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Edizioni Willoworld

www.willoworld.net

www.edizioniwilloworld.co.nr

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UN MONDO A GAMBE APERTE

Un libro di Gano

per

La Giostra di Dante

Seconda Edizione

www.lagiostradidante.co.nr

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GM Willo – Seconda Edizione, 2010

Altre Edizioni Willoworld

Racconti del Nuovo Millennio - di GM Willo - 2007

Racconti del Millennio Passato - di GM Willo – 2007

Il Libro di Floria - di GM Willo – 2008

I Musikanti di Amberyn - di GM Willo – 2008

Complici di un Gioco di Dadi - a cura di GM Willo – 2008

Alla Ricerca del Dio Senza Croce - di Valentino Vannozzi – 2008

Versetti Poetronici - a cura di GM Willo e di Demiurgus – 2008

Le Rivelazioni di Giovanni Meraviglio - di Jonathan Macini – 2008

Willoclick – The Talking Eye - di GM Willo – 2008

Sebastian Claw e altri racconti - di Jonathan Macini - 2008

Storie di Nuvole – di Aeribella Lastelle – 2008

All work and no play makes Jack a dull boy – di Jack Torrance – 2008

Raptus Interruptus e altri schizzi di quotidianità – di J. Lombroso 2008

Elaborazioni - di Valentino Vannozzi – 2008

La Giostra di Dante – Edizioni Willoworld 2008

Storie dall’eremo del nord – di GM Willo 2008

Copertina di Charles Huxley

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Secoli di poesia e siamo sempre al punto di partenza.

Charles Bukowski

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UNA PREFAZIONE

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GANO: Profilo d’autore

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I RACCONTI DI GANO

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LE 101 PAROLE DI GANO

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LE POESIE DI GANO

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INTERVISTA A GANO

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IDENTITÁ DI GANO

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INTRODUZIONE
ALLA SECONDA EDIZIONE

A un anno dalla sua pubblicazione e dopo oltre 200


download, ho pensato di rinnovare questa piccola opera
introduttiva all'autore Gano, personaggio molto borderline
nato per il progetto di scrittura creativa La Giostra di Dante,
facendone così un vero e proprio libro. Ci ho aggiunto sei
racconti, otto interventi minimi di 101 parole e sette nuove
poesie, per un totale di oltre 40 pagine. Tutto questo
materiale è apparso nell'ultimo anno sui siti del circuito
www.willoworld.net. Per l'occasione ho anche intervistato
nuovamente l'autore (l'intervista si trova a fine libro a
seguito di quella del 2009).
Il prossimo progetto del personaggio Gano è quello di
scrivere un breve romanzo sulla sua vita di poeta ubriacone.
Fino ad allora, godiamoci questo “Mondo a Gambe Aperte”
in versione 2.0.
Buona lettura.

GM Willo

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UNA PREFAZIONE

di GM Willo

Descrivere Gano non è facile. È un po’ come parlare di


Morrison o di Hendrix. C’è gente che ci ha scritto interi
libri senza neanche riuscire a scalfire il mistero che si cela
dietro personaggi di tale caratura. Non è in quello che
fanno che risiede il mito, ma è in quello che sono, e bisogna
rendersi conto che solo incidentalmente abbiamo avuto la
fortuna di conoscerli attraverso le loro opere.
Nel caso specifico di Gano, che scrive dall’età di otto anni
ma che non ha mai conservato un solo manoscritto,
l’incidente che ci ha portati davanti a queste testimonianze
di uomo ha quasi un significato mistico, una storia nella
storia. Se le Edizioni Willoworld non avessero inciampato,
più per caso che per altro, nelle opere del Bukowski
nostrano, questo libro non sarebbe mai nato…
Gano è creatura da bar, poeta e fannullone, puttaniere e
guru metropolitano. I suoi versi hanno un unico scopo ed è
quello di afferrare il vero, oltre le regole di metrica e di
rima. I racconti gli vengono dal pancreas, come ammette
lui stesso nella breve intervista a fine libro.
Non si può parlare propriamente di “opera compiuta”
con poco più di sessanta pagine. Si tratta più di un omaggio
al personaggio, un invito, o forse un rituale scaramantico,
augurandoci che ci sia un seguito, magari un bel romanzo
autobiografico, chissà…
Un mondo a gambe aperte, quello visto da Gano, quello
delle periferie cittadine, di gente semplice, a volte allo
sbando, più spesso pavidamente all’assalto della vita. La
vita vissuta e un po’ bastarda…

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Perle grezze di saggezza, fermi immagine del quotidiano
dipinti di fosforescenze, parole al vento e sussurrate piano,
col fiato alcolico, ovviamente. Gano non è un ricercatore
del bello. Gano non è uno che vuole stupire, colpire,
infrangere o barricarsi. Gano è semplicemente Gano, un
uomo che, nonostante il mito che già lo sovrasta, dimostra
di essere più vero di molti comuni randagi.

5 Marzo 2009

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GANO

Profilo d’autore

Volete un dannato profilo... volete sapere chi sono?


Io sono Gano, poeta ubriacone; scrivo col cazzo e lo
prendo irrimediabilmente nell’ano. Mi trovate al bar, o sul
vialone in buona compagnia. La disoccupazione paga poco,
ma qualcosa si rimedia sempre. Uomini, donne, travestiti…
che importa! Quando ho il fuoco in corpo non mi faccio
molti problemi.
Scrivo poesie da quando avevo otto anni, da quello schifoso
giorno in cui mio padre, vecchia spugna, mi prese a legnate
lasciandomi svenuto in camera mia. Quando rinvenni non
mi misi a piangere. No. Invece afferrai la penna e scrissi:

Padre boia
Elargisci dolore
Credendoti dio…
Che tu muoia
Io non prego
Ma son certo
Così sarà.

Ed infatti un paio di anni dopo il cancro se lo portò via.


Bravo stronzo, pensai io, mentre lo calavano nella fossa.
Neanche una lacrima si meritava…
Per adesso può bastare. Se mi va bene vi dirò di più, ma
ora ho troppa sete per continuare a scrivere queste
stronzate. Vi lascio con una mia massima. Andatevela a
leggere... potrebbe tornarvi utile.
Buonanotte!

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I RACCONTI DI GANO

“Le storie migliori si raccontano


al bar, con le palle del biliardo in
sottofondo e un bicchiere di
stravecchio davanti.”

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EHI, RAGAZZO!

La serata la stavo passando insieme al Pingue, un amico di


sbornie. Guardavamo la televisione del circolino,
sprofondati nelle sedie di plastica, quelle economiche da
giardino. Io mi sorseggiavo una china, lui un fernet. C’era il
notiziario delle otto, quello dove s’inventano le notizie, per
capirci. Il sapore della muratti mi aiutava a rilassarmi.
Brusii confortanti dalla sala biliardo, rumori di bicchieri
appena usciti dalla lavastoviglie, il calcio balilla preda di
una mandria di ragazzini. Era una serata perfetta. Anche la
faccia di Mimun mi divenne all’improvviso simpatica. Il
mio mondo. Piccolo, per qualcuno forse squallido, ma a me
piaceva. Mi sentivo a casa.
Ora, io sono un tipo parecchio tranquillo. Davvero, non
farei male a una mosca. Infatti quando in estate mi entrano
quei tafani in camera da letto, io non li uccido. Preferisco
farli uscire dalla finestra. Mi fa senso, non so se mi
spiego…
Comunque, quello che voglio dirvi è che sarei capace di
bere tutta la notte e rimanere placido come una mucca
indiana. Potreste prendimi in giro per delle ore, e non
avreste da me la benché minima reazione. Tuttavia, succede
a volte che mi prendono questi raptus. Perché c’è una cosa
che non sopporto proprio; la prepotenza.
Insomma, vi dicevo. Eravamo io e il Pingue sulle sedie di
plastica. Il TG era alla fine. Davano i numeri del
superenalotto. Il mio amico tira fuori la schedina ed impreca
un paio di volte sottovoce. Gli era entrato un misero due.
D’un tratto arriva questo qui, e senza chiedere nulla a
nessuno cambia canale. “ Oh, c’è striscia…”, sussurra.
Come se quelle tre parole potessero spiegare il suo gesto.

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Io guardo il Pingue e il Pingue guarda me. Rimaniamo
così, un fotogramma alcolico da cinquecento lire. Ah, le
vecchie care lire… Intanto Greggio incomincia a sparare
cazzate!
Il tipo col telecomando in mano non è piccolino. Forse
trent’anni, tirato di lucido, almeno un’ora di palestra al
giorno, svalvolato il giusto da quella robaccia che si rimedia
da Dado, lo stronzo che fa finta di giocare a biliardo. Io non
lo sopporto. L’ho visto un paio di volte avvicinarsi ai
ragazzini del calcio balilla. Quelli c’hanno si o no
quattordici anni. Menomale che sanno il fatto loro. Non
hanno perso tempo a mandarlo a cagare.
Non conosco bene il tipo, ma l’ho visto un paio di volte
bazzicare il banco del bar. Camparino corretto a gin, se non
ricordo male. Gli occhi lucidi cercavano il culo della figlia
di Aldo, il proprietario. Non vi mentirò. La Giorgia ha
proprio un bel didietro. Comunque il suo nome non mi
viene proprio, perciò mi rivolgo a lui in questo modo:
«Ehi, ragazzo! Ci rimetti il TG per piacere?»
Lui non mi guarda neanche, preso com’è dal balletto delle
veline.
Il Pingue a questo punto si alza e va a prendersi un altro
fernet. Appoggia il bicchiere vuoto sul tavolino davanti a
me. Mi guarda. Ci siamo intesi. Anch’io voglio un’altra
china. Ne avrò bisogno.
Lo sapete vero dove si serve il fernet? Li conoscete quei
bicchieri, no? Sono quelli col fondale spesso. Tre o quattro
centimetri di vetro smussato. Io a casa ci schiaccio le noci.
«Ehi, ragazzo! Guarda che tra poco c’è lo sport…”
Ma lui fa finta di niente. Ride all’ennesima battuta di
Iacchetti. A me quello lì non mi ha mai fatto ridere. Però si
tromba la bionda, perciò tanto di cappello. Davanti alla fica
siamo tutti fratelli.
«Su ragazzo, passami quel telecomando!» Il tono della mia
voce rimane calmo. La mucca indiana, avete presente?

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Ciononostante, da che mondo è mondo, più di tre
avvertimenti non si danno. Ho ragione o no?
Lui intanto rimane immobile. Il sorriso ebete stampato in
faccia e gli occhi sempre più lucidi. Si prende anche il
tempo di accendersi una sigaretta.
Poi parte il bicchiere.
Il resto della storia? Una bellezza. Urla, imprecazioni,
l’ambulanza, la polizia, che però mi conosce e conosce
anche il ragazzo che non sporge denuncia, e poi la gente del
circolino che è tutta dalla mia parte. Insomma, meno di
un’ora dopo io e il Pingue siamo nuovamente sprofondati
nelle sedie di plastica a vederci il commissario Montalbano.
Accanto c’è la Giorgia, che passa il cencio sulle macchie di
sangue. Il vero spettacolo della serata è sbirciarle la
scollatura mentre si china in avanti.
Queste si che sono emozioni!

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IL RE DI FIORI

Allora, fatemi ricordare. Eravamo io, il Tibia, il Cossu, il


Nanni e Fantomas. Non vi sto a spiegare le ragioni di questi
nomignoli, altrimenti non se ne esce. Tengo solo a precisare
che per loro ero e sarò sempre il Gano. A posto così. Si
diceva…
Eravamo noi cinque e s’andava una bellezza. Ramino,
conchino, scala, ventuno, pokerone, insomma ci si divertiva.
Chi aveva l’amaro, chi preferiva il grappino, quattro
pacchetti di sigarette e uno di toscanelli. Il tavolo era
pronto. Sabato sera, serata lunga, perché il circolo di sabato
chiude alle due. Soliti ignoti; i ragazzini al balilla, la
televisione accesa ma nessuno che la guarda, la bella
Giorgia che serve camparini senza ghiaccio e montenegri
nei bicchieri per il martini. Un universo perfetto, circolare,
come il disegno di un essere supremo. Pianeti che orbitano
con precisione attorno al bancone, comete che appaiono per
pochi istanti per poi sparire per sempre alla vista, stelle che
nascono e stelle che muoiono.
Mi erano entrate tre grandi chiusure in mano. La cosa mi
aveva messo di buon umore, così decisi di offrire un giro a
tutto il tavolo; in pratica mi sputtano metà della vincita della
serata. Ma nel mio piccolo mondo è una cosa normale, non
so se mi spiego. Non si gioca mai per i soldi. Sono le
emozioni, sempre loro, quelle che contano realmente. Sia
che tu vinca o che tu perda.
Il Cossu fa una smorfia, pare stizzito. Il Cossu è uno
stronzo e lo sa tutto il circolo, però quando gli arriva lo
jeger se lo beve e sta zitto. Il Nanni ride divertito. Il Nanni
ride sempre, è così. Fantomas e il Tibia rilanciano.
Facciamo un pokerato, o pokerone, o come cavolo volete
chiamarlo. Io accetto, il Cossu borbotta ma rimane

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inchiodato alla sedia, il Nanni continua a ridere. E via così,
alla grande…
Il Cossu perde anche il pokerone e s’incazza di brutto.
Decide di smetterla, s’infila la giacchetta di flanella a
scacchi, guanti, berretto, e senza salutare si dilegua. Meglio
così, siamo giusti giusti per una briscola in quattro. La
meravigliosa briscola a quattro.
Mi ritrovo in coppia con Fantomas, ed è una bella storia.
Fantomas gioca quieto, fa i segni giusti senza mai esagerare.
Ma bisogna stare attenti al Nanni, che a briscola ci sa
proprio fare. E poi ha un culo che non vi dico!
Si è fatto tardi, sono quasi le due. La Giorgia se ne è
andata. È rimasto solo Aldo, suo padre. Sprofondato sulla
sedia si guarda un vecchio film di Alberto Sordi, la senza
filtro stretta con forza tra le dita. Il Circolo è quasi vuoto. Ci
siamo solo noi e un paio di stronzi al videopoker. Ma Aldo
tiene comunque aperto fino alle due, a volte anche fino alle
due e mezzo, perché è sabato e tra poco arrivano le signore.
Le signore sono vecchie amiche bisognose di conforto. Un
caffè, a volte un cognac, tanto per continuare la nottata, che,
neanche a dirlo, è molto lunga. Le signore sono la Petra, la
Vanna, la Simona. Brave donne, dico io, ma è solo il mio
piccolo punto di vista…
Quella sera ce n’è una nuova. Si chiama Elisa, o
Elisabetta, non ricordo, ed è davvero qualcosa di speciale.
Non giovanissima, ma neanche tardona come le altre. È
arrivata da poco, ma questo non vuol dire che sia nuova alle
arti dell’amore.
Elisa se ne sta in disparte, mentre le altre ordinano da bere.
Si guarda attorno ed io le cerco lo sguardo, distraendomi dal
gioco. Non capisco ancora se è preda o cacciatrice,
comunque sembra notarmi. L’avessi mai fatto… Un attimo
dopo la vedo avvicinarsi al tavolo da gioco.
«Buonasera signori…» l’approccio è di sicuro quello di
una cacciatrice. Noi ricambiamo il saluto, cortesemente,

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timidamente, nervosamente. Le donne sono troppo più
avanti di noi uomini!
Il Tibia è un rinomato puttaniere. Negli occhi gli leggo
l’interesse, la voglia di scoprire il nuovo. Si sporge subito
verso la dama, se ne esce con un paio di battute stupide, lei
gli da confidenza, lo lusinga, ci gioca.
«Lo conoscete il gioco del re e della regina?» ci domanda
ad un tratto. Lei non aspetta neanche la nostra risposta e
afferra il mazzo di carte.
«Mai sentito…» borbotta Nello, che secondo me è gay.
«Ce lo spieghi tu?» le chiede di rimando il Tibia.
«Certo caro. Io faccio la regina, va bene? Tu sarai il mio
re…» una gatta in calore non avrebbe saputo fare fusa
migliori.
«Allora, io mischio le carte, poi tu ne peschi una. Se trovi
un re, andiamo di là e ti faccio da regina» e indica il bagno
delle signore.
Noi ci guardiamo sorpresi. Il Tibia trasuda euforia.
«E se pesco un’altra carta?» domanda lui.
«Allora mi paghi il caffè. Siamo d’accordo?»
E così la roulette ebbe inizio.
Lei mischiava le carte come un biscazziere. La cosa
m’impressionò molto. Il Tibia non sembrò farci caso. Le
guardava le cosce e il corsetto. Poi spezzò il mazzo, delineò
un arco con una metà, e la ripose sopra quell’altra, davanti
alla faccia inebetita del mio amico.
«Pesca!» gli ordinò.
E lui pescò un re di fiori. Che culo, pensammo, e
continuammo a pensarlo per un bel po’, mentre si alzava dal
tavolo insieme alla tipa, mentre ne se andavano di pedina
verso il bagno delle signore, mentre si facevano nei nostri
cervelli una megacavalcata sopra il lavandino.
Ma poi accadde qualcosa. Passavano i minuti e non usciva
nessuno. Le altre donne se ne erano già andate, i videopoker
erano spenti e spenta era anche la televisione. Aldo aveva
già abbassato per metà il bandone.

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«Che cavolo succede?» chiede Fantomas.
«Andiamo a dare un’occhiata…» propone Nello, che è gay
o forse guardone..
«Vedrai che si stanno divertendo» dico io, ma qualcosa
non mi torna. È mezz’ora che sono chiusi là dentro, e il
Tibia non dura mai più di dieci minuti.
Spieghiamo la situazione ad Aldo. Aldo, placido come un
bonomo, se ne rimane sul marciapiede a fumarsi la sua
ennesima senza filtro.
A questo punto mi avvicino alla porta del bagno. Busso
leggermente. Poi dico: «Oh, avete finito?»
Niente. Nessuno risponde.
Allora busso più forte, macché. Silenzio. Ma se restano
zitti vuol dire che non stanno nemmeno trombando, mi dico.
Vuoi vedere che è successo qualcosa. Provo ad aprire la
porta ma è chiusa dall’interno. Cavolo, penso. Allora
chiamo i due stronzi dietro di me, due facce da culo che non
vi dico. Li spiego la situazione e vanno a chiamare Aldo,
che sopraggiunge con un piede di porco. Un minuto dopo
siamo dentro il bagno delle donne, ma del nostro amico e
della fantomatica Elisa neanche l’ombra. Spariti!
«Per me siete tutti e tre ubriachi!» conclude Aldo tirandosi
dietro il bandone. Poteva anche aver ragione, perché di
bicchierini ne erano passati quella sera, ma nessuno di noi
tre aveva perso di vista per un secondo la porta del bagno, e
quei due non potevano avercela fatta sotto il naso.
Comunque ce ne andiamo tutti quanti a casa, perplessi e
anche un po’ preoccupati.
La conferma l’avemmo il giorno seguente. Nessuno
sapeva più dove si trovasse il povero Tibia. A casa non era
tornato, e sua sorella, la Marcella, non aveva idea di dove
fosse. Io andai a cercare le signore per chiedere qualche
informazione su questa Elisa, ma loro non se la ricordavano
neanche. Mai vista!
La sera dopo noi ci ritrovammo al solito tavolo.
Raccontammo la storia al Cossu che ci prese per pazzi. Poi

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qualcuno propose una briscola, che tanto eravamo solo in
quattro. Iniziammo, ma c’era qualcosa che non andava con
le carte. Erano proprio quelle della sera prima. Dopo averle
smistate, ne rimaneva una fuori. Così mi misi a contarle.
Una, due, tre, trent’otto, trentanove, quaranta, quarantuno…
«Che cazzo vuol dire!» esclamai.
Le ricontai altre due volte, ma erano sempre una in più.
«Puttana!» mormorai io a denti stretti. E cercai il re di fiori
nel mazzo. Ne trovai due. Due maledetti re di fiori.
Povero Tibia!

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IL PRETE

La gente va a confessarsi dal prete, mentre il prete viene a


confessarsi da me. Funziona così nelle periferie della città,
nei borghi lungo le statali e nei paesini. Il bar è il luogo
ideale per lasciarsi andare, ma c’è sempre una reputazione
da proteggere, e allora bisogna scegliere la persona giusta. E
chi meglio del Gano, dico io…
Eh già, di segreti ne conosco anche troppi, ma va bene
così. No, non fraintendetemi, non sono un curioso, e quello
che mi dite potete stare tranquilli, rimane al sicuro. Ma so
che è importante per certa gente trovare una persona che
sappia ascoltare. E poi ci sono quelli che non sanno proprio
a chi rivolgersi, come il prete, appunto.
E che avrà fatto di male questo prete!? Già m’immagino
cosa state pensando. Ma no, niente schifezze, altrimenti gli
avrei ammollato un calcio nella palle e gli avrei fatto
passare la voglia. No, il povero cristo si era lasciato solo un
po’ andare. Adesso ne posso parlare, perché lui non c’è più,
pace all’anima sua. E poi tanto il nome mica ve lo dico…
Comunque, il prete, un omino piccino coi capelli bianchi e
con la classica nappa da prete amante del buon vino,
m’aveva visto nascere, praticamente. Io la chiesa la
sgamavo, catechismo, comunioni… no, quella roba in casa
nostra non c’entrava neanche per sbaglio. Mio padre era un
comunistaccio convinto e ai preti li avrebbe dato fuoco. Io
non mi spiegavo da dove venisse tutto quest’odio. Non mi
spiegavo tante cose del vecchio, riposi in pace tra le fiamme
dell’inferno!
Eppure, vi dicevo, che anche se in chiesa non ci mettevo
piede, c’avevo un sacco di amici che ci andavano a giocare
a pallone, e capitava spesso che il prete ci venisse a dire
qualcosa se facevamo troppo rumore. La periferia della città

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è come un paese. Ci si conosce tutti, e tutti sanno tutto di
tutti, ma fanno tutti finta di non sapere una cavolo!
Ciononostante i segreti esistono, perché vedete ci sono due
tipi di segreti, quelli che tutti sanno e quelli che nessuno
conosce.
Il prete veniva al bar, di solito la domenica dopo la messa.
Chissà se il vinello gli serviva per la gola secca del dopo
sermone, o per convincersi di non aver appena proferito un
sacco di stupidaggini. A me piace pensare che il vino abbia
molti perché, e non è necessario che il bevitore li conosca
tutti quanti!
Quel giorno era agitato e l’ora stava diventando tarda.
C’era stato un funerale al mattino, la povera signora Clara,
una bella donna sulla cinquantina con due figli grandi e un
marito impiegato alle poste. Se l’era portata via quello
stramaledetto cancro…
«Padre, tutto a posto?» gli chiesi avvicinandomi al banco.
Ordinai un corretto a stravecchio.
«Si, grazie…» ma i suoi occhi erano lucidi, le mani gli
tremavano e dalla bocca fuoriuscivano zaffate di vino.
«Perché non viene al tavolo, facciamo due chiacchiere?»
Lui non provò neanche a rifiutare per cortesia. Si aggrappò
alla mia offerta come un naufrago al salvagente.
«Che le succede Padre? Qualcosa che non va?» Ai tavolini
di plastica del bar eravamo solo noi due. Un confessionale
non poteva essere più riservato.
«Gano, quant’è che ci conosciamo?»
«Non saprei… mi ha visto nascere, Padre.»
«Perché non sei mai venuto in chiesa?»
«Cos’è, una paternale?»
«No, ma che dici… sono solo curioso….»
«Beh Padre, Gesù ha il suo stile, non ne dubito, ma il resto
sono solo… come dire…»
«Stronzate?»
Fa uno strano effetto vedere quella parola in bocca ad un
prete! Ma io annuii, perché aveva centrato il punto.

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«Non ti stupire Gano, povero diavolo… Anch’io troppo
spesso dubito di quello di cui non dovrei mai dubitare…»
«Crisi di fede?»
«Sempre Gano! Sempre. È ciò che mi fa andare avanti. Il
dubbio… ma non è questo il motivo dei miei cinque
cicchetti…»
« E allora?»
«Clara….»
«No!»
«Eh già…»
«Non vorrà dirmi…?»
«Io non ho detto niente, figliolo…»
Ecco, questi sono i segreti-segreti, quelli che non si
possono neanche raccontare. Bisogna intuirli, bisogna fare
finta di averli capiti, per poi riuscire con naturalezza ad
ammettere di averli fraintesi. Sono i segreti non detti, mai
svelati, verità fantasma che aleggiano sopra i bar di
periferia.
«Ne prende un altro, Padre?»
«Solo se mi fai compagnia, Gano…»

26
LA MOGLIE DEL TRIPPA

Fuori pioveva e stare dentro al bar era una bellezza. Avete


presente quelle giornate di febbraio, fredde e buie, e magari
tira anche un vento bastardo dal nord, di quello che ti gela
dentro, e porta sempre una pioggerella fina, che sembra
innocua ma poi te la ritrovi anche nelle mutande. Insomma,
era giornata di quelle, e fare due chiacchiere con la Giorgia
mentre mi prepara il corretto a stravecchio è come stare in
paradiso. Della Giorgia ve ne ho già parlato, mi sembra…
Bel culo, bel sorriso, bel tutto.
Comunque, si diceva, tutto al bar diventa meraviglioso col
grigio fuori; il baldacchino dei lecca lecca, le bottiglie
polverose, i biscottini al cioccolato antichi, le schedine
prefatte buttate in un angolo e anche il grugno di Aldo che
aspetta i clienti alla cassa. Peccato che poi in queste giornate
succeda sempre qualcosa di brutto…
Entra di volata il Fantomas, amico di briscola, bestemmia
contro il tempo e mi punta da lontano. Ci siamo, mi dico,
che è successo questa volta?
«Gano, proprio te!»
«Che ho fatto?»
«Niente» biascica, già avvinazzato. «É il Trippa. Si vuole
buttare!»
«Come?» Il Trippa è placido come un agnellino, mai un
problema da quando lo conosco, moglie e un bambino alle
medie, viene la domenica a vedersi la partita e il giorno per
il caffè. A volte ci beviamo un sambuchino insieme. A
volte…
«Sua moglie lo ha lasciato. Adesso è sul cornicione di casa
sua, ci sono anche i pompieri, e non vuole venir giù!»
«Dio lemme! Non perdiamo tempo!» gli urlo. Saluto la
Giorgia e il pizzo del suo reggiseno, e seguo Fantomas nella

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sua pandina verde pisello. Il cruscotto è un campo da
battaglia disseminato di pacchetti di sigarette accartocciati,
tagliandi di parcheggi e contravvenzioni. Il portacenere è
così pieno di filtri di muratti che sembra sul punto di
esplodere. Tenero vecchio Fantomas, chissà qual’è il tuo
vero nome, penso.
La scatoletta sfreccia nel traffico cittadino di un balordo
venerdì di pioggia. Le sospensioni sono un mero optional
del gioiello Fiat. Ci vogliono almeno venti minuti e un
centinaio di moccoli per raggiungere casa del Trippa. Anche
di lui non mi ricordo il vero nome.
Avrete già capito che il Trippa non è un tipo molto agile. I
centoventi chili li ha superati da un bel po’, e m’immagino
il macello che potrebbe causare sull’asfalto, nel caso
decidesse di farla davvero finita. Aggrappato alla grondaia
all’altezza del quinto piano, in un palazzo decadente della
periferia cittadina, il Trippa piange ed è uno spettacolo per
stomaci forti. Ecco perché io sono lì.
Sotto i pompieri fumano e discutono la strategia. Ma che
strategia e strategia, penso io.
«Portatemi da lui, lo conosco. Fatemi parlare cinque
minuti» li dico. Loro continuano a fumare, incominciano a
parlare di regole, ma alla fine si convincono da soli che
l’idea è buona, specialmente per loro che non devono
sporcarsi le mani.
Monto nella gabbia del braccio meccanico e incomincio a
salire. Le vertigini sono un nemico di vecchia data, che
all’imbrunire si dissipa come molte altre paure, grazie a
numerosi corretti cognac e grappini vari. Il Trippa mi
guarda e incomincia a gridare come un matto. «Gano,
lasciami stare! Voglio farla finita…. Quella troia!»
“Trippa, se volevi farla davvero finita ti eri già buttato”
penso io, ma non glielo dico perché se qualcuno mi sente e
poi il fesso si butta, danno la colpa a me.
La gabbia si ferma ad un paio di metri dal vecchio
grassone. Ci sono cose nella vita che non si possono

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spiegare; le donne, ad esempio, oppure il senso dei quiz
televisivi, o la differenza tra un cappuccino senza schiuma e
un caffellatte. Ma che quella vecchia grondaia arrugginita
potesse reggere il peso del Trippa superava ogni regola
dell’universo.
« Dai, falla finita e vieni giù!»
«Ci vengo giù, stai sicuro Gano…»
«Ma no, non intendevo quello. Dai, parliamone…»
«Che cacchio vuoi parlare… quella troia! Lo sapevi che
c’aveva un altro?» Boia, le vertigini! Mi aggrappo alla
gabbia smaniando un goccetto.
«Ma chi, tua moglie?»
«E chi sennò?»
«Boh… la tua ganza, che cazzo ne so io…»
«Ganza? Ma vai in culo, Gano. Guarda che mi butto per
davvero!»
«No, fermo… insomma, ma non è stata lei a lasciarti?
Spiegami.» Le vertigini passano. Respiro e cerco di fare il
punto della situazione. Molto meglio….
«È andata da lui.» Il Trippa che piange è quasi peggio
delle vertigini.
«Lui chi?»
«Un ingegnere di Pavia, che cacchio ne so io…»
«Guarda che culo che hai avuto!»
«Come?»
«S’è portata dietro il figliolo?»
«Si…»
«E allora posto. Stasera veniamo io e il Fantomas a casa
tua e ti portiamo anche la Petra. La conosci la Petra, no?»
«Si…» L’omo va distratto con le sue cose. Appena
nominata la Petra, il Trippa smette di piangere…
«Si porta un po’ di vinello, ci guardiamo un film e poi vi
lasciamo soli, che ne dici?»
«Ma io…» la coscienza è una brutta bestia, mentre
l’amore è una favola raccontata male.
«Ma cosa ti credevi, che eri l’unico uomo per lei?»

29
«Ma veramente…»
«Guarda, con tutta sincerità, tua moglie è una brava donna,
belloccia, e poi a letto ci sa fare, però…»
«Che cazzo stai dicendo? Ci sei stato anche te?»
«Appunto, proprio quello che ti stavo per dire… un brava
donna, ma un po’ troia…»
«Ma io t’ammaz…» mi urla, e si sgancia dalla grondaia,
ed io mi sporgo come un matto dalla gabbia, lo spingo
indietro sul cornicione, lui si riaggrappa come una scimmia
al tubo di ferro e ci guardiamo un po’ negli occhi. Come ci
starebbe bene un grappino, penso.
«Hai finito di fare il cretino?» gli domando.
Ha il volto stravolto. Per un momento ha visto la morte in
faccia, un prezzo troppo caro da pagare per qualsiasi
sgualdrina, e soprattutto per una moglie.
«Va bene Gano. Vengo giù!»
La vita non è stronza. Sei stronzo tu se ti fai fregare!
Quella sera fu una bellezza. Il Trippa sembrava
ringiovanito di dieci anni, tirato a lucido con la brillantina e
le bretelle rosse. La Petra ci costò il doppio ma ne valse la
pena. Quella notte, almeno per una volta nella sua vita, il
Trippa era diventato il Tromba.

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LA LEGGENDA DEL BRISCOLONE

- Brutta caccola, dov’eri finito! -


- Come dov’ero finito, non mi sono mai mosso di qui, io! -
- Non è possibile, è la terza volta che faccio il giro della
piazza… -
- Fatti una visita agli occhi, che ti devo dire… -
- Vieni, monta, sennò si fa tardi. -
Rocco e Pelo si conoscevano da una vita, o forse si erano
visti anche prima, e come dicono certe filosofie orientali
può essere che quelle due anime balorde siano destinate a
reincarnarsi all’infinito per stare sempre vicine. Asilo
insieme, scuola insieme, militare insieme, prima volta
insieme, ovviamente sul vialone, non c’era cosa che uno
non sapesse dell’altro. Neanche le rispettive mogli li
conoscevano come si conoscevano tra di loro.
Il giorno di cui vi racconto era uno di quei pomeriggi
piovigginosi di novembre, ancora non freddo ma buio e
tristo. Rocco aveva fissato alle tre davanti al bar, e in effetti
Pelo era già lì alle tre meno un quarto, ma tra le sambuche e
le chiacchiere era rimasto ancorato al banco. Rocco non
c’aveva le traveggole, era davvero passato davanti al bar
due volte senza trovarlo, ma Pelo non voleva mai pigliar
torto, e Rocco questo lo sapeva bene, così lo lasciava dire.
- Ma quando ti decidi a pulirla questa carriola? -
- Sta a vedere la prossima volta ti verrò a prendere in
limousine… -
- Cosa vorresti insinuare, che non me la meriterei? Io ho
guadagnato tanti di quei soldi nella mia vita che avrei potuto
comprarmi come minimo tre limousine. -
- E invece non c’hai neanche il motorino! -
- Perché me li son goduti io i quattrini. Mica come quegli
schifosi che si fanno chiamare vip, con le loro donne di

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plastica, il Don Perignon, la barca in Sardegna. Li ho
conosciuti io sai, al casinò. Vanno tutti alla roulette a
puntare due fiches, per farsi notare e basta. A San Remo nel
’98 io ci lasciai mezzo miliardo al tavolo del poker, capito
Nini? -
- Oh, ancora con la storia di San Remo? Basta, dai. -
Il traffico era quello del venerdì, che malgrado fosse
ancora primo pomeriggio c’erano già le code dei rientri.
L’ignoranza del popolino si manifesta in tutto il suo
splendore tra gli scarichi delle marmitte e i semafori rossi.
L’omicidio diventa un’ottima soluzione ai problemi
dell’uomo medio. Ma i nostri due eroi erano in largo
anticipo per l’appuntamento che li aspettava, così
procedevano a singhiozzo su una vecchia uno verde, calmi
come due oranghi sedati, marlboro light per Pelo e
toscanello per Rocco.
- Menomale abbiamo fissato per le quattro, con questo
traffico c’è da diventar matti! -
- Poi non ti credere, di sicuro Panfilo si farà aspettare… -
Panfilo era il terzo in comodo, compagno di avventure ma
defilato, perché lui c’aveva l’azienda e la ganza, e quindi
non c’era praticamente mai. Ma quando c’era ai due era
permesso di fare un salto dal greco, che imbastiva il
briscolone con puntate più che dignitose. Panfilo assicurava
Pelo, che dopo il fattaccio di un pagherò saltato era stato
bandito dalla bisca, e prendeva un buon venti percento delle
vincite, se c’erano. Ma con Rocco e Pelo al tavolo della
briscola non c’era scampo per nessuno.
Arrivarono davanti alla casa del popolo alle quattro meno
dieci, e dovettero aspettare quasi mezz’ora prima di vedere
sopraggiungere un omone col piumino e il berretto.
- Guardalo come sta con quel giubbotto, come se fosse
freddo… -
- È sempre stato così Panfilo. Anche d’agosto con 40 gradi
indossa camicia e gilet. -
- Oh ragazzi, che siete già qui? -

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- No, ora s’arriva… -
- Non fare lo spiritoso te, che se non fosse per quel
bischero del sottoscritto col cavolo sederesti al tavolo del
greco. -
- Boni ragazzi, boni… -
Entrarono insieme al circolino e ordinarono tre sambuche
con quattro mosche. Quattro era il numero che apriva la
porta della stanza del greco, quella dietro la dispensa,
allestita con tre tavoli professionali da gioco. Non avevano
ancora finito il caffè che una ragazza bionda molto fuori
luogo apparve dietro il banco accanto al vecchio barman, e
li invitò a seguirla. Passarono per uno stretto corridoio
illuminato da una trappola per zanzare, scavalcarono alcuni
fusti di vino e cocacola, attraversarono una tenda di ciniglia
verde vomito, e giunsero infine davanti a una porta chiusa.
La ragazza aveva la chiave e fece scattare la serratura.
- Belle cosce! -
- Eh già! -
Ma la ragazza non si girò neanche a guardare i due
commentatori, ovviamente Rocco e Pelo. Aprì la porta e una
zaffata di fumo li investì.
- Aria di casa mia… -
- Parla per te, Pelo. -
- Ah, perdonami Panfilo, dimenticavo che hai smesso di
fumare da… quanti giorni? Tre? -
- Boniiiii… -
Il tavolo era già imbandito. La luce puntava il mazzo di
carte Del Negro e il portacenere mezzo pieno, sopra una
pratino verde con qualche bruciatura di cicca. Il greco
sedeva defilato al tavolo di destra, con una vecchia romagna
in mano e una senza filtro in bocca. Lui riscuoteva subito.
La bionda era la sua compagna ma fungeva anche da
soubrette e da cameriera. Il costo delle consumazioni subiva
un leggero rialzo ai tavoli del greco, qualcosa tipo un caffè
quattro euro e dieci pezzo per i superalcolici. Ma questo era

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accettato da tutti i frequentatori. D’altra parte se volevi
puntare grosso non c’era che lui in città.
Ma adesso parliamo degli avversari dei nostri due eroi,
una coppia di tutto rispetto. In piazza erano conosciuti coi
nomi di Checco e Occhiolino, il primo perché sicuramente
faceva di nome Francesco, il secondo per la sua reputazione
di grande segnalatore di briscola. L’occhio più veloce
dell’Appennino, alcuni dicevano. Non c’era verso di
sorprenderlo da quanto era veloce, ma Pelo quella storia
l’aveva sempre snobbata; “ma quali segni… non penserete
che usino i segni classici, non lo fa nessuno ormai. Ti fanno
solo credere di stare al gioco, ma in realtà sono due figli di
buona donna, ecco tutto!”
Rocco invece era più umile e riconosceva il valore dei due
avversari. Li aspettava una grande sfida, ma il piatto era un
signor piatto, e poi c’era il discorso del prestigio, al quale
Rocco e Pelo tenevano senz’altro di più. Quella sarebbe
stata la giocata che avrebbe proclamato la coppia campione.
- Siete pronti per un bella risolata? -
- Che canti già vittoria Pelo? -
- Beh, con due morti come voi, anche a occhi chiusi… -
- Non incominciare a offendere, eh! -
- E chi offende… -
- Bono Pelo, dai. Tu ci tiri addosso il malaugurio… -
E così incominciò, e le carte girarono per ore su quel
tavolo verde. Panfilo rimase a bere e chiacchierare con il
greco, la bionda fece un paio di su e giù coi bicchieri, e il
fumo divenne più denso che mai. Non venne nessun altro
quel giorno. La sala da gioco era tutta per loro. Diecimila
euro di piatto e una tirata assicurata fino al mattino. Alle
otto il greco se ne andò a cena con la sua bionda e un
giovane tunisino gli dette il cambio. Anche Panfilo se ne
tornò a casa, ma i giocatori si accorsero appena di questi
eventi.
Le carte giravano, perché come girano loro girano solo i
coglioni in quelle giornate no, specialmente d’inverno

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quando lo scaldabagno non ti funziona e ti è finita la scorta
di Lavazza. Fino a mezzanotte i nostri due eroi potevano
dirsi in vantaggio, ma insieme alla stanchezza subentrò
anche quella bastarda della signora sfortuna. Le carte
avevano smesso di girare ed erano solo dalla parte di
Checco e Occhiolino. Pelo schiumava, e non solo per colpa
della decima sambuca. Rocco si puntellava sui gomiti, col
toscanello che gli penzolava dalle labbra.
- Ragazzi, ma non provate un po’ di vergogna per il culo
che vi ritrovate? -
- Le carte girano, Pelo… -
- Girano un paio di palle Checco! Son cinque mani che
non ci entra una briscola decente! -
- Ma smettetela di lamentarvi! Fino a due ore fa c’avevate
le carte migliori voi! -
Ma quando si sfora una certa ora, tipo le tre o le quattro di
notte (o per alcuni del mattino) la realtà incomincia a
perdere consistenza, e se la storia diventa mito nessuno se
ne accorge. Dovete sapere infatti che al bar questo grande
briscolone è diventato col tempo una specie di cantata epica,
e ognuno c’ha il suo modo di raccontarla. Perché, prima di
tutto, e ve lo dico subito così vi metto l’anima in pace,
nessuno ne uscì vincitore. Poi dei nostri quattro giocatori
solamente il povero Rocco, pace all’anima sua se ne andato
tre mesi fa, cancro bastardo, ha avuto il coraggio di
raccontare qualcosa. Gli altri si sono tutti chiusi in un
silenzio imbarazzato, tipico da dopo sbornia, e hanno
smesso di giocare a briscola e di frequentare il locale del
greco.
Per quello che ci è dato di sapere sembrerebbe che verso
l’alba le due coppie si trovavano nuovamente in parità, e
mentre si avvicinava l’ora che avrebbe decretato la fine
delle ostilità, ovvero le sette del mattino, i punti che
separavano le due squadre continuavano ad assottigliarsi.
Allo scoccare delle sette precise, mentre il tunisino se la
dormiva della grossa e le bottiglie di vecchia romagna e di

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sambuca sul tavolo verde erano più morte del mio povero
nonno, i punti di Rocco e Pepe erano esattamente gli stessi
di quelli di Checco e Occhiolino. Cioè, per spiegarmi in
parole spicce, soprattutto per i meno esperti di briscola, si
era verificata una situazione di parità assoluta che neanche
nella peggiore casistica ci si poteva aspettare.
- E adesso cosa si fa? -
- Come cosa si fa? La bella si fa! -
- Vuoi dire una secca? -
- Per forza! -
E così tornarono a girare le carte sul tavolo. Una partita
meravigliosa, trascinata dagli ultimi residui alcolici nei
corpi dei quattro eroi. Ma che burla del destino quando
andarono a contare le carte e si accorsero di un’altra
incredibile parità: sessanta a sessanta.
- Maremma impestata! -
- Questo tavolo dev’essere stregato! -
A quel punto la storia si fa confusa, o almeno è quello che
ci è dato di sapere. C’erano delle voci nella stanza, e le luci
sui tavoli sembravano si fossero smorzate da sole. Entrò la
donna del greco vestita da regina di picche, con dietro il
greco in persona, ma non era proprio lui. Era il re di picche,
ovviamente, vestito col mantello pellicciato e la corona
pacchiana. Insomma, lei si avviò al tavolo di gioco e si
distese supina con la testa indietro rivolta a Pelo.
- Come va la partita, ragazzi? -
Subito dietro di lei c’era il re, cioè il greco, che con gli
occhi lucidi come fondi di bottiglia dichiarò: – Signori, è
arrivata l’ora di levarsi dai coglioni! -
Poi tirò su la gonna della regina e incominciò a fare i suoi
comodi davanti a tutti, con un ghigno spaventoso sotto due
baffi da greco. Il greco c’aveva i baffi, mi ero dimenticato di
dirvelo…
Col vecchio su e giù la bionda di picche iniziò a cantare
l’Aida, salendo di ottave insieme al movimento del re. I

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quattro giocatori restarono immobili con le sigarette in
bocca e le carte in mano (toscanello per Rocco, s’intende.)
- Vai, vai, vai… -
- E vadoooooooooo! -
Più stralunati che imbarazzati per quell’assurda situazione,
i quattro si guardarono negli occhi e insieme proposero la
patta.
- Che si finisce qui? -
E così sembra infatti che sia finita. Ognuno riprese la sua
parte della posta in gioco e ritornò a casa, rimuginando bene
sull’accaduto. Sogno o realtà? Verità o delirio?
Beh, vedete, quando alcuni personaggi di grossa caratura
come quelli di cui vi ho appena narrato le vicissitudini
vengono coinvolti in situazioni estreme, la realtà
automaticamente viene alterata, distorta e amplificata.
Colpa dell’alcol, del fumo e della stanchezza? Ma certo,
siete liberissimi di pensarla così. D’altronde è più facile
accettare una spiegazione razionale. Ma il mito e la
leggenda si reggono sempre su delle solide fondamenta di
verità.
Il re e la regina di picche cavalcarono il tavolo verde,
decretando la fine del gioco, suggellando una parità fuori
dalla norma. Da quel giorno tutti e quattro smisero di
giocare a briscola, ma li potevi vedere insieme alla casa del
popolo al tavolo del ramino, a ridere, scherzare e bere
sambuca.
Ma se qualcuno tirava fuori in loro presenza la leggenda
del briscolone, quelli lo guardavano storto e se ne andavano.
Perché le leggende, specialmente quelle da bar, bisogna
saperle tramandare in segreto, farle aleggiare sopra il banco
delle paste e i tavolini di plastica. Bisogna prendersi cura di
loro.
Io, nel mio piccolo, spero di esserci riuscito con questo
breve racconto.

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MASTRO LINDO

«Che c’è Ciccio?»


Al bar Mastro Lindo chiamava tutti “Ciccio”, perché i
nomi non erano il suo forte. L’interesse disinvolto che
dimostrava per le persone aveva un che di genuino. Lungo e
magro come un giunco, si chinava con la testa pelata per
guardarti in faccia e stabilire un contatto. Aveva gli occhi
lucidi, inumiditi dai troppi camparini, ma azzurri e sinceri
come quelli di un cucciolo. Riusciva a vederti dentro, non
so se mi spiego. Ci sono persone che nonostante abbiano
imboccato strade avverse e con gli anni siano diventate le
ombre di una città malata, rimangono in qualche modo pure
dentro, e quella purezza affiora nei momenti più impensati,
magari verso l’ora dell’aperitivo quando la giornata ce l’hai
tutta sul groppone, e ti aggrappi al negroni come un
naufrago, perdendo lo sguardo oltre le porte a vetri del bar,
dove la pioggia batte e l’asfalto graffia.
«Che c’è Ciccio?»
Me lo chiese a me quella volta, perché era un giorno di
quelli. Ne ho pochi, per fortuna, ma ogni tanto arrivano.
Sono i giorni in cui detesti ogni fibra del tuo corpo, ogni
particella del tuo vivere, ogni frammento di secondo del tuo
incessante scorrere, un inutile e claudicante trascinamento
di membra già in putrefazione. In quei momenti sei
consapevole solo dell’esistenza delle tue appendici; la
lingua, il cazzo e il buco dell’ano. Sono gli unici interruttori
capaci di farti sentire un po’ vivo. Ma poi ti ritrovi a pensare
a tutte quelle dannate budella che si trovano nel mezzo,
quelle lasciate ai gatti di strada e all’ennesima ribevuta…
«Niente Mastro, sto bene. Non preoccuparti…»
«No Ciccio, non stai bene… dai mettiti a sedere, ti offro
qualcosa…»

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Esistono le forze della natura e le forze da bar. Mastro
Lindo era una forza da bar, uno tsunami di buoni propositi e
sorrisi gentili. Ti prendeva il braccio e a volte ti stringeva un
po’ forte, ma anche quando ti faceva male era un piacere,
perché ti sentivi al sicuro vicino a lui. Era più alto di quanto
sembrasse, perché se ne stava un po’ gobbo. Di sicuro
toccava il metro e novantacinque. Teneva la zucca pelata in
bella mostra e i neon del bar vi si riflettevano sopra come
sulle palle da biliardo. Sulla pelle tirata spiccavano un paio
di fitte, reminiscenze di alcune ferite da curva. Il calcio era
una delle sue fisse.
«Insomma Ciccio, che cosa c’hai? Non ti ho mai visto
così…»
Perché non mi faccio mai vedere così, pensai io. Gano al
bar ci va quando è di buon umore. Le “giornate no” le passo
sotto le coperte ad osservare il soffitto e a stringermi le
trippe. Ma oggi è successo tutto così d’improvviso, tutto
così dannatamente di botto…
«Che ti devo dire Mastro, è la vita. A volte fa proprio
schifo…»
«Ma no dai! Là fuori forse, ma qui dentro si sta d’incanto.
Guarda che vestitino si è messa la Giorgia oggi…»
Si, la Giorgia stava divinamente con quel vestitino a fiori e
i capelli tirati su. E fuori effettivamente era tutto una merda,
e starsene ai tavolini di plastica, cullato dal brusio del bar e
dall’ennesimo aperitivo, era come sedere alla corte di Giove
circondato dalle ninfette. Però…
«Si, c’hai ragione, ma oggi è una di quelle giornate, sai…»
«Dai Ciccio, che te ne frega! Pensi davvero che potrebbe
andare meglio di così? Pensi che una moglie, dei figli, una
casa col giardino possano farti sentire meglio di come ti
senti adesso, su queste seggiole da quattro soldi? Pensi che
il grano ti possa risolvere tutto? O le Mauritius? O che ne
so… No, Ciccio, non farti fregare. Se le cose andassero
meglio non te accorgeresti neanche, ma lo avvertiresti

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subito se andassero peggio. Perché le cose possono sempre
andare peggio, non pensi?»
Aveva centrato il punto, e lo sapevo perché erano
esattamente le frasi che dispensavo io alla gente del bar.
Grande Mastro Lindo, ce l’hai fatta, pensai. Hai detto
proprio quello che volevo sentire. Beviamoci su…
E così rimanemmo a bere fino all’ora del TG.
È passato mezz’anno da quando la cirrosi si è portata via il
vecchio Mastro. A volte gli occhi mi diventano umidi senza
che me ne accorga. Ripenso alla sua testa pelata, al suo
sorriso e a quegli occhi celesti e giusti. Alla sua anima, che
adesso vaga solitaria nell’etere del bar, sopra le fettine di
limone adagiate dentro i bicchieri del campari soda. Al suo
“Ciccio”, che metteva allegria. Alla sua postura, piegata
dall’altezza ma non dalla vita…
Penso a tutto ciò ed è come se fosse ancora qui…
…e forse è qui per davvero.

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NATALE AL BAR

È una di quelle giornate fredde di dicembre in cui hai


bisogno sicuramente del doppio calzino, specialmente se i
calzini ce l’hai tutti bucati. È un vecchio trucco quello di
metterne due paia per tappare i buchi, ed io li conosco tutti i
vecchi trucchi. A dicembre, se il sole basso abbaglia, vuol
dire che fa un freddo della madonna. Te ne accorgi anche
dai vetri delle finestre appena metti il naso fuori dalle
coperte, però non ce la fai a rimanere a letto perché quel
sole è proprio una meraviglia, pare quasi dipinto e forse lo è
per davvero, ti chiedi perplesso picchiettando con l’indice la
colonnina di mercurio in terrazza, che durante la notte è
scesa abbondantemente sotto lo zero. Ti avvii in cucina per
preparare il caffè e ti accorgi che ti hanno appena tagliato il
gas. Ti spieghi il freddo padrone della stanza, ti spieghi le
bollette abbandonate ancora chiuse sullo scaffale, ti spieghi
anche perché il mondo faccia così schifo; tagliare il gas ad
un povero cristo proprio la vigilia di Natale. Quasi quasi ti
vien da ridere, se solo il freddo non ti avesse paralizzato i
muscoli della faccia. Unica soluzione; il bar.
Spingi la porta a vetri e subito ti rendi conto che non sei il
solo ad averla pensata alla stessa maniera. Certo non è
proprio Natale, è solo la vigilia, ma tutti sanno che il 25 il
bar resta chiuso e quindi è meglio approfittarne. I tavoli
sono già occupati dai soliti avventori. Avranno tagliato il
gas pure a loro, ti chiedi. E mentre te lo continui a chiedere
ordini quel maledetto caffè che non sei riuscito a farti a
casa. La Giorgia ha un cappellino rosso che è una
meraviglia. Ti sorride e si adopera a farti una crema che
sveglierebbe anche Morfeo.
«Mettici un po’ di mommo, tanto son gia le nove…» le
dico, e lei sa già dove andare a pescarlo, il mommo. Bevo il

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corretto e incomincio il giro. Fantomas col cappuccino e la
Gazzetta, il Lalli spaparanzato con la Repubblica,
Giulianino appoggiato al frigo dei gelati con gli occhi persi
su una foto della Ventura in mezzo al Venerdì (sempre
quello della Repubblica, il giornale dei finti comunisti), e
poi c’è il Mignozzi col telefonino in mano a messaggiare
alla ganza, tutti in posizione come se fosse un giorno
normale, ignari delle palline colorate e delle lucine
disseminate per il bar.
«Buon Natale , ragazzi…» saluto io. Nessuno si muove.
Tutti fanno finta di nulla, ma è ordinaria amministrazione.
Bisogna aspettare perché la gente del bar c’ha i suoi tempi.
In ritardo, ma una reazione arriva sempre.
«Oh Gano, anche oggi qui a rompere i coglioni?»
domanda il Lalli da dietro il giornale. Avrete già capito che
personaggio è questo Lalli. Parlarne in maniera più
dettagliata sarebbe come sparare alla croce rossa. Il Lalli è
semplicemente il Lalli, una grande faccia di culo….
«Che fanno i tuoi amici DS quest’anno? Tortellini in
brodo e lenticchie a fine anno?» rispondo io, graffiando il
suo cuoricino rosso bandiera.
«L’ho sempre saputo io che il Gano è un fascistone» dice
lui di rimando. Ma in verità a me la politica non ha mai
detto niente. Destra e sinistra, alla fine mi sembrano tutti
uguali, specialmente in quest’ultimi tempi. A me
interessano concetti più semplici, diciamo pure basilari, che
alla fine son solo due; il bel mangiare e lo stare in
compagnia, cose che tra l’altro si fanno bene insieme, ed è
proprio per questo motivo che propongo un bel pranzo dal
Freddy…
«Quando, domani?» chiede Fantomas, ripiegando la
Gazzetta.
«Si fa il pranzo di Natale; bollito misto, tortelli e vinello…
Che ne dite?» rilancio io.

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Il Mignozzi se ne esce fuori con una “’sta stronza!”, e
rimette in tasca il cellulare. «Io ci sono» aggiunge, poi
guadagna l’uscita per accendersi una sigaretta.
«Vai, ci sono anch’io» conferma Giuliano, sfogliando le
cosce della Simona.
«E tu Lalli, cosa ne dici?» lo provoco, perché so che
vorrebbe dirmi di no per farmi uno spregio, ma questo
significherebbe passare il Natale da solo.
«Ma, ora ci penso…» risponde lui, ed io so già che dovrò
chiamare il Freddy e prenotare per cinque.
«Bene, a posto allora» dico io, poi me ne vado a farmi il
primo cicchetto.
È incominciata la vigilia. I santi zampettano un cha-cha-
cha nei cieli, il vecchio Santa ritira l’assegno dalla
Cocacola, gli elfetti se lo menano tra di loro, Gesù fa finta
di rinascere anche se non è il suo giorno, i bimbi aprono
milioni di regali inutili e l’economia continua a macinare
carne umana.
Però le palline colorate e le lucine mettono tanta gioia, non
trovate anche voi?
«Giorgia, fammene uno…»
«Arrivo Gano!»

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LA FACCENDA DELLA STIRERIA

Davanti a questo foglio bianco voglio una volta per tutte


chiarire la misteriosa faccenda della stireria, che col passare
del tempo si è trasformata in una storia di cattivo gusto che
al bar, ma ormai anche in tutto il quartiere, sta lentamente
pregiudicando la mia reputazione. Ora, non c’è bisogno di
tante introduzioni, il Gano lo conoscono tutti e solo chi c’ha
da la coda di paglia può affermare che io non sia una
persona di parola. Non ho peli sulla lingua, forse ce n’ho
qualcuno nel culo, ma quelli servono per tenere alla larga i
manganelli di carne. Ed è esattamente di questo che vi
voglio parlare.
Non faccio segreto del fatto di esser stato più di una volta
in compagnia di un travestito, sempre e solo in
atteggiamento da signore come nei confronti di una signora,
non so se mi spiego. A me interessa solo la crema della vita
e non sto certo a rimuginare sull’etica o sulle morali, tanto
meno quelle cristiane. Hai visto un po’ di cosa son capaci di
fare certi uomini di dio; bombe, guerre, stragi, violenze. Io
in quarantasette anni non ho mai alzato le mani su nessuno
che non se lo meritava, e comunque anche in quel caso è
successo molto di rado. Prima di arrivare alle mani cerco
sempre di spiegarmi, per questo sono qui a chiarire la
faccenda della stireria, anche perché mi sono rotto i coglioni
e voglio che questa storia si cheti una volta per tutte.
Per quanto possa sollazzarmi il gozzo con ogni sorta di
nettare degli dei (sambuca e stravecchio in primis) è
difficile che mi scappi qualcosa. È vero che delle volte
qualcuno mi ha trovato sulla panchina del giardino in
condizioni non proprio virtuose, ma la lucidità non la perdo,
state tranquilli. Ricordo sempre tutto per filo e per segno,
così come quella sera di cui vi sto parlando, malgrado

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quello che dicano le malelingue. La ragazza (o ragazzo,
chiamatela come volete) mi fece lo sconto perché tra tutti
ero quello belloccio, e qui c’è testimone il Testa (si potrebbe
fare anche la battuta, Testa il Testimone). La stireria
appartiene al cugino della tipa, brasiliano pure lui. Lei (o
lui) ha il doppione delle chiavi e quando c’ha più di un
cliente per volta ne approfitta, butta un paio di cenci per
terra e fa i suoi comodi. Quella sera eravamo in quattro,
come di certo saprete ormai tutti; il Testa, Pelo, il Conte e
quel bischero del Gano. Alla ragazza va benissimo, però ne
vuole solo uno alla volta e senza interferenze, ma a una
sbirciatina è difficile resistere. Il primo è il Pelo che dura tre
cacate. Il tempo di farsi un giretto ed è già tutto finito,
avanti il prossimo. Il Testa è quello più imbarazzato, ma la
tipa ci sa fare e lo mette subito a suo agio. Anche per lui è
questione di cinque minuti, non di più. Poi tocca al Conte, il
Signor Pisello, come gli piace farsi chiamare. E vi giuro che
se non la smette di rivangare con questa storia finisce
male…
Insomma, si diceva del Conte, tutto impettito si avvicina al
brasiliano, che a quell’ora tarda e con tutta la roba che si era
bevuto non era davvero male, e incomincia il vecchio su e
giù. Passano i minuti ma è sempre lì. Noi lo osserviamo
dall’uscio senza farci vedere. Dopo un po’ si va fuori a
fumarci una sigaretta, perché comunque lo spettacolo non è
un granché.
Finita la cicca eccolo che appare. “Vai, è il tuo turno
Gano! Sistemalo per feste!” Ma io rimango un signore
anche coi travestiti, perché tutti c’hanno un anima, troppo
spesso rinchiusa contro il suo volere dentro dei maledetti
gusci di carne.
In parole spicce mi avvicino al tipo con dolcezza e inizio a
fare quello per cui l’ho pagato, tutto regolare, il vecchio
spingi-spingi. Ma proprio sul più bello, STAC! la maledetta
schiena. Perché io da quando ero ragazzo c’ho un problema
grosso alla giuntura tra quarta e la quinta vertebra lombare,

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che son cascato male quando giocavo in porta… Da quel
giorno ogni volta che mi piego o faccio un sforzo in una
posizione sbagliata, devo stare attento altrimenti rimango
bloccato.
Insomma, lo STAC di cui vi dicevo precede questa mia
mezza paralisi che mi lascia piegato in due come un uscio, a
smadonnare contro il cielo e tutti i suoi angiolacci. Il
ragazzo, con quel suo fare effeminato, si mostra subito
preoccupato, mi dice di stare tranquillo che in Brasile lui
faceva i massaggi e ne sa qualcosa. Incomincia a toccarmi
laggiù sotto la vertebra e devo ammettere che ci sapeva fare.
“Bisogna scaldare un po’ il punto…”sussurra, ed io
continuo a smoccolare sottovoce. Un dolore che non vi sto a
descrivere…
“Adesso fermo, ok?” E chi si move, penso io… Lui si
mette dietro. Ovviamente siamo ancora tutti e due ignudi,
mica ci si poteva rivestire nel frattempo. Mi prende da sotto
le ascelle e con un colpo deciso mi risolleva dritto. In quel
mentre sento le risate venire dalla porta della stireria.
Maremma budella, vuoi vedere che quelli imbecilli hanno
frainteso tutto, penso. E per tutta la notte non c’è stato verso
di convincerli del contrario.
Ecco, questa è la storia. Se ci credete, amici come prima.
Faccio finta che le cattiverie sul mio conto non siano mai
esistite e si va avanti così. Ma se qualcuno dovesse
continuare a pensare che al Gano gli piace prenderlo in culo,
incominci a dormire con la luce accesa, perché quando
arrivo, arrivo di sorpresa e non ce n’è per nessuno.
Intesi?

46
LA FILOSOFIA DEL CALCIO
SECONDO IL CARRAI

Non sono mai stato uno sportivo, anche se devo ammettere


che il tennis è un bello spettacolo; pulito e preciso, un gioco
di linee e rimbalzi, dritti e rovesci che ha tutta una sua
musica. Se poi è giocato dalle signore, con quei loro
completini corti, candidi come le confezioni dei confetti,
allora ci puoi perdere anche un paio d’ore davanti al
maledetto schermo, con la Vecchia Romagna a farti
compagnia, la boccia s’intende… Ma il calcio proprio non
mi è mai andato giù, per due ragioni in particolare; primo, la
versione al femminile praticamente non esiste, secondo,
perché non sono mai riuscito a capire come cavolo funziona
quel maledetto fuorigioco. Comunque al bar qualche partita
la guardo, anche perché la domenica non si scappa, son tutti
in prima fila a vedere il campionato. Spesso rimango al
banco a far compagnia alla Giorgia, lontano dalle urla degli
sciamannati, ma le domeniche in cui la prosperosa figliola
di Aldo il barista è di festa, mi aggiro come un’ombra
attorno al cuneo di sedie che si forma davanti al vecchio
televisore Mivar, volgare anfiteatro dei nostri tempi.
Un giorno decisi di sedermi accanto al Carrai, irriducibile
settantenne che non si era perso neanche un programma di
campionato fin dai tempi del povero Paolo Valenti e forse
anche più indietro. Il Carrai aveva la fissa del calcio ma era,
a differenza degli altri tifosi del bar, un tipo molto
tranquillo. Non l’avevo mai visto accanirsi per un fallo, un
errore arbitrale, una sostituzione contestata o qualsiasi altro
evento che solitamente scatena nell’animo del tifoso medio
un attacco fulminante di ulcera. Se ne stava defilato sul lato
destro dell’anfiteatro, le mani strette sui braccioli di plastica
della sedia, il capo puntato verso lo schermo che gli si
rifletteva crudelmente sulla testa calva. Era terminato il
primo tempo e quasi tutti se n’erano andati a prendere il

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caffè o il grappino, oppure erano fuori a fumarsi la sigaretta
o a chiamare la moglie o la ganza o che so io… Così presi
posto accanto a lui e gli chiesi subito com’era la partita, non
perché m’importasse qualcosa ma per capire un po’ che tipo
era questo misterioso Carrai, che a parte il buongiorno e
buonasera non parlava mai con nessuno. Lui continuò a
fissare la TV, mentre passavano la reclame di un auto che
prometteva miracoli e prestigi di un mondo schiavo del
consumo, e per un attimo mi chiesi se non fosse un po’
sordo.
- Non c’è male – disse di colpo, e mi sorrise, o così mi
pareva perché ancora rimaneva girato.
- Chi vince? – replicai io.
- Pareggiano, uno a uno. Tutte e due le squadre stanno
facendo un buon gioco, e non hanno paura di rischiare.
Potrebbe venir fuori un bel secondo tempo – rispose lui,
continuando a guardare lo schermo, e poteva averci le sue
ragioni dato che in quel momento una bella figliola, dopo
essersi spruzzata di deodorante, se ne sculettava via lontano
dalla cinepresa.
- Sai, io non ci capisco molto di calcio… – cercai di
giustificarmi.
- Il calcio è l’unica cosa vera che ci è rimasto.
- Che vuoi dire?
- Il calcio, per dire lo sport in generale, è l’unico
spettacolo di cui ti puoi ancora un po’ fidare. Il resto invece
è tutto deciso a tavolino… – ripeté con convinzione il mio
amico, e questa volta si era girato per guardarmi in faccia.
- Vabbé, ma il mondo dello sport, specialmente quello del
calcio, è marcio fino al midollo – imputai io, sicuro della
mia posizione. Rimasi invece sorpreso da quello che quel
vecchiuccio tirò fuori.
- È vero, il mondo del calcio è pieno di gente orribile, ma
una volta che quei ventidue decerebrati incominciano a
correre come forsennati dietro un pallone, tutto ritorna in
mano al fato. E poi si sa, la palla è rotonda…

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- Scusami sai, ma non credo di aver capito – ammisi io,
pensando che avrei avuto bisogno di un’altra sambuca.
- Il meccanismo del mondo del calcio fa schifo,
ovviamente. Il più ricco si costruisce la squadra migliore e,
molto spesso, vince i titoli. I tifosi sono dei debosciati che
arrivano ad ammazzarsi per uno sbaglio arbitrale. I giocatori
sono dei busti con le gambe ma privi di testa. I giornalisti
che commentano le partite sono assolutamente patetici.
Insomma, ce n’è per tutti i gusti. Ma c’è una cosa che è
irremovibile e cristallina, il risultato finale della partita.
Quello è e rimane. Nessuna televisione o testata
giornalistica potrà mai confutarlo. È quella la cosa bella del
calcio e dello sport in generale. Non tanto le classifiche, ma
il risultato dello scontro singolo. Perché può capitare a volte
che i campioni, ricchi e privilegiati, vengano strapazzati da
una squadretta da due soldi, e allora è lì che godo!
L’aveva vista lunga il mio amico Carrai. In effetti
oggigiorno quando prendi un giornale in mano non sai più a
chi credere. Politica, cronaca, arte, spettacolo, economia…
Apparentemente tutti sembrano dire una cosa diversa, ma se
poi scavi un po’ più in profondità ti accorgi che stanno tutti
dalla stessa parte, e alla fine non ci capisci più niente di
quello che davvero succede nel mondo. Poi arrivi alla
pagina dello sport, e finalmente puoi rifarti gli occhi. Non
con gli articoli, bada bene, ma coi i risultati. I risultati non
mentono. Son come la matematica, o la sambuca con la
mosca.
“Giorgia, versane un’altra vai!”

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LA MANTIDE RELIGIOSA

All’anagrafe risultava col nome di Romolo Bertani, ma al


bar tutti lo chiamavano Romoletto per via dei suoi
dignitosissimi 161 centimetri di statura. Dopo vent’anni le
battute si erano esaurite, ma c’era ancora chi ci provava. A
Romoletto non dispiaceva, anzi, prendersi poco sul serio era
la sua forza. Ma il suo cruccio non era la statura, erano le
donne, problema non da poco e decisamente molto
comune… Ogni mese lo vedevi entrare dalla porta a vetri
insieme ad una nuova, che a prima vista ti facevi subito
tutto il film in testa. Romolo non se la passava male,
lavorava nel settore edile e tirava su un bello stipendio. Le
cialtrone lo sapevano e gli ronzavano attorno come le api,
ma lui, per quanto ingenuo, c’aveva la moglie che gli
salvava il culo. Di sicuro quella santa donna gli voleva
sempre bene, per questo gli rifiutava il divorzio. Sapeva che
il minuto dopo la firma lui si sarebbe andato ad impegnare
con la prima poco di buona, la quale lo avrebbe in pochi
mesi prosciugato fino all’osso. Ogni tanto al bar potevi
imbatterti nella Simona, un donnone fiero, un tempo
sicuramente discreto. Ti prendeva per un braccio e a volte ti
strizzava, poi ti guardava negli occhi dicendo: – Dov’è quel
cretino di mio marito?
Te provavi a difenderlo, ma lei t’inchiodava, e c’aveva
anche le sue ragioni. – Se non fosse per me, che gli faccio
ancora la contabilità e mi occupo delle banche, il tuo amico
sarebbe a dormire sotto un ponte… – Perché la Simona non
era solo la moglie di Romoletto ma anche la sua socia in
affari.
Comunque, tutti gli equilibri, specialmente quelli meno
stabili, son destinati a rompersi. Basta qualcosa di
inaspettato, un ‘incognita, un vento freddo dal nord, un

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portento della natura. Ecco, proprio quello arrivò sulla
strada di Romolo. Un portento.
Si chiamava Gigliola, trentadue anni, lo superava di tutta
testa, ma ci voleva poco. Bella si, ma non l’avrei toccata
neanche con una canna da pesca. Per quanto mi ritenga un
grande amatore e non faccia distinzione tra belle, brutte,
grasse e magre, ci sono delle donne alle quali non mi
avvicinerei neanche se me l’ordinasse il dottore. È una
questione di pelle, non so come dire… o forse è una
questione di aurea, come dicono quelli della new age.
Gigliola, bionda platinata con la zazzera sbarazzina, gli
occhioni verdi e la bocca piena di rossetto, un culo da
brividi e due gambe che non finivano più… ma le vibrazioni
cosmiche che emanava riuscivano a rattrappirti l’uccello.
Tant’è che appena la vidi glielo dissi al Cossu, che leggeva
la Gazzetta appoggiato al frigo dei gelati Algida: – Questa
non è una donna… è una mantide religiosa!
Ma il povero Romoletto le andava dietro come un
cagnolino in calore, un bassotto s’intende. La prima
settimana la collana di perle, la seconda la pelliccina, poi
l’anello col diamante… Ma a lei non bastava, voleva di più.
Voleva il trono.
C’erano tutti al bar la sera in cui Romoletto alzò la voce
contro la Simona. – Basta, non ne posso più. O firmi quelle
carte, o ti giuro che prendo l’avvocato più tosto della città e
ti faccio levare ogni cosa, anche la casa!
- Povero Romoletto, e pensare che ti ho voluto bene… –
rispose lei con un mezzo sorriso. Gli strappò le carte del
divorzio dalle mani e gliele firmò davanti a tutti. – Addio
nanetto! – e uscì di scena insieme a sui novantacinque chili
abbondanti.
Due mesi dopo ci ritrovammo tutti al matrimonio dei due
piccioncini, la festa più kitsch che abbia mai visto. Chissà
perché le donne senza stile son sempre quelle delle brutte
vibrazioni. C’è un senso che accomuna il tutto, fili invisibili
che uniscono le strade di certe persone allontanandole da

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certe altre. Persone come la Gigliola è bene si tengano alla
larga da me…
Passò un anno e di Romoletto non si seppe più nulla. Al
bar non ci veniva più e per noi habitué se non venivi al bar
era come se tu non esistessi. Le voci però arrivarono, perché
quelle arrivano sempre…
- Hai sentito che è successo al Bertani? – La domanda
retorica era dell’ingegner Franceschini, che veniva tutte le
mattine a prendersi il caffè col budino di riso.
- No, è da una vita che non si vede… – risposi io, col mio
cicchetto delle nove meno un quarto.
- Quella lurida della sua moglie… non le bastava tutto
quello che aveva…
- In che senso? – chiesi io, sempre più curioso.
- Per accontentarla s’era messo a lavorare anche nel
weekend, tutte le sere fino alle dieci. Lo vidi un mese fa,
sembrava un fantasma. Ci credo che gli è venuto l’infarto,
pace all’anima sua!
- Ma cosa mi dice ingegnere? Romoletto… – ma non
riuscii a terminare la frase.
- I funerali sono domani, alle cappelle… -
Finì il suo caffè e se ne andò.

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LE 101 PAROLE DI GANO

“101 parole sono anche troppe


per raccontarti come andò quella volta…”

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EMORROIDI

Bella storia questa delle 101 parole, forse potrebbero


bastarmi per raccontarvi di quella volta che mi vennero
delle emorroidi cosi toste, che dovetti immergermi fino alla
cintola nell’acqua ghiacciata. Maledette anacardi! Ma con la
birra, vanno giù che è una meraviglia.
E poi c’era quell’adorabile cameriera del Charlie, Amanda
si chiamava. Le offrii da bere, parlammo del tempo e di
poesia. Era un amore, ma le piaceva strano, non so se mi
spiego…
La portai a casa mia. Un paccaccio da sei di Tuborg,
l’avanzo di Jack sullo scaffale. Poteva bastare…
Una notte da ricordare, anche solo per quelle
stramaledettissime emorroidi!

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FULMINE

Sugli scalini della badia, vidi Fulmine che piangeva.


Il giorno dopo scoprii che si chiamava Franco. Lo diceva il
giornale, ma io lo conoscevo da vent’anni, ed era sempre
stato Fulmine.
Gli offrii un caffè, ma arrivati al bar ordinò due sambuche.
Parlammo un po’ dei vecchi tempi. Non stava bene.
«Sicuro che non ti va un caffè?»
«No, grazie. Magari un’altra sambuca…»
Il bar stava per chiudere. Mi parlò di sua figlia. Se l’era
portata via la leucemia, due settimane prima.
Lo lasciai sui gradini della chiesa. Gli dissi: «Ci si vede!»
Ma entrambi sapevamo che avevo detto una bugia.

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ALVARO

Alvaro, dove sei?


Ti vedevo al mattino coi sacchetti della nettezza pieni di
stracci. Ti avviavi verso la stazione degli autobus,
fermandoti di tanto in tanto ai cassonetti. A volte rimediavi
la colazione.
Le strade sembrano vuote senza di te. La stazione non è
più la stessa. Anche i piccioni sono tristi. Mangiucchiano il
pane annoiati, osservano da sopra i monumenti. Cercano te,
Alvaro. Troppo modesto per questo mondo. Troppo fragile
per stare al gioco.
La panchina alla fermata del 32 era la tua casa. Oggi ci
siede una signora con un bambino. Aspettano l’autobus,
sotto il cielo grigio.
Addio Alvaro!

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IL CAFFÈ

“Meglio l’acqua alla mattina che il vino la sera”, diceva un


vecchio ubriacone. Ma io preferisco un bel caffè, di quelli
fatti in casa con la caffettiera, un po’ acquoso forse, con
quel sentore di bruciato, avete presente? Ci metto lo
zucchero per ammazzare il saporaccio, così la sbobba
diventa una medicina. Mi siedo al tavolo di cucina e ripenso
al giorno prima. Non mi spingo mai più in là con la
memoria. Perché dovrei…
Com’è che si chiamava? Carlotta? O forse era solamente
Carlo…
Il caffè va giù magnificamente. Il sole penetra con
prepotenza dalla finestra.
Che meraviglia, la vita!

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MARIA

Due fari strappano le tenebre del vialone, quello su cui


passeggiano gli angeli.
La macchina accosta. Si ferma. Eccola, finalmente!
Maria scende dall’auto, nera divinità della notte, adorna di
bianche calze. Mi avvicino timido. Le dico…
“Stanotte ho bisogno di te, Maria. Andiamo a casa mia?”
Mi sorride, ma non ha voglia di parlare. Spesso mi
racconta dell’africa, di come brillano le stelle. Tutta un’altra
cosa…
“C’è qualcosa che non va, Maria?” domando.
Lei mi abbraccia. Mi regala un singhiozzo e una lacrima,
qualcosa d’infinitamente più prezioso di quello che è solita
donarmi.
“Andiamo a prendere un caffè, dai. Offro io…”

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LA PETRA

«Allora, si diceva della Petra…»


«Beh, si parlava anche del Gran Premio… »
«No, di quello ne parlavi te. A me interessa solo la Petra.»
«Ah, va bene… Dimmi…»
Appoggiato allo spigolo del bancone, ascoltavo Guido,
creatura da bar. Lui c’aveva un sambuchino ammoscato, io
un bicchiere di bianco. Era l’ora del TG.
«Bella figa!»
«Puoi dirlo forte! Ma è un po’ cara…»
«A me fa lo sconto…»
«Ah si?» Era un bluff, sicuro.
«Ieri sera ci siamo strapazzati per due ore!»
«Quanto?»
«Cinquanta!»
«Ma va!»
«Giuro…»
Finii il bianco d’un fiato.
«Bravo!» “Stronzo”, pensai.
C’ero stato io… con la Petra.

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NICCO

Mi faccio una grappa, poi si vedrà.


Fuori piove, dentro la TV continua a proferire scemenze.
Al bar, durante le feste, la vita procede in sordina, mentre
tutti fanno finta di essere più buoni.
Entra il Duca, un tipo a posto, se non fosse per la dama
bianca che gli scorre dentro. Si avvicina al banco. È una
maschera di veleno e scompiglio.
«Hai saputo di Nicco?»
«No» rispondo io, scolandomi il gotto.
«L’hanno trovato ieri sotto i portici…»
L’ennesimo dramma di buco.
«Conoscevo i suoi. Venivano al bar…»
«Si sono trasferiti» risponde il Duca, grattandosi.
Alla TV danno i pacchi.

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LA PARTITA

Il primo tempo é finito. La gente si riversa fuori dal bar a


fumare. A me non interessa il calcio, ma tendo l’orecchio.
Zero a zero. Che il diavolo se li porti tutti!
Cellulari, messaggini, pronto, ciao, si vengo, si non
vengo… La porta a vetri non sta ferma un secondo.
Si avvicina Renzino con la radiolina, creatura demodé.
Puzza di stravecchio e sigaro toscano.
«Ciao Gano, come ti butta?»
«Non c’è male Renzo, non c’è male!»
La gente intanto rientra per il secondo tempo.
«Come stanno?» chiedo.
«Sempre zero a zero» fa Renzino.
«Che il diavolo se li porti tutti…»

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L’AMICO

L’amico mi venne incontro con le braccia allargate e gli


occhi umidi. Puzzava di grappa e si reggeva poco bene sulle
gambe.
«Che è successo?»
«Niente Gano, ho solo bisogno di parlare un po’.»
E difatti lui parlò tutta la sera, e nel frattempo si scolò
quattro pinte. Io non fui da meno…
Il giorno dopo era tornato alla sua vita; moglie, figli,
lavoro…
Lo rividi un anno dopo. Stessa storia. Una serata al bar,
qualche birra e poi più nulla.
Esistono amici buoni solo per bere. Sono un po’ paraculo,
ma che vi devo dire? Ognuno c’ha i suoi problemi…

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RANDAGIO

Cerchi un pasto tra i cassonetti, Fido. Un osso, avanzi di


pane, o al limite lecchi il sugo che sgocciola. Non te la passi
poi così male, dai!
Certo, le notti sono un po’ fredde, ma un posticino lo
rimedi sempre. Vai a zonzo, ti azzuffi coi felini rognosi, poi
fai il palo davanti alla macelleria. Ogni tanto passa la
cagnolina della signora Bertelli, una barboncina niente
male. Ti dai un tono, tiri su la coda, ma se non è il tempo
lasci perdere tutto.
Tutto questo per quanto tempo? 15 anni al massimo?
Vi è andata bene a voi canidi.

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VAMPIRO UBRIACONE

Adesso lo so: sono un Vampiro.


Non succhio sangue ma bevo vino. Barcollo come uno
zombi, a notte giro per i cimiteri e mi addormento all’alba,
in qualche luogo oscuro, uno scantinato oppure un
sottoscala.
Dopo la prima bottiglia gli occhi mi diventano rossi. Ho
l’alito pesante, i canini appuntiti per natura, e il naso
paonazzo, che poco c’incastra col non morto ma di notte si
vede appena. E poi sono allergico all’aglio!
Mi piacciono le donne, ma non disdegno gli uomini. Mi ci
avvento, mordo e scappo…
Ho anche origini nobili, sapete? Conte Ovidio De’
Frescobaldi, ma voi chiamatemi Gano.

64
PRIMAVERA

Primavera, un bicchiere di vino, un bagno di sole…


«Ciao Gano, come ti butta?»
«Tutto bene…»
Il Freddy invece non sta bene per nulla. Sorride, si gratta,
ha la scimmia….
Primavera, profumo di gelsomino…
«Gano, che ci fai qua fuori? Vieni, t’offro un grappino!»
«No grazie, questo sole è una bellezza!»
Caronte invece è proprio brutto. Ci credo che sua moglie
lo tradisce!
«Gano? Tutto ok?»
«Una meraviglia!»
Povero Massimino, non t’entra mai un cavallo!
Lo sapete perché il mondo è pieno di perdenti? Non è
sempre colpa loro.
È che la vita è bastarda, e non tutti c’hanno le palle!

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IL BOSCHETTO

Se le gambe ti reggono fino al mattino, puoi fare un salto


al boschetto. Laggiù le signore son signori, e lavorano fino a
tardi, anche se per loro non è proprio un lavoro…
Prima che l’alba spazzi via le libidini notturne, hanno
ancora voglia di farlo. Così magari con cinque euro rimedi
un lavoretto.
«Ma come solo cinque euro, amore…»
«Mi spiace, non ho altro.»
«Dai, facciamo almeno dieci…»
«Te l’ho già detto, ho solo questi.»
«E vabbé, sganciati dai…»
Povero ciccio… E pensare che quella sera avevo un altro
pezzo da cinque, ma lo serbai per l’autobus ed il caffè.

66
I CAPEZZOLI DELLA VANDA

Fumo entrò nel bar con la sigaretta accesa ma nessuno ci


badò, non perché non si rispettassero le leggi, ma perché era
Fumo e lui non sentiva seghe.
«Gano, proprio te!»
«Che succede?»
«Nulla… ti volevo solo chiedere… ma è vero quello che si
racconta della Vanda?»
«La Vanda?»
«Si, la Vanda…»
«E che si dice della Vanda?»
«Beh, le voci, sai come sono….»
«Vuoi dire che non ci sei mai andato?»
«No…»
«Non ti sei perso poco…»
«Allora è vero?»
«Cosa? I capezzoli?»
«Eh…»
«Miele di montagna con una punta di magnolia….»
«Ma va, dai!»
Le leggende vanno sapute coltivare.

67
DAL FREDDY

Dal Freddy si mangia la trippa come da nessun’altra parte.


Naturalmente ci vuole un fiasco di vino per mandarla giù.
Quel giorno ci portai la Letizia, diciamo pure “una vecchia
compagna di scuola”, e la scuola che intendo si chiama vita,
tanto per esser precisi.
Si sedette e, senza guardare nemmeno il menú, ordinò un
filettino con patatine.
«Perché non assaggi la trippa? Come la fa il Freddy non la
fa nessuno» le consigliai.
«Bleah!» rispose lei con la bocca piena di rossetto.
Quel giorno capii che donne si dividono in due categorie:
quelle buone solo per una cosa e quell’altre.

68
LE POLITICHE

Mirco dondolava insieme alla sua Tennent’s, la cenere


lunga sul punto di cadere, il corpo magro piegato
innaturalmente dall’ultima pera. Si stava insieme al banco
ad aspettare il mio corretto…
«Gano, te che sai tutto, chi le vince le politiche?»
La Giorgia mi sistemò la tazzina davanti e si girò ad
afferrare la bottiglia di Stravecchio, una manovra d’anche
sublime che mi fece fare un balzo al cuoricino.
«Credo che questa volta vincerà la sinistra» risposi,
sorridendo alla Giorgia.
«Speriamo Gano!» esclamò Mirco, grattandosi il
ginocchio e sfregandosi violentemente il naso.
“Perché, che differenza farà mai!” pensai io, girando il
caffè.

69
PROVACI ANCORA GANO

La Matilda se la tirava, ma ci provai uguale… Alla prima


rimbalzai, ma ci riprovai il giorno dopo, poi provai a
riprovarci nel fine settimana. Niente!
Ma non demorsi e qualche giorno dopo riprovai a
riprovarci, lei mi guardò di sbieco e mi dette un altro due di
picche. Eppure giurai che ci avrei riprovato…
Così provai a riprovare di riprovarci, e non contento
riprovai a riprovare di riprovarci, ma fu quando provai a
riprovare di riprovare di riprovarci che le sfuggì un
sorriso… Ce ne andammo a casa mia e quella fu in assoluto
la notte più godereccia di tutte.

70
IL MARE

A volte d’inverno vado al mare…


Sei lattine, un panino al prosciutto, otto euro e cinquanta il
biglietto dell’autobus e in meno di un’ora sono in spiaggia.
Da solo, perché il mare non vuole distrazioni.
Mi distendo sulla sabbia, guardo le barche lontane, mi
perdo nelle giravolte dei gabbiani e mi sciacquo la gola. Il
mare la sa lunga…
Quel giorno c’erano nuvoloni grossi, e l’aria puzzava di
pesci morti.
«Sta arrivando una tempesta!» urlò una signora col
cappello.
La guardai e aprii un’altra lattina.
«É la parte migliore…» risposi. E risi fino a quando
iniziarono a cadere le prime gocce.

71
72
POESIE DI GANO

“Se la rima mi viene allora bene,


ma si può fare anche senza…”

73
POMPINO

Rachele masticava
Arlengo, non sparare!

74
ODE AL VINO

La notte é del vino


Il giorno é del vino
Son sobrio soltanto
Di presto al mattino
Son come un bambino
Palato non fino
Chianti, Trebbiano
Merlot, Vermentino
Bianco, rosé
Rosso rubino
Saró banale
Non certo divino
C’ho il naso aquilino
E leggo Calvino
A volte profeta
Piú spesso indovino
Io sono Gano
E mi piace il vino!

75
GOTTO

Gotto e rigotto
M’imbratto, son cotto
Giammai come un fatto
Il vino mi sbatto
Aringhe da gatto
Formaggio da ratto
Gano è tranquillo
Versali un gotto
Al banco sto ritto
M’appoggio, l’ammetto
Puntello di petto
Dai piedi sorretto
Sorriso un po’ stretto
Ordino un gotto
Né Dante, né Giotto
Poeta bigotto
Ho il culo un po’ rotto
Ribevi! È il mio motto
Son Gano, son matto
Cantore distratto
Scrivo di getto
È solo un poemetto
Ho detto tutto
Finisco co’ un rutto
Alticcio di brutto
Sul letto mi butto
Son proprio distrutto.
Vi lascio ‘sto frutto
Parole di fiotto
Poema del gotto.

76
BAR

Neon polverosi
Piastrelle demodé
Il banco frigo
Le paste del giorno prima
Ravvivate un po’
Tramezzini con maionese antica
Biscottini di Prato
Lecca lecca
La TV è accesa
Ma nessuno la guarda
Stride il macinino del caffè
Sbuffa la lavabicchieri
Al banco c’è Bruno
Lo sguardo assente
L’ennesimo corretto a sambuca
Videogiochi
Ragazzini ai gelati
Sammontana Algida
Ghiaccioli senza marca
I migliori…
Gratta e vinci
Ma non si vince mai
Tabacchi
Nonostante i divieti
Entra la Robertina
Matta come la luna
Cianfrusaglie
Profetizza la fine del mondo
Tanto matta non è
Si beve il gotto di bianco
Urla un saluto e se ne va
Scatole di cioccolatini
Scadute

77
Hanno finito le pizzette
Vanno a ruba
Il Tommy ordina un camparino
Lo segue Guido con una Ceres
Poi arriva Dado
Negroni senza ghiaccio
Una zavorra sulla testa
Biglietti dell’autobus
Biglietti della lotteria
Schedine
Bruno è sempre lì
E chi lo muove!
Potrei scrivere fino a domani
Seduto a un tavolino
In disparte ma presente
Osservo
Sorrido
Ma lo stravecchio è già finito
Andrò a prenderne un altro
Poi si vedrà!

78
OH BIRRA… ORO CHE MI ANNEGHI

Oro che mi anneghi


Io bevo e tu mi leghi
Sciacquastomaco divina
In bottiglia o alla spina

Gelida e schiumante
Volgare ed elegante
Mi faccio un’altra pinta
Son brillo, o faccio finta?

Amaro che disseti


Io bevo e tu mi cheti
Rugiada degli Dei?
O solo birra sei?

Dai, passa la bottiglia


Del malto sei la figlia
Del luppolo sorella
Birra, come sei bella!

Finisco con un sorso


Son pieno come un orso
Felice come un grullo
Ho il riso di un fanciullo

Ma chiuder non potrei


Sarebbe proprio brutto
E me ne pentirei
Se non facessi un rutto.

Salute!

79
SOLITARIO

Serata sul divano


Televisore spento
Mi basta la mia mano
Inizia il movimento

Ripenso all’altra sera


Gigliola si chiamava
Sui cinquanta, donna vera
La schiena mi baciava

Ricordo poi Priscilla


M’accarezzava piano
Appesa alla mia anguilla
Mi sussurrava “oh Gano!”

L’ascesa è incominciata
Adesso chiudo gli occhi
Susanna, mia adorata
Solo per me ti tocchi

Amiche, amanti e figlie


Tantissime ne ho amate
Di strada meraviglie
Di letto mie adorate

Disteso sul divano


Ricordo piano piano
Esperta è la mia mano
Son solo insieme a Gano.

80
CULO

Panorama campestre
Sottana a frange
Il sole penzola rosso
Odore di rosmarino
Strada acciottolata
Gano sotto l’ulivo
Oggi la passo così
Lontano dalla città
Via da solito bar
“Signora, ha bisogno?”
La sottana si volta
Un sorriso assolato
Ha le mani impegnate
Buste della spesa
“No, si figuri…
…ma grazie lo stesso.”
Riprende il cammino
Lei e il suo didietro
La guardo avviarsi
È una poesia
Un fine quadretto
“Culo perfetto…
…portami via!”

81
ESTATE AL BAR

Asfalto rovente
Sole raggiante
Ventre pesante
Al mare la gente

Arietta leggera
Aperta è la porta
TV resta morta
E attendo la sera

Davanti ai miei occhi


La gonna più corta
Ciliegia di torta
Di un giorno coi fiocchi

La radio trasmette
Canzoni d’estate
E dalle vetrate
Sfilan du’ tette

Priscilla si chiama
La credevo in vacanza
Oh brutta stronza
Chissà chi ti chiava!

Col caldo le donne


Son pericolose
Sensuali e vogliose
Ma portano rogne

Rimango distante
Fó finta di niente
In pace la mente

82
Del tenero amante

È un caldo briccone
Conviene star fermo
Placido e calmo
Col solleone

Nessun guaio in vista


Serata assai quieta
Il bar è la meta
Lo studio d’artista

Mi bevo un birrozzo
Distendo le gambe
Il calore incombe
Ma m’importa un cazzo!

83
GIORNATA NO

Mattina di pioggia
Umida e fredda
Neanche le cosce di Lola
Fan passare la tristezza
Oggi mi sento così
Sotto scacco alla vita
Succede a volte
E menomale
Se fosse sempre rose e fiori
Chissà che palle!

Strascico in cucina
Un bicchiere d’acqua
Per spegnere i fuochi residui
Anche ieri era festa
Come l’altro ieri
E pure il giorno prima
Ma la festa di chi?

“Ti faccio il caffè…”


…dice Lola
Ma rimane sotto le coperte
Perché il freddo
Ha toccato anche lei
Perché le giornate di merda
Si sentono subito
E l’unica soluzione
È rimanersene a letto.

Scosto la tenda
Il bicchiere in mano
Uno sguardo sul grigiore
Formicolio di ombre
Auto in sosta

84
Una sirena lontana
Una pozza d’acqua
Un cane che piscia…

“Figurati, faccio io!”


Chissà se mi ha sentito
Povera Lola
Preparo il caffè
Poi qualche cosa accadrà…

85
UN MONDO A GAMBE APERTE

È un mondo a gambe aperte


Bisogna approfittarne
Il ricco si diverte
A tavola pesce e carne
Il povero mugugna
Combatte ma si arrende
Attende, attende, attende
E intanto fa la spugna.

È un mondo a gambe aperte


Bisogna saperci fare
Giocar tutte le carte
Odiar, fingere e amare
La tavola è imbandita
Ma i posti sono pochi
Li conti sulle dita
E già son chiusi i giochi

È un mondo a gambe aperte


Un buco in cui lasciare
Il figlio della sorte
Da vivere oppure odiare
Gli sbagli son l’essenza
Di questa vita assurda
Se vuoi farne senza
Ti riman solo la corda.

È un mondo a gambe aperte


Inutile dire o fare
Le ferite aperte
Le devi lasciá stare
Potrebbero inguaiarsi
Potresti fare peggio
Inutile arrabbiarsi

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Dai su, beviti un goccio!

È un mondo a gambe aperte


Un bocciolo in cui affogare
Vivere è pari all’ arte
Di scopare e di leccare
Tuffati a capofitto
Approfitta, pago io!
Fatti fare tutto
Vedrai che vedrai Dio!

È un mondo a gambe aperte


Lo vedi la mattina
Il sole sorge per te
Poi canta la gallina
Tra le lenzuola un volto
Di lei o di lui, è lo stesso
Ama sempre molto
Ama, non fare solo sesso!

È un mondo a gambe aperte


Che altro devo dirvi?
Tirate su le coperte
Tornate a divertirvi
Smettetela d’ascoltare
Il vecchio Gano pazzo
Non fatela scappare
La vita va presa al lazzo!

87
PIACERE SON GANO

Torno ad ascoltare
Le parole del cuore
Il gusto e l’odore
Dell’arte d’amare

Mi perdo nel sole


Abbraccio l’abbaglio
Di certo non sbaglio
Tentare non duole

Il vento carezza
Sbatte un cancello
Cinguetta l’uccello
L’orecchio mio apprezza

Bicchiere di vino
Lontano il casino
Mi metto supino
Son come un bambino

Poi lei s’avvicina


La gonna cortina
È proprio carina
Si chiama Sabrina

Allungo la mano
Si gira e sorride
Mi guarda e mi uccide
“Piacere, son Gano”.

88
TRISTEZZA

Mi prende così
Non so neanch’io
Tristezza, mio dio…
La sento qui.

Vicino al cuore
È come un sasso
Respirar non posso
Non sento calore.

Tutto si offusca
Diventa bigio
Io, Gano mogio
Attendo burrasca.

La calma precede
La stronza tempesta
I tuoni e la frusta
La vita che chiede.

Si paga il prezzo
Ti avvii alla cassa
Lo sai che poi passa
Ma fa male, che cazzo!

Rimorsi e rimpianti
Ti sputi allo specchio
Ti senti più vecchio
Hai gli anni pesanti.

La fine poi è quella


Ti scoli un goccetto
Continui e sei fatto
Maremma budella!

89
ESTATE AL BAR 2

È un caldo d’asfalto
E mutande appiccicose
Di mattine vogliose
E notti di malto

Io, Gano pazzo


Rimischio le carte
Ignaro della morte
Osservo l’andazzo

Al bar c’è l’arietta


Pare d’esser su un’isola
Mentre fuori tremola
Quest’estate matta!

Al banco Giuliano
Col suo shakerato
Dalla vita trombato
Sebbene abbia il grano

Al tavolo Franco
Montenegro ghiacciato
Dalla vita inculato
Si trascina stanco

Simo al videopoker
Impreca e bestemmia
È in preda alla scimmia
Speranze ne ha poche

Tina gioca al lotto


Ormai da una vita
Per niente avvilita
Attende il filotto

90
Carlino al cellulare
Messaggi alla ganza
Che è solo una stronza
Fa coppia esemplare

Poi ci sono anch’io


Il poeta ubriacone
Osservo le persone
E gioco a fare Dio

Al bar in estate
Convergono i pazzi
Gli antichi ragazzi
E bambine d’annate

Né amori e né affetti
Rimango appartato
Per niente sudato
Con una moretti.

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COSTANZA

Ti svesto e ti risvesto
Al bordo del letto mi appresto
Mi getto in mezzo alle sete
Son come un matto che ha sete
Mi abbevero alla tua fonte
Alla maniera di un bisonte
Quando scende al fiume
Io invece ti do il seme
Lo vuoi adesso, Costanza?
Mentre son sulla patonza
Ripenso alla proposta
Marito, giammai…
Meglio schiavo, semmai!
Ma quanto mi costa
Questa notte d’amore
Ci si mette anche il core
Fa pum, pum, pum
Stai a vedere che
Mi vien l’infarto su di te!
Sei proprio una stronza
Mia bella Costanza
Ma che te lo dico a fare
Tanto fai finta di niente
Dovrei levar le tende
Ma torno a stantuffare…

92
ASSO PIGLIA TUTTO

Asso piglia tutto


Saluto con un rutto
Alticcio, me la canto
Son Gano e me ne vanto!

Mettetevi a sedere
Non fate quelle facce
Aprite un par di bocce
Ovvia, s’inizia a bere.

Che schifo di giornata


Neanche una giusta
Ma quanto mi costa
Questa vita inventata.

L’affitto da pagare
E tutte le bollette
E’ appena il diciassette
Non so più cosa fare.

Ma oggi son di festa


A bere inizio presto
Ed io solo per questo
Ho alzato la mia cresta.

Galletto saltellante
Amante ad ogni ora
Puttana oppure suora
Di qualità ne ho tante.

Le donne ben lo sanno


Mi tengono di conto
Mi fanno anche lo sconto
A pasqua e a fine anno.

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Suvvia versami un gotto
Che c’ho la gola secca
Deliziami la bocca
Ribevi! E’ il mio motto.

Asso piglia tutto


Il mondo resta brutto
Ma col bicchiere in mano
Felice è il vostro Gano.

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LA MIA DECADENZA

Nell’aria odor di orina e sigaretta


Tracce di una giornata perfetta
Passata in allegria e mai di fretta
In cerca di qualcosa che mi spetta.

Ho smesso di scalare quella vetta


Della torta mi accontento di una fetta
Che m’importa se qualcuno m’aspetta
Mi rigiro nel letto un’altra oretta.

No, io non seguo alcuna retta


Ignoro della morte la sua stretta
Rimango al caldo della mia casetta
Piccina si, ma benedetta.

La notte la passo da Nicoletta


Adoro il modo in cui sculetta
Mi porta in giro sulla sua alfetta
E mentre guida le sbircio una tetta.

Amo e godo sempre a manetta


La mia vita è in presa diretta
Se poi la mi diventa abietta
La via d’uscita è la lametta.

95
CARLOTTA

Conobbi Carlotta
Candida come cocco
Cicala campestre
Cantava con clamore
Chiedendo cazzo,
Che cavalcandola
Cercai con cura clito.

Coito costretto
Cantai colmandola
Caddi così contento
Contro culo
Clarinetto contro contrabbasso.

Che cosa clamorosa Carlotta!

96
INTERVISTE A GANO

- 27 febbraio 2009 -

DA QUANTO TEMPO COMPONE POESIE?

Ero piccino. Mio padre mi picchiava ed io mi vendicavo


con la penna. È stato utile, come una specie di rito voodoo.
Alla fine il vecchio è crepato!

QUANTA VERITÁ SI NASCONDE NELLE SUE


OPERE?

Mah, la verità è una cosa strana. Ognuno c’ha la sua.


Quello che scrivo è tutto assolutamente vero, ve lo posso
assicurare, perché viene da dentro di me. Alcuni scrivono
col cuore, altri con la mente. A me piace scrivere con tutto il
corpo, specialmente con quegli organi un po’ bistrattati, tipo
il pancreas, ad esempio. Vengono delle poesie meravigliose
col pancreas!

SI RITROVA PIÚ NEL RUOLO DI POETA O DI


SCRITTORE?

Poeta? Scrittore? Non si offenda, ma a me non sono mai


piaciute le etichette. Scrivo perché mi và. Ogni tanto esce
una rima, mi piace e la lascio. Altre volte mi vengono in
mente delle storie e le butto giù, come quando sono al bar e
le racconto agli amici.

COSA LA SPINGE A SCRIVERE?

A otto anni mi spinse mio padre, poi è stata tutta discesa.


Voglio dire, ogni cosa che mi capita, bella, brutta, noiosa,
eccitante, merita di essere descritta oppure omaggiata. Ho
scritto molto in passato, ma non mi sono mai interessato di
conservare le cose che scrivevo. Molte poesie sono

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diventate carta straccio, foglietti lasciati nelle camere
d’albergo insieme ad un paio di bottiglie vuote. Nessun
rammarico. Scrivere è una medicina, e una volta presa non
c’è bisogno di conservare la confezione, non so se mi
spiego…

L’ASSOMIGLIANZA CON BUKOWSKI È QUASI


SCONTATA. COSA NE PENSA DEL FATTO CHE I
SUOI LETTORI LA VEDANO COME UNA VERSIONE
ITALIANA DEL NOTO SCRITTORE AMERICANO?

Non può che farmi piacere. Charles è stato il promotore


della poesia di strada. Avventure sconce, borderline, ma
sempre con una grande vena poetica. Però non mi ispiro a
lui, perché non ho alcuna aspirazione. Quello che faccio lo
faccio perché mi và.

HA MAI PENSATO DI SCRIVERE UN ROMANZO?

Non ne sarei capace. Non ho la disciplina necessaria per


affrontare un progetto simile. Potrei iniziarlo e perdermi
tutti gli appunti dopo una settimana di lavoro. No, il
racconto e la poesia sono le giuste misure per me.

COSA CI PUÓ DIRE DI QUESTA RACCOLTA CHE


STA PER USCIRE?

Non ne so molto. La Edizioni Willoworld se ne sta


occupando. Prima scrivevo su carta, adesso alcuni amici mi
fanno scrivere sui loro computer e poi mettono i lavori su
internet. Per questo motivo non vengono perduti. La
Edizioni Willoworld mi ha detto che vuole riunire il
materiale pubblicato fino ad ora in un piccolo libricino. Per
me va bene. Non ho aspirazioni, come ho già detto.
Il titolo dovrebbe essere “Un mondo a gambe aperte”. È
anche il titolo di uno dei miei scritti, che presto apparirà su
queste pagine.

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I VOSTRI PROGETTI FUTURI?

Andarmene al bar a farmi un goccetto (ridendo).

- 10 Maggio 2010 -

È PASSATO PIÙ DI UN ANNO DAL NOSTRO


ULTIMO INCONTRO. COME STA?

Benissimo, grazie. Ho messo su un altro paio di chili, ma


non mi lamento...

IL SUO LIBRO È STATO SCARICATO PIÙ DI


DUECENTO VOLTE, UN RISULTATO
SODDISFACENTE CONSIDERANDO IL METODO DI
DIVULGAZIONE. QUALI CREDE CHE SIANO LE
RAGIONI DI QUESTO PICCOLO SUCCESSO?

Beh, lo sappiamo bene che certe tematiche attirano la


gente. I miei racconti parlano di vita vissuta, uso parole
forti, quelle con cui mi trovo meglio, e la gente su internet
va alla ricerca di quelle cose. Poi inciampa per caso sul mio
libro e se lo scarica. Dubito però che tutti lo leggano.

LA EDIZIONI WILLOWORLD LO RIPROPONE IN


QUESTI GIORNI CON 40 PAGINE IN PIÙ, CIOÈ CON
LE OPERE CHE SONO APPARSE RECENTEMENTE
SUL CIRCUITO WILLOWORLD.NET. CHE NE PENSA?

Perfetto... in effetti la prima edizione aveva appena 60


pagine, era poco più di un opuscolo. Adesso si può quasi
parlare di libro.

COSA DICONO DI LEI I VOSTRI AMICI DEL BAR,


RIGUARDO ALLA SUA PASSIONE PER LA POESIA E
LA SCRITTURA?

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Mi fanno i complimenti, a volte mi dicono di voler leggere
qualcosa ma la maggior di loro parte dura fatica a capire gli
articoli della Gazzetta dello Sport, figuriamoci uno dei miei
racconti, che comunque sono sempre molto semplici e
brevi.

È VERO CHE HA INTENZIONE DI SCRIVERE UN


ROMANZO?

Come ho già detto l'altra volta, per me è difficile


organizzarmi. Per questo preferisco i racconti. Mi metto a
sedere, scrivo e so che devo finire prima di alzarmi perché
altrimenti quella storia non vedrà mai la luce. Non ho
disciplina, e poi perdo tutto. Però si, mi piacerebbe scrivere
qualcosa di un po' più pretenzioso. Mi hanno fatto vedere
come scrivere direttamente su internet, in modo da non
perdere mai nulla... In quel modo penso di poterci riuscire,
chissà...

CI PUÒ ANNUNCIARE QUALCOSA? DI COSA


TRATTERÀ QUESTO SUO PROGETTO?

Oh, è davvero troppo presto per dirlo. Vorrei scrivere di


me, come faccio sempre, delle mie avventure. Ho diverse
idee ma devo risistemarle per bene. Di solito la mattina col
caffè riesco a farmene un quadro, poi dopo il terzo cicchetto
non mi ricordo già più nulla... (sorride).

IMMAGINO ALLORA CHE I TEMPI DI


LAVORAZIONE SARANNO LUNGHI.

Contatetici! Ora vado a farmi un birrozzo... che faccio, ne


ordino due?

100
IDENTITÁ DI GANO

Gano è un personaggio di GM Willo per La Giostra di


Dante, il gioco di ruolo dei poeti e degli scrittori. Ogni
riferimento a persone o a fatti realmente accaduti è
puramente casuale.

www.lagiostradidante.co.nr

101
Edizioni Willoworld

www.willoworld.net

www.edizioniwilloworld.co.nr

102

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