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Sul vedere: il problema del doppio cieco

di Heinz Von Foerster

Bateson: comprendere la comprensione

Innanzitutto vorrei esprimervi una doppia gratitudine. In primo luogo per


l'onore di essere qui con voi: mi rendo conto che siete voi a dovervi sforzare
di vedere Gregory Bateson attraverso i miei occhi, e questo mi sembra molto
bello da parte vostra.

E in secondo luogo per la gioia di aver avuto


l'opportunità di ripercorrere molte delle idee di Bateson, delle sue brillanti
formulazioni, dei suoi lavori, della sua prosa straordinariamente efficace.
Pare a me che il suo lavoro sia incentrato essenzialmente su un punto
fondamentale, il farsi comprendere. Gregory voleva comprendere la comprensione.
Si tratta degli affascinanti concetti di 'secondo ordine' che ritroviamo più
volte nei suoi scritti, ad esempio nell'idea di apprendere ad apprendere e in
molte altre nozioni a cui farò riferimento più avanti. Quel che trovo
particolarmente interessante è che rispetto al suo tremendo sforzo per farsi
comprendere egli avvertisse una sensazione di fallimento. Ma vorrei anche far
notare una cosa: questa sensazione lo stimola va ad andare avanti. Insomma,
egli credeva di aver fallito, mentre io non lo penso affatto. Io penso, al
contrario, che 'ce l'abbia fatta'. Per spiegar mi, vorrei proporvi un brano in
cui egli racconta di uno studente che dopo la lezione si rivolse a lui per
cercare di capire di cosa stava parlando. L'epi sodio è riportato nella
prefazione di Verso un'ecologia della mente: “Alla fine della lezione, uno
degli ospiti venne da me, si voltò indietro per sincerarsi che tutti gli altri
se ne stessero andando, e poi disse esitante: 'Vorrei fare una domanda'. 'Si?'.
'Beh... lei vuole proprio che noi impariamo quel lo che ci sta raccontando?'.
Ebbi un attimo di esitazione, ma egli si riprese subito: "Oppure tutto
questo è una specie di esempio, un'illustrazione di qualcos'altro?".
"Certo proprio così!"“. Lo studente se ne va, e Gregory chiede a se
stesso: “Ma un esempio di che cosa?”. Dopo, quasi ogni anno, ci furono
lamentele che di solito mi giungevano sotto forma di pettegolezzo: si sosteneva
che 'Bateson sa qualcosa che non ci dice', oppure 'sotto quello che Bateson
dice c'è qualcosa, ma lui non dice mai di che si tratti'. Evidentemente non
stavo dando una risposta alla domanda: 'Un esempio di che cosa?'“. Se
continuate a leggere questo brano, potrete vedere come egli cerchi
disperatamente di fare qualcosa in proposito. E io penso che questo sia
precisamente il modo ideale di trasmettere qualcosa di nostro, lasciando che
queste idee si generino tra gli studenti. Anche a me è avvenuto di domandarmi
cosa stesse succedendo, quali fossero le difficoltà di comprensione, ecc.,
quando ho avuto il piacere di essere inviato insieme a Gregory ad un convegno.
Gregory era il primo re latore della giornata, mentre il mio intervento era
previsto per il giorno successivo. Gregory, in modo brillante, chiaro ed
efficace, presentò la sua relazione e io ne rimasi affascinato. Durante il suo
intervento la gente notava che io sorridevo, annuivo e ridevo al momento
giusto, così alla fine mi chiesero “Ma lei ha capito quel che stava dicendo?”
“Certo, era molto chiaro”. “Chiaro quello?” “Naturalmente!” E cosl via... E
allora pensai: 'Cosa succede?... Aha!, sì, penso di aver capito!' Quindi
sviluppai una teoria che presentai il giorno successivo a quel gruppo. Gregory
era seduto in prima fila, e mi piaceva mettere alla prova con lui presente la
mia storia su di lui. Dissi: “Signore e signori, ci sono state delle
difficoltà, ieri, a capire ciò di cui Gregory Bateson stava parlando, è perché
quel che diceva era molto trasparente, e ciò che è trasparente... non può
essere visto. Così io cercherò di rendere il suo discorso un po' più opaco, in
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modo che possiate finalmente vedere ciò di cui stava parlando...”. Mi domandavo
come avrebbe reagito Gregory a questo intervento e lo osservavo con la coda
dell'occhio: stava ridacchiando e sbuffando (era il suo modo di ridere), e
pensai quindi che quella era la strategia corretta. Poiché ritengo che quella
strategia fu efficace vorrei impiegarla anche oggi con voi, tentando di rendere
più opache alcune delle nozioni di Bateson. Vorrei affrontare due nozioni
fondamentali che credo siano presenti, spesso non esplicitamente, in molte
delle sue conversazioni, dei suoi dialoghi e dei suoi scritti. La prima di
queste è 'vedere', e intendo 'vedere' nello spirito di William Blake, quando
sosteneva di non vedere con gli occhi ma attraverso gli occhi: ciò significa
che vedere deve essere inteso nel senso di ottenere un insight, di giungere
alla comprensione di qualcosa, ricorrendo a tutto ciò di cui si dispone a
livello di spiegazioni, metafore, parabole, ecc. L'altra nozione è quella di
'etica', intesa nello spirito di Wittgenstein, quando diceva: “E chiaro che l'etica
non si può esprimere in parole” (che in tedesco suonerebbe: “Es ist klar das
Ethik sich nicht aussprechen laesst”). Leggendo Bateson si nota una sua
costante attenzione a che l'effetto di parole come, ad esempio, significato,
fine, controllo, informazione, ecc., in qualche modo non si rivolti contro di
esse.

Non vedere di non vedere

C'è naturalmente una connessione tra queste due nozioni, il vedere e l'etica.
Questa connessione mi ha ispirato il titolo di oggi, che è Sul vede re: il
problema del doppio cieco (On seeing: the problem of the double blind). Direte
“Ma cosa significa? Certamente voleva dire, con Gregory Bateson, 'doppio
vincolo' (double blind), ci deve essere un errore”. Naturalmente sono la stessa
cosa, non importa che ci sia o meno la elle. Vorrei tuttavia spiegare il motivo
della scelta di questo titolo e lo farò mediante un esperimento. Guardate la
figura con una stella e un cerchietto nero. (* )

Bene, prendete il foglio con la mano destra. Chiudete l'occhio sinistro, con la
mano sinistra se è necessario. Tenete il foglio di fronte a voi, fissate la
stella e spostate il foglio lentamente avanti e indietro lungo la linea della
visione. Improvvisamente noterete che in una certa posizione, più o meno a una
ventina di centimetri dall'occhio, il cerchietto nero sparisce dalla visuale.
Questo fenomeno si chiama punto cieco (blind spot). Ora vi darò una spiegazione
fisiologica del perché questo succede. Vi darò questa spiegazione invitandovi a
prestare attenzione a due cose: la prima, ovviamente, è la spiegazione stessa,
l'altra è l'effetto che essa produce su di voi mentre l'ascoltate. Dovete
dunque fare due cose, ascoltare me e osservare voi stessi mentre ascoltate. La
spiegazione si trova nella struttura stessa dell'occhio, dove si può vedere che
nella sezione trasversale dell'occhio, la stella e il cerchietto, sono
proiettate, attraverso una lente, sulla retina dell'occhio. Guardando un po'
più attentamente si può vedere che la stella è proiettata sulla fovea, che è
quella par te dell'occhio dove si ha la maggiore acuità visiva, poiché qui i
coni e i bastoncelli hanno un'altissima densità. Ma in certe condizioni il
cerchietto nero è proiettato su una zona della retina dove il nervo ottico esce
dall'occhio, e in quella zona non ci sono coni o bastoncelli, non ci sono
recettori ottici, e perciò, naturalmente, se qualcosa è proiettato su quel
punto cieco non può essere visto. E chiaro? Sfortunatamente, è molto chiaro!
Possiamo perciò tornare alle nostre consuete occupazioni, dimenticare tutto quanto
e sentirci lo stesso molto tranquilli. Tutto il fascino del punto cieco
scompare, diventando una faccenda molto naturale. Ora, che cosa sta producendo
questa spiegazione? Almeno due cose: non solo attraverso di essa questo
affascinante fenomeno viene spazzato sotto il tappeto, c'è un altro effetto che
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vi rende ciechi ad un'altra osservazione. E tale osservazione è la seguente: se


vi guardate attorno in quest'aula, in tutte le direzioni, con un occhio, con
due, prima col destro, poi col sinistro, vedete un interrotto, continuo, campo
visivo. Non ci sono interruzioni. Non vedete macchie cieche scorrazzare per il
vostro campo visivo poiché, se così fosse, andreste dal vostro medico o
dall'oftalmologo. Non ci sono buchi nel vostro campo visivo, cioè non siete consapevoli
di essere parzialmente ciechi. Che significa: voi non vedete che non vedete.
Questa è una disfunzione di secondo ordine. Come vedete, questa spiegazione
porta la disfunzione di secondo ordine nel dominio cognitivo. Del resto, non
siamo cognitivamente ciechi rispetto alla capacità di vedere le nozioni
cognitive di altri. Penso che voi tutti abbiate sperimentato ciò, per esempio
durante discussioni di politica con gli amici, quando pensate: 'Questo
poveretto non si rende nemmeno conto di non vederla giusta...'. Questa, del non
vedere di non vedere, è una delle disfunzioni di secondo ordine fondamentali su
cui vorrei indirizzare il discorso, e rappresenta il nocciolo di quello che
intendo quando mi riferisco alla figura del doppio cieco. A questo proposito,
devo portare la vostra attenzione sul fatto che la logica della percezione è
molto diversa dalla logica ortodossa. Nella logica ortodossa una doppia
negazione produce un'affermazione (se si mettono due negazioni in una
proposizione questa diventa affermativa), ma naturalmente se si manifesta
un'incapacità percettiva come la cecità della cecità non si ottiene la vista.
In questo senso la doppia negazione non produce nella logica percettiva quello
che produce nella logica ortodossa. Si tratta di una circostanza molto
affascinante che è stata ripresa da molti logici interessati ai concetti di
secondo ordine. Questo campo della logica riguarda quelle nozioni che possono
essere applicate a se stesse. Non tutte le nozioni possono essere applicate a
se stesse, ma alcune sì, e queste producono una profondità semantica totalmente
diversa. Posso farvi degli esempi che ricorrono spesso: mettiamo che stiate
cercando di elaborare una teoria del cervello: come funziona, come si comporta,
ecc. Poi un giorno arriva un tizio che vi domanda: “Come state elaborando la
vostra teoria del cervello, state usando... il vostro cervello?”. “Naturalmente
uso il mio cervello”. “Dunque la vostra teoria rende conto solo del vostro
cervello o anche del mio?”. “Ehm... ehm...”. Quel che voglio dire è che una
teoria deve rendere conto di se stessa. Così, se una teoria del cervello viene
scritta, per potersi considerate completa deve rendere conto del suo proprio
essere scritta. Questi sono i problemi che sorgono con nozioni che devono essere
applicate ricorsivamente a se stesse. In questi problemi si incontrano notevoli
difficoltà logiche, di cui più avanti darò alcuni esempi. Le difficoltà ad
afferrare questo tipo di nozioni vengono ben evidenziate in molti dei lavori di
Bateson. A mio parere due sono le questioni essenziali da approfondire per
comprendere queste difficoltà. La prima ha a che fare con il linguaggio che
usiamo, mentre la seconda è relativa alla nozione, ereditata da Platone, di che
cosa sia la realtà.

Insidie del linguaggio

Per quanto riguarda il linguaggio, ci sono due punti che esporrò molto
concisamente, che si presentano molto spesso e sono certo vi saranno familiari.
Il primo è la confusione per cui il più delle volte si pensa il linguaggio come
denotativo: dico 'sedia' e la addito per denotare l'oggetto. Già Susan Langer e
altri psicolinguisti hanno capito che il linguaggio è essenzialmente
connotativo: quando dico 'sedia' non addito la vostra sedia ma evoco in voi la
nozione che avete delle sedie, quindi conto sul fatto che ci basiamo su nozioni
condivise e reciproche relative a questo particolare riferimento. Margaret Mead
racconta un aneddoto simpatico che illustra bene la questione. Durante uno dei
suoi studi sul linguaggio presso una certa popolazione si aiutava ad apprendere
il loro linguaggio utilizzando la modalità denotativa. Così additava un
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oggetto, e poi un altro, aspettandosi che le venisse fornito il loro nome, ma,
in ogni caso, tutte le perso ne le rispondevano sempre: “Chemombo!” Tutto era
Chemombo. Ella pensò “Mio Dio, che linguaggio terribilmente noioso! Hanno una
sola parola per tutto!” Finalmente, dopo un certo periodo, riuscì a scoprire il
significato di Chemombo, che significava... indicare con il dito! Per cui,
vedete, ci sono delle notevoli difficoltà nella semplice interpretazione del
linguaggio denotativo. L'altro punto riguarda un limite delle lingue
indoeuropee. Si tratta della possibilità di nominalizzazione. Significa che il
verbo può essere trasformato in sostantivo. E quando un verbo diventa nome,
improvvisamente si infiltra dentro di noi come se fosse una cosa. Quando si ha
un processo che può diventare una cosa si è veramente su una cattiva strada.
Molte delle difficoltà di comprensione che incontriamo derivano dal fatto che
abbiamo costantemente a che fare con cose che sono in effetti dei processi. La
nominalizzazione rende tutte le funzioni localizzabili, perché è molto comoda:
se si vuole conoscere una cosa basta guardare nel cervello per scoprire dov'è
localizzata. Ecco un esempio interessante di localizzazione funzionale,
pubblicato intorno al 1920, quando la frenologia era in gran voga. Sul cranio
vi erano rappresentate praticamente tutte le funzioni mentali localizzate con
molta precisione, si tratta di localizzazione funzionale 'impazzita'. Abbiamo
per esempio al 65A 'Movimento ondulatorio', al 149 'Repubblicanesimo', e come
suoi immediati vicini 148, 'Amore fedele' e 149A, 'Responsabilità'. La cosa
affascinante è che non abbiamo ancora perso questa abitudine di pensiero, che
continua imperterrita. Se vi chiedo ad esempio di localizzare la mente c'è
ancora qualcuno che mi risponderebbe che forse è nella sezione B, o qualcosa
del genere. Altri cercano di individuare la memoria, aprono un cranio e cercano
dove sono i chips, dove sono i tamburi magnetici, i nastri, ecc., e non li
trovano. Non sono nelle sinapsi, e neanche nei neuroni.. Dove sono queste cose?
Dove sono gli occhiali di mia nonna? Non ci sono. La nominalizzazione si
infiltra nelle discussioni, ripetutamente. Diventa molto difficile afferrare la
nozione stessa di processo, se scompare dentro le cose Come conseguenza della
nominalizzazione, la conoscenza, per esempio, viene considerata una merce;
anche l'informazione si può comprare come una merce, ridurla a pezzi, elaborarla,
venderla in bits, 5 dollari al chilogrammo. Questa è la mia critica alla
possibilità della nominalizzazione.

Insidie della 'realtà'

L'altra questione, come ho detto, riguarda la nozione di 'realtà' così come


l'abbiamo ereditata da ormai due millenni, ed è proprio questo il principale
ostacolo per districarsi all'interno dei problemi che questa nozione porta con
sé. Si tratta di un'interpretazione scorretta e consolidata nel tempo di ciò
che Platone racconta a proposito di un dialogo tra Socrate e Glauco ne,
intitolato La
Repubblica. Questo dialogo è nel libro settimo. Vi invito a
leggerlo poiché da esso deriva che l'usuale interpretazione della celebre
metafora nota come la metafora della caverna non era nelle intenzioni né di
Platone, né di Socrate. La questione era molto diversa; permettetemi di
ricordarvela. Socrate dice: “Glaucone, prestami orecchio, ti prego, ascolta ciò
che ho da dirti. Immagina una grande caverna, con un gradino, una specie di
piattaforma, e sotto a questo gradino, incatenati al pavimento, degli uomini.
Essi sono addirittura incantenati con il collo fissato contro la parete del
luogo in cui sono seduti, così che possono guardare solo diritti davanti a sé
verso la grande parete di quella caverna. Dietro questi uomini, sopra il gradino,
c'è un fuoco acceso... mi segui, Glaucone? Ora tra il fuoco e le persone
incatenate al pavimento ci sono altre persone che camminano avanti e indietro
trasportando degli oggetti, giornali, sedie, suppellettili varie, e la sola
cosa che le persone incatenate al pavimento vedo no solo le ombre che vengono
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riflesse sul muro”. “Affascinante!”, dice Glaucone, e Socrate continua:


“Aspetta un attimo, Glaucone... vorresti dire che le persone incatenate al
pavimento penserebbero che le ombre sono la realtà?” “Certamente, risponde
Glaucone, questo è l'unico modo in cui possono giudicare”. “Molto bene! Ora fa
attenzione. Considera per un attimo che uno di quegli uomini venga sciolto
dalle catene e gli venga quindi permesso di vedere quello che sta succedendo.
Cosa direbbe? Naturalmente direbbe: aha!, allora la vera realtà è ciò che sta
dietro a tutte le cose che vediamo!”. Sfortunatamente, molta gente smette di
leggere Platone prima di arrivare a questo punto. Essi leggono, cioè, fino al
punto in cui Platone parla della realtà come di un'ombra, così si fanno l'idea
che Socrate voglia dire che la realtà è solo un'ombra, o qual cosa di simile.
Ma il racconto si spinge ancora più avanti: “Bene, portiamo ora quell'uomo
fuori dalla caverna, lasciamogli osservare gli uccelli, gli alberi, il cielo,
l'erba: che cosa direbbe ora? Ovviamente direbbe: aha!, questa è la vera
realtà!” Avremo così differenti realtà di differenti realtà, e questo
naturalmente non ha molto senso se si sta cercando di descrivere la realtà.
Arriviamo così al punto a cui Socrate, o Platone, voleva arrivare: “Bene... ora
prendiamo quell'uomo e riportiamolo nella caverna, incateniamolo di nuovo al
suo posto e lasciamolo interagire con gli altri. Che cosa accadrebbe?
Naturalmente direbbe: guardate che sono andato dietro le quinte e ho visto la
vera realtà, questa non è la realtà, questa è solo l'ombra, io ho visto le
altre cose... E cosa farebbero gli altri uomini? Scuoterebbero la testa
dicendo: quest'uomo è pazzo!” Così, è mia convinzione che il famoso proverbio
“in mezzo ai ciechi il guercio è Re” sia una metafora completamente sbagliata.
Tra i ciechi, il guercio finirà diritto in un ospedale psichiatrico, perché
vede le cose in modo differente dagli altri. Questo è quello che secondo me
intendeva dire Socrate, e non che la realtà è l'ombra di qualcos'altro, perché,
come d'altra parte ci mostra nella metafora della caverna, nella 'realtà' ci
sono livelli su livelli. Questa è una delle difficoltà con cui dobbiamo
costantemente confrontarci riguardo alla nozione di realtà: la nostra
convinzione che 'c'è qualcosa dietro'.

L'invenzione della realtà

Il linguaggio e la realtà sono, ovviamente, strettamente connessi. Generalmente


si sostiene che il linguaggio sia una rappresentazione del mondo, ma io vorrei
proporvi esattamente l'opposto, e cioè che il mondo è un'immagine del
linguaggio. Il linguaggio viene prima e il mondo è una conseguenza. Dicendo ciò
sono convinto che sia la stessa cosa che avrebbe detto Gregory Bateson. Mi
direte: “Ah!, Heinz lo pensi veramente?” Si, signore e signori, ne sono
convinto e voglio provarvelo. E ve lo voglio dimostrare con una meravigliosa
storia che Gregory scrisse sotto forma di metalogo.

Un metalogo è un dialogò, alcuni sostengono fittizio, tra un Padre e una


Figlia. Le persone che conoscevano bene Gregory potrebbero dire che si trattava
della sua esperienza di dialogo con sua figlia. Ma, vero o no, resta il fatto
che si tratta di racconti di dialoghi molto suggestivi. Ve ne voglio leggere
uno per due ragioni: la prima è che affronta la nozione di spiegazione, di cui
è molto importante conoscere gli effetti perché, come vi ho precedentemente
illustrato, essa è pericolosa per il fatto di potervi rendere ciechi rispetto a
qualcos'altro; la seconda ragione è relativa alla distinzione tra invenzione e
scoperta. Il metalogo che vi leggerò, pubblicato in Verso un'ecologia della
mente, è intitolato 'Che cos'è un istinto?' e, come tutti questi dialoghi,
inizia con una domanda trabocchetto da parte della figlia: “Papà, che cos'è un
istinto?” Ora, se mia figlia lo avesse chiesto a me, avrei cominciato prudente
mente con una spiegazione tratta dalle mie conoscenze biologiche, sfoderando
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magari una bella spiegazione letterale di cos'è un istinto. Il padre in


questione, però, non cadde nella trappola. Si rende subito conto che la parola
'istinto' è utilizzata all'interno di un dialogo, viene utilizzata per qualche
scopo 'politico', e si domanda: “Che cosa vuole da me? Che cosa si aspetta?”
Così risponde: Padre. Un istinto, tesoro, è un principio esplicativo. Figlia.
Ma che cosa spiega? Padre. Ogni cosa... Quasi ogni cosa. Ogni cosa che si
voglia spiegare con esso. [Osserverete che se qualcosa spiega ogni cosa,
probabilmente non spiega proprio niente] F. Non dire sciocchezze. Non spiega la
forza di gravità.

P. No. Ma è cosi perché nessuno vuole che l' 'istinto' spieghi la forza di
gravità. Se qualcuno volesse la spiegherebbe. Si potrebbe semplice mente dire
che la luna ha un istinto la cui forza varia in maniera inversamente
proporzionale al quadrato della distanza... F. Ma non ha senso, papà.

P. Sì, d'accordo, ma sei tu che hai tirato fuori l' 'istinto', non io. F.
D'accordo... ma allora che cos'è che spiega la forza di gravità? P. Niente
tesoro, perché la forza di gravità è un principio esplicativo. F. Ah. (Breve
pausa)

F. Vuol dire che non si può usare un principio esplicativo per spiegar ne un
altro? Mai? P. Uhm... quasi mai. Questo è quello che Newton intendeva quando
diceva 'Hypoteses non fingo' . F. E che cosa vuol dire?

[Ora, per favore, prestate attenzione al padre mentre dà una spiegazione di che
cosa è un'ipotesi, e notate come, nel fare ciò, si mantenga sempre nel dominio
linguistico e nella descrizione, senza fare riferimento a nient'altro al di
fuori del linguaggio]. P. Be', sai cosa sono le 'ipotesi'. Ogni proposizione
che colleghi tra loro due proposizioni descrittive è un'ipotesi. Se dici che il
1° febbraio c'era la luna piena e che il 1° marzo c'era di nuovo, e poi
colleghi queste due proposizioni in qualche modo, la proposizione che le
collega è un'ipotesi. F. Si, e so anche che cosa vuol dire non. Ma fingo che
cosa vuol dire? P. Beh... fingo è un termine della tarda latinità che significa
'fabbrico'. Da esso si forma un sostantivo, fictio, da cui proviene la parola
'finzione' che oggi è spesso intesa come fabbricazione non vera. F. Papà vuoi
dire che il signor Isacco Newton pensava che tutte le ipo tesi fossero solo
fabbricate come le storie? P. Si, proprio cosi.

F. Ma non è stato lui a scoprire la gravità? Con la mela? P. No, tesoro, I'ha
inventata.

Se voi inventate qualcosa, allora è il linguaggio che crea il mondo; se invece


pensate di aver scoperto qualcosa, allora il linguaggio non è che un'immagine
del mondo. Spero con ciò di essere riuscito a dimostrarvi che anche Gregory Bateson
avrebbe detto che è il linguaggio che genera il mon do, e non il mondo che si
rappresenta nel linguaggio.

Una versione moderna della caverna di Platone

Mi ero annotato un piccolo aneddoto, che pensavo di non potervi il lustrare, ma


ora credo che il tempo lo consenta. Quando raccontai la meta fora della
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caverna, un paio di mesi fa, in Germania, ad un gruppo di fisici, uno di essi


mi lasciò un messaggio all'hotel, il giorno dopo, per suggerirmi una
continuazione della storia. Diceva: “Improvvisamente ho visto gli uomini
incatenati su comode poltrone, le catene erano abbastanza larghe e non
sembravano dar loro fastidio, li ho addirittura sentiti dire che quella era la
posizione più comoda. Comunque, sedevano con le braccia incrocia te osservando
lo schermo di fronte a loro. Là le ombre danzavano in colori luccicanti, e gli
spettatori avevano solo un desiderio: quello di poter alme no una volta creare
un'ombra, o di essere essi stessi quell'ombra. Uno di loro si alzò e depose le
sue catene, l'ho visto farlo senza bisogno di aiuto. Gli altri scossero la
testa, non comprendendo, alcuni, addirittura con rabbia, non si girarono
nemmeno, per non distogliere i loro occhi dallo schermo luminoso. C'è un pazzo
, pensavano adagiandosi ancora più comoda mente sui loro soffici guanciali–che
cerca ancora di vedere fuori, ciò che una volta chiamavano la vera realtà”.

Tre esempi

Mi piacerebbe ora illustrare alcune delle mie affermazioni con qual che
esempio. Il primo di questi riguarda la spiegazione ed è tratto da una storia
di Carlos Castaneda. Come ricorderete, Castaneda si recò a Sonora, in Messico,
per incontrare un brujo, di nome don Juan, per farsi aiutare ad apprendere a
vedere. Cos~ donJuan se ne va con Carlito nella boscaglia messicana per
insegnargli a vedere ciò che vi avviene. Essi camminano per un'ora o due e
improvvisamente don Juan dice: “Guarda, guarda là! Hai visto?” Castaneda
risponde: “No... non ho visto”. Niente di male. Ripren dono il cammino e dopo
circa dieci minuti donJuan ancora: “Guarda, guarda là! Hai visto?” Castaneda
guarda e dice: “Non vedo un bel niente”. “Ah!”. Continuano a camminare e la
stessa scena si ripete altre due o tre volte, ma Castaneda non vede mai niente.
Finalmente don Juan trova la soluzio ne: “Ora capisco, Carlito, qual è il tuo
problema. Non puoi vedere le cose che non sai spiegare. Cerca di dimenticarti
delle spiegazioni e comincerai a vedere”. Il secondo esempio è di carattere
clinico. Durante la prima guerra mondiale le truppe alleate avevano degli
elmetti che non li proteggevano bene, così molti soldati riportarono danni e
lesioni al cervello. Molte volte il cranio non veniva completamente frantumato,
ma il proiettile trapassava l'elmetto da parte a parte, e clinicamente si
riscontravano dei buchi nel cervello. Nella maggior parte dei casi questo
problema fisico si risolveva in un paio di mesi, la persona sembrava star bene
e veniva quindi dimessa. Ci furono alcuni casi in cui, dopo qualche mese dalla
dimissione, la persona ritornava perché presentava sintomi di disfunzioni
motorie, non riusciva a camminare in modo appropriato, a utilizzare
correttamente le mani, ecc... Queste disfunzioni vennero immediatamente
analizzate ma non fu riscontrato niente di anomalo, tutto era regolare. I
dottori non sapevano cosa fare per questa gente. In una di queste situazioni un
medico america no, che in quel periodo si trovava in Francia, offrì a uno di
questi pazienti una sigaretta. Mostrò il pacchetto chiedendo: “Gradirebbe una
sigaretta?” Il paziente non sembrava capire: “Cosa?” “Le ho chiesto se vuole
una sigaretta”. “Cosa?” Prese allora la sigaretta in mano e la sollevò fino
all'altezza degli occhi del paziente: “Vuole una sigaretta?” “Ah!, si! Mi
piacerebbe avere una sigaretta!” Così questo medico immediatamente realizzò che
c'era qualcosa che non andava nella vista. Il paziente venne esaminato in un
reparto di oftalmologia. Nella figura n° 4 potete vedere la lesione in quel
cranio, un trauma che inizia sulla regione occipitale, passa attraverso la
corteccia visiva e quello che si ha è una quasi completa cecità, una
scotomizzazione periferica molto forte che rendeva quest'uomo praticamente
cieco.

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Egli aveva, cioè, una macchia cieca grande quanto l'intero campo retinico. Così
quest'uomo praticamente non vedeva, e allo stesso tempo non vedeva di non
vedere. Egli osservava che alle volte gli amici con cui stava parlando non
avevano la testa, ma bastava che si spostassero un po' e la testa ricompariva
subito, e se non ci si faceva particolarmente caso, era difficile accorgersene.
E quali furono le idee dei medici per aiutare questo paziente a riguadagnare le
sue funzioni motorie? Essi ebbero un'idea geniale, e ci sono abbondanti
documentazioni al proposito: lo bendarono, così che non potesse avere alcun
indizio visivo. Naturalmente sapete che anche se siete bendati conoscete
esattamente la posizione del vostro corpo. Il vostro sistema propriocettivo vi
informa se avete la mano distesa o la gamba piegata, e lo sapete benissimo
perché prestate ascolto al vostro corpo e non avete alcun bisogno di vedervi
muovere i vostri arti. Il paziente, in quel caso, non poteva vedere i suoi
arti, quando si muoveva, e per questo aveva perso il controllo su essi, al
punto che non poteva più muoverli. Ma quando fu bendato il sistema
propriocettivo riguadagnò la sua forza e lui riuscì di nuovo a camminare e a
muoversi liberamente. Quando gli tolsero la benda, l'uomo poté finalmente sia
vedere che camminare, poiché egli aveva disaccoppiato se stesso dall'insistenza
di voler controllare i suoi movimenti attraverso la vista. Non c'erano indizi a
disposizione e perciò egli poteva controllare i suoi movimenti solo attraverso
il sistema propriocettivo. Ho menzionato questo esempio perché, secondo me, in
molte situazioni terapeutiche questo disaccoppiamento di uno stato da un altro
può rivelarsi uno strumento estremamente efficace, una strategia utilizzabile
quando c'è un particolare accoppiamento di certe nozioni con certe altre non
facilmente separabili. Il terzo esempio che vorrei portarvi è una storia che
anche a Gregory piaceva molto. Avevo uno studente cieco, di nome Peter, nel mio
laboratorio, con una forma di cecità congenita, che era un uomo molto brillante
(era presidente dell'associazione degli studenti ciechi), e collaborava con me
aiutandomi a tradurre del materiale molto difficile di matematica dal tedesco
all'inglese, così ogni settimana mi faceva dei resoconti del suo lavoro. La
disposizione del mio ufficio era tale per cui quando gli studenti entravano si
sedevano di fronte a me, tra di noi c'era una scrivania, e alle mie spalle
c'era una parete con una lavagna. Quando veniva Peter a parlarmi del suo
lavoro, egli puntava sempre col dito a qualcosa che io immaginavo essere dietro
di me, mi giravo a guardare e c'erano solo la lavagna e il muro e nient'altro,
e tutto ciò mi sembrava sciocco. Improvvisamente realizzai che la sua scrivania
era esattamente dall'altra parte del muro, nel l'altra stanza, e poiché egli
era cieco poteva vedere attraverso il muro, mentre io che vedevo non potevo
vedere attraverso il muro. Pensai che questo era molto interessante e gli
chiesi: “Peter, come fai a sapere che è lì la tua stanza?” Lui rispose: “Oh, è
molto facile; io non cammino all'interno dell'edificio ma muovo l'edificio
intorno a me. Così per arrivare nel tuo ufficio quello che faccio è spingere il
laboratorio di ricerca dietro di me poi faccio fare un giro a tutto l'edificio,
torno indietro di alcuni passi e poi faccio fare un altro giro a tutto
l'edificio e arrivo qua!” Poiché manipolava l'edificio restando sempre nello stesso
posto, sapeva sempre esattamente dove si trovava. Questo è un esempio
meraviglioso di percezione attraverso un anello senso-motorio, lo stesso anello
senso-motorio che abbiamo visto prima nel caso della persona scotomizzata.

Non vedo se non credo

Vi darò ora un ultimo esempio di queste indagini, per poi trarne alcune brevi
conclusioni. Si tratta di un esempio molto affascinante tratto da un
esperimento condotto circa 15 anni fa dal prof. Oakland, credo nel Mas
sachussets General Hospital. Egli stava facendo degli esperimenti con dei
gatti, riguardo alla acuità uditiva, e registrava con dei microelettrodi le
variazioni all'interno dei percorsi auditivi dal nucleo cocleare (che è il
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primo nucleo che si incontra immediatamente dopo la coclea), fino al nucleo


trapezoidale, e così via, passo dopo passo per arrivare alla corteccia. Veniva
no quindi collocati 8-10 di questi microelettrodi nel cervello del gatto, che,
così preparato, veniva introdotto in una gabbia. In questa gabbia c'era una
piccola scatola contenente un pesce. Questa scatola aveva un coperchio, di modo
che fosse possibile aprirla e prendere il pesce, e questo coperchio poteva
essere aperto operando attraverso una leva. Ora, ecco il punto essenziale della
questione: il collegamento fra la leva e il coperchio funziona va solo quando
veniva presentato un breve segnale sonoro, un bip di circa 1000 Hz. Il gatto
veniva messo nella gabbia e incominciava a sentire questi segnali acustici.
Ora, per favore, guardate la figura n° 5.

La prima tabella mostra le registrazioni ottenute da vari nuclei e, nel la


prima riga, la registrazione di ogni bip che veniva presentato al soggetto. Le
sigle sulla sinistra indicano il nucleo da cui proviene la registrazione. Il
bip comincia ad essere emesso e, ricordando che per il gatto questa è la prima
esperienza in assoluto, osservate la registrazione: non c'è nessuna rilevazione
acustica nell'attività neuronale di quell'organo di senso che si suppone debba
dire al gatto che c'è stato un bip. Il gatto viene sottoposto più volte a
questo test e nella tredicesima prova potete vedere che comincia ad esserci un
minimo di correlazione tra il segnale acustico e l'attività di alcuni nuclei.
Passate ora alla seconda tabella, e nella sessione 4, ventesima prova, potete
chiaramente vedere che quando il bip appare vie ne registrato attraverso
l'intero percorso auditivo fino alla corteccia, e la risposta viene mantenuta
tutte le volte che il segnale acustico si ripresenta. Questo è il momento in
cui il gatto 'sa' che 'bip' significa 'pesce', e che lo può finalmente prendere
dalla scatola, operando correttamente sulla le va. Quando il gatto ha completa
padronanza della situazione, come nel l'ultima tabella (sessione 6, nona
prova), appena appare il primo bip l'intero sistema nervoso ne prende
coscienza, ma subito dopo può dimenticarse ne perché sa che anche se i bip
continueranno può in ogni caso cominciare a godersi il suo pesce. Ci sono due
cose che penso siano importanti in questo contesto: la prima è che, sebbene il
bip sia presente, l'apparato nervoso che si suppone debba registrarlo non lo
sta in effetti sentendo, perché in caso contrario avremmo dovuto avere dei
segnali nella nostra registrazione. Questo significa che nonostante ci sia
stato un segnale acustico, il gatto non l'ha sentito. Comincia a sentire il bip
quando capisce quello che significa. Così vorrei mettere in discussione un
altro famoso proverbio molto diffuso in America, e cioè quello che dice “vedere
per credere”. Bene, signore e signori, io dico “credere per vedere”! Dovete
capire quello che vedete altrimenti non lo vedete, e nel nostro esempio ciò è
molto chiaro. Ora, naturalmente, i fisiologi sobbalzeranno sulla sedia
domandandosi “ma come è possibile?”, “che cosa è successo?”, “come può
essere”,
ecc... Fortunatamente posso rispondervi, grazie al lavoro svolto nel campo
della neurofisiologia e della neuroanatomia da due scienziati cileni, Humberto
Maturana e Sammy Frenk, che dimostrarono, attraverso l'investigazione delle vie
auditive, l'esistenza di fibre centrifughe, provenienti dalla porzione centrale
del cervello e dirette alla retina, che distribuendosi lungo tutta la retina
possono esercitare un controllo su ciò che la retina vede. Così la retina è
soggetta al controllo centrale: ecco perché bisogna credere per vedere.

Allo stesso modo, più in generale modi particolari di descrizione di ciò che
sta accadendo possono inibirne o facilitarne la percezione. Ciò che abbiamo qui
non è solo un anello senso-motorio, ciò che abbiamo è un anello
senso-sensoriale completo, e più ci avviciniamo all'osservazione di questi
anelli, più i risultati sono affascinanti. Non vi posso fare un resoconto
completo dei lavori svolti in proposito, ma vorrei proporvi alcune suggestioni
di quelli che sono i risultati di queste ricorsioni installate all'interno del
sistema nervoso. Iniziamo con un esempio: se prendete un'operazione e la
ripetete più e più volte otterrete un concetto di secondo ordine, farete
un'operazione su un'operazione. Potete anche applicarlo al processo di
computazione, si può parlare di computazione della computazione, dove il modus
operandi è cambiato nelle sue operazioni di base: cambiate l'operate operando
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sull'operatore. Quali sono i risultati di queste operazioni? Pazzeschi! Per


illustrarveli vi proporrò un caso molto semplice: prendete la radice quadrata
di un numero arbitrario qualsiasi, mettiamo 16, e applicatela più e più volte a
se stessa. Dopo un certo numero di operazioni convergete sul numero 1, e ciò
non costituisce niente di straordinario. Quello che accade possiamo vederlo
nella radice quadrata che osserva il risultato di ciò che il sistema motorio ha
fatto, raccogliendolo e computandolo tante e tante volte, finché non ottiene
come risultato 1, e se voi perturbate quell' 1, spostandolo ad esempio su 1,4 o
1,03 dopo due o tre giri ritornerà a 1. Accanto a questo esempio si può pensare
una sequenza di numeri in cui è computata la radice della radice, ecc. Si
inizia col numero 137, e potete vedere come già dopo diciotto operazioni siamo
molto vicini a 1. Ciò significa che ci siamo avvicinati molto velocemente ad
una operazione stabile del sistema. Ed ora vorrei farvi vedere una cosa simile
riferita al sistema senso motorio.

I quadretti neri rappresentano degli aggregati di fibre immediatamente


adiacenti ed escono attraverso il sistema motorio. Quello che accade quando, ad
esempio, muovete una mano, è che attraverso la retina potete osservare i vostri
cambiamenti, che sono quindi immediatamente retroagiti nel sistema per mezzo
dei recettori e ritornano in questo modo al sistema motorio. Ma c'è un secondo
anello, o chiusura, ed è naturalmente quello che interessa le sinapsi
attraverso gli ormoni secreti dall'ipofisi. L'ipofisi, che è fittamente
innervata, genera una certa quantità di ormoni che agiscono sulle sinapsi, di
modo che si ha una doppia chiusura. Questa doppia chiusura può venir
rappresentata da un tipo di figura detta toro (fatta come una ciambella). Qui
la fessura sinaptica tra la superficie motoria e quella sensitiva è il
meridiano striato al centro della faccia anteriore, mentre l'ipofisi è
l'equatore punteggiato e rappresenta la seconda chiusura. A questo punto sorge
spontanea una domanda: quali sono le conseguenze di questa chiusura? Le
conseguenze riguardano essenzialmente lo slittamento della nozione di
proprietà, che dall'essere pensate come appartenenti agli oggetti passano ad
appartenere all'osservatore. Vi darò alcuni esempi: non ci sono storie noiose,
ci sono ascoltatori noiosi; non ci sono vecchie storie, ci sono solo vecchie
orecchie; se mostrate un'immagine a qualcuno e gli chiedete se è un'immagine
oscena e lui vi risponde di sì, sa prete molto a proposito di chi vi ha
risposto ma poco a proposito dell'immagine. A questo proposito vorrei
raccontarvi un'ultima storia che riguarda Pavlov, il famoso psicologo, che era
anche un grande osservatore e che diresse un laboratorio di ricerca famoso per
la sua accuratezza e precisione nelle indagini. Come ricorderete, egli studiava
le risposte riflesse che era possibile produrre nei cani dopo che, al suono di
una campanella, veniva loro presentato un pezzo di carne: il cane salivava, e
così via. Alla fine non gli veniva data la carne, si faceva suonare la
campanella e il cane... saliva va. Riflesso condizionato. Ora, Konorski, un
famoso psicologo sperimentale, volle ripetere l'esperimento di Pavlov, e lo
fece molto accuratamente perché Pavlov, nel suo stupendo libro, aveva
specificato tutti i particolari, come doveva essere legato il cane, di che
colore erano gli indumenti degli sperimentatori, e così via, Konorski ripeté
esattamente l'esperimento: I'assistente andava avanti al cane, suonava la
campanella, presentava la carne, il cane salivava e tutti erano felici. Finché
nel suo ultimo test Konorski all'insaputa dell'assistente, tolse il batacchio
della campanella. L'assistente andò davanti al cane, prese la campanella...
silenzio... e... il cane saliva va! Konorski concluse allora che il suono della
campanella era lo stimolo per Pavlov, e non per il cane! Queste sono ~ose che
bisogna ricordare...

Esseri umani o 'divenire umani'

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Vorrei concludere ritornando con un commento sulla circostanza per cui in molti
casi è il linguaggio, per via del suo aspetto denotativo, che ci seduce e ci
induce a ricercare le proprietà del reale 'la fuori' invece che al nostro
interno. Questa abitudine, in molti casi genera una certa compiacenza:
considerate per esempio come, riferendoci a noi stessi parliamo di esseri
umani. Con questo fatto di essere degli esseri umani non ci può accadere
niente: si possono fare le cose peggiori e questa idea di noi stessi non
cambia. Ma vi invito ad abbandonare l'autocompiacimento di essere degli esseri
umani, e ad entrare nell'avventura di divenire dei divenire umani: la
situazione cambia molto, provate su di voi, parlate di divenire umani e
osservate quello che vi accade. Ma poi la domanda diventa: “Come facciamo a
sapere se ci siamo riusciti? Come facciamo ad osservare noi stessi?”. E l'unico
modo che posso suggerirvi per vedere noi stessi è di vedere noi stessi
attraverso gli occhi degli altri. Ho imparato questo dallo psicoanalista Victor
Frankl. C'era una situazione molto catastrofica in Austria alla fine del la
guerra. Molta gente tornava dai campi di concentramento, molti erano vittime di
bombardamenti, e Victor Frankl fu uno spirito veramente essenziale che aiutò
veramente tanta gente a quell'epoca. Nello stesso periodo in cui arrivò a
Vienna, da Belsen, e si stabilì subito nella clinica dove aveva già lavorato,
c'era una coppia che arrivava da due differenti campi di concentramento. Entrambi
erano soprawissuti. Si erano incontrati a Vien na ed erano increduli, non
potevano crederci: “Tu sei ancora...?” Fantasti co! Essi rimasero assieme per
circa sei mesi, dopodiché lei morì a causa di una malattia che aveva contratto
nel campo di concentramento, e il ma rito si abbatté completamente. Stava
sempre seduto in casa, non parlava più con nessuna delle persone che cercavano
di consolarlo, che gli diceva no: “Pensa se fosse morta prima...”. Non reagiva.
Finalmente qualcuno riuscì a convincerlo a cercare aiuto da Victor Frankl.
L'uomo andò da Victor Frankl e parlarono a lungo. Forse due, forse tre ore.
Alla fine di questa conversazione, Victor Frankl disse a quest'uomo:
“Ammettiamo che Dio mi desse il potere di generare una donna che sia esattamente
come tua moglie: ricorderebbe tutti i vostri dialoghi, ricorderebbe gli
scherzi, ricorderebbe ogni particolare, non saresti in grado di distinguere
questa donna che io genere rei per te dalla moglie che hai perduto. Vorresti
che lo facessi?” L'uomo rimase in silenzio per qualche minuto poi disse: “No,
grazie molte!” Si strinsero la mano, l'uomo se ne andò e iniziò una nuova vita.
Quando sentii questa storia, chiesi subito a Frankl: “Dottore, che cosa è
successo? Non capisco...”. E lui rispose: “Vedi Heinz, noi ci vediamo at
traverso gli occhi degli altri. Quando lei è morta, lui è diventato cieco. Ma
quando ha visto che era cieco ha potuto vedere ancora!”. E con questo ricordo
vorrei concludere il mio discorso su Gregory Bateson e sul doppio cieco. Grazie
per l'attenzione.

* Testo della conferenza tenuta a Philadelphia il 10.1.1985 per il 1° Gregory


Bateson Memorial Lec ture. Trascrizione e traduzione sono state curate dal
'Lab/Laboratorio Bateson' dell'Università di Par ma. Il titolo è un gioco di
parole che al lettore italiano non suona immediato, ma che abbiamo preferi to
mantenere per la sua efficacia espressiva, una volta che lo si sia compreso.
Come è spiegato nel testo, il 'doppio cieco' (in inglese double blind) richiama
il 'doppio vincolo' di Gregory Bateson (in inglese: double bind).

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