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VERSO UNA CLINICA OPERATIVA: LA RI/NARRAZIONE-GENERATIVA

Il racconto infinito-plurale
di Gianni Montesarchio* e Claudia Venuleo**

La narrazione come caso clinico

Un uomo ci telefona con tono allarmato; ha il forte sospetto che il figlio abbia
cominciato a frequentare brutte compagnie; sempre più spesso rientra tardi la sera, il
suo rendimento scolastico è molto diminuito; è quasi certo che abbia cominciato a
fumare gli spinelli. Ha pensato che potesse essere utile offrire al figlio la possibilità di
aprirsi con uno psicologo che saprà ascoltarlo meglio di lui e infine convincerlo a
tornare il “bravo” ragazzo che era prima.

Molti studenti, invitati a riflettere su una simile richiesta, che presuppone una separazione tra chi
richiede l’intervento (il committente) e chi è chiamato a usufruirne (l’utente designato), propongono
di concordare con il padre un appuntamento per il figlio.
Se poi si chiede loro come pensano di muoversi rispetto al figlio, propongono che si possa esplorare
la possibilità di convincerlo a frequentare un Sert, o protestano di non aver ancora fatto l’esame X e
di non sapere quindi come ci si rapporta con “un’adolescente che fuma gli spinelli”.
È interessante rilevare come l’individuazione del cliente nel terzo designato, avviene molto più
frequentemente quando il caso descritto fa riferimento a sintomatologie riferibili a quadri
psicopatologici previsti dal Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali: anoressia, bulimia,
tossicodipendenza, fobia …
È implicito evidentemente in questo modo di trattare il caso l’idea che a giustificare e orientare il
colloquio psicologico sia la presenza di uno specifico deficit formalmente e solo apparentemente
“oggettivamente” definito.
Le premesse concettuali che abbiamo provato a condividere nei due testi di Colloquio Magistrale
(2009) e Gruppo! Gruppo esclamativo (2010) sono molto distanti da questa prospettiva.
Rintracciano infatti nel modo stesso di raccontare la propria richiesta di consulenza l’oggetto
dell’intervento; nel caso usato come esempio, riconoscono nell’atto stesso di richiedere aiuto per un
altro, un oggetto narrativo che ha dignità “psicologica” di elaborazione, di pensiero.
Si fa proprio il punto di vista per cui non vi sono eventi che meritano di essere trattati
psicoterapeuticamente e altri che “appartengono alla normalità”, piuttosto narrazioni che
costruiscono gli eventi in un modo che rende legittimo o meno dal punto di vista del profano il
ricorso ad un “esperto”.
Basti pensare che due individui che hanno affrontato uno stesso tipo di esperienza potranno
differentemente proporre in un caso che a “causa di essa” necessitano dell’aiuto dello psicologo,
nell’altro caso che grazie ad essa sentono di essere diventati così forti da non avere bisogno di
nessuno … In questa ottica, la nozione d’evento non è determinabile in abstracto, ma legata alla sua
pregnanza, al significato attribuitogli “nello svolgimento della storia” (Cordonier, 1995, p. 58).

In un gruppo esperenziale-formativo una giovane donna, Maria, lamentava l’incapacità


della madre, che durante la pubertà, di fronte a sue insicurezze e paure, invece di
accogliere sapientemente le sue richieste, l’aveva “mollata” ad una psicologa
disattendendo il suo desiderio di essere gestita e contenuta nell’ambito familiare. In

*
Professore ordinario di Psicologia Dinamica, Facoltà Psicologia1 “ Sapienza” Roma.
** Ricercatrice di Psicologia Clinica. Dipartimento di Scienze Pedagogiche, Psicologiche e Didattiche, Università del
Salento.

1
conseguenza di questo racconto, un’altra giovane donna Anna, coetanea di Maria,
ricordava che di fronte agli stessi problemi ed alle stesse emergenze, la di lei madre si
fosse inadeguatamente adoperata per comprenderla e risolvere in prima persona i suoi
bisogni, dimostrando, a suo dire, una evidente deficienza e specie l’incapacità di
cogliere i prodomi di problemi più articolati che sarebbe poi esplosi, rimandando,
colpevolmente un’utile consulenza psicologica.

Sulla non percorribilità della verità storica

Vi sono narrazioni che congelano il significato degli eventi, vi sono narrazioni che restituiscono agli
eventi un tempo, uno spazio, insomma un contesto, consentendo agli eventi non di essere
dimenticati, ma utilizzati, compresi nel valore che possono avere nel presente.

Nell’ambito della storiografia è da tempo maturo il pensiero che una profonda distinzione intercorre
tra verità storica e verità narrativa e che porta Henri Marrou a dire ai suoi allievi, già nel 1939:

“voi siete giovani, ma la storia che scrivete non lo è più. Marciate in retroguardia: la
storia è una concezione stanca. Ci fu un tempo non tanto lontano, in cui noi storici
occupavamo i primi posti: tutta la cultura era sospesa ai nostri decreti, ai nostri
oracoli. Stava a noi dire se si doveva credere in Dio, se l’Iliade era bella, se la Boemia
era una nazione, se il papa era infallibile, se Marx aveva ragione…”.

Lo strutturalismo storicista traeva dallo strutturalismo francese, sia linguistico che antropologico, la
concezione della storia come insieme di strutture – dalle credenze alle pratiche economiche – che
funzionavano in modo organico. Esse si modificavano lentissimamente, lasciando spazio quindi a
un’enfasi analitica sui fattori di permanenza e sulle interazioni reciproche tra gli elementi della
struttura.
È facile comprendere il legame di questo modello analitico con quello della psicologia moderna
impegnata nell’individuazione delle leggi universali di funzionamento della mente umana, e
alimentata soprattutto dall’idea che ci fossero delle essenze/verità – in quanto regolari – conoscibili.
La prassi clinica che né è derivata ha coltivato l’illusione che fosse suo compito rintracciare
l’evento/gli eventi traumatici responsabili del disagio del paziente o, ancora più ingenuamente,
valutare se la natura degli eventi raccontati poteva effettivamente essere considerata
“problematica”, o giustificasse al contrario la liquidazione del paziente con “tutto a posto, lei non ha
niente…”, come avviene in uno studio medico.
Nessuna rilevanza psicologica veniva (viene) assegnata alla sua narrazione, alla costruzione
traumatica con cui casomai il paziente aveva fissato in un tempo passato, impensabile, il significato
di quanto vissuto ed esperito.

Ma è ancora la storiografia a suggerire il tramonto della fiducia nell'unità sostanziale della vicenda
umana (Giovagnoli, 2009), la fine del mito – vecchio oltre due secoli – di una composizione
esplicativa possibile della storia, di una qualsiasi storia, la fine del mito (e del senso) di una storia
unitaria, universale, lineare, monolitica, finita, capace di descrivere i fatti “così come sono
avvenuti” e per “il” significato che hanno avuto (piuttosto che per i significati con cui sono stati
ricostruiti, narrati e rinarrati nel tempo). Foucault, pur muovendo dallo studio storico dei testi
rinvenuti in archivio, giunge allo studio di come i testi siano essi stessi discorsi costitutivi che
inquadrano la realtà. La storia diviene una archeologia dei discorsi organizzati in modelli dallo
storico†. Con Hayden White, e la sua Metahistory (1973) le rappresentazioni ideologiche, le

Cfr. Fazio, I. Nuova storia culturale, p. 3. Da:
http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/nuova_storia_culturale.html

2
dimensioni morali, epistemologiche, politiche che conducono lo storico a disporre i fatti secondo un
certo modello narrativo divengono l’oggetto di analisi della storia.
“Men are what they think, feel, and do; what they think, feel, and do is their history. This
history is the only 'nature' they have. And the only meaning that their history has is to be
found in what memory preserves of what they thought, felt, and did and what the historian,
reflecting on memorials of the past, is able to say about what they thought, felt, and did …”
(H. White, Metahistory)‡

In psicologia, sarà la svolta ermeneutica a individuare nella verità narrativa il contenuto da


ricercare, e a far decadere l’indagine "archeologica", tesa a ricostruire una verità storica,
impossibile e inutile da trovare (Schafer, 1999). Il problema viene posto, tra gli altri, da Spence, che
negli anni ’80, con il libro Verità narrativa e verità storica (1982), focalizza l’attenzione sulle
abilità retoriche con cui gli psicoanalisti coprono la mancanza di certezza dei vissuti del paziente§.

Oggi anche il segreto, il silenzio e l’oblio divengono piste, tracce e fonti della ricerca storica, che
dunque riconosce un “fatto” (narrativo), anche negli eventi taciuti.
Il loro potere costruttivo (di cultura) è ben visibile nei TG odierni**. In terapia, ce lo insegnano bene
i pazienti che non smettono mai di parlare ...

Luisa si era presentata in terapia “a causa del figlio”, un ingrato, un ribelle …. con la
grave colpa di lamentare di non essere visto da lei madre, che pure c’era stata sempre,
aveva rinunciato al lavoro per crescerlo, non lo aveva perso d’occhio un istante …
Luisa smise di raccontare di sé un minuto prima della fine del primo colloquio,
costruendo uno psicologo “assente”.

Luisa non aveva raccontato, ma drammatizzato con il terapeuta il tipo di rapporto “intrattenuto” con
il figlio … Anche a commento del caso, può essere interessante ricordare che Ricoeur evidenzia
come la capacità di raccontare la propria storia in modo adeguato richiede di disporre di una
capacità di simbolizzazione. Quella che chiamiamo patologia può essere intesa come perdita di
questa capacità, ovvero come desimbolizzazione e quindi come denarrativizzazione.

Sui generi narrativi

La teorizzazione sulla scienza storica ci ha tramandato diversi modi di narrazione storiografica,


organizzandoli in “annales, cronaca e storia”, per la psicologia l’indicazione di una possibile griglia

‡‡
Gli uomini sono ciò che penano, sentono e fanno; ciò che pensano, sentono e fanno è la loro storia. Questa storia è la
sola “natura” che hanno. E il solo significato che la loro storia ha deve essere rintracciato in ciò che la memoria
preserva di ciò che hanno pensato, sentito e fatto e in ciò che la storia, riflettendo sulle memorie del passato, è capace di
dire di ciò che hanno pensato, sentito e fatto ….
§
Altri autori ne svilupperanno l’intuizione, introducendo il termine costruttivismo. In questa prospettiva gli eventi non
smettono di esistere, ma si smette di pensare che siano determinanti dei vissuti e delle fantasie; piuttosto, ne sono
determinati... il modo in cui ci raccontiamo e immaginiamo la nostra storia, influenza il corso alla nostra vita. Hillman,
J. (1983). Le storie che curano. Milano: Raffaello Cortina Editore, 1984, p. 29.
**
Non raccontare non è semplicemente un non fatto, è la proposta di connotare e trattare come marginale quanto è
taciuto. Chiede Maria Luisa Busi nella lettera inviata al direttore Augusto Minzolini con cui si dimette dalla conduzione
del TG “… dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di persone, dietro alle quali ci sono
le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la prima volta con un futuro peggiore dei padri? E i quarantenni ancora
precari, a 800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci mettere al mondo un figlio? E
dove sono i cassintegrati dell'Alitalia? Che fine hanno fatto? E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori
del nord est che si tolgono la vita perché falliti? Dov'è questa Italia che abbiamo il dovere di raccontare?...Non
raccontare non è semplicemente un non fatto, è la proposta di connotare e trattare come marginale quanto è taciuto.

3
per “registrare” la competenza del cliente a riconoscere nella storia che racconta non una verità da
svelare ma i codici soggettivi e culturali con cui l’ha soggettivata.

L’annales è la modalità con cui nei nostri ricordi liceali noi studenti venivamo sollecitati a
“imparare” (più che comprendere) la storia. Era importante dunque ““per””” prendere buoni voti
(più che per acquisire criteri di lettura del mondo) sapere che la notte di Natale dell’800 Carlo
Magno fu incoronato imperatore, che nel 1572 Colombo “scoprì” l’America, che nel 1789 scoppiò
(“di botto” verrebbe da dire) la Rivoluzione Francese …

Non si assumeva probabilmente che quel che avvenne non avesse alcun significato, ma questo
significato non aveva un ruolo più che marginale, nell’assunzione che quel che contava fosse che i
“fatti fossero fatti” e questo spiegava, bastava a spiegare, l’importanza di ricordarli.

Con lo stesso “stile narrativo”, sì presentò Roberto in terapia “Soffro di incontinenza e visto che
non ho niente di fisiologico che non và, la causa è psichica”; dopo rimase in silenzio come chi,
arrivato dal medico, dichiara di avere un brutto raffreddore ed è sicuro che questo basti ad avviare
“la procedura” dell’esame diagnostico e della prescrizione della cura … L’incontinenza “psichica”,
come il raffreddore, è un fatto che parla da sé …. stupido lo psicologo che non lo capisce!
Figuriamoci se l’evento che la teoria implicita del cliente individua come motivante è il “fatto” di
aver avuto un padre alcolista, o di “trovarsi con una figlia anoressica”.
Il cliente che racconta in annales propone di riportare “fatti”, che fantastica abbiano significato in
sé; si sorprende o anche innervosisce quindi quando ad esempio – dichiarato “il problema” – lo
psicologo gli domanda “cosa ha immaginato possa fare per lei?”, o offre un qualsiasi stimolo volto
a non trattare come auto evidente il significato di quanto “rivelato”.
Il senso comune definirebbe poco emozionato il paziente che si racconta in annales perchè anche
quando racconta la morte di una persona cara non vi è esplicitazione di vissuti o altro genere di
connotazione che distingua questa da un’altra comunicazione per esempio su “che tempo fa”. Se
tuttavia si adotta una lettura semiotica dell’inconscio e dell’emozione che ne è espressione ††, e lo si
intende come modo di attribuire significato che non distingue (tra le altre cose) rappresentazione e
realtà, il proprio mondo di significazione e quello altrui, possiamo dire che è proprio nell’annales
che si esprime in modo evidente una forma di agito dell’inconscio, agito dell’idea che la mia rabbia,
o il mio dolore, o la mia felicità, ecc. siano gli unici sentimenti resi possibili dall’evento, che
dunque non ci sia bisogno di condividerli perché chiunque altro sentirebbe e proverebbe lo stesso e
allo stesso modo.

Con il taglio cronachistico, gli eventi narrati sono spiegati con (e spiegano il) complessivo dell’asse
cronologico nel quale sono inseriti. La loro organizzazione sul tempo sull’asse passato, presente e
futuro, collega gli eventi, li fa spiegare gli uni con gli altri, li rende prigionieri gli uni degli altri.
L’esempio ci viene offerto ancora una volta da uno storiografo:

“Così il 25 aprile non è la festa della libertà, ma quella di Liberazione del Paese
occupato dalle truppe nemiche, le truppe sono l’effetto di una guerra e la guerra del
fascismo, il fascismo della soppressione del libero dibattito politico, e così via: la
liberazione diviene il “secondo risorgimento” che a sua volta evoca (o si sostituisce a)
un altro evento storico. Il 14 luglio (scelto solo per motivi logistici in quanto avrebbe
dovuto essere il 4 agosto o i 20 agosto) non è la celebrazione dei Diritti dell’uomo, ma
dalle Repubblica francese in quanto la presa della Bastiglia è l’evento che avrebbe dato
luogo a una concatenazione di eventi tale da indurre fatalmente alla scelta della forma
politica repubblicana. Intendo dire che la celebrazione di questi eventi fondativi e la
††
Si rimanda ai due testi di Colloquio Magistrale e di !Gruppo!. Gruppo esclamativo per un approfondimento di un
approccio alla clinica che tenga conto di una concezione semiotica dell’inconscio.

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costruzione della “memoria storica” comportano automaticamente un riallineamento
(revisione, reinterpretazione) di tutti gli eventi storici nella loro successione, la
definizione di una adeguata cronologia per ospitarli e concatenarli e una procedura di
publicizzazione della cronologia stessa come esclusiva e totalizzante del passato, infine
un sistema di comunicazione che consenta di imporla su larga scala.” (R. Moro)‡‡

Le letture non possono essere neutrali (questo stesso scritto è naturalmente espressione di un
posizionamento su come ritagliare un discorso sull’oggetto colloquio), ma soprattutto non sono
prive di conseguenze. Quando per esempio un cliente afferma che non riesce a gestire il rapporto
con il figlio di 6 anni, irrequieto, incontrollabilmente vivace e ribelle, e poi condivide con lo
psicologo il suo sospetto e teoria che possa avere un disturbo del comportamento, non sta solo
descrivendo una serie di sintomi; sta anche spostando l’attenzione da un comportamento che
interroga su chi definisce chi irrequieto e incontrollabilmente vivace, e sulle circostanze in cui lo
definisce così, ad un ragazzo (privato di ruolo e di contesto) che contiene in sé la realtà cui ci si
riferisce. Lettura che giustifica la ricerca di strategie di intervento centrate sull’utente designato,
piuttosto che sull’emozione di chi lo racconta così. Anche da questo punto di vista, la narrazione
non svela la realtà, la costruisce ed orienta le azioni da fare al suo interno.

La prospettiva ermeneutica non rinuncia al valore della storia, riconosce la storia nelle “lenti” (le
categorie) utilizzate per costruire l’oggetto narrato; la storia non parla di fatti ma della posizione che
il narratore assume rispetto ad essi.

Scrive lo storico Paul Veyne:

“gli eventi storici non esistono isolatamente, nel senso che il tessuto della storia è ciò
che noi chiameremmo intrigo, una mescolanza molto umana, e assai poco scientifica,
delle cause materiali, dei fini, della casualità; in una parola un tranche de vie che lo
storico taglia a suo piacimento e nel quale i fatti hanno il loro collegamento oggettivo e
la loro importanza relativa”.

È ancora uno storico a supportarci nel riconoscimento del valore psicologico, comunicativo,
pragmatico non degli eventi ma della modalità di narrarli:

“Principiare la storia della Rivoluzione francese nel 1787 o nel 1789, o nel 1791,
raccontarne il ciclo a partire dalla data di apertura degli Stati generali o dalle giornate
di ottobre, implica automaticamente una trama narrativa dell’evento e un senso del
tutto diverso. Costruire il pensiero e la figura di Montesquieu a partire dalle Lettere
persiane, dallo Spirito delle leggi, dai Diari o dall’epistolario comporta un giudizio
sull’autore ed esiti della ricerca quanto mai alternativi. Selezionare le fonti per la
ricostruzione della II Crociata o la conquista di Alessandro, crea itinerari di ricerca e
prospettive interpretative e narrative contrastanti. Scrivere la storia dell’economia
mediterranea nel XVI secolo ponendo l’accento sui commerci marittimi o sui flussi
migratori o sulle strutture demografiche, significa offrire scenari politici e sociali tra
loro alternativi. E così di seguito, le esemplificazioni non finirebbero mai. Ogni evento,
in quanto riflesso del soggetto narrante, è una storia in sé: un racconto dotato di piena
autonomia. E ancora la pluralità di questi racconti, degli approcci, delle
interpretazioni, che costituisce appunto l’inesauribile ricchezza e flessibilità del
discorso storico, non si annullano a vicenda, non si selezionano, le une non cancellano
le altre; vivono e sopravvivono nell’archivio della storiografia riproponendosi sempre
‡‡
Roberto Moro, Storia, storici, identità. Il grande racconto della modernità, oltre la modernità. Da:
http://www.lastoria.org/moro_storia.htm

5
attuali al ricercatore. Ciò che chiamiamo storia è in realtà un archivio complessivo di
racconti, un vocabolario di eventi, una inesauribile banca dati di messaggi e in
definitiva uno specifico linguaggio, un processo, un “agire” comunicativo
(Habermas)” (R. Moro)§§.

L’interpretazione della storia non è fissa nel tempo, è dunque fatto storico a sua volta.

La storia dell’unità d’Italia, di cui ricorre il 150enario, e che sceglie come incipit il
1960 (non il 1970 data della presa di Porta Pia), viene oggi banalizzata da alcuni
gruppi politici del Nord come un accordo tra inglesi, massoni e mafiosi e vissuta come
prodromo di una unità costata alle regioni settentrionali un inutile, dannoso, dispendio
di energie a favore di un Sud corrotto, fannullone e improduttivo. Cinquant’anni fa,
quando cadeva il centenario, erano i calabresi e gli abitanti del Sud che avevano buoni
motivi per non festeggiare: gli studi di Denis Mack Smith (ed. orig. 1959) dimostravano
quanto era stata amara la “conquista” da parte dell’esercito sabaudo, che con la
scusa della “guerra al brigantaggio” spiantò paesi interi e distrusse una economia
allora florida. Basti pensare alla sistematica distruzione degli opifici di lavorazione
della seta in Calabria, fino alla scomparsa persino della relativa archeologia
industriale, tutto a favore delle seterie del nord che non ebbero da allora rivali. Oggi la
sinistra rivendica i valori dell’unità, mentre cinquant’anni fa snobbava i festeggiamenti
vissuti come nazionalismi veterofascisti.. L’unità è la stessa, sono le variabili narrative
che ne cambiano il senso, l’interpretazione e “generano” differenze.

La “Ri-Narrazione generativa”

La storia rinarrata dagli storici ci sembra aiuti a sostenere un nuovo, piccolo passo in avanti nella
nostra costruzione di una epistemologia della narrazione. In Colloquio magistrale e in Gruppo!
Gruppo esclamativo ci siamo impegnati nello sforzo di offrire un contributo a un’idea di colloquio
maturata negli anni, con la proposta di considerare questo stesso modo una narrazione, un’azione
epistemologicamente, teoricamente e culturalmente orientata, da interrogare nei suoi assunti (di
matrice socio-costruttivista e psicodinamica) e non da assumere per fede (Montesarchio, Venuleo,
2009). Quest’operazione però ha senso se riesce poi a rispondere a domande, a proporre criteri, a
implementare risorse, in una parola se sostiene la prassi clinica degli operatori dei servizi, degli
psicoterapeuti e specie dei formatori e gli psicologi dell’intervento.
Ci sembra che parlare di “ri-narrazione generativa” possa essere un modo per proporre un’idea di
prodotto in psicologia, una concezione possibile di cambiamento in psicoterapia, senza negare né
contraddire, altre opportunità. Anche in questo caso, paghiamo un contributo sano alla scienza
storica perché il modo più semplice per spiegare la “ri/narrazione” oltre che definirla è utilizzare
una metafora legata alla cultura della fonte storica.

Prima un accenno di definizione su ciò che proponiamo di intendere con il termine


“RI/NARRAZIONE GENERATIVA”. Essa è la possibilità di poter, grazie all’incontro con il
professionista psicologo, riorganizzare diversamente e nuovamente riproporre una storia di sé che,
rispetto a quella con la quale ci si presenta ab inizio, sia nuova, diversa e plurale:
- nuova, se è condivisibile la proposta che la sintomatologia psichica, quando si prendono le
distanze da una approccio psicopatologico, possa essere rintracciata in un pensiero saturo, che
sottrae potenzialità trasformative alla significazione degli eventi, e più in generale, alla propria
storia; la narrazione generativa non mira a cancellare il passato ma prova a interrogarne il valore

§§
Ibidem

6
nel presente;
- diversa, e divergente, dunque nuova non solo su un piano di contenuti rappresentazionali messi
in campo, ma di codici di senso che più ampiamente li organizzano; per intenderci, non è da
questo punto di vista definibile in termini di rinarrazione il fatto che il paziente che all’inizio del
percorso terapeutico propone di impiegare le sedute per parlare del marito o del datore di lavoro
che gli rovina la vita, passa poi a parlare del padre individuato come l’origine delle sue scelte
sbagliate e dei suoi guai; la mente emozionata e conservativa usa forme diverse che sono come
vestiti di uno stesso sarto scelti entro lo stesso negozio (la stessa cultura di fondo, lo stesso
spazio simbolico)… È riconoscibile come rinarrazione, tuttalpiù, la proposta che nelle diverse
relazioni in cui si è e si è stati iscritti, ad esempio, si è consentito che altri organizzassero la
propria vita, per un sentimento di insostenibilità verso la responsabilità di condurla da sola e di
sbagliare autonomamente!!;
- e plurale: rinarrare generativamente non è semplicemente cambiare narrazione; la “narrazione
generativa” va intesa come un processo e una proprietà contestuale delle relazioni, un prodotto
da costruire a partire dalle proprie interazioni di scambio con l’ambiente, continuamente
variabile. Si tratta dunque di assumere il qui ed ora, la contingenza delle relazioni in cui si è
iscritti, come criterio interpretativo dell’esperienza e quindi di azione. Basti pensare come si
sarebbe fallimentari se si tentasse di rapportarsi ai propri figli seguendo le “istruzioni” dei
“manuali per essere genitori felici”; basti pensare, più in generale, alla scarsa utilità di tutti i
manuali che si propongono di insegnare come stare al mondo, accomunati dallo stesso critico
assunto di fondo che ve ne sia uno solo, utile sempre, e utile per tutti. È il criterio,che si rileverà
fallimentare, utilizzato dal protagonista del film “Volevo solo dormirle addosso” – compagno e
figlio distratto, formatore delle risorse umane, impegnato a ridurre drasticamente il personale
dell’azienda per cui lavora, che propone ed utilizza l’espressione “Ti stimo molto” come chiave
motivante di tutti i rapporti, lavorativi, famigliari, amicali, cieco rispetto ai ruoli, agli obiettivi,
ai contesti, violento nel momento in cui liquida o comunque propone di liquidare la complessità
dei rapporti governandoli malgrado l’altro, piuttosto che con l’altro. Narrarsi generativamente
comporta allora aprirsi all’esperienza dello scambio, comporta il riconoscimento dell'autonomia
dell'altro, l’estrazione di differenza tra il proprio mondo e quello altrui, dunque un modo della
simbolizzazione che costruisce narrazioni che lascino spazio al riconoscimento della pluralità
dei mondi di significato.

In modo più sintetico ed immediato, la ri-narrazione generativa ri-racconta un episodio singolo o


una più complessa fase di vita, da punti di vista, con spunti e contributi nuovi che consentano non
necessariamente di negare i precedenti punti di vista, ma di fornirne nuovi e diversi, che sono il
prodotto della relazione e di una lettura del contesto. Perché fuori dalla relazione e senza contesto,
l’evento non ha significato, e il passato un fardello di cui nel migliore dei casi non si sa che farsene,
come nel romanzo Middlemarch di George Eliot (1874)***, dove la protagonista, Dorotea Brooch,
domanda a suo marito, che è uno studioso d'antichità famosissimo: “Ma che valore hanno questi
resti?”. Il marito risponde: “Dicono che siano di gran valore...”. Però, questo valore non riesce a
esplicitarlo …

Veniamo per esemplificare alla scienza storica: la storia costruisce le sue interpretazioni su
documenti che si chiamano “fonti”. Dette fonti ufficiali ed ufficiose sono scritti o tradizioni orali
che possono essere letti ascoltati o visti (se contributi massmediologici visivi). Naturalmente lo
Stato, l’Organizzazione o chi in possesso di tali documenti può criptare, far sparire o distruggere i
documenti, ma comunque se si viene in possesso di atti e fonti si può da questi costruire una storia e
darne – come riconosce la storiografia odierna – non una descrizione, ma una soggettiva
interpretazione.

***
Citato da Andreina Ricci, archeologa, alle giornate sulla resocontazione – Roma – 31 gennaio 2009

7
A secondo del contesto o dell’orientamento culturale, politico, religioso, l’uomo-storico potrà
leggere in un modo o in un altro la fonte; potrà, nonostante la buona fede e la correttezza, essere
orientato dalle proprie convinzioni e come dicevamo dalle condizioni contestuali, a volte perché un
nuovo documento viene acquisito, o solo perché viene accolta una diversa ipotesi, fermo restando
gli antichi documenti, cambia in parte o del tutto la nuova narrazione che ne consegue.
Un delicato periodo della nostra storia recente ci serve da esemplificazione: l’Olocausto, è stato
prima un dramma sottovalutato perché durante il nazismo non offerto alla conoscenza piena, poi
con l’arrivo degli alleati, immediatamente visibile e documentato, poi ricostruito grazie a
testimonianze dirette ed a documenti in cui la contabilità delle morti e degli abusi era riportato con
piglio e metodi da ragioniere. Questo ha consentito la ricostruzione della narrazione di quella
infamia. Ma nel momento in cui si propone il termine “infamia”, si sta già facendo narrazione e non
solo leggendo i documenti, ma dando un’interpretazione e schierando proponendo una lettura. Devo
considerare che alla luce degli stessi atti qualcuno può definire lo stesso atto come “normale”
conseguenza di una atavica caratteristica di un popolo, quello ebraico, di essere non congruente alla
crescita di un paese, ma orientato al solo perseguimento del proprio, egoistico interesse. Una
diversa interpretazione potrebbe essere orientata dal concetto di “razza pura” e dalla necessità di
garantire un futuro solo a quella e considerare l’Olocausto come pulizia etnica.
Esiste, poi, un filone “fantastorico”, da sempre esistente, oggi propugnato addirittura da governi di
paesi ad orientamento integralista, che ritiene le fonti falsi storici e l’Olocausto un’invenzione della
cultura occidentale e del popolo ebraico in particolare, atto a costruire e veicolare una tesi
vittimistica utile a spostare interessi specie economici.
Ancora, è utile segnalare che, a fronte delle interpretazioni dell’Olocausto, pure fantasiose ed
inaccettabili, che ci confrontano con una possibilità di racconto plurale, ancora oggi rimane non
parlato l’Olocausto del popolo nomade, degli zingari, che continuano ad essere reietti e non
possono neanche “vantare” significativi luoghi e tempi della memoria. Questa condizione di non
narrati ha fatto affermare a Marian (nomade 28enne che non ha nelle cronache neanche l’onore di
un cognome), a proposito della recente “deportazione” di Rom dalla Francia: “Se Sarkozy avesse
cacciato gli arabi avrebbero dato fuoco al paese”.
Questo per segnalare che il primo passo resta la possibilità di consentire almeno una narrazione di
sé e che mentre ci occupiamo di ri-narrazione non vogliamo dimenticare che anche la psicologia
sociale, la psicologia culturale, la psicologia clinica e gli psicologi hanno il diritto, non
necessariamente per mandato sociale, di affermare il diritto di ognuno di narrarsi ed essere narrati,
che vuol dire in sintesi: esistere!!
C’è da dire tuttavia che spesso le diverse interpretazioni non entrano nel merito delle prove
documentate, anzi, si trovano in accordo sulle fonti: sull’Olocausto, numero di morti, tipologia
dell’eliminazione fisica, luoghi deputati, personale impegnato, ecc. Sembra importante
sottolinearlo, a ribadire che quel che si sta discutendo non è la possibile verità di quanto successo (e
per tornare alla clinica, l’attendibilità dei fatti che il cliente racconta), ma la moltitudine delle verità
narrative che poi organizzano azioni, sentimenti, affetti, valutazioni.
Questo è molto evidente nella clinica che fa uso del colloquio di gruppo dove uno stesso evento (dal
ritardo di un membro del gruppo, allo “scontro” tra due partecipanti, ecc.) varia notevolmente in
rapporto al valore d’uso che assume per i partecipanti, alle interpretazioni e reazioni che sollecita.

In un piccolo gruppo, Teresa racconta della pericolosa piega presa dalla sua storia con un
nuovo ragazzo, che dopo essersi trasferito a casa sua, le ha confessato di essere senza
lavoro, implicato nel gioco d’azzardo e pieno di debiti. E tuttavia è andata a fare con lui
un viaggio in Spagna. Afferma di essere confusa e di spiegarsi il proseguimento della storia con
il desiderio di provare ad entrare pienamente nella relazione “per vedere cosa succede e capire
come lui è veramente”.
Gli altri partecipanti associano alla storia immagini e metafore.
A Monica viene in mente un locale di Firenze da alcuni conosciuto come “Le murate”, in
quanto in passato ospitava un ex-convento di suore di clausura, ma in realtà chiamato “Vie di

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fuga”, perché da convento diventò carcere. Dentro si balla, si beve, si fa festa, ma la sensazione
per chi vi entra è pur sempre quella “di essersi murati dentro”. Se questo accostamento fa
chiedere al gruppo quale crimine, quale colpa, qualche misfatto Teresa debba espiare, un’altra
immagine sembra proporre di interrogarsi anche sul tipo di aiuto che il gruppo può offrire a
chi prova ad uscire da “una vita di prigione”: Concetta ricorda di aver letto che il comune di
Roma mette a disposizione un kit di 48 ore per gli ex carcerati chiedendosi a cosa potrà mai
servire una valigetta ad un uomo che si trova a dover riorganizzare la relazione con la sua vita
lungo un’altra direzione.
A Federica viene in mente l’immagine di una cassaforte e il personaggio di Harry Potter, che
deve attraversare cunicoli paurosi per arrivare allo scrigno segreto. Valerio pensa ad un
casinò, dove si entra per il piacere sottile del pericolo, del rischio, della trasgressione; e
Raffaella ricorda un noto giocatore d’azzardo che confessava in un’intervista di trovare
l’emozione della perdita molto più eccitante di quella della vincita. A Luigi viene in mente un
sogno in cui, in macchina con il fratello, compie un sorpasso rischioso che alla fine riesce a
fare ma con grande rischio per sé, per il fratello e per tutti gli altri automobilisti in strada. Lo
accosta alla “manovra” sbandata che Teresa sta compiendo immergendosi in questa storia.

Ci si avvicina infatti a una stessa fonte con il peso di altre fonti e narrazioni organizzate nel tempo e
consolidate intersoggettivamente.
La letteratura clinica e non ha ben descritto il potere conservativo dei miti familiari, gruppali,
nazionali a volte, che, sostituendo alla storia delle cose, la natura, riducono la complessità del reale,
annullandone contraddizioni e aporie. Barthes (1957; trad. it. 1974) osserva che per far questo il
mito si serve di vari artifizi retorici:
- la privazione di storia: l'oggetto mitico viene svuotato della sua storia (“è sempre stato così”);
- l’identificazione: l'altro, il perturbante, non viene visto, ma negato o assimilato a ciò che
dovrebbe essere e non a ciò che è;
- la tautologia: l'identico viene definito con l'identico (es. "il mostro è il mostro"), senza essere e
potere essere argomentato, trova la sua legittimazione solo dietro un'affermazione di autorità
che imita la razionalità (è così perché) ma l'abbandona subito (...perché è così) dopo averne
proferito la parola introduttiva;
- il neneismo: elementi contrari della realtà vengono ridotti a elementi simili rifiutati entrambi;
- la quantificazione delle qualità: individui e contesti vengono valutati in base alla dicotomia più
o meno, quella stessa che fa sì che l'erba del vicino sia sempre più verde;
- la constatazione: la spiegazione è universale, non tiene conto del tempo e dello spazio.

Figure retoriche che trattano le cose come esistenti in sé.


È l'emozione espressa anche dalle metafore, dai riti, dai proverbi, che la cultura connota come
“saggezza popolare”: “meglio un uovo oggi, che una gallina domani”; “mal comune, mezzo
gaudio”; “se il marito parla bene e la moglie tace, la famiglia vive in pace”.
Fonti apprese e tramandate che spesso ci vengono presentate dai nostri clienti come cristallizzate in
un’unica intoccabile interpretazione:

“È oggettivo che: povera mamma ha subito le angherie di quel mascalzone di mio padre che ha
rovinato la famiglia e noi figli”.

Ma anche:

“Povero marito mio, è diventato alcolista perché la gente onesta non riesce a trovare lavoro,
nessuno lo ha aiutato”

“Povero figlio mio, viene bocciato perché i professori ce l’hanno con lui ….”

“Anche se avrei voluto fare il poliziotto, ho preso in carico l’attività commerciale di mio padre
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perché questo era il sogno della sua vita, come prima lo era stato del nonno …. Non avevo scelta,
anche se questo mi condanna alla frustrazione e all’infelicità”

In questo caso la lettura delle fonti familiari produce un’unica pedissequa narrazione non passibile
di attraversamento.

E pensiamo ancora alla personificazione di sostantivi astratti come verità, bontà, normalità,
giustizia, fiducia: i nostri clienti ce ne raccontano spesso il tradimento, subito o anche attuato, ma
entro narrazioni che assumono ci sia un consenso – intoccabile – su cosa li sostanzi o su quale sia la
forma umana da realizzare.

Questo, anche perché noi fondiamo il nostro passato ed il presente e costruiamo il futuro sulle
narrazioni pregresse – che sono anche segno e “promesse” di appartenenze a specifiche culture e
reti comunicative che incoraggiano/suggeriscono/modulano/o pongono vincoli a un determinato
modo di interpretare la propria esperienza, ed una nuova diversa interpretazione mette in crisi
dunque non semplicemente il significato dato ad un evento ma l’identificazione con una comunità, i
suoi discorsi, la visione del mondo di cui sono portatori e con cui si è costruito se stessi
(Wittgenstein, 1953/1988).

“Sotto un lampione c’è un ubriaco che sta cercando qualcosa. Si avvicina un poliziotto
e gli chiede cosa ha perduto. “La mia chiave”, risponde l’uomo, e si mettono a cercare
tutti e due. Dopo aver guardato a lungo, il poliziotto gli chiede se è proprio sicuro di
averla persa lì. L’altro risponde: “No, non qui, là dietro; solo che là è troppo buio”
(Watzlawick, 1983)

Non è molto diverso l’incipit di un paziente che:

… arriva al colloquio lamentando di essere stanco di dedicare la sua vita al lavoro, con
cui sente di avere un rapporto ossessivo. Vorrebbe dedicarsi di più alla moglie, ai figli;
avere tempo libero per dedicarsi alla lettura, per fare un po’ di palestra, prendersi cura
di sé. Sempre più frequentemente si sente angosciato per non riuscire a porre limiti alle
urgenze e alle scadenze con cui il suo lavoro di libero professionista lo confronta;
eppure “non riesce a smettere”. Si chiede se ci riuscirà mai e subito dopo quanto tempo
il lavoro con lo psicologo richiederà. Ha fatto salti mortali per arrivare puntuale al
primo colloquio: il lunedì gli sarebbe impossibile cancellare un’ora dei suoi impegni; il
martedì è da solo nello studio associato che condivide con altri e creerebbe grandi
problemi se chiedesse di lasciarlo chiuso per un’ora; il mercoledì …” (Colloquio
magistrale. La narrazione generativa)

In Colloquio magistrale (2009), abbiamo riconosciuto il ruolo centrale alle fantasie (e alla loro
natura affettiva) nella comprensione della natura di questa resistenza al cambiamento. Qui proviamo
a raccontare questo ruolo con un’altra metafora rubata a Watzlawick:

“Un uomo vuole appendere un quadro. Ha il chiodo, ma non il martello. Il vicino ne ha


uno, così decide di andare da lui e di farselo prestare. A questo punto gli sorge un
dubbio: e se il mio vicino non me lo vuole prestare? Già ieri mi ha salutato appena.
Forse aveva fretta, ma forse la fretta era soltanto un pretesto ed egli ce l’ha con me. E
perché? Io non gli ho fatto nulla, è lui che si messo in testa qualcosa. Se qualcuno mi
chiede un utensile, io glielo darei subito. E perché li no? Come si può rifiutare al
prossimo un così semplice piacere? Gente così rovina l’esistenza agli altri. E per giunta
si immagina che io abbia bisogno di lui, solo perché possiede un martello. Adesso

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basta! E così si precipita di là, suona, il vicino apre, e prima ancora che questo abbia
il tempo di dire “Buon giorno”, gli grida: “Si tenga pure il suo martello, villano!”
(Watzlawich, 1983)

La metafora di Watzlawich è talmente universale che fa il paio con la stessa parabola raccontata nei
nostri paesi:

Antonio deve portare le uova al mercato, ma non ha la bicicletta, si avvia, perciò,


presso la casa del compare Giuseppe con l’intenzione di chiederla in prestito. Per
strada viene preso da dubbi: “e se Giuseppe dovesse dirmi che anche lui deve andare
al mercato?”; “proverò a dimostrare che le mie uova potrebbero non essere più
vendibili il giorno successivo”; “ma Giuseppe potrebbe comunque eccepire che la
bicicletta è sua e che ha maggiore diritto di me”; “gli ricorderò di quando gli ho
prestato il trattore”; “ma Giuseppe potrebbe rispondermi che per rendermi il favore mi
aveva a sua volta prestato il decespugliatore”, “mi appellerò all’essere compare di
cresima di suo figlio”; “ma Giuseppe potrebbe non essere sensibile alla cosa perchè
non ha amore per quel figlio che ritiene un fannullone” ecc. ecc. Mentre Antonio è
preso dalle sue elucubrazioni gli arriva incontro Giuseppe e senza dargli tempo gli
urla: “Giuseppe, sai che ti dico?, ma vai a quel paese tu e quel chiodo di bicicletta che
hai in garage!!!”

Le fantasie non abbisognano di poggiarsi ad elementi di realtà, piuttosto se ne servono per


esprimersi, utilizzando tutto quello che l’esperienza offre a pretesto. La loro natura simbolica ed
inconscia vede nella relazione sociale ciò che si attende di vedere.
La narrazione da questo punto di vista non è solo il prodotto di un posizionamento sulla realtà, che
ammetterebbe più spiegazioni o più vertici di conoscenza (Bion, 1965): allo stesso tempo è il modo
con cui tale posizionamento prova a riprodurre se stesso, anche nello spazio dialettico
dell’intervento clinico.

Ma allora, come provocare cambiamento?


In uno dei due testi, abbiamo proposto questa vignetta††† per ribadire il punto di vista per cui la
narrazione non è mai un’impresa individuale ….. abbisogna di essere costruita, sostenuta,
alimentata intersoggettivamente.

†††
Dylan Dog. Cose dell’altro mondo …. citato in Colloquio Magistrale

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Ci sembra questo un punto fondamentale per la clinica…. La natura intersoggettiva della narrazione
sottopone questa costruzione di significato a un’incessante lavoro di ridefinizione, cui anche il
terapeuta può prendere parte, con i suoi commenti e le due domande. Egli può dunque
collusivamente impegnarsi ad accertare il significato degli eventi proposti alla sua attenzione,
patteggiando per una verità o per un’altra, o provare a dare un significato al fatto che venga
proposto un certo contenuto rappresentazionale come problema, interrogando la proposta
relazionale in esso contenuta.
In questa prospettiva, a costituire la specificità del colloquio sarà la possibilità di prendere
consapevolezza degli elementi sociali e simbolico affettivi precipitati nella narrazione tramite la
quale i consultanti organizzano il significato della propria esperienza, ne propongono i primi o gli
ultimi capitoli, ne forniscono un resoconto “dettagliato” o non ne parlano, aspettando un oracolare
responso, definiscono cosa è giusto/buono/canonico/normale e cosa è
sbagliato/cattivo/inusuale/patologico, descrivono i problemi e gli obiettivi che perseguono entro i
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propri contesti relazionali e sociali di appartenenza, motivano la richiesta di una consulenza
psicologica, ne rappresentano le funzioni e gli strumenti.

Il lavoro clinico interroga queste narrazioni ma non per mirare alla scoperta, che presuppone una
verità/un’essenza/una causa/una ragione già data, e solo da rinvenire, piuttosto per sollecitare nuove
conoscenze; forma alla ricerca d’archivio, ma non per assestarsi sul passato, e sostenere la fedeltà
ad una versione di storia, piuttosto per consentire di vedere nel presente, per permettere la
ri/narrazione di una storia che già narrata si rigenera o che mai consentita trova una possibilità di
invenzione, di ascolto e di cittadinanza: in sintesi l’attraversamento della narrazione offre al
soggetto o ai gruppi ed allo stesso psicoterapeuta la possibilità di riinventare il già detto. Un
obiettivo che è al contempo un metodo, in quanto implica l’attenzione al piano delle
rappresentazioni metacognitive ed emozionali che mediano la richiesta di consultazione. Compito
complesso, non solo dal punto di vista della teoria della tecnica, che invita a esplorare, più che
anticipare, suggerire, sostituire obiettivi, ma anche da un punto di vista emozionale, perché non
assestarsi sulla narrazione dell’altro delude le aspettative collusive dell’utenza che ci sia un modo di
narrare la propria storia e un modo per cambiare mantenendola.
Perseguire una ri-narrazione generativa richiede di non limitarsi alla costruzione delle ipotesi su
come affrontare il caso, assumendo che vi sia accordo sull’oggetto su cui discutere, ma di trattare i
modelli interpretativi con cui il cliente narra ed interpreta la relazione, nel là e allora dei suoi
contesti di appartenenza, nel qui ed ora del setting clinico, come testo perturbante a cui rivolgere
domande, senza memoria e senza desiderio, direbbe Bion (1965).

E perché mai il suo attacco di panico, il tradimento di suo marito, la tossicodipendenza di suo
figlio, la fobia per i cavalli, ecc. ecc. le fanno pensare di aver bisogno di uno psicologo? Questa è
forse una possibile domanda che potremmo – senza necessariamente esplicitarla – tenere a mente,
quando lavoriamo perché il nostro cliente possa cominciare a pensare la sua narrazione.
Quindi ri/narrazione come riproposizione, come riinvenzione, come rilettura, come nuova storia,
come attraversamento, come cambiamento e specie come formazione ad una competenza, al
riesame, alla rilettura all’invenzione alla ricerca!!!

Ancora, come costruzione di un PENSIERO sull’accadente (Montesarchio, Venuleo, 2002, 2009)


la cui forma ha valore contingente. È entro le pratiche discorsive di costruzione di senso che la
narrazione generativa va continuamente costruita e rielaborata.

“sono entrata in quella casa e ho incominciato a trovare carte, foto, film e segni ed ho
conservato, ma anche scelto, buttato, distribuito ed ho riconsiderato la mia storia
familiare, ed ho dovuto fare i conti con quello che non avevo voluto vedere: mentre
sarebbe chiaro ad un investigatore esterno che tipo di uomo era quello che abitava
quella casa, allo stesso esploratore nonostante la certezza della presenza di una donna,
una moglie, un compagna, non sarebbero chiari i contorni, le caratteristiche di questa
donna. L’estraneo ne coglierebbe certo la presenza, ma anche l’assenza. Ecco ora
posso dire e sentire la pesante, costante, rumorosa, “assenza” di mia madre,
impegnata altrove nella manutenzione, direi, della sua famiglia d’origine e non nella
fondazione del nuovo nucleo familiare.”

Saramago dice: “siamo circondati da metafore”


Siamo in grado di leggere, cogliere, capire, tradurre, ri/tradurre queste metafore o corriamo lo stesso
rischio delle religioni, quello di tradurre queste metafore in immutevoli, dogmatiche, cristallizzate
realtà che non possono essere interpretate, ri/narrate o criticate? In fondo il pericolo che la
psicologia ha corso e continuamente corre è quella di essere spesso organizzata in sette, in chiese,
in enclaves chiuse e dogmatiche che propongono una loro visione non solo delle realtà ma anche e

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persino delle fantasie; viene così disattesa l’attenzione alla narrazione dell’altro, che accolto come
cliente, viene indrottinato come adepto!!!

Riferimenti bibliografici

Barthes, R. (1957). Miti d'oggi. Torino: Einaudi, 1974.

Berger, P., Berger, B., Kellner, H. (1983). La pluralizzazione dei mondi della vita. In L. Sciolla (a
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Cordonier D. (1995). Evénements quotidiens et bien être à l’adolescence. Geneve: Editions


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Giovagnoli, A. (2009), Storia e globalizzazione. Bari: Laterza.

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Attraversando il maestro. In S. Di Nuovo, G. Falgares (a cura di), Psicologia psicologica.
Scritti in onore di Franco Di Maria. Milano: Franco Angeli, pp. 299-319.

Montesarchio, G. Venuleo, C. (a cura di) (2009). Colloquio Magistrale. La narrazione generativa.


Milano: Franco Angeli.

Montesarchio, G., Venuleo, C. (a cura di) (2010). !GRUPPO!. Gruppo esclamativo. Milano: Franco
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Anscombe, Trans. 2nd ed.). Oxford: Basic Blackwell. (Original work published 1953).

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