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Né pacifisti, nè stalinisti.

Contro la guerra, da comunisti rivoluzionari

CONTRO L'INTERVENTO IMPERIALISTA, MA DALLA PARTE


DELLA RIVOLUZIONE LIBICA

L'intervento imperialista in Libia, nel contesto della rivoluzione araba, fornisce


uno spaccato illuminante di posizioni a confronto nella sinistra italiana.

Come PCL lavoriamo naturalmente per il più ampio fronte unico di forze contro
l'intervento militare, a favore dello sviluppo di un vero movimento di massa .
Ma dentro la costruzione del movimento riteniamo essenziale evitare ogni
forma di rimozione politica delle divergenze esistenti. Sapendo che esse non
riguardano solo un problema specifico di “politica internazionale” ma, in ultima
analisi, la stessa natura dei programmi di fondo che si perseguono.

La “guerra di Libia” mette a confronto, in estrema sintesi, quattro posizioni


diverse a sinistra.

QUATTRO POSIZIONI A CONFRONTO: INTERVENTISMO UMANITARIO,


PACIFISMO, NEOSTALINISMO, MARXISMO RIVOLUZIONARIO

Una prima posizione si barcamena tra l'interventismo umanitario e il pacifismo.


E' il caso di Nichi Vendola e di SEL. Si tratta di una posizione aperturista verso
la risoluzione 1973 dell'ONU ( che ha aperto la via all'intervento armato), ma al
tempo stesso formalmente “prudente”.. sull'uso delle armi. E' il tentativo di
conciliare l'inconcialibile: l'imperialismo e l'attenzione umanitaria. Ma
soprattutto la corsa al premierato del centrosinistra e i voti pacifisti. L'aspirante
Premier del Centrosinistra deve mostrarsi sufficientemente “statista” da
riconoscere l'Onu e le sue disposizioni di guerra, ma anche sufficientemente
scaltro da apparire contrario alla guerra. Sufficientemente “responsabile” agli
occhi di un PD che vota la guerra ( salvando Berlusconi), ma anche
sufficientemente “pacifista” per insidiargli i voti. Siamo per l'appunto al triste
replay del bertinottismo (voto alle missioni di guerra ma con la spilletta della
“pace”), seppur mascherato oggi dall'assenza in Parlamento.

Una seconda posizione è di carattere “trattativista” pacifista. E' il caso della


Federazione della Sinistra ( Diliberto Ferrero Salvi Patta). Si tratta di una
posizione sicuramente contraria all'intervento di guerra in Libia, ma nel nome
di una soluzione “diplomatica” del “contenzioso interno libico”. In altri termini
di una soluzione di “pace” tra Gheddafi e gli insorti, o di una imprecisata
“transizione democratica” assistita dalla “diplomazia internazionale”. E' una
posizione che nel nome della “non violenza” o pone di fatto sullo stesso piano
la violenza degli oppressori e la violenza degli oppressi , la rivoluzione libica e
la controrivoluzione del regime; e/o ripropone l'eterna illusione su una possibile
“neutralità” dell'Onu e delle istituzioni internazionali dell'imperialismo. Nel
migliore dei casi, condanna formalmente la natura oppressiva del regime libico,
ma non sostiene l'insurrezione armata per rovesciarlo. E' l'eterna
riproposizione di un pacifismo al di sopra della storia e della realtà( tranne
quando si ottengono ministeri e si votano le guerre imperialiste). Ma anche
sufficientemente presentabile al centrosinistra e ai suoi salotti borghesi per
cercare di non essere scaricati dalle alleanze elettorali amministrative e dalla
auspicata “Alleanza democratica” col PD e la UDC, partiti di guerra.

Una terza posizione si attesta sul sostegno politico ( a volte critico, a volte no)
a Gheddafi e al suo regime. E' il caso della composita area neostalinista
italiana. Si tratta di una posizione fortemente contraria all'intervento
imperialista- di cui denuncia anche correttamente finalità e ipocrisia- ma nel
nome della difesa di un regime “antimperialista” e della sua tradizione, in
perfetto allineamento con le posizioni di Chavez e di Castro. E' una posizione
che non solo rimuove la realtà del regime confondendola con la sua
propaganda, ma anche la realtà della rivoluzione, presentata come insorgenza
tribale. Nella sua versione più ricercata e meno “gheddafista” ( Rete dei
Comunisti) rappresenta la vicenda libica come una spiacevole guerra civile fra
tribù, tra cui occorrerebbe mettere pace grazie a una intermediazione
diplomatica di Stati (borghesi) arabi e africani. Nei fatti è la ricopiatura della
proposta Chavez, interessato esclusivamente a salvaguardare le buone
relazioni economiche e diplomatiche con Gheddafi ( come col regime iraniano).
Si tratta della conferma di una posizione generale che sostituisce la storia reale
della lotta di classe e delle lotte dei popoli oppressi con la relazione tra campi
statuali: ieri la burocrazia dell'URSS, oggi più modestamente il regime
bolivariano. La rivoluzione reale naturalmente , può aspettare, a vantaggio
della sua (variabile) rappresentazione mitologica.

La quarta posizione è quella del marxismo rivoluzionario: che combina


l'opposizione più radicale all'intervento imperialista col sostegno alla rivoluzione
libica, nell'ambito della più generale rivoluzione araba. E' la posizione del
Partito Comunista dei lavoratori. In quanto rivoluzionari, partiamo sempre dalla
distinzione elementare tra oppressi ed oppressori, ad ogni latitudine del
mondo. In quanto rivoluzionari sosteniamo ogni movimento degli oppressi
contro gli oppressori, quali che siano le sue contraddizioni e i suoi limiti. In
quanto rivoluzionari cerchiamo di intervenire in ogni movimento degli oppressi
per ricondurre le sue ragioni alla prospettiva della rivoluzione socialista, su
scala nazionale e internazionale. Questa è la base generale di definizione del
nostro posizionamento nei processi storici reali e nelle loro dinamiche, spesso
molto complicate. Questo è il nostro metodo d'approccio alla vicenda libica.

LE DIFFERENZE TRA LA RIVOLUZIONE LIBICA E LA RIVOLUZIONE TUNISINA


ED EGIZIANA

La rivoluzione libica è un fatto reale, inseparabile nel suo stesso innesco dal
processo più generale della rivoluzione araba, iniziato in Tunisia e in Egitto.
Certo la rivoluzione libica ha avuto ed ha una dinamica diversa da quella
tunisina ed egiziana. Ma non perchè “il regime di Gheddafi non è poi tanto
male”, “le masse libiche stanno meglio che in Tunisia e in Egitto”, ci sono forme
di “democrazia popolare” ecc.ecc., come afferma, con involontaria e tragica
ironia, la vulgata neostalinista. Ma per ragioni esattamente opposte.

Il regime di Gheddafi ha una natura ben più totalitaria e dispotica dei regimi di
Ben Alì e Mubarak. In Tunisia e in Egitto regimi bonapartisti e corrotti
tolleravano forme recintate di “opposizione” politica e una parziale dialettica
sindacale, sia pur limitata e controllata. Ciò che ha favorito l'utilizzo di canali
organizzati nell'ascesa rivoluzionaria (pensiamo al ruolo del sindacato Ugtt in
Tunisia o ,in forma molto minore, dei sindacati indipendenti in Egitto). In Libia
il regime ha ciclicamente eliminato manu militari ogni ombra di opposizione
interna, ha espunto ogni spazio di dialettica sociale e sindacale, ha costruito
una rete capillare di controllo sociale attraverso la polizia diffusa di regime ( i
cosiddetti comitati rivoluzionari).

In Tunisia e in Egitto esistevano ed esistono eserciti nazionali potenti, certo


più subordinati, nei loro vertici, all'imperialismo ma anche più esposti, nelle
loro fila, al contagio popolare della pressione di massa. In Libia l'esercito
nazionale ha avuto ed ha un corpo assai limitato, a fronte di una potentissima
milizia privata del Raiss, come struttura separata di regime, largamente
impermeabile alla società libica, e organicamente dipendente dalla famiglia
Gheddafi. Cui si aggiunge una presenza di milizie mercenarie direttamente
acquistate dal Colonnello in Centro Africa ( spesso con la significativa
intermediazione sionista, come hanno documentato, non senza imbarazzo, il
Messaggero e il Mattino).

In Tunisia e in Egitto, esisteva ed esiste una consistente classe operaia


industriale autoctona, non a caso protagonista determinante in entrambi i casi
del processo rivoluzionario. In Libia una classe operaia industriale libica è
estremamente limitata : mentre è molto presente un proletariato
d'importazione, proveniente da altri paesi arabi (Tunisia ed Egitto innanzitutto)
ma anche dall'Asia, dal Sudan, dal Ciad, dal cuore dell'Africa nera, ridotto ad
uno stato semischiavile ( con grande vantaggio per le “democratiche” aziende
occidentali), e politicamente depotenziato dalla propria condizione.

E' sufficiente tutto questo per capire le maggiori difficoltà della rivoluzione
libica, e le sue indubbie particolarità? Peraltro proprio questo contesto misura
tanto il carattere eroico dell'insurrezione di Bengasi e in tante altre città della
Cirenaica e della Tripolitania, quanto la sua immediata traduzione in
contrapposizione militare e guerra civile ( col passaggio determinante di settori
dell'esercito agli insorti). E viceversa: chi si ostina a negare l'esistenza di una
rivoluzione popolare contrapponendole la categoria della “guerra civile”, non
solo ignora la storia del rapporto tra guerre civili e rivoluzioni ( v. il nostro testo
“dalla parte della rivoluzione libica”), ma rimuove la dinamica concreta di una
vicenda libica in cui l'unica forma concreta di rivoluzione popolare- nella
condizioni imposte dalla natura del regime- era esattamente la guerra civile.
Per cui chi respinge inorridito la guerra civile in Libia di fatto respinge ..la
rivoluzione popolare contro Gheddafi. Che è esattamente la conclusione degli
stalinisti.

Né vale il riferimento alla cosiddetta “guerra tribale”, per negare la rivoluzione.


Naturalmente in Libia è ben presente la vecchia rete tribale ed è indubbio che
anche elementi tribali siano confluiti nella sollevazione popolare contro
Gheddafi ( come del resto storicamente in numerosi movimenti di massa
anticoloniali o di ribellione sociale, in particolare in Africa). Ma è totalmente
falso, nel merito, ridurre l'insurrezione popolare al gioco tribale. In un certo
senso è vero l'opposto. E stato il regime di Gheddafi ad aver largamente
preservato la struttura tribale della società libica in funzione della propria
autoconservazione, attraverso il rapporto diretto con i capi clan. Ed ancora oggi
è Gheddafi ad appellarsi ai capi tribù per lanciare un appello di “pacificazione”
contro la rivoluzione (v. la cosiddetta “marcia della riconciliazione”). Ed è
invece proprio la rivoluzione popolare ad aver avuto un parziale effetto
dissolvente e di scomposizione dei vecchi assetti tribali, coinvolgendo una
gioventù ribelle largamente estranea alla tradizione, e unificando
trasversalmente settori di massa della più diversa provenienza tribale attorno
alla comune rivendicazione democratica del rovesciamento del regime. Peraltro
la composizione del Consiglio della rivoluzione a Bengasi non segue affatto un
criterio tribale, al punto da annoverare al proprio interno elementi della tribù di
Gheddafi ( tribù Qadafi).

LE NECESSITA' PARTICOLARI DELL'INTERVENTO IMPERIALISTA IN LIBIA

Peraltro proprio la natura particolare del contesto libico spiega l'intervento


militare delle potenze imperialiste. Non tutto è spiegabile semplicemente con le
ricchezze petrolifere della Libia, che pur hanno un peso importante nelle scelte
dell'imperialismo. Molto ha a che fare con la natura delle forze in gioco e della
stessa guerra civile.

In Tunisia e soprattutto in Egitto, l'imperialismo aveva ed ha interessi enormi,


sia di carattere economico, sia di natura strategica e militare. Eppure non ha
mai neppure ipotizzato un intervento diretto. Per quale ragione? Sicuramente
per l'imponenza di una sollevazione popolare che sconsigliava ogni avventura:
tanto più in virtù del suo trascinamento, in varie forme, in tutta la nazione
araba. Ma anche per un secondo fattore: il fatto che in entrambi i paesi e
soprattutto in Egitto l'imperialismo disponeva e dispone di leve potenti nei
rispettivi apparati statali ( in particolare militari) e di indubbi legami con parte
delle leaderschip delle rivolte.

Questo fattore è o assente o assai ridotto in Libia. Il cuore dell'apparato


militare libico è polizia privata di regime, data la tradizionale marginalità
dell'esercito. La guida della rivoluzione ( Consiglio nazionale di transizione) è
un coacervo improvvisato e semisconosciuto di elementi contraddittori e
disparati ( ex ministri di Gheddafi, generali scissionisti, islamici, giovani
blogger), senza legami organici pregressi con gli ambienti occidentali ( e tra
loro). L'imperialismo non poteva affidarsi passivamente a questa leaderschip.
Solo un intervento militare diretto poteva consentire all'imperialismo un
entratura nella partita libica ( e per questa via un più ampio potere di
condizionamento sull'intero quadro del Maghreb e della nazione araba in
ebollizione, contro la rivoluzione libica ed araba). Il che naturalmente non
risparmia all'imperialismo – come vediamo- lo scotto delle proprie
contraddizioni interne circa la ripartizione della torta.

In questo quadro la nostra posizione è molto netta: siamo contro l'intervento


militare imperialista- e innanzitutto del nostro imperialismo- ma dal versante
della rivoluzione libica, non di Gheddafi o di un indistinta “pacificazione”(
immaginabile solo se pilotata dall'imperialismo nei suoi propri interessi e contro
la rivoluzione)

CONTRO L'IMPERIALISMO, MA DA RIVOLUZIONARI

“Ma come? Come fate a stare contro l'imperialismo e al tempo stesso dalla
parte degli insorti che plaudono all'intervento imperialista”? L'obiezione sembra
pertinente. E invece ignora la realtà e la complessità della rivoluzione. Peraltro
non nuova nella storia: basti pensare, tra i tanti esempi disponibili, al rapporto
tra insurrezione partigiana e truppe imperialiste “alleate” nell'Italia del 43-45 (
Dove la politica criminale di subordinazione del movimento partigiano al quadro
nazionale e internazionale della “democrazia imperialista” e delle sue forze
militari- imposto da Stalin e da Togliatti- certo non poteva motivare alcuna
posizione neutrale o “pacifista” nella guerra civile antifascista: ma doveva
essere semmai contrastata proprio nel nome dell'autonomia del movimento
partigiano e dello sviluppo della rivoluzione socialista in Italia, in aperta
contrapposizione agi imperialismi “democratici” ).

E' vero: a fronte di un rapporto di forze militari assolutamente impari, e


segnati da una clamorosa impreparazione e disorganizzazione ( altro che
complotto preordinato !) , non solo la leaderschip di Bengasi ma la stessa
massa degli insorti libici ha salutato l'intervento imperialista come la propria
salvezza: quella delle proprie famiglie, e, illusoriamente, della propria
“rivoluzione”. Chi può francamente meravigliarsi di questo?
E' semmai importante notare che nei giorni iniziali dell'ascesa insurrezionale, la
stessa direzione della rivolta e a maggior ragione il senso comune della sua
base di massa, non solo non avevano invocato l'intervento occidentale, ma
l'avevano ripetutamente e pubblicamente scongiurato: “La rivoluzione è nostra,
non dello straniero”. Qualsiasi intervento occidentale era stato pubblicamente
avversato. Ma quando la situazione al fronte si è complicata e poi capovolta,
con l'avanzata travolgente della controrivoluzione, la disperazione ha indotto
un atteggiamento diverso. Questo fatto chiarifica un punto d'analisi molto
conteso. Non la fantomatica “preparazione orchestrata” della rivolta libica (
come vorrebbe la dietrologia stalinista) ma la sua assoluta improvvisazione e
impreparazione militare e politica- unite all'assenza di un soccorso
rivoluzionario egiziano e tunisino- ha aperto il varco all'inserimento
imperialista. E questo intervento mira non al sostegno della rivoluzione- quali
che siano le illusioni degli insorti- ma alla sua rimozione: condizione decisiva
per recuperare un proprio controllo imperialista sulla Libia in funzione dei
propri interessi ( tra loro contrastanti).

Questa situazione non solo non giustifica un disimpegno dal sostegno


all'insurrezione libica ( in direzione della “pace” o di Gheddafi) ma suggerisce
una politica esattamente opposta: un intervento di più marcato sostegno
rivoluzionario alla rivoluzione libica, contrastando ogni tentativo di subordinarla
agli interessi imperialisti, e spingendola verso un chiaro programma di
democrazia conseguente e di emancipazione sociale.
Di più: solo questa svolta può preservare l'autonomia della rivoluzione libica
dalle ingerenze imperialiste e consentire un rilancio della sollevazione popolare.

DARE UN PROGRAMMA RIVOLUZIONARIO ALLA RIVOLUZIONE LIBICA

In primo luogo va posta l'esigenza di un sostegno militare agli insorti da parte


della rivoluzione tunisina ed egiziana.
L'assenza di questo soccorso- riflesso dei limiti attuali delle rivoluzioni arabe e
della natura delle loro direzioni- ha pesato enormemente sulla dinamica degli
avvenimenti libici: favorendo sia l'intervento imperialista, sia l'appoggio a tale
intervento da parte di ampi settori della rivoluzione. E' urgente una svolta,
certo difficile, ma necessaria. Milioni di lavoratori e di giovani egiziani e tunisini
guardano con favore la rivoluzione libica, vedendola ,giustamente, come un
prolungamento della propria rivoluzione. Settori di soldati ed ufficiali
democratici dell'esercito, sia in Tunisia che in Egitto, simpatizzano per gli
insorti libici. L'esperienza degli aiuti umanitari lungo la frontiera tunisina, o
episodi ripetuti di rifornimento informale di armi lungo la frontiera egiziana (
ormai aperta), sono al riguardo indicativi. Questa disponibilità va raccolta e
organizzata a livello più alto. I rivoluzionari tunisini ed egiziani, le sinistre
coerentemente democratiche in entrambi i paesi, possono rivendicare la
formazione di “brigate internazionali arabe” a sostegno degli insorti libici, il loro
addestramento, rifornimento, inquadramento militare, col coinvolgimento
indispensabile di quadri militari dei rispettivi eserciti. E' una rivendicazione che
sarebbe duramente osteggiata dai governi nazionali borghesi di Tunisia ed
Egitto, e ancor più dall'imperialismo. Ma troverebbe ampio ascolto in migliaia di
giovani, rafforzerebbe la coscienza internazionale della rivoluzione araba,
incoraggerebbe nella stessa Libia quei settori della rivoluzione che diffidano
dell'intervento imperialista ma non vedono una prospettiva alternativa.

Ma un secondo aspetto è decisivo: una svolta coerentemente democratica e


sociale nel programma della rivoluzione libica.

Lenin e Trotsky hanno sottolineato in molte occasioni non solo che la


rivoluzione può trascrescere in guerra civile, ma che la guerra civile può
vincere solo coi metodi e i programmi della rivoluzione. Così fu, a positivo, in
URSS, negli anni di guerra civile successivi alla rivoluzione d'Ottobre, quando la
bandiera dell'esproprio dei latifondisti e della distribuzione della terra ai
contadini fu decisiva per indebolire le retrovie sociali della controrivoluzione e
preparare la vittoria dell'esercito rosso. Fu così, a negativo, nella guerra civile
spagnola del 36-39, dove la politica controrivoluzionaria dello stalinismo, che
bloccò la rivoluzione sociale spagnola reprimendo ferocemente i rivoluzionari,
fu il principale fattore della vittoria del generale Franco. In ogni caso l'intera
storia delle guerre civili insegna che il peso delle rivendicazioni e delle bandiere
sociali costituisce un fattore di prim'ordine sullo stesso terreno dei rapporti di
forza militari. Perchè in Libia dovrebbe essere diversamente?

L'insurrezione di Bengasi non ha futuro se non si estende alla Tripolitania,


riprendendo la sua marcia in avanti. Ma difficilmente potrà riprendere in
Tripolitania se non coniuga la forza delle armi con un messaggio rivoluzionario
comprensibile e mobilitante agli occhi del popolo libico, dei suoi settori incerti
ed oscillanti, o addirittura di quelli ancora influenzati e confusi dalla
propaganda del regime.

Ciò vale intanto sullo stesso terreno democratico. Ad esempio,la chiara


rivendicazione di una Assemblea costituente libera e sovrana, con suffragio
universale dai 18 anni; come la rivendicazione di piena eguaglianza e libertà
per le donne libiche ,a partire dal loro diritto al lavoro, ( contro il
segregazionismo reazionario del Libro Verde) potrebbero esercitare una forte
attrazione su più vasti settori di massa della gioventù, e contribuire a rompere
e disgregare le obbedienze tribali di clan, a tutto vantaggio della rivoluzione.

Ma ciò vale ancor più sul terreno sociale. Alcuni esempi.

Il regime familistico di Gheddafi ha investito le ricchezze del petrolio libico in


enormi possedimenti finanziari in occidente, che l'imperialismo vuole congelare
nei suoi propri interessi. La rivendicazione del ritiro dei fondi sovrani libici
all'estero per la loro distribuzione al popolo libico ( sotto forma di indennità di
disoccupazione, di servizi sociali , di migliori stipendi..)sarebbe non solo un
atto elementare di giustizia, ma una bandiera popolare da agitare contro il
regime ( e contro l'imperialismo).

Il regime di Gheddafi ha ceduto all'imperialismo lo sfruttamento delle risorse


libiche con contratti spesso favorevoli all'occidente e a danno degli interessi del
popolo libico ( lo stesso trattato di amicizia con l'imperialismo italiano è al
riguardo esemplare). La rivendicazione del pieno recupero al popolo libico delle
sue risorse e la ridefinizione sotto controllo popolare degli eventuali rapporti
con compagnie straniere, rappresenterebbe uno straordinario fattore di
consenso alla rivoluzione e di disarmo della demagogia “antimperialistica” del
regime.

Il regime di Gheddafi ha svenduto a centinaia di aziende straniere una


manodopera semischiavile importata dall'Africa e dall'Asia: sono settori
proletari oggi abbandonati dai loro padroni a seguito della chiusura di molte
aziende e spinti alla fuga disperata in Tunisia in assenza di ogni altra
prospettiva. Una rivendicazione di esproprio delle aziende straniere, di
riorganizzazione della loro produzione sotto controllo popolare, di conseguente
garanzia del posto di lavoro per i proletari oggi espulsi o minacciati, potrebbe
attrarre dalla parte della rivoluzione un settore sociale prezioso, e oltretutto
concentrato soprattutto in Tripolitania.
Il regime di Gheddafi ha mantenuto settori di latifondo agrario nelle mani di
vecchi clan tribali o di proprietà straniere. La rivendicazione del loro esproprio
e di una radicale redistribuzione della terra avrebbe un effetto importante di
richiamo su settori di massa contadini, spesso ancora legati al regime per via
della mediazione tribale.

Si potrebbe continuare. Ma il cuore del problema è uno solo: una


radicalizzazione sociale dell'insurrezione militare potrebbe incidere
straordinariamente sui rapporti di forza complessivi e dunque sull'esito della
guerra civile. La lotta per una prospettiva di governo dei lavoratori e delle
masse povere delle città e delle campagne in Libia non è solo il coronamento
naturale di un programma democratico e sociale conseguente che solamente
un governo popolare può realizzare; ma è anche una bandiera incorporata allo
stesso sviluppo della rivoluzione libica.

PER UNA DIREZIONE ALTERNATIVA DELLA RIVOLUZIONE LIBICA.


PER LA COSTRUZIONE DEL PARTITO RIVOLUZIONARIO

Il risvolto naturale di questa impostazione è una linea di assoluta indipendenza


della rivoluzione libica dall'imperialismo e dalle sue interessate ingerenze.

L'operazione delle potenze imperialiste- in feroce sgomitamento tra loro- è


subordinare progressivamente la rivoluzione libica ai propri interessi. A partire
da un disegno di progressiva assimilazione e integrazione della leaderschip
della rivolta. L'intervento militare è cinicamente utilizzato come fattore di
condizionamento politico. La rete crescente di contatti, incontri, relazioni, tra le
(diverse) diplomazie imperialiste e singole personalità del Consiglio di Bengasi-
con naturale precedenza ai vecchi transfughi dall'apparato di regime e agli alti
quadri militari passati con la rivoluzione- ha una finalità politica scoperta: non
solo uno scopo di conoscenza e verifica, ma uno scopo di coinvolgimento del
gruppo di comando dell'insurrezione nella soluzione politica filoimperialista
della crisi libica. Sia che essa passi per una mediazione col vecchio regime (
come vorrebbe ad oggi l'Italia) sia che essa passi per la ricostruzione
dell'apparato statale e la ridefinizione delle sue relazioni economiche e politiche
internazionali ( come vorrebbe la Francia). In ogni caso è decisivo amputare la
rivoluzione di ogni autonomia politica, e tanto più di ogni velleità
antimperialista.

Una parte importante della leaderschip di Bengasi è più che sensibile a questo
richiamo. Ed è naturale. Una sollevazione insurrezionale non si sceglie la
propria direzione. Ex ministri di Gheddafi e vecchi comandanti del suo esercito
non hanno mutato il proprio profilo per il solo fatto di aver cambiato la
collocazione di campo. Il tentativo di mostrarsi a questa o quell'altra potenza
imperialista come possibile carta di ricambio su cui investire attenzioni e favori,
è già operante: in particolare in direzione della Francia. E quanto più si
prolunga e struttura l'intervento militare imperialista in Libia tanto più questa
operazione può approfondirsi e consolidarsi. A tutto danno della rivoluzione
libica, e ,di riflesso, della rivoluzione araba.
Per questo, la costruzione di un'alternativa di direzione della rivoluzione libica è
e sarà posta sempre più dalla dinamica degli avvenimenti.
E può essere selezionata solamente da una politica coerentemente
rivoluzionaria. Che sappia utilizzare, nel suo proprio interesse, le contraddizioni
tra imperialisti e Gheddafi; ma che rifiuti e contrasti ogni subordinazione della
rivoluzione agli imperialisti; combatta ogni illusione verso l'imperialismo
all'interno delle masse; si opponga alle tendenze filoimperialiste interne
all'attuale direzione; coniughi l'impegno militare in prima linea con
l'avanzamento di un programma di mobilitazione rivoluzionaria e di
autorganizzazione democratica delle masse; inquadri lo sviluppo della
rivoluzione libica dentro il processo più generale della rivoluzione araba. Solo
un partito rivoluzionario può assolvere alla complessità di questi compiti.

LA RIVOLUZIONE ARABA COME SCUOLA DI FORMAZIONE

L'esigenza di costruire un partito rivoluzionario, già sollevata dalla rivoluzione


tunisina ed egiziana, si conferma dunque nel modo più clamoroso nel contesto
della rivoluzione libica. Più in generale, l'intero corso dell'ascesa rivoluzionaria
nella nazione araba, l'estendersi del suo contagio in Yemen, le sue prime
manifestazioni in Siria, pongono ovunque la questione della costruzione di
partiti rivoluzionari e dell'internazionale rivoluzionaria, non come tema
accademico ma come necessità politica obiettiva. Lo scarto enorme tra la
dinamica accelerata dei processi rivoluzionari nel mondo arabo e il ritardo
storico nella costruzione di partiti marxisti rivoluzionari in quelle terre, dopo i
disastri compiuti dallo stalinismo, deve motivare un impegno straordinario di
lavoro in quella direzione.

Di certo la rivoluzione araba, nelle sue varie espressioni e articolazioni, si


configura sempre più come un terreno formidabile di formazione politica per i
giovani rivoluzionari di tutto il mondo, e per la battaglia politica e
programmatica del marxismo rivoluzionario. Anche nei paesi imperialisti, anche
in Italia. Di certo il Partito Comunista dei Lavoratori, come partito militante,
incorporerà l'esperienza della rivoluzione araba dentro il processo della propria
costruzione.

MARCO FERRANDO

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