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CAPITOLO 3

CIRCUITI PER LA CONVERSIONE DELL’ENERGIA

3.1 Convertitori AC/DC non controllati (raddrizzatori)

Si parlerà, ora, dei problemi di conversione dell’energia, con riferimento particolare


alle problematiche relative alla realizzazione di alimentatori o unità di alimentazione
per circuiti.
Il primo dispositivo che si prenderà in considerazione sarà il convertitore AC/DC non
controllato, noto anche con il nome di raddrizzatore e che, sostanzialmente, è un
circuito basato sull’impiego di diodi. Come suggerisce la parola stessa, il convertitore
riceve in ingresso una tensione alternata e deve fornire in uscita, idealmente, una
tensione continua.

AC
Vin Vu

DC
fig. 1

Tale convertitore rappresenta un componente di base in molti circuiti di conversione


dell’energia, per il semplice fatto che si ha quasi sempre bisogno di interfacciarsi con
un ente che fornisce una sorgente di tensione alternata (ENEL); in alternativa si può
avere a che fare con batterie quali sorgenti di energia, anche se poi, alla fine, per
caricare queste batterie si deve sempre partire dalla tensione di rete.
Lo schema circuitale di questi dispositivi è piuttosto semplice, ma questo vantaggio si
paga, tuttavia, con la necessità di introdurre dei filtri che sono spesso molto costosi. In
generale nel progetto di alimentatori si dovrà fare un trade-off fra il costo e il controllo
del circuito e la semplicità del filtro. Ad esempio, si può pensare di spendere di più per
la parte attiva (transistori) e risparmiare, invece, sul filtro; c’è, per così dire, sempre
un compromesso fra costo dell’elettronica (parte attiva) e dell’elettrotecnica (parte
passiva). La tendenza è quella di risparmiare sul costo dei filtri, che sono in generale
ingombranti, spendendo invece qualcosa di più sui componenti attivi, ovviamente
quando il progetto lo permette.
L’operazione fondamentale eseguita da questi dispositivi è una conversione di
frequenza dai 50-60 Hz ad una continua e si è visto che questa operazione è possibile
eseguirla solo con componenti non lineari, in particolare, questi dispositivi utilizzano il
componente non lineare più semplice, cioè il diodo.

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Analisi e progetto di questi circuiti risultano piuttosto semplici, qualora si possa
considerare il modello del diodo ideale, la cui caratteristica è lineare a tratti
(raddrizzatore perfetto).

v D = 0 se iD ≥ 0 on
Modello diodo ideale 
iD = 0 se vD ≤ 0 off

iD

vD

Il modello in questione è indubbiamente semplice, ma deve anche essere significativo


per le applicazioni in cui intendiamo usarlo; la bontà dell’approssimazione introdotta è
garantita per lo studio di convertitori AC/DC. Infatti, in primo luogo, si sta
considerando una relazione statica fra corrente e tensione (quindi non sono presenti
effetti di memoria e la caratteristica è sempre quella di figura); questa
approssimazione è lecita perché si sta operando a 50-60 Hz (il periodo è dell’ordine
dei 20 msec), quindi, per quanto i dispositivi usati siano lenti (quelli più lenti sono i
diodi da potenze grosse e hanno tempi di ritardo e di commutazione dell’ordine delle
centinaia di µsec), i tempi di storage sono enormemente più piccoli rispetto al periodo
della frequenza di rete. Si sta, dunque, considerando una frequenza talmente bassa,
che anche i dispositivi più grossi e più lenti hanno una dinamica comunque
trascurabile.
Il diodo è, comunque, un componente relativamente semplice ed è possibile trovare
diodi in grado di operare anche ad alte frequenze (fino a centinaia di GHz).
Un’altra approssimazione introdotta è quella che deriva dall’aver considerato la
caratteristica a squadra ideale in continua, trascurando la tensione di soglia VON di
accensione del diodo e di conseguenza considerando nulla la potenza dissipata e
trascurando, inoltre, la corrente di perdita nello stato off del diodo (molto meno
pesante della prima approssimazione). Ancora una volta, comunque, questa
semplificazione non crea particolari problemi, in quanto si lavora con una tensione di
rete di ca. 220 V efficaci e quindi una caduta di 0.7-0.8 V è praticamente ininfluente.
L’utilizzo di approssimazioni lineari a tratti, come la caratteristica a squadra di cui
sopra, risulta comoda ai fini di una analisi semplificata. Ad esempio, la caratteristica
di un diodo potrebbe essere approssimata come in figura:

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I

VA VB V

 I = kV V ≤ VA

 I = α + βV VA ≤ V ≤ VB (1)
 I = γ + δV V ≥ VB

in cui le (1) approssimano meglio l’esponenziale.


Per trovare la soluzione, grazie alla approssimazione lineare tratti, si devono risolvere
problemi di tipo lineare. A questo scopo si dovrà mettere a sistema con le (1)
l’equazione del carico/sorgente. Il problema che si pone è quello di determinare su
quale dei 3 tratti cade la soluzione: si procede per tentativi ipotizzando che la
soluzione appartenga ad uno dei tre tratti e mettendo a sistema la relativa equazione
(1) con quella del carico, riservandosi, poi, di andare a verificare la coerenza della
soluzione con l’ipotesi scelta.

I
3

1 c

VA VB V

Si supponga ad esempio che il tratto in cui si ipotizza che cada la soluzione sia il 3 : si
dovrà, allora, mettere a sistema la terza equazione delle (1) con l’equazione del carico.
La soluzione cadrà nel punto di intersezione c. Si dovrà, ora, verificare che
quest’ultima sia coerente con l’ipotesi fatta in partenza. Si osserva però che la
soluzione Vc trovata non rispetta il vincolo (appartenenza al tratto 3) di essere ≥ VB;
ciò significa che l’ipotesi di partenza era errata. A questo punto, si dovrà procedere per
tentativi, considerando la successiva equazione delle (1) e procedendo allo stesso modo.
Chiaramente, questo metodo diventa difficilmente utilizzabile qualora i dispositivi
siano numerosi, perché allora le permutazioni possibili diventano moltissime
(fattoriale); è in questa situazione che diventa indispensabile l’abilità e l’esperienza
circuitale del progettista nell’individuare le configurazioni impossibili e quindi da
scartare a priori.

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3.1.1 Raddrizzatori a semionda

fig. 1

Quando la tensione d’ingresso è positiva, il diodo conduce, la caduta ai suoi capi è zero,
per il modello che abbiamo utilizzato, e la tensione d’uscita è uguale alla tensione
d’ingresso. Il grafico della corrente coincide, a meno della costante R, con quello della
tensione. Il metodo di analisi precedentemente studiato si può facilmente applicare in
questo caso, in cui abbiamo un diodo con due soli stati possibili: acceso o spento.
Consideriamo il caso in cui sia vIN ≥ 0 :

 Diodo OFF ⇒ iD = iu = 0 ⇒ vu = 0 ⇒ v D = vin > 0 ⇒ assurdo



Stati possibili  vin
 Diodo ON ⇒ v u = 0 ⇒ v u = vin > 0 ⇒ iu = > 0 ⇒ ok
R

Analogamente si ricava che per vIN ≤ 0 il diodo deve essere necessariamente OFF e
quindi, non passando corrente, la tensione d’uscita è nulla; in figura 1 si può, dunque,
notare che delle due semionde, positiva e negativa, “passa” solo quella positiva.
Corrispondentemente, quando il diodo è spento, la tensione ai capi del dispositivo è
pari, a meno del segno, a quella del generatore d’ingresso; il diodo vede, quindi, una
tensione inversa con picco uguale a –VIN (ampiezza della sinusoide). Si vuole vedere,
ora, quali sono le prestazioni di questo convertitore il cui interesse pratico è comunque
scarso:

PRESTAZIONI DIODO

Vin
Vuo = VBD > Vin
π
V
I uo = I ino =
Vin iˆD = in
Rπ R
V
VuRMS =
Vin I D 0 = in
2 Rπ
V
π2 I DRMS = in
γ = − 1 ≈ 1.21 2R
4
50
Si ricavano, anche, alcune delle formule indicanti le prestazioni. Si ricordi la
definizione di valore efficace:
T
1
= ∫v
2 2
v RMS u ( t ) dt
T 0

Si può ottenere l’espressione del valore efficace della tensione d’uscita ragionando nel
seguente modo: se si avesse una sinusoide intera, il valore efficace della tensione
d’uscita al quadrato sarebbe pari a metà della Vin ; dal momento che si ha solo metà
sinusoide, allora, si avrà

1 V in2 V in2 Vin Vin V


V 2
uRMS = = da cui VuRMS = = = RMS
2 2 4 2 2 2 2

da cui si nota che, passando da un’onda intera ad una mezz’onda, i valori efficaci
vengono divisi non per 2 (come per i valori medi) ma per √2 perché c’è un’operazione di
radice quadrata di mezzo.
I valori della tensione d’uscita media ed efficace consentono di calcolare il fattore di
ondulazione:

2
V uRMS
γ = − 1 ≅ 1 . 21 = 121 %
V u20

che è un valore molto elevato. Questo risultato è comprensibile se si pensa che in


ingresso si ha una sinusoide, si vuole ottenere una continua e in uscita si ritrova una
mezz’onda, che sicuramente deve essere migliorata, essendo affetta da componenti
armoniche rilevanti rispetto alla componente utile continua.
Si vogliono vedere, poi, gli altri elementi che compongono il resto del circuito: la
resistenza R è la resistenza di carico, mentre il componente non lineare da scegliere si
è visto essere il diodo. Per scegliere tale componente a semiconduttore, serve sapere la
massima tensione che deve sopportare (dalla tabella si vede che vale -Vin), per cui la
tensione cosiddetta di “breakdown” deve, ovviamente, essere maggiore del picco della
tensione d’ingresso; in un componente, poi, bisogna considerare tre tipi di correnti,
perché tutte hanno un legame diretto con i possibili danni al dispositivo e sono:

V
iˆD = in → Corrente di picco: essendo Vin la tensione di picco ed essendo i componenti
R
in serie, è così espressa; forti correnti di picco possono
provocare seri danni, principalmente, ai contatti esterni
del dispositivo.
Vin
ID0 = → Valore medio di corrente: è l’indicatore della taglia del diodo che serve e,

se il convertitore fosse perfetto e il componente
fosse ideale, si dovrebbe avere solo questo
valore.

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Vin
IDRMS= → Valore efficace di corrente: è legato alla dissipazione di potenza
2R
che si ha sui dispositivi.

Questi sono, in generale, i valori che si ritrovano sui “Data sheet” del componente e la
condizione migliore si ottiene quando questi tre valori di corrente sono molto prossimi
tra loro.
Il dispositivo, infatti, è impiegato per un certo valore medio di corrente, per cui più
sono alti il valore efficace e quello di picco, e più si è costretti a spendere, dovendo
comprare un dispositivo più grosso in grado di reggere quei valori di corrente.

Questo convertitore AC/DC è poco usato per due motivi : 1) l’elevata distorsione 2) la
presenza di una componente continua della corrente d’ingresso e, dei due problemi, il
secondo è di gran lunga il più importante. Essendo il circuito in serie, la componente
continua d’uscita coincide con quella d’ingresso e vale

Vin
I in 0 =

Il problema di questa componente continua è da vedersi in relazione ad un possibile
stadio in ingresso; questi oggetti, come dice il nome stesso, sono raddrizzatori non
controllati e, quindi, il livello di tensione medio in uscita, se ci si collega alla rete, non
può essere variato.
Se si vuole un valore della continua più basso o più alto, allora, si deve inserire un
trasformatore con un determinato rapporto spire in grado di riportare al livello di
tensione continua desiderato.
La Vin sarà, allora, non più la tensione di rete, ma quella determinata dal rapporto
spire di un trasformatore.
Di qui deriva il motivo per cui la componente continua della corrente in ingresso dà
fastidio; infatti, il trasformatore è un oggetto che non è costruito per lavorare con
componenti continue, ma con tensioni e correnti che abbiano valori medi nulli.
Si riprende, a questo proposito, il simbolo circuitale di un trasformatore e le sue
equazioni nel caso ideale:

I1 I2
V2 N2
V = N
V1 V2  1 1

I
 2 = − N 1
 I 1 N2
N1 N2

Bilanciando le forze magneto motrici (nel caso ideale si dovrà ottenere zero):

I 1 N 1 + I 2 N 2 = lH = ℜ Φ = 0
dove si è indicato con

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l
ℜ =

la riluttanza. Lo zero nasce dal fatto che, per un materiale ferromagnetico ideale, la
permeabilità è infinita e quindi la riluttanza è nulla, cioè non serve corrente per
sostenere il flusso (si può avere un flusso finito con corrente nulla). In realtà, si
dovrebbe tenere conto anche di un termine N1Im, dove Im è detta corrente di
magnetizzazione e serve proprio a sostenere il flusso; trascurando l’isteresi si può,
allora, considerare il seguente grafico:

H
Ho ≠ 0

zona utile

Quindi, finché non si hanno componenti continue di corrente, anche la componente


continua del campo H0 sarà nulla; se, invece, si ha una componente continua di
corrente, allora, H0 ≠ 0 e invece di operare nell’intorno del tratto rettilineo (zona utile),
si andrà ad operare vicino alla zona di saturazione e tenendo conto che la pendenza è
molto elevata, basteranno piccole componenti continue per avvicinarsi ad una zona
molto pericolosa (in zona di saturazione il modello non è più quello ideale perché la
riluttanza cresce e la corrente di magnetizzazione aumenta, con il rischio di
danneggiare il componente, bruciando il trasformatore).
Il passaggio che tiene conto del fatto che la riluttanza non è nulla ma finita, complica
il modello ideale preso in esame:

ℜΦ = N 1 I m

dove si è rapportata la corrente di magnetizzazione al numero di spire del primario.


Questo bilancio può essere anche scritto nel seguente modo:

V1 dI m
ℜ = N1
N1 dt

e ricordando che V = N dΦ/dt


dΦ dI m
ℜ = N 1
dt dt

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da cui si ricava infine
N 12 dI m
V1 =
ℜ dt
che ci permette di modificare lo schema circuitale del trasformatore, che tiene conto di
una riluttanza non nulla (per cui serve una corrente di magnetizzazione che sostenga
il flusso). Il termine
N 12
Lm =

ha le dimensioni di un’induttanza e viene chiamata induttanza di


magnetizzazione:

I1 N1 N2 I2

Im
Trasformatore
V1 Lm V2 perfetto

Questo modello è ancora idealizzato, ma tiene conto, rispetto a quello ideale, della
riluttanza non nulla legata alla presenza di una corrente di magnetizzazione. Se si
volesse una schematizzazione ancora più reale, si dovrebbe tenere conto delle perdite
nel rame e nel nucleo ferromagnetico, nonché dei flussi dispersi dovuti al fatto che non
tutto il flusso del primario riesce a concatenarsi al secondario.

L1 R1 N1 N2 R2 L2
I1 I2

V1 Lm RF V2

Dove: L1 ed L2 sono dette induttanze di dispersione e tengono conto dei flussi dispersi,
R1 ed R2 tengono conto delle perdite nel rame (gli avvolgimenti di tipo metallico
usati per fare le bobine del trasformatore sono in rame e quindi anch’essi hanno
una resistenza finita e delle perdite),
RF tiene conto delle perdite nel ferro che sono essenzialmente dovute a :
1. perdite per isteresi (l’area dovuta all’isteresi non è nulla come abbiamo considerato
nel grafico B-H ma è finita e provoca una dissipazione di potenza)
2. perdite dovute alle correnti indotte di Focault.

L’impiego di un trasformatore nello stadio d’ingresso è quindi improponibile, a causa


della presenza della suddetta componente continua, difficilmente sopportata dal
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trasformatore, anche se, attraverso un opportuno sovradimensionamento del
trasformatore (o un abbassamento della sua permeabilità magnetica) sarebbe possibile
superare il problema, salvo aumentare notevolmente i costi di realizzazione.
L’alternativa, che solitamente si utilizza, è quella di considerare degli schemi circuitali
simmetrici che consentono di eliminare la componente continua lato AC
nell’operazione di conversione AC/DC.

3.1.2 Raddrizzatori a onda intera

Questo particolare circuito viene utilizzato per eliminare la componente continua del
segnale d’ingresso e ottenere una pura sinusoide.
Al fine di effettuare ciò, si possono scegliere due diverse tipologie circuitali,
rappresentate in figura1.a e in figura 1.b:

fig. 1.a fig. 1.b

Si vogliono, ora, analizzare i due diversi circuiti, mettendo in evidenza vantaggi e


svantaggi dell’uno e dell’altro.
Nel primo caso, si può osservare come la presenza dei componenti a semiconduttore
(diodi) sia resa minima, ottenendo così il vantaggio di un circuito complessivamente
poco dissipativo; di contro, in tale circuito, viene impiegato un trasformatore a doppio
secondario a presa centrale, piuttosto complesso, che ne aumenta i costi.
E’ proprio quest’ultimo motivo che porta spesso a scegliere il secondo circuito, in cui si
utilizza un trasformatore a singolo secondario, di costo minore; l’aumento del numero
di diodi da due a quattro, infatti, non comporta costi svantaggiosi se confrontati con il
risparmio ottenuto utilizzando un trasformatore più semplice. Un altro aspetto di
fondamentale importanza è la caduta di tensione ai capi dei diodi. Si osserva che in
figura1.b la conduzione dei diodi avviene a coppie, infatti, se Vin > 0 sono in conduzione
i diodi D1 e D2 e quindi in serie al percorso costituito dalla tensione d’ingresso e dalla
tensione al carico, si ritroveranno due diodi che provocheranno ben due cadute di
tensione ai loro capi, di entità complessiva pari a 2Vγ, fra ingresso e uscita; nel caso del
circuito di figura1.a, sotto le stesse ipotesi, invece, si ha una caduta pari a Vγ, dal
momento che responsabile di tale caduta di tensione è soltanto uno dei due diodi.

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Tale considerazione è tanto più rilevante quanto più le tensioni in gioco sono piccole;
infatti, perdere 1.4V utilizzando lo schema di destra può essere pesante rispetto agli
0.7V dello schema di sinistra, quando le tensioni da raddrizzare siano relativamente
basse. Tipicamente, negli alimentatori stabilizzati e nei regolatori di tensione, in cui
questi componenti entrano nel primo blocco, si usa quasi sempre il ponte a diodi
intero.
I due circuiti realizzano, comunque, una stessa funzione, cioè:

V u ≥ V in (1)

Al fine di poter dimostrare la (1), si consideri il circuito di figura1.b (si potrà ottenere
lo stesso risultato prendendo in considerazione l’altro circuito). Dall’analisi di maglia
si ha:
Vin − V D1 − Vu − V D 2 = 0

ovvero
V D 1 + V D 2 = Vin − V u (2)

tenendo presente il funzionamento dei diodi, per i quali la tensione è per forza nulla
(diodo ON) o negativa (diodo OFF), la somma a primo membro della (2) sarà
sicuramente non positiva e, quindi, si avrà:

V in − V u ≤ 0 (2’)
per cui
V u ≥ V in (3)

Analogamente, considerando in conduzione i diodi D3 e D4 si trova:

Vu ≥ −Vin (4)

Poiché devono valere contemporaneamente sia la (3) che la (4), essendo del tutto
generali, dovrà per forza di cose essere vera la:

V u ≥ V in (5)

Dal momento, però, che se iu > 0 , c’è sempre una coppia di diodi in conduzione, nella
(5) si dovrà, allora, considerare l’uguale in senso stretto, cioè
V u = V in se iu > 0

per cui il circuito realizza una pura funzione di modulo. Ciò rimane vero fino a quando
non si ha un carico che consenta l’annullamento della corrente. Se ora si osservano i
due circuiti, si può quindi notare come essi raddrizzino anche la tensione negativa; per
il primo circuito ciò avviene grazie alla conduzione del diodo D1 nel semiperiodo
durante il quale la semionda è positiva, e del diodo D2 nel semiperiodo durante il quale

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la semionda è negativa, mentre per il secondo ciò si verifica con la conduzione delle
coppie di diodi D1 , D2 e D3 , D4 rispettivamente.
Per quanto riguarda la tensione inversa, poi, nel circuito di sinistra il valore minimo di
tensione che si riesce a raggiungere è pari a –2Vin , in quanto il diodo, quando è
spento, vede entrambi gli avvolgimenti del secondario del trasformatore, cioè si pone
in parallelo ad esso; nel circuito di destra, invece, quando due diodi sono in
conduzione, gli altri due risultano in parallelo e invertiti rispetto alla sorgente, cioè il
minimo di tensione si ha a -Vin essendo presente un solo avvolgimento secondario. Ciò
può essere verificato cortocircuitando due diodi e vedendo che gli altri due sono in
parallelo e invertiti rispetto alla sorgente. Quanto detto può essere graficato come
mostrato in figura 2, dove si è messo in evidenza l’andamento di correnti e tensioni,
facendo riferimento al raddrizzatore a onda intera di figura1.a:

fig. 2

Si vuole, ora, fare un’ultima importante osservazione: ciascun diodo porta un valore
medio di corrente, ma la corrente globale di ingresso, grazie alla simmetria dello
schema, è ora data da iD1-iD2, quindi tale corrente torna ad essere sinusoidale, cioè non
si ha componente continua, o per meglio dire le due componenti continue si cancellano.
E’, dunque, questo il motivo per il quale questi circuiti si preferiscono al raddrizzatore
a semionda presentato nel precedente paragrafo.
Di seguito sono riportate le prestazioni di entrambi i circuiti raddrizzatori considerati:

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PRESTAZIONI DIODO

2Vin
Vuo =
π
I ino =0
VBD > 2Vin
V
VuRMS = in VBD > Vin (ponte intero)
2
V
π2 iˆD = in
γ = − 1 ≈ 0.48 R
8 I V
∂Vu 0 I D 0 = u 0 = in
= 0 = − Ru 2 Rπ
∂I u 0 I V
∂Vu 0 2 I DRMS = uRMS = in
= 2 2R
∂Vin π

• Vu0 è esattamente il doppio rispetto al valore che si era trovato per il raddrizzatore
a semionda, infatti, ora si ha una doppia semionda;
• il valore medio di corrente in ingresso uguale a zero è stato precedentemente
commentato;
• per ciò che riguarda il valore efficace di tensione in uscita è quello tipico di una
sinusoide, (la sinusoide è raddrizzata, ma ciò non influisce sul valore efficace);
• si ha un miglioramento in termini di distorsione, infatti il γ è notevolmente
migliorato.
• Per ciò che riguarda la resistenza di uscita, si vorrebbe che quest’ultima fosse il più
possibile prossima a zero; ciò significherebbe che il generatore in continua, cioè
l’alimentatore, sarebbe in grado di fornire il livello di tensione desiderato,
indipendentemente dalla corrente assorbita dal carico. Nel caso ideale la Ru, cioè la
variazione della tensione in seguito a una variazione di corrente, in uscita, è nulla,
poiché la Vu0 non dipende assolutamente da Iu0 , il che significa che si può inserire
un carico che può assorbire quanta corrente vuole e il valore medio di tensione non
viene modificato. Tale proprietà è molto buona e quindi sarà auspicabile cercare di
mantenerla il più possibile.
• Il parametro ∂Vu0/∂Vin sta ad indicare che l’alimentatore desiderato, oltre che
fornire la continua dall’alternata, deve essere il più possibile indipendente dalle
fluttuazioni della rete, cioè sarà importante avere una buona reiezione dalle
variazioni della tensione di rete. Come caso ideale si vorrebbe ∂Vu0/∂Vin = 0 cioè una
totale indipendenza della tensione di uscita dalla tensione di rete. In realtà ciò non
è possibile e vista la dipendenza di Vu0 da Vin si ottiene ∂Vu0/∂Vin = 2/π.

Infine si analizzano i diodi:


• il valore di picco rimane immutato rispetto al caso di raddrizzatore a semionda;
• per ciò che riguarda i valori medi, si osserva che ogni diodo contribuisce per metà
periodo all’intero valore medio di corrente, quindi, rispetto al caso del raddrizzatore
a semionda, il valore medio dovrà essere diviso per due;
• le considerazioni appena fatte per il valore medio valgono anche per il valore
efficace, con la sola differenza che in questo caso si dovrà dividere per 2 , anziché
per 2.

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3.2 Filtraggio

I problemi del raddrizzatore, anche con lo schema ad onda intera, non sono ancora
stati del tutto risolti, in quanto ci si ritrova con un fattore di ondulazione γ ancora
elevato e una forma d’onda in uscita tutt’altro che continua e, quindi, per ottenere una
tensione d’uscita che sia tale, si dovrà introdurre un filtro. Le problematiche associate
allo studio dei filtri possono essere viste in due modi: il primo è legato all’analisi della
sorgente nel dominio del tempo; se si considera, infatti, l’andamento della funzione v(t)
di figura 1, si può notare come, in corrispondenza degli zeri della funzione stessa, la
tensione d’uscita presenti dei “buchi” alternati a dei livelli alti.

fig. 1

Questo andamento è dovuto al fatto che la tensione d’uscita segue l’andamento della
sorgente, per cui, quando il segnale sinusoidale in ingresso si annulla, ai capi del
carico la tensione è nulla e, di conseguenza, lo è anche la tensione d’uscita. Il filtro può
essere visto come un insieme di serbatoi di energia, inserito fra il condensatore e il
carico, la cui funzione è proprio quella di rimediare ai suddetti “buchi” di energia;
quindi, quando la sorgente dispone di energia, il filtro la accumula, salvo poi
rilasciarla al carico, nel momento in cui il livello energetico della sorgente tende ad
annullarsi. In questo modo, il flusso di energia fra una sorgente, che non possiede un
flusso continuo, e il carico, è reso più omogeneo.
Il secondo modo di ragionare prevede di considerare l’analisi nel dominio delle
frequenze, in cui si ricava lo spettro della forma d’onda che consente di visualizzare,
oltre alla continua, le componenti spettrali indesiderate (1a, 2a, 3a ,…,n-esima
armonica). Dal momento che l’interesse è concentrato solo sulla continua, la
caratteristica del filtro dovrà essere di tipo passa basso e permettere, così, di eliminare
le armoniche indesiderate di ordine superiore. L’obiettivo principale è quello di ridurre
il fattore di ondulazione γ.

Vu

ωo ω

fig. 2
59
La forma d’onda che esce dal raddrizzatore a doppia semionda ha periodo pari a T/2,
cioè frequenza doppia (2ωin) rispetto a quella di rete e, quindi, il primo disturbo da
eliminare sarà proprio quello a tale frequenza. In figura 2, si è rappresentata la
caratteristica del filtro che realizza quanto detto.
Un altro aspetto particolarmente importante, per una buona progettazione del filtro di
tipo passa basso, è che il sistema filtro più carico sia sempre connesso al ponte di diodi
del raddrizzatore. Per capire meglio l’importanza di questo requisito facciamo
riferimento al seguente schema

in cui è rappresentato un generatore di tensione alternata, un ponte a diodi raffigurato


dal blocco col simbolo del diodo, un blocco a destra che comprende l’insieme costituito
dal filtro e dal carico e una corrente i uscente dal convertitore ed entrante nel filtro
stesso. E’ importante che questa corrente scorra sempre, cioè sia sempre verificata la
relazione i > 0, ovviamente, laddove le caratteristiche del circuito lo permettano. Il
motivo di ciò si può capire ricordando l’espressione data alla tensione d’uscita del
ponte a diodi, ossia:
v ≥ |vin| (1)

che rappresenta una relazione generale e che era stata ricavata senza aver formulato
alcuna ipotesi sul carico. Si è visto, in particolare, che l’uguale nella (1) vale solamente
se esiste un diodo o una coppia di diodi sempre in conduzione, cioè se esiste sempre
una corrente in uscita al ponte. Questo vincolo sulla corrente, dunque, è molto
importante perché garantisce l’uguaglianza nella (1) e quindi è come se l’uscita del
convertitore, a parte il modulo, fosse connessa direttamente al generatore, che si è
supposto ideale, cioè si è in presenza di un generatore ideale di tensione. In tali
condizioni, la forma d’onda è, dunque, sempre uguale al modulo della tensione
d’ingresso e il suo valore medio sarà anch’esso una costante, indipendentemente dalla
corrente assorbita dal carico, tant’è vero che la resistenza d’uscita risulta nulla. In
sostanza, tutto ciò garantisce di non avere alcun effetto di carico. Se, tuttavia, la
corrente si annulla (i diodi impediscono il verso opposto della corrente che, quindi, non
potrà mai invertirsi ma solo annullarsi), nella (1) inizia a valere il simbolo di
disuguaglianza, ossia la tensione d’uscita del convertitore non è più legata al valore
del generatore, ma, a seconda del tipo di carico, diventa maggiore o uguale ad esso e,
quindi, il suo andamento inizia a dipendere dalla corrente assorbita dal carico.
Rinunciare alla condizione i > 0 significa, inevitabilmente, perdere la proprietà di
resistenza d’uscita nulla, ossia:
i > 0 ⇒ Ru = 0
(2)
i = 0 ⇒ Ru ≠ 0

Come appena osservato, dunque, quando vale la seconda delle (2), alla porta di
ingresso del filtro non si ha più un generatore ideale ma qualcosa che dipende sia dal
filtro che dal carico; in caso contrario, valendo la prima delle (2), all’ingresso del
60
sistema filtro più carico si ha un generatore ideale di tensione e il suo valore medio
(che non viene alterato dal filtro passa basso avente H(ωo) = 1), è costante e
indipendente dalla corrente assorbita.
Il primo obiettivo nella progettazione del filtro passa basso è quello di capire le
caratteristiche della tensione che deve essere filtrata. La forma d’onda, sotto il vincolo
di corrente i>0, è quella rappresentata in figura 1, dove si è considerato un opportuna
scelta dell’istante zero, in modo da potere considerare una funzione pari e quindi
sviluppabile in una serie di soli coseni del tipo

v ( t ) = V0 + ∑Vk cos( kω 0 t )
k =1

dove la fondamentale vale, data la periodicità dimezzata e, quindi, frequenza doppia:


ω 0 = 2ω in =
T 2

Se, ora, si calcolano i coefficienti di Fourier si determinano il valore medio

2Vin
V0 =
π
e le componenti armoniche della serie

4Vin + k dispari
Vk = ± 
π ( 4k 2 − 1) - k pari

che forniscono tutte le informazioni necessarie sulla spettro della tensione da filtrare.
E’ da notare che lo spettro cala molto rapidamente, in particolare, le armoniche calano
come k2. L’ampiezza del primo termine di disturbo sarà quella più rilevante e varrà:

4Vin
V1 = (k = 1)

3.2.1 Filtro e fattore di ondulazione

Si rappresenta un generico filtro passa basso nel seguente modo:

61
Detta H(ω) la sua funzione di trasferimento, si possono ricavare le note relazioni che
legano la tensione di ingresso a quella d’ uscita:

V uk = H ( k ω 0 )V k
(1)
V uk = H ( k ω 0 ) V k

L’obiettivo che ci si propone è quello di legare il fattore di ondulazione γ alle


caratteristiche del filtro espresse dalle (1); a tale scopo si deve conoscere il valore della
funzione di trasferimento del filtro stesso. Si considerino le due seguenti ipotesi:

1) il filtro sia ideale a frequenza zero, cioè H(0) = 1, ossia un filtro che non alteri la
componente continua; ciò è ragionevole in quanto, se il filtro è ben realizzato, gli
elementi reattivi hanno poche perdite e, quindi, in continua le induttanze possono
essere considerate come dei corti e le capacità come degli aperti, trascurando gli
effetti parassiti associati a tali componenti.
2) si consideri, come termine di disturbo, solo la prima armonica; è, infatti,
importante sottolineare che le righe spettrali di ordine superiore o uguale al primo
sono sempre meno rilevanti, in quanto, oltre al fatto che lo spettro della v(t) cala
come k2 , si aggiunge l’attenuazione del filtro che cala di 20÷40 dB per decade, a
seconda del suo ordine e che quindi permette un’ulteriore attenuazione delle righe
più lontane. E’, dunque, un’ipotesi lecita dire che è possibile ragionare come se il
termine di disturbo fosse concentrato solo sulla prima armonica.
Il legame tra il fattore di ondulazione e la caratteristica di trasferimento del filtro si
può esprimere come:

∞ ∞

∑V ∑ H ( kω
2 2
uk 2 0 ) Vk2
1
γ = k =1
2
= k =1
(2)
V u0 2 V02

dove a denominatore si è considerato:

Vu20 = H (0) V02 = 1 ⋅ V02


2

Ora, considerando la seconda ipotesi semplificativa, la (2) può essere scritta come

2
1 H (ω0 ) V12 1 H (ω0 )V1 1 H (ω0 ) 4 Vin 2
γ≅ = = = H (ω0 ) (3)
2 V02 2 V0 2 2Vin 3 π 3
π
che rappresenta un semplice legame diretto fra γ e la funzione di trasferimento del
filtro alla frequenza di “disturbo”, sotto opportune ipotesi normalmente verificate nella
realtà. Ci si occuperà, ora, di studiare il progetto di diverse topologie di filtri.

62
3.2.2 Filtro L (induttivo)

Il primo filtro che si intende analizzare è quello induttivo realizzato con una sola
induttanza come mostrato in figura

L iu

V R Vu

La funzione di trasferimento associata a tale filtro è la seguente:

1
H (ω ) =
1 + jω LG

Si ricorda che l’induttanza si comporta come un cortocircuito per la componente


continua, ossia non la altera; infatti, osservando la funzione di trasferimento, si ha che
H(0) = 1. Per valori di induttanza L sufficientemente grandi, invece, tale dispositivo
attenua enormemente le componenti alternate di corrente, comportandosi come un
aperto. Si deve, ora, dimensionare l’induttanza L al fine di ottenere la specifica di
progetto:
γ < γ lim
dall’espressione del fattore di ondulazione si ricava quanto detto attraverso i seguenti
passaggi:

2 2 1 2 1
γ = H (ω 0 ) = =
3 3 1 + (ω 0 LG ) 2
3 1 + ( 2ω in LG ) 2

dove si è sostituita ad ω0 la frequenza di rete 2ωin; se, ora, si tiene conto che la
pulsazione di taglio di tale filtro è

1
ωT = e che deve valere 2ω in >> ω T
LG

perché, se il filtro deve attenuare, la sua pulsazione di taglio, che è a 3 dB, deve essere
molto più bassa di quella del disturbo che è a 2ωin (se, ad esempio, si volessero 20 dB
di attenuazione, essendo il filtro del primo ordine, la distanza del disturbo dovrebbe
essere di almeno una decade); si ottiene, allora:

2 1
γ ≅ < γ lim (1)
3 4π f in LG
63
è possibile ricavare, ora, dalla (1) il vincolo sull’induttanza L:

2 3
L> (2)
4π f in γ lim G min

Essendo la conduttanza di carico G un parametro in generale variabile, si considera il


suo valore minimo, ponendosi nella condizione di caso peggiore, affinché possa valere
la (1) per qualsiasi condizione.
Questo risultato è il punto di partenza del progetto di dimensionamento del filtro,
dopodiché, il successivo affinamento del valore di L può essere svolto ricorrendo ad uno
strumento di simulazione circuitale.
L’interesse per il filtro appena visto, nel contesto di un raddrizzatore AC/DC monofase
a 50Hz, è prevalentemente di tipo didattico, poiché un solo filtro induttivo è di solito
praticamente inutilizzabile alle frequenze e ai livelli di corrente richiesti per queste
applicazioni. Infatti, i valori che risultano dal dimensionamento di L sono
eccessivamente elevati, con conseguenti problemi di ingombro e soprattutto costo.
Quest’ultimo, inoltre, è strettamente legato alle dimensioni della conduttanza, poiché
quanto più G diminuisce, tanto più L tende ad infinito, ossia meno il carico assorbe
corrente, più L deve essere grande.
Le prestazioni in uscita, per quanto riguarda il valore medio, non vengono alterate e
sono, dunque, le stesse che si sono ricavate nel semplice caso dei diodi. Cambiano,
tuttavia, il valore efficace e quello di picco, in seguito al diverso andamento delle
correnti nei diodi. Ciò è, d’altra parte, intuitivo, in quanto l’induttanza smorza le
componenti alternate di corrente. In formule:

I u 0 Vin
I D0 = =
2 Rπ
I V V I 2Vin
I DRMS = uRMS = uRMS = u 0 1 + γ 2 ≈ u 0 = (3)
2 2R 2R 2 Rπ
2V
iˆD ≈ I u 0 = in

dove, nell’espressione del valore efficace di corrente, avendo considerato γ prossimo


allo zero, lo si è trascurato nell’argomento della radice. Si vuole, ora, confrontare
questi risultati con i valori di corrente ottenuti in precedenza, in particolare si era
trovato
V in
s. f .
I DRMS =
2R
(4)
V

D
s. f .
= in
R

dove si è voluto indicare con l’apice “s.f.” l’assenza del filtro. Se, quindi, si mettono in
relazione le (3) e le (4), si ottiene:

64
2V in 2 2 2 s . f .
I DRMS = = I DRMS ≅ 0 . 9 I DRMS
s. f .

πR 2 π
(5)
2V in 2
iˆD = = iˆDs . f . ≅ 0 . 64 iˆDs . f .
Rπ π

da tale confronto risulta, quindi, che il valore efficace della corrente nei diodi, con il
filtro, è pari al 90% di quello senza filtro, riducendo lo stress sui dispositivi; la corrente
di picco, poi, è pari al 64% del valore precedente. La presenza del filtro, dunque,
migliora non solo l’ondulazione sul carico, ma, eliminando componenti armoniche,
abbassa i livelli di corrente sollecitando meno i dispositivi; si vedrà, comunque, che
quest’ultimo aspetto positivo non è comune a tutte le tipologie di filtri.

3.2.2.1 Esempio

Si supponga di voler ottenere un valore medio di tensione Vu0 = 200 V con una tensione
di rete a frequenza fin = 50 Hz, sapendo che il carico può assorbire livelli di corrente
che variano tra i seguenti valori: 0.4 ≤ Iu0 ≤ 4 A e si supponga, inoltre, di volere un
fattore di ondulazione γlim del 5‰. Considerando la (2)

2 3 I umin
L> con G min
= 0
4π f in γ lim G min Vu 0

e sostituendo i valori forniti nell’esempio, si ricava:

L > 75 H

che è un valore di induttanza praticamente irrealizzabile. Ciò conferma il fatto che un


semplice filtro induttivo ha da solo poco significato per l’applicazione considerata.
E’ utile, inoltre, prendere in considerazione le formule necessarie al dimensionamento
di un’induttanza, in particolare, è noto che

N 2 N 2 Aµ
L= = (6)
ℜ l
dove si è indicato con ℜ la riluttanza del circuito magnetico dell’induttore. Come si può
facilmente notare dalla (6), per avere livelli alti di induttanza è necessario aumentare
il valore della permeabilità magnetica e questo può essere ottenuto realizzando delle
induttanze non in aria, ma utilizzando materiali ferromagnetici. I problemi che
solitamente si incontrano, poi, sono gli stessi visti per il trasformatore, in particolare
modo per quanto riguarda la saturazione. Si riprenda, a questo proposito, la seguente
relazione:

v = N
dt
65
e passando al dominio delle frequenze

V = jω N Φ = jω N B A

considerando, ora, i moduli e risolvendo rispetto a B si ottiene:

V
B = < B MAX (7)
ω NA

in cui si è posto un limite su B al fine di evitare la saturazione del materiale


ferromagnetico; BMAX è un parametro finito e di valore noto, variabile da materiale a
materiale. Analizzando in dettaglio la (7), si osserva che, per sfruttare al meglio le
caratteristiche del materiale, la disuguaglianza dovrà essere tale da mantenere i
valori di B e BMAX il più vicini possibile; a tale scopo, a parità di tensione V applicata,
notando a denominatore la presenza della frequenza operativa e del costo del
materiale (rappresentato, ad esempio, dall’area del ferro e dal numero di spire del
rame), si dovrà giocare su questi due parametri. Ciò significa che, a parità di VMAX, più
si sale con la frequenza, più l’induttore diventa piccolo perché sono necessari meno
spire e minor sezione per garantire la non saturazione.
Inoltre, al crescere della frequenza, per ottenere determinati valori di reattanza (ai
fini ad esempio di ridurre componenti alternate di corrente) servono valori di
induttanza minori.
Queste considerazioni sono vere anche per un trasformatore, che a frequenze elevate
diventa sicuramente più compatto. Perciò, ad alte frequenze (centinaia di kHz, MHz, o
GHz), le induttanze e i trasformatori non sono più dispositivi così scomodi e
ingombranti e, quindi, cambiano le metodologie progettuali, dal momento che possono
essere largamente utilizzati.
Un esempio dell’uso di induttanze è dato dai convertitori di tipo switching, per i quali
l’obiettivo è quello di spostare i disturbi a frequenze sufficientemente elevate e poterli,
poi, eliminare con semplici filtri induttivi a basso costo. A basse frequenze, invece,
visti i costi elevati e le dimensioni ingombranti, spesso si rinuncia all’impiego di
componenti induttivi o trasformatori, anche a scapito delle prestazioni.

3.2.3 Filtro LC

Il filtro del primo ordine, descritto poc’anzi, risulta apprezzabile per la sua semplicità,
ma non è altrettanto rilevante l’attenuazione da esso introdotta a fronte di un
ingombro e costo elevato; inoltre, la sua pulsazione di taglio ωT dipende dal carico e,
quindi, se quest’ultimo viene modificato, per ottenere la medesima ωT si dovrà variare
il valore dell’induttanza. Ciò è ovvio, essendo la pulsazione di taglio definita come

1
ωT =
LG

66
da cui si nota che, variando la conduttanza di carico G, per mantenere ωT costante si
dovrà variare L. Le cose migliorano sensibilmente se si considerano filtri di ordine
superiore al primo, come ad esempio il filtro di tipo capacitivo/induttivo LC, per i quali
si lavora in una zona in cui vi è poca dipendenza dalla conduttanza dal carico. Quindi,
avendo necessità di prestazioni non raggiungibili con un filtro del prim’ordine, si
considera un filtro leggermente più complesso, in cui si inserisce, oltre all’induttanza
serie, una capacità C in parallelo; a questo punto, il filtraggio, ossia il compito di
attenuare le componenti alternate di corrente, è affidato non soltanto all’induttanza,
che diventa un aperto, ma anche alla capacità, che diventa un cortocircuito per i
segnali. In parole semplici, ciò che l’induttanza, non essendo abbastanza grossa,
lascerebbe passare, viene drenato verso massa dalla capacità. Vediamo, allora, lo
schema circuitale del filtro LC del secondo ordine:

L
I iu

V C R Vu

fig.1

Tale filtro, oltre a migliorare le prestazioni, permette di ridurre di un paio di ordini di


grandezza i valori di induttanza da utilizzare. La sua funzione di trasferimento è la
seguente:
1 1
H (ω ) = con ωˆ = (1)
ω 
2

1 −   + j ω LG LC
 ωˆ 

e dove con ω̂ si è indicata la pulsazione di risonanza. Il modulo della (1) può essere
graficato nel seguente modo:

67
Si osservi la maggiore attenuazione introdotta dal filtro LC, di cui si studiano, ora, in
dettaglio le caratteristiche. Se la conduttanza fosse nulla, il picco di risonanza sarebbe
infinito, come si vede in figura (Q = ωˆC / G = ∞) . Le altre curve corrispondono a diversi
valori, finiti della conduttanza G. Il risultato importante, comunque, è dato dal fatto
che non si ha più una forte dipendenza dell’attenuazione del filtro dalla conduttanza,
come in realtà accadeva nei filtri del primo ordine. Al di sopra della frequenza di
risonanza, infatti, le curve in figura tendono a coincidere e ad essere indipendenti dal
valore di G.
Si consideri ora la funzione di trasferimento del filtro espressa dalla (1); per il modulo
si ha:

1
H (ω ) = (2)
2
 ω   2

1 −    + ω L G
2 2 2

  ω  
ˆ

Si considerino, ora, le seguenti ipotesi semplificative:


1. condizioni di caso peggiore: tale situazione si ottiene quando la conduttanza G è
nulla; ciò significa lavorare nella condizione in cui il filtro attenua meno (vedi
figura).
2. ω >> ωˆ : se il filtro deve attenuare per eliminare i disturbi, ci si deve posizionare il
più possibile lontani dalla pulsazione di risonanza.
Sfruttando queste due ipotesi e considerando la (2), si ottiene il modulo della f.d.t.
semplificato:
 ωˆ 
2
1
H (ω ) ≅ =  (3)
 ω  2 
2
ω 
  
  ωˆ  

Si vuole, ora, dimensionare l’induttanza L e la capacità C del filtro in esame,


ricordando che deve essere soddisfatto il vincolo

γ < γlim
Si ricava, allora:

H (2 ω in ) < γ lim
2
γ =
3
e sfruttando la (3)
2 3
LC > (4)
(4 π f in )2 γ lim

Dalla (4) si nota che il prodotto LC decresce con il quadrato della frequenza, come è
ovvio per un filtro del secondo ordine.

68
Il vincolo di progetto espresso da tale formula, sembrerebbe risolvere tutti i problemi
precedentemente incontrati; infatti, se si considera una capacità sufficientemente
grande, è possibile ridurre notevolmente le dimensioni di L. In realtà, ciò non è del
tutto realizzabile, in quanto si deve tenere presente che la corrente che scorre tra
l’invertitore e il filtro non deve mai annullarsi, ma deve essere sempre maggiore di
zero. Dal momento, però, che siamo in presenza di un sistema del secondo ordine, può
succedere che la corrente cali a zero, cioè che, in altre parole, il gruppo RC si “stacchi”
dal convertitore e la capacità si scarichi sulla resistenza; tutto ciò avverrà tanto più
rapidamente quanto più il carico sarà in grado di assorbire corrente e, quindi, in
uscita, si avrà un valore medio che dipenderà fortemente dalla corrente assorbita e si
perderà, quindi, la proprietà di resistenza di uscita nulla. In conclusione, non è
possibile scegliere i valori di L e C arbitrariamente, ma si dovrà tenere presente un
ulteriore vincolo su L, che garantisca un valore di induttanza sufficiente a garantire
sempre un flusso di corrente (i > 0). Si vuole, ora, esprimere questo nuovo vincolo di
progetto dal punto di vista matematico. A tale scopo, si imponga che la corrente i(t)
non si annulli mai, cioè:
i(t) = I0 + ia(t) > 0 (5)

dove I0 rappresenta la componente continua di i(t) e la ia(t) è la sua componente


alternata. L’andamento della (5) è del tipo:

Si dovrà imporre che il valore minimo della ia(t) sia sufficientemente piccolo rispetto a
quello di I0 , per evitare che la somma algebrica dei due contributi si annulli nel
momento in cui la componente alternata diventa negativa; dovrà essere, quindi:

< I0
max
ia ( t ) (6)

La (6) risulta, tuttavia, piuttosto scomoda, perché fornisce una specifica, legata al
massimo di una grandezza funzione del tempo, che è difficile da manipolare. Per
aggirare l’ostacolo, si può assumere che il filtro fornisca una buona attenuazione e che
il disturbo da eliminare sia concentrato nella prima armonica, essendo quelle di ordine
superiore attenuate dal filtro stesso. Si introduce, allora, la seguente approssimazione

≅ I1
max
ia ( t ) (7)

e, dunque, dalla (6) e dalla (7), senza introdurre un grosso errore, si ricava il nuovo
vincolo:
I1 < I 0

La I1 ,poi, può essere scritta come


69
I 1 = Y in (2 ω in )V 1 (8)

in cui l’argomento del modulo rappresenta l’ammettenza di ingresso del filtro che alla
pulsazione di disturbo vale

Yin (2ω in ) =
I1
(9)
j 2ω in L I 1 + Vu 1

e poiché si è considerato un filtro con buona attenuazione, le Vu1 , che sono le


componenti alternate che giungono all’uscita, dovranno essere trascurabili. Tenendo
presente quanto appena detto e facendo il modulo della (9), si ottiene:

Y in (2 ω ) 1
≅ (10)
2 ω in L
in

A tale risultato si giunge anche intuitivamente se si osserva l’ingresso del filtro


rappresentato in figura 1: si può notare, infatti, che essendo l’induttanza di valore
elevato, al fine di poter essere considerata un aperto per le componenti alternate ed
essendo la capacità, per tali componenti, un corto, guardando all’ingresso si vede
praticamente solo l’induttanza. Di fatto, allora, si può confondere l’ammettenza del
filtro con l’induttanza. Da ciò, considerando la (8) e la (10) si può scrivere:

1
I1 ≅ V1
2ω in L

e poiché
4V in
V1 =

si ottiene, infine:
1 4V in
I1 ≅ < I 0 = I u0 (11)
2 ω in L 3π

in cui, nella (11), l’ultima uguaglianza deriva dall’aver assunto che il filtro non alteri
la componente continua. Risolvendo la (11) rispetto ad L si ha:

4V in V in
L> = = Lmin (12)
2 ⋅ 2 π f in 3π I u 0 3π 2 f in I umin
0

dove, nell’ultima uguaglianza, ci si è posti, al solito, nelle condizioni di caso peggiore,


ossia, quando il livello di corrente che giunge al carico è il minore possibile (Iumin). La
(12) esprime il nuovo vincolo sull’induttanza che permette di mantenere sempre i(t)>0.

70
Si vuole, ora, esaminare la caratteristica di uscita del raddrizzatore AC/DC in
presenza di un filtro LC:

fig.3

L’analisi di tale caratteristica viene svolta in termini di variazioni della corrente


media in uscita e non di induttanza, in quanto, una volta effettuato il progetto e
determinato L, ciò che risulta significativo è proprio la variazione della corrente. Come
si può osservare in figura 3, per valori di corrente maggiori di Iu0min, l’uscita del
convertitore risulta proprio pari al valore medio, cioè 2Vin/π e la resistenza d’uscita
sarà nulla. Violare il vincolo su Iu0min significa, innanzitutto, che l’induttanza
considerata non è sufficiente a garantire sempre una corrente maggiore di zero con la
possibilità, dunque, che la i(t) si annulli. Se si considera, in figura 3, il tratto
tratteggiato, l’analisi numerica risulta piuttosto complessa, in quanto si dovranno
prendere in esame anche le equazioni dei diodi, per poter decidere gli istanti di
accensione e di spegnimento. Il fatto che la corrente possa annullarsi per alcuni istanti
di tempo, infatti, non significa più che i diodi conducono a coppie (nel caso del
raddrizzatore a ponte intero) per un intero semiperiodo, ma esistono degli istanti nei
quali tutti i diodi sono spenti. Perciò, pur rimanendo il circuito simmetrico, gli
intervalli di conduzione si riducono rispetto a T/2 e il calcolo di tali tempi risulta
complesso ma, soprattutto, di scarso interesse in questo contesto, dal momento che il
buon progetto del filtro deve farci evitare di lavorare lungo il tratto di caratteristica
tratteggiato. Un’idea dell’andamento qualitativo della caratteristica lo possiamo avere
considerando le condizioni estreme di funzionamento. A tal fine si supponga di essere
in assenza di carico, Iu0 = 0, ossia a vuoto: la capacità, allora, potrà caricarsi fino alla
massima tensione pari a Vin. Al di sotto di Iu0min, invece, la tensione d’uscita sarà
variabile con il tipo di carico considerato, ma, soprattutto, si perderà la proprietà
cercata di resistenza d’uscita nulla.

3.2.3.1 Esempio

Si trovino i valori di L e C che soddisfano le specifiche dell’esempio precedente (filtro


induttivo) al fine di poter realizzare un confronto significativo, ossia:

71
Vu 0 = 200V
f in = 50 Hz
0 .4 A ≤ I u 0 ≤ 4 A
γ lim = 5 0 00

Si supponga, inoltre, di considerare un sistema completo di trasformatore che, dovendo


arrivare ad una tensione Vu0 = 200V, parta da un valore VA = 230VRMS (Volt efficaci).
In questo caso, si dovrà fare anche un dimensionamento di massima del trasformatore
in termini di correnti che deve sopportare e in termini di rapporto spire. Quindi,
poiché vale
2Vin
Vu 0 =
π
si ha
π
Vin = Vu 0 = 314V
2
e ancora
V in
V in ( RMS ) = = 222 V RMS (1)
2
Data la (1), è possibile determinare il rapporto spire di un trasformatore come:

n2 Vin ( RMS ) 222


= = ≅ 0 .97 (2)
n1 VA 230

dove VA rappresenta la tensione di rete e Vin la tensione che serve per avere un buon
livello di corrente in uscita. L’idea, dunque, è quella di fissare il livello di tensione in
uscita che, essendo legato all’ampiezza della tensione sinusoidale, permette di inserire
un trasformatore il cui rapporto spire viene determinato dalla (2). Tale trasformatore
potrà, naturalmente, sopportare dei livelli di corrente che dipendono sostanzialmente
dalla sezione del filo degli avvolgimenti; se si è eseguito un buon progetto, avendo
dimensionato il filtro in modo da ottenere una bassa ondulazione, poiché l’induttanza
attenua tutte le componenti alternate, si avrà :

I RMS = I in ( RMS ) ≅ I u 0 = 4 A

ossia la corrente efficace è uguale alla corrente efficace in ingresso, in quanto ciascun
diodo conduce per un semiperiodo e, quindi, in ingresso al trasformatore si ha la
somma delle correnti efficaci e la corrente efficace è circa uguale alla corrente media.
Per essere più precisi, si dovrebbe calcolare la 1a armonica di corrente. Tuttavia,
avendo scelto L e C con un certo margine, si può considerare semplicemente Iu0, senza
bisogno di calcolare la 1a armonica. Se, dunque, si vuole eseguire il progetto del filtro,
dovrà essere:

72
2 3 −3
LC > 2 lim = 0 . 24 ⋅ 10 sec 2 (3)
(4π f in ) γ
e anche
V in
L > Lmin = = 0 . 53 H (4)
3π f in I umin
2
0

L’ultimo vincolo, espresso dalla (4), è ancora scomodo da realizzare, sebbene L sia
stata ridotta di ben due ordini di grandezza rispetto al valore ottenuto per il filtro del
primo ordine; il valore di induttanza, infatti, è ancora troppo elevato e i costi sono
notevoli. Dalla (3) e dalla (4), si possono assumere, per comodità, i seguenti valori:

L = 1H
C = 240 µF

Per dimensionare i diodi, poi, si considera:

max
I RMS I umax
I D ( RMS ) = ≅ 0 = 2 ,8 A
2 2

in cui si ricorda che il valore efficace di corrente ID(RMS) è il valore massimo diviso per
la radice di due, in quanto ciascun diodo conduce per mezzo periodo. Il valore medio di
corrente nei diodi, invece, è pari a
I umax
I D0 = 0
= 2A
2

Per ciò che riguarda la corrente di picco, poiché il diodo vedrà praticamente la
continua, essendo state eliminate le componenti alternate, si ha:

iˆD ≅ I u 0

e la tensione di breakdown, considerando uno schema a ponte intero, varrà:

V BD > V in = 314 V

Come si può notare dai risultati ottenuti, lo stress dei componenti non è
particolarmente elevato, in quanto ci si ritrova con valori di correnti di picco e medie
sostanzialmente paragonabili tra loro. Lo stress sui componenti, infatti, diventa critico
quando i valori di picco risultano molto più elevati (uno/due ordini di grandezza)
rispetto a quelli del valore medio di corrente. L’unico problema che rimane sono i
valori di induttanza ancora troppo elevati.
Quando si devono, quindi, realizzare applicazioni a basso costo e non si vogliono usare
dispositivi ingombranti, si dovrà rinunciare del tutto alle induttanze, anche a scapito
delle prestazioni, realizzando un semplice filtro C. Quest’ultimo, infatti, permette di
73
ridurre i costi, ma richiede, al fine di ottenere buone prestazioni, un dimensionamento
dei diodi più oneroso e quindi una loro qualità superiore; il costo più elevato dei
componenti a semiconduttore sarà compensato dal minore costo del filtro, dalle piccole
dimensioni e conseguentemente dalla riduzione notevole degli ingombri.

3.2.4 Filtro C

Il filtro C viene realizzato con una sola capacità, come mostra il seguente schema

fig.1

Rinunciare all’induttanza L comporta sicuramente dei vantaggi in termini di ingombro


e costi, ma significa anche rinunciare al vincolo sulla corrente i(t) > 0 e, quindi, Ru = 0
violando il vincolo L > Lmin. Ciò comporta, di fatto, una variazione della tensione di
uscita con la corrente assorbita e una conseguente perdita in termini di prestazioni.
Ciò che viene mantenuto sono le prestazioni in termini di ondulazione γ, a condizione,
comunque, di aumentare notevolmente il valore della capacità C. Alla fine, si baratta
il fatto di non avere resistenza di uscita nulla e prestazioni di uscita comunque buone
con maggiore costo dei componenti a semiconduttore e assorbimento dalla rete AC di
correnti molto impulsive; in particolare, si può riuscire a ridurre la Ru fino a renderla
sufficientemente piccola, anche se non idealmente nulla.
E’ opportuno sottolineare il problema (che non verrà approfondito in questa sede) della
forma d’onda in ingresso che, idealmente, nel caso di filtro ad ingresso induttivo, è
circa un onda quadra; nel momento in cui si inserisce un filtro capacitivo, come già
affermato, la conduzione dei diodi avviene per intervalli di tempo minori dell’intero
semiperiodo e, in alcuni istanti, la corrente i(t) tende ad annullarsi. Tale fenomeno
rende la forma d’onda in ingresso più impulsiva rispetto alla normale onda quadra,
come si evidenzia in figura 2:

74
I in

fig.2

Tale modalità di assorbire corrente, oltre a comportare problemi nel dimensionare i


diodi, non è particolarmente gradito al fornitore di energia (rete AC).
Per capire meglio il problema si pensi, ad esempio, ad un generatore sinusoidale: è
ovvio che solo la componente sinusoidale estrae potenza da un tale generatore, mentre
tutte le altre armoniche non estraggono alcuna potenza; dunque, da un generatore
continuo si vorrebbe estrarre solo la continua e da uno sinusoidale solo la componente
sinusoidale, perché sono rispettivamente le uniche componenti che estraggono
realmente potenza, tutte le altre armoniche di corrente rappresentano un disturbo.
Questo giustifica in parte perché, tornando alle forme d’onda considerate in figura,
esse fanno funzionare male gli apparati di rete, dando problemi nel modo di assorbire
energia, causando dissipazioni ulteriori sulla rete e, in generale, portando ad un
cattivo sfruttamento della sorgente.
Tutto questo per dire che il tipo di apparati in considerazione presenta dei problemi
anche per quanto riguarda l’ingresso, in particolare, quando si ha a che fare con
potenze elevate. A tale proposito, si dovranno necessariamente attuare opportune
modifiche per migliore le cose, in quanto le normative in vigore e l’ente distributore di
energia elettrica (ENEL) non consentono di assorbire energia con una forma d’onda del
tipo visto. Sarà, dunque, necessario usare dei filtri di ingresso, ma non si vuole entrare
nel merito di tale argomento che è approfondito nel corso di elettronica industriale.
Quindi, il fatto di aver tolto l’induttanza si paga, non solo con una maggior difficoltà
nel dimensionamento dei diodi e un loro costo superiore dovuto al fatto che devono
sopportare forti correnti impulsive, ma anche con una maggiore difficoltà e aumento
dei costi di interfacciamento con la rete AC.
Quest’ultimo problema non può essere assolutamente trascurato, essendoci delle
normativi che obbligano ad assorbire corrente dalla rete in un certo modo, proprio per
garantire a tutti gli utenti connessi, e non solo al singolo, un adeguato servizio.
A questo punto si vuole analizzare nei dettagli come si comporta il convertitore
AC/DC, a doppio secondario a presa centrale, in presenza di un filtro capacitivo. Si
osservi che la formula (3) ricavata nel paragrafo 3.2.1 non è più valida in questo
contesto in quanto v≠|vIN|.
Si andrà ad effettuare un’analisi semplificata, poiché l’oggetto presenta una notevole
complessità dovuta alla mancanza di certezza sullo stato dei diodi; mentre nei casi
precedentemente descritti, infatti, essi conducevano ciascuno per un semiperiodo, ora
non si può sapere con precisione il tempo di conduzione di ciascuno che dipende, in
realtà, dal carico, o, più in generale, dal blocco RC, per il quale sarà importante
determinare quanto tempo impiega la capacità C a scaricarsi sulla resistenza R.
Si sta, dunque, trattando un problema non lineare dinamico, cioè si dovrà studiare la
non linearità dei diodi unitamente alla dinamica del convertitore; tale problema non è
risolvibile, se non passando attraverso delle soluzioni numeriche particolarmente

75
scomode e quindi non verrà trattato dal punto di vista analitico nella sua formulazione
“esatta”, ma si farà solamente un’analisi di tipo semplificato.
Si prenda in esame la figura 3: si consideri la tensione sinusoidale in ingresso, come
mostrato nel primo grafico di figura 3 e si consideri nel secondo grafico, a tratteggio, il
suo modulo. Tale tensione è quella che si dovrebbe avere all’ingresso del filtro se
scorresse sempre corrente nel ponte a diodi. Si consideri, poi, come istante iniziale, t =
0, supponendo che tutto sia spento e che, dunque, anche la capacità sia scarica. Mano
a mano che la tensione Vin sale, aumenta anche la tensione ai capi della capacità,
seguendone l’andamento; nel transitorio iniziale, infatti, la tensione di uscita segue
esattamente la tensione di ingresso. Successivamente, quando la Vin inizia a calare, la
capacità tende a mantenere costante il valore di tensione ai suoi capi e quindi il diodo
D1 vede una tensione V > Vin e si spegne.

fig . 3

Inizia, allora, la scarica di C, che continua fino a quando la tensione ai suoi capi non
torna ad essere inferiore alla Vin all’anodo dell’altro diodo che, a sua volta, entrerà in
conduzione. In tale situazione, con un diodo acceso, il raddrizzatore, si comporta come
un generatore ideale di tensione, si ritrova in parallelo al gruppo RC e torna a caricare
la capacità e, quindi, a portare di nuovo alta la tensione ai suoi capi; la tensione
d’uscita, ora, segue nuovamente la tensione di ingresso. In sostanza, si ha una fase in
cui il diodo è interdetto, durante la quale, essendo il gruppo RC sconnesso, si ha la
scarica di C su R e la tensione tende a calare; quando, però, la tensione ai capi del
gruppo RC torna ad essere più piccola di quella d’ingresso, il diodo ritorna in
conduzione, fornendo energia e facendo risalire la tensione in uscita. È, dunque, ovvio
che gli intervalli di conduzione sono solo quelli ad andamento sinusoidale (le correnti
sono evidenziate nel terzo e quarto grafico di figura 3).

76
Calcolare la forma esatta della corrente nei due diodi è piuttosto complesso.
Sicuramente è rimasta inalterata la proprietà di simmetria del circuito e, quindi, non
sono stati introdotti problemi per ciò che riguarda la componente continua in ingresso.
L’analisi svolta dal punto di vista qualitativo, può essere tradotta in termini
matematici, in maniera diretta, come segue:

vu > vin se i = 0


vu = v ≥ vin 
vu = vin se i > 0

E’ ovvio che il valore medio della tensione di uscita non sarà perfettamente una
continua, ma presenterà degli scostamenti che dovranno essere il più possibile ridotti,
dimensionando opportunamente la capacità. Si può osservare che la forma d’onda
ottenuta è fortemente dipendente dalla resistenza d’uscita; ciò è evidenziato, dal punto
di vista matematico, dalla costante di tempo τ = 1/RC presente nelle espressioni
seguenti:
 t − t off
 vu = vu (t off )e RC se i = 0
 (1)
 vu = vin se i > 0

Quindi, tale forma d’onda dipenderà fortemente dalla resistenza di carico R e, dunque,
al variare di quest’ultima varierà fortemente la pendenza dell’esponenziale che la
contiene. Come risultato si otterrà una scarica più o meno rapida della capacità C e un
conseguente maggiore o minore abbassamento di tensione in uscita nei periodi di
scarica di C. Durante tale periodo la resistenza di uscita sarà non nulla (Ru≠0) e si
perderà la proprietà di indipendenza del valore di tensione di uscita dalla corrente
assorbita dal carico.
Alla luce di tali considerazioni, si può tentare di impostare una soluzione numerica;
l’andamento del transitorio è noto ed ha andamento esponenziale, in quanto si tratta
di un gruppo RC, come mostra la prima delle (1). Si conosce, inoltre, la forma d’onda
sinusoidale del generatore definita dalla seconda delle (1). Unendo queste due e
risolvendo per via numerica, si ricava ciò che interessa, ossia: ton e toff .
Tali equazioni, essendo composte da un’esponenziale e una sinusoide, risultano difficili
da risolvere analiticamente e, l’alternativa è procedere per via numerica utilizzando
un programma di simulazione circuitale.
Per arrivare tuttavia ad ottenere un semplice criterio di progetto della capacità C, è
possibile introdurre alcune semplificazioni.
È ovvio che, se si considera una costante di tempo molto elevata, l’ondulazione si
riduce molto, perché la capacità impiega molto tempo a scaricarsi e la tensione in
uscita tende a restare circa costante nel semiperiodo. Quindi, se la costante RC è
grande, il tratto obliquo avrà una pendenza limitata e, di conseguenza, l’intervallo di
tempo in cui i diodi rimarranno in conduzione sarà sempre minore. Di fatto, l’analisi
semplificata prevede di considerare le seguenti relazioni:

RC >> T/2
∆TON << T/2
toff ≈ T/4

77
in cui T rappresenta il periodo della forma d’onda di rete, ton è l’istante di accensione
del diodo, toff è quello di spegnimento, mentre ∆TON è la durata dell’intervallo, ossia ∆
rappresenta un intervallo, mentre ton e toff sono valori assoluti di tempo che
differiranno dal ton successivo di un periodo T. Se si estremizza il tutto, si può dire che
la forma d’onda ottenuta prevede che la carica della capacità sia praticamente
istantanea, cioè ∆TON ≈ 0, e che la scarica, se la costante RC è molto elevata, avvenga
in modo praticamente lineare (scarica lineare significa: dv/dt = cost., cioè a corrente
costante).
Questa è ovviamente un’approssimazione (in quanto non è realizzabile con una
semplice capacità, ma sarebbe necessario un componente attivo). Tali approssimazioni,
tuttavia, possono essere impiegate per formulare in modo ragionevole il vincolo di
progetto sulla capacità e, nell’ottica di avere valori elevati di C, permettono di ottenere
dei numeri sufficientemente attendibili per un progetto iniziale.
Riassumendo, le ipotesi fatte sono:
Ø costante di tempo RC elevata (⇒ intervalli di tempo di conduzione dei diodi molto
piccoli)
Ø ton ≈ toff e conseguentemente: carica istantanea e scarica a corrente costante
Ciò che si ottiene è una tipica forma d’onda a dente di sega come mostrato in figura 4:

fig.4

avendo, quindi, approssimato il tratto di sinusoide presente nel secondo grafico di


figura 2 con un tratto di retta, data l’istantaneità di carica di C supposta. Sulla base di
queste approssimazioni, il picco dell’onda triangolare diventa Vin e ∆Vu ne rappresenta
l’altezza. A questo punto, è facile ricavare il valor medio della tensione di uscita,
facendo riferimento all’onda triangolare, ossia:

∆V u
Vu 0 = Vin − (2)
2

dove ∆Vu indica la variazione di tensione sulla capacità, che si può scrivere come:

∆Q
∆Vu =
C

e avendo supposto la scarica a corrente costante, il livello di corrente è approssimabile


con Iu0 e, quindi, la variazione di carica può essere scritta come prodotto della corrente
per il tempo che scorre, cioè:

78
I u0 ⋅ T I u0
∆Vu = = (3)
2C 2 Cf in

sostituendo, ora, la (3) nella (2) si ottiene

Iu0
Vu 0 = Vin −
4Cf in

Si nota che in questo caso, pur avendo supposto tutti i componenti ancora ideali, ci si
ritrova con il valore medio della tensione d’uscita che dipende dal valore medio della
corrente assorbita dal carico. Quindi, se si ricava la resistenza d’uscita, si ha:
dV u 0 1
Ru = − = ≠0 (4)
dI u 0 4 Cf in

dove il segno meno è dovuto al verso preso uscente per la corrente; dunque, la
resistenza d’uscita è diversa da zero anche nel caso ideale. Ovviamente, nella (4)
compare un termine di progetto, rappresentato dalla capacità C e si nota chiaramente
che, all’aumentare di quest’ultima, la resistenza di uscita tende a zero; questo, tutto
sommato, va a vantaggio dello scopo che ci si vuole prefiggere, perché si tenderà ad
inserire una capacità grossa per spianare molto l’ondulazione, ottenendo allo stesso
tempo una Ru prossima a zero.
Il problema principale, tuttavia, è dovuto al fatto che più grossa è la capacità, maggiori
saranno i picchi di corrente che i diodi dovranno sopportare, perché gli intervalli di
conduzione di questi ultimi si stringono. Dal momento, infatti, che la carica è data,
circa, dal prodotto Iu0⋅T/2, se l’intervallo di conduzione dei diodi diventa prossimo allo
zero, è necessario ristabilire questa carica in un intervallo di tempo piccolissimo, ossia,
la carica che la capacità perde, quando non è connessa al ponte a diodi, la si deve
ricostruire durante brevissimi istanti di conduzione dei diodi stessi. Se, dunque, dal
punto di vista geometrico la carica può essere vista, sostanzialmente, come l’area
racchiusa dal picco di corrente, quanto più saranno brevi gli istanti di conduzione dei
diodi, tanto più elevati diventeranno questi picchi. In conclusione, capacità elevate
comportano stress maggiori sui dispositivi, che sono costretti a sopportare correnti
molto impulsive.
Questo è il problema principale di questo tipo di circuiti, unitamente a quello causato
dalla forma d’onda impulsiva in ingresso nei confronti dell’ente fornitore di energia
elettrica.
Si dispone, ora, di tutti i parametri che consentono di calcolare il valore efficace delle
componenti alternate; VuaRMS, per una forma d’onda triangolare (dente di sega o altre),
vale sempre:
∆Vu
VuaRMS =
2 3

in cui ricordiamo che il valore efficace delle componenti alternate rappresenta tutte le
componenti esistenti tranne il valore medio; graficamente, le componenti alternate
corrispondono alla forma d’onda traslata in basso fino ad ottenere valore medio nullo.

79
È possibile, ora, procedere al dimensionamento della capacità C, ricordando
l’espressione del fattore di ondulazione:

V uaRMS ∆Vu I u0 1
γ = = = = <γ lim

Vu 0 2 3V u 0 4 3Cf inV u 0 4 3Cf in R

e risolvendo rispetto a C
1
C>
4 3R min
f in γ lim

dove con Rmin si è considerato il caso peggiore, mettendosi nelle condizioni di maggior
assorbimento di corrente che implica un minor tempo di scarica di C. Quest’ultima
formula, al pari di quelle già viste per il filtro induttivo ed LC, permette di fornire un
dimensionamento di massima della capacità.
Si vedranno, ora, i passaggi matematici che portano a definire le espressioni delle
correnti di picco, medie ed efficaci degli interruttori. Si consideri, innanzitutto, un
sistema di riferimento centrato sul picco della forma d’onda, in modo da ottenere una
funzione di tipo coseno, come mostrato in figura 5:

fig. 5

Dopodiché, sapendo che la tensione d’uscita è pari a quella di ingresso per un istante
di tempo ∆ton, si può scrivere
v u = Vin cos ω in t con t ∈ ∆ton

Si consideri, quindi, il circuito di figura 6:

i
ic iu

C R vu

fig. 6

è possibile scrivere ancora:

80
dv u
i = i c + iu = C + iu
dt

Se si considera un buon filtro, tutte le componenti alternate sono già state drenate
dalla capacità, considerata robusta, e, quindi, la corrente iu è approssimabile con la
sua componente continua, ossia:
dv u
i≅C + I u0
dt

calcolando, ora, la derivata si ottiene

i ≅ − CV inω in sin (ω in t ) + I u 0
E’ possibile, poi, introdurre un’ulteriore approssimazione e, precisamente, poiché ci si
sta muovendo verso una bassa ondulazione e quindi valori di ∆ton piccoli, si lavora
nell’intorno di t = 0 in cui la funzione seno è approssimabile con il suo argomento, cioè:

sin (ω in t ) ≈ ω in t

ottenendo
i ≅ − CVinω in2 t + I u 0

Sotto le approssimazioni viste, la corrente i, che scorre alternatamente in ciascun


diodo, è diventata una funzione lineare del tempo e si trova la seguente condizione:

per t = 0 i = Iu0 = I0

La seconda uguaglianza deriva dal fatto che la capacità non fa passare la componente
continua e, quindi, le due componenti continue di I e di Iu saranno uguali. Avendo una
pendenza negativa, poi, l’andamento sarà decrescente al crescere del tempo e con iˆ si
identifica il valore della corrente massima.
L’approssimazione introdotta su ∆ton consente, dunque, di approssimare la corrente i
e, conseguentemente, la corrente dei diodi con un andamento triangolare, come
mostrato in figura 7:

fig. 7

81
Lo scopo finale di questa analisi è quello di riuscire ad ottenere l’espressione di ∆ton
che consentirà il calcolo di tutte le altre espressioni di corrente.
Il valore medio della corrente i è dato, dal punto di vista geometrico, dall’area del
triangolo e si deve, però, tenere conto che la corrente i ha due triangoli in ogni periodo,
perché i diodi conducono alternativamente; per il valore medio si ha quindi:

∆ton ⋅ iˆ 2
I u0 = I 0 =
2 T
da cui
Iu0
∆ t on = (5)
f in ⋅ iˆ

in cui si è sostituita la frequenza all’inverso del periodo. Poiché, inoltre, vale che

di
iˆ = ∆ton = CV in 4π 2 f in2 ∆ton (6)
dt

sostituendo la (6) nella (5) si ottiene:

I u0
∆ t on =
f in CV in 4π 2 f in2 ∆ t on

da cui, ancora
Iu0
∆ t on
2
=
2 f in C ⋅ V in 2π 2 f in2

ricordando, infine, l’espressione


I u0
∆Vu =
2 Cf in

si ricava la formula finale:


∆Vu
∆ t on =
V in 2 π 2 f in2

dove tutti parametri sotto radice sono noti. Si osserva che, al diminuire di ∆Vu, cioè
quando si vuole un ripple basso, l’intervallo ∆ton tende a zero.
Si possono ricavare, ora, i valori della corrente di picco (che essendo una funzione
inversa di ∆ton , tende ad infinito per ∆ton tendente a zero) e il valore della corrente
efficace, che si vede dipendere, come intuibile, sia dal valore medio che dalla corrente
di picco:

82
I u0 I 0 I u0
iˆ = I D0 = =
f in ∆ton 2 2
2 I u 0iˆ
I RMS = iˆD = iˆ
3
I RMS
I DRMS =
2

Un altro problema importante che merita di essere analizzato è quello relativo al


transitorio di accensione del circuito. Si è detto, infatti, che l’interesse principale è
riservato al comportamento del circuito a regime, salvo, tuttavia, il caso in cui il
transitorio comporti dei problemi o causi dei danni al sistema complessivo. Questo,
infatti, è ciò che può accadere in circuiti di tal genere; si è supposto, inizialmente, di
partire con una forma d’onda in una situazione cosiddetta di “tutto scarico”, con la
capacità C scarica e si è considerata la funzione seno a partire dal valore zero della
tensione di rete.
Se, invece, il circuito viene acceso nel momento in cui la tensione di rete è massima o,
comunque, molto elevata, il diodo entra subito in conduzione, essendo C scarica, e
quindi si applica alla capacità il massimo della tensione di rete (220 V efficaci).
Graficamente:

quindi la capacità vede un salto di tensione pari a Vin e, poiché la corrente è pari a

dv
i=C → ∞
dt

si ottiene, teoricamente, una corrente infinita, anche se in realtà gli elementi parassiti
del diodo e le resistenze dei fili faranno sì che la corrente non sia infinita ma,
comunque, abbia dei picchi molto elevati, che possono danneggiare o la capacità stessa
oppure, probabilmente, i componenti a semiconduttore. Ecco perché, dunque, il
transitorio di accensione di questi circuiti deve essere valutato con attenzione; in
particolare, si dovrà controllare che i componenti parassiti siano tali da limitare
questa corrente. Non potendo sempre sapere, tuttavia, con certezza il valore totale dei
componenti parassiti presenti nel circuito, si inserisce appositamente una resistenza
serie detta di limitazione, che garantisce che la corrente massima rimanga sotto un
determinato valore (si veda la figura sotto).

83
Rs

C R

In particolare possiamo scrivere:


V
iˆ = in < iˆ lim
Rs

dove si è indicato con iˆ lim la corrente di picco non ripetitiva del componente, ricavabile
sui “Data Sheet”. Si osservi che la corrente di picco non ripetitiva è decisamente
maggiore della corrente di picco ripetitiva, ossia quella che scorre sui diodi ogni
periodo, dato il funzionamento del circuito. La resistenza Rs verrà scelta dell’ordine di
qualche Ohm; tuttavia, essendo i valori di corrente molto elevati, dissiperà molta
potenza (nell’ordine delle centinaia di Watt). Per evitare, allora, dissipazioni inutili,
dal momento che la Rs di limitazione serve solamente durante il transitorio, si può
utilizzare un interruttore temporizzato in parallelo alla resistenza stessa, che viene,
quindi, cortocircuitata dopo il transitorio iniziale.

3.2.4.1 Esempio

Si considerino i seguenti dati e specifiche, si dimensioni opportunamente la capacità C


e si ricavino i valori dei parametri caratteristici del filtro C:

Vu0 = 300V
Iu0max = 2A
γlim = 1%

ricordando l’espressione per il dimensionamento di C si ottiene:

1
C > = 1925 µ F
4 3R min
f in γ lim

con
Vu 0 300
R min = max
= = 150 Ω
Iu0 2

Scegliendo, allora, per C un valore maggiorativo come, ad esempio, C = 2000µF si


ottiene:
84
1
Ru = = 2 .5Ω
4 Cf in

E’ necessario, ora, progettare la sinusoide di ingresso che uscirà dal trasformatore che
sarà:
Vin = Vu0 + RuIu0 = 305V

valore che deve essere rapportato alla tensione di rete di 220V tramite il giusto
rapporto spire del trasformatore. Proseguendo, si ricava:

I u0
∆V = = 10V
2 Cf in

e sulla base di questo risultato è possibile calcolare

∆V
∆ ton = = 0 .8 m sec
2π 2 f in2V in

che rappresenta il tempo di conduzione dei diodi. Si può, ora, calcolare anche il resto
dei parametri caratteristici:
iˆ = 50 A = iˆD
I RMS
I RMS = 8 .2 A ⇒ I DRMS = = 5 .8 A
2
I u0
I D0 = = 1A
2

Da questi risultati si può notare quale sia il livello di stress sui componenti; infatti,
cercando delle ondulazioni piccole (1%), si è costretti ad inserire dei diodi che
sopportino 50A di corrente di picco a fronte di solo 1A di corrente media. In realtà, un
diodo in grado di reggere 50A di corrente di picco, sarà necessariamente in grado di
sopportare anche 3÷4 A di corrente media e questo, d’altra parte, comporta
inevitabilmente un aumento dei costi.

3.3 Convertitori DC/DC quasi lineari (Regolatori di tensione)

Nel paragrafo precedente si è evidenziata la difficoltà di ottenere dei convertitori


AC/DC con buone prestazioni in termini di ondulazione residua in uscita. Come si è
visto, il problema maggiore è dovuto al costo elevato dei filtri e al
sovradimensionamento dei componenti.
Il convertitore AC/DC non garantisce nemmeno l’indipendenza dalla variazione della
tensione di rete; infatti, qualsiasi sia il filtro utilizzato, nell’espressione del valore
medio della tensione di uscita compare sempre l’ampiezza della tensione di rete, la
quale, variando, rende altrettanto variabile lo stesso valore medio di uscita. L’ente
fornitore di energia elettrica, infatti, non garantisce una tensione di 220V efficaci

85
costanti, ma da una eventuale misura si potrà riscontrare una tensione variabile fra i
215÷230V o anche peggio.
Ciò giustifica l’inserimento, accanto ai blocchi AC/DC, di circuiti DC/DC, detti anche
regolatori di tensione, il cui compito è quello di stabilizzare la tensione di uscita. Il
sistema complessivo che ne risulta è detto alimentatore stabilizzato:

fig. 1

e alla sua uscita fornisce realmente una tensione continua, di buona qualità e
indipendente dalla tensione di rete. Nell’ambito di questo corso ci si limiterà ad
analizzare i regolatori di tensione DC/DC quasi lineari. Esistono anche altri tipi di
regolatori, per esempio i regolatori switching, riguardo ai quali verrà fatto un breve
accenno e che vengono, invece, approfonditi nel corso di elettronica industriale.
Si vuole, ora, prendere in esame il convertitore quasi lineare o di tipo serie. Con il
termine quasi lineare si vuole indicare la zona di funzionamento lineare (zona attiva
normale per un BJT e zona di saturazione per un FET) dei dispositivi attivi presenti
all’interno del convertitore, zona nella quale tali dispositivi realizzano l’operazione di
amplificazione lineare. Tutto ciò è in contrapposizione ai regolatori di tipo switching
dove, invece, i dispositivi di tipo attivo vengono utilizzati come interruttori e, dunque,
commutano da uno stato di interdizione ad uno stato di forte conduzione (saturazione
per un bipolare, zona triodo per un FET).
Quindi, la grossa differenza tra i due tipi di convertitori sta proprio nella modalità di
funzionamento: i convertitori quasi lineari hanno i dispositivi che lavorano in zona
attiva e, proprio per tale motivo, operano in condizioni di alta tensione e
contemporaneamente alte correnti e la dissipazione, di conseguenza, è molto elevata;
quelli di tipo switching, invece, utilizzano i dispositivi come interruttori per cui, se
sono tutti spenti, la potenza dissipata è dovuta soltanto alle correnti di perdita e,
quindi, è trascurabile, se sono tutti accesi, invece, qualora il transistore sia buono, si
avrà una bassissima tensione di conduzione (Von = 0.2÷0.3V) e, dunque, la potenza
dissipata sarà poca.
In ultima analisi, i convertitori switching nello stato off sono buoni, in quanto si hanno
basse correnti di perdita, mentre nello stato ON sono tanto migliori quanto più piccola
è la caduta di tensione ai capi dei transistori. Nei dispositivi di potenza si riesce a
rendere la Von molto piccola e, quindi, la dissipazione nello stato ON, pur non essendo
proprio nulla, risulta comunque molto più piccola di quella che si avrebbe in uno stato
di conduzione normale, cioè in zona lineare. Tutto ciò fa capire come i convertitori
lineari, a differenza degli switching, sono pensati per basse potenze, perché la
dissipazione sui dispositivi porta a bassi rendimenti. Il valore di potenza di utilizzo di
tali regolatori è diventato, nel tempo, sempre più basso in seguito all’evoluzione
tecnologica, che ha portato la soglia del dispositivo che conviene utilizzare dai 100Watt
di un tempo ai 20Watt di oggi. Sopra i 20 Watt si usano, solitamente, i convertitori
switching, mentre, laddove è richiesta un’elevata qualità, si continuano ad usare i
86
convertitori quasi lineari, perché garantiscono ottime prestazioni per ciò che riguarda
la componente continua in uscita, grazie alla loro zona di lavoro lineare, senza
necessità di ulteriori filtraggi.
Ciò non è sempre garantito dai convertitori switching, a meno di elevati costi dovuti
alla necessità di successivi filtraggi; essi sono comunque ottimi per rendimento e
consumi. Si osserva che la realizzazione dei convertitori quasi lineari, avviene in
discesa, cioè la tensione di uscita Vu è sempre minore della tensione di ingresso Ve,
come mostrato in figura 1. Per la modalità switching ciò non è più vero, infatti, tale
convertitore può essere realizzato anche in salita. Analizzando la figura 1, si può
notare che la tensione Vx rappresenta la tensione di controllo regolabile, che consente
di ottenere una data tensione di uscita. In assenza di Vx si avrà un regolatore non
controllato e la tensione in uscita sarà fissa; variando Vx, invece, si potrà ottenere, in
uscita, il livello di continua desiderato.
Si vuole, ora, entrare un po’ più nel merito di un convertitore e studiarne nei dettagli
la realizzazione.
Innanzitutto, per creare un buon regolatore di tensione serve avere, necessariamente,
un buon generatore di riferimento, in quanto non è possibile realizzare qualcosa di
stabile se non si parte da una sorgente che fornisce un riferimento stabile di tensione.
Tale generatore viene realizzato, nella maggior parte dei casi, con un diodo Zener, che
è un diodo nel quale si va ad operare non nella regione diretta, ma nella regione
inversa. Si ricorda che in tale zona la corrente è molto piccola in quanto dovuta alle
sole cariche minoritarie; si osserva però che rendendo sempre più negativa la tensione,
si arriva ad un punto detto di breakdown, nel quale si riscontra un’improvvisa crescita
della corrente. La caratteristica I-V corrispondente è mostrata in figura 2:

VBD

fig.2

La tensione di breakdown VBD è anche detta tensione di Zener e si indica con Vz. In
realtà, confondere i due termini non è del tutto corretto, anche se dal punto di vista
macroscopico in entrambi i casi si osserva un livello di tensione indipendente dalla
corrente assorbita, riscontrabile graficamente nel tratto a pendenza quasi infinita. In
realtà, i fenomeni che possono innescare il breakdown e lo Zener sono sostanzialmente
diversi. Il fenomeno del breakdown, altrimenti detto effetto valanga, è legato alla
ionizzazione da impatto, ossia, aumentando la tensione, aumenta anche il campo
elettrico, aumenta la velocità dei portatori che, urtando contro il reticolo, ionizzano gli
atomi, liberando coppie elettrone/lacuna. Queste ultime, ormai libere, verranno a loro
volta accelerate dal campo e, urtando anch’esse il reticolo, libereranno altre coppie
elettrone/lacuna, dando origine al caratteristico fenomeno a valanga con associata

87
crescita elevata della corrente. L’effetto Zener, invece, definito anche effetto Tunnel, si
verifica, generalmente, a tensioni leggermente più basse rispetto a quelle di
breakdown e si manifesta in presenza di forti drogaggi. Tale fenomeno non è spiegabile
con la fisica classica, ma è necessaria la meccanica quantistica, che afferma che in
presenza di una barriera di potenziale, esiste comunque una probabilità non nulla che
un elettrone possa superarla. La probabilità è tanto maggiore quanto più stretta è la
barriera. In presenza di forti drogaggi (barriere molto sottili) si possono quindi avere
correnti elevate.
Dal punto di vista macroscopico i due fenomeni sono sostanzialmente uguali, poiché si
ottiene una tensione indipendente dalla corrente assorbita. Quindi, mentre per un
diodo normale il fenomeno del breakdown è da evitare, perché danneggia
irreparabilmente il dispositivo, nei diodi Zener è ricercato; questi ultimi, infatti,
vengono dimensionati, dal punto di vista elettrico e termico, in modo tale da potere
operare alla tensione di Zener, cioè per sopportare correnti e tensioni caratteristiche di
tale fenomeno. Dal punto di vista convenzionale (si ricorda che si opera in inversa), le
correnti e le tensioni saranno prese con versi opposti rispetto al diodo normale, in
modo tale che anche la caratteristica risulti ribaltata nel quadrante positivo:

In uno Zener ideale il tratto ad elevata pendenza sarà perfettamente verticale, il che
significa che qualsiasi sia la corrente assorbita, la tensione rimane rigorosamente
costante. Nella realtà esistono degli effetti resistivi che danno una pendenza minore e
una buona approssimazione del diodo reale è proprio quella a due tratti rettilinei,
come mostrato nella figura soprastante, in cui si tiene conto della presenza di una
resistenza di Zener Rz, che può essere dell’ordine di qualche Ohm, da cui dipende la
pendenza della curva. Il modello complessivo del diodo Zener è, allora, il seguente:

fig.3

La batteria Vz indica l’intercetta con l’asse delle ascisse, la resistenza Rz indica che il
tratto obliquo non ha pendenza infinita, ma di valore 1/ Rz e, infine, un diodo ideale
indica che al di sotto della soglia la corrente è nulla o per lo meno trascurabile. Ora, in
88
pratica un tale diodo produce un effetto di rettificazione se e solo se Iz > Izmin; cioè, se la
corrente scende sotto un certo livello, si torna ad operare nella regione della
caratteristica a bassa pendenza, dove non si ha più il riferimento di tensione cercato.
Quindi, affinché il diodo Zener svolga la sua funzione correttamente, si dovrà
garantire di lavorare al di sopra del ginocchio della caratteristica, cioè con valori di
corrente maggiori di Izmin. Si vuole, ora, usare lo Zener per realizzare un regolatore di
tensione.

3.3.1 Regolatore DC/DC con diodo Zener

Lo schema circuitale di un possibile regolatore DC/DC con diodo Zener è il seguente:

fig. 1

Tale regolatore risulta molto semplice ed è molto usato in pratica. In prima analisi si
può affermare che, se il diodo Zener si comporta come ideale, indipendentemente dalla
corrente assorbita, ai suoi capi presenterà una tensione Vz e, quindi, la tensione
d’uscita risulta indipendente dalla tensione di ingresso.
Allora, un modello troppo ideale dello Zener, cioè un modello per il quale si potrebbe
pensare di sostituire lo Zener con una batteria, non è realistico. In partica si dovrà
tener presente che la tensione di uscita non potrà mai essere costante, ma sarà sempre
funzione della tensione d’ingresso, della corrente assorbita e della temperatura, cioè:

Vu = Vu(Ve, Iu,ϑ) (1)

L’obiettivo è, ora, di iniziare a vedere come le prestazioni del regolatore in termini di


componenti circuitali siano legate alle variazioni di tensione d’ingresso, di corrente
assorbita e di temperatura. Passando alle variazioni e usando derivate parziali
rispetto alle variabili della funzione (1) si può scrivere:

∂Vu ∂V u ∂Vu
∆Vu = ∆Ve + ∆I u + ∆ϑ = F∆Ve − Ru ∆I u + K ϑ ∆ϑ
∂Ve ∂I u ∂ϑ

Si definiscono, così, alcuni coefficienti che tengono conto delle variazioni della tensione
di uscita rispetto alle cause di variazione. Si ha, allora:

89
∆Vu ∆Vu ∆Vu
F= Ru = − Kϑ =
∆Ve ∆I u =0 ∆I u ∆Ve =0 ∆ϑ ∆Ve =0
∆I u =0
∆ϑ =0 ∆ϑ =0

in cui, il primo coefficiente tiene conto della variazione della tensione di uscita rispetto
a quella della tensione d’ingresso ed è chiamato parametro di Regolazione, mentre
il suo reciproco 1/F viene detto reiezione dell’alimentazione; il secondo coefficiente
assume il significato di resistenza d’uscita; infine, il terzo coefficiente definisce la
variazione della tensione d’uscita rispetto alla variazione di temperatura ed è
chiamato coefficiente di temperatura. Questi tre parametri, in condizioni ideali,
dovrebbero essere nulli, in quanto la ∆Vu risulterebbe nulla; in realtà, essi qualificano
il regolatore e tanto più piccoli sono, tanto migliore sarà la qualità del regolatore.
Si vuole vedere, ora, come si arriva a calcolare i parametri appena citati. A tale scopo,
si consideri il circuito di figura 1 e si sostituisca allo Zener il suo circuito equivalente,
omettendo il diodo ideale, in quanto si suppone in questa fase di lavorare ai livelli di
corrente desiderati:
Ie R Iu

Rz

Ve Rc Vu
Vz

fig. 2

Dal momento che si desidera studiare cosa succede alle variazioni, si dovrà
considerare un circuito linearizzato, tenendo conto che la variazione ∆Vz della tensione
della batteria diventa nulla. Dunque, si ottiene:

∆Ie R ∆Iu

∆Ve Rz Rc ∆Vu

fig. 3

90
Da ciò, è semplice dedurre i primi due parametri F ed Ru.
F è definito, infatti, come ∆Vu/∆Ve , calcolato quando ∆Iu e ∆ϑ sono nulli; affermare che
∆Iu = 0, significa considerare il circuito a vuoto e, quindi, dalla definizione del
parametro F e osservando la figura 3, si ottiene:

Rz
F=
R + Rz

Per ciò che riguarda il parametro Ru si ragiona in modo analogo, si andrà a


cortocircuitare l’ingresso e, dunque, Ru risulterà essere uguale al parallelo di R ed Rz,
cioè:
Ru = R // Rz ≈ Rz (2)

Infine, si vuole calcolare il coefficiente di temperatura Kϑ che, dalla definizione, è


esprimibile anche in funzione di ∆Vz:

∆Vu ∆Vu ∆Vz


Kϑ = = (3)
∆ϑ ∆Iu =0
∆Ve =0
∆Vz ∆ϑ

Il circuito che si dovrà studiare sarà, allora, il seguente:

Rz

R +
∆Vz ∆Vu
-

dove si è tenuto conto della variazione ∆Vz inserendo un generatore di tensione. In tale
modo, si suppone che la massima dipendenza dalla temperatura sia data dal diodo
Zener. Da tali considerazioni si può scrivere

∆Vu R
= ≅1
∆Vz R + Rz

infatti, se si vuole una buona regolazione, cioè una bassa sensibilità alle variazioni
della tensione di alimentazione, si dovrà far tendere F a zero; a tal fine, si può agire su
un unico parametro, cioè R, dal momento che la resistenza di Zener Rz è fissata. Si
cercherà, allora, di utilizzare valori di R molto grandi, al fine di cercare di annullare F
ed approssimare la (3) nel seguente modo:

91
∆Vz
Kϑ ≅
∆ϑ
ossia, il coefficiente di temperatura è circa uguale a quello del solo diodo Zener.
Sempre nell’ottica di R grande e, in particolare, per R >> Rz, si possono fare alcune
considerazioni sulla resistenza d’uscita, che verrà a coincidere circa con la resistenza
dello Zener, come si è evidenziato nella (2) e prendere in considerazione anche la
potenza dissipata, di cui si andrà a parlare qui di seguito.
Si osserva, infatti, che una R grande permette di limitare notevolmente la potenza
dissipata; esprimendo tale potenza sullo Zener, si ha:

 V − Vz 
Pz = V z I z = V z ( I e − I u ) ≅ V z  e − Iu 
 R 

avendo supposto trascurabile la caduta su Rz, il che è perfettamente lecito, se si


considera un diodo Zener decente. Mettendosi, ora, nella situazione di potenza
massima:
 V max − V z 
Pzmax ≅ V z  e − I umin 
 R 

dunque, come previsto, se si aumenta R diminuisce la potenza dissipata sullo Zener.


Si osservi che, se il livello di potenza che viene dissipato sullo Zener è eccessivo,
essendo la potenza il prodotto fra una tensione e una corrente, si potrebbe pensare di
gestire l’eccesso di corrente mettendo due dispositivi in parallelo; in questo modo,
fissato il livello di tensione, la corrente che un solo dispositivo non riuscirebbe a
reggere viene distribuita sul parallelo dei due, così come la potenza dissipata. Se da un
lato, tuttavia, tale modo di operare potrebbe sembrare vantaggioso, dall’altro si dovrà
prestare attenzione al fatto che i diodi non sono ideali. Due diodi reali, infatti, pur
essendo realizzati in tecnologia integrata, non sono mai identici e verrebbero a
lavorare con livelli di corrente diversi. Ad esempio le loro caratteristiche potrebbero
essere quelle di figura 4:

I
1

V
fig. 4

Quindi, il livello di corrente che si pensava di poter distribuire uniformemente per


distribuire la stessa potenza dissipata, non è affatto diviso in maniera uniforme, ma
dipenderà dalle caratteristiche dei dispositivi. A parità di tensione, infatti, si può
vedere dalla figura 4, che i livelli di corrente a cui operano i due dispositivi sono
92
sostanzialmente diversi (vedi punti 1 e 2 di figura 4). Tale diversità può essere molto
elevata e portare al danneggiamento del dispositivo che riceve la maggior parte della
corrente in gioco.
Si può, allora, generalizzare affermando che tutti i dispositivi con caratteristiche molto
ripide, per esempio di tipo esponenziale, non devono mai essere messi in parallelo. Ciò
vale, dunque, anche per transistori di tipo bipolare.
Per poter mettere due dispositivi di tale tipo in parallelo, si dovranno usare delle
resistenze che permettono di effettuare un reale sharing di potenza/corrente, ossia una
corretta ripartizione di quest’ultima:

A questo punto, il dispositivo che conduce di più e che vede aumentare la corrente,
grazie alla caduta sulla resistenza avrà una tensione ai suoi capi minore di quella che
avrebbe senza R e non si danneggia. Le resistenze introducono in pratica una
retroazione negativa che equilibra la distribuzione di corrente.
Riprendendo il regolatore visto si può, allora, affermare che, per ottenere un buon
regolatore, si dovrà avere una resistenza R >> Rz e che sullo Zener dovrà scorrere
sempre un minimo di corrente, in modo tale che la zona di lavoro non sia mai sotto il
ginocchio della caratteristica I-V. Nasce, dunque, la necessità di ricavare un estremo
superiore per la resistenza R, date le condizioni:

R >> R z
(4)
I z >> I zmin

Ricordando che
I z = Ie − Iu

trascurando la caduta sulla resistenza di Zener e sfruttando la seconda delle (4), si


ottiene:
Ve − V z
Iz ≅ − I u > I zmin
R
che permette di ottenere il vincolo su R, ossia:

Ve − V z
R<
I zmin + I u

Ora, supponendo di porsi nel caso peggiore, cioè quando Ve = Vemin e Iu = Iumax , il
vincolo che ne deriva sarà:

93
V emin − V z
R < min (5)
I z + I umax

Questo vincolo risulterà tanto più stringente, quanto più la tensione Ve sarà piccola e
la corrente assorbita Iu sarà alta.
Utilizzare una tensione Ve elevata comporta però rendimenti spesso inaccettabili. Per
capire ciò poniamoci nella condizione più favorevole possibile e supponiamo, dunque,
che la corrente sullo Zener sia trascurabile, cioè valga

Iu = Ie

Per il rendimento del regolatore si otterrà

Vu I u V
η = ≅ u
VeIe Ve

che raggiunge il suo valore massimo in

Vz
η max =
V emin

Dall’espressione del rendimento, si può osservare come un salto troppo elevato fra
tensione d’ingresso e tensione d’uscita produca una forte dissipazione e, di
conseguenza, bassi rendimenti.
Il problema del rendimento basso è legato direttamente al problema dello smaltimento
di calore. La potenza che non giunge al carico, infatti, viene trasformata in calore, che
dovrà essere smaltito attraverso sistemi di raffreddamento (per esempio alette,
ventole, ecc.) opportunamente progettati. In sostanza, bassi rendimenti significano
potenza dissipata e, in ultima analisi, costi elevati per la progettazione di dispositivi
che consentano lo smaltimento di calore.

3.3.1.1 Esempio

Sia data la tensione di uscita Vu, la corrente di uscita Iu e la tensione di ingresso:

Vu = 6V 0 ≤ I u ≤ 100mA 10V ≤ Ve ≤ 12V

in cui la variazione di Ve esprime il ripple residuo legato agli AC/DC o alla variazione
di rete. Essendo Vu = 6V, sarà necessario uno Zener da 6V.
Tale diodo si trova in commercio (ne esistono da 6V, 9V, 12V) e sarà il costruttore a
fornire Rz e Izmin del diodo stesso. Nel caso in esame si ha:

94
V z = 6V
R z = 10 Ω
I zmin = 10 mA

e dovendo rispettare il vincolo su R, risulterà

V emin − V z
R < min = 36 . 4 Ω (6)
I z + I umax

Si osserva che, con i livelli di corrente scelti, i risultati ottenuti non sono molto buoni;
infatti, R non è molto maggiore di Rz. Inoltre, calcolando anche altri parametri
significativi, approssimando R al valore di 36 Ohm, si ha:

Rz
F= = 0.22 = 22%
R + Rz (7)
Ru = Rz // R ≅ 7.8Ω

E’ chiaro che questo non è un buon regolatore, infatti, dalla prima delle (7) si deduce
che si ha una variazione della tensione di uscita rispetto all’ingresso di ben il 22%;
inoltre
∆Vu = Ru ∆I u

e poiché
0 ≤ I u ≤ 100mA

allora
∆ V u = 780 mV

Ciò significa che, rispetto ai 6V che si avevano sullo Zener, si hanno delle variazioni da
vuoto a carico di 780 mV e, dunque, la tensione di uscita è tutt’altro che stabile.
Per ciò che riguarda la potenza si ricava:

Pumax = V u I umax = 6 ⋅ 100 ⋅ 10 − 3 = 0 . 6W

sullo Zener, invece, si dissipa

 V emax − V z  12 − 6 
P z
max
= V z  − I umin  = 6   − 0 = 1W
 R   36 

e, infine, sulla resistenza R si dissipa

95
P max
=
(V e
max
− Vz ) 2

=
(12 − 6 )
2
= 1W
R
R 36

Da questi calcoli, dunque, risulta che i componenti in gioco, diodo Zener e resistenza R,
dovranno sopportare un Watt di potenza, quando in uscita ne vengono forniti solo
0.6W. Sarà, dunque, necessario un dimensionamento dei componenti in termini di
potenza che si è in grado di gestire. Il grosso limite di questo circuito è costituito dalla
corrente Iumax .
Se si osserva la (6), infatti, si può notare che se si diminuisce la Iumax , essendo Izmin
una quantità piccola, il vincolo sulla resistenza non crea più problemi. Dunque, si
dovrà cercare di progettare il circuito regolatore in modo tale da diminuire il più
possibile il livello di corrente assorbito dal carico.

3.3.2 Regolatore DC/DC con amplificatore di corrente

L’obiettivo di questo regolatore è diminuire la corrente assorbita dal carico. A tale


scopo si dovrà fare in modo che il diodo Zener non veda direttamente il carico, ma
prima di esso veda un amplificatore di corrente. Così facendo, il vincolo sullo Zener
sarà dato da una corrente I che, se l’amplificatore funziona correttamente, è molto più
piccola di quella che si vede andare al carico. Lo schema circuitale è quello di figura 1:

fig. 1

Dunque, ciò che si richiede è di inserire, tra Zener e carico, un amplificatore con
guadagno di corrente sufficientemente elevato. Allo stesso tempo, non si devono creare
problemi a livello di guadagno di tensione, ossia, si deve mantenere una certa stabilità
per tale guadagno, in quanto se l’amplificatore risente troppo delle variazioni della
tensione di alimentazione, si viene a creare un blocco che causa la perdita della
proprietà di stabilizzazione del circuito in esame. Un amplificatore con guadagno di
corrente elevato e con guadagno di tensione poco sensibile alle variazioni dei
parametri può essere, ad esempio, un bipolare in una connessione a collettore comune
(emitter follower), dove l’emettitore segue la base e le variazioni tra base ed emettitore,
ossia la reiezione tra le tensioni di ingresso e d’uscita dell’amplificatore, sono solo

96
legate alle variazioni della VBE, che sono modeste. Il circuito, allora, diventa quello di
figura 2:

fig. 2

Lo schema di figura 2 è di principio, ma con varianti più o meno complesse trova


notevoli applicazioni pratiche. In particolare, il circuito risulta interessante, in quanto
i livelli di corrente gestibili sono aumentati rispetto alla configurazione con un solo
diodo Zener. A tale proposito, infatti, l’unico vincolo risulta dato da hFE, in quanto se
l’amplificatore presenta guadagni di corrente elevati, la corrente di ingresso sarà hFE
volte più piccola di quella di uscita
1
I = Iu
h FE

pertanto, lo Zener vede delle correnti più piccole, addirittura prossime allo zero, che
permettono una migliore regolazione. Si può, inoltre, notare che la tensione di uscita
Vu non è più la tensione di Zener Vz, ma essendoci il transistor sarà:

Vu = Vz - VBE

Per recuperare la soglia di tensione VBE, si può giocare sull’inserimento di altri diodi,
per esempio, come mostrato in figura 3:

Iu
R
Ie
VBE

RC Vu
Ve
Vz

fig. 3

In tal modo si riesce ad ottenere:


Vu = Vz

La configurazione di figura 3, oltre a compensare la caduta di tensione


sull’amplificatore, può aiutare a compensare le eventuali variazioni di temperatura, in
97
quanto se diodo e transistor hanno lo stesso comportamento termico, le dipendenze
dalla temperatura delle loro tensioni di giunzione si elidono.
In definitiva, l’amplificatore di corrente ha permesso di ridurre il limite sulla corrente
Iz che vede lo Zener, a patto che tale amplificatore abbia un guadagno elevato e quindi
un hFE alto. Se si sale a potenze elevate e, quindi, per valori di corrente notevoli, le
cose si complicano, in quanto non è facile avere transistor con hFE così elevati da
soddisfare le prestazioni richieste. I transistor di potenza, infatti, per come sono
realizzati, hanno degli hFE piccoli, dell’ordine delle decine ed è per questo che spesso si
ricorre a delle coppie Darlington, per ottenere così degli hFE dell’ordine delle centinaia
(si ricorda che nei Darlington hFE ≈ hFE1⋅hFE2).
Si vogliono, ora, esaminare le prestazioni di questo particolare regolatore, calcolando i
parametri F, Ru ed il vincolo su R. A tal fine, si dovrà considerare il circuito
equivalente alle variazioni del circuito di figura 2, ossia:

hfe∆I

∆I ∆I u

R hie

∆Ve Rz ∆Vu

fig. 4

Per semplicità si tralascerà il calcolo del coefficiente di temperatura.


Per il fattore di regolazione F si avrà allora:

∆Vu Rz
F= =
∆Ve ∆I u =0
R + Rz

dove, avendo considerato ∆Iu = 0, si avrà ∆I = 0 e, dunque, come si può notare dalla
figura 4, F risulta uguale al partitore resistivo tra R ed Rz e questo è lo stesso risultato
ottenuto per il regolatore DC/DC con un solo diodo Zener. Per ciò che riguarda la
resistenza di uscita, si ottiene:
∆Vu hie + R // Rz
Ru = − =
∆I u ∆Ve =0
1 + hfe

Per ∆Ve = 0 si ottiene proprio la resistenza di uscita di uno stadio a collettore comune,
dato dalla serie tra hie e il parallelo tra R ed Rz, diviso il guadagno di corrente. Si nota
come tale valore sia stato migliorato rispetto alla configurazione precedente (DC/DC
con diodo Zener), grazie al valore del guadagno di corrente che viene introdotto
dall’amplificatore. Infine, l’ultima relazione sulla resistenza R si calcola,

98
semplicemente, tenendo conto del fatto che lo Zener non vede più la sola Iu, ma
quest’ultima divisa per il guadagno di corrente dell’amplificatore, cioè:

V emin − V z
R < (1)
I umax
+ I zmin
1 + h FE

La (1) definisce un vincolo notevolmente migliorato rispetto alla configurazione a solo


Zener, infatti, risulta meno limitativa proprio grazie alla presenza del guadagno di
corrente AI = 1 + hFE, che consente una R di valori maggiori, anche di un paio di ordini
di grandezza, rispetto al caso precedente.
Si osservi che tutte le considerazioni fin qui svolte valgono solamente se il transistor
non è saturo, perché se lo fosse, il guadagno di corrente calerebbe in modo drastico e
verrebbe meno la funzione per cui è stato impiegato. Dovrà, quindi, valere la relazione

V CE > V CEsat
o, più in particolare:
V u ≤ V e − V CEsat (2)

e al massimo, nella (2), potrà valere l’uguaglianza.


Per scegliere il componente sarà poi necessario verificare quali valori di tensione,
corrente e potenza il transistore dovrà sopportare, al fine di eseguire tale scelta in
modo adeguato. Si avrà, allora:

Icmax = Iumax
max
VCE = Vemax −Vu ⇒ dimensionamento del BJT
PT
max
=Vmax max
CE u I

E’ poi interessante prendere in considerazione anche il rendimento, che per regolatori


quasi lineari, solitamente, non è mai molto elevato. Nel caso specifico del regolatore
con amplificatore di corrente si può scrivere:

Vu Iu V
η = ≅ u
Ve Ie Ve

in cui si è approssimato ad uno il rapporto delle due espressioni di corrente. Tale


approssimazione non introduce un grosso errore, infatti, la differenza tra Iu ed Ie non
è altro che la somma della corrente di base del transistor e quella che va nel diodo
Zener, che sono sufficientemente piccole. Come si vede il rendimento η dipende dal
salto di tensione tra ingresso e uscita. Il rendimento minimo sarà, allora:
Vu
η min ≈
V emax

99
ed è per questo che i regolatori con amplificatore sono solitamente utilizzati laddove i
salti di tensione tra ingresso e uscita non sono eccessivi.
Si osservi che, nell’ottica di realizzare un alimentatore, sarà necessario l’impiego di un
trasformatore, che effettua di per sé un buon salto di tensione verso il basso senza
introdurre dissipazioni notevoli; in questo modo il regolatore deve effettuare solo
l’ultimo (piccolo) salto di tensione necessario. Eseguire un salto di tensione elevato con
il regolatore implicherebbe una dissipazione maggiore.

Si vogliono, ora, analizzare i limiti del regolatore DC/DC con amplificatore di corrente:
• la tensione di uscita è vincolata dalla tensione di Zener. Dal momento che non
esistono in commercio Zener con tutti i possibili valori di tensione, non sarà
possibile regolare la tensione d’uscita al valore desiderato in modo “continuo”, ma si
sarà legati ai valori “discreti” delle tensioni di Zener.
• Limite superiore sulla resistenza d’uscita: nell’espressione del vincolo su Ru si ha la
presenza del parametro hfe che, se presenta un valore elevato, tende a far
diminuire la Ru. Tale diminuzione è un po’ illusoria, in quanto per avere un
transistore con hfe elevato, si dovrà usare un Darlington. Purtroppo anche il
parametro hie del Darlington cresce (hie=hie1+hfe1hie2). In prima approssimazione
l’aumento di hfe viene, per così dire, compensato da quello di hie e, dunque, le cose
non migliorano così tanto come ci si aspetterebbe. La Ru, quindi, non può diminuire
oltre un certo limite.
• Prestazioni non particolarmente elevate: al fine di superare tali limiti sarà
necessario introdurre delle modifiche al regolatore ed, in particolare, fare ricorso
all’impiego della retroazione.

3.3.2.1 Esempio

Si considerino i seguenti dati: BJT

V u = 6V I cmax = 0 . 5 A
10 V ≤ V e ≤ 12 V V CEmax = V emax − V u = 6V
I umax = 500 mA PTmax = I cmax V CEmax = 3W
I umin = 200 mA min
h FE = 30

Si sono considerati livelli di corrente leggermente superiori a quelli impiegati per


l’esempio relativo al regolatore con diodo Zener, per mettere maggiormente in
evidenza il miglioramento delle prestazioni apportate dal regolatore con amplificatore
di corrente. Utilizzando i dati forniti si ottiene:

I umax
I Bmax = ≅ 16 mA (1)
1 + h FEmin

Il diodo Zener scelto presenta una Rz = 10Ω, Vz = 6V e Izmin = 10mA.

100
Per avere il livello di tensione richiesto in uscita si dovrà compensare la caduta di
tensione in uscita adottando l’accorgimento di inserire un diodo aggiuntivo tra BJT e
Zener. Ora, il valore massimo per R sarà:

V emin − V z − V BE
R < = 130 Ω (2)
I umax
+ Iz
min

1 + h FE min

dove si è tenuto conto del diodo aggiuntivo che compensa la caduta della soglia sulla
giunzione base/emettitore del BJT. Scegliendo, ora, una R che rispetti il vincolo
espresso dalla (2), ad esempio R = 100Ω, si ottiene:

Rz
F = = 0 . 09 = 9 %
R + Rz

Quindi, si è passati dal 22% del regolatore a Zener al 9% del regolatore ad


amplificatore di corrente. Il miglioramento è notevole, anche se l’ordine di grandezza è
rimasto lo stesso, se si tiene presente che si sono innalzati i livelli di corrente di
partenza e si è scelto un bipolare con un guadagno di corrente non eccessivamente
elevato. Aggiustando, quindi, questi due aspetti si possono ottenere prestazioni ancora
migliori. Si vuole, infine, calcolare la resistenza d’uscita:

R // R z + hie
Ru =
hfe + 1

trascurando, nel parallelo, R rispetto ad Rz (si era supposto R >> Rz) e utilizzando
l’espressione di hie, si ottiene:
hfeV T
Rz +
IC0 R V
Ru = ≅ z + T
hfe + 1 hfe IC0

in cui si indica con IC0 la corrente di collettore IC a riposo e dove si è trascurato l’uno
rispetto ad hfe. Si può, ora, calcolare la Ru massima come:

Rz VT
R umax ≅ + ≅ 0 .5 Ω
hfe min I Cmin0

Da ciò si può dedurre che, con questo genere di circuiti, se i salti di tensione non sono
elevati (in questo caso si passa da 12V a 6V), si riescono ad ottenere prestazioni
discrete con correnti dell’ordine del centinaio di mA.

3.3.3 Regolatori DC/DC con amplificatore operazionale

101
L’obiettivo che ci si propone di raggiungere con questo nuovo tipo di regolatore è quello
di ottenere una tensione di uscita totalmente “libera”, cioè una tensione regolabile con
continuità senza essere vincolati ad un valore di tensione di riferimento quale la
tensione di Zener, oltre a migliorare le prestazioni del circuito.
Per introdurre delle migliorie anche a livello di sensibilità ai disturbi, sarà necessario
progettare un circuito con retroazione utilizzando dei blocchi a guadagno elevato. Se
questi ultimi fossero ideali, la progettazione sarebbe relativamente semplice. Poiché
però si ha sempre a che fare con blocchi reali, si incontrano difficoltà pratiche specie
quando si iniziano ad avere dinamiche elevate, ossia quando si inizia ad andare verso
alte frequenze di operazione, dove è difficile costruire degli amplificatori a guadagno
elevato, come quelli che garantiscono una buona retroazione.
Lo schema di principio di un regolatore che impiega la retroazione è il seguente:

fig. 1

Il principio di funzionamento di questo circuito è molto semplice, infatti, si fa entrare


il riferimento di tensione Ve all’ingresso dell’amplificatore operazionale, al fine di
generare un segnale errore rispetto ad una frazione della tensione di uscita, dopodiché
si inserisce un amplificatore di corrente a valle dell’operazionale, in modo tale da non
caricare troppo quest’ultimo, dati i bassi valori di corrente che esso fornisce rispetto a
quelli richiesti. Il circuito realizza un servo controllo di tensione.
L’analisi del circuito è immediata se ci si riferisce ad un amplificatore operazionale di
tipo ideale, ossia:

Ø RI → ∞
Ø RU → ∞
Ø AV → ∞
Ø nessuna dipendenza frequenziale, cioè la caratteristica non varia con la
frequenza e si suppone che il guadagno sia sempre costante indipendentemente
da f.

Se si ritengono valide queste ipotesi si può applicare il principio di cortocircuito


virtuale in ingresso, cioè la tensione di ingresso si può considerare praticamente nulla,
potendo scrivere:
− R1
VZ = V = Vu
R1 + R Z
posto poi
R1
B = <1 (1)
R1 + R Z
102
si ottiene così:
1
V Z = BV u ⇒ Vu = VZ (2)
B

Si osserva che la (1) esprime la funzione di trasferimento della rete di retroazione


costituita da un semplice partitore resistivo. Dal momento che B è costituito da un
rapporto di semplici resistenze, esso risulta facilmente realizzabile usando un
potenziometro, ottenendo una tensione di uscita stabile e controllabile con continuità.
Poiché però il valore massimo di B è uno, ne deriva che il valore minimo per la
tensione d’uscita sarà
V umin = V Z

Non sarà, allora, possibile scendere sotto VZ, a meno che non si inserisca un
potenziometro sullo Zener, che permetta di ridurre la stessa VZ, cioè:

+
V = αVZ con α < 1

in cui α rappresenta il rapporto di partizione del potenziometro. Il circuito in figura 1


si modifica nel seguente modo:

R R2

Ve Rc
α
R1
VZ

fig. 2

Fino a questo punto si è supposto che l’amplificatore operazionale fosse ideale; tale
ipotesi non si discosta molto dalla realtà, in quanto i guadagni di un operazionale
raggiungono valori di 105 ÷ 106 , che permettono di ritenere vere tutte le considerazioni
fin qui fatte (ad eccezione dei problemi legati alla dinamica).
Assunta, allora, come vera la (2), si può pensare di differenziarla nel seguente modo:

∂V u 1 ∂V Z
= (3)
∂V e B ∂V e

per osservare che, anche in questo tipo di regolatore, è necessario uno Zener stabile,
ma poiché la corrente assorbita dall’operazionale è molto bassa, non sarà difficile
realizzare una buona regolazione. Comunque, per un buon riferimento di tensione, si
può anche ricorrere a generatori di riferimento (un poco più complessi del semplice
schema con diodo Zener visto) che garantiscono una VZ più stabile e consentono

103
prestazioni di stabilità ancora migliori di quelle, se pur già buone, ottenute con il
circuito di figura 2.

3.3.3.1 Criteri di progetto

Il primo punto importante da considerare è il partitore resistivo, che permette di


ottenere il valore di B necessario. A seconda della tensione d’uscita desiderata, infatti,
si avrà un certo rapporto di partizione; una volta scelto B, sarà necessario trovare un
altro criterio che permetta di ricavare i valori di R1 ed R2 dato che esistono infinite
coppie R1, R2 per un assegnato B. Per trovare tali valori si può imporre che la corrente
che scorre sul partitore sia trascurabile rispetto alla corrente di uscita. In particolare,
nel caso peggiore, la corrente sul partitore dovrà essere molto minore della corrente
minima in uscita, ossia:
V umax
<< I umin
R1 + R 2

Il simbolo di “molto minore” garantisce una differenza tra i due valori di corrente pari
ad esempio ad un fattore 100 o, addirittura, 1000.
Si dovrà poi ricordare che l’operazionale funziona bene in regione lineare e non deve
saturare; ciò significa che si dovrà fare attenzione ai limiti forniti dal costruttore
riguardanti la sua tensione di uscita Vo e la sua corrente di uscita Io massima. Per ciò
che riguarda la corrente si avrà
Iu
I0 = < I 0lim (1)
1 + h FE

in cui si è trascurata la corrente sul partitore e dove si ricorda che AI = 1 + hFE


rappresenta il guadagno di corrente del transistor. Dalla (1) si ottiene il vincolo sulla
corrente di uscita:

I umax < (h FE
min
+ 1 )I 0lim

Per ciò che riguarda la tensione di uscita, si deve tenere presente che il costruttore
dell’operazionale fornisce dei limiti, superiore ed inferiore, espressi in funzione della
tensione di alimentazione del dispositivo:

V 0sup = V p − ∆ V
 inf (2)
V 0 = V n + ∆ V

dove si è indicata con Vp la tensione di alimentazione positiva dell’operazionale e con


Vn quella negativa.
Dunque, il vincolo espresso dalle (2) esprime il fatto che le tensioni di uscita inferiore e
superiore dell’operazionale differiscono di una quantità pari a ∆V (circa 2÷3V) rispetto
alle tensioni di alimentazione positiva e negativa. Utilizzando i simboli introdotti si
può imporre:
104
V 0inf < V 0 < V 0sup

Volendo, ora, ricondursi alla tensione di uscita del circuito in esame, si dovrà sottrarre
a V0 la caduta sul transistore, che è pari a VBE, ossia:

V 0inf − V BE < V u < V 0sup − V BE (3)

ricordando che Vu = V0 – VBE.


Si deve tenere conto, poi, del BJT e cioè si dovrà garantire che non saturi mai (dovrà
lavorare in regione attiva), in modo tale da funzionare correttamente come
amplificatore di corrente. Si dovrà imporre, quindi:

VCB > 0

o meglio
V e − V 0 = V e − (V u + V BE )> 0

e nel caso peggiore si ottiene

V umax < V emin − V BE (4)

In realtà, rispettare il vincolo (3) implica, automaticamente, rispettare il vincolo (4) sul
transistore, essendo il primo molto più restrittivo del secondo. Infatti, Vu è minore di
V0sup, che a sua volta è molto più piccolo di Vemin, in quanto dalla (2) si evince che V0sup
è di 2÷3V minore di Ve.
Si possono fare ancora alcune considerazioni sul BJT, ricordando che dalle ipotesi
precedentemente fatte, dovrà essere

V CEmax = V e max − V umin

e che dunque

PTmax = V CEmax I umax

Il rendimento, infine, sarà:

Vumin
η min
≈ max
Ve

e si può osservare che esso è pari al salto di tensione.


Il fatto di avere scelto in maniera adeguata l’operazionale e il partitore fa sì che la
corrente assorbita dal regolatore a Zener e la corrente di alimentazione
dell’operazionale siano piccole rispetto alla corrente di ingresso e uscita, quindi, nel
bilancio per una stima di massima del rendimento, tali valori possono essere

105
considerati trascurabili. È per tale motivo che non risulta essere lontano dalla realtà
affermare che il rendimento η è circa pari al salto di tensione.

3.3.3.2 Guadagno di anello e stabilità

Come si è visto, il regolatore DC/DC con amplificatore operazionale prevede l’utilizzo


della retroazione; a tale proposito, risulta necessario parlare di stabilità e questa
necessità si rifletterà su alcuni limiti di banda abbastanza stringenti.
L’obiettivo iniziale sarà quello di trovare un legame diretto tra il guadagno di anello e
la stabilità del circuito. Per prima cosa si dovrà considerare non più un operazionale
ideale, bensì reale; in tal caso la tensione d’uscita ad anello aperto, ossia quella
all’uscita della catena costituita da amplificatore e transistore, sarà:

V uo = A (V +
−V −
)+ V d (1)

in cui con A si è indicato il guadagno di tensione finito dell’operazionale, con il termine


fra parentesi il valore di tensione differenziale di ingresso e, infine, l’apice O del
termine a primo membro indica la grandezza ad anello aperto. Nella (1), tuttavia, si
suppone che l’operazionale sia ancora ideale dal punto di vista delle caratteristiche di
impedenza di ingresso e di uscita e si tiene conto, inoltre, tramite il termine di
disturbo Vd, di tutte le non idealità dell’operazionale, che provocano uno scostamento
indesiderato dell’uscita dal valore puramente differenziale che si avrebbe nel caso
ideale. In particolare, Vd rappresenta una variazione indesiderata legata
all’operazionale o alle variazioni della VBE del transistor oppure a qualsiasi altro tipo
di disturbo esterno, che si inserisce nella catena di amplificazione. Per ciò che
riguarda, invece, la resistenza d’uscita ad anello aperto si ha:

R0
R uo =
hfe + 1

che è la resistenza di uscita di un BJT a collettore comune, che in ingresso, cioè in


serie alla base, ha la resistenza di uscita dell’operazionale. I due parametri Ru° e Vu°
risultano fondamentali, in quanto permettono di definire la regolazione della tensione
e la variazione della tensione in funzione dell’assorbimento di corrente sulla resistenza
di uscita. Applicando la retroazione, inserendo le espressioni adeguate per V+ e V- e
ricavando Vu, si ottiene:
A Vd
Vu = VZ + (2)
1 + AB 1 + AB

Si può osservare che se A→∞, la (2) torna ad assumere l’espressione già trovata nel
caso ideale. Dal momento che si sta considerando un caso reale, si dovrà tenere conto
anche del secondo termine della (2), che corrisponde al disturbo diviso per il guadagno
di anello. Se quest’ultimo è molto elevato, ci si ritrova con una tensione di uscita
virtualmente dipendente solo dalla tensione di Zener, che è molto stabile, e
indipendente da disturbi che possono essere causati da variazioni di guadagno
dell’operazionale o, comunque, disturbi che in qualche modo entrano nella catena di
106
elaborazione. È, tuttavia, ovvio che i vantaggi della retroazione sono consistenti solo
nel momento in cui i guadagni d’anello risultano elevati; si vedrà che alle alte
frequenze, dove non è possibile realizzare con i transistor amplificatori a guadagno
elevato, oltre ad una perdita in termini di prestazioni, si incontreranno anche altri
problemi che costringeranno spesso ad abbandonare la retroazione e a cambiare tipo di
progettazione, rendendo le cose più complesse. Con la retroazione e guadagni elevati,
invece, è più facile avere circuiti con buone caratteristiche di insensibilità e
indipendenza dalla temperatura o da variazioni indesiderate; infatti, se AB è molto
elevato, non si ha più alcuna dipendenza dalle caratteristiche dell’amplificatore (vedi
(2)), ma solo da un rapporto di resistenze (1/B) facilmente gestibile.
A conferma di quanto detto, si consideri la resistenza d’uscita ad anello aperto,
valutabile a livello circuitale considerando il circuito equivalente oppure, più
semplicemente, dal punto di vista matematico utilizzando la (1):

∂ V uo ∂Vd
R o
= − = − (3)
∂Iu ∂Iu
u

dove il segno meno nasce dal verso assunto per la corrente di uscita. Applicando la
stessa differenziazione, usata nella (3), alla resistenza di uscita retroazionata, si
ottiene:
∂ Vu − ∂Vd ∂I u R uo
Ru = − = = (4)
∂I u 1 + AB 1 + AB

da cui si può osservare che, con guadagni di anello elevati, si raggiungono ottimi valori
di resistenza di uscita e, dunque, come già affermato, alti valori di AB permettono un
notevole miglioramento delle prestazioni.
Guadagni di anello elevati, tuttavia, comportano dei problemi di stabilità nei circuiti;
per avere un guadagno di tensione elevato, infatti, sarà necessario ricorrere a più stadi
di amplificazione e, quindi, a più transistori. In generale, per ottenere operazionali con
guadagni elevati, si utilizza un blocco differenziale in aggiunta ad un blocco di
guadagno, composto da uno o più stadi, che consente di elevare il guadagno stesso
dell’operazionale fino a valori di 105÷106. Inserendo, però, un elevato numero di stadi
di amplificazione, aumenta inevitabilmente il numero di poli. Ogni stadio, infatti, può
essere visto come un transistore con le sue capacità di giunzione (base/emettitore,
base/collettore, ecc.…) o, comunque, capacità che tengono conto degli effetti reattivi
dovuti all’accumulo di carica nel dispositivo. Se il numero di poli, allora, è elevato si ha
conseguentemente un rapida variazione della fase, specialmente se i poli sono vicini
l’uno all’altro e si può cadere nella situazione in cui, secondo il criterio di Bode, il
sistema risulta instabile. Se si ha, infatti, un guadagno di anello maggiore di uno
quando la fase risulta –180° (|A(ω)B| > 1 e ∠ A(ω)B = –180°), significa che si riporta
una componente della variazione dell’uscita all’ingresso con lo stesso segno della
variazione che ne è stata causa, e si ha instabilità; in altre parole, ciò significa che con
la retroazione non si è affatto generato un segnale che compensa l’errore, bensì un
segnale errore con lo stesso segno, che crea amplificazione dell’errore stesso e
conseguente comportamento instabile.
L’espressione del modello che si può avere con un operazionale è del tipo:

107
A(ω ) =
A0
(1 + jω ω1 )(1 + jω ω2 ) ⋅ ⋅ ⋅ ⋅ ⋅ ⋅(1 + jω ω N )
in cui ω1, ω2,…,ωN rappresentano i poli.

3.4 Compensazione

Si consideri il grafico di figura (1):

fig. 1

A tratto continuo si ha la caratteristica del guadagno di anello AB, nella parte


superiore di figura 1 ne viene rappresentato il modulo, mentre in quella inferiore la
fase. I poli considerati sono ω1 ed ω2, in corrispondenza dei quali si ha una variazione
di –20 dB per decade del guadagno.
In corrispondenza dei poli, la fase diminuisce di –45° per decade, se ogni polo è
sufficientemente distante dall’altro, cioè più di una decade. Ogni polo, dunque,
introduce una rotazione di 90° e, se i poli sono molto vicini tra loro, le rotazioni da essi
introdotte si sommano ed è possibile arrivare, come nel caso di figura 1, ad una fase di
–180° pur essendo il guadagno ancora maggiore di uno. Si ricorda che la scala è
espressa in dB, per cui sull’asse delle ascisse 0dB corrispondono al numero puro 1.
Retroazionando un sistema come quello di figura 1, ci si ritrova con un sistema
instabile e questo è dovuto alla presenza di più poli vicini tra loro, che provocano un
calo di guadagno meno rapido della variazione di fase, che genera di conseguenza
instabilità. Se, però, il guadagno fosse meno alto, cioè si traslasse la caratteristica
verso il basso pur mantenendo le stesse variazioni per la fase, si otterrebbe un sistema
stabile. Il problema della stabilità, quindi, è legato ai guadagni di anello elevati, ai
quali, tuttavia, non si vuole rinunciare per i motivi precedentemente analizzati. Si
dovrà, allora, ricorrere a quella che viene definita compensazione, ossia si dovrà in
qualche modo modificare la risposta del sistema mantenendo elevato il guadagno di
anello, in modo tale da non penalizzare le caratteristiche di retroazione, ma al tempo
stesso rendere stabile il sistema e questo si otterrà facendo sì che quando la fase
raggiunge -180°, il guadagno sia minore di uno e viceversa, quando il guadagno è pari
a uno, la fase non sia ancora arrivata a –180°; si cerca, cioè, di compensare con un
certo margine di fase, che rappresenta la differenza rispetto a –180°, solitamente
rientrante nel range di valori compresi tra i 45°÷90°.
Per ottenere tutto ciò si dovrà inserire quella che viene definita rete correttrice, cioè
si inserisce nel circuito una rete che introduce una correzione e garantisce la stabilità.
108
La compensazione più semplice che si possa considerare è la compensazione a polo
dominante, che fornisce quanto richiesto a prezzo di una notevole riduzione della
banda del sistema. Il vantaggio di tale compensazione è dato dalla sua semplicità,
dalla sua robustezza e dalla sua applicabilità, anche quando non si ha una perfetta
conoscenza della posizione dei poli. Essa introduce, infatti, un polo molto più in basso
rispetto a quelli del sistema, disinteressandosi della precisa collocazione di questi
ultimi, ma conoscendone solo l’ordine di grandezza.
Si definisce ωF la pulsazione alla quale il guadagno di anello compensato è uguale ad
uno; ωF dovrà essere molto minore della pulsazione relativa al primo polo del sistema
non compensato, in formule:

ω F / AC (ω F )B = 1
ω F << ω 1 < ω 2 < ω 3 < ...... < ω N

La caratteristica, ora, diventa quella tratteggiata in figura 1. A questo punto, il


sistema compensato che si ottiene diviene un sistema ad un solo polo dominante e gli
altri non saranno più influenti e potranno essere trascurati nelle espressioni
analitiche. La funzione compensata potrà, allora, essere scritta nel seguente modo:

Ao
AC (ω ) = (1)
ω
1+ j
ωc

dalla (1) si ricava immediatamente il valore di ωc. Per definizione, infatti, alla
pulsazione ωF si ha
AC (ω F )B = 1 (2)

Sfruttando, ora, la (1) e la (2) si ottiene:

Ao B
= 1
(3)
2
 ω 
1 +  F

 ω c 

Poiché si è scelto ωF >> ωc si può trascurare l’uno nella (3) e ricavare:

ω F
ω c ≅
Ao B

Avendo ottenuto un sistema ad un solo polo, si è arrivati ad un sistema


necessariamente stabile, in quanto esso presenta al massimo una rotazione di fase di
90°, che ovviamente corrisponde ad un ottimo margine di fase, 90°. Infatti, se si
osserva la figura 1, si può vedere come in corrispondenza di ωc la fase valga –45° e
subisca un’ulteriore rotazione fino ad arrivare in corrispondenza di ωF al massimo a –

109
90°, laddove il guadagno si sarà annullato (0dB). Ci si ritroverà, allora, con un
guadagno unitario e fase di –90° e il sistema sarà stabile.
Tutto ciò risulta vero se alla pulsazione ωF non si risente affatto degli altri poli; quindi
ωF dovrà essere almeno una decade sotto ω1. Spesso risulta utile far coincidere ωF con
ω1, a patto che il polo a pulsazione ω2 sia sufficientemente lontano. Si supponga, per
un momento, che ω2 non esista e che allo stesso tempo sia ωF = ω1: ciò che si ottiene è
una rotazione di fase di 90° introdotta dal primo polo più un’ulteriore rotazione di 45°
dovuta al polo a pulsazione ωF; la somma, dunque, è di 135° di rotazione e 45° di
margine di fase. Ciò giustifica la restrizione di ω2 sufficientemente lontano se ωF = ω1,
al fine di non ridurre eccessivamente il margine di fase. A seconda della posizione di
ωF, quindi, si avranno margini di fase più o meno “sicuri” e bande più o meno larghe.
La realizzazione circuitale, che consente l’introduzione di un polo dominante nel
sistema, prevede l’inserimento e la modifica di alcuni semplici elementi.
Una prima soluzione è data dall’inserimento di una capacità posta in parallelo a due
stadi amplificatori, schematizzati in figura 2 con due equivalenti di Thévenin:

fig. 2

Calcolando la funzione di trasferimento del circuito di figura 2, si deduce


immediatamente il valore della pulsazione di taglio

1
ωc =
CR i // R 0

Supponendo note la resistenza Ri ed R0 e scelta la pulsazione ωc, si ricava il valore


della capacità C da inserire tra i due stadi di amplificazione.
Questo modo di procedere spesso obbliga ad avere capacità di valore piuttosto elevato,
quindi, al fine di ovviare a tale problema, si sfrutta quello che viene detto effetto
Miller, dove la capacità non è più in parallelo ai due stadi, ma retroaziona un
amplificatore con guadagno elevato (Av << -1). Si richiama il teorema di Miller senza
darne, tuttavia, alcuna dimostrazione: dato un blocco a guadagno elevato e una
capacità C connessa tra i morsetti di ingresso e uscita:

110
C

Av << -1

fig. 3

tale capacità può essere scomposta, senza alcuna approssimazione, in due componenti,
una in ingresso e una in uscita, come mostrato in figura 4:

C(1 - Av) Av << -1 C(1 – 1/Av)

fig. 4

Gli schemi di figura 3 e figura 4 ai morsetti esterni sono completamente identici, ma il


passaggio dall’uno all’altro consente di mettere in evidenza la proprietà fondamentale
introdotta dal teorema di Miller, ossia che data una capacità C, questa si può ritrovare
in ingresso moltiplicata per (1 - Av) e più è elevato il guadagno di tensione negativo,
maggiore sarà il valore di C in ingresso, nonostante si sia inserita una capacità
piccola. Nel caso specifico, considerato in figura 2, lo schema circuitale si modifica nel
seguente modo:

fig. 5

dove la pulsazione di taglio risulta

1
ωc =
(1 − Av )C ⋅ Ri // R0
Ciò consente di utilizzare capacità che sono più piccole di un fattore Av, il che equivale
a ridurre di un paio di ordini di grandezza il valore di C, permettendo una maggiore
facilità di realizzazione del circuito integrato, essendosi notevolmente abbassato
l’ingombro. Oltre a quanto detto, vedremo come l’effetto Miller, se correttamente
111
utilizzato, fornisce un ulteriore vantaggio denominato pole-splitting. Tale effetto
garantisce uno spostamento verso frequenze più alte del primo polo a pulsazione ω1; in
tale modo il polo dominante introdotto ad ωc può essere posizionato più in alto in
frequenza, consentendo un aumento della banda utile.
Riassumendo si può dire che, in base alle conoscenze del prodotto A0B (anello aperto) e
della posizione del primo polo, si è in grado di determinare la pulsazione del polo
dominante e, di conseguenza, la capacità C. Quest’ultima può essere inserita
nell’operazionale dal costruttore, che esegue la compensazione internamente e
garantisce che l’operazionale stesso fornisca già una caratteristica ben compensata. In
questo caso specifico la compensazione viene effettuata in condizioni di caso peggiore,
cioè quando la rete passiva ha attenuazione minima (B=1); infatti, più B sarà elevata,
più la pulsazione del polo dominante sarà bassa. Ciò è ben visibile dalla figura 1, dove
si nota che se A0B aumenta, per esempio a causa di un aumento di B (avendo supposto
A0 costante e ωF fissato), il polo a pulsazione ωc tende a spostarsi verso frequenze più
basse, in quanto l’intersezione a –20 dB/decade del diagramma di A0B avviene a
frequenze più basse. Ciò, tuttavia, comporta una notevole riduzione di banda.
Per operazionali più raffinati, il costruttore fornisce dei morsetti esterni ai quali
attaccare eventuali capacità di compensazione, in base ai valori di A0B e del rapporto
di retroazione B. Un altro modo di procedere è costituito dalla cosiddetta
compensazione ibrida. In tal caso il costruttore compensa per valori di B pari a 0.5
fornendo dei morsetti esterni per aggiungere, se necessario, il valore di capacità
richiesto dalla particolare applicazione e compensare quanto si desidera.
Come esempio di quanto detto, si può considerare un operazionale che abbia ω1 ≈
10MHz e ωF ≅ 1MHz. Se si ha A0B ≅ 1.000.000, si ottiene ωc ≅ 1 Hz, che è una
pulsazione di taglio molto bassa e che implica valori delle costanti di tempo dell’ordine
dei secondi. Un tale risultato porta a dire che, se il carico varia la corrente assorbita, il
sistema impiegherà dei secondi a rispondere e questo è inaccettabile. Si deve, però,
ricordare che finora si è parlato di banda del sistema ad anello aperto; nel momento in
cui si chiude la retroazione, poiché il guadagno viene diviso per (1 + AB), la banda
viene moltiplicata per (1+ AB) e, quindi, si ha un notevole recupero in termini di
banda. La pulsazione di taglio ad anello aperto, allora, sarà:

ω T0 = ω c

mentre quella ad anello chiuso sarà

ω T ≈ ω F = A0 Bω c (4)

Quest’ultima espressione è facilmente verificabile scrivendo la funzione di


trasferimento del sistema retroazionato:

Ac (ω )
H (ω ) = (5)
1 + Ac (ω )B

dove Ac(ω) rappresenta la funzione di trasferimento del sistema compensato.


Nell’ipotesi di polo dominante, ora, la (5) può essere scritta come:

112
A0
1 + j ω ωc
H (ω ) =
A0
=
A0 B ω
1+ 1+ j + A0 B
1 + j ω ωc ωc

dividendo numeratore e denominatore per (1 + A0B) si ottiene

A0
1 + A0 B
H (ω ) =
1
≅ (6)
ω 1 B
1+ j
ω c 1 + A0 B

Nell’ipotesi di A0 sufficientemente grande, vale l’approssimazione nella (6), ossia H(ω)


≅ 1/B. Dalla (6) si nota, inoltre, che trascurando l’uno rispetto ad A0B, si ottiene la
pulsazione di taglio espressa dalla (4). I pochi Hertz di banda del sistema in catena
aperta, vengono recuperati grazie al guadagno d’anello del sistema retroazionato. Se la
compensazione è stata progettata per B=1 e la si usa con un valore di B=0.5, non si
“recupererà” la larghezza di banda massima ottenibile. Dunque, per requisiti di banda
stringenti e valori di B non eccessivamente elevati, sarà bene scegliere di effettuare
una compensazione esterna ad hoc, anziché quella interna fornita dal costruttore, al
fine di ottenere una perdita di banda il più possibile ridotta.

3.5 Regolatori di tensione integrati

I regolatori finora analizzati si trovano realizzati in forma integrata. Ovviamente, gli


schemi dati sono degli schemi di principio che andranno opportunamente modificati al
fine di ottimizzare le prestazioni. Per esempio, come generatore di riferimento non si
utilizzerà un semplice diodo Zener e una resistenza, ma sarà necessario un circuito di
polarizzazione in corrente per lo Zener che garantisca una maggior stabilità di
tensione; per proteggere il transistor, poi, si userà un circuito di limitazione della
corrente e così via. In forma integrata, tali circuiti, detti regolatori di tensione
integrati o stabilizzatori di tensione, vengono utilizzati per quelle applicazioni che
arrivano a potenze dell’ordine delle decine di Watt. Uno schema approssimativo di
impiego viene mostrato in figura 1:

fig. 1

113
Di tali regolatori ne esistono di più semplici, con tensione d’uscita fissa, dove il
costruttore garantisce che per un certo range di tensioni in ingresso la tensione
d’uscita rimane costante (oggetti a tre terminali) e ne esistono, anche, di più complessi
a quattro o più terminali, che hanno tensione d’uscita variabile. Quest’ultimi possono
raggiungere gradi di complessità notevoli: alcuni modelli, ad esempio, presentano dei
morsetti che consentono di inserire un amplificatore di corrente per livelli di corrente
maggiori di quelli fornibili dall’integrato. In generale, comunque, il costruttore fornisce
all’acquisto dell’integrato le cosiddette application notes o design notes, che permettono
di avere informazioni sull’uso del componente e, spesso, sugli eventuali componenti
accessori aggiungibili per farlo funzionare al meglio. Vengono, inoltre, forniti i valori
di due capacità, da inserire in ingresso e in uscita al regolatore, con funzioni
specifiche. La capacità di uscita Cu serve a migliorare la risposta in transitorio, oltre
alla stabilità del sistema; se, infatti, si ha un carico che assorbe molto velocemente,
cioè produce una forte variazione in termini di corrente, il convertitore potrebbe non
riuscire a seguire tali variazioni e la tensione d’uscita potrebbe calare. La capacità Cu
interviene, allora, come serbatoio di energia e permette di compensare l’eccesso di
corrente, garantendo una certa stabilità di tensione. La Cin in ingresso, invece, serve a
compensare gli effetti induttivi legati alle connessioni (cavi di collegamento) con
l’alimentatore. Per capire meglio si può fare riferimento al seguente schema:

Lp
Regolatori
di
tensione

V AC/DC C in V in Cu Vu

fig. 2

Nell’eventualità si abbia un forte assorbimento di corrente da parte del regolatore, si


avrà una caduta di tensione pari a :
di
v Lp = L p
dt

che sarà tanto maggiore quanto più Lp è grande e quanto più sono elevate le variazioni
della corrente. Tale caduta si ripercuoterà sulla tensione di ingresso Vin, che potrà
calare fino a valori che il regolatore potrebbe non essere in grado di compensare. Per
evitare tutto ciò si inserisce la Cin, che compensa eventuali cadute sul carico induttivo
dovute, per esempio, a picchi di corrente.
L’effetto della capacità è, dunque, complementare a quello dell’induttanza, infatti, le
componenti alternate di corrente che non passano per l’induttanza vengono fornite dal
cortocircuito costituito dalla capacità. Dunque, il compito di Cin è, come per la Cu, di
essere un serbatoio di energia che permette di migliorare le prestazioni dinamiche del
circuito.

114
3.5.1 Esempi di applicazione dei regolatori di tensione integrati

• Nel primo caso si ha un regolatore con tensione fissa; si può, allora, usare un
partitore resistivo per modificarne il valore di uscita che vale:

 V   R 
V u = R 2  I +  + V = R 2 I +  1 + 2 V
 R1   R1 

in cui la tensione regolata è, ora, la Vu. Affinché tale metodo porti al risultato
sperato, si dovrà fare in modo che la corrente I in uscita dal regolatore, che di per
sé non possiede proprietà di stabilità, risulti costante per diversi valori di corrente
assorbiti dal carico. Se ciò non è garantito si dovrà ricorrere ad un altro metodo.
• Il secondo schema viene usato per effettuare una regolazione di corrente ed è
realizzato con l’aggiunta di una semplice resistenza. La corrente di uscita risulta:

V
Iu = I +
R1

per tale schema valgono le stesse considerazioni svolte sulla corrente I del caso
precedente.
• Il terzo schema è un regolatore a quattro morsetti: in tale caso è l’utilizzatore che
stabilisce, con un partitore resistivo, il livello della tensione d’uscita, in funzione
del valore della tensione di controllo.

3.5.2 Esempio numerico (dimensionamento di uno schema in retroazione)

Si supponga di disporre dei seguenti dati:

Ø tensione di uscita 4V ≤ Vu ≤ 15V


Ø corrente di uscita massima Iumax = 1A
Ø tensione di alimentazione 20V ≤ Ve ≤ 24V
Ø operazionale compensato internamente:

115
A0 = 105
R0 = 50 Ω
fc = 4 Hz
I0lim = 5 mA
V0sup = Vp – 3V

Solitamente, per un operazionale la tensione positiva Vp coincide con la tensione della


batteria Ve (tensione di alimentazione). Per prima cosa si vuole verificare se
l’operazionale può sopportare i livelli di tensione dati; in caso contrario, sarà
necessario introdurre un amplificatore di tensione per sopperire ai limiti
dell’operazionale stesso.

Ø Per l’amplificatore si verifica che:

V0sup = Vemin − 3V = 17V


V0max = Vumax + VBE = 15V + 1.5 = 16.5V

in cui si è scelto VBE pari a 1,5V, perché osservando i valori di corrente e di guadagno
di corrente dati, sarà necessario un valore di hFE elevato, che può essere fornito solo da
un Darlington, la cui VBE è pari al valore sopraindicato. Si è ottenuto, dunque, un
valore di V0max minore di V0sup e, quindi, si rientra nelle specifiche. Per ciò che
riguarda il transistor si ha:
Iu
I0 = < I 0lim
h FE

da cui, nel caso peggiore


I umax
h FE > = 200
I 0lim

il transistor, quindi, dovrà avere


min
h FE = 200

che, come già detto, è possibile ottenere utilizzando un Darlington. La potenza


dissipata sul transistor, sapendo che

IC = 1A
V max
CE = V emax − V umin = 20V

vale

P max = 20W

116
Si consideri, ora, un diodo Zener da 6V: il dimensionamento della resistenza viene
lasciato come esercizio. La tensione d’uscita, tenendo conto del partitore di ingresso,
sarà
VZ
Vu = α
B

e la tensione massima si avrà per α = 1, per cui

VZ
V umax =
B
da cui si ricava facilmente B
VZ 6
B = = = 0 .4 (1)
V umax 15

Il dimensionamento del partitore viene lasciato come esercizio. Si ricorda che sarà
necessario imporre che la corrente sul partitore sia un millesimo della corrente di
uscita. In tale modo si otterrà:

R1 = 15 KΩ R2 = 10 KΩ

per avere, infine

R2
B =
R1 + R 2

che è il valore dato dalla (1).


Ciò garantisce, inoltre, che la somma delle due resistenze R1 ed R2 consenta una
corrente pari a un millesimo di quella di uscita. La banda che si ottiene avrà frequenza
di taglio pari a:
f T = f c (1 + A 0 B ) = 160 KHz

se si fosse usato B = 1, che è il valore previsto per la compensazione attuata dal


costruttore), si sarebbe ottenuto fT = 400 kHz. Quindi, imporre B = 0.4 ha portato ad
una perdita in termini di banda, in quanto si è usato un operazionale internamente
compensato. Per guadagnare in banda si dovrebbe utilizzare un operazionale
esternamente compensato, che permetta di scegliere la capacità di compensazione per
il valore di B pari a 0.4.
La resistenza d’uscita ad anello aperto, infine, risulta:

R 0 + hie
R u0 = ≅ 10 Ω
hfe + 1

in cui si suppone che il transistor abbia una hie = 3 KΩ e una hfe = 300. Tali valori
sono solitamente forniti dal costruttore attraverso i Data Sheet.
La resistenza d’uscita ad anello chiuso varrà:

117
R u0
Ru = ≅ 0 .3 m Ω
1 + A0 B

Si è, dunque, passati da una resistenza dell’ordine degli Ω ad una resistenza ad anello


chiuso dell’ordine dei mΩ, che è praticamente ideale.

3.6 Convertitori operanti in commutazione

I convertitori operanti in commutazione, anche detti convertitori switching, sono


spesso utilizzati, oltre che per la realizzazione di alimentatori, per il controllo di
macchine elettriche ad alta potenza, in particolare, per il controllo dei motori in
corrente continua e alternata. Le applicazioni di tali convertitori sono molteplici e, in
questo contesto, si è scelto di svolgere alcune considerazioni sul loro impiego come
alimentatori DC, lasciando ad altri corsi più specifici l’analisi relativa ad applicazioni
diverse. L’importanza del convertitore switching è tanto maggiore quanto più sono alte
le potenze in gioco; esso si basa su dispositivi che operano come interruttori, come ad
esempio BJT operanti, non più in zona lineare, ma tra uno stato di interdizione (off) e
uno di accensione (ON). In tali stati la potenza dissipata, la cui espressione generale è
data dalla(1)
P D = V CE I C

sarà:

Ø Toff PD ≅ 0 essendo IC ≅ 0 (1)


Ø Ton P D = V CEsat I C essendo V CE = V CEsat (2)

Si osserva che la PD per un transistor ben progettato, nello stato ON, è molto minore
della potenza dissipata che si ha in regione lineare e che la (1) e la (2) ben
approssimano il comportamento di un interruttore ideale. Grazie alle basse perdite
sopracitate, il rendimento dei convertitori switching risulta notevole, molto prossimo
all’idealità (anche 97% ÷ 98%, e comunque abbondantemente sopra il 90%). Lo schema
iniziale da cui partire per lo studio degli alimentatori switching è il seguente:

reg. switching

AC DC
rete
DC DC

All’apparenza, nulla sembra essere cambiato rispetto ai circuiti precedentemente


analizzati; in realtà, le diversità circuitali presenti nel DC/DC switching, rispetto al
medesimo convertitore di tipo serie, permettono di intervenire anche sul blocco di
conversione AC/DC e migliorarne le prestazioni. Tale miglioria è, sostanzialmente,
legata al trasformatore presente nel blocco AC/DC. Si ricorda, infatti, che per motivi di
sicurezza, di soddisfacimento delle normative, di isolamento elettrico dalla rete e
(1)
Si suppone trascurabile la corrente di base e, quindi, anche la potenza dissipata su quest’ultima.
118
soprattutto per non avere salti di tensione eccessivi (e conseguenti bassi rendimenti),
si inseriva un trasformatore a 50 Hz nel blocco di conversione AC/DC. Essendo, ora, il
regolatore di tipo switching e potendo quest’ultimo funzionare a 50 ÷ 100 kHz e oltre
con funzionamento in commutazione (forma d’onda quadrata), è possibile spostare il
trasformatore nel blocco DC/DC. L’isolamento elettrico viene così garantito, inoltre, si
riducono notevolmente le dimensioni del trasformatore, dal momento che ora la
frequenza di lavoro non è più 50 Hz della rete, bensì 50 ÷ 100 kHz del regolatore (si
ricorda che le dimensioni del trasformatore sono inversamente proporzionali alla
frequenza). Gli alimentatori così costruiti risultano, allora, estremamente compatti. Il
fatto di operare ad una tensione di rete fissa e, dunque, effettuare un salto elevato dal
valore continuo a quello di uscita, non rappresenta più un problema, in quanto il
rendimento dei convertitori switching non dipende, in prima approssimazione, dal
salto di tensione. Da tali considerazioni, risulta evidente che il convertitore AC/DC non
necessita più di un rapporto spire che aggiusti le tensioni. I vantaggi fin qui descritti
portano, spesso, ad utilizzare i convertitori switching anche laddove i requisiti di
rendimento non giustificherebbero il loro impiego e, dunque, anche a potenze inferiori
ai 20 ÷ 30 Watt.
Si vuole, ora, vedere lo schema di principio del convertitore; si faranno, inoltre, alcune
considerazioni sul progetto del filtro per giungere, poi, ad un dimensionamento di
massima. Lo schema di base è quello di figura 1:

iIN

x1

i(t)
VIN

x2 v(t)

m(t)
fig. 1

Sia m(t) una funzione che controlla gli interruttori x1 e x2 supposti ideali e sia un
negatore il dispositivo di figura rappresentato da un cerchio. Si stabiliscano le
seguenti relazioni:
m ( t ) = 1 x1 on

m ( t ) = 0 x1 off

119
L’andamento temporale di m(t), dunque, stabilisce l’apertura e la chiusura degli
interruttori, in particolare, quando il primo è aperto il secondo sarà chiuso e viceversa.
La struttura degli interruttori, anche detta mezzo ponte, si deve sempre comportare in
modo complementare, al fine di garantire un corretto funzionamento sia nei confronti
della sorgente, che di ciò che segue il circuito. Se, infatti, entrambi gli interruttori
fossero chiusi, si causerebbe un cortocircuito sul generatore di ingresso (batteria);
d’altra parte, se entrambi gli interruttori fossero aperti, dal momento che il circuito è
seguito da un filtro, solitamente induttivo, si creerebbe una sovratensione ai capi di L
dovuta all’interruzione di corrente provocata dall’aperto costituito dai due interruttori
stessi. Si ricorda, a tale proposito, che
di ( t )
v (t ) = L
dt

e, quindi, un gradino di corrente genera una tensione virtualmente infinita.


Il legame che intercorre tra la v(t) e la VIN dipenderà, allora, dalla funzione m(t), ossia:

v(t) = m(t)VIN

Ciò è facilmente verificabile osservando lo schema di figura 1, infatti:

V se m(t ) = 1 ⇒ x1 on x2 off
v (t ) =  IN
0 se m(t ) = 0 ⇒ x1 off x2 on

La m(t), dunque, sarà un insieme di zeri e uno, che permettono la commutazione degli
interruttori e la v(t), a meno di fattori di scala, avrà il medesimo andamento, essendo
VIN costante; graficamente:

m(t)

T 2T t
v(t)

VIN

T 2T t

fig. 2

Dal momento che m(t) ha una forma d’onda periodica, essa è sviluppabile in serie di
Fourier, ossia:

m (t ) = M 0 + ∑ M k cos (k ω t + µ k ) (3)
k =1

120
da cui

v ( t ) = M 0V IN + ∑V IN M k cos (k ω t + µ k ) (4)
k =1

Si osserva che, in virtù della legge di commutazione introdotta, applicando in ingresso


una continua, ci si ritrova in uscita con un segnale composto, oltre che dalla continua,
anche da un insieme di righe allocate a multipli della pulsazione ω = 2π/T, con T
periodo della commutazione. Un circuito regolatore che si comporta in tal modo viene
detto chopper (affettatore), in quanto la coppia di interruttori “affetta”, per così dire,
la tensione di ingresso; ciò significa che, invece di vedere la continua, si vedono
soltanto delle “fette” di quest’ultima (vedi grafico in basso di figura 2). Oltre alla
continua, però, il chopper genera delle componenti di disturbo ad alta frequenza, che
vanno eliminate con un filtro passa basso, tipicamente un filtro LC. Lo schema
circuitale (convertitore in discesa) è quello di figura 3:

iIN

x1
L
i(t)
VIN

x2 v(t) C R

m(t)
fig. 3

Come si può osservare dalla (4), a filtraggio avvenuto rimane solamente il termine
M0VIN, cioè la tensione di ingresso moltiplicata per il coefficiente M0, che è il valore
medio della legge di commutazione, noto dallo sviluppo in serie e che vale:

T
1
M 0 =
T ∫ m ( t ) dt
0
(definizione di valore medio)

Definendo, ora, TON come l’intervallo di tempo per il quale la legge di commutazione
resta ad uno, cioè l’intervallo di tempo per cui l’interruttore x1 resta chiuso e x2 aperto,
si può scrivere:
Area 1 ⋅ T ON
M = = = ρ DUTY CYCLE
Periodo
0
T
(ciclo di lavoro)

in cui ρ, definito duty cycle, dice quanto tempo lavora l’interruttore x1 rispetto al
tempo disponibile. Agendo sul duty cycle e, dunque, su TON, è possibile modificare M0

121
e, quindi, anche la componente continua V0 in uscita al chopper. In uscita si avrà,
allora:
T ON
V u 0 = V 0 = ρ V IN = V IN (5)
T

dove nella (5) si è supposto Vu0 = V0 , in quanto il filtro passa basso è stato considerato
ideale. Tale assunzione a frequenza zero è più che plausibile, in quanto la componente
continua non viene, in prima approssimazione, alterata. Si osserva che il convertitore
così realizzato non presenta elementi dissipativi, infatti, il filtro per sua natura non
dissipa e gli interruttori sono supposti ideali, dunque, il rendimento risulterà unitario
(η = 1).
In realtà, esiste qualche perdita dovuta agli interruttori e, per essere rigorosi, anche al
materiale ferromagnetico e agli avvolgimenti dell’induttanza, nonché alle resistenze
parassite delle capacità che, comunque, sono effetti di perdita del secondo ordine e che
non contribuiscono in modo pesante all’operazione di conversione. Il chopper, dunque,
a differenza dei regolatori serie, si presta ad avere alti rendimenti e ad essere molto
compatto.
Per ridurre ulteriormente le dimensioni si dovrà agire sul filtro LC, aumentando il più
possibile le frequenze in gioco e, di conseguenza, spostando più in alto possibile
sull’asse delle frequenze i disturbi generati dal circuito.
Tutto ciò è facilmente attuabile agendo sulla frequenza di commutazione degli
interruttori, attraverso ω = 2π/T = 2πf. In sostanza, aumentando f, i disturbi si
sposteranno più in alto in frequenza, senza tuttavia alterare la componente utile.
Esiste, comunque, un limite sulla frequenza legato alla velocità di commutazione degli
interruttori, quindi, si avrà:
f ≤ f clim (6)

che dipenderà dai particolari dispositivi usati. In realtà, il limite (6) è dovuto, ancora
prima che intervenga il limite sulla velocità di commutazione degli interruttori, al
limite sulla potenza dissipata. Se, infatti, l’interruttore è un BJT, esso dovrà passare
dalla zona di saturazione a quella di interdizione; non potendo, però, evitare la zona
attiva, esso dissiperà una certa quantità di potenza; analogamente succede se
l’interruttore è un MOS. Si pensi, per analogia, a quanto avviene nei CMOS: esiste
sempre un istante di tempo, nel passaggio dallo stato ON a quello OFF dei transistori
nMOS e pMOS, nel quale entrambi sono accesi e viene dissipata potenza (potenza
dinamica). Nel caso del convertitore chopper, esisterà un istante di tempo nel quale gli
interruttori transitano per una regione ad elevata corrente e tensione, fase in cui si ha
una notevole dissipazione di potenza. Si ha, così, un picco di dissipazione e si parla di
perdite di commutazione.
È, dunque, ovvio che più volte avviene la commutazione, a parità di periodo, più si
dissipa. Il limite, allora, non è rappresentato dalla velocità di commutazione, ma è la
dissipazione ad essa associata, che fa in modo che l’interruttore scaldi molto e tenda a
bruciarsi. Per tali motivi, esistono schemi di convertitori più raffinati che prevedono
l’utilizzo di interruttori in condizioni meno dissipative; in tal caso, il limite diventa
proprio la velocità di commutazione.
Si vuole, ora, vedere lo schema di principio per generare la funzione generica m(t); si
userà un generatore d’onda triangolare seguito da un comparatore:

122
gen. onda triangolare comparatore
vTR
-
Vp m(t)
+

vx

fig. 4

Il circuito di figura 4 è detto modulatore PWM (Pulse Width Modulation:


modulazione di larghezza d’impulso). Il generatore d’onda triangolare viene
solitamente realizzato con un multivibratore astabile. Le forme d’onda generate sono
del tipo rappresentato in figura 5:

vTR

Vp
vx di controllo

T t
m(t)

fig. 5

La tensione d’uscita del comparatore m(t) varrà uno quando la tensione di controllo vx
sarà a livello alto, cioè sarà maggiore di vTR. Agendo, quindi, sul livello di vx, si può
controllare l’ampiezza degli impulsi e, dunque, TON. Osservando la figura 5 e facendo
alcune considerazioni geometriche sui triangoli simili, si giunge alla relazione
seguente:
vx T ON
= (7)
V p T

Dalla (5) e dalla (7) si ricava la relazione finale

T ON v
V u 0 = V IN = x
V IN (8)
T V p

Dalla (8) si può osservare che se Vp è costante, agendo su vx si può variare il valore
medio della tensione di uscita, a partire dalla tensione d’ingresso costante. Si può
anche pensare di utilizzare come variabile di controllo Vp ed effettuare, ugualmente, il
controllo del duty cycle. Variare Vp mantenendo costante la pendenza dell’onda
123
triangolare, significa variare il periodo T e ciò può essere conveniente rispetto
all’azione su vx che fa variare TON, quando si vogliono valori di Vu0 prossimi allo zero.
In tal caso infatti, se si controlla vx si dovranno avere valori prossimi allo zero, il che
significa avere TON molto piccoli. Tali valori implicano un tempo di accensione molto
breve per gli interruttori; chiaramente, avendo questi ultimi un tempo di risposta
finito, non sarà possibile ridurre oltre un certo limite il TON. La relazione (8), allora,
che sarebbe lineare in vx , per valori troppo piccoli di vx stesso fa perdere il controllo
auspicato. Sarà necessario, allora, aumentare Vp e, di conseguenza, il periodo T, al fine
di rendere sufficientemente piccolo il valore fornito dalla (8). Vi sono, dunque, due
modalità principali di controllo, una in cui si agisce su vx e si modula direttamente
l’ampiezza, l’altra in cui si agisce su Vp e si controlla il periodo T. Quest’ultima viene
anche definita PFM (Pulse Frequency Modulation). Questa modalità di controllo ha,
tuttavia, un problema, in quanto se si modifica il periodo T, si varia la frequenza degli
interruttori e, dunque, le frequenze delle righe di disturbo da eliminare. A questo
punto sarà necessario un filtraggio più complesso che dovrà eliminare i disturbi non
più a partire da una certa frequenza, ma dovrà essere progettato per tagliare un range
di frequenze che vanno da un minimo ad un massimo, dipendenti dal controllo. Le
frequenze di commutazione, infatti, nel caso del controllo PFM non sono più costanti e
pari ad ω, come avveniva nel controllo PWM, bensì variabili.

3.6.1 Progetto del filtro

Il convertitore, date le forme d’onda e supposti gli interruttori ideali, può essere
considerato una rete lineare a tratti. Le non linearità sono, in realtà, presenti solo nei
circuiti reali quando gli interruttori commutano. Nel momento in cui la commutazione
è avvenuta, però, si tratta ancora una volta di analizzare reti lineari in cui vi sono
delle batterie e dei circuiti LC. L’ipotesi di idealità degli interruttori permette, allora,
di semplificare l’analisi. Si vuole, ora, analizzare cosa succede negli intervalli di
tempo TON e TOFF. Nel primo caso, quando x1 è acceso e x2 è spento, si ottiene la
seguente configurazione:
L
iin = i

CONVERTITORE
TON VIN C R vu IN
DISCESA

Si osserva che
iIN = i
di
vL = L ≅ VIN − Vu0 > 0 (9)
dt
i crescente

dove, nella (9), si è approssimato vu(t) ≈ Vu0, cioè si è supposto che il filtro sia ben
progettato e tale da fornire in uscita una tensione vu(t) confondibile con il suo valore
124
medio Vu0 e, quindi, in grado di eliminare ogni genere di disturbo. Il valore di vL è
sempre maggiore di zero, in quanto la VIN è sempre maggiore di Vu0, essendo TON < T
ed è per tale motivo che in questo caso si parla di convertitore in discesa. Da tali
considerazioni segue necessariamente che la corrente è crescente visto che la sua
derivata è positiva.
Nel secondo caso, cioè quando l’interruttore x1 è spento e x2 è acceso, la configurazione
circuitale risulta:
iIN
i

TOFF VIN L C R vu

In questo caso si avrà:


i IN = 0
di
vL = L ≅ −Vu 0 < 0 (10)
dt
i decrescent e

La corrente assorbita dalla batteria sarà nulla, mentre la vL sarà circa uguale a -Vu0
(sotto le ipotesi viste nel caso precedente) e, dunque, negativo. Di conseguenza, la
corrente risulterà decrescente. Si vogliono, ora, tracciare le forme d’onda risultanti:

125
m(t)
1

TON T t
i(t)

I u0

t
iIN

t
ia

t
vu

Vu0

t
fig. 6

Dalla forma d’onda di figura 6 e dalle topologie circuitali viste, si può capire il
funzionamento del circuito in termini più qualitativi. Il filtro può essere visto come un
serbatoio di energia che si carica, grazie alla batteria, nel periodo fino a TON e fornisce
energia al carico; si scarica, successivamente, rilasciando al carico stesso l’energia
immagazzinata dalla capacità e dall’induttanza, quando all’istante TOFF la batteria
viene sconnessa. Durante TON la corrente i è crescente e il valore medio della corrente
iIN, per la presenza del filtro, è uguale al valore medio della corrente al carico, in
quanto la capacità ne blocca il passaggio verso massa. La corrente i, dunque, si
muoverà attorno al suo valore medio Iu0. La corrente iIN, durante TON, è uguale alla
corrente i, mentre durante TOFF è nulla. Se la capacità è sufficientemente grande, le
componenti alternate della corrente, indicata con ia, verranno drenate da essa; tali
componenti sono la traslazione verso il basso della corrente i in modo che il valore
medio risulti nullo. A questo punto si può affermare che le componenti alternate della
tensione d’uscita sono pari a:

126
1
v ua =
C ∫i a ( t ) dt

avendo supposto che tutte le componenti alternate di corrente giungano alla capacità
(cosa non vera dal momento che la capacità non è proprio un cortocircuito rispetto alla
resistenza, ma lo è solo se la capacità C è realmente molto grande in relazione alla
frequenza a cui si opera). Le componenti espresse dalla (10) sono rappresentate in
figura 6 da un tratto ondulatorio attorno al valore medio della tensione d’uscita Vu0.
Ovviamente, tanto più C è grande, tanto più le componenti alternate vua saranno
piccole.

Considerazioni

Si osserva come la corrente di ingresso iIN abbia un andamento molto impulsivo e come
ciò provochi notevoli problemi; innanzitutto, si ha un assorbimento non corretto dalla
batteria, inoltre, il fronte di discesa della iIN è così brusco, che un’eventuale induttanza
parassita Lp, come mostrato in figura 7, provoca un salto di tensione

di IN
vLp = L p
dt

virtualmente infinito, se si considera altrettanto virtualmente infinita la derivata di


corrente. Tale problema è tanto più grave quanto più è alto il valore di Lp (fili lunghi di
connessione) e quanto più gli interruttori sono veloci nella loro commutazione, in
quanto la derivata della iIN è legata proprio a tale velocità. Un possibile rimedio è dato
dall’inserimento di una capacità il più vicino possibile agli interruttori, che permetta
di assorbire le componenti alternate di corrente, impedendo che esse possano giungere
agli interruttori stessi. La corrente di ingresso tornerà così ad essere una continua,
tanto migliore quanto più Cp sarà grossa.

Lp
iu

VIN Cp

fig. 7

Per trattare in maniera più rigorosa la progettazione del filtro e apprezzarne la


riduzione delle dimensioni rispetto a quelle dei convertitori serie, si dovranno trovare
dei criteri che permettano di progettare il filtro stesso, in modo che l’ondulazione
risulti la minore possibile. Si partirà, allora, prendendo in considerazione il fattore di
ondulazione γ e il suo limite superiore. Si ricorda che γ2 è esprimibile come rapporto tra
il quadrato del valore efficace delle componenti alternate indesiderate e il quadrato del
valore medio di uscita, in formule:

127
1 ∞ 2 1 ∞ 2 2 1 ∞
2
∑ V uk
2
∑ H k Vk
2
∑ H k2 M k2V IN2
γ 2 = k =12 = k =1 2 2 = k =1 2 2 (11)
Vu 0 H 0 V0 M 0 V IN

dove con Hk si intende il modulo della funzione di trasferimento (H0 = 1 perché f.d.t., a
frequenza zero, di un filtro che si suppone ideale) e dove si è tenuto conto che vale

v ( t ) = m ( t )V IN

che, considerando l’intero spettro, si trasforma in

V k = M kV IN con k = 0,1,2,….

A questo punto, ci si ritrova con un γ2 dipendente da tutte le k armoniche; essendo tale


espressione difficoltosa da maneggiare, si potrebbe formulare la stessa ipotesi
introdotta per i filtri LC, ossia considerare solamente la prima armonica. In realtà, in
questo caso specifico tale soluzione non è possibile, in quanto le forme d’onda sono
piuttosto impulsive e lo spettro della v(t) non cala rapidamente come quello della
doppia semionda, bensì risulta avere componenti armoniche non trascurabili. Sarà
necessario, allora, fare un’ipotesi di tipo peggiorativo e affermare che il filtro attenua
tutte le armoniche come la prima, cioè:

H k = H1 ∀k

Di conseguenza, la (11) può essere riscritta nel seguente modo:

1 ∞
H 12 ∑
2 k =1
M k2
2 M RMS − M 0
2 2
2 ρ − ρ
2
 1− ρ
γ2 ≅ = H1 = H 1   = H 12
M 02 M 02  ρ ρ
2

che porta all’espressione finale


1− ρ
γ ≅ H1 (12)
ρ

che lega il fattore di ondulazione e la funzione di trasferimento del filtro, in


particolare, all’armonica di disturbo. Il temine H1, infatti, è proprio alla frequenza di
commutazione, in cui deve essere eliminato il disturbo. L’espressione di H1 sarà,
dunque, del tipo:
2
1   1 
2
 ωˆ 
2
 1
H1 ≈   =     =
LC   2 π f c
(13)
ω  LC (2 π f c )
2
 

Utilizzando la (12) e la (13) si ottiene

128
1 1− ρ
γ ≈ < γ lim
LC (2π f c ) ρ
2

da cui discende

1 1 − ρ min
LC > lim (14)
γ (2π f c ) ρ min
2

Nella (14) ci si è posti nella condizione di caso peggiore, considerando il più piccolo
duty cycle ρ possibile; rimane, ora, un ulteriore vincolo relativo all’impulsività della
corrente i che scorre sugli interruttori. Si vorrebbe, infatti, che il valore di picco di tale
corrente non fosse molto più elevato della componente media di i stessa, questo ai fini
di non dovere ricorrere a dimensionamenti troppo costosi per gli interruttori e per gli
avvolgimenti dello stesso induttore. Se si definisce ∆i l’ondulazione della corrente i, si
dovrà fare in modo che tale intervallo risulti sufficientemente minore del valore medio,
ossia:
∆ i < α I umax
0

in cui α è un fattore che può valere 10% ÷ 20%. Utilizzando, ora, la (9) e
approssimandone la derivata con il rapporto incrementale si ottiene:

∆i
L ≅ V IN − V u 0
∆t

da cui
(V IN − V u 0 )T ON
∆i ≅ < α I umax
0
L

dall’espressione di TON e di Vu0 si può scrivere ancora

(V IN − ρ V IN )ρ T
∆i ≅ < α I umax
0
L

da cui si ricava
V IN (1 − ρ )ρ
L > (15)
f c α I umax
0

la (15) presenta un massimo per ρ = 1/2 e vale

V IN
L >
4 f c α I umax
0

129
3.6.3 Esempio numerico

Si considerino le seguenti specifiche di progetto:

γ < γ lim = 1 %
V IN = 100 V
20 V ≤ V u 0 ≤ 100 V
I umax
0 = 10 A

e si scelga
f c = 20 KHz

Dai dati si ricava subito:


V umin 20
ρ min
= 0 = = 0 .2
V IN 100

e, quindi

LC > 1.3⋅10-8

Posto α = 20% = 0.2 si può anche calcolare il vincolo su L, che sarà pari a

L > 0.62mH

Scegliendo L = 3mH si ottiene C = 4,2µF che sono valori numerici che, confrontati con
quelli ottenuti per il filtro del convertitore AC/DC, evidenziano una notevole riduzione
delle dimensioni e, di conseguenza, una maggiore compattezza circuitale.

Gli interruttori fin qui considerati erano stati supposti ideali; nella realtà, essi
vengono realizzati con una schema circuitale del tipo mostrato in figura 8:

L
VIN
m(t)
C R vu(t) ≈ Vu0

fig. 8

Invece di realizzare due interruttori complementari, in pratica si preferisce utilizzare


un transistor e un diodo. Se si considerano, infatti, due interruttori, per evitare
cortocircuiti in ingresso e circuiti aperti in uscita si dovrà prestare molta attenzione

130
alla tempistica con cui si esegue il controllo ed avere una notevole certezza sui tempi
di risposta dei dispositivi, per avere una perfetta complementarità fra essi. Dal
momento che ciò non è affatto semplice da ottenere, si è soliti usare un diodo come
interruttore, che diventa asservito allo stato di funzionamento del transistor. Il diodo,
infatti, non ha un elettrodo di controllo, ma si accende quando si ha un assorbimento
di corrente e la tensione diventa positiva. Poiché, dunque, l’induttanza tende a
mantenere la corrente costante, allo spegnimento del transistor la sua resistenza
tende ad aumentare e la corrente a diminuire e sarà il diodo a portare la corrente
necessaria. Lo spegnimento del transistor, quindi, in virtù di un assorbimento di
corrente da parte dell’induttanza, provoca l’accensione del diodo. Si parla, allora, di
diodo a controllo dipendente, il cui stato dipende, appunto, dalle variabili elettriche
corrente e tensione. In modo più appropriato si parla di diodo free-wheeling (diodo di
libera circolazione o ricircolo). Ovviamente bisogna utilizzare diodi e transistor con
tempi di risposta paragonabili l’uno all’altro. In particolare, si possono trovare delle
difficoltà per ciò che riguarda i tempi di spegnimento del diodo, cioè quando la
giunzione fortemente accesa si deve svuotare dall’eccesso di minoritari (problema dello
storage). Se, infatti, il transistor si accende, il diodo dovrebbe spegnersi, ma poiché
esiste un tempo di storage, definito Tstorage (durante il quale, grazie ad una corrente
inversa, la giunzione si svuota dai minoritari) in cui la giunzione, che tende a
comportarsi da capacità, mantiene la tensione costante ai suoi capi; in tali condizioni
si viene a creare un cortocircuito sulla batteria. Il diodo, dunque, dovrà avere dei
tempi di spegnimento e di recupero paragonabili alla velocità di accensione del
transistor. I diodo utilizzati sono solitamente i seguenti:

• Diodi Fast Recovery (Tstorage limitato)


• Diodi Schottky (giunzione metallo semiconduttore con Tstorage ≅ 0)

I transistori utilizzati, invece, sono sempre più raramente i BJT, ma più spesso MOS o
i più moderni IGBT (Insulated Gate Bipolar Transistor: transistore bipolare a gate
isolato), spesso impiegati in applicazioni di potenza (ad esempio nei DC/DC per il
controllo di macchine in corrente continua o per la realizzazione degli inverter, ossia
dei DC/AC per il controllo di macchine in alternata); per gli alimentatori finora
descritti si utilizzano, comunemente, transistori MOS.
I transistori IGBT conglobano le caratteristiche positive dei BJT e dei MOS e, in
termini semplicistici, possono essere visti come dei bipolari controllati da un MOS. Il
vantaggio di tali dispositivi sta nel fatto che possono portare livelli di corrente simili ai
bipolari con velocità paragonabili a quelle dei MOS. La simbologia circuitale adottata
per questo tipo di transistori è la seguente:

131
3.7 Convertitori AC/DC con SCR

Fino a questo momento si sono considerate tipologie di alimentatori che prevedono


l’utilizzo di due stadi, uno propriamente destinato alla conversione, l’altro alla
regolazione e dunque al controllo. E’ possibile utilizzare degli schemi in cui si passa
dall’alternata alla continua inserendo anche il controllo, cioè si realizza un
convertitore AC/DC diretto controllato. Questa tipologia di circuito è utilizzata in due
specifiche situazioni:

• quando si opera a potenze elevate; in tal caso si dovrebbe ricorrere a un


convertitore switching che, ad alte frequenze, potrebbe creare problemi a causa
della lentezza degli interruttori in relazione alle frequenze in gioco. A questo punto
sarà, allora, necessario ricorrere a degli schemi circuitali diversi, che pur non
essendo eccessivamente veloci, presentano una notevole robustezza.
• quando non si richiedono grosse prestazioni ed è necessario avere costi molto bassi
per il convertitore.

Si vuole, ora, analizzare come sono realizzati gli AC/DC a conversione diretta. Essi
utilizzano dispositivi detti SCR (Silicon Controlled Rectifier) che furono una delle
prime evoluzioni dei componenti elettronici dopo il BJT, capaci di sopportare tensioni e
correnti molto elevate (tensioni di blocco pari a 5000V e correnti pari a 5000A). Gli
SCR sono dispositivi piuttosto grossi, anche delle dimensioni di un wafer. Il
simbolismo utilizzato per identificarli è simile a quello di un diodo, dato il loro
comportamento simile a tale dispositivo, ma con un elettrodo in più, detto GATE, che
permette il controllo e dunque l’accensione del dispositivo.

I
A

V
G
K

La struttura del dispositivo e la sua caratteristica I/V sono del tipo mostrato in figura
1 (in fig. 1.b la caratteristica è dilatata per renderne più visibile l’andamento).

132
A
I

p
IG crescente IG = 0
IH
n

VBD
G p
VH VBO V

fig. 1.a fig. 1.b

Il dispositivo è costituito da quattro stadi drogati p ed n in modo alternato. Per ciò che
riguarda la caratteristica si osserva che, in inversa, si ritrova la tensione di
breakdown, date le caratteristiche simili a quelle di un diodo (in tale zona il dispositivo
non viene, comunque, mai usato); in diretta si ha, invece, l’andamento visualizzato in
figura1.b, dove IH e VH sono dette rispettivamente corrente e tensione di Holding e
dove VBO è detta tensione di break-over. La zona a tratteggio, rappresenta una
zona di instabilità del dispositivo, percorribile solo in modo dinamico e non misurabile
staticamente, mentre le zone a tratto continuo sono percorribili in modo statico. Dalla
struttura del dispositivo, si può osservare che, in assenza di una tensione di gate VG ,
le due giunzioni p-n p-n fanno in modo che non vi sia passaggio di corrente; infatti sia
che venga fornita una tensione diretta sia che venga fornita una tensione inversa, c’è
sempre una delle due giunzioni polarizzata in inversa (diodo in inversa) che impedisce
la conduzione. Da ciò si deduce che, come esiste una tensione limite in inversa
rappresentata dalla tensione di breakdown VBD , così esiste una tensione in diretta che
limita il dispositivo stesso. Quest’ultima è la tensione di break-over ed è dello stesso
ordine della VBD . Quindi, mantenere spento il dispositivo non è impresa ardua. Si
vuole, invece, vedere come accendere l’SCR. Per capirne meglio il comportamento si
consideri la struttura pnpn e la si veda come due strutture connesse di tipo pnp ed npn
rispettivamente. Sarà così possibile considerare l’equivalente circuitale del dispositivo
come:
A

IBp
Tp
ICn
ICp
Tn
G
IBn

K
fig. 2
133
Se, ora, si applica un impulso positivo di corrente al terminale di gate G, questo entra
come corrente di base nel transistore Tn , genera una corrente di collettore ICn e di
conseguenza una corrente di base per il transistore Tp, che genera a sua volta una
corrente di collettore ICp, che tornerà nella base di Tn provocando un anello. La
corrente di collettore di Tp, rispetto alla corrente di base di Tn, può essere calcolata
come segue:
I Cp = h FEp I Bp

ma

I Bp = I Cn = h FEn I Bn

quindi
I Cp = h FEp h FEn I Bn

cioè la corrente di base che è entrata in Tn la si ritrova nel collettore di Tp moltiplicata


per il prodotto degli hFE dei due transistori. Ora, se l’impulso di corrente IG dato in
ingresso è tale da fare in modo che
h FEn h FEp > 1

si ottiene un meccanismo di reazione positiva e dunque un guadagno d’anello positivo


e i due transistor saturano velocemente. Ciò comporta che le giunzioni BE e BC siano
in diretta. Se ora viene tolto l’impulso di gate, lo stato delle tensioni rimane invariato e
questo è uno dei vantaggi maggiori del dispositivo (minimo consumo di energia per
l’accensione e guadagno infinito sul controllo). A questo punto la caratteristica torna
ad essere propriamente quella del diodo. Come si può osservare in figura 1.b,
l’accensione dell’SCR può avvenire anche per IG = 0 e ciò è vero se si supera la tensione
di break-over. Tale accensione è causata da un innesco interno che, ovviamente, dovrà
essere evitato, in quanto può provocare la rottura del dispositivo. Aumentando la IG, la
tensione ai capi dell’SCR, necessaria a generare l’accensione, sarà via minore. Esiste
però un limite alla tensione ai capi del dispositivo rappresentata da VH (tensione di
Holding o mantenimento), sotto la quale, anche per un impulso di corrente IG elevato,
l’SCR non si accende. Una volta acceso, la caduta ai capi del dispositivo sarà:

V AK ≅ Vγ

dove A rappresenta l’anodo, K il catodo e Vγ la tensione di soglia del dispositivo. Tale


espressione risulta verificata in quanto le tensioni ai capi dei transistori tendono ad
eliminarsi vicendevolmente a meno di una soglia (vedi figura 2) e dunque la caduta
complessiva risulta circa uguale a quella di un diodo. In realtà, però, per motivi
tecnologici, si ha un valore leggermente maggiore.
Quando il dispositivo è acceso la caduta ai suoi capi è comunque relativamente piccola,
e ciò spiega come, nello stato ON, il componente possa sopportare correnti elevate e
come esso abbia una dissipazione sufficientemente bassa. E’, però, importante

134
sottolineare che, mentre da un punto di vista operativo l’accensione risulta molto
semplice, lo spegnimento non risulta altrettanto facile. Se, infatti, in linea di principio,
si potrebbe pensare di poter estrarre una elevata corrente dalla base del transistor per
spegnere il dispositivo, nella realtà ciò non è realizzabile, pena la rottura dell’SCR;
mentre, infatti, il fatto di dover generare una elevata corrente sarebbe superabile,
anche se con difficoltà, non si potrebbe tuttavia evitare la rottura del dispositivo. Date
le notevoli dimensioni dell’SCR, il comando di spegnimento che si fornisce è tale da
non riuscire a propagarsi in modo sufficientemente veloce su tutta la sua sezione e,
quindi, le sezioni più vicine all’elettrodo di gate si spegneranno più velocemente di
quelle più lontane. La corrente che scorre si trova, così, a disposizione una sezione del
dispositivo ridotta, proprio per il fatto che parte di esso è già spenta. Diminuendo la
sezione, aumenta la dissipazione e il dispositivo si brucia. L’SCR risulta, allora, un
componente ibrido, la cui accensione può essere controllata come un transistor
dall’esterno, grazie al morsetto di gate, ma il cui spegnimento deve avvenire
internamente, cioè quando la corrente o la tensione vanno al di sotto dei livelli di
soglia (IH, VH), esattamente come un diodo.
Da quanto affermato si può capire come i tempi di spegnimento di questi componenti
siano piuttosto lunghi e arrivino all’ordine delle centinaia di microsecondi, contro i
nano secondi necessari per spegnere un MOS. Per ovviare a questo tipo di problema è
nato un altro dispositivo detto GTO-SCR (Gate Turn Off-SCR), che consiste in un SCR
accendibile e spegnibile dal gate, con il limite, tuttavia, di poter sopportare minori
correnti e tensioni di un SCR classico. Il simbolo adottato per il GTO-SCR è il
seguente:
I
A

V
G
K

I dispositivi fin qui descritti trovano una loro applicazione nel convertitore AC/DC a
conversione diretta, dove si è in grado di controllare il livello di continua e per questo
vengono anche detti convertitori controllati. Gli schemi per questa tipologia di
convertitori sono particolarmente semplici e riprendono quelli visti per gli AC/DC non
controllati. Per semplicità si considererà solamente lo schema a mezz’onda, dove il
diodo del circuito verrà sostituito da un SCR:

iu

vIN
R vu

fig. 3

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Si considerino, ora, le forme d’onda raffigurate in figura 4:

vIN

vAK ωt

vu ωt

iG ωt

α ωt
fig. 4

Si supponga, inizialmente, che il dispositivo sia spento: nel caso in cui al posto
dell’SCR ci fosse un diodo, la semionda positiva di ingresso ne provocherebbe
l’accensione; in questo caso specifico, invece, finché non si interviene con un impulso
sul gate, l’SCR non si accende, anche se la tensione ai suoi capi vAK risulta positiva e la
tensione d’uscita vu rimane a zero. Se, ora, dopo un certo angolo α (detto angolo di
accensione) si fornisce un impulso sul gate di intensità pari a quella specificata sul
Data Sheet del componente, essendo vAK positiva, l’SCR si accende.
In seguito all’impulso il dispositivo si accenderà e la vAK si porterà alla tensione di
soglia Vγ (≈ 0); conseguentemente la tensione d’uscita sarà praticamente uguale a
quella di ingresso. Quando la tensione di uscita va a zero si annulla anche la corrente
(che coincide con la tensione a meno di un fattore di scala) A questo punto l’SCR si
spegne naturalmente e la tensione d’uscita resterà a zero fino al successivo impulso.
La vAK, invece, seguendo l’andamento della semionda di ingresso, si porterà ad un
valore negativo e, dunque, si avrà ai capi dell’SCR una tensione inversa, che tornerà
ad essere diretta nel momento in cui la vIN risale a valori positivi. Sarà, ora, possibile
fornire un ulteriore impulso per osservare nuovamente quanto appena descritto.
Il comportamento di questo circuito non è molto diverso da quello dell’AC/DC a
mezz’onda, con il vantaggio, però, di poter controllare la durata della semionda in
uscita e, dunque, il suo valore medio tramite l’impulso sul gate; l’espressione del valore
medio viene qui di seguito riportata:

π
1
2π α∫
Vu 0 = V IN sen( ϕ ) d ϕ

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Svolgendo l’integrale si ottiene:

Vu 0 =
V IN
(1 + cos α ) (1)

Si osserva che il valore medio espresso dalla (1) dipende dall’angolo di accensione: se,
infatti, α = 0 si ritrova il valore medio già calcolato in occasione del circuito con un
semplice diodo, mentre se α = π, cioè si ritarda l’impulso, il valore medio si annulla, in
quanto la tensione anodo catodo vAK risulta negativa e l’SCR non si accende. Ciò è
confermato dalla (1), perché se α = π si ha cosα = -1 e, dunque, Vu0 = 0. Agendo
sull’angolo di accensione, quindi, si ottiene:

per α = 0 Vu0 = VIN/π ⇒ massimo teorico


per α = π Vu0 = 0 ⇒ minimo teorico

Si è, così, realizzato un circuito che effettua una conversione AC/DC unitamente al


controllo, rinunciando alla raffinatezza dello schema a conversione intermedia in
continua (AC/DC + regolatore DC/DC) per poter raggiungere livelli di potenza molto
elevati. Per livelli di potenza leggermente più bassi si preferiscono schemi che
impiegano i GTO-SCR; tali circuiti risultano molto più simili a quelli visti per i DC/DC
in commutazione e, quindi, più raffinati. Si ricorda che lo schema studiato per il
convertitore AC/DC con SCR a mezz’onda ha gli stessi problemi visti per l’AC/DC non
controllato a mezz’onda; infatti, nel momento in cui si devono usare dei trasformatori,
si ha la saturazione di quest’ultimo, dovuta alla presenza della continua in ingresso.

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