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1.

I PROBLEMI DELLA MACROECONOMIA

1.1. MICROECONOMIA E MACROECONOMIA

Come suggeriscono i termini stessi, la microeconomia si occupa del singolo soggetto,


consumatore o imprenditore, considerato isolatamente, mentre la macroeconomia si occupa del
funzionamento del sistema economico nel suo complesso. Oggetti di studio della macroeconomia
sono, ad esempio, la determinazione del reddito nazionale, l‘occupazione, la moneta, l'inflazione,
la bilancia dei pagamenti. Di conseguenza la macroeconomia prende in considerazione grandezze
economiche aggregate.

Tuttavia, questa distinzione richiede alcune precisazioni. Così definita, la macroeconomia non
sarebbe distinta dalla microeconomia; anzi risulterebbe addirittura già contenuta in essa. Per
rendercene conto, consideriamo il modello dell'equilibrio economico generale di WaIras. Come è
noto, questo modello è basato sull'analisi del comportamento del singolo operatore. Tuttavia,
proprio perché comprende la totalità dei soggetti e dei mercati, esso definisce un equilibrio
macroeconomico; per renderlo esplicito è sufficiente effettuare un'operazione di aggregazione:
aggregazione di soggetti, e cioè sommatoria di tutte le domande e le offerte dei singoli per
ottenere una domanda e un'offerta globale di ogni prodotto; aggregazione di mercati, e cioè
sommatoria di tutte le domande e offerte di beni simili, per ottenere una domanda e un'offerta
globale, ad esempio, di beni di consumo, di beni di investimento, ecc..

In questa prospettiva, la macroeconomia si presenta come una mera semplificazione della


microeconomia. Infatti, l'analisi della miriade di soggetti, tipica dell'equilibrio economico generale,
viene sostituita con quella di pochi soggetti tipici: il consumatore, l'imprenditore, il settore pubblico,
il settore estero. Analogamente, l'analisi della miriade di mercati viene sostituita con quella di pochi
grandi mercati: mercato dei beni di consumo, dei beni di investimento, del lavoro, della moneta, dei
titoli. Le condizioni di equilibrio risultano altrettanto semplificate: nel modello più semplice, che
comprende soltanto due mercati (il mercato dei beni di consumo e quello dei beni di investimento),
la condizione di equilibrio, in virtù della Legge di Walras, sarà addirittura una sola, l'eguaglianza fra
risparmi e investimenti; se aggiungiamo il mercato della moneta e i mercati diventano tre, le
condizioni di equilibrio saranno due e così via.

Se ci si limita a presentare la macroeconomia come una versione semplificata della


microeconomia, la conseguenza inevitabile è che la macroeconomia scompare per lasciare il posto
alla microeconomia come fondamento dell‘analisi economica. Va detto subito che è proprio questo
l‘approccio alla macroeconomia oggi dominante. La maggioranza degli studiosi accetta infatti
l'impostazione neoclassica che, in omaggio all‘individualismo metodologico, pone alla base della
teoria economica l'analisi del comportamento individuale.

Peraltro, è necessario dire con altrettanta chiarezza che questo non è l'unico modo di concepire
l'analisi macroeconomica. Ciò vale sia per il passato che per il presente.

L‘impostazione alternativa (e originaria) della macroeconomia si trova presso gli economisti


classici (Adam Smith, David Ricardo, Thomas R. Malthus), nel pensiero di Marx, e in una serie di
autori successivi, da Knut Wicksell, a Joseph Schumpeter, a John Maynard Keynes. Tutti costoro
hanno in comune l'idea che la macroeconomia debba studiare non già il comportamento del
singolo individuo, ma quello dei gruppi che compongono la società e ne determinano la struttura.
Per comprendere il funzionamento del sistema economico, dobbiamo chiederci quali sono le
condizioni necessarie affinché la sua struttura si perpetui nel tempo, senza degenerare ed
estinguersi. Una volta accertate queste condizioni di riproduzione, possiamo dedurne il com-
portamento che devono tenere i singoli (lavoratori, consumatori, imprese), affinché la struttura
considerata continui ad esistere.
Gli economisti classici , ad esempio, partivano dall'assunto che la società fosse composta da tre
grandi gruppi: i proprietari fondiari, gli imprenditori, i salariati. Affinché questa struttura possa
riprodursi, devono essere soddisfatte alcune condizioni: la popolazione deve obbedire a regole
precise (crescere o ridursi a seconda del livello del salario reale) in modo tale che il salario resti
sempre ancorato al livello di sussistenza; gli imprenditori devono essere animati da spirito di
accumulazione e reinvestire tutti i profitti guadagnati; la classe proprietaria che percepisce le
rendite delle terre deve spenderle interamente in consumi di lusso in modo da assicurare una
domanda globale di livello adeguato. Ogni gruppo è quindi caratterizzato da un comportamento
tipico, che non scaturisce da scelte individuali ma dalle condizioni di riproduzione del sistema suo
complesso. Nella macroeconomia moderna, i gruppi sociali tipici presi in considerazione sono
diversi e precisamente: banche, imprese, salariati. Gli autori che seguono questa impostazione
partono anch'essi da una definizione dei gruppi sociali e da questa deducono il comportamento dei
singoli individui. Come scrisse Schumpeter, dando voce all‘olismo metodologico: «I fatti economici
e sociali si svolgono per impulso proprio e le situazioni che ne derivano costringono individui e
gruppi a comportarsi in un certo modo, quali che siano i loro desideri». In questa impostazione,
contrariamente a quella neoclassica, è la teoria microeconomica a dipendere da quella
macroeconomica.

Per semplicità, d'ora in poi indicheremo come teoria individualista quella che assume come punto
di partenza il comportamento individuale, e come teoria sociale quella che assume come punto di
partenza il comportamento dei gruppi sociali.

1.2. LE DUE GRANDI SCUOLE DEL PENSIERO ECONOMICO

Esaminiamo ora in dettaglio le caratteristiche della teoria individualista e della teoria sociale.

I caposaldi della teoria individualistica possono essere riassunti come segue:

1) Rifiuto del concetto di classe. La teoria individualista, come si è detto, ricostruisce il


funzionamento dell‘economia come risultato di una miriade di decisioni individuali, decisioni
che ogni soggetto prende in modo indipendente e seguendo le proprie autonome finalità.
Essa rifiuta il concetto di classe e ritiene che la società sia composta da individui i quali, pur
svolgendo funzioni economiche diverse (esistono, imprenditori, lavoratori, consumatori,
risparmiatori, e via dicendo), hanno tutti accesso al mercato su un piano di parità;

2) Comportamento razionale. La teoria individualista suppone che ogni soggetto si comporti in


modo razionale e cioè cercando di massimizzare il proprio benessere nel rispetto del
proprio vincolo di spesa (il consumatore ricerca la massima utilità, l'imprenditore il massimo
profitto, e così via). Il contenuto specifico delle scelte individuali può variare a seconda
delle preferenze individuali, ma il principio generale della razionalità resta valido;

3) Validità generale delle teoria economica. Poiché la teoria economica è basata sull‘assunto
del comportamento razionale di tutti i soggetti, i risultati che essa raggiunge possiedono
validità generale, e possono applicarsi alle situazioni storiche, ambientali e istituzionali più
svariate (in altri termini non esistono teorie economiche diverse per l'economia feudale o
per l'economia di mercato, ma una sola ed unica teoria);

4) Il processo economico come processo lineare: Poiché le regole del mercato sono uguali
per tutti e i soggetti contrattano nel mercato in condizioni di parità, l‘attività economica non
è una lotta fra uomini o fra classi sociali contrapposte, bensì una lotta fra uomo e natura. In
questa lotta incessante, l'uomo cerca di soddisfare al meglio le proprie esigenze, e la
natura inesorabile oppone la scarsità delle risorse disponibili. L‘attività economica è
descritta come un processo lineare, che parte dalle risorse naturali, le converte in beni
intermedi, poi in beni finali (o beni di consumo), i quali vengono infine distrutti per
soddisfare i bisogni del consumatore;

5) Stabilità ed equità. Il sistema economico, essendo costituito da un insieme di soggetti che


hanno accesso al mercato su un piano di parità, possiede (purché il mercato funzioni in
regime di libera concorrenza) requisiti di stabilità e di equità. In altri termini, i mercati sono
perfettamente in grado di funzionare da soli, senza alcun intervento regolatore esterno.
Dalle contrattazioni di mercato ogni partecipante trae una remunerazione che, essendo
corrispondente al suo contributo produttivo, è anche equa (il lavoratore è pagato secondo
la sua produttività marginale, e via dicendo). E‘ quindi da escludere che il mercato dia luogo
a fenomeni di sfruttamento da parte di alcuni soggetti a danno di altri. Al contrario, una
economia di mercato è una economia aperta, nella quale tutti hanno le medesime
possibilità di lavorare e di guadagnare e ognuno raggiunge la posizione che merita;

6) Sovranità del consumatore. La teoria individualista si sforza di mostrare che il mercato,


purché di concorrenza perfetta, è in grado di effettuare una utilizzazione ottima delle
risorse, nel senso che le contrattazioni di mercato conducono ad utilizzare le risorse scarse
disponibili in modo da realizzare la massima soddisfazione per i consumatori. Nel mercato
di concorrenza perfetta vige la sovranità del consumatore perché sono le sue scelte a
determinare le decisioni degli imprenditori riguardo ai tipi e alle quantità dei beni da
produrre.

7) Neutralità della moneta. Gli scambi che avvengono in un mercato di concorrenza perfetta
conducono ad un insieme di prezzi relativi che realizza l'equilibrio soggettivo di ogni sog-
getto (e cioè la massimizzazione dell'utilità o del profitto individuale) e al tempo stesso
l'equilibrio oggettivo del mercato (e cioè l'eguaglianza fra domanda e offerta). La
circolazione monetaria, mentre ha la funzione di rendere più agevoli gli scambi e di evitare
gli inconvenienti del baratto, non modifica le quantità prodotte o i prezzi relativi. Se la
moneta modifica l'equilibrio del mercato, ciò significa che il sistema monetario viene gestito
in modo scorretto dalle autorità monetarie. L‘insieme dei prezzi relativi può quindi essere
analizzato anche supponendo che l'economia funzioni senza moneta, mentre la quantità di
moneta esistente determina soltanto il livello dei prezzi monetari.

Teorie economiche basate sul principio dell'individualismo metodologico sono state elaborate
lungo tutta la storia del pensiero economico. Si possono ricordare i nomi di F. Galiani (17281787)
in Italia, di J.B. Say (1767-1832) e di A. Cournot (18011877) in Francia, di A. Smith (1723-1790) e,
per taluni aspetti, di D. Ricardo (1772-1823) e di W.N. Senior (1790-1864) in Gran Bretagna.
Questa tendenza interpretativa raggiunse il suo apogeo nel cinquantennio che va dal 1870 al
1918. In quell'epoca la scuola individualista, oggi più nota col nome di scuola neoclassica, divenne
la scuola dominante in tutto il mondo: C. Menger ed E. Boehm-Bawerk in Austria, G. Cassel e K.
Wicksell, in Svezia, A. Marshall, W.S. Jevons, e A.C. Pigou in Gran Bretagna, M. Pantaleoni, V.
Pareto, e L. Einaudi in Italia, J.B. Clark e I. Fisher negli Stati Uniti ne furono i rappresentanti più
eminenti.

Al giomo d'oggi, l'analisi individualista ha ripreso nuovo vigore con le scuole dei nuovi classici e in
parte con la scuola dei neokeynesiani (questi ultimi si dichiarano seguaci del pensiero di J.M.
Keynes, ma insistono nel costruire la teoria macroeconomica partendo da fondamenti
rigorosamente microeconomici).

A questi principi, la teoria sociale (detta da alcuni anche ―economia politica‖) contrappone principi
opposti. Li indichiamo brevemente:

1) Visione di classe della società. Secondo la teoria sociale, la società è formata da gruppi
distinti e contrapposti, ciascuno dei quali occupa una posizione diversa e svolge ruoli
distinti. Nella visione degli economisti classici, come si è già ricordato, i proprietari terrieri si
contrappongono agli imprenditori-capitalisti, i quali possiedono le risorse e sono in grado di
gestire un'attività produttiva, nonché ai lavoratori, i quali altro non possono fare che
vendere il proprio lavoro in cambio di un salario. Nella macroeconomia moderna, la classe
dei proprietari terrieri scompare e i gruppi di operatori presi in considerazione sono banche,
imprese e lavoratori. In questa teoria, l'analisi del comportamento dei gruppi sociali prende
il posto dell'analisi individuale: soltanto dopo aver stabilito i confini tra le classi e gli obiettivi
e le regole di azione di ciascuna classe è possibile ricostruire il funzionamento dell'intero
processo economico;

2) Il comportamento è determinato dall'appartenenza di classe. In questa visione, il


comportamento di ciascuna classe è tale da realizzare la riproduzione del sistema. Gli
imprenditori, che hanno la disponibilità delle risorse produttive, non sono mossi dalla finalità
di soddisfare le proprie esigenze personali, bensì dalla finalità di accumulare ricchezza in
misura illimitata. Il lavoratore, invece, pensa ad assicurare la propria sopravvivenza
vendendo il proprio lavoro. Non esiste un comportamento comune a tutti i soggetti: al
contrario le scelte di ogni soggetto sono condizionate dalla sua appartenenza di classe;

3) Limiti storici della teoria economica: La storia dell'umanità ha conosciuto diverse strutture
economiche, dall'economia schiavistica all'economia feudale, all‘economia di mercato,
all'economia socialista. Ognuna di queste forme storiche esige una teoria economica
diversa: non esiste quindi una teoria che sia in grado di spiegare il funzionamento di tutti i
sistemi economici e che possieda validità universale;

4) L'economia come processo circolare. Gli imprenditori, come si è detto, sono mossi
dall‘intento di accrescere la propria ricchezza. Poiché essi gestiscono le attività produttive,
questa diventa anche la finalità dell'intero processo economico. L‘imprenditore acquista la-
voro allo scopo di ottenere un prodotto, venderlo e realizzare un profitto. Lo scopo della
produzione è la realizzazione del profitto, non già il benessere dei consumatori. Il consumo
ha la sola funzione di tenere in vita il lavoratore, che per il capitalista è una risorsa
produttiva come le altre. L‘attività economica si configura come un processo circolare: dalla
produzione di merci, al consumo (che serve alla riproduzione dei lavoratori), al
conseguimento di profitti, all'acquisto di nuove risorse, produzione di nuove merci, e così
via in un ciclo continuo;

5) Instabilità e precarietà. La conflittualità tra le classi, l‘incertezza del futuro e la concorrenza


fra le imprese determina fluttuazioni ricorrenti dell'attività economica (ondate di prosperità
seguite da fasi di depressione, fallimenti e disoccupazione). Secondo la teoria marxiana, il
sistema di mercato è destinato a scomparire per fare luogo ad altre forme storiche di
organizzazione dell'economia;

6) Mancanza di un criterio di efficienza. Poiché la società è caratterizzata dal conflitto


distributivo tra i diversi gruppi di operatori, non è possibile individuare un interesse generale
della collettività. Di conseguenza, non è possibile stabilire un criterio di efficienza di
carattere generale;

7) Ruolo essenziale della moneta. La teoria sociale parte dalla constatazione che l'economia
moderna è un'economia monetaria. Ciò comporta che tutti gli scambi vengono regolati in
moneta e pone immediatamente il problema di stabilire come la moneta venga creata e
introdotta nel sistema economico. Nelle economie moderne la moneta viene creata dal
sistema bancario e messa a disposizione degli operatori attraverso la concessione di
crediti. Poiché soltanto chi dispone di moneta può accedere al mercato, le decisioni con cui
le banche concedono credito ad alcuni soggetti e non ad altri e la misura in cui il credito
viene concesso diventano decisive per la configurazione finale del sistema economico. La
creazione di moneta contribuisce quindi a determinare le quantità prodotte e la
distribuzione del reddito nazionale, per cui la moneta non è mai neutrale.

Teorie economiche basate sul conflitto tra i gruppi sociali risalgono assai indietro nel tempo. Si può
ricordare il pensiero di T. Hobbes (1588-1679), di B. Mandeville (1670-1733), la teoria economica
di J.C. Sismondi (1773-1842), di T.R. Malthus (1766-1834) e, in particolare, di K. Marx
(1818-1883). In corrispondenza con il successo della teoria individualista dopo il 1870, la teoria
sociale perde progressivamente vigore e resta patrimonio quasi esclusivo dei continuatori del
pensiero di Marx, fra i quali vanno ricordati K. Kautsky, Rosa Luxemburg, M. Tugan Baranovsky,
R. Hilferding. Nel corso del ‗900 tuttavia, accanto alla scuola dominante, emerge un gruppo di
studiosi estranei al marxismo, i quali respingono l‘approccio individualistico della scuola
neoclassica e riscoprono l‘importanza dei concetti di gruppo sociale e di conflitto per l‘analisi
economica. I nomi più eminenti di questo gruppo sono quelli di K. Wicksell, di J.A. Schumpeter, di
M. Kalecki e, soprattutto, quello di J.M. Keynes.
1.3. LA MACROECONOMIA DELLA SCUOLA NEOCLASSICA

L‘idea che la teoria economica vada costruita a partire dall'analisi microeconomica, e cioè dal
comportamento del singolo individuo è stata sempre presente nella storia del pensiero economico;
tuttavia questa visione ha avuto il suo più fecondo sviluppo fra il 1870 e il 1914. La scuola di
pensiero che risultò allora dominante nella ricerca e nell'insegnamento venne detta scuola
neoclassica in contrapposizione all'insegnamento degli economisti classici (Smith, Ricardo,
Malthus, Sismondi) che muoveva da presupposti diversi. La scuola neoclassica prende in esame
un sistema economico specifico e, precisamente, il caso dell'economia di mercato, e cioè di un
sistema economico nel quale ogni individuo è libero di produrre, vendere, scambiare, e ogni attività
economica è sospinta dall'iniziativa del singolo e dal suo interesse personale. Gli economisti
neoclassici sanno bene che nelle economie moderne vigono numerose restrizioni di legge allo
svolgersi delle attività economiche (per ragioni militari, di sicurezza, sanitarie, ecc.) e che il
Governo si riserva sempre una sfera di intervento propria (per assicurare l'istruzione, la difesa, la
giustizia, l'assistenza sanitaria, la produzione di beni strategici). Ma essi ritengono che lo schema
di base per la comprensione del sistema economico debba essere quello dell'economia di mercato
pura, e che tutto il resto possa essere aggiunto come integrazione successiva. Si tratta ovviamente
di una scelta teorica, dal momento che gli economisti neoclassici sanno bene che le forme di orga-
nizzazione economica possono essere molteplici.

È comune contrapporre l‘economia di mercato, basata sulla libera iniziativa individuale,


all'economia pianificata, nella quale gli organi centrali dello Stato provvedono a stabilire le quantità
da produrre, gli investimenti da eseguire, la distribuzione dei lavoratori fra i diversi impieghi,
conducendo l'intera economia del paese come si trattasse di dirigere una singola azienda. Come
abbiamo detto, le forme di organizzazione economica concepibili sono numerose. Keynes riteneva
fondamentale distinguere tra un'economia cooperativa e un'economia basata sull'impresa. Nella
prima, lo scopo è di conseguire la massima utilità; nella seconda, di ottenere il massimo profitto
monetario. Nell'economia delle imprese, tutti i pagamenti avvengono in moneta e può risultare
utile, in alcune situazioni, trattenere presso di sè somme di moneta liquida in attesa del momento
favorevole per effettuare un acquisto. Nell'economia delle imprese, quindi, non soltanto i beni reali
ma anche le scorte liquide presentano utilità per il soggetto.

Torniamo alla teoria neoclassica e all'economia di mercato pura. Qui ogni individuo entra
liberamente nel mercato e può scegliere l'attività che preferisce: se è disposto ad assumersi rischi,
agirà come imprenditore, acquistando risorse produttive e vendendo prodotti finiti; se preferisce la
sicurezza, si occuperà come lavoratore dipendente, cedendo il suo lavoro in cambio di un salario
che verrà poi speso per acquistare beni finiti. L'intera economia di mercato assume quindi l'aspetto
di un immenso scambio, nel quale vengono liberamente ceduti e acquistati beni di consumo,
materie prime, servizi lavorativi, beni intermedi e ogni altro possibile bene. L'immagine dell'intera
economia che funziona come una rete di scambi ha suggerito a molti l'idea che la teoria
economica neoclassica prenda in esame soltanto il momento dello scambio, trascurando l'attività
di produzione. Ciò è ovviamente erroneo. Come è noto, la forma teorica più completa della teoria
neoclassica, la teoria dell'equilibrio economico generale di Walras, considera ogni aspetto del
meccanismo economico, dalla produzione, al consumo, all'accumulazione di capitale, il tutto rea-
lizzato dal mercato attraverso fenomeni di scambio. Analoga considerazione si potrebbe fare per la
formulazione di Marshall, che alla produzione dedicò larghissima attenzione, come di ogni altro
teorico della scuola neoclassica. Questo processo di scambio viene sovente rappresentato
attraverso lo schema del circuito che, introdotto per la prima volta dall'economista americano
Frank Knight,1 è stato successivamente ripreso da innumerevoli trattatisti. Il circuito di Knight è il
seguente:

Fig. 3.1

Questa rappresentazione del circuito solleva subito due obiezioni.

La prima è che, pur trattandosi di un'economia monetaria, si immagina che i soggetti spendano
subito per intero gli introiti ricevuti, senza mai trattenere una scorta liquida presso di sè. La
moneta che circola nel circuito esterno della fig. 2.1. funge unicamente da intermediario degli
scambi. La sostanza del processo economico si riduce al baratto rappresentato dal circuito
interno: i lavoratori cedono servizi lavorativi e gli imprenditori danno in cambio merci.
Effettivamente la teoria neoclassica non dà molto peso al fatto che i soggett i possano desiderare
di tenere presso di sè scorte liquide, al di là della provvista tecnicamente necessaria per coprire
l'intervallo che corre fra le entrate e le uscite. Se quindi la teoria neoclassica non considera
particolarmente rilevante la domanda di moneta come scorta liquida, questo discende dalla sua
impostazione.

Un secondo quesito è il seguente: come è possibile mettere in moto il circuito monetario?


come avviene la prima immissione di moneta che dà luogo ai primi pagamenti e avvia la
circolazione dei beni?

Gli economisti della scuola neoclassica hanno avuto ben presente questo problema ed hanno
tentato di risolverlo. In sintesi, possiamo ricordare due tentativi di soluzione, non lontani nella
sostanza, anche se diversi nella forma:

1) l’attività economica come processo sincronizzato. L'idea della sincronizzazione dei processi
produttivi fu sviluppata soprattutto da J. B. Clark, e può essere esposta come segue. Nella
produzione industriale, a differenza di quanto accade in agricoltura, un processo produttivo può
essere avviato in qualsiasi istante, senza alcun vincolo particolare di tempi e di stagioni. Infatti,

1
F. H. Knight, The Economic Organization, New York, 1933, p. 61. Il circuito di Knight è entrato a far parte di tutte le
esposizioni introduttive della teoria economica: cfr., per esempio, P. A. Samuelson, Economia, Utet, Torino, cap. 10.
se consideriamo, ad esempio, la produzione di autoveicoli, noteremo che in ogni istante, all'inizio
della catena produttiva, viene avviata la produzione di una nuova autovettura, e nello stesso
istante, al termine della catena, esce un'autovettura finita. Il processo produttivo appare quindi
come istantaneo, e il fatto che esso richieda un determinato periodo di tempo, risulta del tutto
irrilevante. Ciò è dovuto al fatto che, nell‘industria moderna, anche se la produzione richiede
tempo, è sempre possibile avviare una lavorazione nuova senza attendere che la precedente sia
ultimata. Se la produzione è sincronizzata ogni problema scompare. In ogni istante, gli
imprenditori ricevono i proventi della produzione finita, e con questi possono coprire i costi
correnti di produzione. Tuttavia, come fece notare Schumpeter, questa rappresentazione del
processo economico come circuito sincronizzato risulta accettabile soltanto se riferita ad
un'economia stazionaria. Se in ogni ciclo produttivo viene prodotta sempre la medesima quantità
di merce, è corretto dire che i proventi delle vendite realizzate in ogni istante coprono
esattamente i costi necessari per avviare le nuove produzioni di quel medesimo istante. Tuttavia,
anche in questo caso semplificato, la spiegazione non risulta pienamente soddisfacente. Se si
tratta di un processo rigorosamente stazionario, il meccanismo della sincronizzazione spiega
come esso possa svolgersi una volta messo in moto, ma non spiega come esso abbia potuto
avviarsi per la prima volta. Per le stesse ragioni, non si spiega come possa funzionare un
sistema non stazionario, nel quale la quantità prodotta cresce nel tempo; infatti, accrescere il
volume della produzione è del tutto equivalente ad avviare un circuito produttivo nuovo accanto a
quello vecchio. Come potrebbero gli imprenditori pagare un numero addizionale di lavoratori, se
non hanno ancora venduto una quantità maggiore di merci? E come potrebbero aver venduto
una quantità maggiore di merci se non hanno ancora assunto i lavoratori che dovranno produrla?
L'idea della sincronizzazione non consente in realtà di risolvere il problema:

2) l’attività economica come insieme di scambi simultanei. L'ipotesi della simultaneità fa invece
parte della teoria dell'equilibrio economico generale, e, almeno a prima vista sembra esente da
difetti. L. Walras, V. Pareto, G. Cassel e tutti gli altri studiosi che elaborano la teoria
dell'equilibrio generale, rappresentano il processo economico come un insieme di scambi
simultanei. Infatti, se noi immaginiamo che tutti i mercati funzionino simultaneamente, come una
grande fiera, nella quale vengono scambiati beni e servizi di ogni sorta, qualsiasi problema
scompare. Se gli imprenditori intendono avviare un nuovo processo produttivo, essi contrattano
simultaneamente l'ammontare di lavoro da utilizzare, i salari da pagare, la quantità di merci da
vendere e il loro prezzo: dopo di che, esaurite le contrattazioni, tutto si svolge simultaneamente,
per cui nello stesso istante, gli imprenditori da un lato pagano i salari, e dall'altro incassano il
valore delle merci vendute.

Sotto il profilo analitico, l'idea del processo economico come insieme di scambi simultanei risolve
ogni difficoltà. Ma è chiaro che si tratta di un'idea che non ha alcun riscontro con la realtà che
osserviamo. Ciò anzitutto per il fatto che il processo di produzione richiede tempi tecnici che non
possono essere ignorati. Con la fantasia, possiamo immaginare che tutti gli scambi siano
simultanei: ma nella realtà sarà sempre necessario prima seminare i campi e, a distanza di
tempo, si potrà raccogliere il grano e venderlo al mercato. Se si vuole tenere conto di questa
difficoltà di natura tecnica e salvare al tempo stesso l'idea degli scambi simultanei, occorre de-
scrivere il processo economico nel modo seguente: all'apertura dei mercati, avvengono tutte le
contrattazioni, e si fissano le quantità di lavoro da eseguire, il livello dei salari, le quantità di
merci da produrre e da scambiare, ed i loro prezzi. Esaurite le contrattazioni, viene avviato il
processo produttivo, che occuperà il tempo richiesto dalla tecnologia. Una volta esaurita la pro-
duzione delle merci, allora e soltanto allora avvengono gli scambi, i quali possono essere
davvero scambi simultanei, dal momento che adesso tutte le merci sono materialmente
disponibili, e sono state prodotte esattamente nelle quantità che le contrattazioni inizial i hanno
stabilito. Il processo economico verrebbe quindi ad essere descritto come un processo costituito
dalle tre fasi seguenti: contrattazione, produzione, scambi. Con questa precisazione, tutte le
difficoltà che sorgono in relazione al circuito di Knight sembrano superate.2

2
Infatti, Walras, avendo visto con lucidità queste difficoltà, descrive il processo economico esattamente come si è
accennato nel testo: al termine delle contrattazioni, compratori e venditori si scambiano dei «buoni» che indicano le
quantità di merci domandate e offerte; in base ai «buoni» i produttori avviano il processo produttivo, e successivamente
Soffermiamoci un istante a considerare il risultato che abbiamo raggiunto. Se davvero il
processo economico funziona in questo modo, se cioè gli scambi hanno luogo soltanto dopo che
le contrattazioni sono esaurite e dopo che la produzione dei beni è stata svolta rispettando gli
accordi raggiunti nelle contrattazioni, ciò significa che anche i salari vengono corrisposti soltanto
al termine del processo produttivo. Qui tocchiamo un punto delicato.

È indubbio che nello schema dell'economia neoclassica (pensiamo al modello dell'equilibrio


economico generale), ogni risorsa viene retribuita secondo il suo prodotto marginale; e, per
conoscere la misura del prodotto marginale, occorre conoscere quella del prodotto totale e
quindi attendere la conclusione del processo produttivo. Il che significa che occorre dapprima
ultimare la produzione e successivamente distribuire il prodotto fra i partecipanti. Alfred Marshall,
infatti, nei suoi famosi Principi di economia, la cui ultima edizione è del 1920, affermava che
«lavoro e capitale collaborano al processo di produzione e se ne spartiscono i risultati» 3. Questa
affermazione appare plausibile per un'economia primitiva nella quale il salario è pagato in natura
(il proprietario di un'imbarcazione che, al termine della pesca, ripartisce il pesce fra i
partecipanti), oppure per un'economia familiare, nella quale il padre ripartisce tra i membri della
famiglia che hanno collaborato con lui il prodotto disponibile, ma certamente non risulta
accettabile per una moderna economia monetaria. Nelle economie di oggi, come sappiamo, il
salario monetario viene versato periodicamente (a settimana, al mese), indipendentemente dalla
durata del processo produttivo e spesso prima che il prodotto sia venduto. L'imprenditore deve
quindi, quasi sempre, anticipare i salari monetari e per farlo deve ricorrere al credito bancario.

1.4. LA LEGGE DI SAY

Soffermiamoci un istante sulle caratteristiche dalla teoria neoclassica. L‘ economia che essa
descrive assomiglia più ad una economia cooperativa, o ad un'economia di produttori indipendenti,
che non ad un'economia di mercato moderna:

a) Economia di baratto. Se supponiamo, in base alla teoria neoclassica, che il processo


economico sia suddiviso nelle tre fasi della contrattazione, della produzione e degli scambi, e
supponiamo inoltre che gli scambi siano tutti concentrati nella fase finale e tutti rigorosamente
simultanei, l'intero processo assume la forma di un grande baratto multilaterale, baratto che
potrebbe svolgersi anche senza l'intervento della moneta. Pertanto, l'economia capitalistica
sembrerebbe potersi descrivere come economia non monetaria. Questa difficoltà è stata affrontata
da numerosi autori successivi, che hanno tentato di rimanere nel solco della teoria neoclassica
senza per questo negare i caratteri dominanti dell'economia moderna;

b) Perseguimento dell'utile personale. Nell'economia cooperativa i partecipanti attuano la


produzione e lo scambio al solo scopo di soddisfare i propri bisogni e di massimizzare la propria
utilità. È invece assente lo scopo di accumulare ricchezza, tipico della moderna economia
capitalistica;

c) La legge degli sbocchi. L'ipotesi che ogni soggetto persegua rigorosamente il proprio utile
personale produce conseguenze notevoli sul piano macroeconomico. Negli scambi di mercato,
ogni soggetto deve rispettare il vincolo del bilancio e non può quindi spendere al di là del proprio
reddito.

Ora, se ogni soggetto persegue l'obiettivo della massima soddisfazione, poiché i bisogni
individuali vengono soddisfatti mediante l'acquisto di merci, ogni soggetto utilizzerà per intero la

consegnano le merci pattuite: cfr. L. Walras, Eléments d'économie politique pure, Lezione XX, n. 207.
3
Marshall, Principi di economia, Libro VI, cap. II, n. 10.
propria capacità d'acquisto; il non farlo, sarebbe infatti un comportamento non razionale. Possiamo
quindi concludere che, in questa teoria, la spesa totale di tutti gli operatori, non potendo essere né
superiore né inferiore agli incassi totali, sarà esattamente uguale ad essi. Se, per un soggetto, la
spesa supera gli incassi, possiamo essere certi che per almeno un altro soggetto la spesa sarà
inferiore agli incassi nella stessa misura.

Questa conclusione produce a sua volta conseguenze facili a dedursi. Immaginiamo che in un
qualsiasi periodo gli imprenditori abbiano prodotto un determinato ammontare di beni. Come
abbiamo detto in precedenza, il valore di tali beni si converte necessariamente in redditi per coloro
che hanno partecipato alla produzione: infatti, come si è visto, il valore dei beni prodotti si tramuta
in salari o stipendi per i lavoratori, e, se vi è un residuo dopo corrisposti salari e stipendi, tale
residuo viene attribuito agli imprenditori come profitto. Il reddito generato dalla produzione è quindi
uguale al valore dei beni prodotti. Se ora, in virtù delle ipotesi che abbiamo esposte, si ritiene che il
reddito venga interamente speso, ne consegue che la domanda globale risulta necessariamente
identica all'offerta globale. Quale che sia il volume della produzione che gli imprenditori hanno
deciso di eseguire, la produzione verrà interamente venduta: infatti la produzione genera un
reddito di valore identico, il reddito a sua volta genera una spesa identica, per cui il valore globale
della domanda risulta identico al valore dell'offerta.

Il meccanismo che abbiamo descritto può essere sintetizzato nell'affermazione che l'offerta
crea la propria domanda. Questa proposizione, detta usualmente legge degli sbocchi, riassume
appunto la sequenza di eventi che abbiamo considerato: l'offerta di un determinato ammontare di
prodotti presuppone una produzione di valore identico, ma a sua volta la produzione genera un
reddito identico, e il reddito genera una spesa, e quindi una domanda, identica. Quale che sia il
volume dell'offerta, i beni prodotti saranno interamente venduti. L'equilibrio dell'economia assume
l'aspetto di un equilibrio indifferente: se gli imprenditori decidono dì accrescere la produzione, il
reddito nazionale si stabilizzerà ad un livello superiore; se decidono di ridurla, il livello del reddito
cadrà; ma in ogni caso, il volume della produzione sarà interamente venduto, non vi sarà né
eccesso di domanda né eccesso di offerta, e il mercato dei beni sarà sempre in equilibrio,
Naturalmente non si può escludere che si verifichino squilibri fra domanda e offerta su singoli
mercati. Ma siccome, come abbiamo mostrato, nella loro globalità domanda e offerta devono
essere uguali, se in un mercato si verifica un eccesso di domanda, almeno in un altro mercato
dovrà verificarsi un eccesso di offerta equivalente.

Questa situazione può essere esposta in un modo più formale. Supponiamo che il reddito si
suddivida in salari pagati ai lavoratori, W, e profitti attribuiti agli imprenditori, Π:

X=W+Π.

Supponiamo che i lavoratori utilizzino il proprio reddito per acquistare beni dì consumo, mentre
gli imprenditori utilizzano i propri proventi per acquistare beni strumentali. Supponiamo anche che i
soggetti economici spendano la frazione b del proprio reddito. La domanda globale D sarà uguale
alla somma delle due domande:

D= bW +b Π.

La condizione di equilibrio fra domanda e offerta sarà allora:

X = b W + b Π,
e, poiché il reddito è uguale alla somma di salari e profitti, si avrà:

X = b (W + Π) = b X .

Vi sono solo due possibili soluzioni di questa equazione. Una prima possibilità è che il reddito
sia nullo. Infatti, se si ha X = 0, l'equazione è soddisfatta; ma, sotto il profilo economico, questa
soluzione è evidentemente insoddisfacente, in quanto non ha senso una teoria secondo il quale il
sistema economico è in equilibrio solo quando non produce nulla.

Resta quindi la seconda possibilità, che è appunto quella seguita dagli economisti tradizionali,
ed è quella di ritenere che la propensione alla spesa sia uguale all'unità. Infatti, se si ha b = 1, la
condizione di equilibrio è ugualmente soddisfatta. Per questa ragione, secondo la teoria
tradizionale, si supponeva che la spesa dovesse essere sempre identica al reddito. Senonché,
come è facile constatare, se si adotta questa seconda soluzione, la condizione di equilibrio si
riduce ad una identità, X = X: la domanda è comunque identica all'offerta e il sistema economico è
sempre in equilibrio, quale che sia il volume della produzione. Questa conclusione può anche
essere illustrata mediante un semplice diagramma. Nella Fig. 2.2, misuriamo lungo l'asse
orizzontale l'offerta globale, che, come abbiamo detto, è uguale al reddito, e lungo l'asse verticale
la domanda globale, che, come si è detto, è funzione del reddito: D = b X. La rappresentazione
grafica di questa funzione da luogo ad una semiretta che passa per l'origine degli assi. I casi
possibili sono due: a) se b è diverso dall'unità, l'unico punto in cui domanda e offerta sono uguali è
nell'origine allorché il reddito è uguale a zero; b) se b è uguale all'unità, qualsiasi punto
rappresenta una posizione di equilibrio, in quanto la domanda risulta uguale all'offerta in qualsiasi
punto della semiretta (infatti se b = 1 la semiretta ha un'inclinazione di 45° e in tutti i suoi punti il
valore dell'ascissa è uguale al valore dell'ordinata).

bX
b>1
b=1

b<1

0
Fig. 2.2 X

Fino a questo momento, abbiamo adottato l'ipotesi che la propensione alla spesa sia uguale
per tutti i soggetti economici. E facile constatare tuttavia, da quanto si è detto, che affinché il
sistema economico sia in equilibrio ad un reddito diverso da zero, ciò che è necessario è che la
propensione alla spesa dell'intera collettività sia uguale all'unità.

Ma questa condizione è compatibile con il fatto le propensioni alla spesa delle singole
categorie siano diverse dall'unità. Infatti, la propensione alla spesa della collettività è uguale alla
media ponderata delle propensioni alla spesa dei singoli gruppi, prendendo come pesi la quota di
reddito nazionale che spetta ad ogni gruppo. Se il reddito, come abbiamo ipotizzato fino a questo
momento, si ripartisce fra lavoratori e imprenditori, indicando rispettivamente con b1 e con b2 la
quota di reddito spesa dai primi e dai secondi, la propensione media alla spesa sarà:

b = b1 W/X + b2 Π/X

Affinché la propensione b sia uguale all'unità, non è necessario che si abbia b1 = b2 = 1; infatti
i valori delle due propensioni possono compensarsi fra loro. E possibile, ad esempio, che se i
lavoratori hanno una propensione alla spesa inferiore all'unità, in quanto risparmiano una parte del
proprio reddito, il loro comportamento venga compensato dal fatto che gli imprenditori hanno una
propensione alla spesa superiore all'unità, in quanto, grazie a finanziamenti ottenuti dal sistema
creditizio, spendono più del proprio reddito corrente.

Gli economisti tradizionali avevano correttamente preso in considerazione anche questa


eventualità. Naturalmente affinché il sistema economico resti in equilibrio, occorre che !e propen-
sioni alla spesa dei diversi gruppi si compensino esattamente, in modo da dar luogo ad una
propensione media esattamente eguale all'unità. Affinché questo avvenga, è necessario che tutto
quello che non viene speso da un gruppo di redditieri venga esattamente speso dagli altri gruppi, il
che può avvenire solo se esiste nel sistema economico un meccanismo che assicuri che il ri-
sparmio degli uni venga trasformato in spesa di altri. Se questo meccanismo esiste (e gli
economisti di scuola tradizionale ritenevano che esistesse) tutto il reddito percepito viene anche
speso e la produzione realizzata viene sempre interamente venduta.

Possiamo quindi distinguere due versioni della teoria tradizionale degli sbocchi. La prima, più
rigida, ritiene che l'identità fra reddito percepito e spesa realizzata viga per ogni singolo individuo;
la seconda, più flessibile, ritiene che la stessa identità viga solo per la collettività presa nel suo
complesso, in quanto i risparmi eventuali di alcuni vengono sempre compensati dalla spesa dì altri.
Ambedue le versioni conducono tuttavia al medesimo risultato, e cioè che il livello del reddito
nazionale dipende esclusivamente dal volume dell'offerta, in quanto ogni offerta crea la propria
domanda (ossia una domanda di pari ammontare) e la produzione realizzata dagli imprenditori
viene sempre totalmente venduta.

La teoria secondo cui ogni offerta crea la propria domanda è nota come legge degli sbocchi.
Poiché essa fu ampiamente esposta e dibattuta dall'economista francese Jean-Baptiste Say, essa
è anche nota come legge di Say.

La legge degli sbocchi, nei casi in cui è valida, produce come ulteriore conseguenza il fatto
che il processo economico realizza la piena occupazione delle risorse produttive. Questa
circostanza può essere spiegata con grande facilità. Se vale la legge degli sbocchi, gli imprenditori
hanno la sicurezza di vendere qualsiasi ammontare di merce essi decidano di produrre. Poiché il
loro obiettivo è quello di conseguire il massimo profitto, e poiché, in regime di concorrenza perfetta,
per ottenere il massimo volume di profitti l'imprenditore deve vendere la quantità massima di
merce, gli imprenditori cercheranno anche di realizzare il volume di produzione più elevato
possibile. In questo tentativo, essi impiegheranno tutte le risorse disponibili. Possiamo quindi
concludere che la legge degli sbocchi, accoppiata alla massimizzazione del profitto e alla
concorrenza perfetta, conduce l'economia alla posizione di pieno impiego delle risorse. Tornando
per un istante al grafico precedente, possiamo dire che:

a) la legge degli sbocchi garantisce l'eguaglianza fra domanda e offerta globale e quindi
consente agli imprenditori dì muoversi lungo la linea di equilibrio caratterizzata da b = 1;

b) la regola del massimo profitto fa sì che gli imprenditori si spingano lungo questa linea fino al
punto in cui avranno impiegato per intero le risorse produttive disponibili.
La teoria neoclassica, pur accogliendo in pieno la legge degli sbocchi ed il risultato della piena
occupazione, ne ha data una versione in parte diversa. Infatti, come abbiamo già osservato più
volte, tale teoria, nella formulazione dell'equilibrio economico generale, descrive il processo
economico come funzionamento simultaneo di tutti i mercati dei beni e dei servizi. Ora, se gli
imprenditori non conseguono il massimo profitto, essi non ritengono avere realizzato il proprio
equilibrio soggettivo, e cercano di accrescere la quantità prodotta; di conseguenza anche gli altri
mercati non sono in equilibrio, perché ai prezzi correnti gli imprenditori vogliono acquistare quantità
maggiori di risorse, e fanno si che la domanda sia superiore all'offerta. Questo squilibrio scompare
soltanto allorché gli imprenditori hanno realizzato il massimo profitto, il che accade allorché tutte le
risorse disponibili sono pienamente impiegate. Si può quindi concludere che, quando tutti i mercati
sono simultaneamente in equilibrio l'economia si trova in una posizione di piena occupazione. La
piena occupazione compare così come una conseguenza dell'equilibrio generale di tutti i mercati.
È facile notare come, sebbene il modo di esporre il problema sia diverso, tuttavia il ragionamento,
nella sua sostanza, è analogo a quello più tradizionale della legge degli sbocchi.

Resta soltanto da aggiungere un chiarimento sul significato di piena occupazione. A questo


scopo, conviene partire dalla formulazione fornita dalla teoria dell'equilibrio generale. Questa
formulazione, come abbiamo appena detto, mostra che la piena occupazione è conseguenza
dell'equilibrio generale di tutti i mercati. Quando affermiamo che una risorsa produttiva è
pienamente impiegata, dobbiamo quindi intendere che il mercato nel quale quella risorsa è
scambiata ha raggiunto una posizione di equilibrio. Dire che il lavoro è pienamente occupato si-
gnifica quindi che sul mercato del lavoro si è raggiunta l'uguaglianza fra domanda e offerta. Ciò
non vuol dire che tutti i lavoratori esistenti abbiano un impiego, ma soltanto che hanno trovato
lavoro tutti coloro che al salario corrente offrono di lavorare. Tutti gli altri sono disoccupati volontari,
nel senso che, al salario corrente, hanno deciso di non offrire il proprio lavoro.

Nella fig. 2.3, le linee rappresentano rispettivamente la domanda e l'offerta di lavoro. Nella
posizione di equilibrio, il salario reale è OA, la quantità dì lavoro domandata e offerta è OB.
Poniamo che il numero dei lavoratori sia OC.

Wg

0
B C N
Fig. 2.3

In questa, che è la rappresentazione de! mercato del lavoro tipica della teoria neoclassica,
la frazione BC di lavoratori che rimane senza lavoro, verrebbe considerata come costituita
da disoccupati volontari; il che significa, che, nella posizione di equilibrio, una autentica
disoccupazione non potrebbe esistere. Questa versione del problema degli sbocchi e della
piena occupazione è comune ad una lunga serie di autori che vanno da J. B. Say, a D.
Ricardo, a J. Stuart Mill, a A. Marshall, ad A.C. Pigou. Esiste tuttavia un filone di pensiero
altrettanto nutrito che ha viceversa negato che l'economia capitalistica possa essere rap-
presentata, così come vuole il filone tradizionale, come un insieme di operatori
indifferenziati, le cui contrattazioni danno luogo a scambi simultanei, nel corso dei quali il
prodotto ottenuto in precedenza viene ripartito fra i partecipanti secondo regole concordate,
così come un gruppo di soci si ripartirebbe gli utili conseguiti in comune. In questo filone
critico, troviamo, per vari aspetti i nomi, già ricordati, di Malthus, di Sismondi, di Wicksell,
dì Schumpeter, di Keynes. Costoro ebbero una concezione diversa dell'economia
capitalistica, che ai loro occhi apparve non già come una realtà caratterizzata dalla presenza
di operatori eguali, ma come una società divisa in classi, nella quale: a) la funzione di
gestire il processo produttivo spetta a imprenditori e capitalisti; b) il prodotto non viene
ripartito fra tutti i partecipanti al termine del processo produttivo, ma i lavoratori ricevono il
salario sotto forma di anticipazioni prima che la produzione abbia inizio e c) di conseguenza,
la moneta svolge una funzione essenziale, in quanto essa consente ai capitalisti di
acquistare forza lavoro anche prima di avere realizzato e venduto il prodotto. In questa
economia, la classe dei capitalisti è mossa dall'obiettivo di conseguire la massima ricchezza,
per cui, come vedremo, non è detto che la legge degli sbocchi trovi applicazione, e sono
possibili al contrario crisi dovute ad insufficienza della domanda globale.

2. LA TEORIA NEOCLASSICA

2.1. LA RICCHEZZA SOCIALE SECONDO WALRAS

Un‘utile introduzione all‘approccio marginalista o neoclassico è costituito dalla teoria dell‘equilibrio


economico generale, elaborata da Léon Walras (1840-1910) e poi riformulata, perfezionata, e
anche sostanzialmente modificata da molti altri economisti fino ai nostri giorni. Secondo tale teoria,
nel sistema economico esiste una pluralità di soggetti che operano o come consumatori o come
offerenti di servizi produttivi o come imprenditori. Il processo economico nasce dall'incontro, sul
mercato, di questi vari soggetti: i servizi produttivi, acquistati dagli imprenditori, sono da questi
combinati in processi di produzione dai quali emergono beni; tali beni sono acquistati a loro volta o
da altri imprenditori che se ne servono in altri processi produttivi, o dai consumatori finali; questi
non sono altro che coloro che hanno offerto i servizi produttivi e che acquistano i beni prodotti dagli
imprenditori spendendo il reddito che hanno ricevuto in pagamento dei servizi produttivi offerti.

Ogni soggetto cerca di conseguire, attraverso il mercato, una posizione individuale di massimo. I
consumatori-risparmiatori cercano in primo luogo di determinare quella suddivisione del proprio
reddito tra consumi e risparmio che fornisce loro il rapporto massimamente soddisfacente tra
consumi presenti e consumi futuri, e, in secondo luogo, di determinare il modo in cui il reddito
consumabile deve essere ripartito nell'acquisto dei vari beni per ottenere la massima utilità e il
reddito risparmiato deve essere ripartito tra i diversi strumenti finanziari per ottenere il massimo
rendimento. Coloro che offrono servizi produttivi cercano di conseguire un equilibrio tra il reddito
tratto dal pagamento di tali servizi e l'onerosità delle proprie prestazioni. Gli imprenditori cercano di
conseguire, dalla propria attività, il massimo guadagno, cercano cioè di rendere massima la
differenza tra il valore della produzione ed i costi per essa sopportati.

Ognuno cioè si trova di fronte alla possibilità di effettuare certe scelte, ed effettua quella scelta che
gli consente di ottenere i massimi risultati dai mezzi a sua disposizione. Ma è chiaro che il
problema della scelta non potrebbe neppure porsi se, nell'ambito di ogni alternativa, i mezzi ed i
risultati non fossero tra loro confrontabili e se ciò che è possibile conseguire in ciascuna alternativa
non fosse confrontabile con ciò che è possibile conseguire in ogni altra alternativa.
Ora questi confronti sono possibili in quanto tutti i beni ed i servizi siano dotati di un prezzo; prezzo
che si forma nello scambio e che consente di ridurre tutte le quantità, tra loro eterogenee, a valori,
tra loro omogenei. Ma si deve tenere presente che questi prezzi, se sono i parametri sulla base dei
quali si effettuano le scelte, non sono tuttavia indipendenti dalle scelte stesse. Esiste dunque un
processo di azione e reazione tra prezzi e quantità scambiate, e si perviene ad un equilibrio
allorché i prezzi e le quantità siano tali che la posizione di massimo, che ciascun soggetto
persegue con le proprie scelte, sia compatibile con le posizioni di massimo perseguite da tutti gli
altri soggetti. La teoria dell'equilibrio economico generale è lo studio di questa configurazione di
equilibrio.

Al principio di questo studio la nozione di prezzo è molto semplice, poiché non è altro che il
rapporto in cui si scambiano due merci (salvo a convenire, per comodità, che tutti i prezzi debbano
essere riferiti ad un'unica merce che prende il nome di numerario); l'attribuzione di un prezzo a
ciascuna merce permette di rendere le merci tra loro confrontabili. Alla fine dello studio
dell'equilibrio economico generale la nozione di prezzo risulterà arricchita notevolmente, e di essa
si potrà dare una definizione più rigorosa.

Prima di procedere all'esposizione della teoria, è opportuno riportare la classificazione, secondo


Walras, degli elementi che compongono la "ricchezza sociale". Tale classificazione è
indispensabile per comprendere la natura delle grandezze economiche presenti nel modello di
equilibrio generale. Per Walras la ricchezza sociale è l‘insieme di tutte le cose, materiali o
immateriali, che hanno valore economico e cioè sono suscettibili di avere un prezzo, in quanto
sono ad un tempo utili e scarse.

Gli elementi che, secondo Walras, compongono la ricchezza sociale si dividono in due grandi
categorie: i capitali, o beni durevoli, cioè i beni che servono più di una volta, e i redditi, o beni che
servono una sola volta. I capitali, a loro volta, comprendono le risorse naturali, le capacità
personali, ed i capitali propriamente detti. I redditi comprendono, innanzi tutto, i beni di consumo e i
beni intermedi (definiti come i beni non durevoli usati nella produzione) e, in secondo luogo, sotto il
nome di servizi, gli usi successivi dei capitali. I servizi che hanno una utilità diretta vanno
raggruppati coi beni di consumo e prendono il nome di servizi consumabili (per esempio i servizi di
un terreno tenuto a parco, di un servitore, di una casa d'abitazione); i servizi che hanno un'utilità
indiretta vanno raggruppati con le materie prime, e prendono il nome di servizi produttivi (per
esempio i servizi di una terra coltivata, di un operaio, di una macchina industriale).

Riassumendo:

Ricchezza sociale (secondo Walras)

A. Capitali:

1. Capitali naturali.

2. Capacità personali.

3. Capitali propriamente detti.

B. Redditi:

1. Per usi di consumo:

a) Beni di consumo;

b) Servizi: b1) dei capitali naturali;

b2) dei capitali personali;


b3) dei capitali propriamente detti.

2. Per usi di produzione:

a) Beni intermedi;

b) Servizi: b1) dei capitali naturali;

b2) dei capitali personali;

b3) dei capitali propriamente detti.

Si tratta naturalmente di una classificazione funzionale, potendo un medesimo bene essere ora
capitale ora reddito e, quando sia capitale, dar luogo ora a servizi consumabili ora a servizi
produttivi. Per esempio, un albero che dà frutta è un capitale, un albero che sia tagliato per
utilizzarne il legno è un reddito; uno stesso edificio può dar luogo a servizi consumabili se usato
come abitazione o a servizi produttivi se usato per uffici.

Nelle società moderne, tra i capitali solo i capitali naturali ed i capitali propriamente detti possono
essere oggetto di scambio e quindi possono avere un prezzo: per quanto riguarda invece i capitali
personali, solo i loro servizi (lavoro) sono scambiabili e quindi hanno un prezzo.

Date certe quantità delle tre specie di capitali, la teoria dell'equilibrio economico generale si
propone di determinare le quantità scambiate ed i prezzi dei servizi consumabili e produttivi, le
quantità prodotte e scambiate, nonché i prezzi, dei beni di consumo e dei beni intermedi, le
quantità prodotte e scambiate, nonché i prezzi, dei capitali nuovi, cioè di quei capitali propriamente
detti che si aggiungono a quelli già esistenti.

Sulla base della classificazione della ricchezza sociale sopra riportata, si può precisare meglio la
natura dei soggetti economici presenti nel sistema. Essi, secondo Walras, appartengono a quattro
categorie:

1) i proprietari fondiari, cioè coloro che possiedono i capitali naturali;

2) lavoratori, cioè coloro che possiedono i capitali personali;

3) i capitalisti, cioè coloro che possiedono i capitali propriamente detti;

4) gli imprenditori, cioè coloro la cui funzione consiste nel combinare i servizi dei capitali posseduti
dalle tre precedenti categorie di soggetti, nonché i beni intermedi, in un processo produttivo.

In conseguenza del ruolo particolare svolto dagli imprenditori, il mercato generale, nel quale si
svolgono gli scambi tra i soggetti sopra elencati, può essere considerato come composto di due
distinti mercati: il mercato dei servizi ed il mercato dei prodotti.

Il mercato dei servizi è quello nel quale si incontrano, da un lato, i proprietari fondiari, i lavoratori ed
i capitalisti come venditori e, dall'altro lato, gli imprenditori come acquirenti dei servizi produttivi.
Esiste evidentemente anche un mercato dei servizi consumabili, nel quale proprietari fondiari,
lavoratori e capitalisti appaiono sia come venditori che come compratori; esso sarà trascurato in
questa esposizione.
Il mercato dei prodotti può essere a sua volta suddiviso in tre mercati: il mercato dei beni di
consumo, quello dei beni intermedi ed il mercato dei capitali nuovi.

Il mercato dei beni di consumo è quello nel quale si incontrano, da un lato, gli imprenditori come
venditori e, dall'altro lato, i proprietari fondiari, i lavoratori, ed i capitalisti come acquirenti dei beni di
consumo.

Sul mercato dei beni intermedi s'incontrano solo gli imprenditori sia nella veste di acquirenti che
nella veste di venditori: questo mercato è riconducibile al mercato dei servizi produttivi.

Infine il mercato dei capitali nuovi è quello nel quale si incontrano, da un lato, gli imprenditori come
venditori e, dall'altro, tutti coloro che, in quanto acquistano beni capitali propriamente detti,
assumono la natura di capitalisti.

Si suppone - ed è questa una caratteristica fondamentale della teoria walrasiana dell'equilibrio


economico generale - che in questi mercati abbia luogo un regime di concorrenza perfetta, ossia
un regime in cui il numero dei venditori e degli acquirenti è abbastanza grande perché nessuno di
essi possa singolarmente avere influenza sui prezzi: ogni soggetto economico quindi deve
assumere come dati sia i prezzi di ciò che vende sia i prezzi di ciò che acquista.

In tale regime, ad ogni sistema di prezzi corrisponde, per ogni bene e servizio, una quantità offerta
e una quantità domandata. Si ha una condizione di equilibrio quando siano verificate le seguenti
due condizioni:

a) sulla base dei prezzi d'equilibrio ogni soggetto consegue la sua posizione di massimo;

b) i prezzi d'equilibrio sono quelli ai quali corrisponde l‘uguaglianza, per ogni bene e servizio, della
quantità offerta e della quantità domandata.

Tali condizioni sono da alcuni (Lange) definite rispettivamente la condizione soggettiva e la


condizione oggettiva dell'equilibrio. Oltre a queste due condizioni occorre tener conto di una terza
circostanza, che si verifica indipendentemente dal fatto che l'equilibrio esista o meno, ma che è
però essenziale per rendere l‘equilibrio determinato; e cioè:

c) i redditi dei soggetti economici sono costituiti da ciò che essi ricavano dalla vendita dei servizi
dei capitali in loro possesso e, in più, dai profitti imprenditoriali (che però in equilibrio sono, sotto
certe condizioni, nulli).

2.2. IL MODELLO MACROECONOMICO NEOCLASSICO

2.2.1. I primi anni del ventesimo secolo costituiscono, per la scienza economica, un periodo
caratterizzato dall'egemonia di un nuovo paradigma teorico. Sono gli anni in cui l‘approccio
definito comunemente neoclassico, 4 messe da parte le formulazioni della teoria classica, afferma
il proprio modo di rappresentare lo svolgersi del processo economico capitalistico. Che cosa
caratterizza il nuovo modo di pensare l'economia? E in cosa consiste il «superamento» della
visione della «scuola» classica?

È possibile fornire risposte molto diverse a questi interrogativi. L'interpretazione storiografica


più interessante individua l‘elemento caratteristico di questo nuovo approccio nel proposito di
delineare lo schema di una economia non conflittuale o - seguendo la nota definizione di
Robertson e Keynes - «cooperativa». Secondo questa interpretazione, l‘elemento distintivo della
scuola neoclassica va rinvenuto nell‘intento di fornire una formulazione coerente del
funzionamento di un sistema economico caratterizzato dall'assenza di poteri e conflitti di classe -
e, quindi, dall'ipotesi che tutti gli operatori senza distinzione concorrono nel prendere le decisioni di
produzione - e dall'operare di un principio di equità distributiva. L'impostazione teorica neoclassica
perviene, inoltre, alla costruzione di un modello di economia in cui la moneta riveste un ruolo di
pura facilitazione tecnica dei pagamenti e non influenza in alcun modo le variabili reali.

Nel fare riferimento a una scuola neoclassica e all'ipotesi dell'economia cooperativa, si


intende sostenere che in quegli anni tutti gli autori aderenti al nuovo indirizzo teorico, pur in
presenza di contrapposizioni e scelte di campo diverse, si mossero parallelamente come se
avessero aderito a un progetto comune di ricerca. Pertanto, fatte salve le divergenze di vedute tra i
singoli economisti e tra le diverse scuole nazionali, l'elaborazione del modello cooperativo fu un
prodotto collettivo e, in questo senso, concorse a delineare una nuova «scuola».

2.2.2. Punto di partenza della teoria neoclassica è l'adozione dell'individualismo metodologico


che viene a sostituirsi al metodo storico-sociale sviluppato, per vie diverse, dagli economisti
classici e da Marx. Dal nuovo approccio metodologico scaturisce una nuova definizione degli
agenti economici: l'attenzione degli studiosi si sposta dall'esame dell'interagire delle classi sociali
all'analisi del comportamento razionale del singolo operatore. Nei modelli neoclassici, infatti, non
sono presenti distinzioni di classe e si assume che ogni operatore possa liberamente scegliere la
funzione da svolgere nel processo economico.

Gli studiosi neoclassici ipotizzano che gli operatori siano agenti razionali che massimizzano una
funzione obiettivo. La produzione risulta orientata al consumo secondo un processo lineare che va
dalle risorse naturali all'allestimento di beni di consumo, ovvero la domanda orienta e struttura
l'offerta, nel rispetto di quello che si definisce il principio della sovranità del consumatore. Per la
teoria marginalista della distribuzione, che costituisce il cuore dello schema neoclassico, il prodotto
complessivo si distribuisce tra gli operatori in base al contributo di ciascuno alla produzione
(prezzo del servizio dei fattori pari al valore del prodotto marginale).

La teoria macroeconomica neoclassica, formulata compiutamente nei primi anni del secolo
scorso - pur con considerevoli varianti interpretative - può essere illustrata nel modo seguente. Il
sistema economico è composto da un settore reale (funzione di produzione, equazioni del mercato
dei beni, equazioni del mercato del lavoro) e da un settore monetario. Per quanto riguarda il
mercato del lavoro, viene immaginato che la contrattazione riguardi direttamente il salario reale. Si
suppone che le imprese abbiano conoscenza perfetta delle funzioni di produzione e che possano,

4
Con «teoria neoclassica» si definisce usualmente l'approccio teorico che - originato dai lavori di Jevons, Menger e
Walras - si affermò a partire dalla fine del secolo scorso. Il termine «neoclassico» viene giudicato inappropriato da
quegli studiosi che sottolineano la profonda frattura esistente tra la teoria classica e quella neoclassica. La profonda
divergenza tra approccio classico ed approccio neoclassico è stata sottolineata, in alcuni casi, dagli stessi fondatori della
teoria neoclassica - come ad esempio Walras e Jevons - al punto che questa è stata definita teoria anti-classica. Nelle
pagine che seguono vengono ricondotte alla «scuola» neoclassica tutte quelle teorie che, impiegando un metodo
individualistico (per il quale viene posto al centro della ricerca un operatore individuale astrat to, il cui
comportamento è indagato mediante deduzioni successive a partire da alcune ipotesi di base), non considerano
oggetto di indagine l'interazione tra classi sociali. Questo complesso di teorie perviene sostanzialmente alla
descrizione di un modello economico che esclude a priori il conflitto sociale. Da qui la definizione di Robertson - poi
ripresa da Keynes - di economia cooperativa.
dunque, valutare con precisione la produttività marginale del lavoro. La domanda di lavoro (Nd) è
funzione inversa del salario reale (w/p), giacché le imprese massimizzano il profitto pagando un
salario reale né maggiore né minore della produttività marginale del lavoro. Poiché questa, dato il
capitale installato, è supposta decrescente, le imprese avranno convenienza ad assumere più
lavoratori solo a condizione che il salario reale diminuisca. Infatti, definito il profitto come la differenza
tra il valore monetario della produzione e il monte salari più gli interessi sul capitale, esso sarà
massimo allorché, assunta come data la quantità del capitale investito (K*), il valore del prodotto
marginale è uguale al salario monetario. 5

Per la definizione della funzione di offerta di lavoro, occorre supporre che i lavoratori
conoscano con precisione le loro preferenze relative al tempo libero e al reddito, in modo da
offrire lavoro fino aI punto in cui la disutilità marginale del lavoro sia uguale all'utilità marginale del
reddito percepito.6 La prima, infatti, è supposta crescente al crescere dell‘offerta di lavoro, mentre la
seconda è supposta decrescente al crescere del consumo reso possibile dall‘aumento del salario
reale. L'offerta di lavoro (Ns) che deriva da queste ipotesi è una funzione diretta del salario reale.

Le equazioni del mercato del lavoro sono pertanto le seguenti:

(1)

(2)

(3)

5
La circostanza per cui l'imprenditore razionale massimizza il profitto (π) erogando un salario monetario pari al valore
del prodotto marginale del lavoro, può essere mostrata come segue:

π = g (N, K*) p – (w N + r K*)

dπ/dN = g‘ (N) p – w = 0

g‘ (N) p = w

Da cui si ha anche

g‘ (N) = w/p.

6
Ciò significa supporre che i lavoratori siano in grado di definire una curva di offerta di lavoro come insieme dei punti
di ottimo ovvero dei punti nei quali l‘utilità marginale ponderata del paniere dei beni acquistati con il salario è uguale a
quella del tempo libero o ―riposo‖.
Date le funzioni di offerta e domanda di lavoro, risulta determinata l'occupazione di equilibrio; in
assenza di attriti, non può esservi disoccupazione involontaria (salvo casi di disoccupazione
marxiana o causata dall‘intervento dei sindacati).

La produzione complessiva (Y) è determinata come funzione del lavoro in base alle seguenti
equazioni:

(4) dY2/dN2 < 0

(5)

dove K* è lo stock di capitale ed N è il numero di lavoratori. La produzione, dato il capitale investito,


aumenta all'aumentare del numero dei lavoratori impiegati ma in misura meno che proporzionale. In
altre parole, la funzione (4) presenta derivata prima positiva e derivata seconda negativa.

L'equilibrio del mercato delle merci, definito dall'uguaglianza ex ante tra risparmi (S) e investimenti (I),
è assicurato dai movimenti del tasso di interesse (r) di cui investimenti e risparmi sono funzione.
Infatti, se consideriamo le seguenti identità (tautologie):

Ys  C + S

Yd  C + I

dove Ys rappresenta l‘offerta aggregata e Yd la domanda aggregata e le uguagliamo tra loro per
determinare la condizione di equilibrio nel mercato dei beni, otteniamo:

(Ys ) C + S = C + I (Yd)

e cioè l‘ equazione (8), riportata più avanti, che definisce l‘equilibrio nel mercato dei beni

Per quanto concerne il risparmio, si ipotizza che le famiglie, data la preferenza accordata al
consumo presente rispetto a quello futuro, siano disposte a rinunciare al consumo presente solo
in cambio di un maggior consumo futuro. Ciò significa che le decisioni di risparmio sono funzione
diretta del tasso di interesse (uguaglianza del tasso di interesse con il tasso marginale di prefe-
renza intertemporale). 7

Venendo alla funzione degli investimenti, si assume che le imprese siano in grado di stimare
con precisione l'incremento di profitto determinato da una lira di investimento marginale; esse
saranno propense a effettuare gli investimenti sino a che una lira di investimento in più
determina una crescita del profitto maggiore del tasso di interesse. Gli investimenti sono descritti
come funzione inversa del tasso di interesse, in quanto si assume che la produttività marginale
del capitale, data la quantità di lavoro impiegata, sia decrescente. Pertanto gli imprenditori
saranno disposti ad aumentare gli investimenti solo a condizione che il tasso di interesse
diminuisca.

La flessibilità del tasso di interesse assicura, in assenza di attriti, l'uguaglianza tra domanda e
offerta di risparmio (uguaglianza tra produttività marginale dell'investimento e tasso marginale
di preferenza intertemporale). Analiticamente, si ha:

(6)

(7)

(8)

Passando al lato monetario del modello, la domanda di moneta in termini reali (Md/p) è uguale al
rapporto tra il reddito (Y) e la velocità di circolazione della moneta (v). Entrambe queste
grandezze sono supposte costanti. La prima, in conseguenza della legge di Say; la seconda, per
effetto delle abitudini di pagamento dei salari e degli acquisti di beni, che si ritengono essere
costanti. L'offerta di moneta (Ms) è una grandezza data (esogena), in quanto determinata dalla
Banca Centrale. Al variare dello stock di moneta, essendo costanti Y e v, si assiste ad una
variazione proporzionale e diretta del livello dei prezzi. In equazioni:

(9)

(10)

(11)

La moneta si rivela neutrale dal momento che ciascuna variabile reale è indipendente dalle
variabili monetarie; la dicotomia tra settore reale e settore monetario è data dal fatto che una
variazione dello stock di moneta altera unicamente il livello generale dei prezzi.

Lo schema di funzionamento del sistema descritto dal modello è il seguente. Nel mercato del la-
voro, imprenditori e lavoratori, perfettamente informati e perfettamente razionali, contrattano il

7
Il tasso marginale di preferenza temporale è l‘incremento del compenso richiesto dal consumatore per un incremento
unitario (piccolo a piacere) del risparmio.
salario reale, la cui perfetta flessibilità garantisce l'assenza di disoccupazione involontaria. Date
le funzioni tecniche di produzione, risulta determinata la produzione complessiva di
equilibrio, dunque il reddito e il livello della domanda aggregata. La composizione della
produzione in beni di consumo e beni di investimento dipende dagli accordi tra gli operatori,
accordi che riflettono le scelte intertemporali e le stime di profitto futuro e avvengono in un
contesto di certezza. L'equilibrio nel mercato dei beni è assicurato dalla flessibilità del tasso di
interesse, a cui è legato il meccanismo di finanziamento degli investimenti. L'offerta nominale di
moneta, definita come grandezza esogena, determina il livello assoluto dei prezzi (teoria
quantitativa della moneta) e non influenza le variabili reali. Si dice, a questo proposito, che la
teoria neoclassica è dicotomica in quanto descrive un sistema economico diviso in due settori,
quello reale che comprende i mercati del lavoro e dei beni e quello monetario. Conseguentemente
il sistema di equazioni con cui viene formalizzata la teoria risulta non integrato. Il settore reale
dell‘economia è descritto da un sistema di equazioni integrato in cui, cioè, vi è interdipendenza tra
le variabili. Ciò è dovuto al fatto che imprese e lavoratori determinano simultaneamente quantità e
prezzi dei servizi lavorativi e dei beni di consumo e di investimento. Da un lato, infatti, i prezzi dei
beni di consumo concorrono a determinare l‘offerta di lavoro, dall‘altro il prezzo dei servizi
lavorativi concorre a determinare la domanda dei beni.

Nel modello viene assegnato un ruolo centrale al sistema bancario; si propone, infatti, una
doppia uguaglianza tra risparmi e depositi e tra investimenti e impieghi, per la quale l'equilibrio
macroeconomico viene a essere assicurato dal fatto che il sistema bancario funziona da
intermediario tra famiglie risparmiatrici e imprese mutuatarie.

Una prima caratteristica essenziale del modello - sottolineata da Robertson e Keynes -


consiste nel carattere non conflittuale - o cooperativo - dell'economia descritta.8 In effetti, nel
modello non è assunta una struttura sociale determinata da rapporti di forza tra gruppi sociali
ben individuati (come avveniva nella teoria classica), ma vi è perfetta libertà di scelta delle funzioni
da svolgere nel processo produttivo, e la distribuzione, indipendentemente dalla funzione
svolta da ciascun operatore, avviene in base al contributo arrecato alla produ zione. D'altra
parte, tanto i redditi da capitale quanto i redditi da lavoro - anche qui a differenza di quanto
avveniva nel modello classico - vengono pagati posticipatamente rispetto al processo
produttivo. Si tratta, come scrisse Marshall, di un sistema in cui «il capitale in generale e il lavoro
in generale cooperano nella produzione del dividendo nazionale, e da questo ottengono i
loro guadagni in ragione delle loro rispettive efficienze (marginali)».

Una seconda caratteristica essenziale del modello è data dalla irrilevanza delle variabili
monetari: ne consegue che le alterazioni delle variabili monetarie non influenzano le variabili
reali. La moneta viene considerata alla stregua di un semplice espediente tecnico che agevola gli
scambi, e le conclusioni generali dello schema sono del tutto analoghe a quelle di un sistema di
baratto puro. Per questa ragione, la teoria macroeconomica neoclassica di inizio secolo si
riduce alla descrizione di una sorta di grande baratto tra imprese e lavoratori.

2.2.3. La teoria quantitativa della moneta non è l'unica teoria monetaria che troviamo in ambito
neoclassico. Merita qui considerare anche l'analisi dell'economista svedese Knut Wicksell (1851-
1926), che ha esercitato un'influenza notevole sullo sviluppo della teoria nel corso del novecento.
Secondo questa analisi, le variazioni del livello generale dei prezzi non svolgono il ruolo di
assicurare l'adeguamento della domanda di moneta alla sua offerta stabilita dalla banca, ma
svolgono invece il ruolo di segnalare la presenza di una divergenza tra il saggio di interesse
monetario e il saggio di interesse reale o «naturale», e quindi di indurre le banche ad adeguare il
primo al secondo. Inoltre, la quantità di moneta in circolazione è considerata una grandezza
endogena e non esogena come nella teoria quantitativa appena illustrata.

8
Robertson contrappose al «modello cooperativo» neoclassico un modello di «economia del salario e della moneta».
Viceversa, Keynes, dopo avere sottolineato che la teoria neoclassica descriveva una economia di tipo cooperativo
«orientata al baratto», vi contrappose una «money wage or entrepreneur economy».
Il saggio di interesse che Wicksell chiama reale o naturale altro non è che il saggio che
eguaglia le decisioni di investimento delle imprese all'offerta di risparmio che si ha in
corrispondenza del reddito di pieno impiego. Supponiamo allora che, partendo da una situazione
di equilibrio, la profittabilità degli investimenti aumenti a causa del progresso tecnico e quindi che
la funzione di investimento I si sposti verso destra. Ceteris paribus, il saggio di interesse «natu-
rale» aumenterà; non aumenterà però necessariamente anche il saggio di interesse monetario o
saggio di interesse sui prestiti. La ragione di ciò, argomenta Wicksell, risiede nella presenza delle
banche, che annulla ogni corrispondenza tra prestiti monetari e risparmi monetari. Siccome le
banche concentrano nelle loro mani i fondi liquidi dei privati, esse posseggono un fondo per prestiti
che è sempre elastico - in certe condizioni inesauribile - e sono quindi in grado di assecondare
qualunque aumento della domanda di prestiti senza aumentare il saggio di interesse su di essi.
Viene così meno la «connessione immediata» tra il saggio di interesse monetario e il saggio na-
turale, che invece si avrebbe se le forze di domanda e offerta di risparmio potessero agire
direttamente sul mercato dei prestiti monetari. Nel complesso sistema monetario che caratterizza
le economie in cui viviamo, dice Wicksell, non vi è altra connessione tra i due saggi che le
variazioni del livello dei prezzi causate da qualsivoglia differenza sorga tra di essi.

Così, nella nostra ipotesi di un aumento della profittabilità degli investimenti e conseguente
aumento del saggio naturale, il livello dei prezzi continuerebbe a salire fintanto che le banche non
aumentassero anche il saggio monetario adeguandolo a quello naturale. Infatti, la presenza di uno
scarto positivo tra il secondo e il primo causerebbe un'eccedenza della spesa per investimenti ri-
spetto all'offerta di risparmio; ed essendo la situazione di equilibrio da cui si è partiti caratterizzata
dal pieno impiego di tutte le risorse disponibili, quest'eccedenza della spesa monetaria com-
plessiva rispetto al valore monetario del reddito di pieno impiego causerebbe un aumento dei
prezzi (prima dei beni di investimento e poi, non appena il maggior reddito monetario così for-
matosi consentisse una maggiore spesa per consumi, anche dei beni di consumo). Ma l'aumento
parallelo dei prezzi e dei redditi monetari tenderebbe a lasciare immutati tanto la profittabilità degli
investimenti che il saggio naturale di interesse, che quindi continuerebbe ad eccedere il saggio
monetario i n base all‘ipotesi di neutralità della moneta. Il processo inflazionistico in questo modo
andrebbe avanti fintanto che il saggio monetario fosse mantenuto dalle banche al di sotto di quello
naturale. L'opposto di tutto ciò accadrebbe nel caso in cui le banche mantenessero il saggio di
interesse al di sopra del suo livello naturale. Possiamo immaginare, ad esempio, che partendo da
una situazione di equilibrio tra i due saggi, quello naturale sia abbassato da una diminuzione della
produttività dei fattori, ma le banche lascino immutato il saggio monetario. In entrambi i casi, per ri-
stabilire l'equilibrio monetario - la stabilità del livello generale dei prezzi - le banche dovrebbero
riportare il saggio di interesse monetario al livello del saggio naturale.

La conclusione è dunque che in virtù dell'«anello di connessione» costituito dalle variazioni del
livello dei prezzi, il saggio di interesse monetario graviterà verso il saggio di interesse naturale,
anche se questo processo di gravitazione, richiedendo comunque l'intervento delle banche, non
può considerarsi di natura automatica.

2.2.4. Mettiamo ora a fuoco differenze e punti di contatto tra questa analisi di Wicksell e la
tradizionale teoria quantitativa della moneta.

Secondo quest'ultima, le variazioni del livello dei prezzi sono l'effetto di variazioni della
spesa monetaria complessiva, a loro volta provocate dalle decisioni dell'autorità monetaria, da cui
dipende la quantità di moneta in circolazione, di farla variare ad un tasso diverso da quello a cui
può variare il reddito reale dell'economia. Attraverso le variazioni del livello dei prezzi si verifica
l'adeguamento della domanda di moneta alla sua offerta, concepita appunto come una grandezza
esogena. Anche secondo l'analisi di Wicksell le variazioni del livello dei prezzi sono l'effetto di va-
riazioni della spesa monetaria complessiva, provocate però dalla differenza tra il saggio di
interesse «naturale»determinato dalla produttività marginale dei fattori e il saggio di interesse
monetario di volta in volta stabilito dalle banche. Attraverso le variazioni del livello dei prezzi ha
luogo l'adeguamento del secondo saggio al primo, nel senso che quelle variazioni segnalano la
presenza di una differenza tra i due saggi di interesse, inducendo le banche, che hanno il controllo
del saggio monetario, a portarlo al livello di quello naturale allo scopo di ripristinare la stabilità del
livello dei prezzi. La quantità di moneta in circolazione è qui una grandezza endogena: essa si
adegua alla domanda, nel senso che le banche, fissato il saggio di interesse monetario,
assecondano qualsiasi domanda di prestiti monetari che a quel saggio provenga loro dalle
imprese.

Non vi sono tuttavia differenze sostanziali tra i due punti di vista per quanto riguarda gli
effetti reali attribuiti alla moneta. Per Wicksell, come per i sostenitori della teoria quantitativa,
produzione e distribuzione, così come i prezzi relativi dei beni, sono indipendenti da fattori
monetari, i quali nel lungo periodo incidono solo sul livello dei prezzi. Saggio di interesse
«naturale», salario d'equilibrio e livello d'equilibrio del reddito dipendono dai gusti, dalle condizioni
tecniche e dalla dotazione dei fattori, e possono cambiare solo se cambia l'uno o l'altro di questi
dati. II contributo di Wicksell aiuta a mettere bene in luce come per la concezione neoclassica la
moneta e i fenomeni monetari siano neutrali rispetto a quelli reali, indipendentemente dalla
circostanza che al suo interno la moneta sia vista come una variabile esogena oppure come una
variabile endogena.

L'aspetto dell'analisi monetaria di Wicksell più rilevante per gli sviluppi della teoria economica non
è stato la sua nozione di moneta endogena; è stato piuttosto la distinzione tra saggio di interesse
monetario e saggio di interesse reale o naturale, insieme alla nozione di una gravitazione non
automatica del primo verso il secondo.

2.3. L‘OFFERTA DI LAVORO

2.3.1. Riesaminiamo brevemente le caratteristiche dell'offerta di lavoro neoclassica.


Tradizionalmente si suppone che tale funzione abbia le seguenti due proprietà:

1. la quantità di lavoro offerta dalle famiglie è nulla per valori del salario reale pari a
zero;

2. al crescere del salario reale, dati i prezzi dei beni di consumo, il lavoro offerto aumenta.

Se si accettano queste ipotesi, non è difficile concludere che, quale che sia la domanda di
lavoro, il sistema concorrenziale realizza necessariamente una posizione di equilibrio
caratterizzata da un salario positivo e dalla piena occupazione. Ciò è illustrato, sia pure in
termini di equilibrio parziale, dalla Figura 1, dove la curva crescente LO rappresenta la
relazione tra l'offerta di lavoro e il salario reale (w/p), mentre la retta LD rappresenta la
relazione tra la domanda di lavoro e w/p.

Fig.1
La curva di domanda ha un'inclinazione negativa per il fatto che all‘aumentare del lavoro
impiegato, ferme restando le quantità degli altri fattori di produzione, diminuisce la sua
produttività marginale (y/L) e quindi le imprese sono disposte ad assumere più
lavoratori solo se il salario reale diminuisce, in modo che sia rispettata la condizione
(necessaria) di massimo profitto: y/L=w/p. Inoltre, si può osservare che: 1) quanto più
basso è il salario, tanto minore sarà il costo di produzione e quindi il prezzo dei beni di
consumo prodotti con un forte impiego di lavoro (in relazione al costo e al prezzo dei beni
prodotti con molte macchine e poco lavoro); 2) di conseguenza, tanto maggiori saranno le
quantità degli stessi richieste dalle famiglie e quindi tanto più alta anche la richiesta del
fattore lavoro. Per fare un esempio: se vi sono due beni, uno prodotto con solo lavoro e
l'altro quasi esclusivamente con macchine, ogni volta che diminuisce il salario il prezzo
del primo bene diminuirà rispetto al prezzo del secondo bene, aumenterà quindi il consumo
di tale bene e aumenterà di conseguenza anche la domanda di lavoro.

2.3.2. Ritornando all'offerta di lavoro, bisogna riconoscere che si possono avanzare


ragionevolmente anche ipotesi diverse dalle due sopra indicate. Si può cioè arrivare,
sempre restando nell‘ambito dell'impostazione neoclassica, anche alla conclusione che, al
crescere del salario rispetto ai prezzi dei beni di consumo, LO diminuisca, perché al crescere
del reddito dei lavoratori aumenta R, la «domanda di riposo». In questo caso esisterebbero
più valori di w/p che assicurano l'equilibrio sul mercato del lavoro. Per comprendere questa
affermazione è utile ripercorrere il ragionamento dei neoclassici.

Ogni lavoratore-consumatore, dati i suoi gusti e le quantità di beni che costituiscono il salario reale
orario stabilito dal mercato e sul quale egli non può influire, decide quante ore lavorare in vista
della massimizzazione della soddisfazione (o utilità) totale che può ricavare dalla disponibilità di
una certa quantità di beni e di tempo libero. Naturalmente, quanto maggiore è il numero di ore per
le quali è disposto a lavorare al salario orario dato tanto minore sarà il suo tempo libero, ma tanto
maggiore sarà in compenso la quantità di beni di cui potrà disporre. L'utilità totale che il nostro
lavoratore ricava dal consumo di beni o di tempo libero aumenta all'aumentare della rispettiva
quantità consumata, ma per incrementi via via minori. Questo perché ogni unità addizionale di beni
o di tempo libero va a soddisfare dei bisogni sempre meno importanti. L'utilità marginale di un
bene, come sappiamo, è la variazione che subisce l'utilità totale a fronte di una piccola variazione
nella quantità consumata di quel bene e dipende dai gusti del singolo individuo. Il lavoratore
massimizza la sua utilità totale se lavora un numero di ore tale che le utilità marginali ponderate
del tempo libero (TL) e del paniere di beni (G) che può acquistare con il salario (w) sono uguali e
cioè

(1) U’(TL)/w = U‘(G)/pg,

dove w è il prezzo (costo opportunità) del tempo libero e pg=1 è il prezzo di un paniere di beni. Se
U’(TL)/w > U‘(G)/pg allora il lavoratore domanderà più tempo libero (lavorerà di meno) finché
l‘utilità marginale del tempo libero, diminuendo, pareggerà quella dei beni che nel frattempo è
aumentata. Infatti il consumatore ora dispone di più tempo libero e di una minore quantità di beni
di consumo. Il contrario accade se U’(TL)/w < U‘(G)/pg. Se w aumenta allora U’(TL)/w < U’(G)/pg
e al lavoratore converrà lavorare di più fino a che U‘G, diminuendo, non ripristini la situazione di
equilibrio.

Si può dire pertanto che all'aumentare del salario il lavoratore è indotto a sostituire tempo libero
con beni e si può così parlare di «effetto sostituzione» di un aumento del salario. Naturalmente al
diminuire del salario l'«effetto sostituzione» agirà nella direzione opposta facendo aumentare il
rapporto X(TL)/X(G): le proporzioni in cui il lavoratore domanda beni e tempo libero cambiano a
favore di quest'ultimo.

Sulla base allora della condizione di massima soddisfazione rappresentata dalla (1), la teoria che
stiamo considerando ricava la funzione di offerta individuale di lavoro, una relazione tra il salario e
la quantità di lavoro che il singolo lavoratore è disposto a prestare, come quella disegnata nella
Figura 2.

Fig.2 Fig. 3

Quanto detto nel capoverso precedente spiega la relazione diretta tra w/p e LO, ossia il tratto della
funzione inclinato positivamente; come si spiega il suo tratto inclinato negativamente e infine
l‘andamento asintotico rispetto all'asse verticale? Ogni variazione del salario, oltre all'«effetto
sostituzione» di cui abbiamo parlato, genera anche un «effetto reddito», positivo o negativo, a
seconda che si consideri un aumento o una diminuzione del salario. All'aumentare di w/p aumenta
la quantità di beni che il lavoratore può acquistare con un'ora di lavoro; ma, pur aumentando
insieme a w/p il prezzo del tempo libero in termini di beni, oltre un certo livello del salario orario,
w/p1, al lavoratore non conviene più ridurre la sua disponibilità di tempo libero per accrescere
quella di beni: il salario è sufficientemente elevato da consentirgli di disporre di una maggiore
quantità di beni pur lavorando di meno, ossia egli può ora disporre sia di una maggiore quantità di
beni che di una maggiore quantità di tempo libero. Se al crescere di w/p l‘offerta di lavoro
crescesse continuamente allora il tempo libero diminuirebbe in proporzione e la sua utilità
marginale crescerebbe in modo esponenziale allontanando il lavoratore-consumatore dalla
condizione di ottimo. Ciò non accade grazie all‘effetto reddito che mantiene costante l‘uguaglianza
tra le utilità marginali ponderate del tempo libero e dei beni, facendo aumentare meno il lavoro
(diminuire meno il tempo libero) di quanto avverrebbe se operasse soltanto l‘effetto sostituzione.
Infine, la funzione di offerta individuale di lavoro, piegando a sinistra oltre un certo livello del
salario, si avvicina sempre di più all'asse verticale ma non lo interseca mai. La ragione è molto
semplice: se lo intersecasse vorrebbe dire che a un certo livello, alto a piacere, del salario l'offerta
di lavoro diverrebbe nulla e dunque il lavoratore sarebbe disposto a fare completamente a meno
dei beni pur potendone ottenere in grande quantità lavorando poco.

La funzione di offerta di lavoro relativa all'economia nel suo complesso è la somma orizzontale
delle funzioni di offerta individuali. Essa si ottiene cioè sommando, per ciascun livello di w/p, le
quantità di lavoro offerte a quel livello del salario reale dai diversi lavoratori presenti nell'economia.
Se i lavoratori fossero tra loro identici ed avessero gli stessi gusti, la funzione di offerta aggregata
di lavoro sarebbe la copia in scala della funzione di offerta individuale: in presenza di x lavoratori, il
segmento di ascissa che per ciascun livello di w/p misura l'offerta complessiva di lavoro sarebbe x
volte il segmento che misura l'offerta individuale di lavoro. In ogni caso, per quanto diversi tra loro
siano i lavoratori, ciascuno di essi, se si comporta razionalmente, tenderà a soddisfare la con-
dizione (1); inoltre, per ciascuno di essi ogni variazione di w/p avrà tanto un «effetto sostituzione»
che un «effetto reddito». Quindi la funzione di offerta aggregata, pur non essendo in generale la
copia in scala di quella individuale, ne avrà la medesima forma. Ma tanto nei libri di testo che nelle
analisi neoclassiche di carattere più applicativo - ad esempio le analisi relative agli effetti
sull'offerta di lavoro di riduzioni delle imposte sui salari - l'enfasi è generalmente sull'«effetto
sostituzione» ed il tratto inclinato negativamente della funzione di offerta molto spesso non viene
nemmeno preso in considerazione. La ragione di questo fatto, come si è già accennato, è che la
presenza di un tratto inclinato negativamente della funzione di offerta comporta la possibilità di più
punti di intersezione con la funzione di domanda e dunque che non vi sia un'unica posizione di
equilibrio stabile. In altre parole, non vi sarebbe un unico saggio del salario verso il quale
l'economia tende a gravitare, determinato dall'equilibrio tra le forze di domanda e offerta e quindi
caratterizzato dal pieno impiego del lavoro e riflettente la sua scarsità relativa. Nella Figura 4 vi
sono ben tre punti di intersezione tra le due funzioni, ossia tre livelli del salario - w/pA, w/pB e w/pC
- per i quali il mercato del lavoro è in equilibrio.

Fig. 4

Di queste tre posizioni di equilibrio, una, rappresentata da B, è instabile - non costituisce cioè una
posizione verso cui l'economia possa tendere, perché, se, per una qualsiasi causa accidentale, il
salario si discostasse dal livello d'equilibrio w/pB, le forze di domanda e offerta non tenderebbero a
riportarvelo. Infatti, se, per esempio, il salario si attesta nell‘intervallo AB, la domanda risulta
superiore all‘offerta e il prezzo salirà fino a raggiungere il nuovo punto di equilibrio in A. Se, invece,
il salario si fissa tra B e C, l‘offerta risulta superiore alla domanda e il prezzo scenderà fino a
raggiungere il punto C. (Del resto il salario d'equilibrio w/pB è difficilmente interpretabile come
prezzo di scarsità relativa del lavoro: se nella Figura 4 tutta la funzione di offerta di lavoro si
spostasse verso destra, e cioè aumentasse, ad esempio per un cambiamento nei gusti dei
lavoratori-consumatori, o la funzione di domanda si spostasse verso sinistra, e cioè diminuisse, ad
esempio per un cambiamento delle condizioni tecniche di produzione, la posizione d'equilibrio
intermedia verrebbe a trovarsi in corrispondenza di un saggio del salario maggiore, e non minore,
di quello precedente l'aumento dell'offerta di lavoro rispetto alla domanda, in contrasto con le
prescrizioni delle teoria neoclassica secondo la quale il prezzo costituisce un indice di scarsità
relativa). Nelle condizioni raffigurate nella Figura 4 l'economia tenderebbe alternativamente verso
la posizione d'equilibrio A o verso la posizione C, dovendosi con ciò arditamente concludere che
una data dotazione di lavoro e capitale, dati gusti e date condizioni tecniche di produzione
possono dar luogo a un salario d'equilibrio molto alto (w/pA) o ad uno molto basso (w/pc), entrambi
riflettenti la scarsità relativa del lavoro.

2.3.3. Inoltre, se consideriamo il tratto iniziale della curva di offerta di lavoro neoclassica, sembra
più ragionevole ipotizzare (vedi Figura 5) che il salario reale non possa comunque scendere al
di sotto di un certo livello minimo «di sussistenza» e quindi che una relazione univoca tra w/p
ed L sia definibile soltanto se LO>L2. In questa situazione, per valori relativamente contenuti
della domanda di lavoro, come nel caso della retta LD1, la posizione di equilibrio sarebbe
caratterizzata da disoccupazione involontaria del lavoro in misura pari a: L2- L1.
Fig. 5

Oltre al caso, appena illustrato, in cui la curva di offerta di lavoro non passa per
l'origine degli assi, in un‘altra circostanze può verificarsi disoccupazione involontaria del lavoro
secondo la teoria neoclassica, e cioè quando i sindacati dei lavoratori, ricorrendo ad un
comportamento di tipo monopolistico, riescono a fissare il salario reale ad un livello
superiore a quello che si stabilirebbe in condizioni concorrenziali (vedi Figura 6, nella quale
L corrisponde alla posizione di piena occupazione, realizzabile in condizioni di concorrenza
perfetta; L è l'occupazione realizzata nell'ipotesi che il sindacato fissi un salario w=/p piú
alto di quello di equilibrio w/p; L* - L= è la disoccupazione presente nel sistema se il salario è
w=/p.

Fig. 6

Il primo caso è, secondo i neoclassici, tipico dei paesi sottosviluppati; la disoccupazione è


in questo caso dovuta alla scarsità di capitale rispetto alla popolazione e può quindi essere
riassorbita solo con lo sviluppo economico, e in particolare grazie all'accumulazione di capitale.9

Il secondo caso si presenterebbe nei paesi industrializzati, dove i sindacati dei lavoratori godono
di un maggiore potere contrattuale.

9
Secondo la scuola classica il processo di accumulazione non avrebbe comunque risolto, se non in via transitoria, il problema. La
scarsità di alcune risorse naturali (Ricardo), oppure la concorrenza tra i capitalisti (Marx) avrebbero determinato una caduta tendenziale
del saggio di profitto e quindi l'arresto dello sviluppo (Ricardo); oppure il rovesciamento del sistema capitalistico (Marx). La scuola
neoclassica, invece giunge alla conclusione che il saggio di profitto e quindi l'accumulazione di capitale possono proseguire ininterrotta-
mente, in modo da assorbire l'intera forza lavoro che si rende via via disponibile.
2.4. LA TEORIA MARGINALISTA DELLA PRODUZIONE E DELLA DISTRIBUZIONE

2.4.1. La teoria della produzione marginalista ricalca sostanzialmente quella del consumo. Lo
schema di base è costituito da un modello di puro scambio in cui ciascun individuo ha una certa
dotazione di risorse e certe preferenze esprimibili con una funzione di utilità. Se si assume che
l‘individuo massimizzi la sua utilità sotto il vincolo delle risorse a sua disposizione e se la funzione
di utilità possiede certe caratteristiche, si può dimostrare che l‘individuo, per il quale i prezzi sono
dati, acquisterà quelle quantità dei diversi beni che rendono uguali le loro utilità marginali
ponderate rispetto al prezzo.

Il problema che viene affrontato in questo schema è quello dell‘ottima utilizzazione, mediante lo
scambio, di una certa distribuzione iniziale delle risorse tra i singoli individui. Gli elementi
caratterizzanti di questo schema sono: 1) il concetto di utilità marginale, che presuppone funzioni
di utilità continue e derivabili; 2) Il concetto di sostituzione tra i vari beni al variare dei prezzi, che
presuppone funzioni di utilità convesse; 3) una spiegazione dei prezzi quali indici di scarsità e
quindi come allocatori ottimali delle risorse.

Questo schema è stato in seguito modificato in modo da poter essere esteso anche al processo di
produzione. Per fare questo si è dovuto adottare il fenomeno produttivo (che per sua natura ha a
che fare con grandezze-flusso) ad uno schema sviluppato con riferimento a grandezze fondo e si
sono dovute introdurre concetti paralleli a quelli utilizzati nella teoria del consumo: il concetto di
produttività marginale e quello di sostituzione tra i fattori produttivi. Un‘ulteriore conseguenza è
stata l‘assimilazione del salario unitario e del saggio di profitto agli altri prezzi e quindi la loro
interpretazione come indici di scarsità e allocatori ottimali delle risorse lavoro e capitale.

In questo modo i marginalisti hanno reciso il legame che i classici avevano posto tra la realtà
storico-istituzionale e la teoria della distribuzione riducendo quest‘ultima ad una semplice
appendice della teoria del valore. Da ciò hanno tratto la conclusione che in un sistema
concorrenziale non vi è conflitto distributivo né tanto meno sfruttamento, poiché ciascun soggetto
ottiene per il suo contributo al processo produttivo un compenso pari alla produttività marginale del
fattore in suo possesso (che coincide con il prezzo di mercato del servizio prestato).

2.4.2. La teoria marginalista della produzione e della distribuzione può essere così esposta. Si
assuma che esistano due soli fattori di produzione, L e K, e quindi che la funzione di produzione
sia la seguente:

(1) Y = f (L, K)

Siano w e r i prezzi ai quali i servizi del lavoro e del capitale vengono acquistati nei rispettivi
mercati. Ciò che vogliamo dimostrare è che, dato:

(2) p Y = w L + r K,
ossia

(2)‘ Y = w/p L + r/p K

si ha

(3) f (L, K) = w/p L + r/p K

e cioè che prodotto e reddito coincidono.

Ciò non appare evidente a prima vista, poiché il prodotto dipende dalle quantità impiegate dei
fattori in base ad una relazione tecnica (funzione di produzione), mentre il reddito dipende dai
prezzi dei servizi dei fattori (w,r) che si determinano nel mercato in base alla domanda e all‘offerta.

Tuttavia, se facciamo l‘ipotesi (si veda l‘Appendice) che la distribuzione del reddito avvenga in
base al criterio della produttività marginale e cioè che:

(4) w/p = Y/L

(5) r/p = Y/K

possiamo scrivere, sostituendo la (4) e la (5) nella (2):

(6) Y = Y/L L + Y/K K

Questa uguaglianza, tuttavia, vale solo se la funzione di produzione è omogenea di primo grado e
cioè se vale il teorema di Eulero, il quale afferma che:

―Data una funzione omogenea di grado h: Y = f (L, K), vale la seguente identità:

h Y = Y/L L + Y/K K ―

Se la funzione è omogenea di primo grado, allora h = 1. Questo è il caso considerato dai


marginalisti; corrispondente ad una funzione di produzione che ha rendimenti di scala costanti(10).

Fu Wicksteed in ―An essay on the coordination of the laws of distribution‖ (1894) ad affermare la
verità della (6). Va sottolineato che tale uguaglianza è importante per il teorico marginalista. Infatti,
se nella (2) la somma delle quote distributive fosse superiore a pY, allora il prodotto non sarebbe
sufficiente per consentire una distribuzione del reddito basata sulla produttività marginale dei
fattori; se invece, tale somma fosse inferiore, resterebbe un residuo che non si saprebbe a chi
attribuire e per quale ragione.

Pareto nel 1897 criticò Wicksteed osservando che la sua conclusione non ha validità generale,
perché: (1) vi sono processi produttivi a rendimenti di scala crescenti o decrescenti e quindi
funzioni di produzione omogenee di grado superiore o inferiore al primo; (2) tra i processi produttivi
a rendimenti costanti ( a cui sono associate funzioni di produzione omogenee di primo grado) ve
ne sono alcuni caratterizzati da coefficienti fissi per i quali non è possibile definire le produttività
marginali dei fattori.

Inoltre si può osservare che Wicksteed dà per scontato che i fattori vengano remunerati secondo le
rispettive produttività marginali. Questo assunto, per essere accettato, richiede un‘analisi che
accerti l‘operare della concorrenza perfetta in tutti i mercati e in particolare in quelli del lavoro e del
capitale.

2.4.3. Lo schema teorico adottato dai marginalisti per la spiegazione della produzione e della
distribuzione del reddito incorre, tuttavia, in difficoltà insuperabili quando, come si è fatto
nell‘equazione (1), si voglia introdurre il fattore capitale. Questo, infatti, a differenza della terra e
del lavoro, presenta, la caratteristica cruciale di non poter essere espresso o misurato in termini
fisici. Mentre il salario unitario e la rendita sono commisurate a quantità fisiche di lavoro e terra
rispettivamente, il saggio di profitto è commisurato al valore dell‘insieme dei beni capitali. E il
valore del capitale totale è qualcosa che, per essere determinato, richiede la conoscenza
preliminare del saggio di profitto, che è la variabile che si vorrebbe invece determinare. In altri
termini, il saggio di profitto è commisurato al valore dei beni capitali, mentre la funzione di
produzione è una relazione tecnica nella quale si possono inserire soltanto grandezze misurate in
termini fisici. Di qui è cominciata tutta una serie di tentativi per aggirare l‘ostacolo.

L‘economista svedese Knut Wicksell (1851-1926), che si occupò a lungo del problema, era
consapevole di questa difficoltà. Nelle ―Lezioni di economia politica‖ (1923) egli usa la particolare
funzione di produzione:

(7) Y = c Kª L¹ˉª

Dove c, a sono delle costanti. E‘ questa espressione che, con il nome di funzione di produzione
Cobb-Douglas (dai due economisti americani che l‘avrebbero ripresa più tardi), era destinata ad
avere un successo insperato nelle trattazioni marginaliste della produzione. Naturalmente, tale
funzione si può utilizzare purché si assuma che sia una funzione omogenea di primo grado e
purché si aggiungano tutte le supposizioni che sono logicamente necessarie per poter inserire
nella stessa un fattore ―capitale‖ K, tale che la derivata parziale della produzione rispetto ad esso si

10
Si dice che una funzione di produzione Y = f (K, L) ha rendimenti di scala costanti, crescenti o decrescenti a seconda che,
moltiplicando per un numero positivo t tutti gli input, l‘output risulta moltiplicato per lo stesso numero elevato ad un esponente ∂
rispettivamente uguale, maggiore o minore di uno e cioè f (t K, t L) = t ∂ (K, L) = Y. In termini matematici si dice che la funzione è
omogenea di grado uguale, superiore o inferiore al primo, rispettivamente.
identifichi con il saggio di profitto. Wicksell ebbe molte esitazioni su questo punto e preferì lasciare
la discussione in uno stato indeterminato. Invece gli autori marginalisti successivi hanno
accantonato ogni esitazione. La funzione della produzione (1) è stata usata sia con riferimento ad
un sistema economico nel suo insieme, sia con riferimento ad una singola impresa. In termini
grafici essa viene usualmente rappresentata mediante una relazione tra il rapporto capitale/ lavoro
(k) e il rapporto prodotto netto/lavoro (y) (cfr. la Figura 1):

Figura 1

Nel grafico, dato un rapporto capitale/lavoro (k) il saggio di profitto si può leggere come pendenza
della tangente al corrispondente punto y-- della curva y (AB/wB) e il salario unitario si può leggere
come intercetta di tale tangente sull‘asse delle ordinate (Ow). Si può notare che, se si tiene ferma
la quantità di un fattore, ad esempio L, e si aumenta la quantità dell‘altro, k nel nostro caso, si
ottiene un movimento lungo la funzione di produzione al quale sono associate delle relazioni
univoche e precisamente (si consideri il cambiamento da k-- a k ) Un aumento del rapporto
prodotto netto/lavoro (y), un aumento del rapporto capitale/prodotto (k), un aumento del salario
unitario e una diminuzione del saggio di profitto. In particolare si può vedere che la relazione tra il
saggio di profitto e il rapporto capitale prodotto è monotonica e inversa.

Dopo tanti tentativi in varie direzioni, i teorici marginalisti non hanno fatto altro che tornare alla
teoria della produzione e della distribuzione basata su fattori fisicamente misurabili come lavoro e
terra ed estenderla tale e quale al fattore capitale, rassegnandosi ad aggiungere tutte le ipotesi
necessarie perché l‘analisi rimanesse logicamente coerente. Purtroppo questa ipotesi aggiuntive si
sono rivelate molto più restrittive di quanto gli autori marginalisti avessero sospettato. In definitiva,
il solo caso in cui una teoria marginalista della produzione e della distribuzione del reddito, lungo le
linee sopra indicate, si è potuta elaborare senza difficoltà di ordine logico è quello (del tutto
immaginario) di un sistema economico in cui si produca una sola merce, che serva sia come bene
di consumo sia come bene capitale. In questo caso le difficoltà di estendere al capitale lo schema
marginalista non sorgono solo perché la grandezza K può esprimere al tempo stesso la quantità
fisica del bene capitale e il suo valore. Per il caso generale gli autori marginalisti hanno potuto
soltanto mantenere la speranza che le relazioni ottenute con un modello ad una sola merce siano
valide anche per il caso generale. Va ricordato che, per ironia, in un sistema economico in cui si
produca una sola merce, risulta valida anche la teoria ricardiana e marxiana del valore lavoro, che
i marginalisti hanno aspramente criticato

2.5. APPENDICE: LA MASSIMIZZAZIONE DEL PROFITTO

Indicando con  il profitto, con Y il prodotto, con p il suo prezzo, con K il capitale, con L il lavoro,
con r il saggio di profitto e con w il salario unitario, possiamo formalizzare la massimizzazione del
profitto, che costituisce l‘obiettivo dell‘imprenditore marginalista, come segue:

max  = p Y – r K – w L

sotto il vincolo Y = f (K, L)

ossia max  = p f (k, L) – r K – w L

Derivando questa funzione rispetto a K ed L e uguagliando le derivate parziali a zero, otteniamo:

/∂K = p f‘(K) – r = 0

/∂L = p f‘(L) – w = 0

Se anche la condizione di massimo del secondo ordine è soddisfatta, possiamo scrivere:

f‘(K) = ∂Y/∂K = r/p

f‘(L) = ∂Y/∂L = w/p .


3. LA TEORIA KEYNESIANA

3.1. LA DOMANDA EFFETTIVA

Il ruolo della domanda effettiva è divenuto chiaro ai nostri occhi soltanto dopo la
pubblicazione della Teoria generale di Keynes. Lo stesso Keynes collegò esplicitamente la sua
analisi della domanda effettiva ad un lungo dibattito che ebbe luogo tra Ricardo e Malthus. Una
breve digressione su questo famoso dibattito può esserci d‘aiuto.

3.1.1. MALTHUS E LA DOMANDA EFFETTIVA

I Principi di economia politica di Malthus uscirono nel 1820 come risposta a Ricardo. Tra le
proposizioni che Malthus attaccava c‘era quella tradizionale secondo la quale «ogni uomo frugale
è un pubblico benefattore». Malthus ribatteva che «il principio del risparmio, spinto all‘eccesso,
distruggerebbe lo scopo della produzione»,ed aggiungeva che « se la produzione eccedesse di
molto il consumo, allora non ci sarebbe più motivo di accumulare e produrre, per mancanza di
domanda effettuale ». Su queste basi, Malthus passava a difendere il consumo improduttivo dei
proprietari terrieri come rimedio agli «ingorghi di mercato » (market gluts), e metteva in guar-
dia contro le disastrose conseguenze di un' «eccessiva parsimonia e frugalità ». Malthus trattò il
problema in modo esteso e lo sintetizzò nella forma di due quesiti: «primo, se l'incentivo ad
accumulare possa essere annullato dalla mancanza di domanda prima di esserlo per le
difficoltà di procurare i mezzi di sussistenza; e, secondo, se ta le ostacolo sia probabile
». La risposta di Malthus era positiva per entrambi i quesiti e la sua prescrizione conseguiva
immediatamente: «possiamo concludere che è necessario mantenere un certo numero di
lavoratori improduttivi quale stimolo per la ricchezza ».

Ricardo non riuscì mai a cogliere il senso di queste argomentazioni. Per lui il risparmio era
associato ai capitalisti e pertanto signi ficava la medesima cosa dell'accumulazione di
capitale. Nella disputa, diventò molto facile per lui far ricorso all'autorità del più famoso economista
francese del tempo, Jean Baptiste Say, il quale aveva enunciato che ogni produzione genera la
propria domanda: ciò che da allora è divenuto universalmente noto col nome di «legge
degli sbocchi » o anche di «legge di Say ». Sfortunatamente, Malthus non seppe rispondere
efficacemente. Malthus mancava di quel minimo di strumenti analitici che sarebbero
stati necessari per dare forza alle sue idee. Non riuscì neppure a porre efficacemente in rilievo
l'elemento che era assolutamente necessario per la validità delle sue argomentazioni, e
cioè la distinzione tra risparmio dei proprietari terrieri e accumulazione di capitale dei
capitalisti.

La controversia si trascinò a lungo e alla fine si esaurì in una sterile disputa sulla durata temporale
del fenomeno in discussione'. Ricardo e Malthus rimasero, naturalmente, ciascuno della propria o-
pinione originaria. Ma furono le teorie ricard iane, più solide sul piano analitico, a
convincere gli economisti del tempo. Né fu di alcuna utilità per Malthus appellarsi all'evidenza
concreta dell'esperienza di ogni giorno o porre in rilievo l'importanza pratica della sua teoria
(come appunto viene fatto nel titolo stesso del suo libro). Prevalse la teoria logicamente e
analiticamente più robusta Un secolo più tardi, all'apice del suo entusiasmo per Malthus,
Keynes poteva esclamare: « Se soltanto Malthus, anziché Ricardo, fosse stato il ceppo dal quale
la teoria economica del diciannovesimo secolo si è sviluppata, come sarebbe più ricco e saggio il
mondo oggigiorno! » . Ma l'ipotetico auspicio di Keynes era illusorio. Le argomentazioni di
Malthus sulla domanda effettiva erano analiticamente troppo deboli e povere; esse non avrebbero
mai potuto sopportare il peso della teoria economica del diciannovesimo secolo. Ciò che sarebbe
stato necessario fin dall'inizio era una teoria completa e logicamente coerente che potesse
incorporare le idee che Malthus aveva saputo esprimere solo in modo intuitivo. Ciò lo si è avuto
soltanto un secolo più tardi con Keynes.

3.1.2. IL PRINCIPIO DELLA DOMANDA EFFETTIVA

Il principio fondamentale che è rimasto in ombra tanto a lungo, e che possiamo chiamare « il
principio della domanda effettiva », può essere esposto subito in forma molto concisa.

Fra le caratteristiche di una società industriale, rispetto a società (agricole) più primitive, ce n'è
una che ci obbliga a fare una distinzione netta tra capacità produttiva e produzione effettiva. Nelle
società (agricole) primitive, ciascun agricoltore cerca sempre di produrre al massimo delle sue
capacità, per poi portare al mercato quella parte della sua produzione che eccede i suoi
fabbisogni. E al mercato egli accetterà quel prezzo che scaturisce dal gioco della domanda dei
compratori e dell'offerta, ormai fissa, dei venditori. In una società industriale le cose non vanno in
questo modo. In ogni dato momento, la capacità produttiva è sì quella che è, senza possibilità di
immediate variazioni. Ma capacità produttiva non significa necessariamente produzione; significa
soltanto produzione potenziale. Affinché ci possa di fatto essere produzione, e quindi offerta, ci
deve essere domanda effettiva.

Il concetto può essere espresso con l'ausilio di un noto diagramma introdotto da Alvin Hansen t°,
nel quale la produzione netta totale (o reddito nazionale netto, Y) è riportato sull'asse delle
ascisse e la domanda effettiva (D) sull'asse delle ordinate, e sul quale è tracciata una linea retta
a 45° ( cfr. Figura 11.1).

Fig. 11.1

Fino al punto Y - che si suppone rappresenti il livello di piena utilizzazione della capacità produttiva
- la produzione netta (sia essa Y' o Y") risulterà esattamente uguale al livello della domanda to-
tale, qualunque essa sia (cioè D' o D"). Molto semplicemente: la domanda genera produzione, cioè
reddito. Se i produttori dovessero attendersi una riduzione della domanda, essi ridurrebbero la
produzione in maniera corrispondente, e ciò indipendentemente dal livello della loro capacità
produttiva. Essi opererebbero esattamente nel modo inverso qualora si attendessero un aumento
della domanda. Pertanto, fino a che c'è capacità produttiva inutilizzata da impiegare, le fluttuazioni
della domanda generano fluttuazioni della produzione, mentre i prezzi rimangono più o meno
inalterati. È soltanto quando la domanda supera il punto Y - corrispondente al livello di piena
utilizzazione della capacità produttiva - che la produzione fisica rimarrà vincolata al livello Y, e che
un aumento della domanda potrà causare aumenti di prezzi (un movimento inflazionistico). Il
processo di formazione del reddito proseguirà, comunque, allo stesso modo di prima, con la
differenza sostanziale che gli incrementi di reddito saranno soltanto in termini monetari, dal
momento che la produzione in termini reali non può eccedere quel volume massimo che è reso
possibile dalla capacita produttiva esistente .

Si deve ancora sottolineare che tutto ciò va riferito ad una società industriale (in
contrapposizione al caso di una società più primitiva di tipo artigianale ed agricolo, nella
quale le fluttuazioni della domanda generano normalmente fluttuazioni dei prezzi, ad un livello di
produzione dato). Quali siano poi le cause di questo comportamento tipico di un sistema
economico industrializzato è un problema che richiederebbe troppo spazio per essere esaminato
in questa sede e che d'altro canto non è stato fino ad ora analizzato in maniera esauriente
nemmeno dagli stessi economisti. I fattori chiamati in causa possono essere molti, e tutti agenti in
maniera cumulativa: viscosità dei prezzi dovuta a situazioni oligopolistiche, meccanismi di forma-
zione dei prezzi basati sul principio del costo pieno, salari fissati contrattualmente, ecc., e molti
altri fattori che vanno continuamente evolvendosi. In contrapposizione a ciò che avviene in società
più primitive, la caratterizzazione più importante rimane comunque quella che, fra tutti i fattori che
concorrono alla determinazione dei prezzi, le fluttuazioni della domanda sono divenute di
rilevanza secondaria. Pertanto, essendo diventato inoperoso il tradizionale meccanismo di
reazione basato sulle variazioni dei prezzi, è entrato in funzione un altro meccanismo di reazione:
a variazioni della domanda, i produttori rispondono variando la produzione.

Ciò ha conseguenze molto importanti. Variazioni nella produzione comportano variazioni nel
grado di utilizzazione della capacità produttiva esistente e quindi nel livello di occupazione del
lavoro. Una caduta della domanda totale genera recessione e disoccupazione; un'amara
realtà questa, che è così spesso sperimentata nelle economie capitaliste. Ci sono macchine e ci
sono lavoratori in grado di farle funzionare, ma il tutto rimane inattivo per insufficienza di domanda
effettiva.

3.1.3. IL PUNTO DI DOMANDA EFFETTIVA

Keynes definisce ―punto di domanda effettiva‖ il punto d'incontro di due curve, una funzione di
offerta aggregata e una funzione di domanda aggregata. L'aspetto da sottolineare è che queste
due curve sono concettualmente diverse dalle tradizionali curve d'offerta e di domanda. A prima
vista, si tratta ancora di due funzioni che pongono in relazione prezzo e quantità; in realtà si tratta
di due funzioni che collegano il numero di lavoratori occupati con le valutazioni degli imprenditori
sui costi da un lato e sui ricavi dall'altro lato. Più precisamente, la funzione aggregata d'offerta
collega N, il numero dei lavoratori occupati, indicato sull'asse delle ascisse, a una variabile Z,
riportata sull'asse delle ordinate, e definita come «il prezzo d'offerta
aggregato del prodotto ottenuto dall'impiego di N uomini», mentre la funzione aggregata di
domanda collega N a una variabile D (riportata come Z sull'asse delle ordinate), definita come «i
ricavi che gli imprenditori si attendono di ricevere dall'impiego di N uomini».

In altri termini, Z indica il ricavo minimo complessivo necessario a persuadere gli imprenditori a
dare lavoro a N lavoratori. Per ogni dato valore di N, Z è quindi pari al costo complessivo che gli
imprenditori si attendono di dover sostenere se impiegano N lavoratori. Il costo complessivo
ovviamente include non solo i salari ma anche i costi per le materie prime e i costi generali come
quelli per l'ammortamento dei capitali fissi, maggiorati di un profitto sufficiente a indurre gli
imprenditori a continuare la loro attività. Viceversa D indica 'quanto gli imprenditori si attendono di
ricavare vendendo sul mercato il prodotto che sperano di ottenere con l'impiego di N lavoratori.
Entrambe le curve, quindi, esprimono il punto di vista - le valutazioni - di una stessa categoria di
soggetti economici, gli imprenditori, non di due gruppi contrapposti di acquirenti e venditori
(consumatori e produttori) (11).

Sia i costi sia i ricavi attesi crescono al crescere del numero dei lavoratori occupati. Pertanto
entrambe le funzioni sono crescenti, cioè sia Z sia D crescono al crescere di N. Tuttavia Z cresce
sempre più rapidamente (derivata seconda positiva), mentre D cresce sempre più lentamente
(derivata seconda negativa). Questo andamento può avere varie giustificazioni. Per quanto
riguarda la domanda effettiva D, Keynes ricorda che essa è costituita da due componenti, consumi
e investimenti; per una `legge psicologica i primi aumentano più lentamente del reddito, e quindi
dell'occupazione; i secondi invece dipendono dalle aspettative di lungo periodo degli imprenditori e
possono essere considerati dati nel contesto della determinazione del punto di domanda effettiva.
Per quanto riguarda Z, nel contesto marshalliano della teoria di Keynes è naturale supporre che
all'aumentare del numero di lavoratori impiegati (mentre, dato il contesto di breve periodo, si
suppone resti invariata l'attrezzatura produttiva) il costo marginale risulti crescente (12).

11
E‘ chiaro che la costruzione keynesiana lascia aperto il problema della costruzione di curve aggregate, riferite alle valutazioni
dell'insieme degli imprenditori e non di un imprenditore singolo.

12
Ciò implica una relazione inversa tra salario reale e occupazione analoga a quella postulata da tutte le versioni della teoria
marginalista. Si tratta di un assunto che Keynes deriva da Marshall, il quale sosteneva che nel corso del ciclo il salario reale aumenta
nelle fasi di crisi e diminuisce nelle fasi di ripresa. Nella teoria marginalista, com'è noto, quest'assunto gioca un ruolo centrale perché su
esso si basa il meccanismo di aggiustamento che assicura la tendenza automatica verso l'equilibrio di piena occupazione. Nella teoria
keynesiana, che rifiuta questo meccanismo di aggiustamento, l'assunto di una relazione inversa tra salario reale e occupazione non è
essenziale, e può essere tranquillamente abbandonato, come di fatto Keynes si dimostrò dispostissimo a fare di fronte alle critiche
`empiriche' di Dunlop (1938) e Tarshis (1939). Anzi, com'è ovvio, l'abbandono di quell'assunto (sulla scia di una ragguardevole mole di
evidenza empirica sulla prociclicità dei movimenti del salario reale) rafforza la critica keynesiana alla tesi di una tendenza automatica
verso l'equilibrio di piena occupazione.
Il ‗punto di domanda effettiva' è quello in corrispondenza del quale D = Z. Esso ci dice dunque qual
è il livello di equilibrio atteso dell'occupazione, e quindi della produzione, date le aspettative di
breve periodo degli imprenditori su costi e ricavi (13). Nell'ipotesi che le

aspettative di breve periodo siano realizzate, al centro dell'analisi viene posto il concetto di
domanda aggregata e i suoi elementi costitutivi, cioè consumi e investimenti.

3.2. LA TEORIA GENERALE

La teoria keynesiana della determinazione dell'occupazione e del reddito, nonostante le


incomprensioni e le oscurità che l'attorniarono al tempo della sua pubblicazione, può oggi essere
espressa in maniera semplice ed efficace.

Una volta che sia stato capito (si veda il precedente paragrafo 2) il processo fondamentale di
generazione del reddito per effetto della domanda effettiva, è naturale andare oltre a indagare
quali siano le determinanti della domanda effettiva. Keynes, in maniera tipicamente classica, divide
le persone in due ampie categorie: i consumatori e i produttori. La domanda effettiva totale è
pertanto la somma della domanda per beni di consumo (C) e della domanda per beni di inve-
stimento (I). E poiché la domanda effettiva genera reddito, possiamo semplicemente scrivere

(1) Y=C+I.

È necessario, a questo punto, formulare una teoria del consumo e una teoria degli
investimenti.

Il consumo viene semplicemente considerato come dipendente dal reddito. Keynes afferma
che i consumatori, nel complesso e in media, tendono a spendere soltanto una parte - più
precisamente una frazione decrescente - di ogni incremento di reddito. Pertanto:

13
Esso quindi non va interpretato come un punto di equilibrio tra le due forze opposte della domanda e dell'offerta, tanto meno come un
equilibrio stabile. Per procedere in questo senso, come ha fatto per lungo tempo la totalità dei manuali di macroeconomia, occorre
sostituire alle valutazioni degli imprenditori una funzione di domanda aggregata (consumi più investimenti, nel caso semplificato di
economia chiusa ai rapporti con l'estero) contrapposta alla funzione di offerta aggregata (produzione). A sinistra del punto di equilibrio la
domanda aggregata supera l'offerta e si ha una decumulazione delle scorte; gli imprenditori sono allora indotti ad aumentare la
produzione, spostandosi così in direzione del punto di equilibrio. In questa situazione è usuale distinguere tra investimenti ex post (che
includono la variazione non desiderata delle scorte, e sono quelli rilevati nelle statistiche di contabilità nazionale) e investimenti ex ante
(quelli programmati dagli imprenditori). Nel caso dei primi, l'e-guaglianza con i risparmi è una identità contabile; quando ci si riferisce ai
secondi, in vece, l'identità contabile diviene una condizione di equilibrio che può essere o meno verificata, e abbiamo una teoria diretta
a spiegare il livello di equilibrio dell'occupazione. Tutto ciò costituisce una riformulazione della teoria keynesiana in un contesto che può
essere affine, ma certo non coincide, con quello originario. Il collegamento può essere realizzato tramite l'ipotesi che le aspettative di
breve periodo siano sempre realizzate. In tal modo le aspettative escono di scena; resta comunque la tesi keynesiana secondo cui
l'offerta (la produzione) si adegua alla domanda.
(2) C = f (Y) ,

con le proprietà:

0 < f’ < 1 , f” < 0 ,

dove f’ rappresenta la «propensione marginale al consumo» ed il suo complemento all'unità, (1 –


f’ ), la «propensione marginale al risparmio».

Impiegando, per semplicità, un'approssimazione lineare, la (2) può anche essere scritta nel
modo seguente:

(2bis) C = A+aY,

dove: A è una costante positiva; a è la propensione marginale al consumo (e 1 — a ≡ s,


la propensione marginale al risparmio).

Per quanto riguarda gli investimenti la teoria di Keynes si distacca decisamente dalla teoria
tradizionale nella quale non si fa distinzione alcuna tra domanda per beni consumo e domanda
per beni di investimento. Gli investimenti non vengono messi affatto in relazione col reddito. In ogni
data situazione di breve periodo (con una data tecnologia ed una data struttura del capitale),
l'ammontare totale degli investimenti dipende dalla redditività attesa di tutti i progetti di
investimento che sono possibili e dal saggio di interesse. Si può immaginare che gli imprenditori
cataloghino tutti i possibili progetti di investimento in ordine di redditività decrescente e quindi che
realizzino gli investimenti fino al punto in cui il saggio di profitto atteso dall'ultimo progetto
(chiamato «efficienza marginale del capitale») sia appena maggiore, o al minimo eguale, al saggio
di interesse corrente, quale espressione del costo dei prestiti (cfr. la figura II.2).

Saggi di profitto attesi

e saggio di interesse

Saggio di interesse

Redditività attesa dei progetti di


investimento

0
Fig. II.2 I
In sintesi, si può scrivere:

(3) I = φ (E , i) ,

dove: E rappresenta la redditività attesa decrescente degli investimenti nelle date condizioni; i è il
saggio di interesse.

A questo punto, però, è entrata in scena una nuova variabile: il saggio di interesse, che era
stato accuratamente escluso dalle precedenti relazioni. Keynes viene così indotto, proprio dalla
logica del suo schema teorico, a ricercare una nuova teoria del saggio di interesse. Egli sostiene
che, per una serie di ragioni (che egli riconduce alla necessità di effettuare le transazioni correnti e
ai motivi precauzionali e speculativi), esiste per ogni livello del saggio di interesse una certa
quantità di moneta che la gente desidera trattenere. Questa quantità di moneta - la domanda di
moneta - è inversamente correlata al saggio di interesse e tende all'infinito prima che il saggio di
interesse diventi nullo (la «funzione di preferenza per la liquidità»). Data questa relazione, il saggio
di interesse sarà dunque determinato dalla quantità di moneta M* emessa dall'Autorità Centrale;
un fenomeno questo puramente monetario (cfr. la figura II.3).

0 M* M
Fig. II.3

In sintesi, possiamo scrivere:

(4) i = φ (L , M*) ,

dove: L rappresenta la funzione decrescente di preferenza per la liquidità; M* la quantità di moneta


emessa dall'Autorità Centrale.

Per concludere, date le curve del consumo, dell'efficienza marginale del capitale e della
preferenza per la liquidità, e data la quantità di moneta M* fissata esogenamente, le quattro
equazioni (1), (2), (3), (4) determinano le quattro incognite Y, C, I, i.

Le equazioni (3) e (4) sono un modo semplificato, ma efficace, di rappresentare la


determinazione di I e di i nella teoria keynesiana. Una formalizzazione più particolareggiata
potrebbe consistete nello scrivere ciascuna di esse come un insieme di due equazioni, la seconda
delle quali sia una relazione di equilibrio. Più precisamente:
(3a) I = E (r)

(3b) r=i

(4a) M = L (i)

(4b) M = M* .

dove r è il saggio di profitto atteso e M è la domanda di moneta. In questo caso diremmo che le 6
equazioni (1), (2), (3a), (3b), (4a), (4b) determinano le 6 incognite: Y, C, I, i, r, M.

E‘ comunque importante sottolineare che queste equazioni intendono sempre rappresentare


una prima approssimazione della teoria keynesiana. Non si dovrebbe fare troppo affidamento su di
esse quando si considerino situazioni molto distanti dai punti di equilibrio. Si dovrebbe inoltre stare
attenti quando si conducono argomentazioni che implicano spostamenti di qualche curva, giacché
gli spostamenti di una qualsiasi di queste curve non sono indipendenti dagli spostamenti delle
altre.

La novità importante di questo schema, rispetto alle precedenti teorie, è di mostrare che non
c'è alcuna ragione perché il livello del reddito nazionale netto debba essere esattamente quello
che assicurerebbe la piena utilizzazione della capacità produttiva e la piena occupazione della
forza lavoro. Quando il sistema è lasciato a se stesso, soltanto per puro caso può capitare che
esso raggiunga quel punto, sulla retta a 45° dall'origine, che corrisponde alla piena occupazione.In
effetti, Keynes considera sempre come ―normale‖ una situazione in cui non vi è piena
occupazione, come è mostrato nella figura 4: la domanda di consumo è una funzione del reddito e
la domanda di investimenti - determinata indipendentemente dal reddito - è semplicemente
addizionata al consumo. L'equilibrio si ha nel punto (β, nella figura II.4) dove C + I interseca la
linea retta a 45° dall'origine. A questo punto, la domanda globale eguaglia la produzione totale.
Pertanto esiste sì un equilibrio tra domanda aggregata ed offerta aggregata, ma si tratta di un
equilibrio di sottoccupazione. La differenza (Y* - Y') sta ad indicare capacità inutilizzata e
disoccupazione 20. Questo è il tipo di disoccupazione (dovuta a insufficienza di domanda effettiva),
che è divenuto ormai noto col nome di disoccupazione «di tipo keynesiano».
D

C+1
C

_
(1 - a)
(Y – Y‘)
β

45 _
0 ° Y‘ Y
Y
Fig. II.4

Va notato che in tutta l'analisi di Keynes, capacità non utilizzata e disoccupazione sono sempre
impiegate come sinonimi, poiché, nel breve periodo, esse possono essere considerate
proporzionali l'una all'altra.

Ma la notevole rilevanza pratica di questa analisi è che essa non solo offre una chiara diagnosi di
una delle maggiori deficienze del sistema capitalistico.

Se la (2) viene sostituita nella (1), e f (Y) viene sviluppata in serie di Taylor (trascurando i
termini di ordine più elevato), si ottiene:

(5 ) Y (l - f ') = I ,

e pertanto:

(6) d Y = (1/1 – f ‘) d I

o, nel caso di una funzione lineare del consumo come la (2bis),

(7) d Y = (1/1 – a) d I

Questa è una relazione notevole. Essa ci dice che ogni incremento nel flusso dei nuovi
investimenti (d I) genererà un‘incremento nel flusso del reddito netto che è 1/(1 - f ‘) volte più
grande (1/(1 - a) volte più grande nel caso lineare). L'espressione 1/(1 - f ‘) [o 1/(1 - a)] è stata
pertanto chiamata «il moltiplicatore».
Per dare un'idea dell'ordine di grandezza, se la propensione marginale al consumo è pari all‘
80%, il moltiplicatore è 5: e ciò significa che ogni dato aumento di investimenti genererà un
aumento di reddito cinque volte più grande. Nella versione qui considerata, nella quale non ci sono
funzioni con ritardi temporali, tutti gli effetti si manifestano in modo immediato (moltiplicatore
«istantaneo») e senza complicazione alcuna. Una volta che tutto ciò sia stato compreso, diventa
chiaro come non sia affatto necessario che l'aumento della domanda effettiva provenga dagli in-
vestimenti. Qualsiasi aumento della domanda effettiva genererà esattamente i medesimi effetti
moltiplicativi. Pertanto, qualora l'investimento corrente fosse troppo basso per realizzare la piena
occupazione, il governo potrebbe sempre intervenire con la spesa pubblica (mediante una politica
di disavanzo di bilancio) ed operare un'aggiunta netta alla domanda effettiva. È pertanto possibile
pervenire alla piena occupazione mediante l'intervento del governo.

Come si può vedere dalla figura 4, darà una qualsiasi funzione C + I , esiste un ammontare di
spesa pubblica addizionale - eguale a (1 — a) (Y *- Y') - che, se realizzata, porterà il sistema al
punto che corrisponde alla piena occupazione.

3.3. CARATTERISTICHE RICARDIANE DELL‘ANALISI DI KEYNES

Possiamo ora esaminare brevemente gli strumenti analitici usati da Keynes. La caratteristica
più sorprendente, che emerge immediatamente, è la netta rottura con la tradizione, allora vecchia
di sessanta anni, della teoria economica marginalista e il ritorno di Keynes ai metodi di analisi degli
economisti precedenti: gli economisti classici dell'inizio dal diciannovesimo secolo.

La concezione d'assieme di un sistema economico che forma il supporto delle equazioni (1)-
(4) è tipicamente classica. L'uso di variabili macroeconomiche, la divisione di tutti i soggetti
economici in ampie categorie (consumatori e imprenditori, nel caso di Keynes), la ricerca delle
determinanti del saggio di interesse - e per implicazione della distribuzione del reddito - in una
sfera esterna a quella della produzione: tutte queste sono caratteristiche ereditate dall'analisi
economica classica. Persino la funzione dell'efficienza marginale del capitale, che potrebbe, ad un
primo e superficiale sguardo, apparire come appartenente all'analisi economica marginale, rivela,
ad un esame più attento, origini alquanto diverse. L'ordinamento che Keynes fa di tutti i progetti di
investimento in ordine decrescente di redditività è più simile all'ordinamento che fa Ricardo di tutte
le terre in ordine decrescente di fertilità che non ad una qualsiasi elaborazione economica
marginalista. In ogni caso, non c'è alcuna necessità di considerare la funzione keynesiana
dell'efficienza marginale del capitale come un'espressione della teoria della produttività marginale
del capitale. Quest'ultima teoria comporta necessariamente una relazione monotonica inversa tra
l'intensità di capitale e il saggio di interesse. Ma questo non è proprio il caso dell'ordinamento
keynesiano dei progetti d'investimento (cioè della figura 3 di cui sopra). In una situazione
recessiva, l'ultimo progetto ad essere realizzato potrebbe benissimo essere quello che tra tutti ha
l'intensità di capitale più bassa e comportare perciò una diminuzione (non un aumento)
dell'ammontare medio di capitale per unita di lavoro impiegato.

Scendendo ad un confronto più specifico, le somiglianze analitiche che sono più evidenti sono
quelle con lo schema ricardiano. Nonostante il comprensibile entusiasmo di Keynes per Malthus
(in virtù del rilievo che quest'ultimo diede alla domanda effettiva) e nonostante le frequenti e severe
critiche di Keynes per Ricardo, è sostanzialmente il metodo di analisi ricardiano che Keynes ha
21
riportato alla ribalta . L'indizio più significativo ne è l'immediatezza con cui Keynes procede nella
scelta delle sue supposizioni. Come Ricardo, egli è sempre alla ricerca degli elementi
fondamentali; dà rilievo alle variabili che ritiene più importanti e « congela » tutte le altre, che
danno origine a complicazioni non rilevanti, mediante ipotesi semplificatrici, sebbene, come egli
afferma, le tenga sempre «nel fondo delle nostre menti» per le necessaire riserve e qualificazioni
22
.

La conseguenza tipica di questo modo di procedere è l'emergere in Keynes, come in Ricardo,


di un sistema di equazioni di «tipo causale» o, come si usa anche dire, di «tipo decomponibile», in
contrapposizione ai sistemi di equazioni simultanee o sistemi interdipendenti della teoria
marginalista. Se ritorniamo alle equazioni (1)-(4), noteremo in esse una successione logica ben
definita nella determinazione delle variabili (anche se alcune di queste possono formare tra di loro
dei sottosistemi interdipendenti di dimensioni più ridotte). Se si indica l'ordine causale 23 con una
freccia, possiamo infatti scrivere:

Y=C+I Y
Ψ ( L , M*) i φ (E , i) I
C = f (Y) C

In altre parole, la funzione φ determina i, indipendentemente da ogni altra relazione. Quindi,


dato i, la funzione φ determina I, indipendentemente da ogni altra relazione; e infine, dato I, le
equazioni (1) e (2) formano assieme un sotto-sistema interdipendente più ridotto, che determina
simultaneamente Y e C.

In contrapposizione all'atteggiamento - così comune ai teorici del marginalismo - che «ogni


cosa dipende da tutte le altre», Keynes (come Ricardo) assume l'atteggiamento opposto, secondo
cui diventa uno dei compiti propri dello stesso teorico quello di specificare quali variabili siano
sufficientemente interdipendenti da poter essere meglio rappresentate mediante relazioni
simultanee, e quali invece mostrino una tale predominante dipendenza in una direzione (ed una
così scarsa dipendenza nella direzione opposta) da poter essere meglio rappresentate da relazioni
24
unidirezionali .

L'esempio più notevole della fecondità di questo metodo è dato da quel magistrale tratto di
analisi keynesiana che ha risolto il problema della relazione tra investimenti e risparmi. Su questo
argomento Keynes aveva sfidato uno dei principi più consolidati della teoria tradizionale, secondo
il quale risparmi e investimenti sono entrambi funzione del saggio di interesse e sono quindi
determinati simultaneamente dal formarsi di quel saggio di interesse che li rende eguali. La teoria
alternativa di Keynes emerge dalle equazioni (1)-(4) sopra considerate. Gli investimenti sono
determinati secondo le (3) e (4), indipendentemente da ogni altra relazione. Le equazioni (1) e (2)
determinano poi Y e C. Ma poiché il risparmio totale S è, per definizione:

(10) S=Y–C ,

ne consegue che:

(11) S=I
nel senso che I → S.

Il risparmio totale è, per così dire, una variabile del tutto passiva, che risulta uguale agli
investimenti totali, quali che possano essere le decisioni di risparmio. Dall'analisi di Keynes, che è
svolta in termini del moltiplicatore istantaneo, questo risultato emerge con immediatezza. Ma lo
stesso risultato è confermato, e reso anche più evidente, dall‘impiego del «moltiplicatore ritardato»,
che implica una lunga serie di stadi successivi, in ciascuno dei quali le decisioni di risparmio si
adattano a quelle di investimento, per il tramite delle variazioni nel reddito. In tutto questo processo
- tanto fuori dalla posizione di equilibrio, quanto nella posizione di equilibrio - i risparmi effettivi
sono sempre, e ad ogni singolo stadio intermedio, eguali all'ammontare pre-determinato degli
investimenti.

L'importanza pratica di questi risultati è stata decisiva per l'accettazione generale della teoria
di Keynes. Mentre la teoria economica tradizionale, posta di fronte ai gravi fenomeni recessivi, era
stata incapace, all'interno delle sue complicate interdipendenze, di discriminare tra ciò che è
importante e ciò che non lo è, e aveva dato indicazioni che nel migliore dei casi erano
inconcludenti e talvolta completamente sbagliate; Keynes fu invece in grado di dare indicazioni
precise, chiare, ed estremamente efficaci su ciò che è necessario fare per far uscire un sistema
economico dal morso della depressione. È così diventato il più influente economista del nostro
tempo.

21
Schumpeter aveva colto molto chiaramente questo aspetto quando scriveva: «L'analogia dei fini e dei metodi di questi
due uomini insigni, Keynes e Ricardo, è infatti sorprendente, anche se non riuscirà ad impressionare coloro i quali
guardano prima di tutto alle misure proposte dagli scrittori. A questo riguardo c'è naturalmente un abisso tra Keynes e
Ricardo, e le opinioni di politica economica di Keynes rassomigliano mollo di più a quelle di .Malthus, Qui però io parllo di
metodi adoperati da Ricardo e da Keynes per ottenere il risultato finale. E su questo punto essi furono fratelli in spirito» .
(J. A Schumpeter, History of Economic Analysis, New York, 1954, p. 473 nota; [trad. it., Storia dell'analisi economica, 3
voll., Torino, Einaudi, 1959, vol. II, p. 575 nota]).
22
Cfr. la descrizione fatta da Keynes di questo procedimento in contrapposizione con i «metodi simbolici pseudo-
matematici usati per formalizzare un sistema di analisi economica», nella General Theory (trad. it. , p. 265).
23
Poiché i termini «causa» ed «effetto». hanno dato luogo a dispute epistemologiche tanto accese, può essere utile
porre esplicitamente in rilievo che non c'è alcuna necessità in questa sede di inoltrarci su un terreno controverso.

Il termine «ordinamento causale» è qui semplicemente usato nel senso di una relazione asimmetrica tra alcune variabili;
più precisamente, come indicante una direzione univoca in cui, in senso formale, le variabili del sistema vengono de-
terminate. Questo significato formale e non controverso dal termine «ordinamento causale» è stato sottolineato ed
illustrato ampiamente da Herbert Simon, Causal Qrdering and Identifiability, in Studies in Econometric Methods, a cura di
W. C. Hood e T. C. Koopmans, New York, 1953, pp. 49-74. Mi sono occupato anch'io di questi problemi in Causalità e
interdipendenza nell'analisi econometrica e nella teoria economica, in «Annuario dell'Università Cattolica del S. Cuore,
1964-65», Milano, Vita e Pensiero, 1966, pp. 233-250.
24
Schumpeter, la cui ammirazione non era certo né per Ricardo né per Keynes (ma piuttosto per Walras), ha trovato
questo metodo di analisi cosi contrario al suo senso estetico di simmetria da denominarlo «vizio ricardiano» (J. A.
Schumpeter, op. cit., p. 473 [trad. it., p. 575]). Ma non c'è alcuna giustificazione per un tale giudizio negativo. L'estetica
non è necessariamente il miglior criterio da impiegare nell'analisi economica, ed ancor meno nella politica economica.

4. LA TEORIA DEL CIRCUITO MONETARIO


Il rinnovamento dell'analisi macroeconomica, in contrapposizione al successo della scuola
neoclassica, è opera di un ristretto gruppo di economisti di alto profilo teorico, succedutisi nella
prima metà del novecento: Knut Wicksell, Joseph Schumpeter, Michal Kalecki. Per tutti costoro
un lontano predecessore, che anticipò le loro tesi di quasi un secolo, è T.R. Malthus. L‘opera di
questi studiosi trova sbocco nella Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse, e della moneta
di J.M. Keynes che, pubblicata nel 1936, viene riconosciuta unanimemente come la pietra miliare
della macroeconomia moderna.

Abbiamo visto come la teoria neoclassica consideri il processo economico come un grande
scambio, che si svolge in un mercato di concorrenza e al quale partecipano tutti i soggetti in
posizioni di sostanziale parità, anche se dotati di mezzi di produzione e di redditi diversi.

Il rinnovamento della teoria macroeconomica parte dall'assunto opposto, e cioè che la società
non possa essere interpretata come un insieme di singoli operatori posti su un piede di
eguaglianza e che, ai fini di comprendere iI funzionamento del sistema economico, sia
indispensabile tenere conto delle differenze che corrono fra gruppi sociali.

Gli economisti classici partivano dall'osservazione della società in cui vivevano, e


conseguentemente ragionavano sulla base di tre classi sociali: proprietari fondiari, imprenditori
capitalisti e lavoratori salariati. Karl Marx, invece, divideva la società in una classe proprietaria,
che dispone dei mezzi di produzione (non soltanto terra ma anche beni capitali e mezzi di
produzione in generale) e una classe lavoratrice in grado di contare soltanto sulla forza delle
proprie braccia.

Al giorno d'oggi, l'analisi tiene conto della caratteristica tipica dell'economia moderna di essere
un'economia monetaria. Mentre in passato il requisito essenziale per realizzare un'attività
produttiva poteva essere quello di possedere mezzi di produzione, oggi la risorsa indispensabile
per l'imprenditore è il credito bancario. Infatti non mancano economisti che distinguono, nella
struttura economica moderna, tre grandi gruppi sociali: le banche che forniscono il credito, gli
imprenditori che, grazie al credito bancario, sono posti in grado di acquistare lavoro e mezzi di
produzione e dare avvio a un'attività produttiva, e i lavoratori salariati che possono soltanto
cedere il proprio lavoro in cambio di un salario.

Questo modo di vedere la struttura sociale di un'economia moderna conduce a una descrizione
diversa dell'intero processo economico. Per la scuola neoclassica, come abbiamo visto, esso si
articola in tre fasi: una fase di trattative, cui segue la produzione e, infine, un insieme di scambi
simultanei, i quali avvengono tutti ai prezzi di equilibrio. Nella macroeconomia moderna il
processo economico viene visto come una successione di fasi distinte, ciascuna delle quali è
l'antecedente necessario della successiva. Secondo questo modo di vedere, affinché il processo
produttivo abbia luogo occorre anzitutto che l'imprenditore decida di acquistare lavor o, assu-
mendo lavoratori alle sue dipendenze e utilizzi il lavoro acquistato per la fabbricazione di merci.
Ma affinché l'imprenditore possa acquistare lavoro, occorre che egli ne abbia i mezzi necessari;
poiché ci muoviamo in un'economia monetaria, è necessario che egli disponga di un ammontare
adeguato di moneta. Il primo atto del processo economico è dunque un atto di finanziamento,
con il quale il sistema bancario mette a disposizione dell'imprenditore un dato ammontare di
liquidità. Con la liquidità così ottenuta, l'imprenditore può acquistare lavoro in cambio di salari.
L'imprenditore può utilizzare la liquidità anche per acquistare altri mezzi di produzione, quali ma-
terie prime, semilavorati, macchinari; ma in questo caso la liquidità rimane all'interno del settore
delle imprese; se per semplicità, immaginiamo di considerare il settore delle imprese come un
tutto unitario, l'unico esborso verso l‘esterno che le imprese compiono serve ad acquistare forza
lavoro. La liquidità originariamente ottenuta dal settore bancario si tramuta quindi in salari nelle
mani dei lavoratori.

Una volta ottenuta la disponibilità del lavoro, gli imprenditori se ne servono per la produzione di
merci, che possono essere beni di consumo o beni di investimento. I beni di consumo vengono
venduti ai lavoratori e per questa via le imprese rientrano in possesso di una parte del monte
salari erogato. Nel caso estremo in cui i lavoratori spendano il loro reddito per intero per
l'acquisto di beni di consumo, le imprese riacquistano tutta la liquidità erogata per il monte
salari. Nei casi normali, tuttavia, questa circostanza non si verifica e i lavoratori destinano una
parte del proprio reddito al risparmio. Per rientrare in possesso anche della frazione di reddito
risparmiata, le imprese possono emettere titoli nei mercati di borsa, sotto forma di azioni o
obbligazioni. Allorché i lavoratori destinano il loro risparmio all'acquisto di titoli emessi dalle
imprese, anche questa frazione del risparmio torna nelle mani delle imprese. Le somme così
riacquistate dalle imprese possono essere utilizzate per rimborsare il debito inizialmente
contratto con le banche.

Il rimanente del risparmio, quello che i salariati trattengono presso di sé sotto forma di scorte
liquide, vuoi direttamente in biglietti di banca vuoi sotto forma di depositi bancari, non ritorna
nelle mani delle imprese che, nella stessa misura, rimangono debitrici nei confronti delle banche.

A questo punto rimane un'ultima difficoltà. Le imprese, vendendo beni di consumo, hanno
recuperato la liquidità iniziale: ciò consente loro di ripagare il capitale preso a prestito,

ma non gli interessi. Per pagare gli interessi, esse devono acquisire una quantità di moneta
superiore rispetto a quella che hanno ricevuto inizialmente dal settore bancario. Per ottenerla,
non vi è altro mezzo se non quello di vendere, oltre ai beni di consumo, anche una parte dei beni
di investimento prodotti; ovviamente tali merci devono essere vendute a soggetti che siano in
grado di fornire nuova moneta. In questo primo schema sintetico, l'unica possibilità è quella di
vendere parte dei mezzi di produzione prodotti proprio al sistema bancario (di fatto le banche,
intese come settore, oltre ai beni di consumo richiesti dai propri dipendenti, acquistano dalle
imprese immobili, attrezzature e altri mezzi di produzione). Le banche, acquistando merci,
forniscono alle imprese la moneta necessaria per pagare gli interessi dovuti (il problema può
essere risolto anche vendendo merci al settore pubblico o sui mercati esteri). In tal modo, il
circuito si chiude: i lavoratori hanno fornito i loro servizi in cambio di beni di consumo, gli
imprenditori hanno ottenuto un profitto sotto forma di nuovi mezzi di produzione, il settore
bancario ha finanziato l'intera operazione, ottenendo in cambio, a titolo di interesse, una
porzione dei beni prodotti.
Il circuito che abbiamo descritto può essere rappresentato schematicamente come segue:

Fig. 3.2

È facile constatare le differenze che corrono fra questo schema e quello della scuola
neoclassica. Nel meccanismo tradizionale, tutti i soggetti partecipano alle contrattazioni su una
base paritaria, il che stabilisce, come abbiamo visto, il principio della sovranità del consumatore.
Nella formulazione ora descritta, invece, gli imprenditori, avendo la possibilità di disporre di mo-
neta in via prioritaria, possono anche determinare il livello della produzione e dell'occupazione, e
fissare in che misura la produzione si debba ripartire tra beni di consumo e beni strumentali.
Questa formulazione stabilisce quindi una asimmetria di potere fra gruppi sociali.

Ma vi è di più. Se torniamo allo schema della circolazione monetaria, vediamo subito che i titolari
di redditi monetari hanno la possibilità di trattenere il risparmio sotto forma liquida (biglietti di
banca o depositi bancari), il che impedisce alle imprese di rimborsare il debito contratto con le
banche. Ora, come vedremo ancor meglio esaminando la teoria di Keynes, vi sono ragioni
concrete che possono indurre i soggetti a trattenere presso di sé una parte del reddito sotto
forma liquida. Queste ragioni possono essere ricondotte a due fenomeni:

a) l'incertezza: ogni soggetto prende le sue decisioni tenendo conto di situazioni future nelle quali
potrà trovarsi. Poiché il futuro è sempre incerto, può essere prudente tenere presso di sé una
scorta liquida destinata a fare fronte a esigenze impreviste e improvvise;

b) l’instabilità dei mercati finanziari: abbiamo detto che il risparmiatore potrebbe collocare i suoi
risparmi acquistando titoli in Borsa. Tuttavia i mercati finanziari moderni sono resi instabili
dall'azione degli speculatori che procedono ad acquisti o vendite massicce a seconda delle
proprie previsioni. Di conseguenza, il risparmiatore non sa mai quale momento sia più
conveniente procedere ai propri acquisti. Può quindi accadere che il risparmiatore decida di
tenere sotto forma liquida anche la parte di risparmio che egli intende prima o poi collocare in
titoli.

In tutti questi casi, le imprese non riescono a recuperare dai mercati le somme erogate e restano
quindi indebitate verso il sistema bancario; il che può indurle a ridurre il volume di produzione.

c) le previsioni degli imprenditori: cadute nel volume di produzione possono inoltre verificarsi
anche come conseguenza di ondate di pessimismo che inducono gli imprenditori a valutare in
modo negativo le prospettive dei mercati. In tutti questi casi, si apre una possibilità di crisi, con
riduzione della produzione e dell'occupazione.

L' idea che il processo economico sia messo in moto dalla disponibilità iniziale di moneta e retto
dall'obiettivo degli imprenditori capitalisti di accumulare ricchezza è antica. Nell'ambito della scuola
classica, questa concezione sta alla base del pensiero di Malthus e di Sismondi nella loro polemica
contro Ricardo sulla teoria della crisi. In epoca più vicina a noi, la stessa idea fu alla base degli
scritti di K. Wicksell, dei suoi seguaci della scuola svedese, e di J.A. Schumpeter. Idee analoghe
furono riprese negli anni immediatamente successivi da un gruppo di economisti di Cambridge; fra
i quali spiccano i nomi di J.M. Keynes e di D.H. Robertson. A questi va aggiunto il nome di M.
Kalecki, a loro legato da una singolare comunanza di idee e da una lunga consuetudine di
dibattito.

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