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Esercizi di “immaginazione sociologica”


Agnese Vardanega

1. Un mondo in disordine

Recentemente, è diventata quasi una moda affermare che più


o meno qualunque cosa ricada nel campo di studio della socio-
logia sia una costruzione sociale. Comunque la si pensi al ri-
guardo, è difficile dubitare del fatto che l’organizzazione di una
comunità su di un territorio sia una costruzione sociale, in am-
pia parte volontaria.
Di solito, ad esempio, gli spazi urbani vengono progettati
perseguendo precise finalità politiche, sociali, economiche, cul-
turali, e quant’altro. La loro natura convenzionale può essere
osservata tanto sul piano simbolico — delle rappresentazioni
degli attori — quanto su quello strutturale: nei confini e nelle
pratiche politico–amministrative, nelle reti sociali, nelle relazio-
ni e nelle pratiche quotidiane.
La dimensione “solida” di queste costruzioni sociali (e dei
loro prodotti) resta peraltro perlopiù invisibile all’attore sociale,
nella forma del dato–per–scontato: edifici, strade, orari, apparati
tecnologici, mezzi di trasporto, come anche anche la disponibi-
lità dei beni di prima necessità (e non solo) nei negozi, o la faci-
le reperibilità di amici e parenti.
Tutti aspetti che senza dubbio sono frutto di una costruzione
sociale, ma che da una parte producono e dall’altra si appoggia-
no ad una fitta rete di oggetti e di attori (Latour 2005), della cui
solidità — come stabilità e permanenza degli oggetti, ma anche
come stabilità delle aspettative soggettive degli attori — diven-
tiamo consapevoli solo quando vengono a mancare, a seguito di

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qualche evento che, appunto per il rivolgimento che provoca,


definiamo “catastrofico”.
In quanto elementi di una rete costituita anche da attori so-
ciali, gli oggetti e le “cose” non solo diventano segni, ma incor-
porano anche pratiche sociali (De Certeau 1990) e norme, abitu-
dini quotidiane non meno che leggi e disposizioni giuridiche,
conoscenze tecnologiche (Latour 1992) non meno che narra-
zioni e storie (cfr. ad esempio Pezzini 2006).
In breve, le cose di tutti i giorni contribuiscono a definire il
nostro sistema di orientamento — psicologico, sociale e mate-
riale ad un tempo; e questo, sia per il significato che noi attri-
buiamo loro, sia per ciò che esse materialmente ci impongono o
ci consentono di fare.
“Avere la terra sotto i piedi”, si dice nel linguaggio comune.
La teoria sociale ha utilizzato categorie come “fiducia sistemi-
ca” (Luhmann 1968) e/o “sicurezza ontologica” (Giddens
1990), per indicare la solida certezza delle nostre aspettative
sulla stabilità del mondo. Domani il nostro mondo sarà ancora
qui: troveremo il supermercato al solito posto; gli orari del no-
stro ufficio saranno gli stessi di sempre; gli arredi del nostro ap-
partamento non saranno cambiati. Le persone che conosciamo
saranno ancora accanto a noi e corrisponderanno alle nostre
aspettative: il vicino di casa non ci aggredirà con un’arma da
fuoco; il professore farà la sua lezione e non si metterà a canta-
re; aprendo gli occhi la mattina, troveremo le persone che amia-
mo accanto a noi.
Sono aspettative di tipo molto diverso, naturalmente: è molto
più probabile che il professore si metta a cantare in aula, che il
supermercato si sposti fisicamente da un posto ad un altro nel
corso della notte. Nel complesso, però, tali aspettative sono so-
stenute da norme, valori, abitudini e rituali condivisi, strutture
istituzionali, consuetudini e … cose.
Dopo il sisma del 6 aprile, abbiamo guardato queste “cose”
da una diversa prospettiva anche noi che non vivevamo all’A-
quila, ma che alle tre e trentadue di quella notte ci siamo sve-
gliati con la terra che tuonava e le case che “ballavano”, e alle
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luci dell’alba ci stavamo chiedendo se le scuole sarebbero state


agibili, le strade praticabili, gli uffici aperti; e soprattutto se gli
amici, i conoscenti, i colleghi fossero vivi e stessero bene.
Quando la terra trema, “stare con i piedi per terra” non è per
niente rassicurante, perché il mondo non appare più solido ed
affidabile come prima. Se poi la terra, tremando, distrugge i no-
stri sistemi di orientamento, ci sentiamo perduti e spaesati. Ep-
pure, ostinatamente, ricominciamo subito a costruire altri siste-
mi di orientamento in grado di garantirci quella sicurezza onto-
logica senza la quale la nostra vita andrebbe letteralmente in
pezzi.
Come ci ricorda Consuelo Diodati nell’ultimo capitolo, la
stabilità, in fondo, non è che una illusione. Un’illusione tenace,
però, che tenacemente costruiamo giorno per giorno insieme
agli altri, mettendo in campo tutti i nostri saperi e le nostre ca-
pacità. Tutti “complici” di questa straordinaria opera di costru-
zione del mondo ordinario.
Certo, non si può ignorare la dimensione psicologica di que-
sto processo. Personalmente, non posso fare a meno di pensare
a quando Rita Salvatore1 ed io “aspettavamo” la “scossa delle
tre del pomeriggio”. Sapevamo entrambe benissimo che le scos-
se non sono prevedibili, e che di certo non arrivano ad orario:
eppure, non potevamo fare a meno di comportarci come il tac-
chino induttivista di Russell2, costruendoci un sistema stabile di
aspettative, quando di stabile sembrava esserci ben poco. Ed era
difficile dire se sarebbe stata questa ostinazione a farci impazzi-
re, o l’abbandonarci all’idea di un mondo intrinsecamente im-
prevedibile e pericoloso — quale in effetti per molti versi è.
Davvero la complessità del mondo sarebbe ingestibile sul
piano cognitivo, se fossimo condannati a dover vivere giorno
per giorno senza poterla rimuovere (o ridurre), con la costante e
chiara consapevolezza di tutto quello che potrebbe effettiva-

1. Una componente del gruppo di ricerca, e coordinatrice con Consuelo


Diodati del lavoro sul campo, che in quel periodo aveva lasciato L’Aquila per
trasferirsi a Martinsicuro.
2. L’aneddoto è ripreso da Popper nella Logica della scoperta scientifica
(1934)
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mente accadere in ogni momento della nostra vita.


È stato così che, a tre mesi dal sisma del 6 aprile, ed in una
situazione di incertezza esistenziale e materiale che coinvolgeva
l’intero territorio regionale (nonché gli stessi componenti del
gruppo di ricerca), è stato realizzato il laboratorio di ricerca sul
territorio di Roseto degli Abruzzi.

2. Disorganizzazione e ricostruzione sociale degli spazi

Il concetto di organizzazione sociale ha fatto parte della stru-


mentazione teorica della sociologia e dell’antropologia culturale
del “periodo classico”, da Saint-Simon a Pareto, a Cooley, a
Thomas e Znaniecki, a Radcliffe–Browne e Malinowski (Galli-
no 1973). Abbandonato con l’affermarsi dello struttural–funzio-
nalismo a favore del concetto di “struttura sociale”, è stato poi
recuperato da Giddens (1985), e recentemente, in Italia, da Ba-
gnasco (2003).
Tramontato cioè il progetto strutturalista, il concetto di “or-
ganizzazione sociale” appare più adeguato a cogliere (a) la na-
tura volontaria delle interazioni sociali, in quanto coordinate in
vista di uno scopo (sia pure principalmente integrativo); (b) la
fluidità, la dinamicità e la storicità dell’organizzazione sociale
come processo.
Bagnasco (2003) ha ad esempio definito l’organizzazione
sociale come:

il lavorìo di tessitura di tessuto sociale che mettono in opera le


persone, con l’interazione continua in famiglie, reti di relazio-
ni, rapporti di conoscenza o amicizia, associazioni volontarie,
al tempo stesso prodotti e contesti dell’interazione (p. 11).

La dinamicità dei processi di organizzazione / disorganizza-


zione sociale era ben chiara già nel lavoro di Thomas e Zna-
niecki, che hanno applicato tale categoria analitica al livello
meso (a specifiche istituzioni quali la famiglia o la comunità, e
non al livello della struttura in generale) e con l’obiettivo di de-
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scrivere i processi di ri–organizzazione e ri–costruzione sociale,


sollecitati da situazioni di “disorganizzazione sociale” (l’espe-
rienza migratoria).
Il lavorìo di “interazione” che produce l’organizzazione so-
ciale, si “solidifica” però anche — come si accennava nel para-
grafo precedente — in oggetti ed artefatti di varia natura, e dun-
que, con riferimento agli obiettivi della presente ricerca, in for-
me specifiche di organizzazione territoriale.
Per includere anche nell’analisi dei processi di organizzazio-
ne / disorganizzazione territoriale, tali elementi di fluidità e vo-
lontarietà, può essere utile riprendere la distinzione di De Cer-
teau fra “luoghi” (places) e “spazi” (spaces):

È un luogo l’ordine (qualsiasi) secondo il quale degli elementi


vengono distribuiti entro rapporti di coesistenza. Ciò esclude
dunque la possibilità che due cose possano trovarsi nel medesi-
mo luogo […] Implica una indicazione di stabilità […]
Si ha uno spazio dal momento in cui si prendono in cosidera-
zione vettori di direzione, quantità di velocità e la variabile del
tempo […] È spazio l’effetto prodotto dalle operazioni che l’o-
rientano, lo circostanziano, lo temporalizzano e lo fanno fun-
zionare come unità polivalente di programmi conflittuali o di
prossimità contrattuali. Lo spazio sarebbe rispetto al luogo ciò
che diventa la parola quando è parlata. (De Certeau, 1990; tr.
it.: p. 175–76)

Mentre i luoghi sono le modalità in cui le relazioni sociali e


i processi culturali vengono strutturalmente organizzati nell’am-
biente fisico (come nel latino locus, o tópos in greco), gli “spa-
zi” sono i luoghi in quanto praticati, e via via caricati quindi di
significati nuovi.
Possiamo ricorrere alla metafora teatrale, consueta in socio-
logia, per dire che uno spazio scenico esiste in tanto in quanto
esiste una rappresentazione teatrale; in assenza di quest’ultima,
avremmo di fronte “solo” un palcoscenico, o qualche altro luo-
go (o “posto”) usato più o meno provvisoriamente come teatro.-
Tanto i luoghi quanto gli spazi sono insomma frutto di costru-
zione sociale: sempre secondo De Certeau, infatti, sono le sto-
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rie (narrazioni) e le pratiche sociali a trasformare i luoghi in


spazi, come anche gli spazi in luoghi.
È così che ad esempio persino quello che viene progettato
come non–luogo, come luogo cioè di passaggio 3, può trasfor-
marsi in uno spazio sociale vissuto: in Italia, molte stazioni fer-
roviarie diventano luoghi di ritrovo e di incontro per gli stranie-
ri, con tutta probabilità proprio in quanto luoghi di transito e
dunque di marginalità (come liminalità). Anche i centri com-
merciali — luoghi deputati al consumo — sono usati come luo-
ghi di incontro e socialità, se non altro perché lo shopping viene
spesso praticato in gruppo. Tali pratiche “impreviste” contribui-
scono, per inciso, a conferire a ciascun luogo una sua propria
specificità e identità.
Una catastrofe come il terremoto, distruggendo i luoghi nel
loro “ordine strutturale” fa venire meno per ciò stesso la possi-
bilità di praticarli, e di utilizzarli come spazi sociali. La disorga-
nizzazione dei luoghi diventa pertanto disorganizzazione delle
pratiche sociali.
Nello stesso tempo, però, il venir meno dei luoghi che erano
stati il “teatro” di certe pratiche e di certe narrazioni, ne mette in
evidenza la capacità di sopravvivenza, portando alla luce la
complessa dinamica di conservazione / innovazione sociale che
— all’inizio del lavoro di ricerca sul campo — mi aveva fatto
pensare al capitolo del Polish Peasant in cui Thomas e Znaniec-
ki affermano:

La stabilità delle istituzioni del gruppo è quindi semplicemente


un equilibrio dinamico tra processi di disorganizzazione e di
riorganizzazione. Questo equilibrio viene disturbato quando i
processi di disorganizzazione sociale non possono più essere
controllati dai tentativi di rafforzare le regole esistenti; ne deri-
va un periodo di prevalente disorganizzazione che può condur-
re ad una completa dissoluzione del gruppo. Di solito, però,
questa situazione viene neutralizzata e arrestata, prima di tale
limite, da un nuovo processo di riorganizzazione che in questo

3. Il concetto di non–luogo, benché reso famoso dal saggio di Augé


(1992), è stato introdotto proprio da De Certeau (1990).
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caso non consiste in un semplice rafforzamento dell’organizza-


zione in via di decadenza, ma nella produzione di nuovi schemi
di comportamento e di nuove istituzioni […] chiameremo que-
sta produzione di nuovi schemi e di nuove istituzioni col nome
di ricostruzione sociale (1918-20; tr. it., vol II, p. 13)

Gli spazi sono il risultato di questa dinamica di disorganizza-


zione e riorganizzazione4, già a prescindere dalle dinamiche che
coinvolgono i luoghi: anche quando il luogo resta cioè material-
mente inalterato, le pratiche sociali e le narrazioni nel corso del
tempo cambiano, trasformando gli “spazi”.
Se però è il luogo a venire meno, i gruppi sociali che lo abi-
ta(va)no si ritrovano “senza un posto”, e di fronte alla concreta
alternativa fra dissoluzione e ricostruzione sociale dei loro spa-
zi.
I cittadini aquilani, in questi due anni, ma già immediata-
mente dopo il sisma, hanno rivendicato il permanere della pro-
pria cultura e della propria identità collettiva, nonché la volontà
di ripristinare lo status quo ante della vita cittadina con le sue
consuetudini. Di tale volontà costituisce l’esempio più chiaro il
desiderio di poter tornare a vivere il centro cittadino, espresso
— fra le altre — dalle iniziative del cosiddetto popolo delle
carriole, cittadini che periodicamente si riuniscono per ripulire
la città dalle macerie, e gli antichi monumenti dalle erbacce che
in questi due anni di sostanziale inerzia vi stavano crescendo.
Rispetto al permanere delle pratiche e delle narrazioni, rico-
struzione significa restauro, restaurazione cioè della città così
come essa era prima del sisma, con riferimento ai luoghi non
meno che alle relazioni sociali ed interpersonali.
D’altra parte, in conseguenza di questa stessa volontà di
“conservazione” della propria identità collettiva, gli aquilani si
sono dovuti adattare a riorganizzare le “solite” pratiche sociali
in un contesto del tutto mutato, dis–locandole. Il tradizionale
mercato della Befana, ad esempio, nel 2010 è stato spostato dal
centro verso un’area più sicura della città. Il centro commercia-
4. In ciò consiste, in definitiva, l’“invenzione del quotidiano” che dà il ti-
tolo al volume di De Certeau, al quale facciamo qui riferimento.
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le di una zona relativamente periferica della città è diventato il


principale luogo di ritrovo dei giovani, data l’impraticabilità
della centrale Piazza Duomo.
La volontà di preservare le relazioni sociali ha finito, in una
parola, per prevalere sui luoghi (e sulla loro forma deontica; cfr.
Pezzini 2006), introducendo così — quasi paradossalmente — il
cambiamento degli spazi urbani che si vorrebbero “restaurare”,
attraverso la ricostruzione dei luoghi.
Un ulteriore elemento di disorganizzazione intervenuto in
questa situazione è stato l’immediato trasferimento di parte dei
terremotati nelle strutture alberghiere e ricettive della costa
abruzzese, ad una ottantina di chilometri dalle case distrutte, ma
anche dalle scuole dei figli, dai posti di lavoro, da amici e cono-
scenti. In questo caso il rischio, come è stato chiaro da subito,
era quella di una diaspora che avrebbe condotto ad un progres-
sivo ed definitivo allontamento di parte della popolazione dai
propri territori5 (cfr. § successivo).
Ed è proprio a costoro che si è rivolta l’attenzione di questa
ricerca. In inglese “sfollati” si dice “displaced”, termine che ha
un suo corrispettivo nell’italiano “dislocato”: persone che si tro-
vano o sono stati spostate in un luogo o posto (place) che, come
indica il prefisso dis–, è inusuale o sbagliato; persone costrette
dunque a ricostituire, o ricostruire, o reinventare, i propri spazi
sociali in luoghi inusuali.
Persino alcune funzioni amministrative — proprio quelle
stesse che istituiscono i confini dei territori, e definiscono le so-
cietà locali come proprio “dominio di competenza” — sono sta-
te dislocate per seguire i “propri” cittadini in un territorio estra-
neo (cfr. cap. 5, § 3, p. 73).

5. Le iscrizioni dei bambini nelle scuole possono rappresentare un indica-


tore significativo di questo fenomeno. Nell’anno scolastico 2009-10, quello
immediatamente successivo al sisma, non si è registrato un calo sensibile degli
studenti iscritti nelle scuole della provincia dell’Aquila. In questo primo perio-
do, la popolazione si è adattata al pendolarismo fra la costa e la montagna.
Nell’anno scolastico 2010-11, invece, si è avuto un calo degli iscritti di oltre
mille unità, su una popolazione scolastica complessiva di circa 39.000 studen-
ti.
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Ad insistere su tale complessa dinamica di ricostruzione so-


ciale degli spazi della comunità aquilana, anche l’esplicito con-
flitto politico fra istanze centrali e dinamiche locali.
Il desiderio degli aquilani di restaurare i propri luoghi si è
infatti immediatamente scontrata con la volontà politica di in-
terpretare il termine “ricostruzione” nel senso di “costruzione
ex–novo”, con il progetto cioè delle New Towns, che avrebbe
avuto dalla sua la buona (seppure messa in dubbio da alcuni) ra-
gione dell’economicità, ma soprattutto le evidenti pecche di
progettazione dei centri abitati originari, dei quali alcuni co-
struiti su pericolosissime faglie.
E d’altra parte, in tempi non troppo passati, le guerre e le al-
tre calamità diventavano occasione di poderosi progetti utopici,
che riguardavano non solo i luoghi, ma le stesse comunità 6.
Ricordiamo qui tale questione solo per sottolineare l’oggetti-
va problematicità delle operazioni di ricostruzione dei luoghi,
che non solo devono entrare, ma di fatto entrano sempre in rap-
porto con i processi ed i progetti di ricostruzione degli spazi so-
ciali, che sono sempre a più voci.
I grandi progetti utopici del passato — evidentemente — po-
tevano essere concepiti (e realizzati) in situazioni di forti asim-
metrie di potere: potere decisionale e culturale, ma anche potere
di mettere materialmente mano alla ricostruzione di edifici ed
infrastrutture, senza bisogno di ulteriori forme di legittimazione.
Tali asimmetrie, oggi che permangono quasi esclusivamente a
livello tecnico e tecnologico (è su questa base, infatti, che la
progettazione della ricostruzione è stata centralizzata), non fan-
no altro che evidenziare la necessità di empowerment delle po-
polazioni locali nei confronti di tali istanze tecno–burocratiche.

6. Né può negarsi infatti a Silvio Berlusconi, capo del governo che ha ge-
stito l’emergenza, una istanza utopica e “modernizzante”, che trova eco anche
nelle parole del ministro all’innovazione dello stesso governo, Renato Brunet-
ta, che l’ha proposta addirittura come “prototipo” (renatobrunetta.it, 2010; cfr,
anche il mio post «Verso una pubblica amministrazione 2.0: non solo e-go-
vernment» <http://blog.agnesevardanega.eu/ 2010/11/26/verso-una-pubbli-
ca-amministrazione-2-0/> ).

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