia il più
possibile confacente alle esigenze educative del minore.

VI. Il dovere del giudice di illustrare il significato dell'intervento


giurisdizionale.

1 Si è già osservato come la giustizia penale minorile debba procurare, nel
suo momento applicativo, di scongiurare ogni evitabile pregiudizio
derivante dall'impatto del processo penale sulla personalità in evoluzione
dell'imputato. Va aggiunto che il legislatore non si prefigge di conseguire
tale obbiettivo soltanto con la flessibilità applicativa delle regole
processuali (cfr. supra, § V), ma anche, e pregiudizialmente, attraverso un
costante sforzo di coinvolgimento dell'imputato alla vicenda giudiziaria,
favorendone una consapevole e corretta percezione. Il giudice, infatti, è
tenuto a norma del secondo comma ad illustrare « all'imputato il
significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza,
nonché il contenuto e le ragioni etico-sociali delle decisioni ». Chiari e
condivisibili gli intendimenti legislativi, anche se la lettera della norma
sembra peccare per difetto e per eccesso. Dal primo punto di vista,
sarebbe forse opportuno non limitare l'onere illustrativo del
giudice alle attività che si tengono in presenza dell'imputato. È proprio
con riguardo a ciò che si è svolto in sua assenza, infatti, che questi è
maggiormente interessato a sapere, anche per meglio comprendere
quanto cade sotto la sua diretta percezione, essendo il processo
un continuum. Ovviamente, nei casi in cui l'assenza del minore all'atto è
stabilita nel suo interesse (cfr., ad esempio, artt. 31 comma 2 e 33 comma
4), si tratterebbe di rappresentare all'imputato la funzione e il significato
dell'attività svolta, senza offrire resoconti informativi che possono
vanificare le ragioni dell'allontanamento. Comunque, anche se la norma
non prescrive di spiegare all'imputato il significato delle attività tenute in
sua assenza, sarebbe auspicabile e più in linea con lo spirito della norma
stessa e dell'intero ordinamento processuale minorile, che il giudice si
adoperi affinché il minorenne imputato abbia una corretta percezione
complessiva della propria vicenda giudiziaria. Più di tanti piccoli
espedienti prescrizionali o indulgenziali, ciò che davvero potrebbe
costituire un elemento positivo di crescita personale è la possibilità per il
minorenne di acquisire, proprio attraverso l'esperienza processuale che lo
riguarda, una migliore e più consapevole “propriocezione” sociale e
giuridica: affinché si senta non oggetto di accertamento giudiziario o di
non richieste sollecitudini rieducative, ma soggetto cui competono
responsabilità e diritti. Ed in questa chiave va letta la parte meno felice
della norma contenuta nel secondo comma dell'articolo in commento, là
dove impone al giudice di illustrare all'interessato « il contenuto e le
ragioni etico-sociali delle decisioni». Va evitato che l'assolvimento di
questo compito inclini verso atteggiamenti moralistici. Nulla è più lontano
dalle esigenze educative del minore di un freddo dispositivo
accompagnato da un paternalistico sermone. Il giudice deve limitarsi ad «
esporre all'imputato le ragioni dell'ordinamento e non le convinzioni
proprie, o i propri pregiudizi, o le proprie speranze » (L. PEPINO, in P.PAZÈ,
1989, 17).

VII. Reati di competenza del giudice di pace e processo minorile.

1 Quando si procede nei confronti di un minorenne per un reato di


competenza del giudice di pace, si osservano le norme sul processo
penale minorile integrate da talune disposizioni del d.lgs. 274/2000:
quelle del titolo II, « nonché, in quanto applicabili, le disposizioni di cui
agli articoli 33, 34, 35, 43 e 44 » (art. 63 d.lgs. 274/2000) (v. supra, § I, 5).
Il quadro normativo di riferimento, quindi, è più complesso di quello
delineato dall'art. 1 ed altera i termini del rapporto di sussidiarietà, ivi
regolato, tra legislazione minorile e codice di procedura penale. Per
valutare le modalità e le conseguenze dell'intersezione di norme estranee
a questi due contesti normativi, è necessario tenere distinte
quelle presenti nel titolo II del d.lgs. 274/2000 dalle altre contenute negli
articoli espressamente richiamati: le prime devono essere comunque
osservate, le seconde solo “in quanto applicabili”. Invero, proprio tale
clausola di salvezza, “spesa” dal legislatore per alcune soltanto delle
norme da mutuare, lascia pochi spazi al giudice minorile che incontri
difficoltà nel recepire le altre: le disposizioni del titolo II del menzionato
decreto legislativo debbono trovare applicazione senza una previa verifica
della compatibilità con l'ordinamento processuale penale minorile. Ciò
vuol dire che queste disposizioni, quando il processo verte su reati che, se
commessi da maggiorenni, sarebbero di competenza del giudice di
pace, debbono essere considerate pariordinate a quelle del d.p.r.
448/1988: vanno, cioè, a costituire la prioritaria fonte normativa del
giudice minorile, che soltanto a seguito della sua constatata insufficienza
si avvarrà, in via sussidiaria, delle norme del codice di procedura penale.
Questa scelta è stata considerata dal legislatore pressoché obbligata, in
base alla seguente, comprensibile preoccupazione: « una differente
soluzione, che mantenesse per tali ipotesi le sanzioni previgenti », si
sarebbe esposta « a censure sotto il profilo di una irragionevole
sperequazione tra autori del medesimo fatto di reato » (Relazione allo
schema di decreto legislativo recante « Disposizioni in materia di
competenza penale del giudice di pace », Guida dir. 00, f. 38, 84).
2 È altrettanto indiscutibile, tuttavia, che proprio la “proiezione” di tali
norme sulla giustizia minorile avrebbe richiesto una più attenta
ponderazione, per evitare i non pochi problemi applicativi che la
meccanica traslazione delle norme contenute nel menzionato titolo II
finirà certamente per sollevare. Tra queste, infatti, ve ne sono alcune la
cui applicazione in ambito minorile suscita perplessità, altre che
avrebbero richiesto l'apprestamento di una disciplina di raccordo, altre
ancora in odore di incostituzionalità. Opinabile, ad esempio, l'estensione
al condannato minorenne del divieto di sospensione condizionale della
pena (art. 60 d.lgs. 274/2000), che, ragionevolmente voluto nell'ambito
della giurisdizione di pace per compensare il sensibile abbattimento
sanzionatorio previsto per i reati che vi rientrano, risulta meno
condivisibile nell'ambito della giustizia minorile, che ha nella sottrazione
del minorenne al processo e alla pena il suo dichiarato obiettivo
istituzionale. Problematica si presenta poi, sempre in via esemplificativa,
la diretta applicabilità, senza gli opportuni “ammortizzatori” normativi,
dell'art. 54 in tema di lavoro di pubblica utilità. Nel processo minorile,
infatti, salvo il caso di imputato divenuto maggiorenne, per l'ammissione
al lavoro bisogna tenere presente i limiti e le condizioni stabilite dalla l.
977/1967, come modificata dal d.lgs. 345/1999, emanato in attuazione
della direttiva n. 94/33 CE sulla protezione dei giovani in materia di lavoro
(cfr., per tutti, L. GALANTINO, 2008, 144 ss.; v. anche la circ. 1/2000 del
Ministero del lavoro e della previdenza sociale, avente ad oggetto «
Lavoro minorile — decreto legislativo 345/1999 — Prime direttive
applicative »). Di dubbia ragionevolezza risulta, poi, la ricaduta sul
processo minorile del divieto di applicazione di sanzioni sostitutive (art.
62 d.lgs. 274/2000): per i reati di competenza del giudice di pace, cioè per
fattispecie criminose tendenzialmente di minore rilevanza, l'imputato
minorenne non potrebbe fruire dell'opportunità di definire il processo
nell'udienza preliminare, con la correlativa riduzione di pena sino alla
metà del minimo edittale (art. 32 comma 2: al riguardo,
v. amplius, sub art. 30, § II, 8).

3 In ordine alle norme della giurisdizione di pace che il giudice minorile è


tenuto ad osservare « in quanto applicabili », si tratta di stabilire,
anzitutto, quale debba essere il sistema rispetto al quale apprezzarne
l'applicabilità; se, cioè, si debba far riferimento alle sole disposizioni sul
processo penale minorile dettate dal d.p.r. 448/1988, ovvero al sistema
risultante dalla lorointegrazione con il codice di procedura penale.
Sembra sia da preferire questa soluzione, in quanto l'art. 63 comma 1
d.lgs. 274/2000 individua, con intenti additivi, le norme che debbono
essere applicate da altro giudice, se “innestabili” sull'ordinario regime
processuale da questo seguìto per giudicare dei reati diversi da quelli di
competenza del giudice di pace. Il criterio in base al quale stabilire
l'operatività di tali norme, evocato dalla tradizionale formula legislativa «
in quanto applicabili », è quello della compatibilità della norma con il
sistema di riferimento, vale a dire la possibilità di integrarla, senza
fenomeni di “rigetto”, nel tessuto normativo di tale sistema.
Contrariamente a quanto si legge nella relazione accompagnatoria al
d.lgs. 274/2000, è irrilevante, ai fini dell'applicabilità, che le norme siano «
connotate da profili favorevoli per il soggetto autore del reato »
(Relazione, Guida dir. 00, f. 38, 84). Un tale parametro, che risente in
modo palese del principio del favor minoris, al quale si ispira il processo
minorile, è impropriamente richiamato: sia perché il problema
dell'applicabilità delle norme de quibus riguarda anche, « in caso di
connessione eterogenea dipendente dal concorso formale », la
cognizione del giudice ordinario (come precisa la stessa Relazione),
rispetto alla quale suonerebbe incongruo; sia perché un simile criterio
non avrebbe in pratica nessuna capacità discretiva, in quanto le norme in
predicato di essere applicate da giudice diverso offrono opportunità
ulteriori all'imputato e quindi prefigurano sempre una situazione più
favorevole per il loro destinatario; sia, infine, perché la locuzione
normativa « in quanto applicabili » ha una sua accezione letterale e
tecnica: in mancanza di indizi legislativi che orientino in senso diverso,
essa è predicato di disposizioni che possono trovare applicazione solo in
quanto non creino distonie nel contesto normativo in cui sono destinate
ad operare.

4 Le norme della giurisdizione di pace che il giudice minorile è tenuto ad


osservare « in quanto applicabili » sono agevolmente riconducibili a tre
aree tematiche: le modalità di irrogazione e di esecuzione della
permanenza in casa e del lavoro di pubblica utilità (artt. 33, 43 e 44 d.lgs.
274/2000); l'esclusione della procedibilità per tenuità del fatto (art. 34
d.lgs. 274/2000) e l'estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie
(art. 35 d.lgs. 274/2000). La loro applicabilità al processo penale minorile
appare, nell'ordine, certa, esclusa e fortemente dubbia. Difficile, infatti,
negare l'operatività in ambito minorile a norme, come quelle contenute
negli artt. 33, 43 e 44 d.lgs. 274/2000, che disciplinano la procedura per
determinare le modalità applicative di misure — la permanenza
domiciliare e il lavoro di pubblica utilità — che in base al combinato
disposto degli artt. 53, 54 e 63 del medesimo decreto sono ormai nel
catalogo sanzionatorio del giudice minorile (cfr. supra, 1). Per contro,
appare difficile negare che l'improcedibilità dovuta a particolare tenuità
del fatto (art. 34 d.lgs. 274/2000), pur con talune non decisive differenze
di presupposti, di finalizzazione e di modalità procedurali, ha,
nell'ordinamento minorile, un istituto omologo nel non luogo a procedere
per irrilevanza del fatto (cfr. amplius, sub art. 27, § I, 5). Del resto, nella
stessa relazione governativa di illustrazione del decreto legislativo sul
giudice di pace penale si ricorda più volte come, sia nella legge delega
(art. 17, comma 1, lett. f l. 468/1999), sia nell'art. 34 d.lgs. 274/2000, il
legislatore avesse a modello l'istituto disegnato dall'art. 27 (cfr. §
6 Relazione, Guida dir. 00, f. 38, 64 ss.). Non sembra pertanto contestabile
che tra queste due ultime norme intercorra un rapporto di specialità, che
determina l'inapplicabilità della prima da parte del giudice minorile
(cfr. sub art. 27, § I, 5). Molto più controversa si presenta, invece, la
questione relativa alla possibilità di “trapiantare” nell'ordinamento
processuale minorile l'epilogo per « estinzione del reato conseguente a
condotte riparatorie » (art. 35 d.lgs. 274/2000). L'istituto appare, in
effetti, difficilmente armonizzabile con un sistema — come quello
minorile — che non offre tutela alla pretesa civilistica (cfr. sub art. 10, §
II). Un sistema che esclude espressamente la “monetizzazione” di un
epilogo anticipato d'ufficio (nel procedimento minorile non è ammesso il
decreto penale di condanna) e, secondo taluni, implicitamente, anche su
istanza (nel procedimento minorile non sarebbe ammessa l'oblazione:
cfr. sub art. 32, § VIII, 10). In realtà, il meccanismo definitorio di cui all'art.
35 d.lgs. 274/2000 è espressione di un tipo di giurisdizione affatto diverso
da quello minorile. Non che il profilo riparatorio sia a questa del tutto
estraneo, ma vi si inscrive in un disegno più ampio al centro del quale c'è
il minorenne e non la definizione della controversia. Basta del resto
mettere a confronto i due meccanismi definitori disciplinati dall'art. 35
d.lgs. 274/2000 e dall'art. 28 per cogliere, quasi impressionisticamente, la
differente natura vocazionale della giurisdizione di pace e di quella
minorile. Nel primo caso la riparazione del danno e l'eliminazione delle
conseguenze del reato rappresenta un fine; nel secondo, un mezzo.
Quando l'intervento giurisdizionale punta « a favorire, per quanto
possibile, la conciliazione tra le parti » (art. 2 comma 2 d.lgs. 274/2000)
ben si spiega che, eliminate le conseguenze del reato, il giudice, sentite le
parti e l'eventuale persona offesa (art. 35 comma 1 d.lgs. 274/2000),
dichiari estinto il reato. Quando, invece, l'obiettivo giurisdizionale è,
anzitutto, il rispetto della personalità e delle esigenze educative del
minorenne (art. 1 comma 1) e, accertata la responsabilità, l'osservazione,
il trattamento e il sostegno dello stesso, in vista di una positiva evoluzione
psico-comportamentale, il giudice può « anche impartire prescrizioni
dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la
conciliazione del minorenne con la persona offesa » (art. 28 comma 2),
ma soltanto in considerazione dell'« utilità educativa che il minorenne
prenda coscienza della lesione arrecata all'altrui diritto » (Rel. testo def.,
220, anche per un emblematico accostamento in chiave surrogatoria di
questa norma rispetto all'inammissibilità dell'azione civile). Ben si spiega,
allora, come le attività riparatorie, inscritte nel più ampio obbiettivo di
recupero del minore, costituiscano uno dei possibili elementi di
valutazione della messa alla prova, non fattore determinante per la
declaratoria di estinzione del reato. Tanto più se si tiene conto del fatto
che quasi sempre, a causa di una sua dipendenza economica dalle figure
genitoriali o tutoriali, il minore non ha né meriti, né responsabilità in
ordine ai comportamenti diretti a sanare il danno patrimoniale del reato.

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