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L’ARGUZIA DI DIDONE

Il coraggio è una patria comune.


P. Veyne

1. UNA GEOGRAFIA GLOBALE. «La volpe ne sa tante, il riccio una sola, importante»
(Archiloco, fr. 103 Diehl). Isaiah Berlin, in un celebre saggio dei primi degli anni cinquanta,
interpretava a suo modo questo frammento del VII secolo:
Esiste un grande divario tra coloro che, da una parte, riferiscono tutto a una visione centrale, a un
sistema più o meno coerente e articolato, con regole che li guidano a capire, a pensare e a sentire
un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi
sono e dicono e coloro che, dall’altra parte, perseguono molti fini, spesso disgiunti e contraddittori,
magari collegati soltanto genericamente per qualche ragione psicologica o fisiologica, non
unificati da un principio morale o estetico (Berlin, 1998, pp. 71-72).
Michel Serres, da par suo, ha rielaborato questa distinzione, sostituendo al riccio il cinghiale,
che scava all’infinito la stessa buca, mentre la volpe annusa e passa dappertutto.
Franco Farinelli ha da tempo mostrato di appartenere al primo tipo, e anche nei suoi ultimi
due libri1 (Farinelli 2003 e 2009) non si smentisce. Si tratta, al fondo, di un unico libro in cui
l’ultimo paragrafo del primo volume si salda, anzi è l’attacco del secondo, disegnando una
figura di spirale aperta, dichiarando apertamente la centralità della forma degli strumenti
della conoscenza. Ma andiamo per ordine.
Farinelli rileva l’impotenza degli strumenti conoscitivi tradizionali della modernità di fronte
ai mutamenti in atto, che rendono inservibili concetti familiari ai geografi (e non solo,
considerando quanto le scienze umane hanno attinto alla cassetta degli attrezzi geografica,
sovente senza dichiararlo). L’identità, la nozione di etnia, lo stato-nazione, la logica dei
mercati autoregolati mostrano la loro inadeguatezza al cospetto delle tanto pubblicizzate
«sfide della globalizzazione», soprattutto quando si crede di poterle semplicemente applicare
in una veste ‘riformata’. Lo stesso concetto di spazio, schiacciato sulla sua declinazione
geometrico-euclidea, evidenzia la sua inutilità nello spiegare un mondo ormai diverso da
quello della modernità, che – ed è questa la tesi centrale di Farinelli – su questo concetto di
spazio era stato edificato, soprattutto sulla nozione di ‘scala’ (Marston, Jones III, Woodward
2005)2. Se si vuole realmente far fronte alle «sfide» suddette, suggerisce Farinelli, si tratta di
elaborare «l’unica possibile geografia globale: la geografia dei sensi, dei punti di vista, dei
modelli del mondo» (Farinelli, 2003, p. 37), dunque ripartire dal corpo, dal soggetto, dalle
modalità della conoscenza.
Ci permettiamo di dire che Farinelli mette in pratica tale intento seguendo, in qualche modo,
la «ricetta» di Eliot (come Gregory Bateson chiamò la frase da lui scelta come punto di
partenza per la sua «ultima conferenza»): tornare al luogo da cui si è partiti e conoscerlo per
la prima volta. Una ricetta che sembra essere stata adottata anche dalla geografia nella sua
linea più contemporanea. Quella linea (in senso genetico-evolutivo) per la quale la
contemporaneità implica di necessità almeno due degli atteggiamenti che per Giorgio

1 Quanto a Farinelli 2007, lo spazio di questa nota non consente di mostrarne adeguatamente la fedeltà al
medesimo progetto comunicativo, verificabile nelle trasmissioni radio da cui è tratto.
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Anche se il ricorso, da parte di Marston et al., alla nozione di un’«ontologia piatta» (flat ontology) si presta ad
alcune riserve non esplicabili qui.
Agamben qualificano l’essere contemporanei: l’intempestività – l’andare in qualche modo
contro il proprio tempo, senza aderirvi del tutto; la capacità di vedere il buio del proprio
tempo, evitando di lasciarsi incantare dalle sue luminarie. Due atteggiamenti non proprio
popolari, persino in un tempo come quello attuale piuttosto parco di apologeti non prezzolati.
Anche questa nota sarà da riccio, o da cinghiale, soffermandosi sul cuore di tale vasto
progetto.

2. LA FORMA DELLA CONOSCENZA. Gregory Bateson, che impiega la metafora cartografica per
esemplificare le modalità di funzionamento degli operatori logici della descrizione e della
spiegazione, precisa:
Ogni matrice ricevente, anche una lingua o una rete tautologica di proposizioni, ha caratteristiche
formali proprie che, in linea di principio, distorcono i fenomeni che devono esservi proiettati
(Bateson, 1979, trad. it., p. 71, n. 8).
Le caratteristiche formali del medium utilizzato per rappresentare (o comunicare) un qualsiasi
fenomeno costituiscono in qualche modo un punto di vista sul fenomeno stesso. Le
caratteristiche della matrice ricevente (il ‘supporto’) costituiscono un elemento essenziale per
la comprensione dei fenomeni legati all’informazione: «non c’è spirito, mente o intelligenza
che non s’incarni in qualche struttura materiale più o meno organizzata» (Longo, 1998, p.
51).
Nel momento in cui si decide di rappresentare determinati contenuti (nel nostro caso, le
fattezze del mondo) attraverso un medium (la carta geografica), è inevitabile, come ogni
geografo sa, che il mondo debba ridursi a ciò che la carta, per sua natura, può accogliere,
attraverso un doppio passaggio (Neve 1999):
1. [Contenuti→Forma] = analogia per astrazione (formalizzazione): elementi
appartenenti a contesti spazio-temporali differenti sono ricondotti a una forma unica, quella
determinata dalla geometria euclidea;
2. [Forma1→Forma2] = analogia per coordinabilità formale (traduzione): gli elementi,
ormai disincarnati dal loro contesto originario, e divenuti pura forma, sono disponibili a far
parte di nuovi assetti formali.
Senza questa «omogeneizzazione di partenza» (Iacono 2003), la complessità e la
multidimensionalità del mondo, che ognuno di noi sperimenta nel quotidiano, non può essere
piegata alla bidimensionalità della superficie della mappa, e alle sue (innaturali) qualità di
isotropia, omogeneità, continuità. Tale processo, però, non avrebbe avuto storicamente
conseguenze rilevanti se non fosse divenuto centrale nella costruzione di una civiltà, quella
che usualmente viene designata come «occidentale». Non è un caso, infatti, che strumenti
come il pensiero logico moderno (Farinelli, 2003, pp. 24-33), lo stato-nazione, il capitalismo,
lo spazio pubblico (Farinelli, 2009, pp. 18-111, 179 sgg.), abbiano avuto come modello la
logica cartografica, in quanto essa rispondeva al bisogno di un’economia di gestione del
mondo basata sulla riduzione della complessità.
Nell’uso della mappa come strumento pedagogico nella costruzione dell’idea di ‘nazione’
nello stato moderno, ad esempio, è stato possibile naturalizzare la stessa logica cartografica –
intendendo con ‘naturalizzazione’ il processo cognitivo che produce l’accettazione degli
artifici e delle convenzioni come dati di natura, di senso comune. L’istruzione di massa, di
cui gli atlanti nazionali sono stati una componente didattica di base, si è diffusa a livello
mondiale a misura della diffusione del modello politico dello stato-nazione ottocentesco, a
prescindere dalle caratteristiche sociali, culturali ed economiche dei paesi considerati (Neve,
2010b). In questo senso, è indicativo che la forma assunta dal doppio volume di Farinelli si

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svolga come una spirale aperta, che sfugge ai vincoli della pagina stampata nel suo dipanare
ogni argomento nel colpo d’occhio di sole due pagine (per gente assuefatta alla costrizione di
un monitor), ribaltando i limiti della superficie scritta a proprio vantaggio, come Humboldt
aveva fatto nell’usare i media del proprio tempo.
In fondo, la difficoltà nell’accettare che la mappa abbia prodotto la realtà più che riprodurla è
anch’essa una spia della sua pervasività.
Non è pensabile, infatti, lo sviluppo di alcuna comunità umana che prescinda dall’adozione di
tecniche che consentano al gruppo di produrre un proprio milieu. Nel suo significato di
«mezzo-ambiente» (Canguilhem, 1976, p. 192) esso va compreso in un duplice senso: il
milieu come l’ambiente che qualsiasi essere vivente struttura, compone (non diversamente
dunque da piante o animali); ma anche come ciò che media – in senso tecnico, è un mezzo –
creando un vero e proprio mondo intermedio, quello costituito dagli oggetti tecnici.
Il milieu evidenzia il carattere dinamico dei luoghi, non contenitori statici delle cose e degli
esseri ma nodi di tensione delle azioni, dei desideri, dei valori. Un gruppo umano, per vivere
in un determinato ambiente, elabora, a differenza delle altre forme di vita, un proprio mondo
in cui lo stesso territorio è il medium tecnico-simbolico che costituisce, allo stesso tempo, la
risposta tecnica alle esigenze del gruppo in rapporto ai fattori ambientali, e la
materializzazione dell’idea che ha consentito di elaborare quella risposta e di svilupparla o
rigettarla in seguito. Ogni generazione umana nasce all’interno di un orizzonte tecnologico
dato che costituisce il suo milieu tecnico di riferimento – al modo dell’acqua per i pesci:
ambiente vitale eppure non percepito (Aristotele, De Anima, B 11 423 a 31- 423 b 1).
Per avere chiara quindi l’ipotesi di base da cui muovono queste pagine è necessario avere
presente sia il fondamento imprescindibile costituito dall’unità terrestre nella molteplicità
delle sue forme e relazioni, sia il ruolo essenziale delle tecniche nel modulare le svariate
declinazioni locali dei milieu che ogni gruppo umano ha prodotto. Rammentando inoltre che
le tecniche presiedono agli aspetti più ‘materiali’ della vita di gruppo – come nella
produzione dei mezzi di sussistenza – così come alle sue espressioni di solito qualificate
come ‘culturali’ o ‘spirituali’ – come l’arte o la religione.
L’esempio della «prima carta» della cultura occidentale, quella di Anassimandro, analizzata
diffusamente da Farinelli, è illuminante.
Prima di tutto è necessario notare in quale ambiente Anassimandro «osa» disegnare la prima
carta. Gli Ioni (in particolare i Milesi) sono grandi navigatori e colonizzatori, hanno
sviluppato tecniche: «era dunque di una repubblica così superba che principi-mercanti come
Talete ed Anassimandro furono cittadini. Alle loro spalle non vediamo sacerdoti e profeti, ma
legislatori, ingegneri ed esploratori (…) Anche Anassimandro fu uno statista e un legislatore»
(Santillana, 1961, trad. it. p. 30 e 31).
Il milieu ionico è tessuto di scambi e innervato di tracciati, prevalentemente marittimi, in cui
le città costiere, in particolare Mileto, appartengono a quella «frontiera culturale», costituita
dai port of trade (Neve 1999), che si estendeva dall’Asia minore occidentale fino al Mar
Nero. È l’incessante attività odeporica a stimolare l’evoluzione culturale e la ricerca di
modalità di registrazione e comunicazione delle conoscenze che si svincolino dai codici
locali. Più le relazioni implicano un raggio d’azione ampio e il coinvolgimento di attori
appartenenti a culture eterogenee e più la formalizzazione si rende necessaria e le procedure
assumono un carattere eminentemente astratto.
Il «gesto» di Anassimandro è dunque la soluzione all’esigenza di una società
«transculturale», la cui «universalità operativa non può contentarsi di tradurre le strutture
cognitive di una città specifica in quelle di un’altra città» (Simondon, 2006, p. 6). La tavola

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(pinax) di Anassimandro risponde a quest’esigenza mediante un semplice ma formidabile
espediente: il cambiamento del punto di vista, dal ponte della nave alle vette dell’astrazione
geometrica. L’«audacia» di Anassimandro sta nell’aver prodotto il suo sforzo di astrazione al
di fuori di un contesto religioso, more geometrico, attribuendo ai fenomeni naturali ed ai
rapporti umani il medesimo meccanismo autoregolativo. La carta, così come la sua visione
cosmologica, esibiva (pur congelandole nella statica dell’immagine, come sottolinea
Farinelli) le qualità di simmetria e autoregolazione dei rapporti che avevano alle spalle la
pratica sociale dell’assemblea militare (agore) eternata da Omero nell’Iliade. Questo sforzo
astrattivo rende possibile pensare l’ecumene e i rapporti tra i popoli che la abitano attraverso
la struttura simmetrica centro-periferia, sintetizzando in un’immagine un’idea autoregolativa
che costituisce «l’equivalente impersonale di una coscienza, che rende vivo ciò che è stabilito
non solo nella natura ma nella mente degli uomini, superiore a tutto e a tutti» (Santillana cit.,
pp. 46-7).
Anassimandro si situa all’interno della consapevolezza dell’appartenenza degli Ioni alla koine
greca, e la sua carta circolare ha come centro Delfi, sacra ad Apollo colonizzatore, detta
«ombelico [omphalos] del mondo». Il cerchio è la figura spaziale base presente nel pensiero
ionico, ma è anche la forma che assume lo spazio pubblico isonomico, il nuovo spazio civico
(probabilmente sperimentato inizialmente appunto nella Ionia) che si affermerà come base
della nuova idea democratica. Ma, come rileva Farinelli (2003, pp. 78, 101, 157-165), è
proprio questo il punto. Nello spostare il punto di vista, nel tradurre lo stesso modello
isonomico – fondato sulla dialettica del discorso, che si presta non solo all’alternanza, ma ad
una ricchezza semantica che la logica bivalente della tavola cartografica non possiede –
Anassimandro produce un modello potente ma pericoloso, che congela il movimento, il
mutamento, in una parola la vita stessa nella staticità di una figura che riduce la ricchezza del
dibattito politico al conflitto tra immagini del mondo.
L’uso della carta geografica nella tradizione ionica (da Anassimandro, ad Ecateo, ad
Aristagora, a Erodoto) è il segnale dell’affermarsi di un modo nuovo di parlare del mondo e
di vivere collettivamente: un mondo incentrato sulla visibilità e pubblicità del mezzo grafico
– testo scritto o carta (Detienne, 1983, p. 43 e 47 e Detienne, 1989) – e sull’interpretazione, la
cui posta in gioco, più che la verità, è il verosimile.
Il mondo non è più, con Anassimandro, un discorso, racconto mitico o profezia, ma un
oggetto che si fa, si tocca, si modifica, si mostra inalterato agli sguardi di chiunque, come la
scrittura pubblica che diventa una caratteristica del nuovo regime politico isonomico.
Ammettere l’interpretazione vuol dire accettare il conflitto tra visioni alternative: «come
potrebbe un cartografo incontrarne un altro senza ridere?» (Detienne 1983, p. 102).

3. LA TAVOLA. Che la forma della tecnica moderna abbia assunto le vesti della Tavola –
omogenea, isotropa, continua – non è l’unico esito possibile che la storia della cultura
occidentale avrebbe potuto intraprendere. Il riduzionismo cartografico, ancora largamente
presente nella produzione scientifica e divulgativa del sapere, non era un punto d’arrivo
obbligato. Eppure, l’incapacità nel comprendere appieno la novità di fenomeni come la Rete
dipende evidentemente dal continuare pervicacemente a immaginarla in termini tabulari,
quando essa è, probabilmente, la manifestazione più evidente di logica globale (Farinelli,
2009, pp. 160-163). Ci troviamo oggi, sembrerebbe dire Farinelli, come gli abitanti di
Flatland (nella fantasia geometrica vittoriana di Abbott) all’arrivo della Sfera.
Immaginate un mondo in cui le dimensioni sono due, quelle che usualmente denominiamo
lunghezza e larghezza, e in cui gli esseri che lo popolano sono essenzialmente figure

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geometriche bidimensionali. Tutto in questo mondo, dal nostro punto di vista di esseri
immersi nelle tre dimensioni, è piatto [flat]. I movimenti si svolgono interamente sul piano e
gli abitanti per discernere gli elementi e gli esseri devono utilizzare l’udito [hearing] o il tatto
[feeling], se sono appartenenti alle classi inferiori, e il riconoscimento a vista [recognition by
sight] se membri delle classi elevate. Come si vede, si tratta di un mondo che, pur nella sua
apparente natura aliena, presenta gerarchie sociali non dissimili dal nostro. Se il nostro
mondo presenta oggi gerarchie basate sul censo e la ricchezza materiale Flatland ha come
criterio discriminatore la regolarità geometrica: «la Configurazione fa l’uomo». Più un
flatlandese si avvicina alla perfezione del cerchio e più si innalza nella gerarchia sociale: si
hanno quindi Triangoli Equilateri (la borghesia), Quadrati e Pentagoni (i gentiluomini), figure
dall’Esagono in su (l’aristocrazia) fino alla suprema classe sacerdotale composta da Cerchi.
Le classi inferiori sono composte da figure irregolari che solo di rado e a prezzo di grande
fatica e impegno possono elevarsi di rango, come categoria esclusa dalla cosiddetta Legge
Naturale, unica chance di mobilità sociale, la quale prescrive che «il figlio maschio abbia un
lato di più del padre, così che ogni generazione (di regola) sale di un gradino nella scala dello
sviluppo e della Nobiltà» (Abbott, 1993, p. 38). Le figure irregolari devono invece, se non
beneficiano della fortunata elevazione di rango consentita dal loro impegno e dedizione allo
Stato o dalla nascita di un figlio regolare – eventi ambedue piuttosto rari –, limitare al
massimo i loro movimenti, pena sanzioni estremamente severe, in quanto la loro stessa natura
irregolare li rende estremamente pericolosi in un mondo in cui distinguere in tempo chi si ha
di fronte vuol dire evitare il più delle volte di essere feriti o uccisi da uno spigolo acuto. In
questo le figure irregolari condividono – estrema ironia vittoriana – la condizione delle
Donne, le quali sono linee rette. Com’è ovvio la differenziazione sociale è qui simile ad un
sistema di caste, fondato sull’appartenenza genealogica, e in cui il movimento verso l’alto
indica, oltre che un salto di livello sociale, un accesso a gradi sempre più alti della
conoscenza. Non a caso – e questo rivela l’attenzione di Abbott verso i fondamenti culturali
della geometria euclidea – il grado di maggiore o minore intelligenza di un abitante di
Flatland viene indicato come angolarità: un individuo possiede «un angolo, o cervello»
misurabile in gradi e primi (una sorta di QI), e un Isoscele ha ovviamente un «vertice
scervellato» [brainless vertex].
Cosa delimita Flatland? Certamente le due dimensioni geometriche che ne determinano il
mondo così come viene percepito dagli esseri che lo popolano. Ma essi si percepiscono come
figure bidimensionali solo attraverso il tatto e la vista. Quest’ultima, pur offrendo una
conoscenza più sintetica rispetto al tatto, non può dare una visione globale del mondo
flatlandese in quanto tutto si riduce a linee rette. Si tratta quindi soltanto di intuizioni educate
attraverso un lungo allenamento, che costituisce la base educativa dei rampolli delle classi
superiori, e agevolate dalla segregazione e limitazione delle classi inferiori. La visione
globale necessiterebbe di una dimensione ulteriore a cui gli abitanti di Flatland non possono
accedere a meno di una violenta rivoluzione sensoriale, che il protagonista del racconto
sperimenterà quando una Sfera, proveniente da Spaceland cioè dalle tre dimensioni, lo
costringerà a rivedere bruscamente le sue convinzioni più profonde.
Che non si sia ancora in grado di pensare la globalità non dovrebbe stupire, quindi,
soprattutto i geografi, i quali, come Farinelli mostra ampiamente, sono i più attrezzati per
questo compito e i più dimentichi del loro patrimonio scientifico. Gli esempi non
mancherebbero. Si pensi alla questione dei brevetti nel campo della ricerca genetica, che,
com’è stato autorevolmente mostrato (Heller, 2008), continua a produrre blocchi nello
sviluppo conoscitivo a causa dell’«eccesso di proprietà»: sezionando i cromosomi studiati in

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«regioni brevettate» si obbliga ogni nuova scoperta a percorrere un lungo, e spesso
infruttuoso, cammino tra cause legali per poter utilizzare i vari frammenti brevettati da
svariati enti di ricerca pubblici e privati.
Ma questo accade perché il modello di proprietà dei brevetti soggiace alla logica tabulare, che
assegna il primato alla nozione di proprietà immobiliare, derivante dall’idea di ‘eredità
trasmessa’ (Dagognet, 1992): è questo che consente di pensare ai cromosomi alla stregua di
proprietà fondiarie.
Si è detto che la logica della Tavola non era l’unico esito possibile della civiltà a cui
apparteniamo. E giova pensare che, come Farinelli sottolinea più volte, alle nostre spalle ci
sia la risposta, o almeno il suo germe. A questo proposito, vorremmo concludere questa nota
con un’arguzia, un’arguzia che ci sta alle spalle, che affonda nel mito, e che ci sembra,
modestamente, di buon augurio per un progetto – pensare il Globo – come quello che si è
cercato qui brevemente di commentare.
Tutti ricordiamo il passo dell’Eneide in cui viene presentata la fondazione di Cartagine da
parte della regina fenicia Didone:
Devenere locos, ubi nunc ingentia cernis
moenia surgentemque novae Karthaginis arcem,
mercatique solum, facti de nomine Byrsam,
taurino quantum possent circumdare tergo. (Æn., I, 365-368).
Didone, in cerca della libertà e della possibilità di fondare una nuova città (‘città nuova’ è la
traduzione di Cartagine dal fenicio), sbarca sulle coste del Nord Africa e chiede al re dei
Getuli, Iarba, un tratto di terra per edificarla. Iarba, interessato più alla bellezza di Didone che
al suo destino, con atteggiamento tristemente familiare per l’Italia contemporanea, le dice che
potrà prendere tanta terra quanto poteva essere circondata da una pelle di bue. La soluzione
data dalla regina alla presa in giro da parte di Iarba è divenuta un classico delle dimostrazioni
geometriche, ed è stata rappresentata graficamente da Lord Kelvin in una sua celebre
conferenza del 1893 (Thomson, 1894) (Fig. 1). Didone, com’è noto, tagliò la pelle del bue in
striscioline estremamente sottili che, legate l’una all’altra, cinsero un’ampia superficie di
terreno su cui edificò la città. Com’era possibile? In realtà, come mise in evidenza Lord
Kelvin, il problema geometrico che Didone doveva risolvere era di ottenere la maggiore
superficie possibile avendo come limite l’affaccio a mare. La figura che soddisfa tale
condizione è la circonferenza (in questo caso adattata a semicerchio), in quanto è l’unica
figura del piano che gode della proprietà isoperimetrica, proprietà che, nello spazio
tridimensionale, è esclusiva della sfera: proprio il genere di proprietà che ha portato la
matematica più avanzata ad occuparsi di fenomeni come le bolle di sapone (Emmer, 2009).
La bolla, la sfera che, come ci ricorda Farinelli, è il modello della massima densità a parità di
superficie, quindi un modello di complessità. Ed è questa sua caratteristica che ce la rende
sfuggente, assuefatti come siamo a pensare in piano. Didone era riuscita a pensare uscendo
dalle costrizioni del piano, pur esercitando un’operazione di planning, di pianificazione,
dunque di riduzione in piano (Farinelli, 2009, p. 37), portando all’estremo la logica della
Tavola attraverso la figura del Cerchio. Possiamo considerare questa fabula sufficientemente
istruttiva da costituire un possibile nuovo punto di partenza?

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6
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Mario Neve, Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali,
Università di Bologna sede di Ravenna, mario.neve@unibo.it.

7
Figure 1. Schizzo di Lord Kelvin. Fonte: Thomson, 1894, p.573.

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