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modo che possiate finalmente vedere ciò di cui stava parlando...”. Mi domandavo
come avrebbe reagito Gregory a questo intervento e lo osservavo con la coda
dell'occhio: stava ridacchiando e sbuffando (era il suo modo di ridere), e
pensai quindi che quella era la strategia corretta. Poiché ritengo che quella
strategia fu efficace vorrei impiegarla anche oggi con voi, tentando di rendere
più opache alcune delle nozioni di Bateson. Vorrei affrontare due nozioni
fondamentali che credo siano presenti, spesso non esplicitamente, in molte
delle sue conversazioni, dei suoi dialoghi e dei suoi scritti. La prima di
queste è 'vedere', e intendo 'vedere' nello spirito di William Blake, quando
sosteneva di non vedere con gli occhi ma attraverso gli occhi: ciò significa
che vedere deve essere inteso nel senso di ottenere un insight, di giungere
alla comprensione di qualcosa, ricorrendo a tutto ciò di cui si dispone a
livello di spiegazioni, metafore, parabole, ecc. L'altra nozione è quella di
'etica', intesa nello spirito di Wittgenstein, quando diceva: “E chiaro che l'etica
non si può esprimere in parole” (che in tedesco suonerebbe: “Es ist klar das
Ethik sich nicht aussprechen laesst”). Leggendo Bateson si nota una sua
costante attenzione a che l'effetto di parole come, ad esempio, significato,
fine, controllo, informazione, ecc., in qualche modo non si rivolti contro di
esse.
C'è naturalmente una connessione tra queste due nozioni, il vedere e l'etica.
Questa connessione mi ha ispirato il titolo di oggi, che è Sul vede re: il
problema del doppio cieco (On seeing: the problem of the double blind). Direte
“Ma cosa significa? Certamente voleva dire, con Gregory Bateson, 'doppio
vincolo' (double blind), ci deve essere un errore”. Naturalmente sono la stessa
cosa, non importa che ci sia o meno la elle. Vorrei tuttavia spiegare il motivo
della scelta di questo titolo e lo farò mediante un esperimento. Guardate la
figura con una stella e un cerchietto nero. (* )
Bene, prendete il foglio con la mano destra. Chiudete l'occhio sinistro, con la
mano sinistra se è necessario. Tenete il foglio di fronte a voi, fissate la
stella e spostate il foglio lentamente avanti e indietro lungo la linea della
visione. Improvvisamente noterete che in una certa posizione, più o meno a una
ventina di centimetri dall'occhio, il cerchietto nero sparisce dalla visuale.
Questo fenomeno si chiama punto cieco (blind spot). Ora vi darò una spiegazione
fisiologica del perché questo succede. Vi darò questa spiegazione invitandovi a
prestare attenzione a due cose: la prima, ovviamente, è la spiegazione stessa,
l'altra è l'effetto che essa produce su di voi mentre l'ascoltate. Dovete
dunque fare due cose, ascoltare me e osservare voi stessi mentre ascoltate. La
spiegazione si trova nella struttura stessa dell'occhio, dove si può vedere che
nella sezione trasversale dell'occhio, la stella e il cerchietto, sono
proiettate, attraverso una lente, sulla retina dell'occhio. Guardando un po'
più attentamente si può vedere che la stella è proiettata sulla fovea, che è
quella par te dell'occhio dove si ha la maggiore acuità visiva, poiché qui i
coni e i bastoncelli hanno un'altissima densità. Ma in certe condizioni il
cerchietto nero è proiettato su una zona della retina dove il nervo ottico esce
dall'occhio, e in quella zona non ci sono coni o bastoncelli, non ci sono
recettori ottici, e perciò, naturalmente, se qualcosa è proiettato su quel
punto cieco non può essere visto. E chiaro? Sfortunatamente, è molto chiaro!
Possiamo perciò tornare alle nostre consuete occupazioni, dimenticare tutto quanto
e sentirci lo stesso molto tranquilli. Tutto il fascino del punto cieco
scompare, diventando una faccenda molto naturale. Ora, che cosa sta producendo
questa spiegazione? Almeno due cose: non solo attraverso di essa questo
affascinante fenomeno viene spazzato sotto il tappeto, c'è un altro effetto che
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Per quanto riguarda il linguaggio, ci sono due punti che esporrò molto
concisamente, che si presentano molto spesso e sono certo vi saranno familiari.
Il primo è la confusione per cui il più delle volte si pensa il linguaggio come
denotativo: dico 'sedia' e la addito per denotare l'oggetto. Già Susan Langer e
altri psicolinguisti hanno capito che il linguaggio è essenzialmente
connotativo: quando dico 'sedia' non addito la vostra sedia ma evoco in voi la
nozione che avete delle sedie, quindi conto sul fatto che ci basiamo su nozioni
condivise e reciproche relative a questo particolare riferimento. Margaret Mead
racconta un aneddoto simpatico che illustra bene la questione. Durante uno dei
suoi studi sul linguaggio presso una certa popolazione si aiutava ad apprendere
il loro linguaggio utilizzando la modalità denotativa. Così additava un
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oggetto, e poi un altro, aspettandosi che le venisse fornito il loro nome, ma,
in ogni caso, tutte le perso ne le rispondevano sempre: “Chemombo!” Tutto era
Chemombo. Ella pensò “Mio Dio, che linguaggio terribilmente noioso! Hanno una
sola parola per tutto!” Finalmente, dopo un certo periodo, riuscì a scoprire il
significato di Chemombo, che significava... indicare con il dito! Per cui,
vedete, ci sono delle notevoli difficoltà nella semplice interpretazione del
linguaggio denotativo. L'altro punto riguarda un limite delle lingue
indoeuropee. Si tratta della possibilità di nominalizzazione. Significa che il
verbo può essere trasformato in sostantivo. E quando un verbo diventa nome,
improvvisamente si infiltra dentro di noi come se fosse una cosa. Quando si ha
un processo che può diventare una cosa si è veramente su una cattiva strada.
Molte delle difficoltà di comprensione che incontriamo derivano dal fatto che
abbiamo costantemente a che fare con cose che sono in effetti dei processi. La
nominalizzazione rende tutte le funzioni localizzabili, perché è molto comoda:
se si vuole conoscere una cosa basta guardare nel cervello per scoprire dov'è
localizzata. Ecco un esempio interessante di localizzazione funzionale,
pubblicato intorno al 1920, quando la frenologia era in gran voga. Sul cranio
vi erano rappresentate praticamente tutte le funzioni mentali localizzate con
molta precisione, si tratta di localizzazione funzionale 'impazzita'. Abbiamo
per esempio al 65A 'Movimento ondulatorio', al 149 'Repubblicanesimo', e come
suoi immediati vicini 148, 'Amore fedele' e 149A, 'Responsabilità'. La cosa
affascinante è che non abbiamo ancora perso questa abitudine di pensiero, che
continua imperterrita. Se vi chiedo ad esempio di localizzare la mente c'è
ancora qualcuno che mi risponderebbe che forse è nella sezione B, o qualcosa
del genere. Altri cercano di individuare la memoria, aprono un cranio e cercano
dove sono i chips, dove sono i tamburi magnetici, i nastri, ecc., e non li
trovano. Non sono nelle sinapsi, e neanche nei neuroni.. Dove sono queste cose?
Dove sono gli occhiali di mia nonna? Non ci sono. La nominalizzazione si
infiltra nelle discussioni, ripetutamente. Diventa molto difficile afferrare la
nozione stessa di processo, se scompare dentro le cose Come conseguenza della
nominalizzazione, la conoscenza, per esempio, viene considerata una merce;
anche l'informazione si può comprare come una merce, ridurla a pezzi, elaborarla,
venderla in bits, 5 dollari al chilogrammo. Questa è la mia critica alla
possibilità della nominalizzazione.
P. No. Ma è cosi perché nessuno vuole che l' 'istinto' spieghi la forza di
gravità. Se qualcuno volesse la spiegherebbe. Si potrebbe semplice mente dire
che la luna ha un istinto la cui forza varia in maniera inversamente
proporzionale al quadrato della distanza... F. Ma non ha senso, papà.
P. Sì, d'accordo, ma sei tu che hai tirato fuori l' 'istinto', non io. F.
D'accordo... ma allora che cos'è che spiega la forza di gravità? P. Niente
tesoro, perché la forza di gravità è un principio esplicativo. F. Ah. (Breve
pausa)
F. Vuol dire che non si può usare un principio esplicativo per spiegar ne un
altro? Mai? P. Uhm... quasi mai. Questo è quello che Newton intendeva quando
diceva 'Hypoteses non fingo' . F. E che cosa vuol dire?
[Ora, per favore, prestate attenzione al padre mentre dà una spiegazione di che
cosa è un'ipotesi, e notate come, nel fare ciò, si mantenga sempre nel dominio
linguistico e nella descrizione, senza fare riferimento a nient'altro al di
fuori del linguaggio]. P. Be', sai cosa sono le 'ipotesi'. Ogni proposizione
che colleghi tra loro due proposizioni descrittive è un'ipotesi. Se dici che il
1° febbraio c'era la luna piena e che il 1° marzo c'era di nuovo, e poi
colleghi queste due proposizioni in qualche modo, la proposizione che le
collega è un'ipotesi. F. Si, e so anche che cosa vuol dire non. Ma fingo che
cosa vuol dire? P. Beh... fingo è un termine della tarda latinità che significa
'fabbrico'. Da esso si forma un sostantivo, fictio, da cui proviene la parola
'finzione' che oggi è spesso intesa come fabbricazione non vera. F. Papà vuoi
dire che il signor Isacco Newton pensava che tutte le ipo tesi fossero solo
fabbricate come le storie? P. Si, proprio cosi.
F. Ma non è stato lui a scoprire la gravità? Con la mela? P. No, tesoro, I'ha
inventata.
Tre esempi
Mi piacerebbe ora illustrare alcune delle mie affermazioni con qual che
esempio. Il primo di questi riguarda la spiegazione ed è tratto da una storia
di Carlos Castaneda. Come ricorderete, Castaneda si recò a Sonora, in Messico,
per incontrare un brujo, di nome don Juan, per farsi aiutare ad apprendere a
vedere. Cos~ donJuan se ne va con Carlito nella boscaglia messicana per
insegnargli a vedere ciò che vi avviene. Essi camminano per un'ora o due e
improvvisamente don Juan dice: “Guarda, guarda là! Hai visto?” Castaneda
risponde: “No... non ho visto”. Niente di male. Ripren dono il cammino e dopo
circa dieci minuti donJuan ancora: “Guarda, guarda là! Hai visto?” Castaneda
guarda e dice: “Non vedo un bel niente”. “Ah!”. Continuano a camminare e la
stessa scena si ripete altre due o tre volte, ma Castaneda non vede mai niente.
Finalmente don Juan trova la soluzio ne: “Ora capisco, Carlito, qual è il tuo
problema. Non puoi vedere le cose che non sai spiegare. Cerca di dimenticarti
delle spiegazioni e comincerai a vedere”. Il secondo esempio è di carattere
clinico. Durante la prima guerra mondiale le truppe alleate avevano degli
elmetti che non li proteggevano bene, così molti soldati riportarono danni e
lesioni al cervello. Molte volte il cranio non veniva completamente frantumato,
ma il proiettile trapassava l'elmetto da parte a parte, e clinicamente si
riscontravano dei buchi nel cervello. Nella maggior parte dei casi questo
problema fisico si risolveva in un paio di mesi, la persona sembrava star bene
e veniva quindi dimessa. Ci furono alcuni casi in cui, dopo qualche mese dalla
dimissione, la persona ritornava perché presentava sintomi di disfunzioni
motorie, non riusciva a camminare in modo appropriato, a utilizzare
correttamente le mani, ecc... Queste disfunzioni vennero immediatamente
analizzate ma non fu riscontrato niente di anomalo, tutto era regolare. I
dottori non sapevano cosa fare per questa gente. In una di queste situazioni un
medico america no, che in quel periodo si trovava in Francia, offrì a uno di
questi pazienti una sigaretta. Mostrò il pacchetto chiedendo: “Gradirebbe una
sigaretta?” Il paziente non sembrava capire: “Cosa?” “Le ho chiesto se vuole
una sigaretta”. “Cosa?” Prese allora la sigaretta in mano e la sollevò fino
all'altezza degli occhi del paziente: “Vuole una sigaretta?” “Ah!, si! Mi
piacerebbe avere una sigaretta!” Così questo medico immediatamente realizzò che
c'era qualcosa che non andava nella vista. Il paziente venne esaminato in un
reparto di oftalmologia. Nella figura n° 4 potete vedere la lesione in quel
cranio, un trauma che inizia sulla regione occipitale, passa attraverso la
corteccia visiva e quello che si ha è una quasi completa cecità, una
scotomizzazione periferica molto forte che rendeva quest'uomo praticamente
cieco.
Egli aveva, cioè, una macchia cieca grande quanto l'intero campo retinico. Così
quest'uomo praticamente non vedeva, e allo stesso tempo non vedeva di non
vedere. Egli osservava che alle volte gli amici con cui stava parlando non
avevano la testa, ma bastava che si spostassero un po' e la testa ricompariva
subito, e se non ci si faceva particolarmente caso, era difficile accorgersene.
E quali furono le idee dei medici per aiutare questo paziente a riguadagnare le
sue funzioni motorie? Essi ebbero un'idea geniale, e ci sono abbondanti
documentazioni al proposito: lo bendarono, così che non potesse avere alcun
indizio visivo. Naturalmente sapete che anche se siete bendati conoscete
esattamente la posizione del vostro corpo. Il vostro sistema propriocettivo vi
informa se avete la mano distesa o la gamba piegata, e lo sapete benissimo
perché prestate ascolto al vostro corpo e non avete alcun bisogno di vedervi
muovere i vostri arti. Il paziente, in quel caso, non poteva vedere i suoi
arti, quando si muoveva, e per questo aveva perso il controllo su essi, al
punto che non poteva più muoverli. Ma quando fu bendato il sistema
propriocettivo riguadagnò la sua forza e lui riuscì di nuovo a camminare e a
muoversi liberamente. Quando gli tolsero la benda, l'uomo poté finalmente sia
vedere che camminare, poiché egli aveva disaccoppiato se stesso dall'insistenza
di voler controllare i suoi movimenti attraverso la vista. Non c'erano indizi a
disposizione e perciò egli poteva controllare i suoi movimenti solo attraverso
il sistema propriocettivo. Ho menzionato questo esempio perché, secondo me, in
molte situazioni terapeutiche questo disaccoppiamento di uno stato da un altro
può rivelarsi uno strumento estremamente efficace, una strategia utilizzabile
quando c'è un particolare accoppiamento di certe nozioni con certe altre non
facilmente separabili. Il terzo esempio che vorrei portarvi è una storia che
anche a Gregory piaceva molto. Avevo uno studente cieco, di nome Peter, nel mio
laboratorio, con una forma di cecità congenita, che era un uomo molto brillante
(era presidente dell'associazione degli studenti ciechi), e collaborava con me
aiutandomi a tradurre del materiale molto difficile di matematica dal tedesco
all'inglese, così ogni settimana mi faceva dei resoconti del suo lavoro. La
disposizione del mio ufficio era tale per cui quando gli studenti entravano si
sedevano di fronte a me, tra di noi c'era una scrivania, e alle mie spalle
c'era una parete con una lavagna. Quando veniva Peter a parlarmi del suo
lavoro, egli puntava sempre col dito a qualcosa che io immaginavo essere dietro
di me, mi giravo a guardare e c'erano solo la lavagna e il muro e nient'altro,
e tutto ciò mi sembrava sciocco. Improvvisamente realizzai che la sua scrivania
era esattamente dall'altra parte del muro, nel l'altra stanza, e poiché egli
era cieco poteva vedere attraverso il muro, mentre io che vedevo non potevo
vedere attraverso il muro. Pensai che questo era molto interessante e gli
chiesi: “Peter, come fai a sapere che è lì la tua stanza?” Lui rispose: “Oh, è
molto facile; io non cammino all'interno dell'edificio ma muovo l'edificio
intorno a me. Così per arrivare nel tuo ufficio quello che faccio è spingere il
laboratorio di ricerca dietro di me poi faccio fare un giro a tutto l'edificio,
torno indietro di alcuni passi e poi faccio fare un altro giro a tutto
l'edificio e arrivo qua!” Poiché manipolava l'edificio restando sempre nello stesso
posto, sapeva sempre esattamente dove si trovava. Questo è un esempio
meraviglioso di percezione attraverso un anello senso-motorio, lo stesso anello
senso-motorio che abbiamo visto prima nel caso della persona scotomizzata.
Vi darò ora un ultimo esempio di queste indagini, per poi trarne alcune brevi
conclusioni. Si tratta di un esempio molto affascinante tratto da un
esperimento condotto circa 15 anni fa dal prof. Oakland, credo nel Mas
sachussets General Hospital. Egli stava facendo degli esperimenti con dei
gatti, riguardo alla acuità uditiva, e registrava con dei microelettrodi le
variazioni all'interno dei percorsi auditivi dal nucleo cocleare (che è il
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Allo stesso modo, più in generale modi particolari di descrizione di ciò che
sta accadendo possono inibirne o facilitarne la percezione. Ciò che abbiamo qui
non è solo un anello senso-motorio, ciò che abbiamo è un anello
senso-sensoriale completo, e più ci avviciniamo all'osservazione di questi
anelli, più i risultati sono affascinanti. Non vi posso fare un resoconto
completo dei lavori svolti in proposito, ma vorrei proporvi alcune suggestioni
di quelli che sono i risultati di queste ricorsioni installate all'interno del
sistema nervoso. Iniziamo con un esempio: se prendete un'operazione e la
ripetete più e più volte otterrete un concetto di secondo ordine, farete
un'operazione su un'operazione. Potete anche applicarlo al processo di
computazione, si può parlare di computazione della computazione, dove il modus
operandi è cambiato nelle sue operazioni di base: cambiate l'operate operando
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Vorrei concludere ritornando con un commento sulla circostanza per cui in molti
casi è il linguaggio, per via del suo aspetto denotativo, che ci seduce e ci
induce a ricercare le proprietà del reale 'la fuori' invece che al nostro
interno. Questa abitudine, in molti casi genera una certa compiacenza:
considerate per esempio come, riferendoci a noi stessi parliamo di esseri
umani. Con questo fatto di essere degli esseri umani non ci può accadere
niente: si possono fare le cose peggiori e questa idea di noi stessi non
cambia. Ma vi invito ad abbandonare l'autocompiacimento di essere degli esseri
umani, e ad entrare nell'avventura di divenire dei divenire umani: la
situazione cambia molto, provate su di voi, parlate di divenire umani e
osservate quello che vi accade. Ma poi la domanda diventa: “Come facciamo a
sapere se ci siamo riusciti? Come facciamo ad osservare noi stessi?”. E l'unico
modo che posso suggerirvi per vedere noi stessi è di vedere noi stessi
attraverso gli occhi degli altri. Ho imparato questo dallo psicoanalista Victor
Frankl. C'era una situazione molto catastrofica in Austria alla fine del la
guerra. Molta gente tornava dai campi di concentramento, molti erano vittime di
bombardamenti, e Victor Frankl fu uno spirito veramente essenziale che aiutò
veramente tanta gente a quell'epoca. Nello stesso periodo in cui arrivò a
Vienna, da Belsen, e si stabilì subito nella clinica dove aveva già lavorato,
c'era una coppia che arrivava da due differenti campi di concentramento. Entrambi
erano soprawissuti. Si erano incontrati a Vien na ed erano increduli, non
potevano crederci: “Tu sei ancora...?” Fantasti co! Essi rimasero assieme per
circa sei mesi, dopodiché lei morì a causa di una malattia che aveva contratto
nel campo di concentramento, e il ma rito si abbatté completamente. Stava
sempre seduto in casa, non parlava più con nessuna delle persone che cercavano
di consolarlo, che gli diceva no: “Pensa se fosse morta prima...”. Non reagiva.
Finalmente qualcuno riuscì a convincerlo a cercare aiuto da Victor Frankl.
L'uomo andò da Victor Frankl e parlarono a lungo. Forse due, forse tre ore.
Alla fine di questa conversazione, Victor Frankl disse a quest'uomo:
“Ammettiamo che Dio mi desse il potere di generare una donna che sia esattamente
come tua moglie: ricorderebbe tutti i vostri dialoghi, ricorderebbe gli
scherzi, ricorderebbe ogni particolare, non saresti in grado di distinguere
questa donna che io genere rei per te dalla moglie che hai perduto. Vorresti
che lo facessi?” L'uomo rimase in silenzio per qualche minuto poi disse: “No,
grazie molte!” Si strinsero la mano, l'uomo se ne andò e iniziò una nuova vita.
Quando sentii questa storia, chiesi subito a Frankl: “Dottore, che cosa è
successo? Non capisco...”. E lui rispose: “Vedi Heinz, noi ci vediamo at
traverso gli occhi degli altri. Quando lei è morta, lui è diventato cieco. Ma
quando ha visto che era cieco ha potuto vedere ancora!”. E con questo ricordo
vorrei concludere il mio discorso su Gregory Bateson e sul doppio cieco. Grazie
per l'attenzione.