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DIDAXIS: COMUNICAZIONE--PERSUASIONE--APPRENDIMENTO

di Angelo M. Franza

1. I termini del problema: comunicazione o trasmissione?

Senza dubbio il rapporto tra comunicazione, persuasione e apprendimento trova


nella didaxis il suo punto di maggior condensazione e troppo spesso si trascura il fatto
che tutta la vicenda del pensiero occidentale prende l'abbrivo proprio da una opera di-
dattica: Oi dialogoi.
E’ la forza di tale condensazione però a costringere lo studioso a qualche preliminare
considerazione sul linguaggio e sull'attuale rinverdito interesse per le questioni poste
dalla cosiddetta «trasmissione didattica». Il linguaggio è «medium» nel duplice senso di
mezzo-strumento e di medio-veicolo di e per ogni qualsivoglia impresa, sfida o
esperienza didattica.
Ogni qual volta assumo il discorso nella sfera dell'impegno didattico prima che
conoscere coloro a cui parlo devo innanzi tutto preoccuparmi di ciò di cui parlo e dei
modi in cui posso parlarne. Ma ciò di cui parlo non è indifferente al modo in cui ne parlo;
osservo una modificazione nella affermazione di esistenza relativa a ciò di cui parlo a
seconda dei modi di espressione o di comunicazione prescelti. L'oggetto del mio pensiero
assume la forma della forma linguistica attraverso cui lo esprimo e non mi è così diffìcile
constatare che ciò di cui parlo è insomma il modo in cui ne parlo.
Strana ma inevitabile affermazione di esistenza, trappola ontologica di cui il
linguaggio è fautore e vittima al contempo o sintomo della irriducibile distanza tra gli
oggetti della realtà e gli oggetti del pensiero? L'oggetto della fusis è diverso da quel che è
nel momento stesso in cui lo si apprende. Gorgia, il sofista del V secolo, annienta il
dilemma dall'interno stesso del linguaggio quando nel trattato Peri me ontos conclude:
«affermo che nulla esiste, se poi esiste è inconoscibile se infine anche esiste ed è
conoscibile tuttavia non può venir significato direttamente ad altri». Ora se qualcosa
esiste o sembra esistere, questa esistenza è comunque inganno e autoinganno (apate) e
farne oggetto di comunicazione, di espressione o di apprendimento sovrappone inganno
ad inganno: l'oggetto del mio pensiero non è l'oggetto del mio linguaggio tanto meno è
l'oggetto del pensiero altrui. Ciò nonostante l'inganno è necessario per innescare il
pensiero, per attuare la comunicazione, per promuovere l'azione anche se proprio con
l'equivoco e la persuasione (peitho) come ineludibili creditori: ecco il cardine su cui
l'invenzione o la finzione didattica si articola e si sovrappone all'artifizio o all'espediente
retorico. Il linguaggio non è pensiero, tanto meno realtà, quanto piuttosto ciò che media
tra i due.
La moderna teoria del linguaggio non può che prendere atto di questa mediazione,
confidando però nel rinforzo conseguito dalla consapevolezza che il linguaggio se non è
pensiero è comunque ciò attraverso cui questi si esprime. Se ciò di cui parlo è il modo in
cui ne parlo, per conoscere ciò di cui parlo ho bisogno dunque di destrutturare e
decostruire ogni argomento in tutti i suoi minimi particolari, e ciò significa da un punto di
vista didattico e retorico decostruire tutti i modi in cui io posso parlare di quell'oggetto.
Se le parole sono marche (semata) che veicolano e condensano rappresentazioni, i modi
in cui le dispongo nel disegno del discorso sono rappresentazioni di rappresentazioni.
Individuare i modi in cui io posso parlare per poterli riconoscere e procedere nella deco-
struzione richiede l'isolamento e la definizione delle forme in cui il discorso si organizza,
e delle figure retoriche che lo sorreggono.
Si pensi ad esempio all'antitesi, che basta da sola a rimarcare l'efficacia e la
suasività implicite e costitutive di tutto ciò che si esprime secondo uno schema logico.
Nel raccomandarla all'arte di ogni insegnante, Aristotile ce la presenta così: «questa
elocuzione è piacevole perché i contrari sono facilissimi da comprendersi e ancor più se
contrapposti reciprocamente, perché essa è simile ad un sillogismo. Infatti la
confutazione consiste nel contrapporre termini antitetici».
Ma l'efficacia e la suasività non è prerogativa di uno schema logico, essa risiede e si
sprigiona forse ancor più all'interno di uno schema analogico, in cui la mobilità dei
referenti e il gioco metaforico dei rimandi conseguono rapidamente la suggestione
dell'e-videnza estensiva.
Scrive ancora Aristotile a questo proposito: «Noi apprendiamo soprattutto dalle
metafore; quando infatti il poema chiama la vecchiaia "stoppia" realizza un
apprendimento ed una conoscenza attraverso il genere, entrambe le cose sono infatti
sfiorite. Anche le similitudini dei poeti ottengono lo stesso effetto, se quindi sono buone
appaiono spiritose. La similitudine è infatti una metafora che differisce perché vi è
aggiunto qualcosa, perciò essa è meno piacevole perché ha maggior lunghezza. Essa non
identifica i due termini quindi la mente non esamina la relazione. Bisogna che tanto
l'elocuzione che gli entitemi siano spiritosi se vogliono renderci rapido l'apprendimento,
perciò neppure quelli ovvi tra gli entimemi hanno successo. Intendo per ovvi quelli che
sono evidenti a chiunque e non richiedono alcuna investigazione e neppure quelli che
sono detti in modo incomprensibile, bensì quelli che noi comprendiamo a mano a mano
che vengono detti purché non siano già noti prima, oppure quelli in cui la comprensione
viene subito dopo. Qui infatti vi è un processo simile ali'apprendimento; mentre non vi è
né nel caso dell'ovvietà, né in quello della incom prensibilità.
Un'altra attrattiva risiede nelle parole che hanno una metafora se essa non è presa da
molto lontano, poiché sarebbe difficile a comprendersi, ma se non è neppure ovvia poiché
allora non ci colpisce per nulla. Inoltre se nel discorso le metafore ci mettono le cose
sotto gli occhi dobbiamo vederle come se avvenissero ora e non in futuro». (Aristotile,
Retorica)
Non a caso Aristotile colloca la metafora nel terzo libro della Retorica nella parte
dedicata alla locuzione, in cui il discorso viene trattato come il prodotto finale di una
mediazione e di una integrazione tecnicamente controllata dal retore dei propri obbiettivi
con il ruolo e le caratteristiche dell'ascoltatore. L'uso della metafora è raccomandato
essenzialmente per due obbiettivi propri del calcolo retorico: il raggiungimento della
chiarezza dal punto di vista dell'apprendimento e il carpire l'attenzione dal punto di vista
dell'espressione. Entrambi questi obbiettivi sono affidati alla capacità che la metafora ha
non solo di produrre uno spostamento di significato ma anche di presentificare nel
discorso la rappresentazione dell'oggetto e degli oggetti di riferimento.
Già qui ve ne sarebbe a sufficienza per sedare le ansie di quanti, preoccupati per una
didattica ritenuta priva di scienza e forse anche di coscienza, confidano nelle virtù di
gadgets tecnologici, di lavagne portentose o di seducenti schermi luminosi.
Ma si sa, la modernità esige i suoi riti e le sue vittime sacrificali assieme alla
necessaria, a volte massiccia, quota di razionalizzazione e di rimozione. Continuiamo
allora nel nostro ragionamento con il chiederci quali siano le vere ragioni dell'attuale
interesse in ambito paidetico, e non solo in esso, per le questioni di ordine linguistico o di
«trasmissione», come taluno insiste nel definirle.
Il punto di gravitazione di questo interesse è incentrato a mio parere essenzialmente
sul rapporto tra l'«esperienza» che facciamo e il modo in cui la esprimiamo. La relazione
corre tra l'«im-pressione» e l'«espressione». E un interesse di tipo essenzialmente
psicologico, e solo in secondo ordine ma non secondariamente, riguarda la comunicazione
e l'informazione.
La critica di questi ultimi anni prodotta dalla linguistica, dalla psicolinguistica, dalla
neoretorica, dalla filosofìa del linguaggio, dalla semiologia, riguarda la tesi, per lo più
tacita, ma molto condivisa, che presuppone un certo grado di trasparenza, diafania tra la ri-
flessione, il medio linguistico prescelto e i contenuti della coscienza.
Questa tesi si articola in due momenti fondamentali, uno di tipo schiettamente
psicologico e il secondo di tipo psicolinguistico. Il primo momento concerne la
consapevolezza che noi abbiamo della nostra vita psichica. Il secondo appunto
psicolinguistico, riguarda ciò che ne sappiamo o crediamo, di sapere della nostra vita
psichica, e l'adeguatezza delle obiettivazioni che usiamo per esprimerla.
Per quanto riguarda il primo momento la psicologia del profondo, la psicoanalisi, ci
hanno abbondantemente mostrato come gli eventi della nostra vita psichica inconscia
intervengono pesantemente sulla formazione di quei significati cosiddetti ambivalenti,
modificanti, contraddittori (pensiamo alla battuta di spirito).
Questo punto è già stato abbondantemente esplorato e qui ci interessa meno; ciò che
interessa di più invece è il secondo punto, quello cioè che riguarda la pertinenza
dell'espressione usata in relazione all'intenzione significata e/o significante, tanto dal pun-
to di vista di chi parla, quanto dal punto di vista di chi ascolta.
Questo è un punto che è stato individuato già alle origini della cultura occidentale e il
merito va alla retorica e ciò indipendentemente dalle vicende alterne cui essa è stata
esposta nella sua storia: da una retorica intesa come ars benedicendi, come perfida arte
della persuasione ad una retorica oggi riguardata come vera e propria scienza della
costruzione del discorso, oltre che come vera e propria scienza della comunicazione.
Il merito della retorica comunque va, oltre che al fatto appunto di aver individuato il
problema, anche al fatto che essa ha individuato l'ordine di difficoltà che dietro quel
problema si cela e ciò sostanzialmente ha messo chiaramente in luce che il pensiero non è
immediatamente linguistico. Il pensiero non è linguaggio immediatamente, né il linguaggio
è immediatamente pensiero. Il linguaggio è piuttosto ciò attraverso cui il pensiero si
esprime, piuttosto il linguaggio è ciò che media tra pensiero e realtà. Quindi la retorica ha
messo in luce un certo grado di eterogeneità tra linguaggio, pensiero e realtà.
Ne abbiamo una prova anche nella pratica discorsiva quotidiana, quando crediamo
ingenuamente di esprimerci meglio quanto più ci identifichiamo con ciò che diciamo
attribuendocene in un certo qual modo la responsabilità.
Ne è una prova quando ad una obiezione che ci viene fatta, noi rispondiamo non senza
qualche risentimento, attribuendo la responsabilità della mancata o cattiva comunicazione,
all'ascoltatore il quale avrebbe la colpa di non aver voluto capire nella maniera giusta
quanto gli veniva detto. In questo caso l'espressione tipica è «non mi hai capito bene».
Ad un livello di consapevolezza superiore circa la difficoltà dell'espressione piuttosto
che attribuire all'ottusità dell'ascoltatore la cattiva o mancata comunicazione, ne attribuiamo
la responsabilità alla inadeguatezza dell'espressione. In questo caso la frase tipica è «non mi
sono spiegato bene». Ma se dal punto di vista di chi parla poca differenza fa attribuire la
mancata comunicazione all'ottusità dell'ascoltatore piuttosto che all'inadeguatezza dell'e-
spressione, la differenza c'è dal punto di vista di chi ascolta; la differenza è fatta dal vedersi
o meno attribuita una responsabilità e questo non è indifferente ai fini dell'efficacia della
comunicazione.
Questi sono limiti della comunicazione che noi dovremmo avere sempre ben presenti,
anzi direi che andrebbero accettati senza indulgere in razionalizzazioni come «è colpa mia»,
«è colpa tua».
Sono limiti direi presenti anche nella conversazione normale tra interlocutori affiatati,
pensiamo alle interlocuzioni come «non è proprio quello che avevo in mente», «ma non
volevo dire proprio questo», «ma perché hai capito proprio questo», «avevo in mente
un'altra cosa».
Ne sono una spia le interiezioni di conferma che chi parla introduce nel suo eloquio
come interrogativi del tipo «no?», «è vero?», «non è vero?» che sono brutte abitudini prive
di significato, ma che nascondono un'origine ben altrimenti significativa. E che la
conversazione è molto più spesso di quanto non sembri un monologo a due in cui chi parla,
parla non per comunicare, ma per trovare conferma a quanto sta pensando.
Ma che cos'è che fonda allora la tesi della eomunicazione come trrasparenza, come
diafania, come immediatamentc evidente, come intuizione? Un'illusione ottica, oserei
rispondere, che innescando l'attività rappresentazionale di chi ascolta, fonda la comu-
nicazione sul consenso dell'ascoltatore, consensus gentium direbbe la retorica classica. Ne
possiamo trovare una prova in una circostanza abbastanza comune nell'apprendimento; se io
dico: “la circonferenza, il circolo è il luogo dei punti equidistanti da un centro”, in realtà io
sto invitando i miei ascoltatori a rappresentarsi un punto come centro e la circonferenza
come la curva dei punti equidistanti da questo centro. Se ciò che dico risulta intuitivo è
perché non lo si potrebbe comprendere senza che l'ascoltatore tracci col pensiero ciò che
intendo. In altre parole si comprende ciò che intendo se chi ascolta fa ciò che gli ho
richiesto, facendo cosi coincidere apprendimento ed esecuzione, Se questa comprensione
effettivamente si verifica è perché io trasformo la mia comunicazione da enunciativa in
performativa, e se risulta evidente a tutti è perché ciò non è dovuto alle virtù del linguaggio,
bensì alle azioni e alle rappresentazioni cui ho costretto i miei ascoltatori. In ultima analisi
la riuscita della comunicazione si deve alla buona disponibilità dell'ascoltatore, il quale deve
essere ben disposto ad eseguire performativamente ciò che gli è richiesto linguisticamente.
La comunicazione dunque è qualcosa di più che la trasmissione di informazioni in un
messaggio ben codificato tra un emittente e un ricevente, come vorrebbe il modello di
Shennon che, va ricordato, trova nella telefonia il luogo naturale di applicazione; fuori di
esso questo modello dìventa una metafora che, se accolta, va però presa come tale, e va
controllata nei suoi aloni semantici per evitare distorsioni e stereotipie. Di per sé essa non
spiega nulla, induce solo la credenza in una comunicazione “modulata” secondo l'analogia
con gli apparecchi rìcetrasmittenti. Certo una ben singolare credenza per quei pedagogisti
che la condividono, e che si spiega solo con una malcelata invidia per il mestiere dei
radiotecnici o degli ingegneri .
Questo «di più» non riguarda la formazione del messaggio o la quantità di
informazioni, il codice o il canale, bensì inerisce al «come trasmetterlo» o meglio al «come
invogliare a riceverlo» il che proprio da un punto di vista didattico mi sembra di interesse
vitale.

2. Due casi significativi

Traggo dalla mia recente esperienza di ricercatore due casi che mi sembrano utili per
far progredire il ragionamento riguardanti rispettivamente il primo le complesse questioni
relative alla formazione del medico, e il secondo inerente ai problemi posti dalla
realizzazione di un progetto di formazione a distanza di insegnanti, di operatori pedagogici
e personale direttivo nella scuola.
Per quanto riguarda il primo caso, l'occasione mi è stata fornita da un seminario di
studio recentemente costituitesi presso l'«Istituto Mario Negri» diretto dal professor Nordio
a cui partecipano medici, pedagogisti, filosofi, antropologi. Lo scopo di questo seminario è
appunto lo studio delle difficoltà che la formazione del medico oggi pone sul piano sia
dell'organizzazione dei percorsi formativi che sul piano della qualità e della utilizzazione
dell'apprendimento e dei suoi oggetti nella pratica professionale.
In particolare l'attenzione era polarizzata su un vero e proprio problema didattico: come
passare dallo studio delle materie di base (chimica, fìsica, istologia, biologia) alla cllnica e
alla pratica cllnica, cioè come promuovere nello studente di medicina dopo «l'indigestione»
di materie di base il passaggio alla pratica e all'esercizio della professione sui singoli
pazienti. Le prime riunioni sono state incentrate intorno ad una domanda che il Professor
Nordio si è posto e ci ha posto; come mai e perché mai un corso di formazione-formatori in
ambito medico altamente qualificato e finanziato dalla Smith & Kline, pur avendo riscosso
un notevole successo nei partecipanti, abbia fatto invece registrare un completo
insuccesso dal punto di vista dei cambiamenti che ci si aspettava sul piano della pratica
formativa e dei suoi esiti. Il corso era stato svolto essenzialmente sui metodi didattici
guilbertiani: schede, unità didattiche, selezione dei contenuti per concetti e famiglie di con-
cetti, lucidi, tavole sinottiche, schemi analitici. I destinatari del corso, quasi sempre
professori universitari, erano entusiasti di questa attrezzatura didattica, rassicurati dal potere
di queste tecniche e convinti di aver così risolto buona parte dei problemi relativi al loro
lavoro di formazione.
Il rilevamento successivo operato con tests, interviste e questionari, non aveva mostrato
alcuna modificazione significativa nel tipo e nella qualità dell'apprendimento dei formandi,
e ciò si accompagnava ad una comprensibile e notevole delusione dei formatori. Perché
mai, dunque questo successo dei nuovi metodi guilbertiani sui formatori dei formatori, e
invece totale insuccesso sulla formazione?
Il secondo caso lo traggo da una recente riunione tenutasi presso il mio dipartimento in
cui una commissionaria a capitale misto, Shentev, proponeva di realizzare un progetto di
Open University, cioè formazione a distanza per operatori sociali e pedagogici nel mondo
della scuola e dell'extra. L'idea in gioco era quella di far fare delle belle lezioni ad un
gruppo di docenti, di videoregistrarle e di riversarle poi in cassette da distribuire via posta.
Bene, questi due casi hanno in comune una rappresentazione della formazione definita
dalla «metafora del travaso» o della trasmissione. Il formando è un vaso vuoto che deve
essere riempito dal formatore, detentorc del sapere, il quale lo versa secondo tempi e
modalità da lui stesso prestabiliti. Anche la più moderna ed oggi in voga metafora
cibernetico-informazionale non si discosta dalla metafora del travaso, anzi a ben guardare
ne è una versione mascherata. Le unità didattiche, le schede, le tavole sinottiche dovrebbero
essere come dei fìles che una volta memorizzati potranno essere richiamati, manipolati e
interpolati alla bisogna. Qual è il dato truffaldino che accomuna queste due metafore? E che
il formando non è ne un vaso da riempire, ne la sua testa è un computer da programmare. E
questa è già una prima risposta da dare al Prof. Nordio. Ma andiamo oltre. Che cosa vuoi
dire filmare una lezione invece che imprimerla su un supporto cartaceo? Rendere più
bevibile e più palatabile ciò che si intende trasmettere?
Già un primo problema si da nella transposizione di un dato contenuto da un
linguaggio scritto. E chiunque ha una minima esperienza di traduzione, sa che non si tratta
mai di una transposizione, neanche nel caso della cosiddetta traduzione letterale. Si da
sempre un grado, sia pur minimo di oscillazione interpretativa in cui chi traduce deve
metterci qualcosa di sé medesimo se vuole rendere meglio ciò che l'autore ha inteso dire.
Ma al di là dei problemi posti dalla traduzione del linguaggio scritto nel linguaggio parlato e
filmico, dal punto di vista dell'apprendimento, né la lezione scritta, né la lezione fìlmica
portano inscritte in sé le istruzioni per l'uso. Non contengono cioè, per chi deve apprenderle,
le istruzioni sul come apprenderle; non è l'indice o il cosiddetto menù. Dal punto di vista
dell'apprendimento, ed è ciò che deve interessarci di più in quanto formatori, ciò che
avviene nei processi di apprendimento dei formandi non è obiettivabile per iscritto, ne
filmabile con una telecamera. Che cos'è l'apprendimento se non l'effetto di ciò che dico su
ciò che passa in quel momento nella testa del formando, sulle dinamiche che innesco, sulle
strategie che attivo, sulle evocazioni che produco? Chi sa che cosa succede nella mente del
mio interlocutore? Non è visibile, non è filmabile, non è obiettivabile, registrabile;
forniscono il cibo ma non gli strumenti, cucchiaio, forchetta e coltello, per raccoglierlo,
disarticolarlo, riconnetterlo, in breve per metabolizzarlo. Ne vale fingere una platea; una
cosa è stare in aula, altra cosa è stare davanti a una TV.
Quel che succede nella mente del formando rimane consegnato al formando, alla sua
mente, e poi e poi, sempre che quel che succede risulta presente alla sua coscienza. Poco o
nulla possiamo fare per controllare tutto ciò. Nel vedere, nel sentire, nel toccare, nel capire
io vedo, sento, tocco, capisco qualcosa ma non sono consapevole dei processi che si
attivano per vedere, sentire toccare, capire. Ma su questo torneremo più avanti.

3. Mimesi
Pardossalmente è proprio questa separatezza tra formatore e formando che rende la
perspicuità della metafora del travaso e della trasmissione. “Tu sei un vaso vuoto, avverti il
vuoto della tua ignoranza», ed è proprio la percezione di questo vuoto, con le valenze
psicologiche che questo vuoto evoca, horror vacui, che spinge il formando a passare dalla
parte del vaso pieno, il formatore, e attraverso l'imitazione e tutti i processi con cui si
realizza imitazione.
Imitazione adesiva, imitazione introiettiva e imitazione proiettiva, sono le tre forme
finora individuate e studiate di imitazione. L'imitazione adesiva è quella tipica degli
imitatori di professione, di spettacolo, in cui l'imitatore aderisce alle fattezze, alle movenze,
alle caratteristiche della voce del personaggio da imitare, come se fosse un francobollo.
L'imitazione adesiva implica una mimesi che ricorda il vecchio adagio per cui «si impara
solo ciò che si fa», ed il mostrare come si fa implica da parte di chi apprende «il rubare il
mestiere con gli occhi», altro vecchio adagio. L'imitazione introiettiva è una forma più
elaborata e profonda di quella adesiva. Qui non ci si limita ad aderire al modello proposto
come un francobollo, ma anzi lo si assorbe, lo si porta dentro di sé, ed agisce dall'interno
come un criterio regolatore ed ordinatore delle nostre azioni.
L'introiezione di un modello di azione spiega la forza pedagogica da sempre affidata e
riconosciuta all'esempio. L'imitazione proiettiva indica il movimento inverso e cioè una
parte di sé viene proiettata all'esterno ed affidata inconsapevolmente al maestro, al
formatore, al collega; pensiamo alle frequenti idealizzazioni o, all'inverso, alle valenze
persecutorie a cui allievi e maestri, formatori e formandi sono esposti lungo l'itinerario dei
percorsi formativi. Pensiamo ai transfert erotico pedagogici, agli innamoramenti a cui tutti
siamo stati esposti e ai processi di rispecchiamento che abbiamo subito nell'arco della nostra
personale formazione. «Io ero come tu sei, io sono come tu sarai»: questa è l'essenza di quel
processo non privo di una sua magicità che noi chiamiamo di «rispecchiamento». Il maestro
rispecchia se stesso giovane nell'allievo ed il giovane rispecchia se stesso, da adulto, nel
vecchio maestro.
Quindi imitazione, rispecchiamento, innamoramento. Non si dice che il bravo maestro
è colui il quale sa fare innamorare gli allievi della propria materia? Ci sono dunque processi
di imitazione, di rispecchiamento, di innamoramento che servono a far superare agli allievi
quel vuoto, riempiendolo. Non la didattica, semmai sono proprio quei processi che
permettono di far funzionare una didattica, una qualsiasi didattica. Ecco forse una seconda
risposta alle domande del Prof. Nordio che si interrogava circa il successo avuto sui
formatori dall'armamentario didattico guilbertiano. E che schede, tavole, schemi, lucidi
rassicuravano le ansie e le preoccupazioni dei formatori, davano loro la sicurezza di con-
trollare e di possedere tutto il contenuto del loro insegnamento, il che con valenza magica si
trasformava in una totale palatabilità del contenuto stesso e li garantiva circa una totale
versabilità o trasmissibilità dello stesso ai formandi. Ha funzionato l'abuso di un principio di
analogia «come io controllo la materia con questa procedura didattica, così anche tu puoi
apprenderla e controllarla»; è presupposto un principio automatico di imitazione o di mi-
mesi della prassi. «Come faccio io, così fai tu».
Bisognerebbe premettere, per correttezza comunicativa l'espressione «per come l'ho
capita io», ma questo introdurrebbe un elemento di diversificazione tra maestro e allievo, tra
formatore e formando che rende meno automatico e meno plausibile il processo di
imitazione.
Che forse questi processi dovrebbero essere innescati direttamente dal setting di
formazione o di apprendimento? Basta essere in aula o in un altro setting di apprendimento,
basta essere definiti allievi per automaticamente imitare ed apprendere?
Le motivazioni, le rappresentazioni, i vissuti, le strategie di comprensione, i giudizi ed i
pregiudizi dei formandi dove vanno a finire? Non sono questi forse determinanti per
l'imitazione e dunque per l'apprendimento?
Non si può dare una forma di imitazione passiva e dunque di apprendimento degna di
questo nome. Ecco dunque un'altra risposta all'interrogativo del Prof. Nordio circa
l'insuccesso formativo dei corsi della Smith & Kline. Quali erano le motivazioni che
spingevano i formandi? Quali erano le rappresentazioni che ognuno di loro aveva della
professione del medico? Quale era la nozione di medicina cui si rifacevano? Quale era il
grado di condivisione consapevole di tutto ciò nel gruppo dei formandi?
Questi formandi erano stati scelti come interlocutori o erano stati considerati solo come
vasi vuoti da riempire o come computers da programmare? E stato Darwin in epoca
moderna, sul finire del XIX secolo, a formulare il problema della comunicazione con un
saggio dedicato alla espressione delle emozioni negli uomini e negli animali. La tesi di
Darwin in proposito si può riassumere così: quando nel contatto tra due esseri senzienti, uno
di essi riesce con un gesto, con un suono o una certa mimica facciale ad esprimere un
barlume di significato e questo fatto viene afferrato dall'altro, si costituisce un modello di
comunicazione imitabile che sarà poi destinato a perfezionarsi, a stilizzarsi ed infine ad
articolarsi.
La funzione comunicativa del linguaggio, quindi, si comprende come imitazione di una
espressione. L'abitudine e la specializzazione fanno poi il resto. La teoria di Darwin fu
ripresa poi da molti linguisti e da molti psicologi del linguaggio, in particolare Wundt che
sviluppò un voluminoso lavoro sul linguaggio dei sordomuti. Scopo evidente, dichiarato di
questi studi era quello di imbrigliare in una griglia più fine, il fenomeno della produzione
del significato fondato sullo scambio imitativo tra parlante e ascoltante.
Ma qual è il difetto principale della teoria di Darwin e di Wundt? E che la
comunicazione non è fondata sullo scambio delle parti tra parlante ed ascoltante, più il tratto
in comune della imitazione, caso mai è quest'ultima che regge il fatto comunicativo, ma
presupporla significherebbe aver risolto già tutto il problema.
Giova piuttosto tenere ben distinti i due fatti della comunicazione; l'espressione da
parte di chi parla e la ricezione da parte di chi ascolta, poiché il fatto di essere
interscambiabili negli attori non li rende di per sé identici, infatti l'atto espressivo della
comunicazione non ha nulla a che vedere con il reciproco atto ricettivo della sua
comprensione. L'espressione è un fatto in senso lato, retorico, fondato sulla efficacia
dell'emissione, ma questa è solo una metà della comunicazione la quale deve completarsi
con la comprensione dell'udienza che è un atto squisitamente ermeneutico, interpretativo,
fondato sulla effettiva ricezione del messaggio. Insomma il fatto che io ora fungo da
emittente e magari successivamente da ricevente, vuoi semplicemente dire che io compio in
due occasioni diverse, due diverse operazioni, una retorica e una ermeneutica che, per la
circostanza di essere scambievoli non diventano certo l'una l'inverso dell'altra. In sé le due
operazioni sono molto diverse e quindi ognuna richiede di per sé un'analisi peculiare.
Questo è il punto debole della teoria di Darwin e Wundt che vorrei chiamare «teoria
coordinativa». Coordinativa perché essa si fonda su un elemento comune, l'imitazione, il
quale rimanendo identico sia per l'emittente che per il ricevente, costituisce appunto la
coordinazione tra i due poli. Dunque esiste una retorica dell'emittente ed una ermeneutica
del ricevente che non sono immediatamente sovrapponibili. Per retorica dell'emittente
intendiamo il modo in cui l'emittente costruisce il suo discorso mentre per ermeneutica del
ricevente intendiamo il modo in cui il ricevente assorbe, comprende ed elabora il discorso
che ha ascoltato.
Dobbiamo riconoscere che si tratta di due procedimenti diversi, l'uno di codifica e l'altro di
decodifica con regole diverse e con una propria peculiare specificità. E proprio una teoria
della comunicazione basata sul principio coordinativo tra emittente e ricevente che tenta di
appiattire l'ermeneutica del ricevente sulla retorica dell'emittente, e che con ciò finisce con
lo svilire la comunicazione in trasmissione o nel trasporto del contenuto sotto forma di
derrate alimentari. Ma c'è un'alternativa? C'è un'altra teoria della comunicazione capace di
evitare questo appiattimento, questa riduzione, questa distorsione e che ci permetta di
rendere conto meglio dei meccanismi che intervengono quando si dà comunicazione? Prima
di cominciare anche un semplice abbozzo di risposta a questa domanda, credo sia necessario
tornare a riflettere sul linguaggio.

4. Magie del linguaggio

Abbiamo detto che il linguaggio non è pensiero bensì ciò attraverso cui il pensiero si
esprime, tanto meno il linguaggio è nella realtà e ancor meno le parole contengono la realtà.
Si riconosce dunque un certo grado di eterogeneità del linguaggio sia rispetto al pensiero
che rispetto alla realtà, ma il pensiero si adatta anche agli strumenti che usa ad esempio al
linguaggio stesso. Possiamo dire che in un certo qual modo il pensiero è parlato dal
linguaggio che usa.
Se uso il linguaggio scritto, e la tavoletta di cera e lo stilo sono gli oggetti concreti di
questa obiettivazione, io posso pensare appunto che la mia mente funzioni come una tabula
rasa. Se uso il computer per le mie obiettivazioni, per le mie creazioni penserò che la mia
mente funzioni come un computer che programma i suoi programmi.
Ma è la mia mente come una tabula rasa o un computer? O viceversa è la tabula rasa o
il computer come la mia mente? O piuttosto la mia mente non è ne l'uno ne l'altro? Tabula
rasa, computer, vaso vuoto sono solo modelli che servono a renderci astrattamente intuibili
stati di cose e complessi di relazioni appartenenti a realtà eterogenee; ma questo fatto non
comporta che stati di cose e complessi di relazioni si adeguino al modello. Se questa ade-
guazione si compie, è magica ed illusoria, e questa illusione, questa magia è dovuta proprio
al linguaggio. E l'uso del linguaggio che ci permette di operare proiezioni, distinzioni,
riduzioni anche dove nulla si può separare e ridurre. Il linguaggio attraverso le parole
costruisce entità ed identità riconoscibili, e sempre attraverso le parole riesce a stabilire
correlazioni, omologie, analogie anche dove non c'è nulla di correlabile. L'eterogeneità del
linguaggio rispetto alla realtà esterna o fisica, e rispetto alla realtà interna o psichica, fa sì
che gli schemi di pensiero, i modelli di cui è veicolo e costruttore al tempo stesso dicano
contemporaneamente molto meno e molto più di quanto si vorrebbe.
Molto meno perché il medium linguistico non è altro che un appiattimento per così dire
bidimensionale, un quadro verbale di un insieme infinito di stati e di relazioni che trovano
espressione nelle regole e nelle restrizioni poste dal linguaggio. Molto di più poiché il
linguaggio aggiunge a quanto rappresenta la struttura del suo modo di esprimere le cose,
che non esiste in realtà, ma che nel quadro che ci viene presentato non si distingue da ciò
che in esso vorrebbe essere simbolo di fatti esterni, e che quindi il linguaggio stesso finisce
per arricchire per virtù propria.
Ora, il separare il contenuto reale di un discorso dalle forme rappresentative che lo
veicolano è un tentativo in gran parte destinato al fallimento; costringerebbe infatti lo
studioso ad un interrogativo controfattuale del tipo: «come si potrebbe esprimere quel
pensiero se non lo si facesse con queste parole?» Sarebbe necessario forse un altro
linguaggio, altre forme rappresentative ma allora anche il pensiero ne sarebbe deformato se
è vero, come è vero che anche la forma è contenuto.
Magia del linguaggio, commenterebbe Gorgia, il più grande dei retori antichi, il quale
attacca il suo famoso Encomio di Elena pressappoco così: «Gran signore è il Logos che, in
minutissimo corpo ed assolutamente invisibile, porta a compimento imprese per eccellenza
deputate agli Dei, dato che è in grado di far cessare la paura, di portar via la tristezza, di
provocare il piacere, di accrescere la pietà. Com'è che questo avvenga io cercherò di
dimostrarlo, ma va dimostrato a chi ascolta anche secondo la sua esperienza». Quest'ultimo
è il punto forte; è chiamato direttamente in causa l'ascoltatore e la sua esperienza. Dovremo
tenere ben a mente questo punto perché ci sarà utile più avanti. A ben vedere questa magia
non è solo del linguaggio, anzi è ancor più primitiva e meno stupefacente di quanto lo stesso
Gorgia non pensasse. Questa magia ha a che fare con il modo che la nostra mente ha di
rendersi conto dei fenomeni ad essa esterni già a partire dalla percezione.

5. Magie della percezione

Gli schemi estesiologici dei nostri sensi ci forniscono quadri compatti, completi,
omogenei della realtà circostante, senza buchi, vuoti, smagliature. Eppure vuoti, buchi,
smagliature ci sono perché dovuti a ciò che è al di sotto e al di sopra delle soglie limi-nari,
ma di essi non vi è alcuna traccia nei quadri percettivi che ci vengono forniti dai nostri
organi di senso. I vuoti sono riempiti, normifìcati, azzerati dalla particolare struttura
circolare dei criteri ordinatori dei nostri schemi estesiologici. Un esempio per tutti: lo
schema estesiologico della percezione dei colori.
Lo spettro fisico dei colori presenta secondo la frequenza un ordinamento lineare;
rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, violetto. Al di là del rosso c'è l'infrarosso, fino al
minimo di frequenza delle onde hertziane, e al di là del violetto c'è l'ultravioletto fino al
massimo di frequenza dei raggi gamma. Tra il rosso e l'infrarosso, tra il violetto e
l'ultravioletto c'è la soglia, rispettivamente inferiore e superiore della percezione delle onde
elettromagnetiche sotto la forma della specie sensibile dei colori.
L'ordinamento lineare delle onde elettromagnetiche è noto anche come fenomeno
dell'ottava luminosa. L'ordinamento è lineare perché aperto da entrambi i lati, subliminare
inferiore e superliminare superiore, rispetto alla percezione cromatica.
Dalla parte dell'infrarosso, l'ordinamento recede fino al limite fisico assoluto della
frequenza zero che è poi la mancanza stessa del fenomeno elettromagnetico. Dalla parte
dell'ultravioletto l'ordinamento procede fino al limite fisico assoluto della condensazione
dell'onda in particella che di nuovo elimina il fenomeno elettromagnetico. Questo è lo
schema fisico, ma come si comporta lo schema estesiologico del nostro apparato percettivo?
Compiendo una magia, rendendo circolare ciò che è lineare.
Il precedente schema lineare viene curvato secondo una struttura circolare; il violetto sfuma
nel rosso senza soluzione di continuità, ogni scarto è azzerato, non si da vuoto tra
l'ultravioletto e l'infrarosso che sono come cancellati dalla nostra percezione, e non si da
neanche il segno della cancellatura. Essi letteralmente non esistono per la nostra percezione.
Lo schema circolare del nostro apparato percettivo normifica lo schema lineare fisico delle
onde elettromagnetiche; il violetto sfuma nel rosso proprio come avviene per gli altri colori
contigui e la sequenza circolare può essere letta nei due sensi cominciando da dove si vuole.
Secondo l'opposizione diametrale i colori si elidono due a due e scompare la qualità
cromatica: il rosso elide il verde, l'arancio elide l'azzurro, il giallo elide il violetto.
Questa normificazione circolare dello schema estesiologico lineare è comune a tutti i
nostri sensi anche se con caratteristiche peculiari ad ognuno di essi. Ad esempio mentre
l'ottava luminosa è circolare come abbiamo visto, quella dei toni acustici è spiraliforme.
Ordinando i suoni secondo la frequenza delle onde di compressione otteniamo la ripetizione
delle stesse note in antifonia; nell'ordinamento lineare dello spettro fisico tutti i toni sono di-
stinti perché hanno una diversa frequenza d'onda.
Ma noi percepiamo gli accordi non le note, la stessa nota singola può essere ascoltata
come accordo di ottava che corrisponde al rapporto tra una data lunghezza d'onda e la sua
metà o il suo doppio. Ma mentre nello schema estesiologico dei colori il rosso sfuma nel
violetto e viceversa, in quello estesiologico dei suoni la nota più alta non sfuma in quella
più bassa. Lo schema come dicevo non è proprio circolare, ha una forma a spirale, al di là
della nota più bassa troviamo gli infrasuoni e al di là della nota più alta gli ultrasuoni, ma
per il nostro orecchio entrambi sfociano nel silenzio.
Ottava luminosa e ottava sonora sono i criteri ordinatori attraverso cui i nostri apparati
percettivi normifìcano la realtà visiva ed acustica per fornirne una rappresentazione alla
nostra mente. Bianco-nero, interno-esterno, alto-basso, destra-sinistra, conscio-inconscio,
dinamicamente intesi sono concetti relativi; è il nostro modo di comprensione del mondo
che ne fa la differenza e non una qualità, magari occulta, inerente alle cose di cui ci
occupiamo. Consideriamo il fenomeno delle figure cosiddette ambigue; la magia non sta
tanto nel fatto che in una stessa figura se ne può scorgere una per volta [figg. 1-2].

6. Normificazione

Vediamo ora come questa capacità normificatrice, riempitrice, omogeneizzatrice della


nostra mente interviene nei processi di comunicazione e di apprendimento. Luria e
Cevtkova, due famosi psicologi russi, hanno condotto a questo proposito una serie di
esperimenti, poco conosciuti per la verità, su bambini normali e su adulti affetti da gravi
cerebropatie. I risultati sono davvero sorprendenti e mostrano singolari analogie tra bambini
e adulti. Luria e Cvetkova hanno strutturato un problema secondo la forma retorica
dell’entimema: “Paolo aveva 12 mele, ne regala alcune ad un amico, gliene restano 8,
quante ne ha regalate?”. L’entimema, come è noto è la forma classica del sillogismo
retorico in cui una delle premesse è taciuta, o è una falsa premessa. Il secondo enunciato “ne
regala alcune ad un amico” è per l’appunto una falsa premessa; in quanto non è portatrice di
dati, ha una funzione puramente narrativa.
Nella struttura logica del problema questa proposizione rappresenta un buco, un vuoto
che, pur lasciando inalterata la forma logica del problema, A-B=X, provoca qualche
difficoltà nei soggetti cui viene somministrato.
Le ipotesi di base erano che
1) i soggetti avrebbero tentato di riempire questo vuoto attribuendo un valore alla
proposizione con funzione narrativa;
2) i soggetti avrebbero tentato una regolarizzazione retorica secondo la normale
formulazione di problemi di questo genere. “Quante ne restano?” anziché “Quante
ne ha regalate?”. Luria definisce questo tipo di problemi, semplici invertiti, proprio
grazie all’inversione dell’ordine della domanda.
Ecco i risultati: dei 58 bambini appartenenti alla prima e alla seconda classe
elementare, solo 46 hanno accettato di risolvere il problema. I rimanenti hanno rifiutato
dicendo che le mele non gli piacevano, che le mangiava solo il nonno o altre scuse di questo
genere.
Dei 46, 18 equivalenti al 39%, hanno riempito il vuoto della seconda proposizione con
i dati della terza e trasformato la terza proposizione in domanda, «Quante gliene restano?»,
regolarizzando in tal modo la struttura retorica del problema. Gli altri 28, corrispondenti al
61%, hanno risolto al primo colpo e si dividono in tre gruppi. 7 bambini lo hanno risolto al
primo colpo, altri 7 lo hanno risolto dopo però aver manifestato forti conflitti tra il tentativo
di regolarizzazione del testo e il ricordo del testo originario. Ci sono state infatti, parecchie
richieste di ripetuta rilettura del testo. E infine, i rimanenti 14 regolarizzano il testo dando
come risposta «4», ma secondo la formulazione del «Quante gliene restano?». Ma alla
domanda di controllo, «4 sono le mele che ha regalato o quelle rimanenti?» correggono
l'errore. Ad un altro gruppo di soggetti, omogeneo per età a quello precedente era stato as-
segnato il compito di ripetere il testo del problema dopo averlo ascoltato e/o di inventarne
uno simile. Circa 1'80% ha ripetuto il problema regolarizzandolo retoricamente e cioè
riempiendo di dati la proposizione con funzione narrativa e trasformando la terza
proposizione in domanda. Anche quelli che hanno inventato un problema simile
concludevano con la domanda «Quante gliene restano?». L'ipotesi che la difficoltà del
problema dipenda dalla sua struttura retorica e dai tentativi di manipolazione e di deforma-
zione della stessa per uniformarla ai propri standard di ricezione, trova conferma anche
nella analogia con i risultati delle stesse ricerche condotte con adulti affetti da cerebropatie5.
La retorica distingue nella costruzione del discorso tré fasi fondamentali, l'inventio
ovvero la fase del reperimento dei contenuti e degli argomenti necessari, la dispositio
ovvero l'ordine in cui questi contenuti e questi argomenti sono disposti e l'elocutio ovvero la
scelta delle parole più giuste o più adeguate. Ora, indipendentemente dal genere del
discorso, epidittico o laudativo, deliberativo o assembleare, giudiziario o legale la maggiore
importanza è attribuita alla dispositio poiché dal modo e dall'ordine in cui sono collocati gli
enunciati dipendono gli effetti persuasivi del discorso.
Nella dispositio si compie la maggior parte del calcolo retorico e delle strategie ad esso
connesse. Cominciare con gli enunciati e gli argomenti più convincenti o con quelli meno
logicamente validi?
Cominciare con i toni emotivamente più forti o con quelli più deboli? E come
distribuirli nell'arco del discorso? La risposta a queste domande costituisce il calcolo
retorico da cui dipende poi la strategia che il retore adotterà.
Del calcolo retorico fa anche parte la valutazione che il retore fa del tipo e delle
caratteristiche specifiche dell'ascoltatore oltre che dal tipo di disposizione della platea nei
suoi confronti e nei confronti degli argomenti trattati. La dispositio è un criterio di ordine
topologico del tipo dentro/fuori, prima/dopo. Ed è proprio a questo criterio che bisogna
rifarsi per fornire una prova specifica alle ipotesi circa le origini delle difficoltà del
problema di cui sopra. L'ipotesi sarà confermata se modificando la disposilo della
proposizione con funzione narrativa, i risultati cambieranno e cioè se le difficoltà incontrate
dai soggetti diminuiranno. Sono state approntate allora due versioni alternative al testo
originario, una in cui la proposizione con funzione narrativa veniva assorbita e concatenata
con la terza proposizione: «Un bambino aveva 12 mele. Dopo averne regalate alcune ad un
amico, gliene restano 8. Quante ne ha regalate?». Ed un'altra in cui la proposizione con
funzione narrativa veniva collocata in un'altra posizione e cioè all'inizio del testo: «Un
bambino ha regalato alcune delle sue mele ad un amico. Aveva 12 mele. Gliene restano 8.
Quante ne ha regalate?».
Valutiamo i risultati. I soggetti a cui sono state sottoposte le due versioni alternative del
testo originario hanno dato una percentuale di risposte scorrette nella misura del 20% nel
primo testo variato “Un bambino aveva 12 mele…” e del 9% nel secondo testo variato “Un
bambino ha regalato alcune delle sue mele…”. Tutto ciò rispetto al 30% di risposte scorrette
del testo originario. E’ da notare appunto la caduta verticale delle risposte scorrette dal 39%
del primo testo , al 20% del secondo testo variato sino al 9% del terzo testo variato.
E’ da notare ancora che nelle prove con il primo e con il secondo testo variato non è
stato necessario ricorrere a domande di controllo, il che testimonia della bassa presenza di
conflitto tra il ricordo dei testi originari e i tentativi di regolarizzazione retorica del testo.
Questi risultati mostrano ampiamente la fondatezza dell'ipotesi specifica circa la
rilevanza del criterio topologico (dispositio) nella strutturazione retorica di un testo e di
come la dispositio può intervenire nel facilitare o nel limitare ad arte le capacità di nor-
mifìcazione, di riempimento e di omogeneizzazione della nostra mente.
Quanto poi questi meccanismi intervengano nella formazione dei fenomeni persuasivi
e dei fenomeni suggestivi è più che evidente. Non vogliamo qui trattarne specificamente,
lasciamo che per ora se ne occupino i prestigiatori e i giocolieri del discorso e delle parole
di cui pure ammiriamo le abilità.
Con ciò non vogliamo dire che riduciamo la persuasione e la suggestione a giochi di
mele o di saponette. Ci interessa qui dal nostro punto di vista, far rilevare che questi
fenomeni sono possibili solo grazie ad uno sbilanciamento del calcolo retorico sull'a-
scoltatore e sui suoi bisogni. Si persuade solo chi ha bisogno di essere persuaso, si
suggestiona solo chi ha bisogno di essere suggestionato, si addormenta solo chi ha bisogno
di essere addormentato.
Si pensi al potere della metafora ed ai fenomeni ipnotici. Riflettiamo ora su una
caratteristica comune a tutte le lingue che sicuramente ci sarà capitato di notare, ed è che
per capire nell'ascolto le parole di una lingua, bisogna riprenderne l'articolazione in sillabe.
La sillaba è l'elemento minimo d'intellegibilità; la sillaba, non il fonema.
Ciò è chiaro se pensiamo che in una lingua a noi ignota, non riusciamo a percepire
nemmeno una sillaba riconoscibile. I suoni che ascoltiamo sono meramente fonetici cioè
emessi con la voce, ma non sapremmo come scrivere nemmeno un frammento della
sequenza che abbiamo ascoltato, poiché non ne abbiamo compresa l'articolazione.
Il primo principio della lingua è in assoluto l'articolazione. Esso è costituito da un
momento analitico o di scomposizione riduttiva in unità minime purché intellegibili e da un
momento sintetico della ricomposizione delle parole a partire dalle sillabe. Questo principio
organizzativo strutturale della lingua è così essenziale che qualora venisse a mancare come
avviene in alcune patologie non sarebbe più possibile la comprensione dell'atto di parola
poiché non ne sarebbero più intellegibili le parti costitutive.
Viceversa una parola pur mal pronunciata, risulta percepibile poiché proprio quel
principio strutturale riempie le scansioni mancanti. Anche qui il criterio ordinatore della
nostra mente entra in azione normificando, regolarizzando, riempiendo vuoti, difetti, de-
formazioni.
Pensiamo alla italianizzazione dei dialetti e ai completamenti che spesso noi compiamo
letteralmente in bocca a balbuzienti e a dislessici. Questo fatto va ben sottolineato perché di
solito non ci rendiamo conto in che misura noi mangiamo, parliamo la lingua. Una parola
che manca di articolazione non è nemmeno una parola; non la si può memorizzare, né
riprodurre, tantomeno si può cercare sul vocabolario. Questo principio organizzativo della
lingua, che gli esperti chiamano diacritico, perché a doppia articolazione, consiste non tanto
nella riproduzione fonologica del suono fisico, quanto nel suo inserimento in una struttura
intellegibile.
E’ la struttura che ci permette di unificare le varie emissioni di voce integrandone
identità e differenze, così la differenza fra sonanti e consonanti. Le prime, vocali e
dittonghi, possono essere pronunciate con una sola emissione di voce, separatamente. Men-
tre le seconde, molecolari devono essere pronunciate assieme a qualche vocale anche se
afona. La distinzione in vocali e consonanti sebbene più diffusa, non rende altrettanto bene
il carattere atomico e molecolare messo in luce dalla differenza tra sonanti e consonanti. Il
riconoscimento del carattere atomico e molecolare della struttura della lingua è importante
anche per capire un'altra distinzione, quella tra parole semantiche e parole sinsemantiche.
Le prime, atomiche, hanno significato di per sé ed ammettono la legge del contrasto del
significato.
Rosso è un termine con valore semantico perché esistono per contrasto cose non rosse;
mentre le seconde, quelle sinsemantiche o molecolari, prese da sole sono prive di
significato, non ammettono la legge del contrasto, hanno valore compositivo. Sono termini
sinsemantici, ad esempio: uno, con, non, taluno, e tutti i segni logici.
Nel momento sintetico l'articolazione della lingua procede ricombinando gli elementi
atomici e quelli molecolari. I fonemi di base ad esempio sono molto pochi, considerando
tutte le lingue saranno non più di cinquanta; le combinazioni sillabiche, vocali isolate e
vocali più consonanti, sono circa cinquecento. Con queste sillabe in una lingua naturale,
cioè non complicata da vocabolari e termini tecnici, si formano quelle due o tremila parole
di cui abbiamo bisogno per parlare. Infatti con due o tremila parole è possibile esprimere
infiniti pensieri diversi e dove manca il vocabolario specifico può sempre intervenire la
parafrasi, l'analogia, la negazione parziale. Questa prestazione per davvero entusiasmante,
qui sì che oserei dire magica, del linguaggio si deve proprio alla ricombinazione degli
elementi a vari livelli operata dalla struttura diacritica di cui abbiamo parlato. Del resto è
proprio l'invenzione del linguaggio con questa caratteristica che fa la differenza specifica tra
l'uomo e l'animale.
Gli animali infatti producono suoni che non sono linguistici perché inarticolati,
continuativi o ripetitivi in maniera meccanica; l'articolazione della lingua in parole è solo
degli uomini e come si è visto è composta da due momenti: uno, analitico, che spezza,
divide e parcellizza l'emissione del suono in sillabe, ed uno sintetico che lo ricompone
integrandolo e ricombinandolo

7. Anamnesi

Riprendiamo ora là dove l'avevamo lasciata la teoria coordinativa della


comunicazione, basata cioè sull'imitazione e sullo scambio delle parti tra emittente e
ricevente. Avevamo sottolineato che retorica dell'emittente e ermeneutica del ricevente sono
in sé operazioni profondamente diverse, che l'espressione e la ricezione sono due differenti
operazioni per nulla assimilabili e sovrapponibili; il fatto poi che la pratica discorsiva le
renda scambievoli anche nello stesso soggetto non le fa di per sé identiche.
In effetti queste osservazioni mostrano chiaramente i limiti se non proprio
l'inattendibilità della concezione coordinativa della comunicazione, e queste obiezioni sono
valide poiché si fondano su argomenti puramente analitici indipendenti dal punto di vista.
Ci eravamo poi chiesti se era possibile addivenire ad una concezione della comunicazione
diversa se non proprio alternativa a quella coordinativa che evitasse l'appiattimento
dell'ermeneutica del ricevente sulla retorica dell'emittente, e che potesse rendere conto
meglio dei meccanismi che intervengono quando si dà comunicazione.
Giunti a questo punto possiamo dire che questa concezione esiste, prende le mosse
dallo stesso Gorgia, dalla sua tesi circa l'incomunicabilità che pone appunto la non
comunicazione al centro del problema comunicativo. «Nulla esiste, se pur esistesse non po-
trei capirlo, se pur potessi capirlo non potrei comunicarlo direttamente ad altri». «Esiste» è
una parola del linguaggio e, siccome nel linguaggio si può parlare di tutto, sia di ciò che
esiste che di ciò che non esiste, non si dà all'interno di esso un criterio per poter distinguere
tra ciò che esiste e ciò che non esiste.
La seconda proposizione «se pur esistesse non potrei capirlo» riguarda il fatto che se il
linguaggio non è nella realtà, la realtà non è contenuta nelle parole, ossia non si può
esprimere con parole che cosa contraddistingue il reale dal non reale. La terza infine «se pur
potessi capirlo non potrei comunicarlo direttamente ad altri» significa che se qualcosa pur
fosse conoscibile non sarebbe comunicabile in forma diretta ad altri. Nell'Encomio di Elena
e nell'Apologia di Palamede, Gorgia mostrerà molto bene questo punto.
Con la forza di controargomenti (antilogie), Gorgia giustificherà e addirittura giungerà
ad elogiare sia Elena che Palamede, esempi rispettivamente di seduzione rovinosa e di
tradimento nell'amicizia. Gorgia in questi due discorsi analizzando le premesse da cui
discendono le condanne di Elena e di Palamede, giungerà a ribaltarle fino a concludere in
giudizio completamente opposto, per l'appunto l'encomio di Elena e l'apologia di Palamede.
In questi discorsi Gorgia non solo esibisce la forza argomentativa delle antilogie, ma
esemplifica il fatto che la lingua non comunica attraverso una coordinazione di significati
precedentemente acquisiti ma semmai convince perché esercita sulla udienza una
coercizione che oserei dire fisica, che va al di là del significato.
Potremo chiamare questa concezione come teoria causale della comunicazione in
contrasto con quella coordinativa. Teoria causale perché secondo questa concezione la
comunicazione si darebbe non per imitazione, per trasmissione o per coordinamento tra
significati già acquisiti, bensì per provocazione e scatenamento di significato
nell'ascoltatore.
Per questa concezione la comunicazione consiste proprio nell'effetto di scatenamento
in cui il significato si genera ex novo nell'ascoltatore quando per conto suo capisce quanto
viene detto. Bisogna intendere bene questo punto.
Nell'atto della comunicazione, quando sono io che parlo, non si trasmette alcun
significato in sé identico da me ad un altro, ma io provoco un effetto che crea nell'altro in
maniera autoctona un fenomeno di significato. Si tratta però della produzione nell'altro di
un nuovo significato diverso dal mio che solo dopo aggiustamenti, revisioni e compromessi
può essere reso identico o riconosciuto come tale.
Questo è il fatto duro della comunicazione come si configura all'interno di una teoria
causale della comunicazione o del significato come effetto di scatenamento. In linea di
principio non si dà mai il caso se non accidentalmente che il significato espresso coincida
con il significato ricevuto; saranno poi le circostanze e le caratteristiche del contesto
comunicativo, per una sorta di risonanza, a costringere il contenuto della comunicazione
verso un effetto concentrico identificabile.
Solo dopo essersi intesi insomma comunicando come si può è possibile fare intervenire
un processo di coordinazione dei significati, dunque una concezione causale della
comunicazione non esclude quella coordinativa ma questa può appunto intervenire solo
dopo il processo di scatenamento e dunque di produzione del significato. Questa concezione
che fonda la comunicazione su una specie di sistematico fraintendimento (teoria gorgiana) è
stata ripresa e specificata in epoca moderna nel campo delle scienze linguistiche e
psicologiche. In particolare si deve al viennese Karl Buhler la formulazione della
comunicazione come effetto di scatenamento di significato («auslosung»).
Così come la concezione causale della comunicazione non esclude quella coordinativa,
parimenti una concezione causale della comunicazione non esclude un modello di
apprendimento per imitazione, ma affianca ad esso ed autonomamente un altro modello di
apprendimento, quello per anamnesis. Anamnesis non come ricordo, ma come recollectio,
rammemorazione, reminescenza. Io apprendo non ciò che mi viene comunicato, ma per
l'effetto che la comunicazione produce su ciò che so o credo di sapere, sulla mia
disposizione interna, su quel che passa per la mia mente in quel momento.
La comunicazione produce come effetto una anamnesis, una connessione e una
riaggregazione, rimandi e nuove configurazioni. Nel preparare questo mio intervento mi
sono venuti alla mente due aforismi, uno di Gide, «Tutto è già stato detto, ma siccome
nessuno ascolta, bisogna sempre ricominciare» e l'altro di Cocteau, «Gli specchi dovrebbero
riflettere un po' prima di riflettere la loro immagine». L'esplorazione delle connessioni che
legano tra loro questi aforismi e congiuntamente con il tema dell'intervento sarebbe per me
oggetto di apprendimento. Ma apprendimento di che cosa e su cosa? Apprendimento dei
miei modi di apprendere, sui miei schemi associativi, sulle mie modalità di configurazione e
di significazione.
Non si tratta del richiamo di immagini, di elementi o di dati immagazzinati nella
memoria, bensì della riattivazione delle tracce e degli schemata che la nostra mente usa sin
dal suo costituirsi come tale e che ha affinato ed elaborato nel corso della crescita. Ogni
comunicazione ed ogni apprendimento costituiscono di per sé un'esperienza, che è
innanzitutto esperienza dell'esperienza di apprendimento e di comunicazione. E questo il
senso non banale propriamente pedagogico della espressione «apprendere dall'esperienza».
Apprendere ad apprendere è la ricaduta, l'effetto latente nascosto, spesso non
consapevole di ogni dispositivo pedagogico comunque apprestato dalla bottega all’aula
universitaria, alle situazioni formative della esperienza diffusa. Rintracciare ed esplorare
questa latenza, questo lavorio sommerso e silenzioso, comporta il fare esperienza della
propria esperienza di formazione, attraverso una anamnesis, una rammemorazione una
rivisitazione dei modi, degli snodi, delle cesure e le relative attribuzioni di significato at-
traverso cui si è stati o si ritiene di essere stati formati. Questa esperienza di secondo grado
consegue una ricapitolazione ed una accumulazione intensiva di quanto è disperso in
estensione, distribuito nell'arco esperienziale di un individuo. Questo apprendere di sé da sé,
da come si è stati formati o da come ci si sta formando, rimanda alla necessaria
ricollettazione dei fili della propria identità, alla capacità di pensarsi e dunque di pensare. Si
tratta a me pare, di ciò che permetterà allo schiavo di Menone di scoprire il quadrato di
Delio, a Raffaello di non essere Perugino e a Leonardo di non fare o rifare Verrocchio.
Credo che il tipo e l'ordine della riflessione qui proposta possa risultare complessa e
forse intrigante, ma tant'è ogni esperimento di pensiero implica una assunzione di
responsabilità e dunque qualche rischio da correre. Tuttavia può essere di conforto sapere
che questa linea di ricerca non è priva di referenze. Per l'antichità l'Encomio di Elena,
l'Apologia di Palamede, l'Eutidemo, il Gorgia, il Menone, il Protagora. Per la modernità
Brentano, Marty, Bulher, Searl. Per riassumere, la concatenazione comunicazione - ap-
prendimento - formazione costituisce un nodo concettuale che la ricerca teoretica, in
didattica o in pedagogia poco importa, non può continuare ad eludere.
Infatti una teoresi che si attardasse solo sugli elementi atomici della triade, senza
assumerne e vagliarne le caratteristiche molecolari e dinamiche rischierebbe di perdere la
sua specifica qualificazione pedagogica.
La configurazione della triade in questione varia a seconda dell'asse lungo il quale si
effettua la correlazione. Lineare se l'elemento di aggregazione prescelto è l'imitazione,
circolare se l'accento viene posto sull'implicazione causale. L'imitazione favorisce un
assetto coordinativo della triade, lo schema causale suggerisce un assetto dinamico con
effetti di retroazione.
Voglio concludere riportando qui una breve ma stimolante riflessione di Wilfred Bion:
«Platone ha fatto presente che il linguaggio è estremamente fuorviante — sembra che sia
preciso ed esatto, ma in realtà non è affatto più esatto di un disegno o di un dipinto. Un
dipinto non ci dice niente — bisogna interpretarlo. Charcot, che ebbe una notevole
influenza su Freud, diceva che bisogna continuare ad osservare un paziente finché non
comincia ad imporsi un pattern. Nella medicina organica un medico dovrebbe avere un
senso del tatto, dell'olfatto ecc. talmente spiccati da consentirgli di non leggere i libri ma di
leggere le persone. Riguardo a questi sintomi mentali, che cosa possiamo dire? Nevrotico,
psicotico? Non ci dice niente. La diversità tra le persone appare talmente notevole che
sembra esigere una descrizione; perciò ricorriamo a questa rozza suddivisione. Dobbiamo
fare l'ipotesi che esista una cosa che si chiama mente. Non so che prove ci siano di questo
— può darsi che l'ipotesi sia completamente erronea. Ai tempi di Omero si pensava che la
mente fosse localizzata nel diaframma. Sembra un'idea sensata, scientifica. E evidente che
se ci si mette a respirare profondamente, il diaframma, muovendosi in su e giù, permette di
inspirare e di espirare. E se si vede un altro fare questo si pensa: "Che cosa è questa storia?
Vuole venirmi addosso per stendermi? Che cosa sta tramando? Perché ansima così?" Poi
Democrito di Abdera incominciò ad avanzare l'ipotesi che la mente avesse qualche cosa a
che fare con questa massa inutile, il cervello, per il quale non si era ancora scoperta nessuna
funzione. L'idea che esista una mente permane ancora, ma ci spingiamo ancora più in là.
Freud suggerì che quando una persona "dimentica", la lacuna — lo spazio vuoto della nostra
ignoranza — è così sgradevole che viene colmato da idee finte, le paramnesie. Ma dal mo-
mento che della mente non ne sappiamo nulla, perché non pensare che l'intero lavoro di
Freud non sia altro che un'elaborata paramnesia costruita perché egli non poteva tollerare di
non sapere nulla in proposito? Tentiamo di tornare alle fondamenta — mettendo in
discussione perfino l'esistenza della mente stessa. Una volta che si sia arrivati alla
convinzione che non c'è null'altro che una supposizione di questo genere che possa far
fronte a questa situazione sconcertante, possiamo allora incominciare a fare delle distinzioni
su quello che sembra essere il comportamento della mente” (Bion, 1984).

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